Bubbles Italia #06

6 no.#

editoriale

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errata corrige: per gli articoli “Tenute Nanfro” e “Mai ripartire senza” del numero 5, le fotografie sono di © Andrea Trimarchi

10 18

23 26

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Il fotografo: Enzo Isaia Piergiuseppe Bernardi

Moser, vino da record Angela Cesaro Elisabetta Rogai Emiliana Lucchesi Adami Andrea Zanfi Il Po Giampietro Comolli

36 40

44 56

58 64

68 71

76 80

85 89

91 94 98 101

104 109

Antonia Klugman Stefano Cosma Villa Parens Andrea Zanfi

Sicilia Sea Food Cinzia Taibbi

Giorgio Grai Fabio Piccoli Un volano chiamato Prosecco Clementina Palese Pasticceria Perbellini Andrea Zanfi

Fabio Bigolin Andrea Zanfi

SOM Giordana Talamone

Ernst Knam Cinzia Taibbi

La Caudina Piergiuseppe Bernardi

Daniela De Marchi Andrea Zanfi

Maria Grazia Cucinotta Simona Cangelosi

Loison Franco Vergnano

Ca’ di Frara Andrea Zanfi

Giovanni Negri Alessandra Piubello

La bellezza dell’amore Marco Ongaro La cena? Un’esperienza multisensoriale Lea Gasparoli Le rotte del Rum Piergiuseppe Bernardi

113 116

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132 138

142 147

151 155

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Walter Rolfo Lamberto Vallarino Gancia

Italian Good Living: Cagliari Paola Cerana

Maglio, la cioccolata del salento Pasquale Porcelli

Ristorante Del Cambio Piergiuseppe Bernardi

Blues & Wine Festival Joe Castellano

Patrizia Sandretto Re Rebaudengo Lamberto Vallarino Gancia

Maupal Simona Cangelosi

Il tappo di sughero Riccardo Margheri

Cantina di Quistello Redazione Moda donna Debora Lupi

Sheraton Parco de’ Medici Rome Hotel Lorena Bernardini Langosteria Lea Gasparoli

Le Recherche Andrea Zanfi

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Masseria Li Reni Andrea Zanfi

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L’Antica Filanda Lea Gasparoli

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La storia Giampietro Comolli

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I migliori Metodo Classico 2018 Giampietro Comolli

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Giampietro Comolli direttore Bubble’s Italia

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indice

a chiudere il terzo anno

…e siamo arrivati della nostra rivista-libro. Chi l’avrebbe mai detto: 6 numeri! Siamo usciti a ottobre 2016 con un mega-libro che doveva essere un numero “zero” unico, una esaltazione del successo delle bollicine italiane, una prova della qualità raggiunta, una riflessione aperta con i principali artefici dell’impegno iniziale e del successo in crescendo e continuo, racconto di vigne e cantine fra le più significative, una occasione per conoscere resort e locande dove si consumano le grandi bollicine italiane. Solo bollicine tricolori, non ci interessava e non ci interessa strizzare l’occhio o dare seguito alle insistenti pressioni, molto interessanti per il budget, delle grandi maison-brand e ristoranti d’Oltralpe per “esserci” su Bubble’s. Noi vogliamo sostenere ed elevare il valore della Franciacorta come di Valdobbiadene, nello stesso modo e mezzo, seppur sottolineandone l’estrema diversità e rendere più narcisi, più grandi che grandeur, i luoghi, gli ambienti, i personaggi delle bolle italiane. Cioè sposare tutto quello che è all’unisono identità/bellezza/stile perché l’Italia non ha bisogno di nessuno. Speriamo di non aver riposto male la nostra fiducia, i nostri sforzi. Eccoci alla sesta uscita, quasi 200 pagine super, ricche, belle, idealizzanti un modo di essere, benessere, buongusto e buonsenso, di come vivere i momenti a tavola, in vacanza, con un po’ di elitarità, un po’ di edonismo, un po’ di presunzione che l’Italia – quando vuole – ha le palle (pardon), le bolle giuste per gustare un buon nettare, fragrante, piacevole. Sono le bollicine italiane che hanno sdoganato nel mondo il bere effervescente per tanti, non certo lo Champagne che da quasi 20 anni veleggia intorno alle 315-325 milioni di bottiglie, e non si schioda. Siamo noi italiani che nello stesso lasso di tempo siamo arrivati a far conoscere, apprezzare e consumare nel mondo 660 milioni di bottiglie, contro 200 milioni dell’anno 1998. Per questo Bubble’s lo stimiamo indispensabile, ora, un mezzo o uno strumento per elevare il valore aggiunto delle bollicine nazionali. I volumi incrementati sono un primo segnale: ora in ogni spigolo del pianeta (108 Paesi) ci siamo, ora occorre che il consumatore percepisca l’esatto valore venale, identitario, originario, manifatturiero. È su questo che Bubble’s vuole scommettere, punta per tutto il mondo spumeggiante italiano, diffondendosi in Italia sempre più (5.000 copie spedite di ogni numero, a chi decide acquisti, a chi spende), arricchendo culturalmente quel consumatore che ricerca il meglio, il bello. Anche 300 oo.ll stranieri ricevono in omaggio il magazine. In questo numero di fine anno, oltre a segnalare e consigliare 73 etichette top di vini Metodo Classico frutto di una degustazione collettiva di saggiamentali e non di sommelier, con più attenzione al consumatore curioso e intelligente che al produttore, dando per scontato che le grandi maison sono al vertice per obbligo, inserendo nel gotha delle bollicine italiane nuovi vitigni, come Nebbiolo e Sangiovese per esempio, segnaliamo la terzultima puntata sulla storia delle bollicine europee, un viaggio enogastronomico lungo la riviera di destra e il paradosso “emiliano” del grande fiume Po, con 100 specialità assolute, una incompiuta nazionale, la regione più certificata e tracciata d’Europa nel campo alimentare. A seguire...

Estratto da “L’Asino, 1903” Oreste Azzeccagarbugli

foto di Š Enzo Isaia

Il mistero della vita sta

nella ricerca della bellezza.

Billy Wilder

” 3 0 9 1 , o n i s ’A L “ a d o t t estra Basta guardare, rimanendo nell’agroalimentare, all’esempio dei formaggi. Quale Paese può vantare una qualità e una varietà di formaggi come l’Italia? Direi nessuno, eppure anche in questo settore i cugini d’Oltralpe sono in grado di penetrare i mercati internazionali con un’abilità e una valorizzazione delle loro produzioni che non ha eguali.

In questi ultimi anni – complice anche il successo della cucina italiana, che oggi gode di una considerazione mai registrata in passato – anche le nostre produzioni enogastronomiche stanno ottenendo sempre maggiori consensi. Determinante, in questo senso, appare l’acquisizione della consapevolezza che, anche per il food & wine, non basta saper fare ma bisogna saper “raccontare” le nostre produzioni; narrazione che appare ancor più necessaria per accompagnare prodotti che, nel caso delle produzioni a Indicazione Geografica, affondano le proprie radici nella cultura e nelle tradizioni di un territorio.

