Cai Asti 100 anni di montagna

CAI ASTI 100 anni di montagna

CAI ASTI 100 anni di montagna

Questo Numero Unico viene pubblicato in occasione del 100° di fondazione della Sezione del Club Alpino Italiano di Asti (1921 - 2021). L’opera è frutto di un lavoro di ricerca storica da parte della Redazione della Rivista Sezionale “AstiMontagna”.

Direttore responsabile Silvana Monticone Redattori Sergio Ardissone Daniela Gonella Antonio Rinetti Cristina Rolla Silvio Lungo Vaschetto Carlo Ventura

Progetto grafico Diffusione Immagine - Via Giobert, 40 Asti

Stampa Litografia Viscardi - Via Santi, 5 Alessandria

In copertina Cima Raboin (1926) - Dall’Archivio fotografico della Sezione

Disegni e immagini Valter Amerio, Archivio CAI, Archivio Fam. Ercole, Archivio Fam. Gentile, Archivio Fam. Rinetti, Sergio Ardissone, Andrea Bormida, disegni di Nanni Buschini, Jacqueline Desprat, Gianfranco Ercole, Pino Fiore, Franco Gherlone, Francesco Giordano, Paolo Icardi, Luca e Silvio Lungo Vaschetto, Read Macadam - Explore Climbing, Claudio Marconi, Valter Mortara, Luciano Oldano, Claudia Visconti, Valentina Zanirato, Nanni Zola Documenti tratti dall’Archivio storico della Sezione del CAI di Asti Numero Unico di AstiMontagna - Autorizzazione Tribunale di Asti n. 9-81 del 21-04-1981

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CAI ASTI 100 anni di montagna

INDICE

Saluti

pag. 004

Cento anni in cento pagine

pag. 009

Storia di una cotta

pag. 010

Gli albori 1921 - 1945

pag. 013

Gli anni della crescita 1946 - 1990

pag. 045

I nostri tempi 1921 - 2021

pag. 073

Le sedi sociali nella storia

pag. 096

Past Presidents

pag. 099

Il CAI di Asti e le sue attività

pag. 102

Una vita di alpinismo

pag. 103

Il mondo che verrà

pag. 106

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CAI ASTI 100 anni di montagna

Sono lieto di portare il mio saluto e quello dell’Amministrazione Comunale in occasione dei cento anni della Sezione Astigiana del Club Alpino Italiano, Associazione fondata il 10 marzo 1921 grazie ad 81 astigiani, soci promotori firmatari di una esplicita richiesta indirizzata alla Sede Centrale di Torino.

Dalla prima sede di Via XX Settembre e dalla prima escursione svoltasi al Pian del Re alle sorgenti del Po, tanta strada è stata fatta grazie ad iniziative e a scalate che si sono fatte man mano più impegnative, ma sempre animate da una costante passione e senso di aggregazione, che contraddistinguono da sempre il Club. È, infatti, una delle più antiche e numerose associazioni di volontariato dell’intera provincia astigiana e, in quest’ambito, si propone come il più autorevole e competente punto di riferimento per tutti gli appassionati della montagna.

La Città di Asti riconosce da sempre il ruolo di motore sociale della Sezione Astigiana, tanto che l’Amministrazione Comunale nel 2013 le ha attribuito il prestigioso riconoscimento dell’Ordine di San Secondo.

Nel ricordare che in un secolo di storia, il CAI astigiano ha forgiato validi alpinisti e sciatori, ma soprattutto ha saputo costruire valori indelebili di solidarietà ed amicizia, senza tener conto di differenze sociali e culturali, auguro a tutti gli iscritti ed a tutti gli appassionati di montagna di festeggiare questa ricorrenza nel migliore dei modi ed auguro al Club altri 100 splendidi anni.

Maurizio Rasero, Sindaco della Città di Asti

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CAI ASTI 100 anni di montagna

Cento anni è un numero che incute una certa meraviglia e un doveroso rispetto.

La nostra Sezione in questo secolo ha saputo evolversi ed adeguarsi ai tempi; da quel lontano 10 marzo 1921, quando 81 soci sottoscrittori ottennero dalla Sezione di Torino la possibilità di creare una Sezione di Asti del Club Alpino Italiano, siamo passati dai pionieristici, ma angusti spazi del centro storico cittadino, ad una moderna struttura che unisce i locali adibiti all’amministrazione ad una vasta palestra di arrampicata recentemente ristrutturata.

Siamo una Sezione di “pianura”, ma che ha saputo distinguersi nel mondo dell’andare per monti in maniera egregia tanto da essere annoverata nell’albo delle “Associazioni Sportive e Storiche” della Regione Piemonte ed aver conseguito il riconoscimento dell’Ordine di San Secondo conferito dal Comune di Asti.

Io mi trovo a guidare la Sezione proprio in questa occasione così importante e vi garantisco che, leggendo e riscoprendo gli storici personaggi che hanno fondato e fatto crescere la nostra Associazione, mi sono sentito piccolo e quasi inadeguato al ruolo, ma riflettendo, mi sono reso conto che gli ideali che hanno mosso i nostri predecessori sono gli stessi che ci spingono ancora oggi a lavorare ed a impegnarci.

Mai come in questo periodo è importante coltivare il senso di aggregazione fra le persone, i valori ambientali e naturalistici, il desiderio di avvicinare i giovani alla montagna e alle bellezze che questa ci offre; questi valori sono gli stessi che hanno animato i pionieri che ci hanno preceduto, seppur in tempi e modi diversi.

Per celebrare i cento anni del nostro Sodalizio si è voluto uscire dai canoni di una mera elencazione di gite di montagna o di personaggi classificati solo in base al grado di difficoltà che riescono a superare in “libera” e si è deciso di raccontare, attraverso le immagini e le parole, questo secolo di attività, nel ricordo di persone, luoghi ed avvenimenti che hanno contribuito a rendere importante la nostra Associazione, uniti da una sorta di filo conduttore fra passato e futuro.

Il coronamento di questo obiettivo è la pubblicazione del presente “Numero Unico” e, visti i risultati, lo considero un motivo di vanto per il Consiglio Direttivo e per i componenti della Redazione che si sono prodigati nella realizzazione di questo progetto.

Vi auguro pertanto una buona e interessata lettura.

Franco Gherlone, Presidente Sezione di Asti del CAI

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CAI ASTI 100 anni di montagna

Quando ricevo notizia che una nostra Sezione intende celebrare la ricorrenza della propria fondazione provo un sincero senso di ammirazione perché, dietro questo ricordo, c’è il sentimento di gratitudine che viene rivolto a chi ha avuto il coraggio e la visione, in un’altra epoca, di dare avvio, talvolta in condizioni di oggettive difficoltà, a qualcosa che il tempo ha confermato nella sua validità e capacità di coinvolgimento.

La Sezione di Asti compie ora cent’anni di vita e lo fa volgendo lo sguardo a ritroso per far rivivere, meritatamente, quanti hanno avuto l’intuizione fondativa e poi, nel corso dei decenni, hanno consentito un progresso costante con attività sempre più intense e differenziate, creando Scuole e Corsi, sino al traguardo della nuova e prestigiosa sede.

La storia della Sezione muove, come spesso accade, dalla passione per un alpinismo ancora agli albori, che definire d’avventura è persino riduttivo, considerando i materiali in uso, i lunghi avvicinamenti, le difficoltà negli spostamenti.

Così, nel 1921, con la firma di Guido Passerini, arriva presso la Sede Centrale in Torino la domanda di costituzione di una nuova Sezione del CAI in Asti, che viene prontamente autorizzata.

La giovane Sezione si apre ben presto ad iniziative “popolari” con gite sociali di natura escursionistica, vacanze sulla neve per imparare a sciare con strumenti di legno e con le vecchie racchette. Soggiorni estivi alla scoperta di nuove vallate, con momenti di conviviale condivisione, si alternano, così, agli “accantonamenti mitici” nei rifugi in quota, per potere raggiungere le vette più significative dell’arco alpino.

Si legge nelle cronache sezionali che fu soprattutto negli anni ’30 che si videro all’opera i primi “veri alpinisti Astigiani”, uno dei più valorosi dei quali fu Corrado Barbero, avvocato, ufficiale alpino, istruttore di roccia, tragicamente perito nel 1935 nel Massiccio del Monte Bianco causa una scarica di sassi. È del 1942 la salita sul Cervino di Fulvio Ercole, primo di tanti Astigiani che lo seguiranno in analoga impresa e che reggerà la Sezione per ben 40 anni.

Col passare dei decenni le attività svolte in montagna dalla Sezione di Asti si sono andate via via differenziando, in contemporanea con la promozione di attività culturali, quali gli incontri in sede con i grandi nomi dell’alpinismo, e con la creazione della Scuola di alpinismo “Franco Gentile” e della Scuola intersezionale di escursionismo con la Sezione di Alessandria.

Con una visione a tutto campo, quindi, si praticano l’alpinismo, l’arrampicata libera, l’arrampicata su ghiaccio, lo sci alpinismo e quello di fondo escursionismo, al pari delle “ciaspole”, l’escursionismo e il cicloescursionismo, la speleologia, la cura dei sentieri e, non certo ultimi per importanza, prendono avvio l’alpinismo giovanile ed il FamilyCAI. Tutte le attività però non sono mai distinte da un costante progetto culturale, capace di guardare alla montagna nei valori tramandati e, in particolare, in quella sua capacità di essere scuola di carattere, di onestà, di solidarietà e di amore per l’ambiente, così come troviamo scritto sulle nostre tessere di oggi.

Desidero allora esprimere a tutte le Socie e ai Soci astigiani un vivo apprezzamento per quanto hanno saputo costruire, generazione dopo generazione, nel tessuto della loro città, ma acquistando anche un posto di rilievo e di esempio all’interno del Club Alpino Italiano tutto.

Questo perché, una volta di più, è il caso di ricordare che noi non siamo quello che pensiamo o diciamo di essere, quanto piuttosto quello che facciamo: le nostre azioni, i comportamenti, i risultati raggiunti, dicono di noi, così come permettono di ricordare, oggi, tutti coloro che hanno dato vita alla Sezione di Asti, portandola sino alla valenza attuale; a ciascuno di essi rinnovo complimenti e gratitudine, con l’augurio di saper sempre ulteriormente progredire nel rispetto dei valori che siamo orgogliosi di poter condividere.

Vincenzo Torti, Presidente generale CAI

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Ogni Sezione CAI rappresenta un patrimonio culturale da preservare con cura, testimonianza di eventi che non compaiono nei libri di storia ma sono racchiusi nelle tradizioni, nei racconti orali, negli oggetti conservati nelle bacheche delle sedi. Ciò vale soprattutto per le Sezioni che possono vantare un’anzianità ragguardevole, o addirittura centenaria, come è il caso di quella di Asti. 10 marzo 1921: ottantun astigiani appassionati della montagna danno vita alla loro Sezione. Vorrei aggiungere un’altra data che mi sembra significativa: 29 maggio 1921, prima gita sociale a Pian del Re, alle pendici del Monviso.

Come inaugurare meglio una sezione del CAI? Il pensiero corre subito al Po, il nostro fiume principale, patrimonio dell’Unesco, che nasce lì, e soprattutto alla fondazione del Club Alpino Italiano, che prende corpo nella mente di Quintino Sella proprio in occasione della sua ascensione al Monviso. Una gita, dunque, quella della neonata Sezione di Asti, ricca di suggestioni e di buoni auspici per il futuro. In effetti, ripercorrere oggi i cent’anni della sua storia, con il progressivo ma costante ampliarsi delle attività, dalle prime gite “popolari”, magari con gli sci “primitivi” dell’epoca o con le racchette, alle escursioni sempre più complesse fino a diventare vere e proprie spedizioni alpinistiche, in Italia e all’estero, significa seguire le tappe della crescita del Paese e le sue trasformazioni, per come si sono riflesse nella fruizione della montagna, interessata da sport divenuti di “massa”. Così, nel tempo, la Sezione astigiana ha istituito i soggiorni estivi in Val d’Ayas; è nata la Scuola di alpinismo ora intitolata a Franco Gentile, quella di sci alpinismo “Gianni Amerio”, il gruppo speleologico “Speleo Club Tanaro”, la costruzione di una palestra di arrampicata indoor, iniziative indispensabili per permettere ai vecchi e ai nuovi appassionati di fare attività in tutta sicurezza e con il giusto atteggiamento nei confronti dell’ambiente alpino. Un impegno che ha riguardato inizialmente le tradizionali tecniche alpinistiche in costante evoluzione, per estendersi poi a quelle nuove, come l’arrampicata libera e su ghiaccio, specialità in cui i soci hanno ottenuto importanti riconoscimenti. Sono iniziative che riflettono modi diversi di andare in montagna e di viverla, a cui si aggiungono quelle più propriamente culturali che la Sezione di Asti ha sviluppato sulla scia della tendenza ad accostare alle conoscenze tecniche quelle umane, legate alle motivazioni che spingono ad esempio un alpinista ad affrontare scalate impervie, alle fatiche sopportate e alla gioia di contemplare il mondo dall’alto di una vetta. O alle tematiche ecologiche, da anni oggetto di particolare attenzione da parte del CAI nazionale. Da qui gli incontri con i grandi esponenti dell’alpinismo, le serate dedicate a proiezioni di filmati o di fotografie su temi che hanno intercettato nuove sensibilità nei confronti della natura in generale e di quella delle alte terre in particolare. Cent’anni, dunque, di storia viva per la Sezione di Asti, che ha saputo adeguarsi alle trasformazioni di un mondo in lenta ma costante evoluzione. Rimangono tuttavia immutate le ragioni che hanno mosso gli ottantun astigiani, nel 1921, a fondarla, ossia l’amore per la montagna vissuto come esperienza da condividere, una passione in cui si devono riflettere i valori forti della comunanza e del rispetto, oggi più che mai.

Come ha scritto Antonio (Toni) Rinetti “il CAI astigiano è stato una fucina che non solo ha forgiato validi alpinisti e sciatori, ma ha soprattutto saputo costruire valori indelebili di solidarietà e amicizia, senza tener conto delle differenze sociali e culturali, in uno spirito di vero servizio”. Auguri, dunque, alla Sezione CAI di Asti!

Bruno Migliorati, Presidente GR Piemonte

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CAI ASTI 100 anni di montagna

Cento anni in cento pagine...

Non è stato facile per un infaticabile gruppo di soci percorrere un emozionante cammino attraverso narrazioni lontane, documenti vetusti e foto sbiadite con lo scopo di raccogliere in queste pagine le testimonianze del primo secolo di vita della nostra Sezione.

Oggi, dopo un lungo e appassionante lavoro, la Sezione del CAI di Asti è orgogliosa di presentarvi questo volume che vuole rendere omaggio a quelle migliaia di astigiani che nel corso di quattro generazioni hanno calcato le montagne del Pianeta sulle orme dell’illustre concittadino Bonifacio Rotario, primo salitore del Rocciamelone nel 1358 e universalmente riconosciuto come precursore assoluto dell’alpinismo mondiale.

Il lavoro complessivo è stato suddiviso in tre grandi capitoli.

Il primo, intitolato «Gli albori 1921-1945» intende ripercorrere i primi anni della Sezione attraverso pezzi intesi a far rivivere l’epopea delle prime scalate e ad illustrare il contesto storico e sociale dell’epoca: pagine all’apparenza scritte con stile talvolta naif, ma ricche di quel fascino che solo vecchie foto seppiate e caratteri di stampa ormai obsoleti sanno trasmettere.

Il secondo, «Gli anni della crescita 1946-1990», è un viaggio che va in parallelo con la storia del Paese, dalla ricostruzione agli anni del boom.

Attraverso gli articoli selezionati si vive l’atmosfera frenetica di una Sezione molto attiva, che con le proprie iniziative spazia su tutte le Alpi e talvolta anche più lontano. Non solo escursioni e soggiorni in quota, ma anche Scuola di Alpinismo e Sci alpinismo arricchite da imprese sportive che diventano sempre più importanti. E soprattutto volti e nomi di tanti amici conosciuti e amati da molti fra noi.

Il terzo, «I nostri tempi 1991-2021» ripercorre gli ultimi trent’anni nel segno di quell’evoluzione incessante che accompagna gli sport di montagna alla ricerca di quelle prospettive che disegneranno il futuro che verrà. Foto, narrazioni, racconti in cui ritroviamo le emozioni che sono state la colonna sonora di questi anni e che speriamo di rivivere presto quando gli attuali lunghi mesi di paura e sofferenza saranno solo più un brutto ricordo.

Abbiamo cercato, magari non sempre riuscendoci, di dare una risposta ai tanti «perchè» di questi cent’anni di viaggio attraverso i monti provando a dare voce a tanti protagonisti, piccoli e grandi, della nostra storia… Non vogliatecene, soprattutto se molti nomi a tutti cari non compaiono. Sono nel nostro cuore e nella nostra memoria.

E una risposta ai perchè di ognuno di noi l’abbiamo voluta affidare all’articolo introduttivo «Storia di una cotta» scritto tanto tempo fa dal nostro avvocato Giovanni Goria (1929-2018) per il quale quella montagna così amata è qualcosa che «ti sta dietro alle spalle - come le tue radici - e davanti agli occhi - come un arrivo, un fine, una speranza».

La Redazione

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Storia di una cotta di Giovanni Goria A fare esplodere il mio primo grande amore per la montagna, a sei anni, furono le vacche del Pian di Verra.

Io stavo sotto quel grande roccione nero a tetto, che c’è sulla destra del Piano, ove si diparte il sentiero per il passo della Bettolina, e mi riparavo dalla pioggia fine e grigia che ci aveva impedito di proseguire per la nostra meta, il Lago Blù. Mi aveva portato fin lassù mio padre, partendo da Champoluc; aveva preso un montanaro di St. Jacques a portare un enorme sacco, roba da tempi di Quintino Sella, mancava solo il barometro; il montanaro aveva quell’odore di latticini più letame, che fino agli anni quaranta fu l’odore glorioso della Val d’Aosta. Sono passati tanti anni, ma ricordo benissimo che guardavo pensoso quella remota solitudine, e mangiavo la marmellata con un cucchiaino intagliato da Papà nel legno di pino, mentre pioveva. Di colpo quelle mucche, quel verde pascolo inzuppato, quelle nubi sfrangiate sul ghiacciaio di Ventina, mi parvero inesprimibilmente belle; l’aria sottile e forte mi parve esaltante; io mi sentii straordinariamente felice e virile, un valoroso pioniere, pensai con commiserazione alla pianura e a quelli che ci stanno e decisi confusamente che la montagna era la mia patria per sempre.

Fatta la mia scelta, presa la mia cotta, mi ci votai da ragazzo con un pizzico di fanatismo. Per me erano brava gente solo quelli che andavano in montagna; stupidi malfattori gli utenti del mare. D’inverno, a scuola, il pensiero di un ruscello corrente fra i pascoli pieni di cavallette, o di un qualsiasi fiore alpino ondulante al vento, mi facevano lo stesso effetto spasimante che ad Alighieri gli occhi di Beatrice. Tutte le estati andavo con i miei al soggiorno del CAI; ivi feci amorosa conoscenza con gli scarponi chiodati di ferro e col sacco da montagna; e fu uno dei pionieri del CAI, Onorino Quaglia, a farmi la prima volta arrampicare su un roccione che sembrava il Cervino.

Poi vennero gli anni dell’adolescenza e della giovinezza, la gioia del salire, la sensazione esaltante dei polpastrelli sulla roccia calda e rugosa, l’ascolto religioso e felice dei silenzi sulle creste, la meraviglia della prima luce sul ghiacciaio mentre gli scarponi frusciano ritmicamente nella neve gelata e i ramponi tintinnano in spalla, le favolose partenze prima di mezzanotte alla luce danzante delle lanterne a fiamma per arrivare in vetta all’alba, il cuore che ti salta nel 10

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petto come un coniglio davanti alla bellezza - mai, mai più uguagliata da nessun’altra cosa - del mare di nubi bianche di latte sino all’infinito sotto di te, dalle quali, su un cielo viola, saltano fuori migliaia di isole blu, tutte le punte delle Alpi.

Ma non erano tutte rose. C’erano le baruffe con Papà, che non ne voleva sapere di alpinismo, diceva che “è una forma ingentilita di suicidio”. Quante volte mi sono sentito raccontare da Papà - ascoltavo rispettoso e compunto, in piedi, non si scherzava, poi trovavo modo di partire lo stesso - di quella volta, nel mille ottocento e fischia, quando, lui giovinetto, da amici folli e perversi si lasciò trascinare sulla Rosa dei Banchi, “con le scarpette da ballo andammo!”, e poi si persero nella nebbia, e si mise a nevicare, e un mucchio di particolari tremendi, per poco non ci lasciavano le penne. Papà era avvocato, e ci sapeva fare. Sì, ma Papà, mica andiamo con le scarpette da ballo noi.

Non importa, matti lo stesso siete: e tu resti a casa. Così ogni volta, per poter andare in montagna, bisognava che Lui avesse un processo troppo importante per badare a me, o che intervenissero zie, nonni e Santi protettori…

Come tecnica alpinistica, eravamo abbastanza sprovveduti. La mia tesi è che i giovani di adesso, nonostante tutto, prendono le cose più sul serio. Del resto, noi non avevamo la fortuna di una Scuola di Alpinismo come quella attuale della Sezione. Imparavamo un po’ qui un po’ là, guardando i più anziani ed esperti, qualche rara volta prendendo una Guida, soprattutto “provando” da soli. Nonostante ciò, consideravamo con affettuosa condiscendenza la generazione degli “anziani” della Sezione (più in gamba di noi certamente); li reputavamo troppo cauti e prudenti. Li chiamavamo “le vecchie glorie”. Prendevamo un poco in giro la loro tendenza a parlare di ricordi di montagna, dai quali noi - venuti dopo - eravamo esclusi... A distanza di tempo, devo dire, che in quegli anni “cinquanta” noi giovani fummo più che ben trattati, compresi e assecondati dalle “vecchie glorie” (alcune delle quali, fra l’altro, sono glorie sulla breccia ancora adesso, e nemmeno troppo vecchie): infatti molti ragazzi - del vasto gruppo di Don Sigliano, e non - vennero alla montagna in quel tempo. Per essi, anche se oggi portati lontano dalla vita, le “glorie” furono cari, indimenticabili compagni ed amici: Fulvio, Muratorio, Ecclesia, Maina, Reali, Vacchelli, Buschini, Marcoz, Garberoglio, Pontacolone, Gacci, Mossino, Quirico, Rissone. Due, fra i più importanti per il CAI di quegli anni, sono troppo presto scomparsi: Avedano e Gigi Rinetti.

Ci furono anche i momenti di spaghetto, naturalmente: sulla cresta nord del Corno Bianco - usciti fuori strada, sulla parete nord-est - prendiamo un gran temporale di fulmini, stretti su una cengia sentiamo “cantare gli angeli” come un’orchestra di cento violini a una corda sola, la parete percossa di continuo scarica e scarica, infine un fulmine ci prende in parte e ci “scuote”, perdiamo la testa e buttiamo giù tutto il ferro; poi, tornare nella notte con la corda gelata a far le “doppie” solo sugli spuntoni - con inevitabili continui intoppi e risalite - fu una delizia. Prendiamo la bufera e ci perdiamo, sul Velan e sul Bianco; e ci incrodiamo varie volte - da balordi dilettanti quali eravamo - sulla Marmolada dal Contrin (avendo voluto uscire dalla “ferrata” per dire “abbiamo fatto un pezzo della Sud...”), sul Sassolungo, sulla nord-ovest della Testa Grigia, sulla Becca di Frudiera. Tutte cose belle, anche queste; che uno è contento di aver vissuto…

Giallo in montagna. Siamo seduti sul Naso del Lyskamm; dalla parte della cresta Perazzi arriva, slegato e senza fretta, un inglese, che si mette a vociare concitato - senza una parola comprensibile - indicando che vuole qualcosa della nostra attrezzatura. Uno di noi capisce che ha lasciato dietro la moglie, e vuole andarla a ricuperare. Dove? Ci indica vagamente il paretone del Lyskamm. Gli proponiamo di andare con lui, gli offriamo almeno la corda: niente, non la vuole, fa segno che vuole solo una delle nostre piccozze. Parte, con la piccozza; il tempo passa, lui non torna: speriamo che riporti, se non la moglie, almeno la piccozza. Alla fine arriva, con un’aria contenta e soddisfatta, senza moglie e con la picca, che ci restituisce con grandi cerimonie di gratitudine. Noi, stupiti, cerchiamo di sapere notizie. Lui ci fa capire, a gesti, tutto bene, tutto fatto, O.K., andate pure. Ci rimase sempre il dubbio di che cosa avesse servito a fare la nostra piccozza. Se trovate, in qualche burrone della Sud del Lyskamm, le ossa di una moglie inglese fatta fuori, deve essere quella là.

In montagna, dunque, c’è tutto. L’allegria e la paura, il moccolo e la poesia, la disciplina e l’avventura.

Ora la montagna, per me - come per tutti quelli che non la praticano più, per varie ragioni, o devono praticarla da turisti - non è soltanto la bella Signora di vent’anni fa. È qualcosa di più duraturo ed attuale, che ti sta dietro alle spalle - come le tue radici - e davanti agli occhi - come un arrivo, un fine, una speranza.

Come Dio, la madre, la donna cara, la montagna è una di quelle realtà cui puoi anche non pensare per molto tempo, con cui puoi anche irritarti e imprecare: ma resta importante sapere che ci sono, che ti aspettano, fedeli.

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GLI ALBORI 1921-1945 Il mondo sta lentamente riprendendo a vivere.

Da poco tempo è finita la grande guerra, che ha visto le montagne tingersi del sangue di migliaia di giovani. E negli stessi anni la Spagnola ha completato quell’opera di distruzione che non era riuscita alle armi. Ma l’Italia, nonostante le difficoltà di quel periodo, ha voglia e necessità di ripartire.

Anche ad Asti questo desiderio di rinascita invita ai primi viaggi fuori porta.

Le montagne che da casa nostra ci fanno da corona sono là, più vicine grazie alle prime automobili e alla rete ferroviaria sempre più capillare. Non sono solo un sogno.

Nel marzo del 1921 nasce la nostra Sezione, una delle prime in Piemonte, guidata da Alessandro Gay, e crescono rapidamente i soci, che a pochi anni dalla fondazione sono già più di duecento.

Tra i neofiti non ci sono i nomi noti dell’alpinismo italiano o piemontese, tuttavia ci si dà subito da fare. Vengono organizzate le prime uscite sociali, tra cui la mitica gita alle Sorgenti del Po, le mete sono raggiunte in treno e in corriera con dei veri tour de force.

Negli stessi anni nascono i primi carnevali in montagna per la gioia degli sciatori appassionati di telemark e cristiania e dei primi ciaspolatori.

Iniziano a formarsi quegli alpinisti che salgono a respirare l’aria sottile dei “3000” e anche dei “4000”, con ascensioni al Rocciamelone, al Gran Paradiso e sul Monte Rosa. Non importa se ci si deve accontentare di scarponi chiodati, di corde di canapa, di maglioni e giacche che non riparano dalle intemperie.

La passione è sempre più grande e prosegue anche con risultati sportivi importanti, con le prime gare sui ghiacciai dello Stelvio e con la partecipazione di un allora giovanissimo Fulvio Ercole ad un raid sci alpinistico sul Rutor, mentre la sorella Ercolina, tra le pioniere dell’alpinismo femminile, sale la Grivola e le Grandes Murailles.

La Sezione deve purtroppo anche contare il suo primo caduto, l’avvocato Corrado Barbero, giovane promessa dell’alpinismo astigiano, precipitato sul Triolet, nel gruppo del Monte Bianco, a causa di una scarica di sassi.

I soci anno dopo anno aumentano, la Sede sociale di Via XX Settembre si mostra inadeguata per accogliere tutti, si susseguono nuovi Presidenti e vengono stampati i primi bollettini sezionali.

Ma già nuove nubi si profilano all’orizzonte e le Alpi ritornano ad essere terreno di guerra.

Tuonano i cannoni sulle nostre montagne.

Qualcuno dei nostri ragazzi salirà lassù per aiutarci a riconquistare la perduta libertà...

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Per il nostro Gagliardetto (1926)

Dobbiamo avere anche noi il nostro Gagliardetto!

Un’Associazione senza l’emblema che rappresenta l’insieme e l’unità spirituale dei soci, manca di un qualcosa di essenziale: è come un mazzo di fiori senza soavità di profumo, è come un torrente senza musica di acque mugghianti o come un’alta vetta senza incanto di nevi. Là dove sventola un Gagliardetto s’irradia e palpita il pensiero e il sentimento di cento e cento soci.

L’estraneo, vedendolo passare per via, guarda e riflette; chi nacque col germe d’un sentimento affine, indovina attorno al Vessillo che passa gli amici di domani, li cerca, li trova, si unisce, li segue.

Il nostro Gagliardetto avrà i colori della Patria che sono gli stessi delle Alpi: il verde dei boschi fitti e perenni, il bianco delle nevi immacolate, il rosso delle aurore che quando sorprendono l’alpinista, piccolo punto nero in moto sui bianchi piani sconfinati, gli danno in fronte il bacio purificatore.

Troveremo il prete che verrà a benedire il nostro Gagliardetto su una delle nostre altissime vette; santificato dalla benedizione religiosa, Esso ci propizierà Iddio nei pericoli delle nostre escursioni.

Domani un giovane consocio (e parecchi dovrebbero sentire l’urgente dovere) porge l’anello di sposa ad una bella e forte signorina, futura gradita compagna nelle nostre più belle gite; lo stesso od un altro porta posdomani al fonte battesimale un vago bimbo che fra un vent’anni scalerà sulle nostre orme le alte vette, mentre noi, cominciando a impigrire, dal tavolo dell’albergo lo cercheremo col binocolo fra i dirupi od i seracchi. Siamo centocinquanta inscritti alla Sezione, via, un po’ troppi per invitarci pudicamente in massa al pranzo o alla bicchierata! Manderemo un rappresentante col Gagliardetto che dirà con i suoi fiammanti colori il saluto, la gioia, gli auguri di tutti.

E quando invecchiati sul serio, ci ritireremo in buon ordine, consegnando il Gagliardetto a figli nipoti e pronipoti nostri e degli amici, diremo loro a fronte alta e sicura: “Questo Gagliardetto fu testimone fin

dagli albori del nostro Sodalizio di concordia pacifica, di fratellanza buona, di idealità gagliarde e pure. Tra di noi, mai uno di quei dissensi religiosi o politici che destano tanta fiamma di dispetti in questo basso mondo!

Mai chiedemmo al compagno le sue non alpinistiche opinioni. Spesso, appena conosciutici, dividemmo alla buona, in alto, il pane e forse il fieno del giaciglio; discesi all’indomani al piano, incontrandoci per via, ci stringemmo la mano come fratelli, anche se quello non era che il secondo incontro. Passando da una all’altra mano, il Gagliardetto diventa il depositario di un concetto, di una tradizione: l’altezza insegna l’altezza anche del sentimento; e l’insaziabile sete di salire concorre a preparare alla Patria le fulgide ascensioni del domani”.

Così la parte migliore del nostro animo rivivrà nei colori del Vessillo Sociale innanzi agli occhi dei fratelli e dei successori.

PRIMA SOTTOSCRIZIONE Prof. Angelo Timò L. 10 Dott. Marcello Mortara L. 10 Avv. Alessandro Gay L. 10 Rag. Guido Passerini L. 10 Ercole Michele L. 10 Salvaneschi Rag. Pietro L. 10 Cielo Elia L. 10 Gibelli Geom. Carlo L. 10 Ghibaudi Dott. Ettore L. 10 -----Totale L. 90 N. B. Le offerte, che per deliberazione del Consiglio Direttivo non devono superare le L. 10, si ricevono ogni venerdì sera alla Sede Sociale, e ogni giorno dai membri del Consiglio Direttivo per istrada al Caffè e in ogni luogo. Sconto speciale domenica 24 c.m. sulla vetta del Bracco…

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La benedizione del Gagliardetto Lago Mucrone - 12 Giugno 1927 di Angelo Timò

In viaggio

La Cerimonia

L’importanza e la poesia della cerimonia hanno la virtù di svegliare i dormienti. Siamo sessantacinque!

Negli annali della sezione non c’è che una gita più numerosa, la prima, quella di cinque anni fa al Monviso.

La nuova meta ha aggiunto nuovo fascino all’escursione: Oropa, la popolarissima Oropa…

Vi giungemmo alle ore 21 per la via Asti-ChivassoBiella con la comodità della vettura riservata che tanto giova all’affiatamento e al buon umore. La ferrovia stessa, in genere noiosa, diventa svago. Giungiamo a sera tardi e partiamo al mattino presto…

Alle sei tutti sono in piedi, pronti per la partenza: alcuni in filovia, i più a piedi, a passo comodo e lento attraverso ai freschi, verdi castagneti raggiungono il rifugio-albergo, e mezz’ora dopo, il bel laghetto presso il quale deve svolgersi la cerimonia.

Richiama il nostro sguardo un modesto cocuzzolo raggiungibile dal lago in non più di cinque minuti: qui, preparato l’altare con un tavolo preso alla stazione della filovia e con la pietra sacra e i paramenti portati da Oropa, il Rev. D. Napoli, Parroco di S. Martino, celebra all’aperto la Santa Messa…: un gagliardetto d’alpinisti doveva essere benedetto all’aperto, in alto presso le vette agognate, che sanno i venti e le bufere...

E mentre ascoltiamo reverenti la Santa Messa, molti forse corrono col pensiero ad altre non lontane messe all’aperto, le messe al campo durante la recente guerra.

Ma là un pensiero turbava lo spirito: “Mentre noi qui preghiamo per la nostra vittoria, a pochi chilometri da qui, altri, i nostri nemici, fratelli innanzi a Dio, pregano lo stesso Dio per la loro vittoria”...