Abbiamo così appreso l’importanza dello storytelling nella comunicazione delle nostre aziende e dei nostri prodotti. Un tipo di narrazione la cui efficacia è divenuta ancor più evidente con il moltiplicarsi degli strumenti di comunicazione a nostra disposizione.

Sì, perché oggi disponiamo anche, così ci hanno insegnato, delle potenzialità del “marketing digitale multicanale” che, se lo avessi spiegato a mia nonna, si sarebbe subito preoccupata, pensando ai rischi di nuove esondazioni, in un Paese, come il nostro, a grave rischio idrogeologico, oggi vessato anche da quei fenomeni meteorologici che chiamano “bombe d’acqua”, delle quali ignorava l’esistenza essendo cresciuta con le previsioni di Edmondo Bernacca che, nella peggiore delle ipotesi, contemplava “rovesci e temporali”.

Scherzi a parte, la narrazione oggigiorno (in realtà anche in passato) riveste un’importanza indiscutibile, sempre che non metta in secondo piano l’attenzione che va posta nel prodotto che si racconta.

Mi spiego meglio, trovo sempre più persone attente a raccontare il loro prodotto, la loro denominazione, ma che non investono più nella qualità del loro prodotto o che credono che basti “raccontarla bene” per “vendere meglio”.

Non interessa a nessuno che l’uva sia raccolta a mano da maschi nerboruti a torso nudo o pigiata a piedi nudi da giovani fanciulle, se tutto questo non conferisce al vino una caratteristica distintiva che il consumatore sia in grado di riscontrare nel bicchiere, rispetto a un analogo prodotto pigiato o raccolto meccanicamente.

La narrazione, in questo senso, deve essere una bella cornice in grado di attrarre l’attenzione di chi guarda su un’opera d’arte, non un modo per distrarla da una crosta.

Oreste Azzeccagarbugli

The importance of marketing in the world of wine has become very effective in recent years. Italy has always looked with a certain envy to other countries, in particular France, for their capacity to promote and sell their produce. More recently, thanks to the successes in our food and wine production, we have realised that it is not enough to know how to create, but it is also important to know how to “narrate” a product. Nowadays narrative has an indisputable importance in marketing, provided it doesn’t overshadow the product itself. In this sense, it should be like a beautiful frame that serves to focus the viewer’s eye on a work of art.

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8

L’importanza del marketing, anche nel mondo del vino, ha dimostrato in questi anni tutta la sua efficacia. L’Italia, dal canto suo, ha sempre guardato con una certa invidia alla capacità di altri Paesi, la Francia in primis, nel promuovere e vendere le proprie produzioni, non solo nel settore enologico.

Seduced by Cartier-Bresson’s Images à la sauvette at 21 years of age, he decided early on to abandon his architecture studies, but was then compelled to undertake military service in the Alpine Corps. It was

here, with the blessing of his Commander, that he began to photograph daily life in the barracks, quickly acquiring the ability to “see” where others limited themselves to observation.

foto di © Enzo Isaia

The enthusiasm in the voice of this tall, stylish man before me reveals nothing of his 77 years as he shows me the seemingly random arrangement of photos on the wall of his Turin studio.

L’essenza delle cose in un click

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di Piergiuseppe Bernardi

La sua voce, unita all’entusiasmo con cui mi mostra le fotografie disposte in modo solo apparentemente disordinato sulle pareti del suo

studio torinese, non ha nulla dei 77 anni che l’uomo alto e scattante con cui sto parlando si porta sulla pelle.

Enzo Isaia © Carlo Guttadauro

foto di Š Enzo Isaia

foto di © Enzo Isaia

A trasudare da quest’ultima è piuttosto una vita piena e appassionata, percorsa tutta d’un fiato, e guidata da una passione praticamente assoluta:

. inseguire scatti impossibili a ogni latitudine del pianeta

E senza badare a difficoltà e ostacoli, contrattempi e imprevisti, fatiche e stress. Del resto uno scatto – come quelli di cui mi sta parlando e che mi stupiscono soprattutto per la loro nitidezza – per lui è davvero impagabile. Glielo si legge negli occhi.

un centravanti di razza, impaziente di andare in rete, ma costretto dalla sua stessa passione alle lunghe e estenuanti attese richieste per realizzare uno scatto.

Certo, il tratto di “immediatezza” che trapela dalle sue foto potrebbe indurvi a credere che esse nascano dal grande “mestiere” dell’occhio che sta dietro l’obiettivo. Ma non fatevi ingannare. Quella che pare la spontanea fissazione di un infinitesimale attimo è sempre il frutto di un processo complesso, nel corso del quale il soggetto fotografato è stato prima immaginato e studiato, poi sognato e desiderato, e solo da ultimo – e non senza un pizzico di fortuna – strappato all’inesorabile fluire del tempo con un click.

Sedotto da Images à la sauvette di Cartier-Bresson a 21 anni, decide ben presto di abbandonare la Facoltà di Architettura che stava frequentando, finendo però costretto a partire per il servizio militare nel Corpo degli Alpini. Sarà qui che, con il consenso del Comandante, si eserciterà a carpire scatti di vita quotidiana della caserma, acquisendo rapidamente una capacità di

foto di © Enzo Isaia

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È una vita da centravanti, e non certo da mediano, quella di Enzo Isaia:

© Carlo Guttadauro

foto di © Enzo Isaia

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16 “vedere” dove altri si limitavano a osservare. La stessa capacità che in seguito l’avrebbe portato ai vertici della fotografia industriale e pubblicitaria, dove si sarebbe misurato con soggetti molto diversi tra loro: dalle auto di lusso alle macchine agricole, dai dinamici aerei da guerra fotografati in volo da

altri aerei a ben più statici spazi cittadini connotati invece dall’unicità di singolari monumenti storici.

E se la sua fotografia ha un tratto indiscutibilmente pubblicitario, capace di veicolare efficacemente il messaggio che intende trasmettere, i momenti in cui essa riesce a dare dav-

vero il meglio di sé sono quelli in cui i suoi scatti, cancellando come d’incanto attese e lavori preparatori, riescono quasi ad afferrare l’essenza del soggetto rappresentato. Soffermatevi per un attimo sui grappoli, sulle foglie di vite, sui pampini che Isaia ha sottratto alle notti in vigna, illuminandoli di

una luce tutta notturna: le loro forme, solo apparentemente spontanee, e il loro colore, denso di una luminosa oscurità, sapranno farvi guardare all’effervescente mondo del vino come, probabilmente, mai avete avuto modo di fare in precedenza.

MOSER

di Angela Cesaro

vino da record bred in Trento: Francesco Moser. We meet him at Villa Warth, the heart of production of the Moser Company in the Cembra Valley, a magical area from an oenological point of view, and among the most surprising in all of Trentino. Speaking with Francesco

and his brother, Diego, we discover that they began to produce their first wines in the 1970s eventually bottling the TrentoDOC only in the 1990s.

Subsequently those “bubbles” have become the flagship of the company and also the main objective of our trip.

Non stiamo parlando di un vignaiolo qualsiasi, ma di un grande uomo che, oltre a fare vino, ha vissuto un’altra vita andando in bicicletta, collezionando 273 vittorie nelle più prestigiose gare ciclistiche europee. Stiamo parlando di un trentino DOC:

Francesco Moser.

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We’re not talking about just any winemaker, but a great man. In addition to making wine he has lived another life in the world of cycling, collecting 273 victories in the most prestigious European cycling races.

We are talking about a man born and

Da sinistra Francesco Moser, con i figli Francesca, Carlo, Ignazio e il nipote Matteo Moser, enologo dell’azienda.

Classe 1951, originario di Giovo in provincia di Trento, nella bacheca del suo personale museo di biciclette conserva la maglia rosa della prestigiosa vittoria del Giro d’Italia del 1984 e le tre Pietra di Pavé delle mitiche Parigi-Roubaix, la gara più difficile al mondo, vinta dopo di lui solo da altri due italiani: Franco Ballerini e l’amico Andrea Tafi.

51.151

In un piccolo angolo c’è anche la maglia iridata assegnatagli nel 1977 a San Cristobal come campione del mondo su strada, mentre non manca nemmeno la bici con la quale nel 1984, a Città del Messico, frantumò il muro dei 50 km orari garantendosi il record del mondo di velocità su pista. Un personaggio dunque forgiato da quelle due ruote che richiedono determinazione, volontà, forza e una passione mai venuta meno, come conferma il fatto che ancora oggi percorra in bicicletta oltre 7.000 chilometri all’anno.

Il suo essere un grande personaggio internazionale del mondo del ciclismo non gli ha però fatto dimenticare le sue radici contadine, le stesse che si respirano negli spa-

Warth, divenuta il cuore produttivo dell’Azienda Moser dopo essere

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zi di Villa

stata fin dall’epoca del Concilio di Trento una prestigiosa residenza vescovile. È qui che trovano posto la dimora patronale e la cantina storica trasformata in barriccaia, oggi integrate da moderne strutture destinate a operazioni di vinificazione e da un piccolo agriturismo.

In questo contesto, dove si respira la storia, incontriamo Francesco, in perfetta forma e pronto a raccontarsi, seppure con la titubante riservatezza che forse il nostro entusiasmo nel trovarci di fronte un simile campione finisce con l’attenuare. Alla prima domanda, d’obbligo, su come sia arrivato al ciclismo, la sua risposta è candida: no fu divina passione e nemmeno tenace convinzione, ma più un caso legato all’intuizione di uno zio che lo convinse a dedicarsi a quel fantastico sport al quale sembrava naturalmente predestinato. E pazienza se avrebbe dovuto lasciare da parte per qualche anno l’azienda agricola di famiglia che, dopo essere rimasto orfano del padre, aveva accudito fin dall’età di 14 anni.

Tempi lontani, e tuttavia ben impressi nella sua mente come ricordi felici e capaci di emozionarlo ancora, paragonabili forse solo alle emozioni che oggi, insieme alla

moglie Carla e ai suoi tre figli Ignazio, Carlo e Francesca, vive grazie al mondo del vino.

Le bottiglie, infatti, a casa Moser sono ormai diventate un affare di famiglia, come lo è sempre stato il ciclismo, passione che Francesco ha trasferito a suo figlio Ignazio e che si è tradotta nella creazione di biciclette artigianali che portano il nome del grande campione. Quel

“Moser”, riportato sulle etichette del vino, ravviva il

Maso Villa Warth, sede di Moser Trento, visto dai vigneti.

suo ancestrale attaccamento alla terra; quel nome sulle biciclette evoca ricordi gloriosi. In entrambi i casi racconta quanto per Francesco la famiglia sia un valore a un tempo terapeutico per il cuore e per gli scopi aziendali.

Ci piace stimolarlo e farci raccontare del tempo: di quello cronologico che Moser ha spesso frantumato con le sue performance da record, e quello di una vita vissuta, tra vigneti e cantine, continuando a darsi sempre nuovi obiettivi. Soppesa le parole, quando parla di suo padre Ignazio che lavorava la vigna sui ripidi versanti che caratterizzano la Valle di Cembra; un areale, a lun-

go snobbato da produttori che gli preferivano la più comoda pianura rotaliana, e che invece era destinato a rivelarsi, per i risultati che lì si ottengono coi vini, come una delle più sorprendenti aree vitate del Trentino. Sarà

Francesco, col fratello Diego, già negli anni settanta comincerà a produrre le prime bottiglie, arrivando poi

qui

che

negli anni ottanta all’imbottigliamento del TrentoDOC, non senza riuscire a fare proprio di quelle bollicine lo stesso fiore all’occhiello dell’azienda.

Pur estasiati dal sentir di-

squisire di vittorie, siamo qui per le bollicine.

E le bollicine di Moser, al pari almeno delle sue vittorie, riescono davvero di entusiasmarci: con la loro territorialità capace di esprimere al massimo l’anima espressiva dello Chardonnay

del Trentino; con il loro carattere

deciso e lineare, frutto di una nitidezza che sembra il marchio stesso dei vini dei Moser; con l’intelligente vivacità che, degustandole, continuiamo a leggere negli occhi di Francesco. Se per primeggiare è necessario avere consapevolezza e una grande personalità, “terroir” necessario per consentire quei successi, di quello stesso “terroir” il vino dei Moser segue le orme, governando con una scienza e una sapienza che nulla hanno in comune con la casualità e la fortuna i complessi processi di creazione di grandi vini.

Bici e vino. Una connessione perfetta,

di cui è testimonianza il TrentoDOC che porta in etichetta un singolare accostamento di numeri: «51,151». Quello del chilometraggio esatto percorso da Moser quando infranse, a Città del Messico, il record dell’ora. Una bol-

licina – prodotta da uve Chardonnay provenienti dai vigneti di Maso Warth, della Valle di Cembra e dalle colline poste alle spalle di Lavis, a 250 metri di altitudine – che affina

in bottiglia su lieviti selezionati per un minimo di 30 mesi fino al momento della sboccatura.

Le circa 45.000 bottiglie che ogni anno vengono prodotte presentano un perlage fine, un colore giallo paglierino, delle note fresche e

fragranti, e al palato risultano secche, fresche, con buona sapidità e persistenza. Realizzato tramite la selezionate di uve Pinot Nero lavorate e raccolte a mano, il Rosé Extra Brut ha invece un colore rosa tenue, al naso è complesso con sentori di piccoli frutti rossi, note evolutive e leggermente tostato. In bocca presenta una decisa freschezza, sapidità e ottima persistenza sul finale.

E per finire eccoci a un Blanc de Blanc “Brut Nature”, posto al vertice della gamma aziendale: fine nel perlage, dal colore giallo paglierino intenso con note brillanti, al naso appare fruttato e al palato secco, sapido e cremoso.

Non siamo abituati né a correre né a battere i record dell’ora, ma ci accorgiamo che quando decidiamo di lasciare casa Moser è tardi. Ma ci dispiace lo stesso: belle atmosfere, belle storie, bei vini e belle persone ci hanno fatto compagnia. Come si potrebbe chiedere di più a questa giornata?

23 di Emiliana Lucchesi

Elisabetta Rogai Il vino dalla tavola alla tela “Painting?