Dopo la S. Messa il Gagliardetto, issato dal piccolo

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Fulvio Ercole, viene benedetto; funge da madrina Triestina Passerini: indi il Rev. D. Napoli pronunzia brevi opportune parole: Egregi Soci del Club Alpino, prima di spiegare al sole e alla bufera il vostro Gagliardetto, simbolo del vostro amore ai monti, avete voluto che la rituale benedizione del Sacerdote consacrasse in certo modo le finalità della vostra associazione e richiamasse sulle vostre escursioni alpinistiche la benedizione di Dio… L’amore e direi il culto delle nostre belle alpi dovrebbe portare oltrechè il vostro corpo alle altezze materiali, dovrebbe portare ancora il vostro animo alle altezze dello spirito...

Così esercitando nell’asprezza delle salite il corpo, arriviate al godimento delle più profonde e serene gioie dello spirito. Per aspera ad astra.

Aggiunse brevi parole, a nome della Sezione, il Prof. Timò: “… Come il cervo aspira alla fonte, come il destriero di buona razza aspira al fragore e al tumulto delle battaglie, così il cuore dell’alpinista aspira a vette sempre più alte, oggi offuscate da un velo di nebbia che sembra conciliare allo spirito i mistici pensieri della religione, domani verdi di boschi e di pascoli, brulli di rocce e di rupi o scintillanti di acque, di ghiacci e di nevi...; così si fondono nell’amore della montagna due identità sorelle: l’ammirazione per le bellezze della natura e lo slancio del cuore verso Dio che ne è l’autore.

Per tali ragioni, salutando il nostro bel gagliardetto e baciando il suo sacro lembo a nome di tutti, dei presenti e degli assenti, degli adulti e dei piccoli, dei nati e dei nascituri, io sento di infondere nel bacio un sentimento di fede e di orgoglio per la bontà dell’esempio che offriamo alle nostre famiglie e ai nostri cari, a quanti sentono il fascino delle cose belle. E insieme col bacio della fede e dell’orgoglio, io poso sul sacro lembo del gagliardetto il bacio della promessa: la promessa che non verrà mai meno tra di noi questa gaia cordialità di rapporti che renderà le nostre escursioni sempre più care, sempre più desiderate e memorande”.

Conchiude il Presidente Dott. Cav. Mortara: “… nella mia qualità di Presidente - pro tempore della Sezione, a me spetta il gradito compito di ringraziare tutti coloro, soci e non soci, che o con offerte o coll’opera personale, contribuirono a dotare la Sezione nostra del bel Gagliardetto che abbiamo testè inaugurato… E ringrazio pure tutti loro, Signore e Signori, che qui convenuti in numerosa ed eletta schiera, resero colla loro presenza più simpatica la cerimonia e più

grandiosa la dimostrazione...

E infine lasciate che io inneggi al sempre maggiore incremento dell’Alpinismo nazionale, ed in special modo della Sezione di Asti del Club Alpino Italiano”.

Dopo la cerimonia ... Dopo la messa, mentre sparsi sul cocuzzolo dominante il bel laghetto si fa allegramente colazione, il tempo continua ad essere coperto; coperto, non minaccioso, tanto che una decina, fedele al programma, osa partire ed attaccare il fianco del Camino, e gli altri, girato il lago e risalito un breve pendio coperto di neve, raggiungono in meno di un’ora la Bocchetta del Mucrone, ove seggono in attesa, esplorando il cielo e guardando con invidia la vicina vetta del Mucrone che si potrebbe raggiungere, almeno dai più veloci, in meno di due ore. Toglie le incertezze... una pioggerella rara e fine che ci fa sloggiare in tutta fretta. Per fortuna il Rifugio e la stazione della Filovia sono a pochissima distanza e si raggiungono prima che la pioggia sia dirotta.

Alcuni subito, altri più tardi, dopo il pranzo al Rifugio, parte a piedi tra una pioggia e l’altra, i più in filovia, tornano ad Oropa, in tempo a rivisitarne sotto un cielo alquanto rischiaratosi, almeno provvisoriamente, il santuario, il tesoro, il cimitero ricco di bellissime tombe e di magnifici dintorni. Solo la comitiva partita alla volta del Camino ha preso la pioggia, ma torna gaia e allegra come se venisse da una festa.

Il ritorno Alle quattro il tram elettrico ci riporta la nostra vettura speciale antecedentemente accaparrataci, e fu buona ventura, data la folla di gitanti in attesa! Siamo appena saliti, ed ecco si riaprono più violentemente che mai le cateratte del cielo: tende del tram e mantelline bastano a stento a farci riparo; quattro, cinque o più stretti come in un nido, sotto una mantellina sola, pesante a portarsi ma tante volte, come in questa gita, veramente provvidenziale. Scroscia la pioggia e scrosciano le risa specie sotto le mantelline più avventurate...

Con comodissima combinazione di diretti, senza snervanti attese, per Biella e Torino, alle 21 siamo già ad Asti, per nulla scoraggiati dall’incidente della pioggia, pronti a far pace con la montagna alla prossima gita...

I bronci tra alpinisti e monti sono come i bronci tra innamorati: sono di più breve durata e fanno gustare poi più viva la festa della riappacificazione.

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Il nostro treno (1926)

Una delle maggiori difficoltà contro le quali la Sezione nostra ha sempre dovuto lottare fin dai primi tempi della sua vita nella designazione e nella effettuazione delle gite alpine è il mezzo di trasporto dei gitanti fino all’inizio della salita. Indubbiamente il mezzo più celere, più sicuro, più economico è costituito dal treno: però mentre fino ad un certo punto e per parecchie gite il viaggio di andata, che ordinariamente deve avvenire nel pomeriggio del sabato, si può ancora organizzare abbastanza agevolmente, per quello di ritorno, che quasi sempre ha luogo a sera tardi della domenica, le difficoltà sono molte volte insormontabili.

Stanchi di lottare contro le, per noi, deficienti coincidenze dei treni, ci siamo adoperati per poterci assicurare l’uso di un autotrasporto non troppo costoso, il quale avrebbe portato il grande vantaggio di poter fissare liberamente, a nostro piacimento, l’ora della partenza e quella del ritorno. E venne l’elegante, comodo, abbastanza economico torpedone a 18 posti dell’ottimo Sig. Pascal, che per tre anni ci rese possibili gite che altrimenti, coi treni, non avremmo potuto organizzare.

Ma anche il torpedone tramontò: per motivi, che è inutile elencare, emigrò altrove, lasciando il Club Alpino nuovamente alle prese cogli orari ferroviari.

Ma è proprio così difficile accontentare gli alpinisti?

Esaminiamo un po’ da vicino la questione.

Come dissi in principio, quello che effettivamente interessa noi è il ritorno, alla domenica sera. Orbene, dopo le 18,40, da Torino, non abbiamo più alcun treno usufruibile fino alle ore 0,50 con arrivo ad Asti alle ore 2,22, e molte volte verso le tre, trattandosi di un treno che fa pure servizio di merci. Senza contare il grave inconveniente costituito da una fermata di parecchie ore a Torino, sotto l’atrio della stazione, ritornare con tale treno significa perdere la notte; e ciò, per noi lavoratori che al mattino del lunedì dobbiamo ritornare alle nostre molteplici

occupazioni, è tutt’altro che indifferente, ed è anzi la causa che obbliga il più delle volte a rinunziare alla gita.

Tale inconveniente è poi maggiormente risentito durante l’inverno dalle nostre numerose comitive di sciatori che tutte le domeniche (così avvenne nel passato inverno) si recano ad Oulx ed a Bardonecchia a compiere i loro esercizi e le loro gite in quei magnifici campi di sky.

Passiamo senz’altro in rassegna i vari treni serali di ritorno dalle vallate alpine e vediamone l’ora di arrivo a Torino.

Cuneo-Saluzzo, arriva a Torino PN. alle ore 22,25 Pinerolo-Torre Pellice-Barge arriva a Sangone (Moncalieri) alle ore 22,53 Bardonecchia, arriva a Torino PN. (festivo sciatori) alle ore 22,45 Lanzo-Ceres, arriva a Torino alle ore 22 Pont Canavese arriva a Torino PS. alle ore 20,16 Aosta arriva a Torino PN. alle ore 21,35 A nostro avviso, un treno accelerato festivo che, raccogliendo le coincidenze di tutti questi treni, partisse alle 23 da Torino e, facendo brevi fermate unicamente nelle stazioni adiacenti ai paesi, quali Moncalieri, Trofarello, Cambiano, Felizzano, arrivasse ad Asti verso le 24, e ad Alessandria alle 0,45, non solo risolverebbe il nostro problema ed appagherebbe i voti di tutti gli sportivi che intendono recarsi a Torino ed oltre, ma sarebbe bene accetto da tutta la cittadinanza astigiana e dagli altri centri interessati, ed otterrebbe subito un grande concorso di viaggiatori.

Per queste ragioni, noi, appoggiati validamente dal Commissariato Provinciale del Dopolavoro, ci siamo rivolti direttamente all’illustre Capo del Compartimento Ferroviario di Torino, pregandolo di voler esaudire il nostro giustificato desiderio, e vogliamo sperare che gli sforzi di tutti varranno a smuovere le difficoltà che ancora potessero ostacolare l’istituzione di questo nostro treno.

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Alla cappella di Prarotto (1928) Le nuove escursioni favorite da una provvidenziale coincidenza Gitanti, una decina, tutti oltre i trentacinque anni, omogenei tutti di forze e... di buon umore. Fino a Torino, in treno, è uno scoppiettio continuo di ilarità che attira a fare capannello attorno a noi liberi cittadini e controllori.

A Torino - normalmente - manca una coincidenza: per Bardonecchia, il treno doveva partire proprio alle 6,25, nella stessa precisa ora in cui arriva il nostro da Asti.

Dobbiamo esser grati alla cortesia del Comm. Ehrenfreund che, preavvertito, ha fatto attendere un’ultima volta per pochi minuti il treno di Bardonecchia per dar agio alla nostra comitiva di ripartire immediatamente.

Per l’ultima volta, abbiamo detto; chè i nuovi orari (andranno in vigore il giorno 15 corr.), fanno partire il treno per Bardonecchia a ore 6,35, trenta buoni 22

minuti dopo l’arrivo del treno da Alessandria con gioia di alpinisti e sciatori dell’Alessandrino, e in genere di quanti viaggiano, che verranno a godere di una logica e necessaria coincidenza.

Nell’ipotesi che a tale correzione d’orario non siano state estranee le nostre ripetute domande, mandiamo un caldo ringraziamento a quanti ebbero la cortesia di appoggiarle, ed in particolare al Comm. Ing. Ehrenfreund, al Comm. Prof. Mancini e ai Dirigenti del Dopolavoro.

Resta per ora inascoltato un altro nostro desiderio ferroviario: quello di un treno che raccogliendo a Torino i provenienti dai dintorni (i treni da Susa, da Pinerolo, da Ivrea, da Lanzo giungono tutti verso le 20-20,30) li riporti ad Asti e ad Alessandria verso le 22 o le 23.

Così, a tacere del vantaggio che ne avrebbe anzitutto

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il commercio, si darebbe modo anche a chi non abita in Torino di godere fra le aure balsamiche dei monti le ultime ore della sera.

Ora noi dobbiamo ripartire dalle stazioni delle Valli proprio verso le 16, rinunciando alle ore più belle.

Poiché vediamo le autorità ferroviarie non sorde ai logici desideri, osiamo sperare in una non lontana seconda correzione serale.

Da Asti e da Alessandria, a due passi dalle Alpi, non è certo agevole (e lo fu ancor meno prima dell’accennata correzione) fare in giornata una discreta escursione alpina.

Chiudiamo la lunga parentesi ferroviaria per rimetterci in marcia. A Torino il treno è già occupato (e un altro più gremito ancora è partito verso le 5) da una vera folla di escursionisti uomini e donne, giovani tutte queste o quasi tutte, con una simpaticissima varia eleganza di costumi sportivi.

La nuova stagione mette di moda per le signore alpiniste belle maglie a ricami, eleganti calzoncini, ornamenti di fiocchi e di nastri che illegiadriscono anche la pesante tenuta di montagna. E si ciancia, si chiacchiera, si ride: da ogni sedile parte uno squillo musicale, un gorgheggio come d’usignuolo, una serie, una foga, una gara di trilli festosi come pioggia di perle su una grande coppa d’oro. Qualcuno, anche di noi anziani, sogguarda e sorride; è bella la gioventù! quando manca la nostra, almeno quella degli altri.

In buon punto sopraggiunge l’autorità dei direttori di gita che in nome delle mogli lontane vorrebbero imporci di contemplare fuori dei finestrini solo la campagna verde e fresca come una visione d’amore.

Ma eccoci, oramai, a Borgone: diamo un allegro, chiassoso addio ai compagni e alle compagne che non sono scesi alle stazioni precedenti, e calmi ci inerpichiamo su per uno scosceso sentiero, poi per comoda mulattiera, su, su, verso le Grangie Roure e poi verso la Maffiotto con un solo breve alt per la colazione, al sole, su una grande gobba morenica che ci dà l’illusione di essere sulla vetta di un alto monte.

Il tempo durante la mattina si è serbato chiaro, sereno; ai due lati della Dora che serpeggia in basso nel suo piano di smeraldo, fanno cornice in alto le vette dei contrafforti, a destra l’Orsiera, il Rocciavrè, la Rocca Rossa; e a sinistra il Rocciamelone, la Grand’Uja, il Civrari, velati di bianchissima recente neve.

Ecco la nostra Rocca Sella di dolcissima memoria!

Ecco la Sagra di San Michele più volte sempre con gioia visitata! Solo presso Maffiotto il cielo ci dà qualche apprensione con le sue nubi grigiastre. Ma grazie a Dio, è vana minaccia, benchè il panorama perda la sua deliziosa chiarezza.

Bello ad ogni modo, là nella pineta, presso la Madonna di Prarotto, durante la colazione, lo spettacolo dell’ampia valle a scacchi di verde di mille toni, tagliata dalla bianca strada percorsa da mobili puntini neri, picchiettata da case bianche e rossastre, da villaggi e da borghi rallegrati dal canto perenne della Dora!

Sembra un inno e sembra un monito che mille generazioni hanno sentito con religioso stupore. Al poeta la traduzione del canto che dev’essere sublime!

Ci riaccostiamo con gioia, dopo le 14, al fiume canoro, scartando, data l’ora, il monte Baraccone, giù per Comba e dopo a Frassinere, puntando a destra, fuor delle vie battute, direttamente su Borgone.

Le flessioni di braccia, di gambe e di busto che i ginnasti fanno nelle chiuse palestre, noi le facciamo per ore ed ore all’aria libera e al sole, contorcendoci, piegandoci, afferrandoci, sospendendoci agli appigli delle rocce, ai tronchi dei giovani faggi dal fusto d’argento che disegnano sì belle trine contro il cielo coi loro rami adorni d’una tenue peluria verde!

Nessuno rallenta, nessuno si lamenta. Vogliamo essere a Borgone un po’ prima del treno per ristorarci con gazosa e birra, e ci riusciamo; dopo di che meno chiassosi, ma non meno lieti, raggiungiamo in treno alle 19,53 la nostra Asti.

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Consoci, portiamo il distintivo sociale (1928) Presuppongo l’obbiezione: ormai di distintivi ne abbiamo troppi, quasi altrettanti quante sono le tessere, che riempiono i nostri portafogli. E che importa? Il distintivo adottato dal Club Alpino Italiano è assai bello ed in carattere: tutti i soci hanno il dovere di fregiarsene il petto, sia pure eventualmente accoppiato a qualche altro, e non solo durante le gite, ma pur anche durante le loro ordinarie occupazioni.

L’appartenere al Club Alpino deve essere considerato un privilegio, un onore, del quale dobbiamo essere fieri.

V’ha di più: tutti noi dobbiamo sentire il desiderio, per non dire l’obbligo, di procurare nuovi soci al nostro Sodalizio, per favorirne in tal modo vieppiù lo sviluppo e l’incremento. Orbene, un ottimo mezzo di propaganda è appunto costituito dal distintivo sociale, costantemente portato all’occhiello dai soci.

Orsù adunque! Tutti i soci tuttora sprovvisti di distintivo si rivolgano tosto al nostro solerte Segretario Sig. Rag. Guido Passerini (Via XX Settembre, 32, telefono 197) per l’acquisto.

Tutti i soci provvisti di esso sono invitati a volerlo portare sempre all’occhiello.

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Quote di Associazione Soci Ordinari: L. 24 all’anno.

Soci Aggregati: L. 10 all’anno.

Soci Sucaini: L. 5 all’anno.

Quota d’iscrizione (pei soci nuovi) L. 6.

Tessera L. 2.

Distintivo grande L. 12.

Distintivo piccolo L. 7.

Sede Sociale: Via XX Settembre, 32 piano terreno: aperta il Venerdì sera dalle 21 alle 22.

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Un ricordo melanconico della Val d’Aosta (1930) Con gli occhi di oggi possono suonare perlomeno strane le parole di quest’articolo, scritto in un periodo nel quale si realizzò l’“italianizzazione” delle aree in cui si praticava da sempre per ragioni storico geografiche il bilinguismo con conseguenze talvolta paradossali, quali Rema Nostra Signora (Rhêmes - Notre - Dame) o Camosio (Chamois)...

Per fortuna subito dopo la guerra si è tornati a ripristinare i nomi originali, con buona pace delle popolazioni locali e... delle nostre orecchie.

di Angelo Timò La nostra associazione è eminentemente sportiva, si, ma non vuol essere unicamente e freddamente solo sportiva, nevvero? Percorrendo le strade d’Italia e salendo le sue candide vette, noi impariamo ad ammirarla e ad amarla sempre più. Parlando di lei e delle sue bellezze, de’ suoi panorami, de’ suoi ricordi 26

storici e de’ suoi monumenti artistici, noi ci commoviamo e ci esaltiamo prima come italiani e poi come alpinisti, perché il culto dell’Italia, del suo decoro e della sua gloria supera in noi le mille e mille volte la sete, che è in noi sì grande, delle altezze ardite e dei ghiacciai sconfinati.

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E allora, per questa volta, tacciamo di ghiacciai e di vette e parliamo d’altro.

Il ricordo melanconico… è l’ospitalità ufficiale troppo ampiamente ancor oggi concessa al francese nell’Alta Valle di Aosta.

Non parliamo del patois che suona sul labbro del vecchio o della vecchia contadina. Con piacere constatammo che i quattro quinti degli abitanti, anche nell’Alta Valle d’Aosta, sono trilingui, parlano cioè, oltre al loro vecchio patois paesano, anche il piemontese e l’italiano.

I bimbi poi, dopo la riforma Gentile che soppresse l’insegnamento del francese nelle elementari, per meglio curare quello dell’italiano, parlano il loro bravo italiano non senza garbo e gentilezza. Solo in qualche romito angolo oltre i due mila metri trovammo il vecchio o la vecchia che capiva solo il suo dialetto mezzo provenzale e mezzo francioso.

Cinquant’anni fa non era così; s’è fatto senza dubbio un notevole progresso. E allora, è proprio necessario lo sfoggio di Francese che ancora si continua in circostanze e documenti che si direbbero ufficiali?

Non parliamo di Aosta città: malgrado il suo monumento con la scritta ancor oggi francese “Au roi chasseur”, malgrado i nomi di alcune vie secondarie rimasti francesi, Aosta in cuore e nella storia italiana da secoli, s’è in questi ultimi anni simpaticamente italianizzata anche nella esteriorità delle scritte e dei nomi.

Non parlo dunque di Aosta; parlo di villaggetti più in alto verso il duplice confine, ove, se uguale è il sentimento di italianità, più lenta appare la tendenza a rivestirsi delle adatte forme italiane.

Sono in chiesa, a Degioz: sale sul pulpito il parroco: predica in francese. Pazienza! Fra questi duecento valligiani ci possono essere due o tre vecchi che non capiscono l’italiano.

Inghiottiamo la pillola amara (di molto amara!) in omaggio all’ignoranza di questo esiguo gruppetto che non capisce l’italiano perché non glie lo hanno mai parlato.

Non senza sforzo, io tollero; ma sento alle mie spalle mormorii che sembrano di protesta. Mi volto: c’è anche una compagnia di alpini in discesa, qui venuti pel campo, e questi crollano il capo e danno segni evidenti di disapprovazione.

Bravi alpini! E moltissimi di voi sono della Val d’Aosta! Vi bacio mentalmente ad uno ad uno sulla fronte!

La messa è finita; la gente esce. Qualche alpino apre e sfoglia i libri da messa lasciati abitualmente lì sui banchi. Francesi anche quelli! E i bravi alpini li gettano con gravi segni di disprezzo.

Scena tutta dal vero, a cui non ho aggiunto una parola!

Esco: proprio in faccia alla chiesa leggo: “Maison Comunal-Don (proprio così! Don) de Umbert Premier”. Ma non capite che lo spirito di Re Umberto protesta dal cielo? Giro l’occhio e leggo sull’angolo della piazzetta “Place Umbert Premier”.

Entro nell’albergo, ed apro il giornaletto parrocchiale: in francese anche quello!

Oh non potrebbe farsi almeno su due colonne, in due lingue, italiana e francese?

L’indomani è una bella giornata, e salgo in su, fino al Rifugio Vittorio Emanuele per salire sul Gran Paradiso. Stanco di sei ore di marcia, anelo la gioia di un po’ di ristoro in un comodo rifugio. Ma la gioia è avvelenata anche qui nel Rifugio del Club Alpino I-talia-no da scritte francesi: Cuisine, Dortoir, Sale a manger!

Di questo passo, se un francese capita da queste parti, ne riporta l’impressione che queste sono… terre francesi irredente!

Senza perderci in discussioni, noi siamo convinti che questo sfoggio di francese, almeno in chiesa, nei giornaletti religiosi, sugli edifici pubblici, nei nomi delle vie, nei rifugi alpini ed in altri luoghi (come caffè, alberghi ecc.) che hanno carattere pubblico è inopportuno e diremmo quasi, se la parola non suonasse un po’ aspra, indecoroso.

Lungi da noi il sospetto che l’uso francesoide venga da scarso sentimento d’italianità.

Conosciamo la storia di Aosta fedelissima ed eroica!

Lungi da noi la pretesa della draconiana imposizione di italianizzare quelle scritte.

Non ce n’è punto bisogno. Trattasi, più che d’altro, d’una pigrizia alimentata dall’abitudine.

Basterà, io credo, richiamare l’attenzione di quelli a cui tocca, con forma garbata e cortese.

E molto in tale campo possiamo fare noi alpinisti nelle nostre escursioni.

Se siamo bene informati, la consorella Sezione di Aosta sta per prendere in proposito un’iniziativa, quella di surrogare sen’altro le scritte del Rifugio Vittorio Emanuele II con altre italiane.

Come italiani ed alpinisti noi ci auguriamo che la notizia sia esatta e plaudiamo con tutto il cuore.

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Il nostro terzo carnevale a Sestrières (1931) Terzo nostro carnevale a Sestrières. Costanza e fedeltà ammirevoli, che hanno quasi dello strano fra amici della montagna.

Per istinto, per passione, per antico uso l’amico della montagna vorrebbe tutta vederla, tutta visitarla la nostra immensa catena alpina; vorrebbe ad ogni escursione conoscere, godere con gli occhi e con l’animo una valle, un valico, una vetta sempre nuova.

E invece, rieccoci anche quest’anno in questa magnifica zona, con la stessa gioia, con la stessa smania, con la stessa intima soddisfazione con cui vi giungemmo, tre anni or sono, per la prima volta.

Gli è che, a parte le ragioni (che pur hanno il loro peso) della minor distanza e dell’ospitale albergo a noi già ben noto, Sestrières, alta più di due mila metri, offre dal principio alla fine dell’inverno un immancabile alto strato di neve alla passione de28

gli sciatori. Inoltre, a chi fugge dal rumore e dalla confusione della città per godere alcuni giorni nella vera tranquillità della montagna, Sestrières, col suo grande albergo isolato, senza un villaggio, senza una casa accanto, Sestrières, non sepolta in fondo ad una valle, ma bella ed elevata colma di una cerchia incantevole di ardite vette, offre ancor oggi il fascino dei vergini panorami, ove ben lieve e quasi invisibile è la traccia lasciata dall’uomo.

Indugiate la sera, spingetevi al mattino presto oltre l’una o l’altra svolta, a pochi passi dall’albergo: la neve dalle auto compressa sulla strada si confonde nel biancore universale; non una voce, non un canto, non un suono. Pare di essere stati per arte magica trasportati nelle solitudini del polo.

E l’animo si rasserena e si ricrea in una pace che non ha l’eguale nel mondo.

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L’anno scorso, ricordate? Vi giungemmo arrivando fino a Oulx in treno, fino a Cesana in autobus, da Cesana a Sestrières, data la troppa neve, sulla fila delle primitive slitte trascinate da muli su per la strada nascosta come un camminamento di guerra da due alte barriere. Ricordiamo, tre metri! Bisognava, per attraversare la strada, alzar con mano i fili del telefono, o alle volte scavalcarli.

Quest’anno, poiché la strada era tutta aperta, anche per amor di varietà, trovammo preferibile raggiungere Sestrières in un grande autobus per la più breve via Asti-Moncalieri-Pinerolo-Fenestrelle-Pragelato.

Partire al mattino, sia pur per tempo, ed essere prima delle dieci sul posto è una grande soddisfazione: l’autobus sta facendo una concorrenza spietata al treno che batte anche nei prezzi, sia pur ridotti, per dopolavoristi. Giungere dunque in mattinata, in tempo per provare, ancor prima del pranzo, la neve e il campo, e goderlo muovendoci nel suo biancore polare, baciati dallo splendore di un sole primaverile, è il massimo che si possa in queste occasioni desiderare.

Altre piccole carovane (la nostra è la maggiore) ci hanno preceduto da Genova, da Torino e da Milano; altre ci raggiungeranno. Intanto, deposti rapidamente i sacchi nelle camere prenotate, ci si spande su pel pianoro ondulato che sale prima dolce dolce, poi ripido verso il crestone della Rognosa. Ci sono pendii per tutti i gusti. Ma pochi, solo i più abili, si avventurano a una certa altezza, per scivolare tosto al piano, chi diritto come spada, chi inclinato, curvo in avanti alla ricerca del miglior equilibrio. I più si contentano di pendii moderati, salendo e risalendo decine di volte per due o trecento metri per poi scivolare al basso, o da veri principianti giù fino in fondo in linea retta, o girando in ampii archi che vorrebbero essere primi tentativi di telemark, e arrestandosi alla fine trionfalmente diritti, come erano partiti, spesso invece, (ahimè, molto spesso!) ruzzolando sulla neve asciutta e farinosa che s’alza come in una nube di polvere attorno al caduto. E ci si rialza allegramente sempre (tanto, chi non cade sciando?) con gli occhi, specie le signorine che sono con noi numerose, brillanti di gioia con zigomi e labbra rosse del simpatico rosso naturale del sangue e della natura.

Così subito le prime ore sono ininterrottamente consacrate, senza una pausa, a questo esercizio dello sci che va prendendo ogni anno - e specie quest’anno -

sempre maggiore diffusione. E meritatamente, perché non v’è forma di invernale svago che vi trattenga, come questo, senza stanchezza, senza noia, ore ed ore all’aperto, nella luce e nel sole, lungi dal fumo e dalla polvere in un continuo esercizio di tutte le membra che nello scendere sciando hanno qualche minuto di riposo ristoratore, nel rialzarsi dalle frequenti cadute e nell’arrancare con sci e bastoni per salire in alto, si piegano, si contorcono in mille modi, alternando in infinita successione e senza il minimo lavoro del cervello tutte le più sapienti e svariate flessioni delle scuole e dei professori di ginnastica. Ecco perché questi svaghi invernali diventano un bisogno per la gente che passa abitualmente i mesi al tavolo tra le carte e i registri. *** E toglietene la notte (che dopo le rituali quattro danze al suono d’un provvidenziale grammofono, si dedica ad un meritato riposo), tutti e tre i giorni sono senza tregua consacrati a dare al corpo la sua rivincita di moto, dopo i lunghi mesi di cittadina inerzia.

Certo i provetti, sicuri ed abili, non sanno rassegnarsi a salire e scendere continuamente come i principianti lungo questo o quel pendio.

Nella mattina del lunedì, allietato ancora dal riso del sole, il gruppo dei provetti sciatori e delle provette… sciatrici con ampio giro s’eleva d’un seicento e più metri verso il Collo dell’Alpetto e scende zizzagolando e sfiorando le nevi come sciame di rondini verso Pragelato di dove risale per la carrozzabile. Poi, altra variante nel pomeriggio tutta la comitiva astigiana è occupata nella preparazione della gara tra le nostre graziose compagne. Bisogna allestire le rosse bandierine e correre a piantarle lungo il percorso designato (tre chilometri circa), rivedere sci, attacchi e cinghie, coadiuvare nella paraffinatura (e si prodigano instancabilmente i cavalieri anche meno giovani): fermare qualche vite, trovare cinghie e spaghi di riserva per porre prontamente riparo in caso di possibili incidenti o guasti, assisterle, incoraggiando, nella gaia partenza, correre per scorciatoie al traguardo d’arrivo ove giungono come di volo in ripida discesa in compagnia dei rispettivi cavalieri, rosse in viso, con la foga e lo slancio (in città non sembran più quelle, così serie e composte in corso Alfieri), con la foga e lo slancio di giovani puledre che, rotta la catena, si sbizzarriscono all’aperto godendo per qualche ora della 29

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riacquistata libertà nella sconfinata magnificenza di panorami che non hanno pari.

Mille volte, nei brevi riposi, tu giri sorridendo gli occhi attorno o indugi tornato in camera, alla finestra, bevendo con le pupille l’arditezza dei picchi circostanti, con le loro belle screziature di rocce tra il candore delle nevi che li riveste fino al piede, e il grigiore delle foreste che ne ammanta i fianchi, e il cielo azzurro che le protegge con la sua immensa cupola di zaffiro, navigata da qualche bianca nube orlata di rosa dal sole che sta per tramontare. *** Solo nel terzo giorno il tempo fu imbronciato: cielo coperto, nevischio e fredda brezza che in città ci farebbero stare prudentemente tappati in casa.

Qui l’albergo, sia pure con qualche ritardo, si vuota egualmente e il vasto campo è tutto di nuovo rigato da mobili figure multicolori che salgono lente o scendono veloci oggi ancora come nelle prime ore dell’arrivo.

Raggiungiamo le comitive.

Era in programma per stamane la gara dei giovanotti, ma il tempo non la permette assolutamente. Più che la brezza e il nevischio, a cui nessuno bada, dà noia una falsa luce di riverbero che t’abbaglia e non ti lascia 30

scorgere non che le cose, nemmeno la buca o il fosso a pochi passi di distanza, rendendo la gara pericolosa.

Ma nessuno s’annoia o rimpiange i lontani affumicati caffè o gli uffici disertati. Ecco là la comitiva dei più giovani, che costruito con neve un discreto trampolino, si prova al salto con una bravura che, in principianti quali sono, ci stupisce.

Oh se gli inverni tornassero a darci, come una ventina d’anni fa, i cinquanta, sessanta centimetri di neve anche sui nostri colli! Due, tre escursioni invernali al mese, sono ben poca cosa per regolari allenamenti.

Vediamo in questi primi saggi una cosa: non mancano fra di noi attitudini e coraggio; manca la continuità dell’esercizio. E come da noi, così in mille altri luoghi. Trionfano sempre nelle gare sciistiche gli abitanti della montagna, che hanno la neve sul posto e per conseguenza la continuità dell’esercizio e dell’allenamento. *** Ma che importa questo? Che qualche giovane dotato di speciali e particolari attitudini si eserciti col miraggio di possibili trionfi, è cosa bella ed altamente lodevole. Ma i più, lasciando qualche volta la città anche in pieno inverno per la montagna, non mirano al plauso e alla gloria. Mirano a ridare elasticità ai polmoni, lavacri di ossigeno al sangue, riposi, svaghi ristoratori al cervello e ai nervi, eccitazioni di moto a decine e decine di muscoli interni ed esterni che poltrivano da mesi, pei quali è affatto insufficiente anche la ginnastica, pur bella, della passeggiata. La passeggiata ne risveglia buona parte di questi nostri muscoli, ma ne lascia inerti in progressivo atrofizzamento tanti e tanti altri.

Di qui, vi dirà il medico, di qui le cattive digestioni, l’imperfetta assimilazione, il lento avvelenamento del sangue, i capogiri, le nevrastenie, la mancanza di resistenza già a cinquant’anni, ai comuni lavori, gli improvvisi malori in gente anche che fu sempre robusta, e tanti altri danni… affanni e malanni.

Noi andammo in montagna, nevvero? Anzitutto per uno svago (l’arco troppo teso si rompe), e al tempo stesso nella logica e perfetta convinzione che l’igiene del moto e del sole, assicura, mantiene, previene.

A rivederci al più presto con gli sci o senza, sui pendii dei nostri cari monti.

Chi si ama ci segua. E se li amate, conducete gli amici. Venuti una volta, non ci abbandoneranno più.

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Il nostro primo Campeggio in Valle d’Ayas (1931) È riuscito ottimamente, sotto ogni aspetto. E, si badi bene, non siamo noi a farne la constatazione, ma sono i campeggianti stessi i quali tutti vollero, spontaneamente, attestarci la loro soddisfazione pel modo veramente ammirevole con cui il Campeggio ha funzionato.