It’s as necessary as breathing. A continual and inexhaustible source of joy.” Of course, it couldn’t have been anyone other than Elisabetta Rogai, a complete artist, to invent the art of painting with wine.

Her emotional universe gives her identity, in a linear and constant artistic journey, that she has sought to expand in the world of wine, a natural stimulator of her creativity, that is able to render her works more “imperious” and passionate. The artistic maturity that her

works transmit is undisputable. Amongst her latest works are a portrait of Oriana Fallaci and another of the great oenologist, Giacomo Tachis, commissioned by the Chianti Banca Foundation, and destined to be the cover of the book about his professional life.

«Dipingere? Una necessità, come respirare.

Una continua e inesauribile fonte di gioia».

scorso, da tempo vive in quella campagna che, a un tiro di schioppo dalle storiche cantine Antinori, costituisce il cuore stesso della Toscana più autentica: quella di San Casciano Val di Pesa, per lei divenuta una sorta di personalissima Atlantide. E proprio da queste terre, abituate a ispirare artisti di prim’ordine, il suo stile pittorico ha tratto stimoli creativi capaci di connotare in modo unico le sue opere.

Del resto, come dargli torto? Il Chianti fiorentino è una terra bellissima, dove i colori cambiano non solo al mutare delle stagioni, ma quasi di ora in ora.

Le atmosfere continuamente cangianti dei filari che danno ordine ai vigneti, per chi come lei ama il vino, si trasformano così nel tratto indelebile di un’arte che si porta dentro la stessa forza del vitale frutto di quelle alchemiche colline.

Elisabetta Rogai, affascinante bellezza rinascimentale dai capelli “tizianeggianti”, è un’artista totale. Nata a Firenze nella seconda metà del secolo

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foto © Dario Garofalo

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o n i v l e d i n o i t s e g g u s le Sono proprio queste ultime, divenute per Elisabetta lo straordinario scenario delle sue interminabili passeggiate con i cani e i cavalli, che ama spasmodicamente, a dare un tono unico alle intense figure femminili che, segnate da una sognante sensualità non esente dal tormento, popolano il suo lavoro, costituendosi come una sorta di doppio di se stessa, replica infinita della sfaccettata immagine che si porta dentro. Una, nessuna, centomila, come le sfumature di un volto e il mutare di uno sguardo dai quali a trasparire è, appena attenuato dalla maturità, un tocco di aggressività quasi felina.

Di certo non poteva essere che lei a inventare l’arte di dipingere col vino, tempestivamente brevettata col marchio “EnoArte”. Un metodo che ha raccolto il plauso e l’apprezza-

mento di molti critici, travalicando i talora angusti confini del ristretto mondo del vino. Grazie alla tecnica di fissaggio naturale, adottata e messa a punto da Elisabetta in collaborazione con l’Università degli Studi di Firenze, i colori delle sue opere non solo non sbiadiscono oltre una certa soglia, ma assumono anche le tinte uniche di un sorprendente cromatismo.

Proprio nell’orizzonte di questa naturale poliedricità, l’arte di Elisabetta ha così trovato il sentiero lungo il quale esprimersi. Un sentiero fatto di coraggiose sperimentazioni che l’hanno condotta, dapprima, a dipingere anche su tela denim e, successivamente e più recentemente, addirittura su

marmo bianco di Carrara. Un sentiero radicato però anche in una linearità tanto costante da diventare identitaria, al pari del suo universo emozionale, capace di rinvenire nelle suggestioni del vino il naturale stimolo alla sua stessa inarrestabile creatività. Come provano due suoi recenti ritratti: quello di Oriana Fallaci e quello di Giacomo Tachis, quest’ultimo commissionatole dalla Fondazione Chianti Banca e destinato a essere inserito nella copertina del volume dedicato alla vita e alla professionalità del grande enologo.

Forse proprio la forza “passionale” che traspare dai suoi lavori, in questo caso resa ancor più potente dalla maturità artistica, ha trasformato le sua performance live in momenti

capaci non solo di riscuotere un grande successo di pubblico, ma anche di divenire lievito di un fermento intellettuale che, andando da Hong Kong a Maracaibo, da Guangzhou a Washington, è venuto assumendo tratti sempre più internazionali.

M

y conversation with Franco Adami

revolves around our perplexity of the fact that

“footprint”, original and inimitable. Counting on

there are still those who undermine a unique

those 34 footprints, each year the Adamis create

cultural heritage such as Prosecco, undervaluing

cuvée with which they play the wine-making

the knowledge of those producers who for

game.

generations have been committed to showing

sense and is able to produce great results. As such,

others how to make wine. Not all Prosecco is equal

the Prosecco that is created is not just any Prosecco

and nothing is created by chance. This is more

but the expression of the idea that the winemaker

true in Adami’s case, given that his wines are the

has of his land. The richness of this terrain mustn’t

product of work done in each of his 34 vineyards.

be seen in terms of physical homogeneity, but in

It’s as if each of these vineyards were a unique

the originality of the characters it possesses.

Only in this way, “mixing wines” makes

di Andrea Zanfi

Spesso alzo la voce gridando, ai sordi, che è giunta l’ora di finirla di dire che il Prosecco è tutto uguale. Lo ripeterò fino all’ultimo respiro e chi lo dice rischia di passare da ignorante. È come se venisse asserito che tutto l’areale che corre da Valdobbiadene fino a Conegliano non fosse rappresentato da una pluralità di territori e di vignaioli, ma solo da una grande vasca a cui tutti attingono per spillare lo stesso vino.

I M A D A trentaquattro “impronte” per dare unicità al Prosecco

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foto di © Francesco Galifi

I.P.

È come se ognuna di quelle aree vitate fosse una “impronta” unica, originale, inimitabile e caratterizzata da una propria storia.

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34 micro-aree.

Rimango perplesso su come sia possibile che, a fronte di una sempre maggiore cultura nel mondo del vino, vi sia ancora chi banalizza un patrimonio culturale inimitabile come il Prosecco, sottovalutando la sapienza di quei produttori che da generazioni si impegnano per far conoscere ad altri il proprio saper fare vino.

Sottolineo tutto questo in una lunga conversazione con Franco Adami, sapendo che al riguardo non solo ha le idee molto più chiare delle mie, ma anche che da anni ormai conduce una propria ricerca scientifica sull’argomento, basata sui fatti, sulla esperienza, sulla conoscenza del patrimonio ampelografico che dispone, trasmessogli dal padre e dal nonno Abele. Già… il nonno Abele – pensate che personaggio deve essere stato - che già nel ‘33 del secolo scorso ebbe l’intuizione di partecipare alla “Prima mostra dei vini tipici d’Italia”, svoltasi a Siena, con un Prosecco Riva Giardino e un Cartizze “asciutto”.

C’era già qualcuno che, in quel decennio antecedente la Seconda Guerra Mondiale, sentiva il bisogno di vinificare non solo ogni singolo vigneto, ma anche le sue migliori parcelle. Ben sapendo che proprio da quell’immane lavoro che svolgeva in vigna, da quel giusto tempo che si prendeva prima di assemblare i vini, da quello sforzo di individuare i profumi che ognuno di

quelle aree forniva ai vini, sarebbero nate delle cuvée sempre migliori.

Una filosofia diventata karma per gli Adami.

Una sorta di stella polare da seguire cecamente fin da quel lontano 1933, continuando a fare le “Rive” e Prosecchi come il Bosco di Gica e il Dei Casel, che sono certamente l’emblema storico degli Adami e di come ancora oggi Franco continua a pensare al vino.

Tutto nasce dall’osservazione, da quello spirito di “O”, difficile da identificare essendo finalizzato alla visione completa e dettagliata dell’insieme per la quale è necessario possedere ragioni tecniche e scientifiche che sviluppano le capacità intuitive e cognitive di guardare ciò che ci circonda al fine di ottenere il risultato sperato.

Per ogni vignaiolo è fondamentale osservare il proprio sistema produttivo, interpretandone i segnali e codificandone il linguaggio. Basterebbe osservare l’orografia del territorio di Valdobbiadene, dove il Prosecco è Superiore, per comprendere quali e quante siano le macro e micro aree che esistono per dire che ogni Prosecco è diverso; basterebbe osservare le colline caratterizzate, nella parte a nord, da boschi e negli altri tre versanti da viti, per intendere il distinguo che esiste nei vini qui prodotti e che si accentua in funzione anche all’esposizione e all’altitudine, compresa fra i

180 ai 300 metri s.l.m., di ogni singolo vigneto. Un lavoro composito è quello che dovrebbe fare il vignaiolo che voglia identificare e certificare la provenienza del vino e la sua tracciabilità documentale, pur sapendo che non sempre tutto ciò gli garantisce l’intrinseca “originalità” del quadro aromatico e organolettico di ciò che produce.

Per creare “l’origine” è necessario possedere la conoscenza della scienza genetica e di quella ampelografica; integrare la tecnica produttiva con la cultura vitivinicola e imprenditoriale intrinseca alla propria tradizione; dare priorità alle potenzialità della terra di cui si dispone, imparando ad averne un rispetto e una fiducia destinati a trasformarsi in obbedienza a essa.

Un artifizio quasi algebrico, in cui è difficile districarsi poiché comporta la costruzione di un pentagono dai cinque lati mai statici, che necessitano ogni anno d’essere posti in equilibrio fra loro.

Forse tutto ciò nonno Abele non lo conosceva, ma lo aveva intuito, dando vita a quei vini tanto diversi, il cui concetto ancora oggi si riscontra nelle due cuvée dell’azienda Adami – Bosco di Gica e Dei Casel – che sono l’espressione perfetta di quel lontano ragionamento.

34 vigneti, 34 impronte, ognuna dei quali capace di “esprimersi” con un proprio timbro, ma, al contempo, fondamentale parte di un unico coro.

Ecco perché grido ancora che il Prosecco non è tutto uguale.

Per far capire il valore che c’è dietro a certi vini, per portare alla conoscenza di molti come sia necessario avere una visione di insieme per farne di originali rifuggendo all’omologazione.

È in queste cuvée che ogni anno gli Adami si giocano la partita sul tema, contando proprio su quelle loro 34 impronte.

Solo così il “mescolare i vini” ha un senso ed è capace di dare grandi risultati.Solo così il Prosecco Superiore che nascerà non sarà un Prosecco qualsiasi, ma l’espressione dell’idea che quel vignaiolo ha del proprio territorio la cui ricchezza non va ricercata più in termini di omogeneità enologica, ma nell’originalità che sanno esprimere le “impronte” che possiede.

foto di © Diego De Martin

foto di © Francesco Galifi

Niente nasce per caso, soprattutto in questo caso, essendo questi vini figli dall’opera svolta in ognuno di quei 34 vigneti che rappresentano il patrimonio ampelografico di Franco.

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“Ogni vigneto è un’impronta”.

L’Armonia tra queste crea l’identità ed il valore di Bosco di Gica e Dei Casel.

however contributed to a long life, based on strong tastes and measured consumption.

From Piacenza to Ferrara, taking-in Parma, Reggio and almost Modena and Bologna, the common thread is filled pasta, pork, dressings and sauces and sparkling wines, red, white and rosé. Such a variety confirms that the

Il Po

un’area fluviale patrimonio agro-alimentare mondiale Giampietro Comolli fotografie di Giulio Ziletti

A DAMI Colbertaldo di Vidor - (TV) Italy www.adamispumanti.it seguici su:

entire Po Valley is the perfect cross between the Mediterranean diet with all its virtues, and the continental diet, richer and higher in calories. *Note: PDO and PGI are European Union denominations which guarantee the origins and authenticity of a food product.

Il Po, il più grande fiume d’Italia, un alveo che unisce Torino a Venezia, per millenni testimone e autostrada di grandi commerci est-ovest, oggi dimenticato dall’Europa (non rientra fra i primi 10 distretti fluviali turistici) e sempre relegato come un problema idrogeologico.

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The Po, the longest river in Italy, where marshland biodiversity and raw materials come together, offers a plethora of PDO and PGI products*: from cheeses to cured meats, to top quality fruit and vegetables. Centuries ago on the right bank of the Po, the “Emilian paradox” was born; that of a rich, high-fat diet, which

CREMONA

MANTOVA ROVIGO

TORINO

PIACENZA

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FERRARA

Eppure il fiume Po è un unicum assoluto e mondiale e può essere una risorsa economica del Paese che vale miliardi, ma anche tanta salute, tanta occupazione, tanto rispetto dell’ambiente. 4 regioni, 13 province, 183 comuni, 650 km di lunghezza, 30.000 kmq di area agricola umida, oltre 200 prodotti agroalimentari riconosciuti, 300 ricette di piatti fra i più noti al mondo e che il mondo ci invidia, tenta di imitarci, ruba le denominazioni che sono espressione di un’area unica in Europa, dove si unisce la più alta biodiversità umida agroalimentare. Un no-sense, direbbe qualcuno.

Biodiversità biologiche e animali, vegetali e botaniche, persino antropologiche, espressioni diverse che trovano poi comunione sul piano enogastronomico e culturale.

La Regione Emilia Romagna, per limitarci a un esempio, sta presentando un mega progetto di valorizzazione agroalimentare-enogastronomica con fondi UE, con la sola sponda sud (o destra fiume), circa 300 km di lunghezza da Castel San Giovanni (Piacenza) a Goro (Ferrara), tutti pianeggianti e quasi tutti navigabili con barche idonee, circa 30 attracchi fluviali. Qui nasce secoli fa il “paradosso emiliano”, ovvero quello di una alimentazione ricca, grassa e abbondante, ma

espressione di lunga vita, basata sul gusto forte e la misura del consumo (poco ma eccezionale). Questa riviera destra del Po (sponda sud nello scorrere dalle Alpi all’Adriatico), patria del grande Artusi, che ha dato i natali a grandi scalchi del Rinascimento italiano, molti assunti come maestri di cucina in Francia, a bravi cuochi oggi di fama mondiale, come Bottura. L’importante – come dicono proprio i cuochi – è avere a portata di mano una materia prima eccezionale. È per questo che lungo il Po emiliano sono note le ricette delle “razdore” più che della nonna, qui la creatività enogastronomica fa faville, qui l’innovazione va a braccetto con conservazione e con contaminazione intelligente.