Lo sanno i soci tutti che da alcuni anni i dirigenti della Sezione studiavano il mezzo migliore onde potere organizzare, a vantaggio dei soci e delle loro famiglie, un soggiorno alpino che rispondesse a parecchi requisiti, di altitudine, di comodità, di ubicazione, di interesse alpinistico. Difficoltà di vario genere hanno sempre impedito l’esecuzione del simpatico progetto. Quest’anno, una circostanza fortuita ha facilitato e reso possibile il nostro Campeggio, e per quanto all’inizio siano insorte difficoltà tutt’altro che trascu-

rabili, la tenacia degli organizzatori finì coll’averne ragione, ed il Campeggio sorse improvvisamente, come per incanto, in una delle più belle, pittoresche, interessanti conche di Valle d’Aosta.

Campeggio non è veramente il nome più adatto per dare l’esatta idea di quello che fu il nostro soggiorno sociale a Fiery: però il nome, benché improprio, è un po’ consacrato dall’uso, e noi lo adottiamo, in mancanza di un altro più idoneo. Del resto, non sono le parole che contano, bensì, i fatti, e questi hanno dato ragione alle nostre speranze.

Fiery, per chi non lo sappia, ha nome una località di bellezza veramente eccezionale, situata alla testata della Valle di Brusson, che in alto prende il nome di Valle d’Ayas e si diparte dalla Valle principale di Aosta dal paese di Verrès. Fiery è una borgatella che sta piut31

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tosto in alto, a circa 1900 metri sul mare: non è quindi soggiorno alla portata di tutti. I deboli, i pigri, gli avariati, i neurastenici, lassù non ci hanno a che fare: noi li lasciamo al basso irremissibilmente. Lassù viene bandita ogni mondanità snervante: là non arriva il rombo dell’automobile nè lo stridore della radio, non attecchiscono nè tennis nè jazz-band, balli od altre effeminatezze: non vi sono toelette dai colori sgargianti.

Trecento metri di altitudine in più bastano per trasformare a vista uomini e cose. Lassù abbiamo ancora e pinete e praterie e fiori alpini, ma poco più oltre non abbiamo altro che roccie e ghiacciai senza fine. È luogo per buoni garretti e per cuori saldi. Chi viene con noi deve fare come noi: sveglia all’alba, partenza all’aurora, presto a letto la sera: vita sana, austera, ma corroborante: appetito formidabile. Le nostre signore e signorine non perderanno il loro tempo col rossetto e col piumino ma si abbronzeranno ai raggi solari riflettentisi sui scintillanti nevai e ghiacciai, e guadagneranno molto di più in vigore, in forza, in salute, in carattere.

A Fiery non ci sono chalets, non dehors: un alberghetto di fiera marca alpina, una casetta alpestre, 32

null’altro: cioè no: ruscelletti, cascate, prati, pini, pareti a picco: a poca distanza montagne colossali e dirupate, ghiacciai sconfinati, sconvolti e crepacciati. A poco più di cento metri, il nostro Castello: l’abbiamo così battezzato noi alpinisti astigiani, perché posto isolato sopra un promontorio, dominante tutta la vaghissima conca che dalla sottostante Saint Jacques discende più giù fino alla ormai troppo elegante Champoluc: l’abbiamo anche così chiamato perché per noi era, non una casa soltanto, ma una reggia, una cosa tutta nostra, dove nessuno che non fosse dei nostri poteva entrare: il nostro buon ritiro, che ci dava il ristoro di un buon letto dopo le nostre faticose arrampicate su per le vette rocciose e per gli sdrucciolevoli ghiacciai.

Per essere sinceri, nei primi giorni il nostro Campeggio venne considerato con un pochino di diffidenza: le nostre promesse parvero un po’ esagerate: non si aveva il coraggio di credere alla nostra scoperta dell’araba fenice. Ed il primo turno di cinque giorni vide due soli partecipanti! Pochi, ma ottimi, è vero, ma cosi pochini! Come dovevano trovarsi sperduti,

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fra quei venticinque letti, in quel palazzo a 5 piani, a 20 camere! Quanta solitudine!

Ma presto le cose cambiarono di botto: le buone notizie si divulgarono rapidamente, ed i turni successivi videro non meno di 20, 25 e perfino 30 partecipanti per turno, tutti pieni di ardire, di entusiasmo e di… appetito! E bisognava sentirli, come li ho sentiti io, a portare alle stelle e la felice scelta del luogo incantevole e la grandiosità del Castello, e la bontà e l’abbondanza dei cibi, e che so io! Tutto era ottimo, tutto perfetto. Ma, a mio avviso, se per un miracolo di organizzazione si è potuto procurare agli alpinisti ed alle valorose alpiniste astigiane, un vitto ed un alloggio veramente ottimi in una delle più pittoresche località di Valle d’Aosta, dobbiamo però pur anche ammettere che non ultimo, anzi principalissimo coefficiente della buona riuscita di questo nostro primo Campeggio di alta montagna è stato determinato, oltreché da una buona organizzazione e direzione, da una veramente simpatica socievolezza e cordialità che regnò in ogni istante, e per tutti e sei i turni, sovrana fra tutti i partecipanti al Campeggio stesso,

senza distinzione di età, di sesso, di professione.

E l’augurio che venne da tutti quanti formulato si è che questa simpatica iniziativa deve ad ogni costo essere continuata, che il Campeggio deve assolutamente ripetersi o colà o altrove, nel prossimo anno, e negli anni futuri, per i vantaggi molteplici che esso crea, vantaggi evidentissimi, ricreativi, igienici, morali, sociali.

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Il salvataggio (1933) Un peccato di pensiero

I precedenti

I consoci carissimi della Sezione, se amano questo loro modesto Bollettino, che anche lontani o assenti li informa, li tiene al corrente del movimento alpinistico cittadino, non vogliano serbar rancore a qualcuno del Consiglio Direttivo se in un momento di sconforto, ha meditato nientemeno che il bollettinicidio. Spieghiamo chiaramente la prava intenzione a lungo covata nel segreto del cuore ed il pericolo da cui, all’ultimo istante, il Bollettino si è salvato. La piena confidenza è la miglior base di affiatamento e di concordia.

Il Bollettino, che entra con questo numero nel suo ottavo anno di vita, è sorto in un momento di entusiasmo e di floridezza della Sezione. Ma anche in quel fortunato momento, in cui le finanze erano abbastanza floride e nessuna preoccupazione ci turbava pel prossimo avvenire, il Consiglio Direttivo, presieduto dal carissimo compianto dottore Marcello Mortara, lo fondava col conforto d’una rosea speranza: allora si pensava da tutti: - il Bollettino farà da simpatico anello di congiunzione tra soci e soci, tra Consiglio Direttivo e soci, preannuncian-

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La preoccupazione

do e rendendo conto delle nostre ascensioni e trattando interessanti problemi. Esso al tempo stesso ci collegherà alle altre sezioni, dandoci il vantaggio incalcolabile dello scambio gratuito dei bollettini con tutte le Sezioni d’Italia. E questi bollettini delle varie Sezioni sono stati in realtà, nei decorsi sette anni, il più bell’ornamento, la non ultima attrattiva della nostra sede, ove nelle nostre settimanali riunioni tutti curiosamente, amorosamente li sfogliano, lieti di ammirarne le fotografiche bellezze, di constatare, per riceverne esempio e sprone, l’attività degli altri.

Il Bollettino, si pensava, ci darà questi due rari vantaggi di favorire lo spirito di fratellanza fra i soci della Sezione, e fra la Sezione nostra e le altre sezioni e al tempo stesso non costerà un soldo né ai soci né alla Sezione. Esso riuscirà a pagarsi da sé coi proventi delle gride commerciali o reclam come si suole barbaramente chiamarle.

E per vari anni la speranza si avverava. Vi furono consoci particolarmente benemeriti, a cui va la riconoscenza nostra, i quali seppero procurarci i desiderati annunzi che il Bollettino soleva pubblicare, oltrechè sulla copertina, anche su alcuni indimenticabili rossi fogli intercalati.

Gli annunzi pagarono allora il Bollettino e diedero qualche anno un lieve avanzo, senza contare che esso ci ha fatto risparmiare sempre, ogni anno, circa L. 500, evitandoci la stampa e la spedizione dei mensili preannunci (ricordate i verdi foglietti di allora?) delle nostre escursioni, sicché in luogo di 1200 esso costò in realtà e ci costa solo circa L. 700 annue.

Ma rapidamente i tempi mutarono.

Qualunque sia la causa (non ultima, la - Grazie a Dio! - morente crisi) il gettito degli annunzi è andato ultimamente scemando in modo molto rapido e allarmante, tanto che negli ultimi due anni esso è stato, specie se trascuriamo l’economia dei soppressi foglietti mensili, al quanto passivo.

Contemporaneamente è andato scemando anche il numero dei soci ed il rendiconto della Sezione (come si dichiara in altra parte di questo stesso numero) ha sfiorato nello scorso anno uno sbilancio da cui si è miracolosamente salvato.

E allora? La Sezione ha tanti bisogni! Essa è stata avara nella compera di libri alpinistici (e ne sono usciti di bellissimi) tanto che la nostra biblioteca è tuttora allo stato infantile. Siamo stati pigri in attività scientifica, e sarebbe indispensabile l’inizio almeno di un bell’erbario e di una bella raccolta di minerali con relative vetrine. La montagna non si ama solo colle gambe e nei suoi panorami incantevoli, ma con tutta l’anima in tutte le sue parti, nelle sue selve nelle sue erbe e nei suoi fiori, come nei suoi minerali, nelle sue industrie, nei suoi costumi ed usi.

Abbiamo iniziato una raccolta di materiale alpinistico (corde, lanterne, ramponi, piccozze, ecc.) che all’occorrenza si rimprestano gratis ai soci. Solo per gli sci si chiede una tenue quota. E questo materiale sarebbe bene accrescerlo.

Ed allora? Con tanti bei modi istruttivi e proficui di occupare i nostri modesti fondi, è proprio il caso di spendere cinquecento e più lire per tener in vita questo - utile forse sì - ma non indispensabile Bollettino?

Salvataggio Sezionale E il presidente, meditate e fatte a me queste riflessioni, mortificato soprattutto della modestia e della poca varietà delle teoriche trattazioni, portava timidamente in seduta di Consiglio la proposta di soppressione. Ma la proposta non fu bene accolta. I più si opposero; insistettero anzi per un miglioramento del Bollettino specie con novità di argomenti svolti e con attraenti fotografie.

Per non far gravare il costo sul bilancio sezionale, si sarebbe intensificata la ricerca di annunzi. Il Bollettino è oggi diffuso in trecento e più famiglie astigiane; è a disposizione in tutti i caffè e gli alberghi, si spedisce per lo scambio a cento e più sezioni - È visto, atteso, cercato. Con un po’ di buona volontà, si può sperare bene: si può contare su un maggior provento da annunzi.

Buone intenzioni, buone idee!

Ma ahimè: lì per lì (ed eravamo in dicembre) poco o nulla si otteneva.

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E allora si riparlò della cosa nell’assemblea dei soci del 12 c.m. e l’assemblea… si schierò con gli ottimisti di un mese prima, e insisté anch’essa per la conservazione e l’abbellimento del Bollettino.

Bisogna cedere e cedemmo: Così il nostro Bollettino, salvato come Mosè dalle acque, dopo lo scampato pericolo entra oggi nel suo ottavo anno di vita altero della simpatia che i soci gli hanno dimostrato, animato di nuovi buoni propositi, soddisfatto subito al primo numero, della sua nuova veste di carta anche all’interno tutta lucida e patinata atta a ricevere, frammezzato agli articoli, l’ornamento di qualche bella fotografia di cui già oggi diamo un primo saggio. Esce più bello, ambiziosetto e ardito, ma povero in canna, povero di scrittori e povero di annunzi, benché un manipolo provvidenziale di nuovi reclamisti, specie fra gli stessi soci, già si sia presentato.

Per l’avvenire Di ciò sarete certo contenti voi che col vostro consiglio e colla vostra cortese insistenza ci spronaste su questa via non spiacente, perché in fondo si amano i propri figliuoli anche se costano qualche sacrifizio.

Ne saranno del pari contenti, osiamo sperarlo, quelli che furono assenti, dall’assemblea, quelli che risiedono nei dintorni, simpaticissimi tutti perché costantemente fra i più attivi: si direbbe che la campagna meglio conservi la verginale tendenza dell’animo verso le candide celestiali bellezze della montagna. Ma… non basta essere contenti: bisogna… coadiuvare. Chi scrive ha un poco l’impressione che il Bollettino si sia salvato da un pericolo oggi, per ricadervi probabilmente domani.

Bisogna dunque coadiuvare per tenerlo in vita, per farlo crescere più bello, più vigoroso. E si coadiuva in due principali modi.

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Il primo, conosciuta la questione e i bisogni, è quello di procurare nuovi soci attivi alla Sezione e… nuovi reclamisti pel Bollettino. Anni fa, quei simpatici fogli rosei intercalati, pieni di annunzi, erano non solo un grazioso ornamento, ma anche una fonte di altri rosei biglietti da cento non meno simpatici e cari specie al cassiere.

Il secondo modo, di gran lunga più necessario ed utile, è quello di collaborare a rendere il Bollettino più variato e interessante, colla trattazione di argomenti sportivo-alpinistici che dovrebbero oggi stare un poco a cuore a tutti. Contiamo a tale proposito su tutti, giovani e anziani, colti e meno colti.

Un’idea geniale può sorgere anche dal cervello di un modesto operaio. Gli autodidatti furono sempre i più originali. Che se vi atterrisce l’incubo della lingua e dello stile, via, niente paura! C’è chi è disposto a rivederli i vostri scritti, salvando, ove ci sia, la genialità dell’idea e della proposta.

Contiamo su tutti, ma in modo particolare contiamo sui neo-soci del locale NUF che per disposizione di S.E. Manaresi, stanno per entrare tutti nelle sezioni del CAI. E sono già entrati in massa in quasi tutte le sezioni. Essi, giovani e colti, saranno a noi di esempio, lo speriamo e di cuore ce lo auguriamo, nella balda attività escursionistica, per la quale soprattutto il CAI è nato.

E ci saranno anche di esempio e con non meno entusiasmo e costanza, nella trattazione teorica di quei problemi alpinistici ai quali, data la loro cultura, essi sono particolarmente indicati e adatti.

Vi attendiamo tutti a braccia aperte, o studenti del NUF, lieti del fiotto di giovane nuovo sempre che voi porterete nelle arterie della Sezione e lieti anche per l’egoistico sollievo che da voi ci attendiamo nei compiti di organizzazione e di lavoro… e di redazione del Bollettino.

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Alpinismo & Regime di Carlo Ventura Recentemente prendendo spunto da un interessante articolo di una delle più autorevoli riviste di alpinismo a livello internazionale, vale a dire la francese “Alpinisme e Randonné” con l’amico Giorgio Turin, Vice-Presidente della Sezione (1999 - ndr), ci chiedevamo quale fosse stato l’atteggiamento dell’ambiente alpinistico in generale, durante i regimi dittatoriali europei negli anni 1920-1940. In estrema sintesi potremmo riassumerlo così: se in Germania l’alpinismo ufficiale si rese completamente funzionale al regime ed ebbe imbarazzanti compromissioni con il nazismo, in Italia il tutto si limitò ad un inevitabile condizionamento analogo alla maggior parte del convivere sociale e dell’associazionismo volontaristico di allora: ad esempio la sede nazionale e storica 38

del CAI¹ fu eccezionalmente trasferita da Torino a Roma, evidentemente per meglio rispondere ad esigenze di accentramento e controllo politico.

In Germania le più importanti conquiste alpinistiche vennero vissute e propagandate nel mondo come la dimostrazione della presunta superiorità della nazione tedesca e addirittura della razza ariana stessa.

Un esempio per tutti in questo senso fu la conquista della parete nord dell’Eiger, intorno alla quale si era sviluppata una vera e propria epopea, forse oggi non molto comprensibile e condivisibile, che costò fra l’altro non poche vite umane, in una sorta di gara internazionale in cui si annoverarono illustri tentativi precedenti anche italiani, come Giusto Gervasutti e Riccardo Cassin. Quest’ultimo in particolare era

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presente con intenzioni bellicose nel 1938 a Grindelwald, proprio nei giorni della strepitosa ed eroica vittoria ad opera di due cordate: una tedesca A. Heckmair - L. Vorg ed una austriaca F. Kasparek - H. Harrer. Cooperazione in sintonia con la comunione d’intenti che aveva portato praticamente alla fusione dei due Club Alpini Tedesco ed Austriaco ancor prima dell’annessione dell’Austria alla Germania e che vide questo sodalizio alpinistico unito, gradualmente trasformarsi purtroppo in una vera e propria associazione para-militare di reclutamento e irregimentazione ideologica al nazismo più nazionalista, razzista ed antisemita.

Prova ne sia il fatto che ben due (Heckmair e Harrer) dei quattro conquistatori dell’Eiger si arruolarono poco tempo dopo nelle SS (corpo speciale nazista di terribile ed infausta tradizione): il che nulla toglie per altro all’estremo valore alpinistico della loro impresa².

Viceversa mi sembra di poter dire che in Italia i maggiori alpinisti dell’epoca aderirono al fascismo e ma-

gari indossarono anche la camicia nera, con tutt’altro spirito però. Godendo dei favori e degli onori del regime più per conformismo generalizzato e per stato di necessità, che per intima e profonda convinzione ideologica. Anzi con la capacità ed il senso critico di dissociazione e reazione quando si resero indispensabili scelte coraggiose.

Bisogna considerare che nel “ventennio” il fascismo agevolò e sostenne la diffusione dello sport ed anche dell’alpinismo tra gli strati meno abbienti della popolazione. Quindi gli alpinisti più validi del tempo, tutti di estrazione sociale modesta (ad esempio Gervasutti e Cassin, entrambi emigrati dal Friuli, furono rispettivamente operaio a Torino e fabbro a Lecco), si avvalsero di buon grado delle opportunità che il potere politico di allora poteva offrire.

In cambio parteciparono con entusiasmo a quella sorta di gara nazionalistica che si innescò intorno alle principali conquiste alpinistiche di quel periodo, più per esuberanza individuale e agonismo sportivo, che per coinvolgimento e convinzione ideologica, 39

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cercando di mantenere e difendere la loro indole libertaria, anticonvenzionale e a volte ribelle.

Così Cassin e Vittorio Ratti, sulla parete nord della Cima Ovest di Lavaredo, gliela fecero proprio sotto il naso, nella nebbia del primo mattino, ai rivali tedesco-bavaresi Hintermaier, Meindl & company (28-29-30/08/1935); sempre Cassin sullo sperone Walker della parete nord delle Grandes Jorasses (R. Cassin, Nino Esposito, Ugo Tizzoni 4-5-6/08/1938), superò sul filo di lana sia la concorrenza tedesca che il francese Pierre Allain (quello della prima alla parete nord del Petit Dru, che lasciò traccia del suo tentativo allo sperone Walker con la famosa fessura omonima sul primo tratto della via) e lo stesso Gervasutti, che addirittura in contemporanea intraprese con Arturo Ottoz la prima ripetizione della stessa via, desistendo ben presto per il maltempo, consolandosi pochi anni dopo con forse la maggiore delle sue imprese, cioè la parete est sempre delle Grandes Jorasses (G. Gervasutti, G. Gagliardone 16-17/08/1942).

Per i suoi meriti sportivi Cassin ricevette dalle autorità fasciste del tempo ben tre onorificenze, ciò nonostante negli ultimi anni di guerra avesse collaborato attivamente con la Resistenza locale.

Nell’aprile del ’45 non esitò a partecipare, armi in pugno, alla liberazione di Lecco dall’occupazione nazista, assistendo alla tragica uccisione, tra gli altri, anche dell’amico carissimo Vittorio Ratti, compagno di tante imprese. Quel Vittorio Ratti rimasto famoso, per noi alpinisti occidentali, specialmente per la prima della parete ovest dell’Aiguille Noire de Peuterey, sul versante sud del Monte Bianco, in Val Veny (V. Ratti, G. Vitali 18-19-20/08/1939).

E che dire di Ettore Castiglioni? Grande dolomitista e scrittore di montagna, per noi astigiani assidui frequentatori della Castello-Provenzale in Val Maira, famoso per una delle più belle vie del gruppo: lo spigolo sud-est della Torre Castello (Ettore Castiglioni e Vitale Bramani, inventore delle suole Vibram, 40

12/09/1936). Combattendo nella Resistenza lombarda, catturato e fuggito, durante uno sfortunato tentativo di rimpatrio clandestino dalla Svizzera, morì assiderato in una notte di bufera, risalendo il Ghiacciaio del Forno nel marzo 1944.

Infine Tita Piaz, famoso alpinista della Val di Fassa soprannominato il Diavolo delle Dolomiti, fedele agli ideali socialisti del martire Cesare Battisti, durante il fascismo venne arrestato più volte, collaborò con il movimento di liberazione nascondendo ebrei e partigiani, nel 1944 venne imprigionato dai nazisti per ben nove mesi.

Detto tutto ciò, al di là delle ombre di certi periodi infelici della storia, penso che l’alpinismo continuerà ad alimentare quei valori universali, come il rispetto e l’ammirazione per la natura, che possono contribuire ad unire gli uomini di tutto il mondo, senza differenze di nazionalità, razza, colore, religione e ideologia politica.

¹ Il Club Alpino Italiano venne denominato temporaneamente Centro Alpinistico Italiano, in ottemperanza alla genuinità della lingua.

² Heinrich Harrer in seguito, fuggito da un campo di prigionia inglese, visse una affascinante e lunga esperienza di vita che descrisse nella propria autobiografia, da cui fu tratto il film “7 anni in Tibet”, con protagonista Brad Pitt.

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Un galantuomo d’altri tempi di Carlo Ventura Il 5 gennaio scorso (2011 - ndr) ci ha lasciati il nostro amatissimo Presidente Onorario, ultimo di una recente serie di lutti molto dolorosi per la Sezione.

Si è spento improvvisamente e serenamente alla veneranda età di 96 anni, con la consueta discrezione di come era vissuto e che aveva del resto caratterizzato la sua presenza esemplare nel nostro Sodalizio.

Il compianto Ragionier Fulvio Ercole fu tra i primi soci della nostra Sezione fondata nel 1921, pochi anni dopo la sua nascita; si iscrive infatti al CAI ad 11 anni nel 1925. Riprendendo la tradizione familiare del padre Michele rimase alla presidenza per ben 40 anni, dal 1948 al 1987.

Grande appassionato di montagna, in gioventù praticò molto, come si usava allora, l’alpinismo con le

guide, specialmente valdostane, data la sua predilezione per i soggiorni a Courmayeur, dove dagli anni ’50 ebbe un’abitazione che raggiungeva appena poteva. Fu un ottimo sci alpinista e contribuì alla diffusione in Italia di questa disciplina, anche grazie all’amicizia con quel grande “montagnard” che fu Toni Gobbi. Continuò a praticare escursionismo e sci di fondo fino a tardissima età. Lo ricordo già sull’ottantina, a una gita sociale in cui si faceva invidiare per la tranquillità e la sicurezza da chi, come me principiante, arrancava sugli sci con cadute rovinose.

Da Presidente fu tra i fondatori del coro “Amici della Montagna”. Patrocinò la creazione nel 1968 della Scuola di Alpinismo, intitolata al suo giovane amico e coetaneo Corrado Barbero caduto in montagna, e 41

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della quale suo figlio Alberto fu tra i primi allievi e poi istruttore. Partecipò alla posa della Madonnina delle Grazie sulla vetta della Tour Ronde per il 50° di fondazione della Sezione. Approvò l’organizzazione dello Speleo Club Tanaro nel 1973. Favorì la spedizione in Perù “Ande ’81”, in seguito alla quale molto si rammaricò per l’abbandono della direzione della Scuola da parte di Franco Gentile.

Sua la dichiarazione: “... molte cose sono cambiate nel modo di andare in montagna, nel modo di viverla, un solo denominatore è rimasto in comune con gli ardimentosi pionieri dell’alpinismo astigiano degli anni venti: l’amore e la passione che hanno fatto sì che il patrimonio ideale dei fondatori rimanesse costantemente vivo fino ai nostri giorni”. La sua presidenza attenta al recupero dei reperti e dei cimeli storici, nonché alla conservazione e al riordino dell’archivio sia cartaceo che fotografico, consapevole della tradizione e dell’eredità di valori di una associazione nobile e antica come il CAI, fu improntata a serietà, correttezza, prudenza e sobrietà. Persino le sue proverbiali oculatezza e parsimonia si rivelarono provvidenziali, specialmente dopo l’azzeramento dei modesti fondi 42

di riserva della Sezione da parte del CAI Centrale nel 1954, per contribuire al finanziamento della spedizione al K2. Infatti i risparmi dopo di allora accumulati, se pur insufficienti, costituirono per i suoi successori, di cui mi onoro di far parte, una indispensabile e preziosa base di partenza per l’onerosa costruzione delle nuova sede.

Lasciata la presidenza, continuò per diversi anni a far parte del Consiglio Direttivo fino ad abbandonare ogni incarico e ridurre notevolmente la frequentazione sociale in seguito alla lunga malattia della moglie, per la quale si prodigò per 7 lunghi anni. Lo ricordo negli anni ’80 e ’90, soprattutto come severa figura morale di riferimento di tutta la nostra vita associativa, specialmente per noi allora giovani intemperanti: mi riferisco oltre che a me (Charlet), a Franco Gherlone (Cinin), a Mario Menegaldo (Mene), a Eugenio Novara (Gene), a Riccardo Civarolo (Riky) e alcuni altri.

Altra sua citazione riportata nel nostro sito web: “… affinché tutto ciò che fino adesso è stato fatto non sia vanificato, bisogna volgere il pensiero al futuro… Questo futuro si chiama energie nuove e giovani… giovani disposti a partecipare alla vita sezionale, ad interessarsi

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dell’organizzazione, a prepararsi per continuare l’azione di chi prima di loro e con dedizione e impegno si è adoperato per il bene e per l’avvenire della Sezione, in un ambiente di convivenza civile”.

Galantuomo d’altri tempi aveva sempre difeso l’autonomia e l’indipendenza della nostra Sezione a costo magari di austerità e sacrifici.

Quando in anni più recenti incominciammo ad assumere col Direttivo iniziative relativamente innovative e coraggiose, nonostante fosse a torto considerato a volte cauto e conservatore, si rivelò sorprendentemente ed entusiasticamente modernista, dandoci sempre fiducia, incoraggiamento e sostegno anche materiale.

Ad esempio agli inizi degli anni ’90 per la costruzione della prima struttura artificiale per l’arrampicata in quello che era un vecchio capannone abbandonato in un luogo un po’ degradato. E ancora negli anni 2000 per l’edificazione, nello stesso luogo, della nuova sede e per la ristrutturazione e l’ammodernamento della palestra.

A questo proposito ogni tanto ci sentivamo al telefono. Ci teneva ad essere informato sugli sviluppi delle operazioni. Spesso mi faceva i complimenti, mi esponeva le sue osservazioni e i suoi suggerimenti.

Più recentemente, in uno degli ultimi nostri colloqui telefonici, mi colpì che ci tenesse ad esprimermi la sua soddisfazione per il fatto che la nostra sede nuova, ch’egli ammirava molto e di cui andava fiero, avesse finito col sorgere casualmente proprio nel sito delle preesistenti “Ferriere Ercole”. Per delicatezza non avevo mai osato affrontare l’argomento temendo di turbarlo.

Fu lui invece a manifestarmi il piacere che il destino avesse voluto questa originale riconversione della vecchia impresa di famiglia. La qual cosa non nascondo che mi ha stupito e addirittura commosso.

Come pure la visione di una copia dell’ultimo numero della nostra rivista “Asti Montagna”, dimenticata su una sedia accanto alla sua bara nel soggiorno, quando andai a trovarlo a casa per l’ultimo saluto.

L’aveva ricevuta da pochi giorni, ma sicuramente non avrà mancato di leggerla tutta minuziosamente, con la solita attenzione e curiosità.

Purtroppo questa volta però non ha fatto in tempo a telefonarmi e ad esprimermi il suo garbato e paterno compiacimento...

Ricordi ed exploit Nel 1933 effettuai la gara sci alpinistica al Rutor. Eravamo in tre: io, Corrado Barbero e Cecco Viale, morti di freddo per il bivacco in tenda con una balla di paglia che faceva da letto e da impianto di riscaldamento. Gareggiavamo come universitari. La partenza era nei pressi del Rifugio Deffeyes, si saliva al col Loydon e poi gran percorso in quota. Ci siamo classificati secondi, dietro ai torinesi. *** Nel 1938 effettuai la discesa libera cronometrata Plateau Rosa-Breuil. Era una libera nel senso letterale; nessuna pista ma solo il percorso personale, nessun segnale se non le bandiere per i crepacci. In premio un distintivo d’oro a chi ce la faceva in 10 minuti, d’argento per i 15, di bronzo a chi stava nei 20. Alla partenza tutti in riga e pronti via. Uno mi ha toccato l’attacco e così ho perso uno sci, l’ho rincorso ed ho ripreso la gara finendola in 14 minuti. *** Nel 1942, dal 3 al 16 agosto, salii per tre volte il Cervino.

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GLI ANNI DELLA CRESCITA 1946-1990 La nostra città ha conosciuto da vicino gli orrori della guerra. Ora più che mai la voglia di vivere riprende più forte di prima. Alla fine degli anni ’40 si registrano subito salite importanti, c’è il desiderio di ritrovare sulle Alpi quello spirito di fratellanza con coloro che, pochi anni prima, erano assurdamente considerati nemici.

La sede della Sezione si sposta in Via Cesare Battisti, e in quella piccola stanza piena di libri e fotografie, si progettano le gite del fine settimana, talvolta anche sulle montagne francesi e svizzere e qualche volta nelle lontane Dolomiti. Per le uscite più importanti ci si affida all’esperienza di guide alpine come Franco Garda e Sergio Giometto, diventati negli anni amici di molti di noi.

Sono gli anni della presidenza quarantennale di Fulvio Ercole e di quel gruppo di soci che per mezzo secolo ha rappresentato l’anima della Sezione: tra tutti l’impareggiabile Enzo Brosio che, con la sua cinepresa, seppe immortalare alcune gite sociali passate alla storia.

Sono gli anni in cui la gioia di vivere si accompagna alla voglia di cantare: nasce il Coro della Sezione, che per decenni mieterà successi ovunque. Sono gli anni in cui una giovane coppia, Franco e Luigina Gentile, dà un incredibile impulso alle attività alpinistiche locali, inanellando una serie ineguagliata di salite di grande respiro, comprese alcune prime ascensioni.

L’Italia di quegli anni vive il suo miracolo. Entusiasmo ed ottimismo accompagnano la nostra Sezione che, grazie alla sempre più cospicua crescita dei suoi tesserati, nella prima metà degli anni ’60 trasloca nella nuova sede di Viale alla Vittoria. Nei nuovi spazi si dà vita ad attività parallele come lo SCI CAI, diventato punto di riferimento cittadino per gli amanti della neve; a partire dagli anni ’70 inizia l’attività speleologica con lo Speleo Club Tanaro. Grazie all’intraprendenza di Franco Gentile nasce la Scuola di Alpinismo “Corrado Barbero” e, in contemporanea, viene organizzato il primo accantonamento estivo al Rifugio Dalmazzi al Triolet.

Ormai il terreno di gioco si sta sempre più allargando e non solo alle Alpi: risalgono agli anni ’70 le prime avventure sulle montagne extraeuropee.

Anche lo sci alpinismo, da disciplina per pochi eletti si trasforma in un’attività per molti.

Al compianto Gianni Amerio, alpinista e sciatore di rango, caduto in un incidente sui monti della Val Veny, viene dedicata la neonata Scuola di Sci alpinismo locale.

Si dibatte in quegli anni sulla possibilità di dotarsi di un rifugio o di un bivacco d’alta quota. Si decide di affidare il segno della presenza astigiana sulle montagne ad una bellissima statua della Madonna che viene posta sulla vetta della Tour Ronde, in una spettacolare posizione nel cuore del Monte Bianco. La sua inaugurazione, nel settembre del 1971, sarà un evento di portata cittadina.

E dieci anni dopo, in occasione del sessantennio dalla fondazione, un gruppo di Istruttori della “Corrado Barbero” organizza una spedizione sulle Ande Peruviane, dove Franco e Luigina Gentile torneranno più volte per effettuare salite di tutto rilievo.

Chi avrebbe pensato pochi anni fa che saremmo diventati così grandi?

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Via Cesare Battisti 15, la stanza dei ricordi In memoria di tutti e in particolare di Fulvio e di Gigi di Alberto Ercole Via Cesare Battisti 15, cortile di casa Ecclesia, la sede che ho imparato a conoscere da piccolo, la sede che ha accolto i soci dopo quella storica dove il CAI di Asti è nato, in Via XX Settembre che ormai si perde nelle nebbie del passato.

Apro con emozione e rispetto la porta di quella stanza, ma vorrei farmi aiutare da te Toni e da mio fratello o forse sarebbe ancora più bello che ad aprircela dal di dentro fossero i nostri padri Fulvio e Gigi.

Son sicuro che li ricordate: giovani amici appassionati che ci raccomandano di fare attenzione e non disturbare.

Era tanta in quegli anni la voglia e la passione della montagna e d’altronde in varie forme non è stata tanta ed esuberante la “voglia” di montagna che si è respirata e che sempre si respira ad Asti?

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E poi in quegli anni il desiderio di ricostruire materialmente e moralmente la nazione dava all’andar per i monti una forza e una leggerezza, una “ridente serietà” inusuale, perché anche ritagliandoti faticosamente ed entusiasticamente i momenti per la montagna, avevi inconsapevolmente la sensazione di fare qualcosa di bello per tutti.

Entriamo dunque in quella stanza, che a noi sembrava grande e poi tanto grande forse non era, con le panche addossate ai muri e la tavola che la occupa al centro, la stessa tavola che ancora adesso c’è nella nuova sede.

Ci pensate quanti Consigli Direttivi ha visto? A quella tavola ti siederai anche tu Toni, prima come Consigliere e poi come Presidente, ma non lo sai ancora.

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E poi ancora, le pareti erano foderate di legno e appese ad esse c’erano le riproduzioni delle tavole di montagna di Samivel opera della sapiente e abile mano di Nanni Buschini.

E c’era anche una stanzetta minuscola che fungeva da biblioteca e magazzino dell’attrezzatura, quelle poche piccozze e ramponi e corde, di canapa naturalmente, ma ce n’è anche una (uno dei primi esemplari) di nylon intrecciato grossolanamente che a detta di Paolo Cussotto quando si gela è più rigida dei vecchi canaponi.

Entriamo dunque noi tre bambini, siamo i “bocia”, allegri e rompiscatole, ma che bello stare con i “grandi” e sentirli parlare di montagna; per primi papà Fulvio e papà Gigi, Presidente e Vice Presidente, dietro a loro quanta montagna abbiamo percorso, quanto amore per la montagna ci hanno trasmesso.

E via via gli altri, mamma Anna Rinetti sicuramente la più brava ad andare per i monti e poi Nanni e Carla Buschini con la piccola Patrizia, Umberto e Luciana Vacchelli, il dottor Reali (proprio così abitualmente chiamato anche nei momenti più difficili) e Lele Mossino, Berto Rissone (il più allegro e scherzoso di tutti) e Ugo Cerrato con la piccola Enrica e la sua mamma, l’avvocato Giorgio Quirico e l’avvocato Giovanni Goria prima che diventasse il famoso gastronomo conosciuto ovunque e poi naturalmente

Enzo Brosio, come poteva mancare il mitico Enzo?

Che sarà grata e amorevole memoria della Sezione con la sua inseparabile cinepresa Super8.

Ma attenzione ecco anche Riccardo Garberoglio e Renzo Marcoz, li guardiamo con rispetto e ammirazione, hanno appena fatto il Père Eternel e la prima ripetizione della Ovest della Pyramide de Tacul.

E ci sono Paolo Cussotto, Gianni Amerio, Gigi Gianotti, Marco Carbone, i giovani, che partono da Asti per frequentare la Scuola Gervasutti del CAI di Torino, per imparare ad andare ancora meglio in montagna.

E poi, mi sembrava bene che non ci fossero, eccoli Franco e Luigina Gentile!

Si sono iscritti appena sposati, nessuno immagina in questo momento quanti alpinisti avvieranno alla montagna (e noi saremo fra quelli, vero Toni ed Enrico?), quanto di sé daranno a questo mondo che sarà per tutti e due l’amore di tutta la vita.

Ma ora dobbiamo proprio salutare, ciao a tutti, siete stati per noi “camarades” e maestri; ci avete insegnato ad amare la montagna, a rispettarla, a vivere l’amicizia, ad aiutare gli altri, a vivere sentimenti che neanche sapevamo di possedere, ora dobbiamo andare via tutti. Chiudiamo dunque questa porta con emozione. Non sentite? Ci stanno chiamando, è ora di andare in Viale alla Vittoria, alla nuova sede. Sta arrivando Renato Chabod ad inaugurarla.

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Rapinatori sul Cervino Erano partiti da Asti su una vecchia jeep militare, presa forse in prestito da qualcuno.

Era il settembre 1947, la guerra era finita da poco, l’Italia era quello che era, i vestiti e gli scarponi erano stati recuperati dal vecchio armamentario bellico, altro che GPS e abbigliamento termico...

I sette (Muratorio, Quirico, Marcoz, Rinetti, Fasano, Giovine e Durando) erano arrivati al Breuil sul loro malridotto mezzo; qui avevano ingaggiato una guida, Marcello Carrel, ed erano saliti al Rifugio dell’Oriondè. Il dì seguente, con una performance niente male (anche per i nostri tempi) erano saliti per la cresta del Leone sulla vetta del Cervino e ridiscesi alla Capanna Carrel, dove avevano pernottato.

Giorgio Quirico raccontava, nel 1947, la salita…

Al Colle del Leone ci illuminò la prima luce. Eravamo già in cordata ed appena snebbiati dal sonno.

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La notte, che per noi aveva durato appena tre ore, era riuscita con qualche difficoltà a farci dimenticare i canti e i brindisi di augurio. La salita al Rifugio Oriondè e il passaggio sulle scivolose placche incli-

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nate avevano aperto la “nostra” salita al Cervino. Ci trovammo presto alla “cheminée”: doveva essere la prima difficoltà e invece sembrò un gioco. La roccia fredda e asciutta pareva addormentata e non combattiva; il passaggio riuscì divertente e ci impegnammo a superarlo con stile.

La Capanna Carrel fu la prima vera sosta.

Fino a quel momento tutto era filato: la decisione e l’organizzazione del viaggio, il ritrovamento della Jeep, la salita al Breuil.

Ora iniziava il “vero” Cervino. Gigi e Marcello formavano la prima cordata; Renzo, Beppe e Giorgio la seconda; Giovine, Michele e Muratorio la terza.

Solida, come uno spalto di un castello da fiaba, la “Gran Tour” ci costrinse a dure tirate sui grossi macigni e sui canapi fissi; il “Mauvais pas” a difficili equilibrismi e la “Gran corda” a faticose arrampicate. Al “Linceul” il passaggio riuscì agevole perché pochissima neve copriva le fessure.

Il fiato era corto, le braccia stanche, ma la giornata calda e serena non dava ansie.

L’attenzione era tutta per gli appigli e le corde (che - “Madama Carulina!” - come dice l’amico Rissone, erano sempre attorte e troppo lunghe).

Poi la “Cravate”, il Col Tyndall e l’Enjambée.

Il “naso di Zmutt” formava un formidabile quinta di roccia alla luce che illuminava le montagne del Vallese. I ghiacciai del Rosa splendevano di azzurro.

Mentre salivamo, Gigi ricordava le salite alla Tribolazione, pur non rallentando per nulla il suo passo deciso. Renzo mugugnava con noi (sempre per via della corda) e Muratorio aveva ancora fiato per le battute di spirito.

Gli altri, con un sano silenzio, evitavano ogni enfasi.

La “Scaletta Giordano” fu superata con lentezza e gli ultimi tratti di corda furono tirati con i denti.

E, finalmente, tutti intorno alla Croce sulla cima!

Ritrovammo il beato stato di euforia, felici del risultato, del sole, degli amici e delle montagne.

casa per dire che tutto era andato per il verso giusto e poi chi aveva il telefono?

Rientrati a tarda sera in pianura stanchi, sudati e con le barbe lunghe dopo un interminabile viaggio sulle polverose strade di allora, avevano lasciato alla stazione di Chivasso il Durando, che doveva rientrare a Torino.

Mentre stava aspettando il treno, quest’ultimo intravide con la coda dell’occhio alcuni Carabinieri che si stavano avvicinando armati alla Jeep dei nostri, ma non ci fece troppo caso anche perché il treno era già in stazione.

Era successo questo: poche ore prima, un gruppo di sei banditi, mal vestiti e a bordo di una Jeep, aveva assalito una banca fuggendo con un pingue bottino.

Il loro identikit combaciava alla perfezione con quello degli eroici conquistatori della Gran Becca!

I Carabinieri in quattro e quattr’otto sequestrarono la Jeep e condussero, sotto scorta armata, i malcapitati in caserma, dove furono sbattuti senza tanti complimenti in camera di sicurezza.

All’epoca non erano ancora stati inventati gli avvisi di garanzia, per cui i nostri passarono una notte in gattabuia senza che gli agenti si premurassero di ascoltare perlomeno la loro versione dei fatti.

Il mattino seguente, il Comandante della Stazione dei Carabinieri si degnò di aprire gli zaini per sequestrare il corpo del reato.

Con grande sorpresa dei militi presenti, iniziarono ad uscire calzettoni di lana maleodoranti, due vecchie corde di manilla, pezzi di lardo e cioccolato, qualche chiodo da roccia, giacche a vento.

Di armi e, soprattutto soldi, manco a parlarne.

Nello stesso tempo i familiari che vivevano ormai con angoscia questo ritardo ingiustificato, riuscirono a raggiungere con un telegramma l’unico torinese del gruppo, il Durando, che, senza immaginare quanto era successo ai suoi amici era rientrato tranquillamente a casa sua.

Si ricordò tuttavia del particolare che aveva intravisto alla stazione e lo fece presente: da lì fu facile mettere in contatto i parenti angosciati con la Stazione dell’Arma di Chivasso che, nel frattempo, con tante scuse, provvide a rilasciare i poveri alpinisti non senza averli prima rifocillati a dovere.

Toni Rinetti, figlio di Gigi, racconta, ai giorni nostri, l’epilogo di questa impresa…

Dopo aver pernottato alla Capanna Carrel, con calma, il giorno successivo erano ritornati a valle lasciandosi andare ad abbondanti libagioni per festeggiare l’impresa.

Ovviamente nessuno aveva pensato di avvisare a

Quando si dice del cuore tenero dei Carabinieri...

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Lo sci organizzato ad Asti (1971) di Ezio Miroglio L’attività sciatoria ebbe inizio fin dall’epoca della fondazione della Sezione; nel ’22 infatti si effettuò la prima uscita organizzando il carnevale in montagna che riuniva gli amanti dello sport della neve ogni anno nelle varie località alpine; e questa manifestazione si protrasse per lungo tempo.

Dal nostro Bollettino Mensile del luglio 1926 riportiamo: “Prodromi sciistici; non è peranco incominciata la stagione invernale, che già gli appassionati dello sci vanno abbozzando progetti per i prossimi mesi. Tanto per cominciare si vanno facendo pronostici vari… C’è poi un importante problema da risolvere: dove terremo quest’anno la nostra riunione sciistica di carnevale?

Fummo due volte a Cesana, due a Bardonecchia, daremo ancora la preferenza ad una di queste magnifiche località o vorremmo cambiare? Ed in tal caso dove andremo? A Limone, a Balme, a Oropa? Oppure a Val50

tournenche, o a Courmayeur, o a Cortina?”.

In questo periodo l’attività in prevalenza era sci alpinistica; solo più tardi iniziarono le competizioni provinciali che riunivano gli sciatori di Alessandria, Asti, Ovada, Novi, Tortona in gare di fondo dove i nostri giovani emergevano; il nome di Aldo Bettuzzi primeggiava per parecchi anni, seguito da altri giovani promettenti.

Arriviamo così al ’30, anno in cui venne nominato commissario per il Gruppo Sciatori CAI il nostro attivo rag. Pietro Salvaneschi; nel ’31 si ebbe la trasformazione in Sci Club Asti e nel Bollettino Mensile di ottobre così si citava: “Domenica 18 ottobre ’31 si riunì il Congresso Provinciale degli Sci Club: il nostro Sci Club era rappresentato dal suo Presidente rag. Salvaneschi e dal geom. Gibelli. La riunione è stata feconda di buoni proponimenti ed ha chiaramente dimostrato che

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il fervore di entusiasmo e di opere che ha contrassegnato la stagione 1930-31 verrà superato nella stagione che sta per avere inizio”, e ancora: “Giovedì 22 ottobre il Direttorio dello Sci Club riunitosi nella Sede Sociale del CAI sotto la Presidenza del rag. Salvaneschi assistito dal segretario Ario Ercole, ha preso vari provvedimenti per favorire l’incremento dello Sci Club stesso, il quale deve poter contare sopra un numero di soci anche maggiore di quello dello scorso anno. La quota di iscrizione annua è fissata in L. 12 con diritto alla tessera Sociale ed al Bollettino Mensile della Sezione del CAI che continua ad essere l’organo dello Sci Club. La quota è ridotta a L. 6 per tutti coloro che fanno parte del CAI in qualità di soci ordinari, aggregati, studenti”.

Nel ’36 si ebbe la definitiva trasformazione in SCI CAI Asti il quale continuò l’opera sci alpinistica ed agonistica iniziata dallo Sci Club. Nel ’38-’39 un gruppo di soci frequentò la Scuola Nazionale Sci al Livrio diretta da Leo Gasperl. Fu una felice esperienza per la tecnica acquisita e anche l’attività sci alpinistica ne venne favorita.

Con l’avvento degli anni ’60 e con il decisivo incremento degli impianti di risalita nonché delle nuove stazioni invernali, lo sci diventa uno sport sempre più diffuso ed alla portata di tutti.

In quel periodo la Direzione dello SCI CAI veniva affidata al dott. Muratorio il quale poteva valersi del validissimo apporto di un nuovo gruppo di appassionati quali Amerio, Carbone, Gianotti, Miroglio, Migliasso e Piccinino.

Bisogna riconoscere, senza tema di smentite, che in quegli anni lo SCI CAI veniva ad assumere la funzione di organismo pilota di tutta l’attività sciistica provinciale.

Vedasi in primo luogo l’istituzione di corsi domenicali di sci, tra i primi di questo genere in tutto il Piemonte, effettuati a Crissolo in collaborazione con la Scuola di Sci Monviso e sotto la direzione del Maestro Francesco De Florian; l’organizzazione di tutti i Campionati Provinciali disputati dal 1963 ad oggi (1971 - ndr); l’assistenza prestata al Provveditorato agli Studi per l’organizzazione dei primi Campionati Studenteschi nonché per la creazione dei primi corsi di sci Studenteschi.

Ma forse il risultato più ambito dello SCI CAI è stato quello di avere, primo Sci Club della Provincia, avvicinato allo sci ed alla montagna un numero veramente rilevante di neofiti: basti pensare che si sono

effettuate gite domenicali con 180-190 partecipanti.

Tutto questo fervore di iniziative non poteva non portare ad un aumento del numero dei soci che nel 1969 hanno raggiunto la quota record di 250 ed in quel periodo in città erano già sorti numerosi altri Sci Club.

Parallelamente a queste attività si formava un nucleo agonistico che nel giro di un paio d’anni iniziava a farsi valere in campo interprovinciale ed otteneva lusinghieri risultati sia in campo maschile che femminile grazie all’apporto dei vari Olivero, Carbone, Gentile, Miroglio, Pollotti, Scapolan, Berruti, Bisotti, e delle sorelle Muratorio.

Tra i numerosi successi ottenuti ricordiamo il Trofeo Gancia, il Trofeo Millenario del Monferrato, due volte il Trofeo SIS, il Trofeo Piero Sport, il Trofeo 3TTT, i Premi CONI in riconoscimento dei piazzamenti ottenuti nonché il primo posto in quasi tutte le categorie dei Campionati Provinciali disputati. *** Dopo alcuni anni di inattività, lo SCI CAI è ripartito nel 1984 grazie all’intraprendenza e all’impegno di Valter Amerio, Monica Avidano, Marco Celerino e Marco Amerio raggiungendo il massimo numero di partecipanti negli anni 1987-1997.

Al seguito dei tre pullman vi erano due maestri della Scuola di Sci di Clavière, opportunità che consentiva di scegliere ogni volta una diversa località sciistica nell’ambito della Via Lattea. L’entusiasmante esperienza si è conclusa nei primi anni del 2000.

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Il “vecchio” Rifugio Aosta di Nanni Zola Nel 1966 cercai di iscrivermi all’Accantonamento estivo del CAI di Asti, ma arrivai in ritardo.

I posti erano esauriti, ma quello del ’67 non mi sfuggì. Destinazione, Rifugio Aosta, in alta Valpelline. Mi presentai all’appuntamento nei pressi di Prarayer, in fondo al lago artificiale di Place Moulin, “trazzato” in modo fantozziano: un vecchio zaino (che poi si sfasciò) sulle spalle e una valigia in mano. Franco Gentile mi confessò un giorno, che quando mi vide, disse tra sé e sé “managgia, chiel qui, o el ven mai pù an muntagna o s’na annamura”. Prevalse la seconda ipotesi.

E sì, perché in famiglia la montagna ce l’avevamo nel sangue: mia madre aveva salito la Testa Grigia in Val d’Ayas, mio padre il Mont Vélan con Ful52

vio Ercole a metà degli anni ’30.

Superato il lago, con un agevole e pianeggiante sentiero, che ci permette le conoscenze verbali dei partecipanti, ci si inerpica sulla testata della morena, che era il letto del vecchio ghiacciaio.

Qui la vallata si torce, impedendo alle nostre spalle, la vista della bassa valle e della civiltà, ma di fronte ci si para un paesaggio di selvaggia e rara bellezza, un ambiente che sembra extraeuropeo.

Procediamo così, nuovamente su terreno abbastanza pianeggiante, la sagoma del Mont Brulé sulla sinistra e l’incombente ghiacciaio delle Grandes Murailles a destra; sullo sfondo il ghiacciaio dello Tsa de Tsan, la cui testata scende a valle con una lingua da cui nasce il fiume Buthier. Su uno sperone roccioso, alla

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sinistra di questa lingua, un puntino, ingrandito dal binocolo, si presenta a noi come il Rifugio Aosta.

Le cose si complicano. Dobbiamo attraversare il fiume di fondo valle per portarci sulla sua destra, ma il ponte è stato spazzato via da un’inaudita piena causata dalla giornata eccezionalmente calda. Raccogliamo i relitti, lo ricostruiamo e Franco va a mollo fino alla vita per riabboccarlo sull’altra sponda. Il ponte “tiene” e quando il mulo, che trasporta parte dei nostri bagagli, riesce ad attraversarlo, applausi ed urla di gioia lo acclamano come un campione olimpico.

Quando, dopo aver attraversato la lingua glaciale, arriviamo all’ultimo ripido strappo che ci separa dal rifugio, è ormai notte e decidiamo di lasciare lì parte del bagaglio, per tornare a recuperalo il giorno seguente.

Il Rifugio Aosta, di stampo ottocentesco, già rattoppato dai danni di una precedente frana, mi appare tetro e lugubre alla fioca luce delle nostre pile e delle candele. Diventerà, poco a poco, giorno dopo giorno, più caldo ed accogliente, ingentilito dal tocco delle nostre donne, con mazzolini di fiori sulle finestre, al centro della tavola ed animato dalla nostra allegria; avrei voluto vivere lì per sempre, con Soreghina, la figlia del sol! Era una costruzione in pietra e legno, reso scuro dal tempo e dall’umidità: tutto in pesante legno il dormitorio, fatto di cuccette sovrapposte, ove filtrava poca luce. Più luminosa la zona pranzo, ove si contrapponevano un lungo tavolo ed uno più corto. La piccola cucina adiacente custodiva un antico tesoro; una pentola con dello spezzatino di carne completamente ricoperto da abbondante muffa (ci saremmo accorti in seguito che il custode, quando arrivava, vi accendeva il fuoco sotto per riscaldarlo, senza curarsi della muffa, ne mangiava una piccola quantità, avanzava il resto ed il ciclo ricominciava).

Sul davanti, verso la valle, un piccolo balconcino di legno correva fino ad una scaletta che scendeva su uno stretto terrapieno, da cui, ripidissimo il sentiero si precipitava giù dalla scarpata.

La cosa più affascinante era il servizio igienico. Percorrendo il terrapieno a sinistra, per una decina di metri lo si raggiungeva. Era una vezzosa, minuta, casetta in pietra, col tetto ed una porta in legno; quando la aprivi, ti trovavi di fronte il baratro. Buon per noi maschietti se dovevi solo fare pipì, ma se dovevi fare “altro” (o per le donne) era necessario mettersi in

sicurezza con la corda. La nave era questa, ora dirò dell’equipaggio: Franco Gentile era il responsabile e con lui la moglie Luigina, coadiuvati dal braccio destro Primo Penasso e da Paolino Icardi. Le Guide, Giometto e Faggion, sapientemente consigliateci da Franco Garda.

La ciurma era composta dal compianto Enzo Faletti, rimasto su quelle cime per sempre, Lele Scanavino, Marisa ed Elio Laiolo (grande fotografo; quella splendida carrellata fotografica, in bianco e nero, che accompagna la scala della attuale nostra sede CAI e ritrae la sagoma delle Aiguille Noire e Blanche fino alla vetta del Bianco, è opera sua!), un maestro elementare, che si era portato dietro un fucile con cannocchiale per sparare ai corvi (“reali” per giunta -boh?-, ma il nostro timore era che volesse sparare alle marmotte; non lo fece, per fortuna!), un prete, che ben presto chiamammo “beverendo”, anzichè reverendo, per la sua passione per la barbera ed infine io.

Ma il personaggio più “speciale”, era il custode del rifugio: Vodàn. All’aspetto, un incrocio tra un umano ed una marmotta.

Faceva la spola, con il suo mulo, tra gli ultimi abitati della valle ed il rifugio. La sua piccozza era un ombrello, che apriva in caso di necessità, i suoi scarponi-ramponi, un paio di stivali di gomma, con cui attraversava agevolmente il ghiacciaio.

Una notte in cui era in rifugio, ebbi un incubo e lanciai un urlo terrificante (ogni tanto mi succedeva e di ciò avevo messo al corrente i compagni). Il povero Vodàn fuggì e passò la notte all’addiaccio, ma prima tornò a prendersi la bottiglia di grappa.

Il giorno dopo confesserà: “Kretefo che fosse entrrato un orrrso”. Il Vodàn, avrebbe dovuto farci trovare una certa quantità e qualità di cibo, secondo accordi presi in precedenza, ma se ne scordò e come mi rammentava poco tempo fa Paolo Icardi, ci costrinse a mangiare cipolle per tre giorni. Per fortuna poi rimediò e al quarto giorno gli alimenti arrivarono.

Non ci mancò mai il vino, grazie a Dio! A proposito, ricordo che quando, il giorno successivo al nostro arrivo, andammo a recuperare il bagaglio lasciato ai piedi del rifugio, mi capitò di dovere portar su, un bidone pesantissimo (15 o 20 kg) avvolto accuratamente con carta bianca, as53

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sicurata con fili di spago. Quando, stremato, giunsi in rifugio, strappai un lembo di carta e mi balzò agli occhi un’etichetta con la scritta “Acqua di Lourdes”.

“Che diamine!” dissi, “va ben che c’è un sacerdote, ma era necessario portare fin quassù l’acqua di Lourdes?”. Lacerai tutta la carta e mi accorsi che era barbera, gentilmente offerta da Primo Penasso; ma c’era un nesso, se ne bevevi troppa diventavi davvero “lurd”!

Il tempo atmosferico fu inclemente; andarono “a monte” le programmate scalate ai Dents des Bouquetins e alla agognata Dent d’Hérens. Riuscimmo invece, nell’unico giorno in cui il clima ce lo permise, ad arrivare in cima alla Tête de Valpelline (m 3.802).

La salita mi entusiasmò.

Per uno sfasciume di detriti si arriva ad un salto di rocce, ove son poste delle catene fisse, che non usammo per la salita, ma ci furono utili per la discesa. In cima alle rocce si guadagna il Col de la Division e da qui si prende il ghiacciaio, fino in vetta.

Sul ghiacciaio ebbi il mio “battesimo”, sprofondando fino alla vita, in un piccolo crepaccio, coperto e mimetizzato dalle recenti nevicate.

La cima è un panettone nevoso, poco discosto da una seconda cima rocciosa che si guadagna tramite una “corda molle” di neve, molto stretta ed aerea.

Il panorama che si può godere è maestoso e forse unico: la Dent d’Hérens sembra di toccarla, aguzza e ardita, con il ghiacciaio pensile di fronte a noi, poco più in là, maestosa, la piramide del Cervino, oltre, il massiccio del Rosa.

Volgendo lo sguardo verso sinistra, le montagne del Vallese, poi il Gran Combin e il massiccio del Bianco e ancora tante e tante cime innevate…

Mi hanno detto che il Rifugio Aosta non esiste più, o meglio, il Vecchio Rifugio Aosta è stato spazzato via da una frana e ne hanno costruito uno nuovo poco distante, in un posto più sicuro.

Non ci ho voluto credere e non ci credo.

Il nostro Rifugio Aosta è sempre là e tra le sue mura ci sono quelli che sarebbero diventati miei fraterni amici per sempre... risuona ancora, a sera, dell’armonia dei nostri canti, prima che il grande silenzio notturno dell’alta montagna cullasse i nostri sonni sereni.

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Perché ‘t véj an montagna? di Giorgio Ferrero - Perché ‘t véj an montagna?

- Màma, perché am pias - Ma a l’è pericolos!

- Ma no! Ti stà tranquìla…

- Chi ‘t lo fa fé!?

- Eh già, sima ant’in mond andoa vanta per fòrsa fé tut cos’at diso j’atri; basta ch’el vaga ben con el bon pensé ‘d la gènt.

- E se ‘t dròchi?

- Cercreu ad nèn droché.

- Ma cos’jé ‘d così bel!

- A j’è che quand che ti a t’aossi la matìn ant’in rifùgio pien, an més a col rabél, ‘t fej colassion ad corsa e ‘t parti ch’a l’è neut.

Prima, con el ciar d’la pila a ‘t manca an pòch el fià…

- Eh già, i sigarèt…

- Peu ‘s taca a scerissi sèmpi an po’ ‘d pu.

At rivi an s’el giassé e ‘t campi su i rampon, e da già at guardi antorn.

As vugu già el ponti ch’a brilo an t’el prim sol con col granito d’or.

El ciel l’é pròpi bleu come el prufund del mar, e cola giass vèrda t’a smija madreperla…

At senti el cheur ch’as deurb.

At tiri in bel respir… e ‘t sij an paradìs.

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Ritorno alla Castello (1977) Eugenio “Gene” Novara fa parte integrante e con ogni diritto della storia dell’alpinismo astigiano e non solo. Dagli anni ’70 molte sono state le imprese che hanno costellato la sua vita, il suo curriculum annovera salite di valore assoluto affrontate con la passione che lo ha da sempre contraddistinto. Eppure Gene ha attraversato momenti tristi, la scomparsa durante la salita alla Torre Castello, dell’amico Enzo Faletti. Nell’intervista ad Asti Montagna del 1991, Gene raccontava: “Mi sono fatto le mie esperienze con compagni che come me erano agli inizi, poi ho conosciuto Enzo Faletti ed allora finalmente i miei programmi hanno cominciato ad avverarsi.

Purtroppo, di lì a poco, ho avuto l’amarezza del 16 maggio ’76 ed è stato veramente terribile! Fino ad allora la montagna mi aveva preso più di quanto mi avesse dato”. A distanza di un anno dalla tragedia Gene torna su quella via. di Gene Novara Dopo ogni avversità che la vita ci impone diventa difficile ritrovare la forza e la volontà per continuare… per cercare di vincere ostacoli… che subito ci sembrano insormontabili (!). Ma ritengo si debba sempre “guardare avanti”… Il voltarsi sarebbe come vigliaccamente sfuggire la realtà per non dover lottare…

Perdere un amico in montagna è senz’altro ciò che di peggio può succedere per chi ama questi luoghi…

S’innalza d’improvviso una barriera… e i posti che prima rendevano l’“animo sereno” diventano quasi insignificanti… se non addirittura odiosi.

Non nego che così è stato per me a proposito della Val Maira e specificatamente per le montagne che la circondano. Luoghi meravigliosi diventati improvvisamente senza senso e senza attrattiva… Tutti i sogni che avevo fatto guardando quelle cime erano svaniti e mi chiedevo se avrei trovato la forza per tornare lassù.

Ho avuto momenti di grande incertezza… poi… con una “forza” che quasi non pensavo di avere… ho preso la mia “grande” decisione. Ero convinto che non poteva essere tutto svanito come d’incanto e decisi di ritornare su quei monti. *** Un ritorno alla Torre Castello… a un solo anno di distanza… era ormai diventato il mio “chiodo fisso”. Un ritorno non improntato come un’assurda sfida a quella montagna, ma quasi il voler cercare ancora qualcosa di una persona cara, che in quel luogo aveva vissuto i suoi ultimi istanti e le sue ultime apprensioni…

Volevo ad ogni costo tornare lassù quasi come se Lui

mi stesse ancora aspettando… per poter continuare assieme la “salita”… proprio dal punto in cui l’avevamo forzatamente interrotta.

Lasciai maturare la cosa e… finalmente (!) arrivò il “gran momento”. Sarebbe stata per me l’ultima “rischiosa verifica”, ma volevo tentare.

Non è facile spiegare ad altri ciò che si può provare in un solo giorno al risalire quella montagna. Ogni appiglio… ogni “punto di sosta” mi ricordava qualcosa. Fin dai primi tiri di corda notai come tutto era rimasto vivo in me! Quasi conoscevo a memoria ogni “passaggio”.

In poco tempo, tiro dopo tiro, arrivai al “punto che più temevo”… Guardai e riguardai quelle rocce… ricordai molti particolari… pensai… Un chiodo arrugginito, innastrato di adesivo bianco, mi fece sobbalzare… Era l’ultimo chiodo che Enzo aveva messo in parete… L’aveva messo lì anche per me. Pochi istanti… eterni… personali (!). Uno scambio di parole con i compagni di cordata e poi, assicurandomi a quel chiodo, volsi lo sguardo alla cima.

Bisognava continuare. Me ne andavo da un posto dove non tornerò mai più… ma qualcosa di me rimaneva lì. Con rabbia ricominciai ad arrampicare e ben presto quella cima che mi era stata negata mi accolse questa volta quasi benevola. Abbracciai i compagni e poi volli restare un istante in disparte… La croce di vetta che mi era vicina vide le mie lacrime…

Cercavo attorno a me qualcuno che non c’era… ma che mi sentivo vicino… sì, vicino!

Io ero salito lassù con Lui… e forse anche per Lui!!!

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La borraccia dell’alpinista (1979) di Enzo Brosio I preparativi per una salita richiamano alla mente dell’alpinista un’infinità di cose che il normale zaino non può contenere.

Si comincia ad eliminare tutto ciò che per l’imminente gita si ritiene inutile: il casco non serve, le ghette ed i ramponi nemmeno, la maglia no siamo d’estate - un cordino e due moschettoni al massimo, la borraccia è un oggetto che “pesa”, ma, ricordando il proverbio “se tu mi dai vino, vedrai come cammino” e gli altri “l’acqua fa male ed il vino fa cantare”… “il miglior vino è quello che si beve con amici”… il dado è tratto, si trova in fondo al sacco un angolino per il contenitore di quella nobile e virtuosa bevanda chiamata “vino”. Si può chiudere il sacco certi ormai che non manca nulla, ma, ultimo gesto, si infila la mano, si cerca 56

la borraccia per collocarla meglio - diritta - perché non perda nemmeno una goccia e sistemarla fra le prime cose contenute nel sacco perché, all’occorrenza, la si possa afferrare senza perdere troppo tempo.

Così affardellati possiamo essere certi che tutto è pronto, si può fare la gita in montagna; c’è con noi la fedele compagna che aumenterà la nostra gioia al contatto con la natura, aumenterà la socialità e ci darà un tono di allegria e benessere.

Vediamo ora di conoscere a fondo questo “decot” di tante virtù.

Tutti più o meno ne hanno sentito parlare, molti lo bevono, ma purtroppo ben pochi conoscono realmente la complessa composizione di questo nobilissimo liquido che per le sue virtù fisiologiche e

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psichiche, costituisce la più salutare e la più squisita delle bevande raccomandata agli alpinisti sottoposti alle fatiche ed al freddo.

Il vino deriva il suo nome dall’ebraico “yine” che significa “lievito” e si può ben definire una soluzione colloidale, satura di elementi sospesi e di sali disciolti… … È bene conoscere quali sono le azioni benefiche della preziosa bevanda contenuta nella borraccia sull’organismo dell’alpinista: valenza calorica 7,1 Cal/g, aiuta la digestione attraverso la stimolazione della secrezione sia salivare che dello stomaco, eleva la frequenza del battito, la pressione arteriosa ed il volume del sangue pompato dal cuore, favorisce inoltre l’equilibrio spirituale, aumenta l’atmosfera euforica aiutando l’assorbimento dello stress che mette sempre l’alpinista a dura prova, attenua la tensione nervosa, diminuisce la paura ed aiuta a superare le difficoltà. È doveroso pure citare le azioni negative dovute al sovraconsumo di vino: acidità all’apparato digerente, arrossamento del viso (naso viola), senso di stanchezza generale, sonnolenza, allucinazioni, delirium tremens, disturbi alla memoria.

L’alpinista, conscio di quanto sopra indicato, durante la sua salita in montagna ne farà uso nelle giuste dosi, al momento dei pasti, entro i limiti di tolleranza del proprio organismo dosando a piccoli sorsi la sua medicina.

Nella respirazione è noto l’effetto benefico del vino; lo stimolo all’attività dei centri respiratori ed alla loro ampiezza è dovuto al fatto che la quantità moderata di alcool, provocando una diminuzione della produzione alveolare dell’anidride carbonica, apporta una respirazione più profonda.

Verosimilmente il vino produce una crescita nel calibro delle arterie, un acceleramento dei battiti ed agisce da cardiotonico.

Da ricordare inoltre che un litro di vino a 10° apporta 700 calorie, alle quali si devono aggiungere quelle prodotte dallo zucchero, dalla glicerina, dagli acidi e dagli aldeidi; si arriva pertanto ad un potere calorico per litro di 800 calorie (un alpinista in un giorno ne ha bisogno di oltre 3.000).

Proprio per questo potere calorico il vino è da ritenersi un alimento di complemento e di riserva.

Nel vino troviamo la vitamina C, che agisce sul tono fisico aumentando la resistenza alla fatica ed al fred-

do, causa sovente a quote elevate di cattiva digestione. Sappiamo tutti che di grande importanza per la buona riuscita di un’impresa alpinistica è la buona digestione, perciò evitiamo acque gelate e sorseggiamo un buon vino.

Il vino infatti favorisce la buona digestione, dà un effetto tranquillante e rilassante dei muscoli, per la sua attività vasodilatatoria.

Resta inteso che il cibo consumato deve essere ricco di proteine animali e vegetali.