La materia prima, DOP e IGP, non manca: lungo il fiume Po, il latte migliore, più particolare, dal XIII-XIV secolo ha prodotto la Formaggiata, madre del lodigiano-piacentino a grana dura, diventato Parmigiano Reggiano e Grana Padano. Dal latte poi il burro e la ricotta, il Provolone dolce e piccante, lo Squacquerone della piana ravennate ferrarese. È così anche per i salumi, dal Culatello di Zibello alla Coppa piacentina, dal prosciutto di Parma alla Pancetta legata, dalla Mariola alla Zia, dai salami ai ciccioli, i fiocchi, e salsiccia e cotechino, che si avvantaggiano di una cultura antica della diversificazione dell’allevamento dei suini. Lungo il Po si dice che “del maiale non si butta nulla”, perché anche il piedino e il codino

una volta finivano nel brodo di carne grasso. Ma c’è anche una forte presenza di magro, di essenze vegetali, di orticole e frutta. La pesca noce e le pere della bassa ferrarese, per esempio. Dall’aglio bianco di Monticelli e di Voghiera, allo scalogno di Castelvetro, dalle ciliege di Villanova e di Vignola ai legumi ed erbe officinali di Brescello e Ficarolo, dall’asparago di Pontenure e Altedo alla zucca della bassa reggiana, per non dimenticare la produzione primaria in Italia di pomodoro da industria a Piacenza e Parma per produrre le migliori passate e conserve, ideali per il ragù e i condimenti di pasta secca. Fra i condimenti, solo fra Reggio e Modena, poteva nascere l’aceto balsamico tradizionale,

un condimento ideale per pasta, carne, formaggi, verdure, ortaggi, dal famoso vino Lambrusco, e la Saba, un altro condimento di mosto cotto: esempi di conservazione del cibo.

Da Piacenza a Ferrara, passando per Parma, Reggio e quasi Modena e Bologna, c’è però un file rouge comune: la pasta ripiena, le carni di maiale, il sugo-condimento e i vini frizzanti, effervescenti spumanti rossi, bianchi e rosati. Una cucina che necessità dell’acidità a bassa gradazione alcolica e della cremosità abboccata delle bollicine carboniche, per gustare al meglio la ricchezza grassa di un raviolo declinato in anolino a Piacenza o in cappelletto a

Ferrara passando per dadoni, agnolotti, quadrotti, cappellacci, tortellini, tortelli.

In ogni caso sempre pasta fatta a mano ripiena di carni, salumi, uovo, pane, ricotta, formaggio grana e verdure, e cotti in asciutto con un condimento di burro o olio e salvia oppure in brodo, detto qui di quarta o quinta (gallina vecchia, manzo o ossobuco, guanciale o biancostato di bue, cotechino o zampino di maiale). Da qui l’importanza di un rosso corposo frizzante Gutturnio o di una Malvasia Spumante a Piacenza, di un rosso o rosato o bianco Lambrusco di Sorbara o di Modena nella versione Frizzante e Spumante anche Metodo Ancestrale e Tradizionale. Lo stesso vale per l’effervescente e leggero vino di For-

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a r u t l cu tana, ideale dicono per le famose vongole veraci della Sacca di Goro, secondo sito produttivo al mondo, grazie proprio al contatto tra l’acqua dolce del Po e la salinità del mare adriatico.

Emilia capitale anche della pasta secca, soprattutto fresca: le lasagne e le tagliatelle senza pomodoro e ragù di carne mista non avrebbero nel mondo risonanza, al punto da credere che “bolognese” sia sinonimo di spaghetti al ragù! Declinazioni importanti delle lasagne e dei ravioli sono i malfatti, i panzerotti, le crespelle. Espressione del no-spreco e del riuso sono i piacentini pisarei e fasó, piatto povero creato con gli avanzi. Un altro file rouge lungo il Po

emiliano è dato anche dalle torte salate, l’erbazzone reggiano è il più noto, ma le varianti con pancetta, ricotta, spinaci, biete, asparagi, verdini sono diverse. Altrettanto si può dire del famoso gnocco fritto piacentino-parmense che lungo l’asta della via Emilia diventa piada e piadina, quasi un hot-dog de noantri. E ancora per il pane, simile e diverso nella forma, dalla Treccia piacentina alla Coppia a Ferrara. Il paradosso emiliano non punta molto sui dolci, fanno eccezione le crostate di frutta del Tidone e di Ariano, la torta sbrisolona secca con mandorle della bassa piacentina-reggiana, la spongata tipica di Villanova e Brescello, lo zabaione di Guastalla, il Pampepato di Pomposa.

Tutta questa varietà conferma che l’intera valle del fiume Po sia il perfetto incrocio fra dieta mediterranea, con tutte le sue virtù, e la dieta continentale, più ricca e calorica. Un mix che vive da millenni, che con misura e gusto crea un’unicità mondiale assoluta.

Burro e olio d’oliva extra vergine insieme, ortaggi e carboidrati, proteine animali e vitamine vegetali. Un fiume lungo il quale si incontrano storia, arte e cultura alimentare che si basa su una biodiversità che il territorio rivierasco concede naturalmente.

Antonia Klugman

di Stefano Cosma fotografie di © Francesco Orini

Un locale dove sentirsi come in famiglia.

It is in the noble trattoria Al Vèdel, in Colorno, that Enrico Bergonzi, together with his wife, his brother-in-law and his wife’s sister, has carried on the family tradition. A tradition that has been handed down from generation to generation since 1780. “Being humble, but constant over time - says Enrico is the most difficult thing in an activity like ours. We are working for those who will be coming after us, aware that sometimes we go forward, but we often take a step back in order to respect what we were and to not forget where we come from ».

A noble Italian trattoria, worthy of being part of this elite gentry of pure nobility which knows how to ride the time, so much so as to tame it by offering evocations of an almost bygone world and pearls of an extremely innovative but solid cuisine.

Tutto è dentro queste righe «Sono me stessa al cento per cento solo quando cucino. Quando ho la possibilità di pensare semplicemente a quello che mi piace: l’ingrediente e la cucina. Ho scelto un ambiente preciso in cui lavorare: località Vencò, sei case a Dolegna del Collio. A Vencò sento che la bellezza mi aiuta a concentrarmi, c’è pace ma al contempo non è un luogo così isolato, è un posto da cui ho la possibilità di connettermi e disconnettermi a seconda della necessità…

…Sono grata al mio lavoro perché, se fatto con sincerità, l’atto di cucinare racchiude tutto di noi: i nostri gusti, la nostra storia, i nostri desideri più profondi. Dico sempre che, se vuoi conoscere profondamente una persona, il modo più rapido è mangiare la sua cucina. Presentare i miei piatti è per me raccontarmi anche a chi non mi conosce nel modo più intimo possibile…»

Tratto dal libro Antonia Klugmann Di cuore e

di coraggio. La mia storia, la mia cucina, Giunti Editore, Firenze 2018.