C’è chi ha detto, con felice immaginazione, che il vino è la parte intellettuale di un pranzo e che una mensa priva del “giocondo liquore di Bacco” è paragonabile ad una lanterna magica priva di luce.

Se ciò è vero io concludo basandomi su queste giuste affermazioni, ma riferendomi, non ad un banchetto dove il vino è servito in bicchieri di vetro liscio e sottile, senza dorature ed orpelli che vengono a danneggiare il senso tattile od olfattivo dell’assaggiatore, ma ad una sorsata attinta da una metallica borraccia che dall’alba, con mille altre cose, è sobbalzata ad ogni passo nello zaino.

Una sorsata può essere il migliore elemento di unione fra i compagni di cordata e fare aumentare le strette di mano che si scambiano in vetta, o può essere una compagnia all’alpinista solitario quando si riposa nel verde cupo della pineta o quando prende fiato dopo qualche difficoltà.

Perché questa sorsata sia un valido assaggio non deve essere compiuta solo “per bere” ma essere una vera arte di degustazione.

Il vino deve essere ingerito a piccole dosi e con contemporanea aspirazione di un po’ d’aria per farlo suddividere in porzioni minutissime, tali da stimolare tutta la mucosa orale ed il retrobocca.

Così l’alpinista potrà fondere insieme le bellezze alpine con le sensazioni provocate dal profumo che ricorda alcuni fiori di monte e dalle sostanze volatili del succo d’uva… … A sera, quando dal rifugio si possono osservare insieme le ombre ormai scure della valle e l’ultimo raggio di sole che arrossa una fetta di cielo e un’ardita guglia, l’alpinista vede nel suo bicchiere gli stessi colori che la natura in quell’ora gli offre e prova un sano piacere ed una spiccata tendenza al buon umore indispensabili lassù.

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Chamois: anno terzo (1985) di Silvio Avidano Martedì 25 dicembre 1985, Natale di Nostro Signore, ore 13,30… per me e per Simona, mia giovanissima compagna di viaggio, è ora di partenza per Chamois, con camioncino carico di vettovaglie, per dare inizio al nostro consueto “Accantonamento invernale”. Abbiamo appuntamento a Buisson per le ore 16,30 con Enzo, Rico, Rosetta e Marisa, partiti in mattinata e con Fabio e Roberto, partiti in treno da Asti e proseguiti per Chamois con autostop; ci seguirà a breve intervallo Guido che, con Felicetta ed Elisa, ha la responsabilità di far viaggiare Remo, nostro impareggiabile Chef de cuisine… … Nella casa di Chamois ci attendono, da ben due giorni, Enzina, Carlo e Ugo, che ci hanno largamente preceduti per assolvere importanti compiti organizzativi di carattere elettrotermico (alzare levette di due interruttori). Ha quindi inizio la nostra avven58

tura invernale, preceduta dai soliti dubbi e incertezze sul funzionamento degli impianti (funzionerà il bruciatore? Defluirà il gasolio dalla vasca? Speriamo non sia gelata l’acqua nei tubi! Ci saranno difficoltà alla funivia per il trasporto delle nostre vettovaglie?) in più quest’anno dobbiamo vedercela personalmente con il gatto delle nevi... per l’ultima frazione, da Chamois alla nostra casa, di questa staffetta camioncino-funivia-gatto che ha per testimone 400 kg di merce.

Si è risolto tutto per il meglio, ogni cosa ha funzionato in modo quasi perfetto… grazie ad una onesta organizzazione che ha avuto inizio due mesi prima, con il controllo e la messa a punto dell’impianto di riscaldamento, la pulizia della casa e disposizione dei posti letto, trasporto delle bombole del gas e di un primo quantitativo di alimenti non deperibili ed a prendere confidenza con quel veicolo dal nome ani-

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malesco, ma che è tutt’altro che un animale. Validissimo collaboratore in tutte queste operazioni, ma insostituibile protagonista nel domare il felino-cingolato, è stato Nino, al quale va il nostro riconoscimento. Tutti puntuali a Buisson quindi e immediato imbarco sulla funivia (merci q.li 4, uomini 5, ragazza 1) e rapido caricamento sull’animale-meccanico… … Alle ore 20 contenti e soddisfatti, seppur infreddoliti… eravamo tutti a tavola e la fumante pastasciutta preparata da Remo in abbondante quantità, veniva presa d’assalto dai nostri giovanissimi seguiti d’appresso da tutti gli altri. Prima però, avevamo riposto con cura… il nostro diventato amico gatto delle nevi che, pur avendoci molto angustiato, infine aveva fatto tutto il suo dovere, confermandosi nella circostanza, prezioso ed insostituibile mezzo di trasporto.

Mercoledì 26 dicembre, S. Stefano protomartire, ha ufficialmente inizio il nostro TERZO ACCANTONAMENTO INVERNALE. Risolti tutti, o quasi, i problemi logistici possiamo dedicare le nostre giornate alle varie attività sciistiche e non. Abbiamo trascorso una entusiasmante giornata sulle piste di Cervinia, sempre col fiatone, nel vano tentativo di tenere le code degli sci della velocissima Enzina, col risultato di perdere Ugo, smarritosi non si sa dove ma ritrovato all’imbrunire, infuriatissimo con noi per l’accaduto, rimproverandoci aspramente di non averlo raggiunto dove lui ci attendeva (duecento metri a monte da dove noi aspettavamo lui) mah!!!... … L’unica giornata di maltempo, con nevischio e scarsa visibilità, non ci ha impedito di fare la traversata Chamois-Valtournenche, con il ritornato allegro Ugo, che dopo l’episodio smarrimento, non si staccava un attimo dal gruppo.

I fondisti hanno svolto la loro attività sulle piste intorno al lago di Lod e a La Magdaleine e tracciando nuovi percorsi verso l’Alpe Foresus.

Lo sci alpinismo, ha avuto sulle nevi di Chamois una lusinghiera conferma-rivelazione da parte di Clara che accompagnata da gente seria e volenterosa… ha potuto esprimere il meglio di se stessa compiendo brillantemente due bellissime gite al Col di Nana e al Col Pillonet.

In una ennesima traversata a Cheneil, mentre parte del gruppo continuava la discesa verso Valtournenche, per un nuovo itinerario lungo le vecchie piste non battute di Chanleve, Fulvio e Luigi, risalivano

con le pelli al colletto Falinère e rientravano lungo le piste di Chamois. Ed ora, dopo queste brevi note “montane” passiamo alle cronache “mondane”.

La notte di S. Silvestro nel Salone delle Feste dell’Eremo di L’Avoré... si è svolto dopo un lunghissimo attimo (un’ora e più) di smarrimento per una improvvisa mancanza di corrente elettrica il “Gran Galà di Capodanno” con ricchissimo cenone, per la preparazione del quale, Remo impegnato in cucina con i suoi collaboratori-trici sin dal mattino, ha superato se stesso, ricevendo unanimi e incondizionati consensi.

Il servizio ai tavoli è stato svolto con encomiabile celerità e tempismo dai nostri volenterosi giovani, i quali, sia detto per inciso si sono comportati in modo ammirevole, per alacrità e spirito di collaborazione per tutta la durata del soggiorno.

A mezzanotte i rituali brindisi all’anno nuovo e scambio di auguri in un euforico bailamme di baci e abbracci e qui Ugo ha fatto, con le donne, la parte del leone. Ma il pezzo forte della serata è stato l’esilarante spettacolo di varietà, con attrazioni tutt’altro che internazionali, con la collaborazione di Marisa, che ha curato la regia, i testi, riuscitissimi costumi, il trucco, ha fatto la suggeritrice e la buttafuori; musiche di Rico (inseriva le cassette nel mangianastri) e la partecipazione di una provocante Heather Parisi (Ugo), un indovinatissimo Rocke-Feller (Enzo) ed una affascinante Brigliadori (Roberto); presentatore il signorile e distinto Pippo Baudo (Carlo). Si concludeva quindi l’allegra serata, o meglio nottata; e con canti, danze e giochi si facevano le ore piccole.

Il giorno dopo, 1° del nuovo anno, sin dal mattino c’è aria di smobilitazione; il nostro soggiorno volge al termine; su tutto l’ambiente aleggia un lieve velo di malinconia: quella malinconia dolce e distensiva che accompagna il cessare delle cose belle e piacevoli, perché tale si è confermato il nostro “III Accantonamento Invernale”.

Una settimana passata in stretta e fattiva collaborazione che ha consolidato quell’amicizia collettiva che è la dote peculiare della nostra Sezione.

Il più malinconico era Remo, il quale, poiché con alcuni sarebbe rimasto ancora un paio di giorni, andava dicendo con tono implorante: “Andè nen via tuti” ma tosto si riprendeva col dire: “Senti, l’anno venturo faremo…”.

Ecco, l’anno venturo. Con il proposito di fare ancora meglio e l’augurio di ritrovarci tutti.

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Gita al Damavand (1976) di Riccardo Civarolo Ad entrare in casa di Roberto (Jarre - ndr), pochi giorni prima della partenza, si sarebbe potuto pensare che il suo soggiorno fosse stato destinato a centro di raccolta delle masserizie offerte dagli astigiani ai terremotati friulani. Magliette e maglioni, chiodi e piccozze, salami ed omogeneizzati erano lì in attesa di riuscire ad entrare in qualche modo nei due grandi sacchi. Nonostante la legge dell’incompenetrabilità dei corpi ci trovammo alla fine con due sacchi da 35 kg più un sacco da 10 kg e ci consolammo pensando che a rubarceli bisognava avere un bel coraggio.

Così la mattina dopo, un po’ gobbi e barcollanti, iniziammo il lungo viaggio che ci porterà, a bordo di treni, pullman e pulmini, a Teheran, capitale della Persia e punto di partenza per l’ascensione al Monte Damavand.

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Parlare del viaggio come di un’avventura non corrisponderebbe a verità, ormai anche i paesi orientali sono percorribili senza grossi problemi e tuttavia esiste lungo tutto il percorso una specie di “escalation del terrore” che può trarre in inganno chi si lascia impressionare. Per fare qualche esempio, a Milano un ferroviere in servizio sull’ex Orient Express ci raccomanda di stare sempre svegli e di controllare i bagagli e sembra quasi volerci dare la benedizione; poco dopo, due ragazzi del nostro stesso scompartimento ci parlano in termini catastrofici del tratto in Jugoslavia e Bulgaria; a Istanbul un giornalista ci dice che la Turchia, dopo Istanbul, è terra poco raccomandabile; ad Ankara il nostro ambasciatore ci dice che la Turchia, dopo Ankara, è peggio ancora e ci racconta storie di Italiani derubati, incarcerati ed

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altre piacevolezze del genere. Avvicinandoci al confine con l’Iran, a sentire gli altri passeggeri, sembra di entrare all’inferno, ecc… Al contrario di tutte queste preannunziate catastrofi noi ci siamo trovati sempre a nostro agio e, tranne forse solo la città di Teheran dove in effetti l’ambiente ci è parso ostile e poco piacevole, anche i contatti con le popolazioni locali sono sempre stati cordiali ed amichevoli, in particolar modo con la gente di campagna e di montagna, ricca di antiche e sagge tradizioni, quale quella di far lavorare prevalentemente le donne.

Il nostro obiettivo, alla partenza, era il Monte Ararat situato vicinissimo al confine turco con l’Iran e l’URSS. Nonostante diversi tentativi anche alla guarnigione militare di stanza alla sua base, ci è stato impossibile ottenere i permessi di salita proprio per questa sua posizione cruciale e abbiamo così ripiegato sul Monte Damavand alto 5.671 m e distante ancora 1.500 km.

“Al di sotto dei 4.000 metri in primavera, estate ed autunno i pendii del Damavand sono coperti da un manto di fiori e di erba verde. Sopra i 4.000 metri neve e ghiaccio cambiano l’aspetto della montagna”.

Quest’idilliaca descrizione trovata su un dépliant datoci dall’Iranian Mountaineering Federation è a dir poco ottimistica; per sintetizzare in una parola il clima e la vegetazione del Damavand si può dire: deserto. Il verde manto erboso si rivelerà qualche

stentato filo d’erba buono neanche per le capre, le distese di neve e ghiaccio ripide pietraie instabili e faticose da risalire.

Può sembrare persino un po’ ridicolo pensare che a salire un “cinquemila” si debba patire il caldo e la sete eppure una delle maggiori difficoltà è stata proprio trovare l’acqua per dissetarci. Tanto per non sembrare conformisti già il primo giorno pensavamo bene di sbagliare strada trovandoci così col calar del buio a 4.000 metri ma separati dalla cresta sud, e quindi dal bivacco installatovi, da due ampi valloni. Il giorno dopo, quasi senza più acqua, iniziavo già a vedere dietro ogni masso quei ragazzini tutti neri e stracciati con al collo un recipiente colmo di ghiaccio e bottigliette di Coca-Cola, quando Roberto, chissà come, riusciva a trovare una sorgente in mezzo alle pietre.

Dissetatici, riprendemmo a salire speditamente, ma la notte seguente un violento attacco di febbre, forse causato proprio dalla lunga mancanza di liquidi, non mi permetteva di continuare e così Roberto, da solo, raggiungeva i 5.671 m della vetta.

Lungo la discesa una sosta nell’accampamento di una famiglia di pastori ci trovava impotenti di fronte alle suppliche dei genitori di un neonato malato e febbricitante. Due ragazzi di un lontano paese dell’occidente, venuti a cercare un po’ di avventura, non hanno da offrire che una tavoletta di cioccolato a chi sotto il Damavand ci passa duramente tutta la vita.

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Ande ’81: quegli 11 astigiani alla conquista della Cordillera di Carlo Ventura Anno 1980. Galvanizzati dall’ultima impresa collettiva, ovvero l’apertura di una nuova via sulla parete est del Visolotto (m 3.348) in Valle Po, a nord del Monviso, denominata da allora “Via degli Astigiani”, una decina di soci istruttori del CAI risponde entusiasta all’appello del direttore. L’estate successiva partirà la prima spedizione alpinistica extraeuropea del CAI di Asti: “Ande ’81”, destinazione Perù.

Si vivono mesi di fermento nei preparativi. La comitiva alla fine sarà composta da 11 elementi della Scuola di Alpinismo, allora intitolata a Corrado Barbero. Il capo spedizione è Franco Gentile, istruttore nazionale, con lui l’inseparabile moglie e compagna Luigina Zeppa, Franco Gherlone è il vice capo spedizione, Paolo Icardi, Guido Marletto, Giovanni Carretto di Acqui Terme, Dino Laiolo e Carlo Bertero entrambi di Nizza Monferrato, Claudio Riccabone 62

di Canelli e chi scrive. Parte integrante del gruppo e figura fondamentale è il medico-cardiologo e alpinista “Nanni” Zola. Gli unici a dargli del lavoro, a parte i controlli routinari comprendenti periodici elettrocardiogrammi, saremo io con un doloroso ascesso dentario e Guido con una lieve crisi ipertensiva notturna, conseguenza dell’alta quota.

Nell’inverno precedente ci incontriamo per avere suggerimenti e una consulenza preziosa con due famosi alpinisti, esperti in spedizioni extraeuropee: il genovese Gianni Calcagno e Cosimo Zappelli, guida alpina di Courmayeur, celebre compagno di cordata di Walter Bonatti.

La nostra spedizione ha una meta ambiziosa: la conquista di una parete inviolata del Nevado Quesillo (m 5.600), nel cuore della selvaggia Cordillera Huayuasch, dominata dal monte Yerupaja (m 6.617).

L’allenamento prima della partenza culmina con la

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scalata estiva del Bianco, con tanto di bivacco in tenda sulla calotta glaciale della vetta. La nostra spedizione desta molta curiosità tra gli amici e i conoscenti.

Il decollo per la capitale Lima arriva il primo agosto 1981. Volo regolare, grande voglia ed entusiasmo di tutti. Respiriamo il profumo della grande avventura.

Approntata la logistica, in un giorno di jeep, raggiungiamo il paesino di Chiquian da dove, con alcuni accompagnatori locali, diversi asinelli (buros) per il trasporto del materiale e un cavallo, ci dirigiamo, in tre giorni di marcia, verso il campo base che allestiamo al fondo di una prateria a 4.800 m di altezza.

A queste latitudini, barometro a parte, l’ambiente equivale ai nostri 2.000-2.500 m. L’accoglienza meteo è subito delle peggiori, con una abbondante nevicata fuori stagione nonostante sotto l’equatore l’inverno trascorra, di solito, mite e senza precipitazioni. Il maltempo perdura e perciò prolunghiamo la permanenza per il massimo dei giorni consentito dal nostro programma.

Non ci perdiamo d’animo. Ma dopo alcuni vani tentativi a causa delle pessime condizioni del manto nevoso e del serio pericolo di ripetute piccole slavine, dobbiamo desistere nostro malgrado e fortunatamente illesi.

Ripieghiamo con una rapida ritirata dall’ultimo campo avanzato a quota 5.300 m, all’alba di una interminabile notte di bufera. Unica conquista nel magro carniere, la prima assoluta femminile di Luigina su di una cima minore, lo Jurao F, durante una breve tregua del maltempo.

Non paghi ci spostiamo sulla Cordillera Blanca, so-

vrastata dallo Huascaran (m 6.768), la cima più alta del Perù. Facciamo base a Huaraz, cittadina in altura, sede della missione italiana diretta dai Padri Giuseppini di Asti, i fratelli Corazzola che ci accolgono con calore.

Di lì risaliamo le pendici dell’estetico Nevado Pisco (m 5.752) senza troppe pretese e convinzione, tant’è che non ne raggiungiamo la cima.

Ritorniamo a Lima per gli ultimi giorni di permanenza peruviana, abbastanza provati nel fisico e nel morale, ma soddisfatti di aver dato il massimo e di aver vissuto un’esperienza di vita straordinaria e indimenticabile. Abbiamo capito che non è stata solo un’impegnativa avventura alpinistica.

A fine agosto parenti, amici, sostenitori, stampa ed emittenti locali ci accolgono trionfalmente, nonostante tutto, e il ricordo di questa impresa è rimasto negli annali dello sport astigiano.

Franco e Luigina torneranno ancora in Perù compiendo alcune scalate di prestigio internazionale e persino la perlustrazione di una vallata inesplorata.

Noi compagni della spedizione alpinistica “Ande ’81” contribuiremo a distanza per la costruzione, a opera dei coniugi Gentile, di un impianto idraulico nella missione e per altri modesti aiuti ai Giuseppini, ulteriore legame della imperitura amicizia che, da allora, ci ha uniti e ci unirà per tutta la vita.

Vita purtroppo già interrotta per i compianti Giovanni, Franco e Guido, che comunque resteranno sempre con noi lassù tra le nevi della Cordillera, come 35 anni fa (2016 - ndr).

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Dimensione Everest di Sergio Ardissone Novembre 1981. Continuo a rigirarmi nel sacco piuma senza riuscire ad addormentarmi, il freddo è intenso e la testa mi pulsa quasi volesse scoppiare: questo ultimo Campo a 5.000 m inizia a farci soffrire!

Con una mano tocco la tenda che scricchiola come una lastra di ghiaccio, fuori sento i campanacci degli yak, unici in grado di sfidare apertamente queste notti himalayane; ad uno ad uno mi passano di fronte i 17 giorni che ci hanno portato fin qui: i meravigliosi templi di Kathmandu, le verdi risaie con il loro caldo torrido, gli aerei ponti sospesi, le allegre serate intorno al fuoco e soprattutto quei visi sereni incontrati lungo il cammino. Ed è proprio il viso sorridente di Nima, il nostro sherpa più giovane, che alle tre e trenta del mattino viene illuminato dalla mia pila mentre mi porge il tè: siamo subito tutti in piedi a dimostrare che la notte è stata dura anche nelle altre 64

tende, e vi è il desiderio di partire al più presto.

Verso le quattro siamo in cammino, le pile frontali come tante lucciole nella notte salgono nel vallone formato dalla morena laterale del ghiacciaio del Khumbu, di fronte si staglia, scura nel cielo stellato, l’imponente parete sud del Nuptse.

Verso le cinque un leggero chiarore appare dietro la cresta del Nuptse e rischiara a poco a poco le vette della valle del Khumbu, di fronte a noi la sagoma arrotondata del Pumori (m 7.145) appare enorme con il suo versante sud sul quale si alternano grandi seracchi sospesi e strapiombanti placche di roccia grigia. La respirazione si fa difficile mentre la testa mi pulsa sempre più, siamo ormai giunti a Gorak Shep sul lato esterno della morena laterale destra del Khumbu Glacier presso un modesto laghetto glaciale a quota 5.160 m dove, nel 1952, la spedizione svizzera all’Eve-

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rest pose il suo Campo Base; inizio a salire le pendici del Kala Pattar ammantato di neve mentre il Pumori si colora delle tinte dell’alba, l’emozione si impossessa di me mentre la fatica si fa sempre più forte.

Davanti a me Che-uan sale lentamente, mi volgo indietro e vedo gli altri salire con difficoltà molto più in basso, le gambe diventano legnose e l’aria sempre più rarefatta.

Finalmente dalla cresta del Nuptse il sole scoppia in tutta la sua potenza e lancia i suoi raggi sulle vette che mi circondano, il cielo è di un blu intenso sul quale spicca il bianco immacolato dei ghiacciai.

Raggiungo quota 5.545, ormai il sole illumina completamente il Pumori di fronte a noi, stringo la mano al sorridente Che-uan e mi guardo intorno: mi sembra un sogno, sotto di noi il Khumbu Glacier appare nella sua imponente bellezza, la grande seraccata (Ice Fall) che scende dall’Everest, le guglie di ghiaccio allineate ed il caos glaciale della sua sezione inferiore, profondamente incassata fra le alte morene laterali.

Di fronte una visione spettacolare: il Lingtren (m 6.697), il Khumbutse (m 6.640), il lontano Changtse (m 7.553), la spalla ovest dell’Everest, l’Everest (m 8.848), il Lhotse (m 8.501), il Nuptse (m 7.879) con il meraviglioso ed imponente versante ovest, alle nostre spalle il Cho Oyu (m 8.153) e poi la Cina.

Il sole illumina ormai le piccole tendine rosse del Campo Base americano laggiù sul ghiacciaio, ed annuncia una nuova giornata di fatiche e di rischi per quegli uomini, soli di fronte alla natura. Più tardi scenderò sul ghiacciaio e raggiungerò il Campo Base, finalmente ho scoperto la DIMENSIONE EVEREST! La mia ricerca della Dimensione Everest continuò tra le montagne himalayane nel 1984 con la salita all’Annapurna IV (m 7.525). Per più di un mese quell’immensa parete di roccia e ghiaccio ha rappresentato il mio orizzonte giornaliero, baluardo apparentemente insuperabile contro il quale si infrangevano le mie paure, le mie emozioni, le mie speranze. Per i nepalesi Annapurna è la dea dell’abbondanza ed ogni giorno si lasciava il Campo Base accompagnati dall’odore inconfondibile dell’incenso, bruciato dagli sherpa in devozione alla dea che, da quella cima immacolata a contatto con il cielo, avrebbe deciso i destini di noi poveri mortali. Siamo ormai giunti al ventesimo giorno di spedizione, abbiamo installato il Campo 1 a circa 5.300 metri, sulla morena antistante il versante nord dell’Annapurna.

Finalmente posso vedere quello che mi aspetta: un’immane parete alta più di 2.000 metri, al centro il triangolo di ghiaccio, unica possibilità di evitare i grandi seracchi sospesi. Sopra di noi l’Annapurna II (m 7.937) e verso ovest l’Annapurna III (m 7.549); verso est riesco a scorgere l’imponente sagoma del Manaslu. Lascio il Campo e inizio a salire sulla morena e poi sul ghiacciaio. Renato avanza davanti a me, sento a tratti il suo martello battere sulla roccia. Sopra le nostre teste un enorme seracco pende minaccioso; vorremmo toglierci al più presto da questa situazione pericolosa, ma la quota non ci permette velocità superiori.

Siamo infine usciti a destra del seracco, lungo il lato sinistro del triangolo. La ripidità della parete e le rocce lisce sulle quali spesso i ramponi non fanno presa mi costringono ad un ritmo irregolare: il cuore sembra battere al di fuori del corpo! Siamo oltre i 6.000 metri, il vento sibila tra le rocce. Ancora una volta mi vedo sedotto da riflessioni che mi sono così famigliari: tornare indietro, la montagna alle spalle.

Il giorno seguente si piazzerà il Campo 2 al vertice del triangolo a circa 6.500 metri e da lì sogneremo la vetta.

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Una Madonnina… astigiana di Enzo Brosio

Nel 1971 avevamo appena 50 anni, oggi 100!

Correvano gli ultimi favolosi anni sessanta. Il nostro CAI rappresentava in Asti un gruppo attivo e dinamico. Nella Sede in Corso alla Vittoria, aliena da ogni ambizione, si preparavano i programmi che permettevano ai soci di frequentare incantevoli località alpine.

Attorno allo storico tavolo con coperchio a libro finalmente aperto, perché nella precedente Sede di Via C. Battisti si diceva: “O aperto lui o fuori noi”, il Consiglio Direttivo progettava la degna commemorazione del primo cinquantenario.

L’idea di acquistare un bivacco fabbricato dalla ditta Ravelli di Torino da collocare al Col Teleccio (m 3.304) sotto la sud della Torre Gran San Pietro, avanzata dal socio Luigi Rinetti, era stata sostituita con la posa di un segno rappresentativo del nostro sodalizio su una vetta attraente non ancora “occupata” così che fosse un prezioso componente agli alpinisti per la foto ri66

cordo di un’ambita escursione. Proposta approvata, con spesa contenuta.

Inizia così la storia della Madonnina.

Ad Asti in Corso alla Stazione (ora Don Minzoni) all’incrocio con Viale al Cimitero (ora Don Bianco)… vi era il laboratorio e studio del prof. Parmetler docente all’Accademia Albertina di Torino… Dal 1899 la sua attività artigiana diventò arte con il lavoro dell’allievo Gaetano Porotti poi continuato dal figlio Cav. Giovanni sino al 1975.

Noi siamo agevolati dai nostri soci Umberto Vacchelli e la moglie Luciana, figlia del predetto Cav. Giovanni Porotti, personaggio che lasciò in città alcuni pregevoli lavori.

Dal cancello sempre aperto ci presentiamo fiduciosi. Poche parole, il Porotti apprezza la nostra idea e pensando che mai sua opera ed il nome scritto della sua città erano saliti così in alto, sceglie la statuetta

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giusta. Con grandezza d’animo ci porge in dono il suo artistico modello, la “Madonnina delle Grazie” e gli auguri di buon lavoro.

Conoscevo una fonderia che produceva ornamenti per lampadari nell’interland torinese. Mi presento al titolare e per mantenere l’impegno della spesa contenuta, chiedo se in cambio della prestazione accetta il bronzo residuo della fusione di bocche da fuoco di cannone prodotte dall’Arsenale allora in piena attività in Torino. Proposta subito accettata per la buona qualità del metallo… … Alla consegna della statuetta, quanta delusione!

Quella scagliola creata da mano delicata e sapiente, quell’immagine creata per diffondere beatitudine, non è più.

Ruvida con sbavature, incrostata di terra cotta scura pressata sulla scultura religiosa realizzata in modo estremamente raffinato e realistico, la concretezza espressiva, il panneggio della veste, tutto è nascosto.

Non osavo presentarla al CAI. Arriva giusto giusto il socio Pietro Scassa, volenteroso giovane esperto nell’arte metallica. Si concentra nel suo angolino nascosto che diventerà la sua moderna e spaziosa “officina” che tutto raccoglie e nulla nasconde. Tante ore e tanta pazienza con lima, seghetto, bulino e raschietto. Cesella, accarezza e liscia la statuetta finché torna perfetta.

Grazie a lui.

Mancano ancora il basamento e la targa commemorativa, sempre in bronzo, sempre stessa fonderia e stessa maestria.

L’ultima incombenza, quella che raggruppa tutte le necessità finali è per l’officina del socio Franco Gentile. A lui l’opra più tecnica, quella che dovrà mantenere ben salda la statuetta che sarà sottoposta ad ogni sorta di agenti atmosferici (compresi i fulmini) e dovrà resistere aggrappata al blocco di granito più alto della Tour Ronde. Non è un traliccio ENEL, ma un sostegno robusto e decoroso e di più. Il genius di Franco gli ha fatto piedi telescopici perché si adattassero alla roccia come natura fece.

Quattro piastre in ferro forate quattro volte per infilare (poi in cima) sedici chiodi ad espansione in sedici buchi scavati al punto giusto con martello e punzone. Sempre creazione Gentile, un contenitore cilindrico con chiusura a baionetta per accogliere quaderno e matita…

… L’ultimo omaggio di Franco è la slitta per trascinare statua, lapide, basamento, sostegno, arnesi da lavoro (circa un quintale) su per la parete est, lo scivolo ghiacciato e la cresta terminale.

Infine le pratiche burocratiche perché la vetta è in territorio francese, l’esposizione sul pronao della chiesa di Courmayeur, le due domeniche 11 e 19 agosto 1971 quando istruttori e allievi della nostra Scuola di Alpinismo “C. Barbero” hanno concluso felicemente i lavori lassù.

La splendida domenica del 19 settembre 1971 una folta comitiva di soci e simpatizzanti - parte sino in vetta e parte al Col d’Entrèves del Glacier du Géant con la presenza del Prefetto di Asti, Dott. Alberto De Marchi e del Direttore dell’Ente Provinciale del Turismo, Dott. Argirò - ha assistito alla celebrazione della messa di inaugurazione della “Madonnina delle Grazie” officiata in vetta dal parroco di Santa Maria Nuova Don Binello, rito reso più solenne dai canti del coro Amici della Montagna… … Il film su pellicola 8 mm girato durante il trasporto e collocazione della Madonnina termina con le parole del socio Paolo Icardi: “Lassù. Sulla vetta della Tour Ronde, nel silenzio dell’effuso azzurro, è rimasta la Madonnina delle Grazie a perenne ricordo del Club Alpino Italiano Sezione di Asti”.

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I “piedini” della Madonnina di Franco Gherlone

A distanza di 43 anni, la manutenzione straordinaria Erano i primi di maggio (2014 - ndr) quando il Presidente Silvio Lungo Vaschetto ha proposto di consolidare l’ancoraggio della Madonnina. Effettivamente quando eravamo saliti alla Tour Ronde (m 3.798) con la Scuola di Alpinismo, quattro anni prima, avevamo notato che la struttura era un po’ traballante… … Il primo problema che si è posto è stato: perché i “piedini” della Madonnina non tengono più?

I motivi potevano essere molteplici: i piedini si erano disgiunti dalle placchette basali; i chiodi a pressione con cui erano fissate le placchette al granito si erano allentati; il granito sottostante la struttura si era fratturato e aveva minato la solidità del tutto. Abbiamo così iniziato a visionare il vecchio filmato, presente in Sezione, sulla posa della statua, a raccogliere materiale fotografico e ad ascoltare alcune testimonianze. Fondamentale è stato il racconto di Luigina Gentile. Dalla metà di maggio si sono susseguite una serie di riunioni presso la Sezione per capire come impostare i lavori di manutenzione. Alcuni proposero una serie di ganci che avrebbero fissato la gabbia che sorregge la Madonnina alla base di roccia, altri si concentrarono sulla realizzazione di staffe che avrebbero fissato i piedini al granito, altri proposero di cambiare le placchette basali, altri ancora studiarono la formula del cavo di acciaio inox con un tenditore. Decidemmo che tutte le soluzioni erano valide e le adottammo in blocco 68

con qualche modifica dettata dall’analisi delle immagini e dai “racconti” in nostro possesso. Verso la metà di agosto, avevamo radunato tutto il materiale compresi i trapani, le batterie, numerosi spitz e bulloneria varia: vi erano circa 18 kg da trasferire in vetta. A questo punto, iniziò il count down e la battaglia col meteo. Ogni qualvolta le previsioni erano clementi, noi eravamo in pochi e viceversa… Finalmente si prospettò la data del 13/14 settembre: nove partecipanti, meteo bello specialmente il sabato… è fatta; prenotato il Rifugio Torino (m 3.375), organizzate le auto per la partenza, caricato il materiale tecnico per i lavori ed alpinistico di uso comune... si parte!! L’idea era di salire sabato 13 al Rif. Torino, portare il materiale tecnico il più in alto possibile, ritornare al Rifugio per trascorrervi la notte e riprendere il lavoro il giorno successivo. Ma, quando alle 10 del sabato abbiamo valicato il Colle del Flambeau col meteo “beau fixe” (come direbbero i francesi) e lo spettacolo del Bianco con i suoi satelliti splendenti di neve, dentro di noi si è concretizzata una certezza: saremmo saliti in vetta ed avremmo concluso il lavoro in giornata. E così fu: divisi in quattro cordate, alcune più veloci altre meno, abbiamo affrontato la salita con gli zaini stracolmi di ferro e di acciaio e, con una certa fatica, verso le 13 siamo giunti in punta. Abbiamo iniziato a lavorare intorno alla struttura: la Madonnina era instabile, ma tutto sommato appoggiava su granito abbastanza compatto e la struttura in ferro era in buone condizioni. In buona sostanza sono stati rafforzati due piedini su quattro, sono stati posizionati alcuni ganci che fissano la gabbia alla roccia ed è stato posto un cavo di acciaio inox come tirante con la funzione di disperdere la tensione elettrostatica che si può accumulare durante i temporali: in questo modo, per i prossimi 50 anni, salvo cataclismi, non si dovrà più fare manutenzione.

Siamo scesi mentre gli infaticabili Mario ed Elio, aiutati dagli altri, hanno attrezzato con spitz una sosta nei pressi della statua e due calate di circa 60 m lungo il canale Freshfield. Alle 19 rientravamo al Rif. Torino, come si dice in questi casi, stanchi, ma soddisfatti… … Sento il dovere di ringraziare tutti quanti per la disponibilità dimostrata. Siamo riconoscenti al CAI di Asti che ci ha dato la possibilità di fare un lavoro utile per la storia della nostra Sezione con un gruppo affiatatissimo di Istruttori della Scuola di Alpinismo “F. Gentile” dimostrando, in questo modo, che il lavoro di equipe porta sempre a ottimi risultati.

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Franco Gentile di Carlo Ventura Il compianto e mai dimenticato Franco Gentile è stato una figura imprescindibile nella storia della nostra Sezione. Con l’inseparabile compagna di vita e di cordata Luigina ha introdotto all’alpinismo intere generazioni di giovani, sempre all’insegna della prudenza, della sicurezza e della preparazione tecnica. Entrambi anche ottimi sciatori e sci alpinisti hanno iniziato a frequentare la montagna insieme e sempre insieme hanno compiuto le loro più importanti imprese. Dalle impegnative ripetizioni di vie classiche lungo tutto l’arco alpino, dalle Marittime alle Dolomiti, per arrivare fino a realizzare alcune prime assolute, di tutto rispetto per quell’epoca, tra cui la via del Cinquantenario alla Punta Emma, un’invernale alla Punta Udine e la via degli Astigiani al Visolotto.

Franco con il suo entusiasmo e la sua generosità, nel 1971 coinvolse l’intera Sezione nella mitica impresa di realizzare, trasportare e deporre la Madonnina in bronzo sulla vetta della Tour Ronde (m 3.798 - Monte Bianco): imperituro simbolo di fede e segno del prestigio internazionale del CAI di Asti.

Dal 1965, organizzò i soggiorni estivi, inizialmente in rifugi di alta quota con guide alpine al seguito, riservati a un numero ristretto di alpinisti. Proseguì quindi con i campeggi a Campitello di Fassa, che venivano chiamati “accantonamenti in tenda”.

Per noi giovani alpinisti degli anni ’70-’80, Franco è stato e rimane un riferimento fondamentale soprattutto per aver fondato, nel 1968, come primo Istruttore Nazionale astigiano, la Scuola di Alpinismo inizialmente intitolata al giovane Corrado Barbero, prematuramente

caduto in montagna. Col suo carisma ne fu instancabile animatore e la diresse per 14 anni fino al ritorno dalla spedizione Ande ’81, della quale fu promotore, organizzatore e coordinatore. I coniugi Gentile ritornarono ripetutamente in Perù, si inerpicarono ancora sui picchi della catena andina e si addentrarono addirittura in una valle secondaria, fino ad allora inesplorata, compiendovi anche una scalata in prima mondiale. In Perù, a Franco venne conferito ufficialmente il titolo di Guida onoraria. Sostenuti anche dalla solidarietà degli amici rimasti in Italia, aiutarono poi i padri Corazzola, due fratelli della congregazione dei Giuseppini di Asti impegnati in quei luoghi, con sede nella Missione della cittadina di Huaraz.

Come posso in definitiva riassumere che cosa ci ha tramandato il caro Franco? E non solo a noi che lo abbiamo frequentato assiduamente per tanti anni…

La grande passione e il rispetto per la montagna! La pratica dell’alpinismo con etica e disciplina...

La sua ultima iniziativa fu la costruzione e la posa di una croce di metallo sulla punta del Monte della Guardia, nell’Appennino ligure sopra Ormea. Dopo la sua scomparsa il CAI di Asti ha deciso unanimemente di intitolargli la “sua” Scuola di Alpinismo, alla cui nascita e sviluppo dedicò gran parte del suo tempo e delle sue energie, sempre coadiuvato dall’amata Luigina.

Da amico devoto e affezionato devo infine testimoniare personalmente il coraggio e la dignità con cui ha affrontato la lunga malattia che, con fasi alterne, lo ha poi portato all’improvvisa scomparsa, esattamente 11 anni fa.

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Enzo Brosio di Claudio Nuti Raccontare i primi cento anni del CAI di Asti vuol dire, soprattutto, parlare di chi, questi cento anni, li ha vissuti quasi per intero nella Sezione e, di conseguenza, significa parlare del grande amico, compagno di avventure, maestro e confidente Enzo Brosio, colui che, in modo inequivocabile, deve essere considerato la memoria storica della Sezione, almeno dalla fine della Seconda Guerra mondiale ad oggi.

Enzo nasce nella primavera del 1926 da papà Severino, falegname e restauratore, e da mamma Maria De Maria e già nel 1944, all’età di 18 anni, si iscrive al CAI di Asti (che allora aveva solo 23 anni di vita), più per la sua passione per la fotografia che per il desiderio di scalare le alte vette, ma ben presto si innamora delle cime, delle salite e dell’alpinismo.

Forse anche per il fatto che ci siamo avvicinati alla Sezione quasi alla stessa età, io a 16 e lui a 18 anni, fra me ed Enzo si è creato un legame particolarmente intenso, che esulava dal semplice andare per monti.

Egli è stato per me maestro di vita e di montagna, uno “zio” affettuoso e premuroso e di lui ho solo ri70

cordi intensi, piacevoli e a volte commoventi.

Ricordo le cantate nei rifugi e sul pullman, quando l’urlo disumano del “Paullo” indicava l’inizio di una serie di canzoni che coinvolgevano in breve tutti i gitanti, intonati e stonati che fossero, ma ricordo anche gli insegnamenti nella Scuola di Alpinismo, quando con competenza, pazienza e dedizione, trasmetteva a noi allievi quella passione che oggi, a distanza di oltre 40 anni, continua ad ardere nei nostri cuori.

Enzo fu il promotore, negli anni, di due iniziative sezionali di grande successo che si sono mantenute nei decenni e che hanno contribuito a creare quello spirito di amicizia e di condivisione, caratteristico della nostra Sezione.

Propose, dal 1981, la settimana di vacanza in rifugio (“accantonamento estivo”) che sostituì il campeggio organizzato, in precedenza, dalla Scuola di Alpinismo, estendendo la partecipazione, non solo agli alpinisti della Scuola, ma a tutti i soci, contribuendo a creare quel clima cameratesco e di amicizia che ci ha accompagnato per anni.

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Nella sua grande conoscenza delle valli di Lanzo (che frequentò per decenni, essendo uno dei geometri responsabili dell’acquedotto torinese) iniziò ad organizzare il “capodanno sulla neve” che prese il via come una due giorni, per terminare con una settimana di allegria e sport sulle nevi delle nostre Alpi.

Enzo inoltre era un grande cultore della buona cucina, quindi, epiche sono state le cene organizzate nei migliori ristoranti delle valli torinesi.

Ma la peculiarità che più di ogni altra ha caratterizzato l’esperienza di Enzo è stata la capacità di unire, di mediare, di evitare rotture e divisioni; nel momento più difficile della nostra Sezione, quando, per incomprensioni e piccoli rancori personali, ci fu il rischio di una frattura insanabile all’interno del gruppo, lui ebbe la forza e la capacità di appianare i dissidi, di smussare gli angoli più acuti, di riappacificare gli animi turbati e di permettere alla Sezione di superare la crisi più forte e più unita che mai.

Enzo ha coinvolto nella vita del CAI tutta la sua famiglia; la moglie Rosetta lo ha sempre seguito, con discrezione e secondo le proprie possibilità, così come la figlia Luisa, anch’essa assidua frequentatrice delle nostre escursioni, che ha trovato anche l’amore tra gli amici del CAI, e il nipote Luca, esperto ciclo escursionista ed accompagnatore sezionale di escursionismo della nostra Sezione.

Enzo, però, non era una persona dedicata solo alla montagna; era una persona poliedrica e piena di interessi diversificati; lo ricordiamo come esperto fotografo, cineamatore, restauratore di mobili, gastronomo, conoscitore del territorio, in particolare delle vallate torinesi, non solo come montagne, ma anche come storia, tradizioni e popolazioni.

Caro Enzo, tu hai dedicato la tua vita al CAI, trasmettendo tutti i valori che avevi in te e che ti hanno reso una persona speciale; mi hai conosciuto ragazzino di 16 anni, mi hai insegnato ad andare in montagna (ricordo che sei stato il mio primo istruttore nella Palestra degli Astigiani in Val Maudagna), mi sei stato amico per oltre trent’anni, mi hai aiutato nella mia esperienza di Presidente di Sezione, quando avevi sempre un buon consiglio da darmi, che seguivo fedelmente, convinto che nulla di negativo potesse uscire dalla tua bocca e dal tuo cuore ed ho avuto per te un affetto particolare. Ti ho seguito anche negli ultimi momenti della tua vita, quando la malattia ti aveva tolto tutte le energie fisiche che ti avevano caratterizzato, ma non aveva smorzato il tuo spirito indomito.

Quando te ne sei andato sulle montagne del Paradiso, in quella giornata di fine estate del 2009, hai lasciato un grande vuoto in me e in tutti noi, ma in quel giorno triste, uno spirito buono ha iniziato a vegliare su tutti coloro che gli hanno voluto bene.

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I NOSTRI TEMPI 1991-2021 Sono anni in cui si procede di corsa, anche per poter far fronte alle tante aspettative dei soci diventati sempre più numerosi. E si guarda sempre di più al di là delle Alpi.

Sulla scia dei patti di amicizia che la città ha stretto con altre realtà straniere, decidiamo di gemellarci con la Sezione del DAV di Biberach: saranno anni bellissimi di scambi culturali, di manifestazioni e di gite organizzate in comune, da cui si svilupperanno amicizie che perdurano ancora oggi.

Ormai la montagna non è più solo alpinismo o sci. Tanti nuovi sport ad essa collegati esplodono e si diffondono specie tra i più giovani: in particolare l’arrampicata sportiva raccoglie decine di adesioni da tanti ragazzi tra cui brillerà per molti anni la stella di Severino Scassa, che diventerà in seguito campione europeo di questa disciplina. Ci mostriamo pure pionieri nella nuova attività di arrampicata su cascate di ghiaccio, in cui i nostri istruttori si rivelano precursori a livello nazionale. E poi l’arrivo dell’alpinismo giovanile, della mountain bike, delle ciaspolate di gruppo, lo sci da fondo, cui si aggiungono i trekking organizzati sulle montagne di tutta Europa.

Ormai non si contano più le salite estreme, le “performances” su roccia, ghiaccio, o anche sugli sci grazie a imprese sportive di assoluto valore compiute dai nostri giovani soci che rappresentano la continuazione ideale delle imprese compiute pochi anni prima da Gene Novara e Mario Menegaldo.

Gli aspetti organizzativi diventano sempre più indispensabili per offrire ai soci, diventati ormai più di 700, ogni genere di opportunità, sempre all’insegna della massima sicurezza e del rispetto dei principi di fondo del CAI. E anche l’informazione, con la rivista Asti Montagna, contribuirà a diffondere e a far crescere l’immagine della nostra Sezione.

Il degno coronamento di questo lungo cammino sarà la costruzione della nuova Sede, in Corso Palestro, con annessa la bellissima palestra di arrampicata, due gioielli che ci vengono ammirati e forse anche un po’ invidiati da molti e che rappresentano il giusto riconoscimento per tutti quei soci che si sono mobilitati e impegnati di persona per sostenere l’immenso sforzo economico e organizzativo che il progetto ha richiesto.

E, dopo cent’anni, si può proprio dire che “ne valeva la pena!”.

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Rocciamelone di Carlo Ventura In un articolo del 1990 della nostra rivista, dal titolo “Rocciamelone montagna nostra”, si leggeva: “Nella Cattedrale di Susa si conserva un famoso “Trittico”, una pregevole opera d’arte del XIV secolo, di autore ignoto, inciso in bronzo1. Si compone di tre tavole.

Rappresenta in centro una Madonna con Bambino, a destra un cavaliere (S. Secondo?) che trafigge un drago, a sinistra un cavaliere protetto da un santo.

Questo cavaliere è Bonifacio Rotario d’Asti, l’autore di un’impresa insieme storica e leggendaria che proprio il trittico testimonia. Bonifacio Rotario salì nel 1358 sulla montagna più alta allora conosciuta quando non c’erano, non solo ne’ carte ne’ relazioni, ma neppure sentieri e tanto meno rifugi. C’erano in compenso, e non aiutavano certo, le convinzioni che sui monti, oltre ai pericoli naturali, si trovassero streghe, orchi e spiriti del male.

La tradizione popolare racconta che il nostro eroe, 74

rimasto prigioniero dei turchi, avesse fatto voto alla Madonna di portare una sua immagine sulla vetta più alta del Piemonte una volta libero.”…

Riprendevo poi l’argomento anch’io a dicembre del 2008 a proposito del nostro modo di andare in montagna socializzando ad ogni occasione e così mi esprimevo:… “In particolare voglio qui soffermarmi brevemente su un’altra singolare esperienza fatta recentemente da tre di noi, Jacqueline, Mario e il sottoscritto, aderendo all’invito degli amici del CAI di Susa e del loro Presidente Nino Allemano per la ricorrenza dei 650 anni della prima salita al Rocciamelone, avvenuta nel lontano 1358. Oltre tutto questa impresa, compiuta dall’allora Vescovo di Asti Bonifacio Rotario, viene annoverata in tutti i testi di storia dell’alpinismo quale prima scalata assoluta e documentata. Così lo scorso 31 agosto e 1º settembre, graditi ospiti accolti con tutti gli onori, abbiamo

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partecipato alla commemorazione ufficiale con una messa solenne celebrata nell’antico duomo dal Vescovo di Susa, a cui sono intervenute alcune autorità pubbliche anche del circondario.

Quindi siamo saliti al Rifugio Cà d’Asti per il pernottamento, non prima di una bella cantata con alcuni componenti di due cori locali: erano anni che non partecipavo a un’esecuzione de La Montanara così suggestiva, giusta conclusione di una amichevole e piacevole serata. Tanto che l’indomani abbiamo deciso di rinunciare di buon grado alla programmata scalata della cresta est, preferendo rimanere uniti alla numerosa comitiva per collaborare al trasporto della copia del sacro trittico che fu allora deposto in vetta, quale ex-voto, dal già citato Rotario.

L’evento si è coronato in punta con un’ultima funzione religiosa di due sacerdoti e un Vescovo di recente nomina, proveniente per l’occasione direttamente da

Roma, con tanto di cartoline commemorative, francobolli e relativo annullo della Città del Vaticano dedicato all’anniversario.

I festeggiamenti si sono conclusi con una tradizionale e abbondante “merenda sinoira” al Rifugio La Riposa con oltre un centinaio di partecipanti, compresa una numerosa delegazione francese, al termine della quale non è mancato un coro collettivo di tradizionali canti montanari.

Quale esempio più significativo di cosa intendiamo noi per andare in montagna insieme, fare nuove amicizie, arricchire il nostro bagaglio di esperienze umane con persone sempre diverse, ma con le quali ci accomuna la grande passione per la montagna”.

Nella realizzazione della copia, si è poi constatato che il metallo è ottone.

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Monte Bianco di Daniela Gonella e Luigi Bersano Quando nel calendario delle escursioni estive, per celebrare i 70 anni della nostra Sezione, progettammo la salita al Bianco c’erano fermento, emozione, entusiasmo ma anche apprensione ed il timore di essere un po’ presuntuosi (gita sociale al Bianco? Ma è mica lo Chaberton!). E non basta, per metterci del pepe, anche un paio di cordate in contemporanea da una via più impegnativa. A giochi fatti è stato chiesto qualche commento a due protagonisti: Daniela Gonella, salita per la via francese e Luigi Bersano per quella italiana.

La via francese 16.8.1991 ore 7.46, in cima al Monte Bianco il vento e il freddo sono quasi insopportabili, ma la gioia della conquista ed il panorama così unico ed imponente sulle Alpi d’Europa ci fanno dimenticare anche i rigori della quota.

Per festeggiare i 70 anni della nostra Sezione è stata organizzata una “gita sociale” al Monte Bianco per la 76

via normale: finalmente l’occasione per salire sul tetto d’Europa, un’occasione unica per chi ama la montagna e ad essa ha dedicato gran parte della propria vita. Siamo partiti in 24: 11 più fortunati mercoledì 14 agosto, gli altri il giorno di Ferragosto, destinazione: il Rifugio dell’Aiguille du Goûter, elegante alberghetto a quota 3.817 m; noi siamo alloggiati in una specie di dependance nuovissima e molto accogliente, l’unico problema è la ressa di alpinisti di tutte le nazioni che, come noi, ha scelto il rifugio come base di partenza per salire al Monte Bianco.

Il 16 agosto alle 2.00 del mattino suona la sveglia ed alle 2.45 siamo pronti per partire; la salita in notturna ha un fascino invidiabile, la vista di Chamonix, 3.000 m più in basso, tutta illuminata e l’alba che piano piano si fa strada nel cielo, ci accompagnano in questa impresa. Le cordate salgono in perfetta fila indiana e il bagliore delle lampade frontali disegna chiaramente la via di salita. È uno spettacolo veramente

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affascinante fino a quando la luce del giorno ha il sopravvento; via via si spengono le pile ed il tragitto è in piena luce: prima la Capanna Vallot, ardita costruzione dei tempi dei pionieri dell’alpinismo, di proprietà del Club Alpino Francese a quota 4.362 m, in stato di abbandono, ma pronta ad accogliere chi è in difficoltà; poi la cresta della Grande Bosse, ripida, ma spaventosamente aerea, infine la salita ai Rochers de la Tournette per raggiungere la cresta poco ripida, ma affilata, che conduce alla cima del Monte Bianco.

Tra i baci, gli abbracci ed i complimenti per la riuscita ascensione, prende il sopravvento una gran commozione: siamo finalmente in cima al tetto d’Europa, il sogno di tutti gli alpinisti. Lo sguardo scorre da un versante all’altro riconoscendo le cime più famose; il tempo di scattare qualche fotografia ed è ora di ridiscendere: 2.500 m per arrivare al trenino a cremagliera che dal Nid d’Aigle ci riporterà alle macchine. Durante il tragitto ci scambiamo qualche impressione, ma osservando il verde rilassante che ci circonda siamo tutti intenti a fermare le immagini di questa giornata così lunga ed intensa.

Grazie 70° compleanno del CAI, ci hai fatto vivere una bellissima avventura.

avventura ciclistica andando sul Bianco tutti e quattro insieme: Mario, Giorgio, Paolo ed io a Ferragosto contemporaneamente alla gita sociale per una via alternativa alla normale secondo le intenzioni del programma.

Visti i titoli, l’incarico organizzativo veniva dato a Mario che, tanto per rendere la cosa più piccante, sceglieva di salire dallo sperone della Brenva.

Il giorno precedente, a causa di un problema tecnicologistico, abbiamo spostato il nostro itinerario lungo la più classica via di salita italiana dal Rifugio Gonella.

Quindi il giorno sedici agosto, mentre sulla cima si avvicendavano le cordate della gita sociale, noi, con Simona al seguito, ci incamminavamo nel primo pomeriggio lungo la tribolata ed interminabile morena del Miage per raggiungere il Rifugio Gonella a quota 3.072 m su un contrafforte delle Aiguilles Grises.

Il mattino successivo alle ore 0.30, indolenziti e un po’ intirizziti, passando nei pressi del Colle di Bionnassay, lungo la cresta che lo congiunge con il Dôme du Goûter, siamo giunti in punta al Bianco con grande soddisfazione di tutti. Alle 20.30 Simona ed io raggiungevamo l’auto presso il Lago Combal, mentre i nostri amici con più tempo a disposizione si erano fermati ancora per una notte al Rifugio Gonella. Al Combal mi sono tolto gli scarponi con soddisfazione dei miei poveri piedi che vi erano stati incapsulati dentro per 20 ore consecutive coprendo quasi 1800 metri di dislivello a salire e 2800 a scendere. La prossima volta probabilmente, prima di rifarlo, chiederò un parere anche a loro.

La via italiana Monte Bianco, che passione (in tutti i sensi)! L’idea ci era maturata, forse per il forte sole, mentre pedalavamo su e giù per monti e coste della Corsica all’inizio di luglio. Mettere quindi il cappello a quella bella 77

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Dalle falde del Kilimanjaro…

Diario di viaggio. La scalata alla cima più alta del continente africano… ad un soffio dalla vetta di quel vulcano quotato 5.895 metri

di Luciano Oldano Quando appresi che la nostra Sezione intendeva organizzare un trekking sul Kilimanjaro, mi resi conto che l’occasione per visitare una delle più belle ed incontaminate zone del continente africano, dove la natura è ancora la regina del territorio, era arrivata.

Le spettacolari diapositive proiettate nella Sede del CAI dall’amico Sergio Ardissone, il puntuale commento della salita, la voglia di conoscere in diretta nuovi mondi, di provare le emozioni descritte, di raggiungere la vetta a quota 5.895 percorrendo la solitaria e spettacolare via Machame, mi hanno convinto ad accettare la sfida in compagnia degli amici Gianni e Grazia, straordinari compagni di viaggio.

Nonostante le difficoltà organizzative, la non facile 78

logistica, il tutto dovuto al fatto che il gruppo era composto solo da tre persone, il 10 ottobre 1998 prendiamo l’aereo per Nairobi.

Giunti al Campo Base di Moschi, mi sono reso conto che l’Africa vera, quella descritta con passione da tanti scrittori era lì, pronta a regalarci emozioni nuove.

Purtroppo, nel mese di ottobre, corrispondente all’inizio della stagione delle piccole piogge, per vedere la “montagna di luce” occorre salire sulle sue pendici e solo all’alba ed al tramonto si è gratificati dalla visione della vetta coperta di neve, per il resto della giornata ci si deve accontentare del paesaggio lunare circostante, avvolto in una sottile foschia che rende l’ambiente ancora più affascinante.

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Finalmente, riordinato il bagaglio, fatte le provviste di rito e organizzata la squadra di portatori, partiamo con la nostra affidabile guida locale in testa, a quota 1.500 metri, avvolti dalla foresta equatoriale.

La prima sosta è a 3.000 metri di quota al “Machame Camp”, dove sperimentiamo la cucina dei nostri amici tanzaniani, il calore di un crepitante fuoco e l’ebbrezza intensa e profonda che si prova osservando il cielo africano stracolmo di stelle, in assenza di qualsiasi inquinamento luminoso ed acustico.

Il secondo giorno, attraversando un paesaggio lunare creato dalle innumerevoli eruzioni vulcaniche che si sono susseguite nelle trascorse ere geologiche, raggiungiamo “Schira Camp” a quota 3.840 dove una piccola grotta abbastanza accogliente, a parte il fumo, ci ripara da un tremendo acquazzone.

L’alba mi regala il primo incontro con la nostra meta, ancora molto lontana. Ci rimettiamo in cammino, senza fretta, ed incontrando un paesaggio difficile da descrivere per un profano della materia come il sottoscritto, disseminato di seneci ed altre piante e fiori che si sono adattati a vivere tra la lava, raggiungiamo il terzo Campo detto “Barranco Camp” a 3.950 metri. Qui il freddo si fa sentire e, dopo la solita gradevole cena, la breve conversazione in pseudo inglese con la nostra guida attorno al coloratissimo fuoco, un doveroso sguardo al cielo, mi rannicchio nel sacco a pelo, stanco ma sereno.

La quarta tappa, difficile, faticosa, lunga ed interminabile ma bellissima per la vastità del paesaggio e la sensazione di essere quasi arrivati alla meta, che si fa vedere in tutta la sua bellezza, tra una nuvola e l’altra, ci conduce a quota 4.600 alla capanna “Barafu”, dove il sole, scendendo all’orizzonte, ci regala un tramonto straordinario, che cerco di catturare con una serie infinita di diapositive. L’altitudine si fa sentire, ma stiamo bene, siamo pronti per l’ultimo balzo, da 4.600 m alla vetta: Uhuru Peak a 5.895 metri.

Altro che balzo! Sono state 8 ore di sofferenza.

La quota mi ha giocato un brutto scherzo e ho dovuto lottare con tutte le forze e con tutte le energie residue per raggiungere quella che pensavo fosse la meta, ma che in realtà era il bordo della caldera vulcanica a quota 5.685: Gilman’s Point.

Avevo dato fondo a tutte le mie energie, ho tentato di seguire Gianni che con tenacia ha raggiunto la tanto sospirata vetta, “Uhuru Peak” a 5.895 m, ma le gambe non rispondevano più, era impossibile proseguire.

La salita per me finiva lì, con un pizzico di rammarico per la mancata cima, ad un soffio, ma irraggiungibile: le forze residue non mi consentivano di realizzare il mio sogno!

Anche Grazia ha desistito, appagata di essere arrivata vicinissima alla vetta.

Eravamo, comunque, sul tetto d’Africa, sulla sua più bella e famosa montagna: il Kilimanjaro.

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Oman verticale di Alex Ruscior Nel 2014 ho incontrato al Petzl Roc Trip, in Romania, Read Macadam, un ragazzo canadese che si è trasferito e vive in Oman da sei anni. È nata una bella amicizia e, invitandomi per una visita, mi ha raccontato di un Oman affascinante ed attraente.

Non avevo mai considerato l’Oman come una meta di arrampicata e così, nel febbraio del 2015, decisi di partire… Con Read, venuto in Italia, ripartimmo per l’Oman nel gennaio 2016; a noi si unì la leggenda dell’alpinismo Arnaud Petit, un ex campione del mondo di Arrampicata Lead… l’avventura stava per iniziare.

Il Sultanato dell’Oman è situato nel sud della penisola arabica; è un paese molto bello e culturalmente ricco, con temperature elevate d’estate, ma gradevoli d’inverno. È costituito per l’80% da deserto e per il 20% da montagne di calcare, con una altitudine massima di 2.980 metri, la punta Jebel Shams della catena montuosa Al Hajar.

Giunti in Oman, come primo Campo Base, Read ci propose una zona che aveva già esplorato per il 80

boulder, situata nelle parte alta di Wadi Tiwi, da lui battezzata Valley of Giants. È un luogo caratterizzato da un vasto piano calcareo disseminato di giganteschi massi alti 15 metri, levigati dall’acqua, sembra un angolo di un paradiso; vi si incontrano le rovine di un paese antico tutt’ora utilizzato dai beduini che scendono con gli asini dal plateau posto in cima alla valle, per coltivare datteri. Uno dei nostri obiettivi principali era aprire una via sulla parete nord; avevamo stimato che avesse un’altezza di 300/400 metri e guardando col binocolo ci parve una roccia molto compatta, con vie di ogni difficoltà. Ci siamo attrezzati con trapani, chiodi, spit, friend, dadi e, dopo due ore di cammino con uno zaino da 30 kg in spalla, siamo finalmente arrivati alla parete. I sorrisi sui nostri volti sono scomparsi, sostituiti dalla delusione per la qualità della roccia, molto instabile. Il sogno della “Dream Line” fu demolito in un istante, l’avremmo aperta ugualmente, ma l’impiego di risorse e di tempo era diverso da quello che potevamo sostenere in quel momento.

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Non ci siamo lasciati scoraggiare e abbiamo deciso di sviluppare maggiormente l’area del fondo valle. Siamo così tornati tra le palme e i sassi dove i ragazzini giocavano in mezzo alla nostre corde e ci osservavano mentre aprivamo 6 vie su uno dei massi più alti con la roccia più compatta, tiri dal 7a+ all’8c. In quell’occasione ho chiodato per la prima volta e liberato dei tiri grazie alle istruzioni ed ai consigli di Arnaud e Read. Al ritorno, dopo 5 ore di sterrato, Arnaud ha proposto di fermarsi in un luogo dalle pareti vergini.

Spostandoci più a sud con un paio d’ore di autostrada, siamo entrati nella valle denominata Wadi Bani Khalid. È una piccola gola (wadi in arabo) con un torrente termale che crea piscine naturali scavate nel fondo calcareo con acqua limpida come il cristallo, un luogo molto turistico, ma nello stesso tempo vergine per il mondo dell’arrampicata. Dopo le grandi piscine, abbiamo trovato una parete strapiombante con potenziale per la chiodatura, Read ha proseguito lungo il torrente ormai scomparso sotto terra; sentendo un urlo di esaltazione, ci siamo avvicinati ed eccola lì, una parete perfetta alta 40 m con uno strapiombo di 20° e lunga 100 m, costituita da una roccia bellissima lavorata con le prese giuste al posto giusto. Tornati all’auto, abbiamo improvvisato un campeggio, praticamente dormivamo per strada nel sacco a pelo. Abbiamo aperto tre vie con passaggi di 7b+, 7c e un 8a, ed è per noi motivo di orgoglio sapere che sono state aggiunte altre vie, dopo le nostre, dalla squadra di alpinisti cechi di Ondra Benes e che il sito è già molto frequentato dalla comunità di scalatori presente in Oman. Qui, nel periodo invernale, è possibile scalare tutto il giorno per poi rinfrescarsi con un bagno ristoratore in acque calde e limpidissime.

Nei due giorni di pausa trascorsi a Muscat, Read ha organizzato un raduno con la comunità locale di scalatori, invitando anche Ondra Benes e la sua squadra che erano appena scesi dopo l’apertura di una via nuova di 7c+ su Misht. Questo incontro si è tenuto alla falesia Hadash in Wadi Mistal, dove Read aveva chiodato la maggior parte dei tiri e che è divisa in più settori, con tiri dal 5° al 8b+/c, molto famosa e frequentata…

Un altro obiettivo per noi importante, era quello di salire Jebel Misht, una delle pareti di calcare più alte al mondo, 1000 metri verticali. Avevamo scelto una via già esistente, non troppo difficile, in quanto eravamo una cordata di 3 persone, la via Shucran

con massimo 6b+ aperta da Trenkwalder e Gargitter nel febbraio 2006, ma interamente da proteggere tranne le soste che avevano uno spit e un chiodo.

Al mattino, alle 5, siamo partiti per affrontare l’avvicinamento di due ore fino alla base della parete.

Dopo qualche difficoltà nel trovare l’attacco della via abbiamo iniziato a scalare alle 8. Ci sembrava un po’ tardi, eravamo in tre, tutto da proteggere e non avevamo mai scalato tutti insieme. Siamo partiti con un po’ di acqua e qualche barretta, eppure nell’aria c’era un’energia positiva e, tra buon umore, canzoncine, un friend di qua e uno a 10 m, alle 12 eravamo a metà e alle 17.10 eravamo in punta al Jebel Misht.

Servizio fotografico, una merendina, pronti per la discesa, ma, giunti al sentiero per scendere… il solito silenzio che accomunava i nostri pensieri, davanti a noi c’era l’inferno: 1600 metri di dislivello di pietraia ripidissima con pareti verticali da aggirare e sentiero poco tracciato che, con l’incalzare della notte, abbiamo perso. Dopo 3 ore siamo arrivati alle tende dove ci attendeva il nostro supporto tecnico, Larry Michienzi con sua moglie Kelly. Non sentivo più le gambe, ero a pezzi, però sui nostri visi si leggeva la soddisfazione per l’impresa compiuta. Dopo un giorno di riposo, siamo tornati ad Hadash per portare a termine uno dei miei progetti, la terza ripetizione di “Fearless Leader”, 8a.

Un’esperienza unica, un luogo magnifico, ma soprattutto una bellissima compagnia che ha fatto di noi una squadra vincente.

Un grazie di cuore a Read Macadam e a Arnaud Petit per aver vissuto insieme questa avventura.

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Ritorno al futuro per il Coro Amici della Montagna di Vincenzo Calvo Si dice che vi siano i cosiddetti corsi e ricorsi storici; a volte sono un po’ frasi fatte, altre il tentativo di trovare nel passato l’eterna giovinezza. Forse per il Coro Amici della Montagna, parafrasando il titolo di un film, è un “Ritorno al futuro” o meglio, un ritorno al passato pensando al futuro.

Questo Coro nacque nel 1951 come Coro Amici della Montagna CAI Asti. Il forte legame tra l’attività corale e quella di montagna, fu sancito dal primo presidente Fulvio Ercole, contestualmente presidente del Coro e personalità di spicco in ambito CAI. Poi il destino e gli eventi hanno separato, solo formalmente, le strade del CAI e degli Amici della Montagna; di fatto si è continuato a mantenere quel cordone ombelicale tra i due sodalizi, dato dai soci della Sezione CAI che cantavano nel Coro e da una comune finalità: l’amore per la montagna, celebrato, gli uni con l’attività tipica del CAI, gli altri con il canto. Legame mantenuto anche quando, in varie 82

occasioni, il Coro Amici della Montagna, ha rappresentato il CAI astigiano a manifestazioni canore.

Il Coro ha compiuto, nel 2011, 60 anni d’ininterrotta attività, raro esempio di longevità non solo in Provincia ma anche sul territorio nazionale.

C’è da dire però che il canto di montagna e popolare, nelle nostre zone, è divenuto un ambito di nicchia per soli appassionati di età adulta, mentre i giovani, sempre più, vengono attratti da altri generi musicali.

C’era il rischio che il 60° di fondazione diventasse la celebrazione della quiescenza del Coro. Bisognava intervenire con scelte che portassero nuovi entusiasmi nel rispetto della tradizione. Cosa fare? Qualcuno si è ricordato di alcuni coristi che non cantavano più, ma che frequentavano il CAI; qualcun altro ha rammentato che nelle escursioni con il CAI, si canta volentieri; i più anziani si sono ricordati delle origini del Coro stesso; altri che sarebbe desiderio di molti avere un Coro CAI nella Sezione di Asti.

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Cominciarono ad esserci i primi contatti tra le due dirigenze, ricordandoci che Amici della Montagna vuol dire non solo cantare, ma celebrare l’amicizia e l’amore per la montagna anche in modi diversi.