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una sognatrice tra i fornelli

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Vencò

Per chi guarda molto la TV, i programmi di cucina in particolare, Antonia Klugmann era uno dei giudici di MasterChef Italia. Per chi ama leggere è l’autrice del recente Di cuore e di coraggio. La mia storia, la mia cucina. C’è chi l’ha conosciuta all’Università, chi è stato paziente dei suoi genitori, medici entrambi.

Magari gli hanno prescritto una ricetta, ma le ricette migliori le crea Antonia.

Conoscerla di persona è come scoprire una formula per superare i momen-

per capire che si può scegliere la propria strada senza il timore di fallire, ma con la

ti critici della vita,

tenacia e la perseveranza necessarie.

D’altra parte il suo cognome, di origine tedesca, vuol dire “uomo saggio”. E assieme all’etimologia, da perfetta triestina qual è, porta con sé le contaminazioni di culture centro-europee, maturate però con lo sguardo sul mare aperto. I premi le sono arrivati naturalmente, mentre scopriva le varietà autoctone di frutta del Collio.

Antonia non ha seguito il mestiere di famiglia, né ha finito Giurisprudenza, ma si è lasciata conquistare dalla cucina, liberando il suo talento affinché la portasse verso altre strade. Ha ricominciato dal basso, in un altro contesto, dove prevalgono generalmente gli uomini. A Gorizia le hanno consegnato un premio, meno importante di altri,

ma significativo perché: «è un simbolo, un esempio, perciò la premiamo come donna. Una stella (non solo Michelin) del nostro territorio». Quando l’ho conosciuta, in quell’occasione, mi ha spie-

«sia difficile per una donna arrivare a tali risultati, perché deve sacrificare la propria vita privata. gato come

Ma per me era giusto intraprendere questa via – mi ha detto – e senza altre donne prima di me, io non ci sarei. Il destino ce lo costruiamo, assieme al compagno che ci sostiene, perché il contesto familiare è fondamentale». Dopo aver fatto diverse esperienze in cucina,

interrotte da un incidente, ha aperto un suo locale a Pavia di Udine nel 2006, poi ha lavorato a Venezia e dal 2014 è una cuoca che sta sull’Argine, a Dolegna, ad ammirare l’ambiente incontaminato del Collio, dove oltre ai vigneti ci sono alberi da frutta, ulivi e tante erbe spontanee. «Per me osservare la natura è un arricchimento. Nel prato – mi ha rivelato – la conoscenza botanica è importante e mi permette di portare in cucina e a tavola tante “erbacce” che altri distruggono». Per ora ha un ettaro, anche con varietà di grandi mele autoctone. Ricordando il ricettario di cucina triestina, scritto da Maria Stelvio nel 1927, e altre cuoche contemporanee, mi ha detto che «una persona deve scegliere per essere speciale». Lei speciale lo è di sicuro, visto che un anno dopo l’apertura ha ricevuto una stella Michelin, è stata “Novità dell’Anno” del Gambero Rosso e, nel 2016, “Cuoca dell’Anno” per Identità Golose. Andate nel suo ristorante, troverete una cucina moderna, che valorizza il territorio, stagionale e a vostra misura. Potete scegliere tre diversi menù degustazione e abbinarli a vini del Collio!

I.P.

ni still pursues the principles he learned from his father, that he was reminded of daily; a know-how mixed with passion, culture, study and experimentation; a man who had the unusual quality of knowing how to observe the cultural changes in wine drinkers, pre-empting their tastes so much so that much of what this man said fifty years ago is still relevant today.

di Andrea Zanfi

Non è semplice riassumere in poche righe la personalità di un uomo come Giovanni.

fotografie di © Renato Vettorato

Sarebbe più facile raccontarne la storia, indicando i tasselli che ne hanno contraddistinto i momenti catartici e l’evoluzione stessa che l’ha portato a mantenere inalterata la fama di un cognome che per decenni ha contraddistinto il settore enologico friulano. O soffermarsi sulla straordinaria sintonia che esisteva fra lui e suo padre Vittorio, per la famiglia Puiatti un riferimento così forte e stimolante da scandire ancora oggi il ritmo dei suoi passi, come campane che accompagnano i tempi lunghi della sua storia.

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For Giovanni, the “call to arms” came early on, while still pursuing his sporting career as a basketballer in Serie A. “Come home…I need you. I’ll teach you a craft”. These were the words of his father, Vittorio Puiatti, worried about his future: a future in the world of wine, where every bottle opened represents a test for Giovanni, because he knows that eventually everyone will offer a verdict. Making wine today, Giovan-

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Per lui ogni bottiglia stappata è un esame, perché sa che tutti alla fine emetteranno una sentenza, indiscutibilmente importante, anche se soggettiva od opinabile. Se le persone restano contente di ciò che bevono, si ha la certezza che il lavoro svolto in vigna e in cantina ha dato esiti positivi.

Occorre però, se ci si vuole migliorare, aprirsi in modo intelligente al confronto.

Se dovessi scegliere opterei per la prima ipotesi, il racconto storico, capace di riassumere la sua vita. So però, ancor prima di incominciare, che mi farò prendere la mano, facendo mia una sua frase – ad un tempo profonda ed emblematica –che lo inquadra perfettamente.

Quel «Presto fu tardi», sussurratomi tanti anni fa, ha colpito il mio animo. Al punto da indurmi a credere che proprio questa sia l’espressione che meglio lo rappresenta maggiormente, quasi includesse il preludio a un tempo bruciato troppo in fretta, divenuto irto di responsabilità assunte in tempi in cui si è chiamati, per natura ed età, a pensare ad altro. La fretta di bruciare i tempi, di rincorrere obiettivi voluti per lui da altri, accettati al punto di sentirli propri, fino a convincersi che lo sono stati e che sono degni oggi di essere festeggiati insieme alla sua quarantesima vendemmia.

Una chiamata alle “armi” avvenuta anzitempo, mentre la carriera sportiva di giocatore di basket di seria A era ancora in divenire. Riflessioni scandite a voce alta su quell’imposizione di tornare a casa, per iniziare a costruire un futuro vero e diverso da quello che viveva a vent’anni.

«Vieni a casa… Avrei bisogno di te.

Così ti insegno un mestiere».

Furono queste le parole di suo padre, difficili da digerire per chi, come lui, aveva davanti a sé un mondo da conquistare con la forza fisica, l’ingenuità e la bellezza dei suoi vent’anni.

Era il suo futuro ciò che a Vittorio premeva, convinto che quando Giovanni avesse dismesso i panni del cestista avrebbe pur dovuto fare qualcosa. Meglio dunque che ne prendesse coscienza prima, in modo da poter avere più opportunità di costruire qualcosa d’importante.

Sotto questo aspetto suo padre fu lungimirante, non c’è che dire.

Del resto era un uomo di grande carisma, dalle geniali intuizioni; uno che amava il suo territorio, dal quale sapeva trarre il meglio riversando il frutto del suo lavoro nel vino, che realizzava prediligendo la semplicità, sfruttando l’immediatezza dei toni varietali e delineando le variabilità di un terroir unico, al fine di mantenere intatte la fragranza e la freschezza.