La svolta è arrivata con la Castagnata del CAI dell’ottobre scorso (2011 - ndr), quando il Coro fu invitato a rallegrare i partecipanti durante il pranzo e la Castagnata e a tenere un concerto nelle bella pieve alle pendici dei monti cuneesi. Una giornata a stretto contatto con la montagna, con il canto, con l’amicizia, ovvero la “materializzazione” dei più importanti scopi dei due sodalizi. È stata la scintilla che ha riacceso la voglia di condivisione. I due Consigli Direttivi hanno deliberato che la Sezione CAI di Asti si sarebbe arricchita di un nuovo elemento: il Coro Amici della Montagna CAI Asti.

L’ufficializzazione è avvenuta durante la serata clou delle celebrazioni del 60° di fondazione: alla presenza del Coro ANA Milano, l’allora Vice Presidente del CAI Silvio Lungo Vaschetto e il Presidente del Coro Vincenzo Calvo hanno annunciato, in un Duomo stracolmo di gente, che il Coro Amici della Montagna tornava alle origini! È di marzo la stesura della Convenzione che regola i rapporti tra il CAI Sezione di Asti e il Coro Amici della Montagna, ora CAI Asti. Questa convenzione, frutto del lavoro pragmatico e meticoloso dei due direttivi, si è avvalsa del contributo fondamentale dell’allora Presidente CAI Franco Gherlone, del suo Vice Silvio Lungo Vaschetto, del Presidente del Coro Vincenzo Calvo e del Vice Edoardo Carotta. Su tutto vi è stata l’attenta e precisa vigilanza dell’Avv. Mauro Bolla socio attivo del CAI.

Ora è realtà: i coristi saranno a tutti gli effetti soci CAI; si volta pagina, o meglio, si riprendono le pagine lasciate bianche, sicuri del reciproco accrescimento delle due realtà in prestigio e blasone.

L’aquila ad ali spiegate dello stemma del CAI comparirà a fianco dello stambecco del Coro Amici della Montagna e le note del Coro saranno a disposizione delle iniziative della grande famiglia CAI. Questa svolta ha già dato i primi frutti: alcuni soci CAI sono entrati a far parte del Coro e l’invito è rivolto a tutti coloro che intendono completare la propria dedizione alla Montagna attraverso il canto.

Dopo gli “allori” del 60° di fondazione non si “dorme”: in questo periodo si stanno predisponendo a repertorio nuovi brani e si procede all’inserimento dei nuovi coristi. Ad inizio aprile, nell’Assemblea annuale del Coro, sono state presentate proposte di modifica allo Statuto atte a recepire il nuovo “status” di Coro CAI. È stata inoltre rinnovata l’iscrizione all’Associazione Cori Piemontesi... L’entusiasmo non manca per le numerose iniziative da condividere innanzitutto con i nuovi… pardon vecchi... amici del CAI. Fra i diversi Maestri-Direttori ricordiamo il Maestro Armodio Cabiati che ha armonizzato molti brani per il Coro. Dal 2001 il complesso canoro è stato affidato al Maestro Flavio Duretto che ha saputo portare entusiasmo e nuove motivazioni. *** Nell’anno 2006, in occasione del 55° anniversario di fondazione, il Comune di Asti ha conferito al Coro l’Ordine di San Secondo.

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Gemellaggi Asti - Biberach Gemellaggio estivo Gli escursionisti del CAI di Asti e del DAV di Biberach si sono incontrati, dal 20 al 23 agosto 2015, ai piedi del Monviso, presso la Locanda Pian della Regina, per il consueto gemellaggio estivo.

Scrivono Andrea Accornero e Davide Bollano: “In questo bollente 2015 un weekend in montagna è perfetto, quindi perché non partecipare all’ormai classico gemellaggio italo-tedesco che quest’anno si svolge al Pian della Regina? Per due esordienti può essere un’esperienza interessante. Si può conoscere gente nuova, parlare e confrontarsi su cose diverse. Insieme abbiamo salito due cime nel gruppo del Monviso: il Viso Mozzo e Cima Meidassa, due escursioni di grande soddisfazione sia per noi che per gli amici tedeschi, guastate un po’ dalla nebbia che non ci ha permesso di godere appieno della vista sul Re di Pietra, ma almeno ha impedito all’“incavolatissimo” sole di farci arrosto!

Pensiamo che questo tipo di incontri meriterebbe, da parte nostra, qualche presenza in più (solo 9 italiani 84

e ben 19 tedeschi), ma possiamo ritenerci soddisfatti del fine settimana trascorso in amicizia, tra montagna, cene e un paio di merende che ci stanno sempre bene e ringraziamo i nostri amici per la loro partecipazione al gemellaggio 2015”.

Heinz Switek ricorda: “Dopo il tradizionale Brotzeit (merenda) con specialità tedesche ed italiane, nel pomeriggio del giorno di arrivo, 27 entusiasti escursionisti hanno compiuto, tra le nuvole, una breve gita intorno alla Locanda. Solo in serata, il Monviso, colorato dagli ultimi raggi di sole, si è mostrato in tutta la sua bellezza. Il giorno dopo siamo saliti al Viso Mozzo (m 3.010). Anche in questo caso, le nuvole ci hanno rovinato il panorama ma, per la gioia dei fotografi, l’imponente vetta del Monviso si è mostrata, anche se solo per un attimo. Dopo una lunga discesa, la buona cena piemontese ha completato una giornata di successo.

Sabato è iniziato con una sorpresa. Prima di partire per Cima Meidassa (m 3.187), dieci amici ci hanno raggiunto da Asti per compiere la gita con noi. Siamo quindi giunti ad una caserma in dismissione nei

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cui pressi un gruppo di volontari stava rimuovendo il filo spinato della II Guerra Mondiale.

Un significativo incontro tra diversi approcci alla convivenza pacifica degli europei: l’eliminazione di tracce di una guerra disastrosa e lo svolgimento di positivi gemellaggi internazionali.

La cresta di Cima Meidassa ci ha offerto una visione grandiosa su tutte le montagne dell’arco alpino francese. Poi un’emozione speciale: il Buco di Viso, primo traforo delle Alpi, scavato nel XV secolo, che rese possibile il trasporto invernale del sale dalla Valle del Rodano al Piemonte. È stato impressionante osservare dall’uscita ovest le Alpi francesi. Una splendida giornata!”.

La domenica il gruppo si è sciolto con la promessa di ritrovarsi il prossimo anno a Obernberg, in Austria, dal 18 al 21 agosto.

Trent’anni sono tanti: chi nel 1987 mi dava conforto nella salita aspettandomi e spronandomi, ora accusa la fatica e ha qualche difficoltà a mantenere il passo, mentre io continuo ad avere sempre la stessa “facilità” di progressione di allora (agile e scattante come un gatto di marmo). Questo mi porta a fare una riflessione sul ricambio generazionale che in questi anni non c’è stato: continuando così, inevitabilmente si giungerà alla fine del gemellaggio per “raggiunti limiti d’età” dei partecipanti.

I nostri amici di Biberach stanno facendo delle considerazioni sulle modalità di organizzare e di vivere il gemellaggio e si stanno interrogando sulla validità della formula attuale e su possibili diverse forme di incontro per mantenere viva questa splendida tradizione che tanto ha dato a chi ha partecipato; forse

30° Gemellaggio invernale Le riflessioni di Giorgio Pavesio: “3 - 6 marzo 2016: ce l’abbiamo fatta, sono passati trent’anni da quel 25 aprile 1987, quando un piccolo gruppo di soci della nostra Sezione saliva la cima dell’Adamello con un altrettanto piccolo gruppo di soci del DAV di Biberach, per celebrare in un luogo simbolo della storia e dell’odio fra nazioni il primo gemellaggio di sci alpinismo fra le due Sezioni. Abbiamo fatto tanta strada (e tanti metri di dislivello) insieme ed abbiamo cementato quel sentimento di amicizia che è l’anima dei nostri incontri; alcuni amici della prima ora non ci sono più, ma coloro che tengono vivo lo spirito del gemellaggio continuando sulla strada tracciata, li ricordano come fossero ancora presenti.

Ho partecipato al primo gemellaggio per la curiosità di stare qualche giorno con un gruppo di “tedeschi” e scoprire così le diversità che marcavano la differenza fra i due popoli. Trent’anni di frequentazione, prima esclusivamente durante il gemellaggio, poi combinando insieme qualche giorno di ferie in montagna, partecipando alle feste tipiche delle due città, ritrovandoci, quando possibile, fuori dalle occasioni ufficiali, hanno cementato una splendida e profonda amicizia fra persone che abitano in luoghi lontani e che, nonostante le poche possibilità di incontro, mantengono durante l’anno i contatti con i semplici gesti che abitualmente ci si scambia fra amici: la cartolina dalle ferie, la mail per avere notizie, la telefonata per la nascita del nipotino…

sarebbe giusto che anche noi ci ponessimo delle domande e ipotizzassimo delle risposte per cercare di mantenere vivo lo spirito di questi trent’anni.

Il trentennale è stato bellissimo: in una valle meravigliosa, nei pressi di Innsbruck, a Praxmar, nelle Alpi dello Stubai, in uno splendido rifugio/albergo posizionato all’inizio di innumerevoli possibilità di escursione, con tempo buono giovedì e venerdì, decoroso sabato, brutto per l’addio; il CAI ha donato una targa commemorativa e offerto magnum di Barbaresco, il DAV ci ha regalato una rivista sul trentennale che raccoglie foto e impressioni delle gite del passato... Che emozione!

L’anno prossimo saremo noi a dover organizzare e, come sempre, sarà un successo di pubblico e di critica”.

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La Castagnata sociale di Cristina Rolla Castagnata, intesa quale gita conclusiva dell’attività sociale estiva, così chiamata perché sempre effettuata ad inizio autunno

È grazie ai ricordi di Franco e di Elio, i due storici “castagnari”, che riusciamo a risalire alle origini di questa giornata sociale, tradizione consolidata della nostra Sezione.

Negli anni 1973-1974 si decise, su proposta di Franco Gentile, di organizzare, alla conclusione del Corso di Alpinismo, una piccola festa con distribuzione di castagne per gli appassionati accompagnatori di tutte le uscite, presso la Palestra degli Astigiani in Val Maudagna.

Pochi anni dopo, Vincenzo Brosio, vista la numerosa partecipazione e l’interesse suscitato, propose di programmare più accuratamente la giornata di “festa” aggiungendo la polenta.

Questa decisione comportò un’organizzazione molto più complessa. Un nutrito gruppo di soci si assunse quindi il compito di procurare pentoloni per la cot86

tura della polenta normale e di quella concia, bruciatori, bombole di gas, ingredienti vari, senza tralasciare la predisposizione dei trasporti e la scelta della località idonea allo scopo, cui seguivano la richiesta dei permessi necessari e gli accordi con le Autorità preposte.

Il giorno della Castagnata tutto il necessario veniva portato con mezzi propri sul luogo prescelto o in prossimità ed eventualmente caricato in spalla fino al punto di lavoro!

Naturalmente, come si suol dire, l’appetito vien mangiando… fu pertanto aggiunto un accompagnamento per la polenta: peperonata e salsiccia.

Ancora non soddisfatti si pensò ed attuò la distribuzione della colazione consistente in pane fresco e salumi, pane con gorgonzola e uva senza dimenticare

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la “soma d’aj”; è sottinteso che il tutto veniva accompagnato da ottimo vino ed acqua.

I commensali, sempre numerosi, giunti in loco con gli autobus o le proprie vetture, partecipavano con un contributo non più richiesto a partire dall’anno 2005. Prima di accodarsi per il piatto di polenta, erano liberi di fare le passeggiate consigliate nella zona.

Non sempre il meteo fu favorevole, si trovarono giornate con tempo anche decisamente brutto, ma si riusciva ugualmente a completare la festa. Inizialmente, solo per pochi anni, alcuni giovani organizzavano giochi per i partecipanti più piccoli.

A fine anni ’90 subentrarono normative sanitarie, relative alla preparazione e distribuzione dei cibi, troppo stringenti per le nostre possibilità; si decise quindi di appoggiarsi a Pro Loco che avrebbero pensato a tutto, tranne alle castagne ed al vin brulè. Così avvenne nel ’98 e nel ’99, ma i costi elevati, l’organizzazione sempre più articolata con tempi lunghi e le diverse esigenze dei partecipanti, imposero soluzioni di altro tipo.

Nel 2000, uno staff rinnovato, coadiuvato dai “mitici castagnari” ha quindi deciso di modificare l’offerta proposta, optando per la scelta di località con strutture ricettive (rifugi, trattorie, Pro Loco) in grado di accoglierci ed ospitare un certo numero di commensali, e con una zona, anche coperta in caso di maltempo, ove gli organizzatori potessero preparare le tradizionali caldarroste accompagnate dall’ottimo vin brulè.

La nuova formula è tutt’ora gradita dai numerosi partecipanti, pertanto in questi ultimi due decenni l’appuntamento si ripete, come da tradizione, la seconda domenica di ottobre quando soci, famigliari e amici dell’Associazione si ritrovano a trascorrere questa giornata in allegria, a conclusione delle molteplici attività annuali.

Nella mattinata sono proposte escursioni di diversa durata e difficoltà, sempre con l’ausilio degli accompagnatori sezionali; il pranzo è al sacco o, per chi lo preferisce, presso i locali della struttura prescelta; al pomeriggio la festa è allietata dalle immancabili caldarroste, dall’inebriante “vin brulè” e dalle deliziose leccornie dolci e salate offerte dai partecipanti.

Dal 2004 si uniscono a noi gli amici del C.R.A.S.L. (Circolo Ricreativo dei dipendenti A.S.L. di Asti).

Sempre di maggior rilievo è inoltre la presenza dell’Alpinismo giovanile. Cristina, Sergio, Franco, Elio, Bruno, Emilio, Gianni, unitamente allo staff, confortati dalle 200-250 presenze annuali, cercano di individuare località sempre nuove per far conoscere ed apprezzare angoli diversi delle nostre amate montagne piemontesi. Tra i luoghi proposti in questi cinquant’anni, ricordiamo Balme, Val Chiusella, Croce Fieschi, il Santuario di Valmala, Bousson, San Bernolfo, Chiapili di Sotto, Montebracco, Celle di Macra, Becetto di Sampeyre, Roccabruna, Montemale, Valloriate, Caprauna, Merana, Montoso…

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L’Ordine di San Secondo Giovedì 26 settembre 2013, nell’ambito di una manifestazione pubblica alla presenza delle Autorità cittadine, è stato consegnato alla nostra Sezione l’Ordine di San Secondo.

Lo speciale riconoscimento, tradizionalmente attribuito a persone o enti che si sono particolarmente messi in luce con attività, azioni e iniziative a favore della comunità astigiana, era stato assegnato il 7 maggio 2013 nella ricorrenza di San Secondo; consiste in una spilla in metallo prezioso del Santo Patrono di Asti e in una pergamena riportante l’immagine del Santo, lo stemma del Comune, il nome dell’insignito e la motivazione.

L’archivio storico Nel 2004 abbiamo aderito al progetto pilota nazionale per censire, recuperare e conservare, secondo criteri tecnici e scientifici uniformi, gli archivi storici sparsi sul nostro territorio, finanziato dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali e coordinato dal Dott. Gino Bogliolo della Provincia di Asti. La nostra socia Wanda Gallo, archivista professionista, su mandato del Consiglio Direttivo, ha proceduto al riordino e alla schedatura sia del materiale cartaceo, dal 1921 al 2003, sia del consistente repertorio fotografico, con l’elaborazione di un inventario informatico.

Questa operazione si è conclusa con il sopralluogo e la certificazione da parte del funzionario preposto della Soprintendenza Archivistica per il Piemonte e la Valle d’Aosta in data 24.01.2006.

Tale attestazione formale conferma l’interesse storico e il rilievo pubblico di questo nostro patrimonio per cui ci vincola a non alienarlo né smembrarlo, a conservarlo in un luogo idoneo e renderlo accessibile e consultabile.

Sempre nel 2006 si è proceduto alla digitalizzazione delle nostre 1.400 fotografie storiche, per migliorarne la fruibilità.

Tutto ciò ci colloca tra i soggetti che hanno a cuore la tutela, la gestione e la valorizzazione del patrimonio culturale locale e queste prerogative, unitamente al requisito di oltre 80 anni di fondazione, ci hanno consentito di venire annoverati nell’Albo Regionale delle Associazioni Sportive e Storiche Piemontesi.

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Luca, 17 marzo 2021 di Andrea Bormida Abbiamo chiesto ad Andrea Bormida, Istruttore Nazionale di Sci alpinismo, uno dei nostri giovani più promettenti, capace di scendere pareti estreme e compiere arrampicate di grande difficoltà, di narrarci alcune delle sue imprese. Andrea ha invece preferito scrivere, anziché delle sue indubbie capacità, di un’amicizia, di sentimenti e forti legami…

Questa scelta, dopo un attimo di sconcerto, ci ha riportato alle parole scritte circa 50 anni fa, da un altro grande alpinista, Gene Novara, in ricordo del suo amico Enzo Faletti.

Inevitabile per noi una riflessione, la nostra Sezione annovera sì tra le sue fila sportivi dalle memorabili imprese, ma soprattutto “grandi” uomini che celano una profondità d’animo non comune.

Sarà forse questo il più importante obiettivo raggiunto nei nostri 100 anni di storia sezionale?

Non nascondo che la richiesta di alcuni componenti della Redazione di Asti Montagna di parlare della mia attività in montagna, iniziata proprio al CAI di Asti, mi abbia lusingato. Ho cominciato a frequentare la Sezione verso la fine degli anni ’90, ancora liceale. Il CAI mi ha offerto l’occasione di conoscere persone e di fare esperienze dando sfogo ad una passione che fin da ragazzino ho coltivato. Ho sempre 90

cercato di frequentare la montagna in tutte le stagioni con una predilezione per l’alpinismo e lo sci alpinismo. Quest’ultima sbocciata con prepotenza nella primavera del 2001.

Dopo una certa riflessione, qui però decido di declinare questo invito a parlare della mia attività.

Il 17 marzo 2021, Valle del Gran San Bernardo, in un incidente in valanga ci ha lasciato Luca.

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Luca Pandolfi è anche lui Astigiano, non penso abbia mai fatto parte del Sodalizio del CAI con una tessera o altro, anzi, dissacratore come era, facilmente ha sempre un po’ schernito il prototipo del “caino” in giubba rossa, patacca ben in vista e tono di voce “da farsi riconoscere” durante le tappe ai rifugi.

Luca era uno snowboarder, certamente uno dei primi in Italia che ha cercato di vivere della sua passione, una passione per la neve e la tavola da snowboard. Luca non era un alpinista nel senso stretto del termine, era un viaggiatore e uno sciatore. Un avventuriero romantico. Eclettico e naif.

Luca l’ho conosciuto nel modo più strano che si possa immaginare. Al CAI di Asti.

Agli inizi degli anni 2000, appena approdato all’università, ero solito passare il venerdì sera in Sezione per capire se c’era qualcuno con cui combinare le uscite del week end. In quei mesi avevo trovato in Diego Margiotta un socio abituale ed affidabile (ancora adesso ci leghiamo o sciamo assieme seppur con meno frequenza), anche lui forse un po’ fuori dai canoni del Sodalizio. Stavamo parlando del più e del meno quando sulla bacheca della Sede di Viale alla Vittoria rimango colpito da un post che definire atipico per quel luogo forse è riduttivo: “Cerco soci per sciare il Marinelli”… Luca e il numero di cellulare.

In quegli anni sciare il Canalone Marinelli sulla parete Est del Monte Rosa ci appariva una cosa grandiosa e ancora ben al di fuori delle nostre possibilità. Rimasi così interdetto e incuriosito che mi segnai quel numero, non certo per organizzare quella discesa

(che avvenne per me quasi quindici anni dopo) ma perché avevo capito che avrei trovato a rispondermi un personaggio fuori dagli schemi, malato di neve, una persona che meritava conoscere.

Con Luca divenimmo amici, abbiamo condiviso per lo più giorni in fuori pista dopo le grosse nevicate invernali sul Rosa intorno al 2003-2004 quando la corsa alla polvere stava appena iniziando e gli ski bum del Nord Europa erano i primi a fare sfoggio di alcuni sci larghi. Passavamo a prendere Luca sulla strada che porta a Gressoney, dove si era stabilito. Sapeva di fuliggine quando saliva in macchina perché il suo appartamento era riscaldato solo con una piccola stufa a legna. Ridemmo quando ci raccontò che la ragazza dell’epoca era parecchio adirata perché a stare in quel sottotetto umido si era ammalata. Lui era venuto a sciare con noi.

Poi Luca si spostò a Chamonix e credo di non aver più sciato con lui. Ci sentivamo regolarmente, ci insultavamo regolarmente, ci canzonavamo regolarmente. Gli dicevo che non aveva gamba. Intanto lui aveva sciato il Gran Couloir della Sentinella Rossa sul versante Brenva del Bianco. Avventura psichedelica per modi e concezione.

Pando l’aveva sciata, così come era stato in una miriade di posti con quel suo fare scanzonato e la sua tavola sotto ai piedi.

Questo Sodalizio mi ha dato tanto specie in termini umani. Mi ha dato l’occasione anche di conoscere un altro Astigiano. Il Pando.

Ciao Luca.

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Diretta al Centenario - Punta Venezia di Diego Gherlone Come sempre le idee migliori arrivano così, un po’ a caso…

Dopo un’uscita del Corso di Alpinismo si stava discutendo su cosa poter fare per festeggiare il Centenario della nostra Sezione. Si volava con il pensiero a spedizioni ed avventure del passato, ma purtroppo il tempo libero per poter organizzare quel tipo di “viaggi” è sempre meno. Ad un certo punto Elio ci riporta all’attenzione con il suo tipico “Di, banda ad lőfii, alura… apriamo una via su Punta Venezia?”.

Wow... che splendida idea!

Elio ci spiega di aver avvistato, proprio durante una giornata del Corso una bella linea, che parte dalla base della parete e dovrebbe sbucare direttamente al bivacco situato proprio sotto la Croce. Così quel giorno tra una battuta e l’altra si discute più o meno seriamente su come organizzare il tutto e si torna a casa.

Dopo qualche tempo… taaacc sul mio cellulare 92

compare un gruppo whatsapp “Diretta al Centenario Punta Venezia”. Ah… allora qui si fa sul serio!

Iniziano i preparativi; come prima cosa si decide che la via deve essere “aperta” dal basso e che deve mantenere una difficoltà media in modo tale da poter essere percorsa anche dai futuri corsi CAI. La parete verrà allestita con spit dove necessario, ma lasciando la possibilità di integrare con protezioni veloci. Arriva finalmente anche una bella fotografia di Punta Venezia dove viene tracciata l’ipotetica linea individuata. La nuova via dovrebbe salire tra due vie già esistenti, Erika e La via dei Torrioni.

Nei mesi successivi prosegue l’organizzazione pratica dell’avventura, si acquista il materiale, si preparano i trapani e si affilano le punte. Per fortuna la parete si trova a cinque minuti dal Rifugio Vitale Giacoletti, appoggio perfetto per i lavori. Questa è un’ottima soluzione anche perché, essendo la parete di 400 m,

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stimiamo che saranno necessari due interi week end per concludere l’allestimento e probabilmente ci saranno 10/12 tiri di corda.

Il 20 settembre 2019 si parte! Carichi come muli, dal Pian del Re ci avviamo verso il Giacoletti. Naturalmente a noi piace trovare lungo, nonostante il comodissimo rifugio, decidiamo di dormire in tenda quindi, oltre al molto materiale per l’ascensione, aggiungiamo anche sacchi a pelo e tende! Non so perché andarci a creare quest’ulteriore disagio, ma forse è stato naturale allestire un vero e proprio campo base per entrare maggiormente nell’ottica dei “primi apritori”.

Montato il campo si iniziano i lavori in parete. Tre cordate composte da tre persone si dividono il lavoro dell’apertura. C’è chi va da primo di cordata con friend e chiodi, chi fora per gli spit, chi li avvita, chi pulisce la via, chi passa e si segna la descrizione per la relazione. Trovare la via corretta non è così facile e spesso improvvisiamo riunioni in parete per decidere la direzione più logica aiutati da alcuni membri della squadra rimasti a terra con le radioline.

Il secondo giorno inizia all’alba perché il meteo sembra peggiorare nel pomeriggio.

Scaliamo i primi tiri già fatti e proseguiamo nella realizzazione di altri tre, prima di doverci ritirare per la pioggia ed il freddo.

Sul sentiero di ritorno ragioniamo su quanto fatto fino ad ora; la via è bella! Ottima roccia compatta e della difficoltà che cercavamo. Abbiamo esagerato un po’ sulla partenza del secondo tiro che così com’è, sarebbe gradata 6b; la prossima volta che si tornerà, cercheremo una variante più “umana”.

L’idea è quella di concludere la via in tarda primavera in modo tale da renderla di dominio pubblico durante l’estate.

Purtroppo a causa delle restrizioni imposte a seguito della pandemia di Covid-19 non sarà possibile, così ci ritroviamo di nuovo al nostro campo base vicino al Giacoletti ad agosto 2020.

Metà via è fatta, e noi siamo carichi come non mai.

Le prime cordate raggiungono velocemente l’ultima sosta attrezzata l’anno precedente, mentre le cordate dietro verificano che soste e spit siano tutti in ordine.

Quest’anno siamo già rodati nei meccanismi e siamo molto veloci, la seconda parte della via è leggermente più appoggiata, ma bisogna fare attenzione

alla roccia che non sempre è di ottima qualità. In più dobbiamo cercare di salire più dritti possibile per evitare di incrociare le vie a fianco.

Metro dopo metro, con molta goliardia arriviamo a quella che sembrerebbe l’ultima sosta e, proseguendo su facili balze rocciose, ad un certo punto vediamo davanti a noi il Bivacco di Punta Venezia! È fatta… “Diretta al Centenario” sbuca esattamente dove ci eravamo prefissati! È un momento di grande gioia e soddisfazione.

Ci abbracciamo tutti e dopo le foto di rito scendiamo verso il rifugio che ci aspettava già con la pasta nel piatto, ma soprattutto buon vino per i festeggiamenti. È stata una gran bella avventura che ci ha permesso sia di crescere in esperienza che di legare ancor più il rapporto del gruppo.

Il pensiero che il nostro lavoro permetterà ad altre persone di scalare divertendosi come facciamo noi tutte le domeniche è molto appagante, ma quello che rende ancor più speciale ed un po’ mistica questa avventura, è sapere di essere i primi esseri umani ad aver toccato quella roccia da quando è stata creata. Impagabile.

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CAI ASTI 100 anni di montagna

La palestra di arrampicata indoor di Alberto Pautasso Tutto ha inizio nel 2006, quando Pietro Scassa, padre del grande arrampicatore astigiano Severino Scassa (primo 8c+ italiano, primo europeo a salire un 8c in giornata, oltre a svariate partecipazioni a competizioni internazionali), inizia i lavori per la palestra di arrampicata del CAI di Asti.

Come un moderno Efesto, forgia nella sua bottega tutte le staffe e i supporti per i pannelli e, grazie agli sforzi non solo fisici (dato che molte giornate in falesia sono state sacrificate) dei volontari e Istruttori del CAI, la palestra vede la luce. Da quel momento la palestra diventa il luogo di riferimento degli arrampicatori astigiani, una specie rara in quegli anni, che tra un fine settimana e l’altro combattono la nostalgia da roccia con lunghe sessioni di allenamento o con giocose serate all’insegna di boulder e circuiti tracciati sul momento, birra calda e magnesite.

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Nel 2011, Marco Giampietri, Istruttore Nazionale di Arrampicata, e Alberto Pavese, giovane e appassionato arrampicatore con importanti realizzazioni a curriculum, fondano la ASD Asti Climbing.

Da quell’anno l’ambiente dell’arrampicata astigiana aumenta notevolmente il numero di seguaci e tra la migliorata gestione, la qualità della tracciatura e l’annuale pulizia e rimontaggio delle prese, la palestra propone un ambiente funzionale a divertimento, allenamento e condivisione. Oltre ad offrire un approdo sicuro per i fanatici astigiani della resina, l’Asti Climbing inizia la collaborazione con le scuole astigiane e i centri estivi per lezioni e allenamenti, propone inoltre corsi per bambini dai 5 ai 13 anni che vogliano avvicinarsi al mondo dell’arrampicata.

Nella primavera del 2020 il muro ha goduto di un nuovo e importante restauro con un’intera sezione

CAI ASTI 100 anni di montagna

La prima scalata di Lucio Rinetti L’entusiasmo di un bambino, Lucio, che oggi è una delle nostre punte di diamante, Istruttore Nazionale di Alpinismo, membro della Scuola di Alpinismo LPV Mi chiamo Lucio, ho nove anni: anch’io sono venuto con la mia famiglia all’Accantonamento estivo del CAI di Asti. Il Rifugio Galassi è una vecchia caserma ora restaurata; di fianco c’è un campo da bocce dove trascorro momenti divertenti. Siamo circondati da alti monti, tra cui spicca l’Antelao.

Oggi cinque agosto (1993 - ndr) sono stato invitato a partecipare ad una gita impegnativa.

Ieri abbiamo fatto i preparativi per questa arrampicata su roccia: mi sento molto eccitato perchè so di dover affrontare la mia prima via ferrata.

Nello zaino papà e mamma hanno la corda, i moschettoni, le fettucce e i baudriers o imbragature.

Il sentiero che porta alla via ferrata passa nel mezzo di un ghiaione scosceso: finalmente eccoci sotto la parete! Sono in cordata in mezzo alla mamma e al papà che mi aiutano a salire e mi assicurano alla corda fissa. Io mi sento sicuro e tranquillo, anche se la salita è molto aerea.

Quando arrivo in cima sono stanchissimo, ma tanto contento perchè sono arrivato bene e tutti gli amici si congratulano con me.

Questa sera in rifugio ci sarà grande festa in mio onore, come facciamo sempre per tutti quelli che hanno terminato con successo una scalata.

integralmente ricostruita con pannelli di altissima qualità da Explore Climbing, società gestita da Alex Ruscior e Read Macadam, canadese residente ora in Italia, che ormai da anni costruiscono palestre e muri da arrampicata di invidiabile livello. Il nuovo muro, costellato dalle modernissime (e costosissime) prese in poliuretano, promette emozioni e dita spelate a tutti i climber della provincia.

Dopo le chiusure dovute alla pandemia (da febbraio a maggio 2020 ed ancora nell’ottobre 2020), dal 24 maggio 2021 la palestra è nuovamente operativa con nuovi boulder, circuiti, trave, pan Gűllich e un assortimento di strumenti per l’allenamento a secco a disposizione di chiunque voglia esercitarsi per salire la via che lo ossessiona, per risolvere blocchi sempre nuovi di tutte le difficoltà o anche solo per passare una serata in compagnia tra magnesite e resina al grido di: Alè!

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CAI ASTI 100 anni di montagna

Le sedi sociali nella storia di Enzo Brosio e Daniela Gonella I primi astigiani che sentirono il bisogno di trovarsi per frequentare insieme la montagna risalgono a cento anni fa. Erano iscritti alla Sezione di Torino. Poco alla volta il numero degli iscritti aumentò, la passione per la montagna si diffuse anche ai giovanissimi e cominciarono ad apparire i primi sciatori. Nel 1921 i soci furono ottantuno e il segretario Passerini rag. Guido inoltrò alla Sezione Centrale, allora in Torino, la domanda per istituire la Sezione di Asti. La richiesta fu subito accettata ed il 15 marzo del 1921, con la prima assemblea iniziò la vita della nostra Sezione con l’elezione del primo Presidente: l’avvocato Alessandro Gay. La prima sede fu una stanza con retro, presa in affitto da un negoziante di vini, al piano terreno nel cortile di uno stabile (ancora esistente) in Via XX Settembre angolo via Solari che era frequentata il venerdì. La bella tavola in noce con piano ribaltabile che fa ancora bella mostra di sé, e qualche sedia, erano l’unico arredo. A quei tempi il torpedone, prenotato per le gite sociali, raccoglieva i 96

soci all’incrocio delle vie senza ostacolare il traffico.

Nel 1937 la sede fu trasferita in Via Cesare Battisti, posizione più centrale, ma anche più angusta, sistemata nel piccolo retro di un negozio di mercerie fra scansie di bottoni e filati. D’inverno il centro era riservato a una stufetta in ghisa a legna o carbone che d’estate lasciava il posto alla tavola già descritta. Così fu per ventitré anni.

Nel 1960 con la chiusura dell’esercizio di mercerie, che cessò l’attività, la nostra sede fu spostata in fondo al cortile dello stesso stabile in una stanza al piano terreno senza finestre e, manco a dirlo, assai ridotta. Si rinunciò alla stufetta per far posto a pezzi delle scansie dei bottoni che (con molta fantasia) servirono da libreria. Una scansia è ancora in uso presso l’attuale sede in fondo allo stanzino usato come magazzino.

Nel 1965 con l’aumento dei soci e lo sviluppo delle attività è sorto il desiderio di una sede più ampia, con servizi, anche modesta, ma con l’aspetto di una sede e con una bella targa sull’ingresso. L’arredamento comprende-

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La nuova sede

va la tavola e le sedie che in più occasioni aumentarono di numero. Un socio recuperò senza spese, qualche mobile “900”, uno storico ciclostile, una macchina da scrivere “Olivetti Mod. 40”, ma ciò che contò di più fu il termosifone centrale; i vecchi ricorderanno inverni “di gloria”. Una sede degna di essere inaugurata e per quel dì di grande festa, furono invitati il Presidente Generale del CAI Senatore Renato Chabod, le autorità locali con il Sindaco Giraudi, due guide alpine valdostane Franco Garda e Giometto e il maestro di sci Francesco De Florian, campione azzurro di Crissolo. Sempre quel giorno, la sede di Corso alla Vittoria, fu benedetta da don Massimo Sigliano, assistente ecclesiastico della Casa della Gioventù Astigiana e nostro socio CAI. Molti giovani astigiani amanti della montagna frequentarono la Cialvrina di Gressoney (baita da lui trasformata in rifugio) trascorrendo giorni di allegre vacanze e con lui ebbero anche la possibilità di fare tutte le salite e traversate del versante italiano del Monte Rosa.

Negli ultimi anni comparvero il telefono, la fotocopiatrice, il computer, un nuovo arredamento. Oggi (2001 - ndr) la sede è tornata piccola, siamo seicentocinquanta soci, tra i quali, alcuni, coraggiosi e volenterosi, si stanno prodigando per procurarcene una nuova. A costoro tanti auguri e un grosso grazie.

È il 24 aprile del 2004: in una giornata calda e luminosa, alla presenza delle autorità locali, soci, simpatizzanti ed amici, si avvera quello che per noi rappresentava un piccolo grande sogno… Dopo anni di discussioni, riunioni, richieste, dinieghi, si inaugura finalmente la nostra nuova sede.

Alla fine del secolo scorso, dopo 40 anni trascorsi negli esigui locali seminterrati di Corso alla Vittoria, si sentiva fortemente l’esigenza di avere nuovi e più ampi spazi per lo svolgimento delle attività sezionali.

Le ricerche di una nuova collocazione, all’inizio, sembravano infruttuose, ma la presenza del muro di arrampicata, (pardon: “struttura artificiale polivalente per l’allenamento e l’addestramento delle attività alpinistiche”), che già avevamo contribuito a realizzare nel 1991 in ciò che rimaneva delle Ex Ferriere Ercole, l’intenzione del Comune di ristrutturarne la parte restante, la convinta ricerca da parte di tutti e, soprattutto la costanza e la caparbietà del nostro Presidente Carlo Ventura, ci hanno fornito la possibilità di costruire i locali della nostra nuova sede.

Dopo aver ottenuto dal Comune di Asti la concessione di utilizzare gli spazi adiacenti al nostro muro, cominciava la fase più complicata: redigere un proget97

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to, trovare le risorse finanziarie, individuare l’impresa costruttrice, seguire i lavori e portarli a compimento.

Con l’amico e collega Franco Lerma, abbiamo l’onore di occuparci di tutta la realizzazione tecnica e l’onere di riuscirci; non è un compito facile, ma è una bella sfida: due architetti, appassionati di montagna, frequentatori della Sezione da molti anni, non potrebbero avere occasione migliore per dimostrare l’affetto che li lega al CAI. Ci mettiamo subito al lavoro; i tecnici per la stesura del progetto, i membri del Consiglio, affiancati dai soci più assidui e volenterosi per la ricerca delle risorse finanziarie interpellando la Regione Piemonte e la Fondazione della Cassa di Risparmio locale, e indicendo una sottoscrizione straordinaria, aperta a tutti.

Intanto il progetto prende forma, con continui confronti con i Consiglieri per condividere le esigenze e le richieste e, alla fine, il Comune ci mette a disposizione un’area di 260 m², all’interno del Capannone, proprio di fronte al nostro “muro”.

Realizziamo quindi due piani, di circa 115 m² ciascuno: al piano terreno, l’ingresso ci porta direttamente in un’ampia sala riunioni, in un locale magazzino, in un bagno ed alla scala che collega il primo piano; all’esterno, sul lato del muro di arrampicata, prenderà posto uno 98

spogliatoio per gli arrampicatori in allenamento. Al piano superiore sono previsti un locale per la segreteria, la biblioteca, un blocco di servizi, un archivio ed un ampio spazio aperto a disposizione dei soci che si riuniscono per condividere esperienze, raccontarsi e scambiarsi informazioni, oltre agli immancabili auguri natalizi piuttosto che festeggiare qualche lieto evento.

All’inizio del 2003, confortati anche dalla forte adesione alla sottoscrizione da parte di tanti amici, la scelta dell’impresa costruttrice cade sull’impresa Malabaila e Arduino che, oltre ad essere un importante operatore del settore, si rivela molto sensibile alle nostre tematiche e ci supporta sempre.

I lavori procedono velocemente e all’inizio del 2004, è quasi tutto pronto; terminiamo le pratiche autorizzative, portiamo a compimento le finiture, arrediamo gli ambienti, compiliamo l’elenco degli inviti e siamo pronti per l’inaugurazione ed il trasferimento definitivo dalla vecchia sede. Con non poca nostalgia, specialmente noi, meno giovani, lasciamo i locali di Corso alla Vittoria, dove, per tanti anni ci siamo riuniti ed abbiamo organizzato le nostre attività; andiamo nei locali nuovi e più accoglienti, nei quali avremo più spazio e più confort, ma conserveremo una nota malinconica per la vecchia sede.

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Past Presidents Festeggiare cento anni di attività e non ricordare chi, con attaccamento al Sodalizio, ha profuso energie e tempo libero nel guidare la Sezione, sarebbe un torto inqualificabile. A parte Fulvio Ercole, già menzionato precedentemente per i suoi quarant’anni di presidenza, vogliamo citare nelle pagine che seguono i cinque Presidenti che si sono alternati dal 1988 al 2021.

I Past Presidents sono tutt’ora attivi e frequentano la Sezione e le montagne. Li ricordiamo facendoli esprimere in una tavola rotonda, pronti a parlare della loro passata esperienza alla guida della Sezione.

Intervista di Sergio Ardissone Franco Gherlone (2009-2011 e 2017-2021): è stata una motivazione naturale. Mi sono iscritto come socio, poi mi sono iscritto alla Scuola di Alpinismo, e così sono entrato nei meccanismi organizzativi del Sodalizio. Dopo qualche anno trascorso come Consigliere ho accettato l’incarico della presidenza con grande piacere considerandolo un coronamento importante alla mia attività di volontariato.

Silvio Lungo Vaschetto (2011-2017): subentravo a Franco con la consapevolezza che tanti speravano che accettassi. Anch’io ho assunto l’incarico con mille paure domandandomi se sarei stato in grado di proseguire, e magari migliorare l’operato dei miei predecessori.

Qual è stata la motivazione per la quale avete accettato la nomina dal Consiglio Direttivo?

Toni Rinetti (1988-1991): dopo la sua quarantennale presidenza Fulvio Ercole mi fece capire che avrebbe gradito prendessi il suo testimone, e l’ho fatto con spirito di servizio e molto affetto nei suoi confronti, ma anche con molta paura, succedendo a questa figura storica.

Claudio Nuti (1991-2003): ho preso le redini del CAI dopo Toni, per un periodo più lungo, 4 mandati, e penso, con i miei trent’anni, di essere stato uno dei presidenti più giovani della Sezione. E’ stato per me motivo di orgoglio guidare il CAI per ben dodici anni.

Carlo Ventura (2003-2009): la mia motivazione ha origine già dalla vice presidenza del mandato precedente. Avevo già chiesto l’incarico di verificare la fattibilità di una nuova sede. Questo è stato il filo conduttore dei miei 2 mandati.

Durante il vostro mandato, cosa pensate di aver dato come valore aggiunto alla Sezione?

Toni: ho cercato di “girare pagina”, si trattava di mantenere le buone abitudini consolidate, provando nel 99

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contempo a modernizzare la Sezione sia dal punto di vista delle attività che nel modus operandi. In tre anni di presidenza non si sono fatte rivoluzioni, si è dato però un forte impulso alle gite sociali anche di taglio alpinistico. Si è sviluppato il gemellaggio con Biberach, legame che perdura ancora oggi. Ho terminato il mio mandato con l’organizzazione del Convegno LPV ad Asti che ebbe un buon successo.

Claudio: ho continuato sulla falsariga di Toni, portando avanti per più tempo la ricerca di rinnovamento.

Abbiamo fondato la Commissione di escursionismo LPV e la Commissione centrale di escursionismo che tutt’ora vige e che ha portato l’attività a pari dignità delle altre, sono stato tra i primi accompagnatori di escursionismo. Abbiamo avuto l’onore di avere Reinhold Messner ospite ad Asti, siamo stati come Sezione nella Commissione medica centrale ed io ho presieduto quella LPV. Carlo: mi sono concentrato soprattutto sulla realizzazione della nuova sede. Claudio mi ha dato mandato, fiducia e carta bianca nel tentativo di realizzarla; da presidente ho avuto l’onore di inaugurarla e completarla grazie anche ad una commissione di soci che mi hanno coadiuvato a vario titolo, ognuno per le proprie competenze.

Franco: durante il mio mandato, oltre a svolgere i normali compiti di collegamento tra le numerose attività della Sezione ho curato in modo particolare i rapporti con la Scuola di Alpinismo integrando le diverse attività. Non ultimo ho contribuito all’ampliamento della Palestra di arrampicata indoor e stimolato la collaborazione con l’ASD Asti Climbing per la gestione generale della struttura.

Silvio: nei 6 anni della mia presidenza si sono sviluppate le attività culturali, creando programmi di serate in Sede con la partecipazione di soci e personaggi esterni.

Nel frattempo iniziava a prendere avvio l’escursionismo nelle nostre terre e colline. Ecco quindi che Comuni, Pro loco, Associazioni culturali del territorio ci chiedevano di organizzare con loro e per loro delle escursioni, creando così le basi per lo sviluppo della Sentieristica.

Quali sono state le difficoltà più grandi che avete trovato nel corso del vostro mandato?

Toni: conciliare l’impegno del CAI, che non era poca cosa, anche nel fine settimana con il mio lavoro che mi 100

ha preso moltissimo e soprattutto si svolgeva fuori Asti.

Claudio: la stessa difficoltà esposta da Toni.

Carlo: certamente il reperimento dei finanziamenti per la realizzazione della nuova sede. Ho voluto che fosse finanziata in parte importante con il contributo dei soci attraverso la formula di un prestito straordinario di cui molti non hanno chiesto la restituzione.

Oltre a ciò la ricerca di finanziamenti da parte della Regione e della Fondazione della Cassa di Risparmio che hanno richiesto un iter burocratico ed una costanza non indifferenti.

Franco: una difficoltà tangibile esiste nell’amalgamare lo spirito delle numerose attività della Sezione.

Ma la difficoltà più grande che ho incontrato è stato l’impatto burocratico con la Sede Centrale. La Sede di Milano è strutturata quasi come un’azienda privata, con i propri uffici competenti e i relativi incaricati e da essa vengono diramate circolari e richiesti adempimenti stringenti che le Sezioni periferiche devono applicare in tempi precisi, pur potendo disporre unicamente di volontari che dedicano al Sodalizio solo il proprio tempo libero.

Silvio: la difficoltà più grande che deve affrontare ogni presidente è mantenere ottimi rapporti tra tutti i collaboratori in modo da favorire un buon lavoro in armonia.

Pensate che la nostra Sezione in futuro avrà ancora un ruolo fondamentale di aggregazione per gli amanti della montagna astigiani?

Toni: senz’altro, anzi deve perché è il suo obiettivo, la sua missione. Una missione che ovviamente si evolve col tempo. L’attività sportiva è fin troppo presidiata, la vera sfida che attende il CAI è quella dell’ambiente perché il cambiamento climatico sta stravolgendo le montagne, è cambiato il modo di andare in montagna, non puoi più fare salite su ghiaccio dopo giugno, le montagne cadono a pezzi, il clima è impazzito… Il CAI è uno dei tanti players qualificati che devono fare proposte, educare al rispetto dell’ambiente in modo da limitare i danni; ha il vantaggio di parlare a nome di 300-400.000 soci.

Claudio: il CAI un tempo era un gruppo di amici solidali che condividevano una passione, adesso deve cercare di diventare una scuola, non di alpinismo o di escursionismo; una scuola dove gli allievi imparano ad essere dei buoni cittadini, degli appassionati all’ambiente montano che deve essere tutelato. Ho visto dei

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cambiamenti devastanti, questo deve farci riflettere e questa riflessione dovrebbe essere trasmessa alle nuove generazioni affinché, per quanto possibile, riescano ad intervenire nel frenare un processo drammatico per tutta l’umanità.

Carlo: condivido l’interpretazione del futuro del CAI, sia per quanto riguarda l’aspetto ecologico, ambientale, climatologico, sia per l’aspetto educativo. Al CAI è stato affidato a livello nazionale l’insegnamento dell’alpinismo oltre che la frequentazione della montagna. C’è un ulteriore aspetto che sottolineo, quello della socializzazione. C’è modo e modo di vivere la socialità, in maniera civile, consapevole, rispettosa dei diritti e delle aspirazioni altrui; socialità sia all’interno dell’associazione, sia verso l’associazionismo esterno. La materia prima del CAI non è la montagna, ma sono gli associati; il CAI deve gestire gli associati e metterli nella condizione di andare in montagna nella maniera più consapevole possibile, ma collettivamente godendo la socialità.

Franco: sicuramente sì, anche se le modalità di approccio alla Sezione saranno meno reali e più virtuali. Non dobbiamo dimenticare che il CAI e le sue Sezioni hanno il dovere di portare avanti un importante ruolo didattico e culturale sia in campo storiconaturalistico che in quello tecnico-alpinistico.

Silvio: posso sottoscrivere quanto detto dagli altri. Il CAI è un’associazione culturale prima di essere un’associazione sportiva, quindi insegna ad andare in montagna, la cultura, il rispetto dell’ambiente e della natura che è il rispetto della propria vita.

Quale potrà essere il rapporto tra il CAI e i giovani?

Toni: questa è una vera scommessa perché i giovani oggi sono molto distratti da stimoli che vent’anni fa non esistevano, penso al ruolo dei social che hanno un po’ tradito le aspettative, il loro scopo avrebbe dovuto essere un supporto di informazione, di collegamento, di socialità, invece oggi non danno ai giovani una visione corretta della realtà e non consentono loro di crearsi una propria autonomia di pensiero. Quindi credo che il CAI debba fornire un’“educazione” non pedissequa e di tipo tecnico, ma rivolta ad osservare, confrontarsi, discutere e ad aprire gli occhi sui problemi e sul futuro della montagna, i monti fra cent’anni rischiano di essere dei mucchi di pietre. Questa non è solo questione

di estetica, ma anche di sopravvivenza, poiché la mancanza di ghiacciai vuol dire mancanza di acqua e un clima stravolto. Infine i meno giovani devono mettere a disposizione la loro saggezza per creare un rapporto con i giovani. L’alpinismo è sempre stato uno sport emulativo, causa di morti e feriti e di una visione distorta del modo di andare in montagna. Il nuovo approccio deve essere improntato ad una maturità diversa.

Claudio: aggiungerei che il CAI potrebbe avere lo scopo di distogliere i giovani da una pseudo socialità legata ai social e a quello che è il mondo virtuale.

L’informatica nasce per raccogliere e condividere dei dati, non persone né emozioni, quindi dovremmo ritornare ad emozionare i giovani, e portarli a fare qualcosa di reale e non di virtuale. Se ci riusciamo in qualche modo, abbiamo risposto alla domanda.

Carlo: l’emozione chiave per “agganciare” i giovani e portarli in montagna con maggior consapevolezza e mandare avanti anche la tradizione del CAI, è la passione. In tanti anni di insegnamento dell’alpinismo, oltre alla disciplina, alle tecniche di sicurezza, ho sempre cercato di tramandare, in tanti giovani di diverse generazioni, la passione. Cosa fa di un giovane sportivo e promettente, un alpinista per tutta la vita è la passione per la montagna, che porta a conoscenza e rispetto.

Franco: il rapporto tra CAI e giovani è sempre stato conflittuale e continuerà ad esserlo. Quando ero giovane consideravo i “vecchi del CAI” come un mondo a sé stante; poi, col tempo, i giovani sono diventati loro stessi i “vecchi del CAI” e altri giovani li considerano obsoleti. Non bisogna temere questo dualismo tra “vecchi e giovani” perché esisterà sempre… per questioni anagrafiche, ma bisogna smussarlo cercando forme di incontro. Gli anziani sono portati a curare la storia e i ricordi della Sezione che sono fondamentali per avere un futuro, i giovani sono rivolti alle forme più moderne ed esibizionistiche della montagna perché è la loro natura a spingerli in quella direzione.

Silvio: ci siamo posti molte volte questa domanda. I giovani oggi sono distratti da tante forme di attività e di sport. Già dalla tenera età, i genitori li pongono nella condizione di provare le attività più disparate. Una volta cresciuti continuano questa ricerca senza riuscire a fermarsi; forse non riescono ad individuare qual è la vera attività cui appassionarsi. Parecchi poi nell’età lavorativa si dimenticano dell’attività sportiva. Speriamo che cambi questa mentalità.

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Il CAI di Asti e le sue attività • Scuola di Alpinismo “Franco Gentile” Alpinismo Arrampicata sportiva Arrampicata su Cascate di ghiaccio Sci alpinismo - Gruppo “Gianni Amerio” • Scuola Intersezionale di Escursionismo AL.AT • Alpinismo giovanile • Escursionismo • Gruppo Speleologico “Val Rilate” • Mountain bike • Racchette da neve • Sci di Fondo • Sentieristica

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Una vita di alpinismo Per una Sezione di pianura quale la nostra, affrontare le montagne, anche solo piemontesi, fu per molti anni difficile a causa della distanza e della penuria di mezzi di trasporto. Fu così che, fino alla fine degli anni ’40, furono pochi gli astigiani ad esercitare la pratica alpinistica.

A partire dagli anni ’50 l’alpinismo astigiano vide il formarsi di un gruppo di soci che, per capacità e qualità delle salite, seppero costruirsi un ruolo di primo piano.

Certamente la Scuola di Alpinismo “C. Barbero”, costituita nel 1968, fu fucina di ottimi alpinisti che seppero utilizzare l’addestramento loro fornito per compiere imprese non solo sulle montagne di casa. Furono salite di grande livello ma poco raccontate. È quindi un omaggio dovuto il ricordare sulle pagine di questa pubblicazione gli alpinisti astigiani di ieri e di oggi.

Per ragioni di spazio sarebbe impossibile elencare dettagliatamente tutte le salite, per cui ci siamo limitati, per ognuno di loro, a citarne le principali.

Questo nostro elenco è meramente esemplificativo e, al di là delle, speriamo perdonabili, dimenticanze, tanti sono i nomi impressi nella nostra memoria e tanti ancora verranno…

Anni ’40 - ’60 Corrado Barbero a cui fu intitolata per più di 40 anni la Scuola di Alpinismo sezionale, cadde sull’Aiguille Rouge de Triolet, travolto da una scarica.

Fulvio Ercole in gioventù gran frequentatore delle montagne valdostane.

Riccardo Garberoglio ha salito la Parete Sud del Dente del Gigante, il Père Eternel e compiuto la prima ripetizione della Ovest della Pyramide du Tacul.

Lorenzo Marcoz ha salito, con sei compagni, il Cervino nel 1947, ha salito il Père Eternel e compiuto la prima ripetizione della Ovest della Pyramide du Tacul.

Anni ’70 - ’80 Riccardo “Riky” Civarolo con Enzo Faletti, ha percorso la Cresta sud dell’Aiguille Noire de Peuterey, la traversata delle Grandes Jorasses e lo Sperone della Brenva.

Franco Gentile (vedi articolo a pag. 69) Franco “Cinin” Gherlone INSA e IA, ha scalato lo Sperone della Brenva, la Cresta Kuffner del M. Maudit, la Cresta Signal del M. Rosa, il Cervino, le Nord del Gran Paradiso e del Monviso.

Dario Ivaldi IA, ha scalato la Cresta Zmutt al Cervino, il Diedro Machetto alle Grandes Jorasses, la via degli Svizzeri al Grand Capucin, la via Gervasutti al Pic Gugliermina, la Cresta sud dell’Aiguille Noire de Peuterey e lo Sperone della Brenva.

Mario “Mene” Menegaldo IA, uno dei più forti, modesti e generosi alpinisti astigiani della sua epoca. Con Gene Novara fece la quinta ripetizione assoluta della via Gogna-Armando allo Scarason (nel Gruppo Marguareis), la Cresta Zmutt al Cervino.

Eugenio “Gene” Novara uno degli alpinisti astigiani più qualificati di ogni tempo, ha iniziato a fare alpinismo nel 1973. Ha compiuto salite soprattutto nel Gruppo del Monte Bianco, montagne a lui particolarmente care, vista la sua amicizia con Walter Bonatti, e in Dolomite. Tra le altre: il Pilastro Rosso del Brouillard, la via Bonatti-Ghigo al Grand Capucin, la via Major e lo Sperone della Brenva, il Pilone Centrale del Freney al Monte Bianco, il Pilier Bonatti al Petit Dru, lo Sperone Whymper e la Punta Walker alle Grandes Jorasses, 103

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la via degli Scoiattoli alla Cima Scotoni, la via Comici sulla parete nord alla Cima Grande di Lavaredo e poi due volte la salita alla nord del Monviso, la via Gogna allo Scarason.

Carlo “Charlet” Ventura IA, ha salito la via Bonatti al Grand Capucin e lo Sperone della Brenva, gli Speroni Whymper e la Punta Walker alle Grandes Jorasses, la Cresta Kuffner del M. Maudit, la via degli Scoiattoli alla Cima Scotoni (6° A1), la via Messner al Sass dla Crusc e lo Spigolo Vinci al Pizzo Cengalo.

Giorgio “Dodo” Viale Tenente Istruttore della Scuola Militare Alpina di Aosta. Nel 1975 “veleggiava” su difficoltà di grado elevato che negli anni seguenti verranno considerate di 7° grado. Tra le altre ha aperto una nuova via sulla Punta Galisia parete S/E e un’altra sulla Punta Basei parete S/E. Nel 1977 scomparve prematuramente a causa di un incidente stradale.

Luigina Zeppa Gentile è tra le alpiniste più blasonate della sua epoca, avendo raggiunto più di 2.000 vette.

Sul M. Bianco ha salito lo Sperone della Brenva, le Creste Innominata e del Brouillard. Dopo la spedizione “Ande ’81” è ritornata in Perù, col marito Franco Gentile, altre otto volte. Con lui ha aperto alcune prime assolute, come la via del Cinquantenario, sulla Punta Emma (Gruppo del Marguareis) e l’inviolato Vallunaraju (m 5.686) (Cordillera Blanca) sulle Ande peruviane. È stato pubblicato recentemente il suo libro autobiografico “Racconti, ricordi e diari”.

Anni ’80 - 2000 Giampaolo Chiola INAL, ha percorso la via Aste-Susatti al Civetta (6+, ED), la via Bonatti e la via degli Svizzeri al Grand Capucin, la via Cassin al Pizzo Badile (6+), il Diedro Nanchez al Caporal (7°).

Ermanno Cosenza ha scalato in Dolomiti la via Comici-Dimai alla Cima Grande di Lavaredo, la via Vinatzer al Piz Ciavazes (Gruppo Sella), la via Vinatzer sulla parete sud della Marmolada, la via Cassin alla Torre Trieste. In Val di Mello “Il risveglio di Kundalini” e al Sasso Cavallo la via Oppio.

Dario Francese INA e INAL, attuale Direttore della Scuola di Alpinismo “F. Gentile”, tra le sue performances la salita allo Spigolo Giallo alla Cima Piccola di Lavaredo (6+) e le vie Bonatti (6c, ED), degli Svizzeri (5c, ED) e Voyage Selon Gulliver (6b, ED) al Grand Capucin.

Diego Margiotta ha aperto 35 vie nuove prevalentemente sui monti valdostani. Ha percorso tre vie sulla parete nord dei Lyskamm, tra cui la prima ripetizione della via Jaccod-Nicco. Ha salito, nel Gruppo del Monte Bianco, la Cresta Innominata e del Brouillard, le Creste des Hirondelles, di Tronchey e di Pra Sec alle Grandes Jorasses, la Cresta del Morion in Valpelline. Compare nella collana Guida dei Monti d’Italia relativamente al Gruppo del Monte Emilius.

Valter Mortara ha scalato la via Livanos sulla Torre dei Sabbioni (Marmarole), le vie Graffer e Fehrmann sul Campanile Basso di Brenta, il Cervino e la Nord del Gran Paradiso.

Giovanni “Gianni” Padula IA, ha scalato la via “Vertigine” al M. Brento, la via Cassin sulla parete nord della Cima Ovest di Lavaredo, con M. Sciutto e V. Mortara la via Livanos sulla Torre dei Sabbioni.

Elio Remondino IA, grande specialista di scalate su cascate di ghiaccio, tra le quali ha salito Repentance Super e Etoiles et Soleil (Valnontey). Ha scalato la Nord-Est del Lenzspitze (Svizzera) e la Nord della Presanella, la via Carlesso alla Torre di Valgrande (Civetta), la via Bonatti alla Chandelle du Tacul, la via Andrich alla Torre Venezia e il Diedro Armani al Croz dell’Altissimo.

Beppe Rubio INA, ha salito la via Cassin al Pizzo Badile, la via Comici-Dimai alla Cima Grande di Lavaredo, la via della Sentinella Rossa al M. Bianco, sul M. Blanc du Tacul il Supecouloir, l’Arête du Diable e il Pilier Gervasutti, la via del Linceau alle Grandes Jorasses, la Cresta Kuffner al M. Maudit, il Canalone Couturier all’Aiguille Verte e la via degli Svizzeri ai Courtes. Ha scalato molte cascate di ghiaccio in Italia, tra cui Repentance (Valnontey) e al Cirque de Gavarnie nei Pirenei. In Austria, nelle Dolomiti di Lienz, il Grosse Laserzwand; sul Grossglockner la Mayerlrampe e la Bergführer Route.

Severino Scassa negli anni ’90 ha realizzato “Noia” ad Andonno che è stata la via italiana più difficile di grado 8c+.

Nel 1991 è campione italiano di Arrampicata Sportiva, nel 1991/92 è salito sul podio del Campionato Mon104

CAI ASTI 100 anni di montagna

diale. Ha percorso circa 500 vie con difficoltà tra 8a e 8c+ (Scala francese), di cui 20 tra 8c e 8c+. Ha redatto la guida “Andonno e Cuneese”.

Marco Sciutto INA, membro della Scuola di Alpinismo LPV. Alpinista prolifico e performante, ha percorso, tra le prime ripetizioni, la via “Vertigine” al Monte Brento (6+ e A2, oltre 50 metri di strapiombo per 26 ore di arrampicata). Ha salito inoltre la Vinatzer in Marmolada (6+), la via Cassin sulla parete nord della Cima Ovest di Lavaredo, la via Bonatti al Grand Capucin, la via Ratti-Vitali alla Aiguille Noire de Peuterey, la via degli Scoiattoli alla Cima Scotoni, la via Messner al Sass dla Crusc e la Aste-Susatti al Civetta.

Ezio Tartaglino uno dei precursori delle scalate su cascate di ghiaccio, tra le quali annovera la Monday Money (Valnontey). Ha scalato la Nord della Roccia Viva (Valnontey), le creste Signal sul M. Rosa e Biancograt al Bernina.

Dagli anni 2000 Andrea Bormida INSA, scende pareti estreme: la parete ovest del Monviso (3a ripetizione), la parete nord dei Lyskamm, la via Delmastro-Pol sulla Roccia Viva, la parete ovest del Monte Bianco (Sperone della Tournette), la sud delle Grandes Jorasses. Anche su roccia ha compiuto arrampicate di grande difficoltà: in Marmolada la via “Tempi moderni” alla Punta di Rocca (7c), la via Vinatzer (6 A1) e la via Messner (6+ A1), al Sass dla Crusc sale la via Messner al Pilastro di Mezzo. Tra le salite su cascate di ghiaccio, la goulotte Grassi-Lenti alla Grand’Hoche e la goulotte Nemela-Leviti al Catinaccio.

Marco “Scarabucià” Giampietri e Alberto Pavese rispettivamente INAL e IAL, hanno percorso vie di arrampicata di estrema difficoltà. Hanno fondato l’Associazione ASD Asti Climbing che opera all’interno della Palestra di arrampicata sezionale e grazie ai loro insegnamenti decine di giovani astigiani sono stati avviati alla pratica dell’arrampicata.

Stefano Macagno ha raggiunto 58 vette degli 82 “Quattromila” delle Alpi e, a buon diritto è stato iscritto, unico astigiano, al “Club dei 4.000”. Ha salito la nord dei Lyskamm, la S-E del Zinalrothorn (m 4.221), la Grober da Alagna, la parete sud del Lauteraarhorn (fino a 100 metri dalla cima) dall’Aarbiwak, nel 2016 le Grandes Jorasses (punte Walker e Whymper) dalla Normale (versante S-O dal Rifugio Boccalatte), nel 2018 è sceso con gli sci lungo il canale di Lourousa (pendenza di 50°- 900 m). E’ salito sul Monte Bianco 8 volte, di cui 3 con gli sci dal versante Nord, dal Rifugio dei Grands Mulets.

Nicola “Nik” Odorizio IAL, in arrampicata raggiunge il 7c della Scala francese; ha salito la via Italiana alla Punta Parrot, il Pizzo Coca nelle Alpi Orobie, le vie Nord del Monviso e del Gran Paradiso. Ha percorso inoltre alcune vie difficili su cascate: la Repentance in Valnontey (95°) e la Gastock in Val Varaita (90°).

Luca Primiano ISA, appassionato di discese ripide come il Canale di Lourousa o i tracciati di De Benedetti sulla parete ovest del Niblè e sulla sud delle Oronaye o il canale nord del Roche Faurio (zona la Meije). Non disdegna poi scalate su ghiaccio come il Couloir Hannibal al Vélan o su roccia come la via Mellano-Perego al Becco di Valsoera o la via Campia al Corno Stella.

Lucio Rinetti INA, è membro della Scuola di Alpinismo LPV. Ha salito la via degli Inglesi e la via Cassin (6+ ED) al Pizzo Badile, sul Cervino la via Gabarrou-Ravaschietto “Padre Pio prega per tutti noi” (6c+ ED), la via Pierre Allain alla Meije (TD), la via Giove sulla Torre di Vallaccia in Dolomite (7°). In Norvegia ha salito la cascata Lipton (sino al 7°).

Oltre agli alpinisti sopra citati, vogliamo ricordare: Giorgio Quirico, Gigi Rinetti, Giuseppe Muratorio, Michele Fasano, Giovine, Beppe Durando, Beppe Cane, Bruno Gonella, Pietro Scassa, Rio Celso, Gianbattista “Titta” Clerici, Tino Cerrato, Enrico “Ricu” Vogliotti, Paolo Cussotto, Guido Rizzi, Gigi Fiore, Marcello Nicola, Marco Bobba, Carlo Gallone, Giorgio Bisotti, Jacqueline Desprat. Tra i “giovani”, Giovanni Stupino (IA), Pierangelo Marucco, Marco Nervi, Diego Gherlone, Fabrizio Cuniberti, Diego Vicentini.

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CAI ASTI 100 anni di montagna

Il mondo che verrà

Il nostro viaggio non finisce qui.

Abbiamo solo scritto il primo, lungo capitolo di un’avventura iniziata cent’anni fa: un secolo di passioni e di emozioni che consegniamo idealmente ai più giovani e a tutti coloro che saranno i frequentatori delle montagne negli anni a venire, come il piccolo Enea (nella foto - ndr) che a soli tre anni già respira l’aria sottile dei 3000.

Non li attenderà, come nel passato, un’epoca di conquiste e di grandi imprese, ma un’infinità di sfide impegnative da cui dipenderanno le sorti di questo Pianeta ammalato.

A Enea e a tutte le bambine e i bambini che calcheranno le orme dei loro predecessori, affidiamo la cura e la protezione dei nostri monti, mai così sofferenti per le ferite inferte loro da un’umanità irresponsabile ed insensibile al benessere delle future generazioni.

Coraggio Ragazzi, vi accompagneremo idealmente sulle vette più elevate e sui loro scintillanti ghiacciai, lassù dove il mondo appare più piccolo e si tocca il cielo con un dito.

Insieme a tutti noi, che abbiamo in cent’anni amato profondamente questo paradiso in terra chiamato Montagna, non sarete mai soli!

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L

a Farmacia Baronciani appartiene al gruppo delle storiche farmacie astigiane che da secoli svolgono la loro attività nel tessuto assistenziale, economico e sociale della nostra città.

“La sua origine data forse al 1310 - dice l’attuale titolare dottoressa Rita Barbieri Orecchia - quando in Mercato del Santo, oggi Piazza San Secondo, era già presente una “apoteca” di proprietà di Guglielmo Ventura, speziale, destinato ad essere soprattutto ricordato come uno dei più validi cronachisti medievali italiani come autore della “Cronaca o Memoriale” degli avvenimenti storici, non solo astigiani, dal 1260 al 1324”.

Qui il racconto della dottoressa Rita si vela di tristezza ricordando che “devo queste notizie alle ricerche del dottor Elio Arleri, ormai scomparso, per anni insostituibile e apprezzato farmacista e nostro collaboratore che, come il Ventura, non ha esercitato solo la sua professione, ma ha coltivato una passione genuina per lo studio e la ricerca storica che si sostanziarono in numerose relazioni. Tuttavia - continua la dottoressa nel suo racconto - quello che maggiormente vorrei ricordare del dottor Arleri è che fu nominato “Giusto tra le Nazioni” dallo Stato di Israele per aver nascosto per un anno dalla furia nazista, una coppia di ebrei di Zagabria, salvando loro la vita”.

“La Farmacia Baronciani ha quindi una lunga storia condivisa con la città - conclude la dottoressa -. Siamo orgogliosi della nostra professionalità e della costante attenzione che poniamo ai bisogni e alle necessità delle persone. È con piacere quindi che prendiamo parte a questo importante evento augurando al CAI astigiano, arrivato ad un secolo di attività, che ne fa un esempio unico tra le società sportive astigiane, di poter proseguire la sua storia vanto di Asti non solo in ambito sportivo ma anche culturale e di attenzione all’ambiente, sapendo che questi impegni saranno sempre più importanti nella società a venire”.

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