Ancora oggi, nel fare vino, Giovanni porta avanti i principi che gli ha insegnato il padre, non avendo ancora trovato, negli studi, nelle tecniche nuove o nei gusti dei wine lovers, un motivo valido per dover prendere le distanze da quell’insegnamento. Nulla lo convince di più di ciò che quotidianamente gli ricordava Vittorio che, oltre a possedere un sapere capace di integrare passione e studi, sperimentazione e cultura, sapeva osservare con grande lungimiranza i cambiamenti culturali dei consumatori di vino, anticipandone i gusti e avendo ancora molto da dire a un mercato che solo oggi attua ancora ciò che quest’uomo ha detto cinquant’anni fa. Vittorio, per primo, va oltre il concetto di vino come bevanda, innalzandolo invece a momento di emo-

zione e piacere, ponendolo in una sfera artistica, estrapolandone emozioni fatte di profumi e bellezza, radicandosi nel concetto che la perfezione è nella materia prima e che l’uomo non ha il diritto di cambiarla per ricondurla ai propri limiti.

Certamente, per Giovanni, una figura profetica, capace di tracciare un solco destinato, nel suo stesso valorizzare il talento del figlio, a convincerlo però a non abbandonarlo più.

È la natura che comanda e c’è un solo Creatore. A me è concesso solo di essere “creativo”.

E Giovanni lo è stato e lo è, come si può scorgere dal coraggio, dalla forza e dalla determinazione di ripartire da Villa Parens con l’idea di fare spumanti di grande livello.

Dopo anni complessi e segnati da scelte non semplici, è ripatito alla grande. E lo ha fatto incidendo sulla porta della cantina la frase di una canzone di Vasco Rossi:

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Un antesignano delle tendenze odierne e un profondo conoscitore del mercato e delle sue bizzarrie, ma anche della sua centralità nella vita di ogni azienda.

Raccontano che il suo sguardo fosse dolce, ma che, quando la frangia scendeva o i tratti si incupivano, fosse meglio starne lontani. Era conosciuto come uomo severo, come sa esserlo ogni uomo “dritto” e di parola. Anche il motto che recitava, «Dì sempre la verità, soprattutto quando è contro di te», Giovanni l’ha fatto proprio, trasformandolo nella regola di vita di un’esistenza nella quale non ha mai smesso di guardarsi dal di fuori e di giudicarsi continuamente.

«Eh già... sembrava la fine del mondo, ma sono ancora qua.

Ci vuole abilità».

Nella nuova struttura regala il piacere di un’ospitalità improntata all’eleganza. E se fra gli ospiti non c’è qualcuno in grado di cucinare, si mangia serenamente pane e salame.

L’importante è che alla sua tavola si siedano uomini capaci di apprezzare il bello e desiderosi di conoscere il suo percorso di vita perché, come dice, «ho una storia da raccontare».

I.P.

and the old people teach them to young people thanks to the incentive of our internships, we have extraordinary chefs who can play with the fish magically combining it with wine ». The “Sicilia Seafood” represents therefore an added value for the transformation of the fish under the aegis of the Mediterranean identity, through the regeneration of the marine and terrestrial natural resources. An important chance for stimulating the emancipation and maturation of a rapidly developing market in the satisfaction index of consumers who increasingly privilege food consumption based on fish.

Sicilia Seafood Un mare di speranze

di Cinzia Taibbi

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fotografie di © Alessio Cech e Valentina Calosci

e certezze

Il Mediterraneo è il nostro vecchio, la nostra memoria, la nostra storia passata e presente. È lì da sempre, lo sentiamo nostro e lo viviamo come un nostro avo.

Lo osserviamo, lo solchiamo, lo immaginiamo e descriviamo; lo raffiguriamo nei dipinti, lo leggiamo nei racconti e sui volti dei pescatori che ogni giorno immergono le mani nelle sue acque. È come se volessimo dargli una connotazione che attinge alla sfera emotiva e personale di un rapporto diretto che ognuno ha con le sue acque. Sembra che quelle acque non facciano paura, siano amiche tanto da farci nascere un sentimento che sgorga dentro e ce lo fa sentire confidenzialmente vicino, tanto da chiamarlo Nostro, alla stregua di un parente o di un caro amico.

Assessorato Agricoltura, Sviluppo Rurale e Pesca Mediterranea Dipartimento della Pesca Mediterranea

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The Mediterranean is our old father, our memory, our past and present history. A sea that is 46 thousand kilometers wide that touches 27 states, where the beating heart is Sicily which is responsible for protecting and safeguarding this heritage. With this objective, the new “Sicilia Seafood” brand was born, which supports and disseminates the island’s excellent food products, particularly those linked to the fishing industry. “Even today in Brussels we recognize the anthropological value of territorial excellences - explains Dario Cartabellotta, director of the Department of Mediterranean fisheries of the Sicily Region - and here we have abundant skills and tradition. We have the trades of the sea,

È figlio degli Dei come lo siamo noi e per questo non ci fa paura, siamo nati con lui accanto, lo attraversiamo, lo calpestiamo e ne sentiamo la fragranza ogni volta che a lui ci accostiamo, ne sentiamo il fragore quando i venti lo cavalcano, ne percepiamo la sostanza quando contiamo i popoli che lo hanno attraversato e ne hanno raccontato le storie; quelle di Eros e Thanatos, di Venere e Plutone. In lui si sono specchiati pensieri, mille e mille volti e altrettante immagini che lo raffigurano e lo innalzano al di sopra di noi mortali. In tutto questo blu vi sono smeraldi, zaffiri e pietre preziose; sono le piccole e grandi isole cinte dal suo abbraccio, possedute dalla sua forza, amate dallo stesso per la loro bellezza.

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Un’entità superiore che ha sempre governato la vita della Sicilia.

Parole che si innalzano e il vento le porta via, dietro le quali ci sono altre che arrivano raccontando storie tutte diverse.

Parole che fluiscono abbondanti come le sue acque e disegnano il fare e il sapere delle genti, le arti e i mestieri, la vita e la morte, la poesia e la realtà. Un continente di acqua che bagna altri continenti che hanno tratto dalle sua acque risorse, creando economia di scambi e di sostentamento.

Ecco cos’è il Mediterraneo. Un mare largo 46 mila chilometri che tocca ben 27 Stati e influenza la vita di oltre 500 milioni di persone. Il cuore pulsante di questo areale è la Sicilia che non può rimanere emerito spettatore o esimersi dall’accollarsi la responsabilità di tutelare e salvaguardare questo patrimonio senza intaccare gli aspetti produttivi che lo stesso alimenta e rappresenta.

Ma come può riuscirci?

Costruendo un sistema che non divide, ma accomuna le genti che su di esso si affacciano, valorizzandone le peculiarità culturali e identitarie, le arti e i mestieri, creando reddito intorno alle sue risorse, in un’ottica moderna e inclusiva, mantenendo vigile il controllo della sostenibilità che questo mare necessita.

Sì, sostenibilità, dal verbo latino “sustinere” che significa “sostenere” qualcosa, mantenerla e conservarla così com’è nel presente, proteggendola e tutelandola per il futuro senza produrre degrado, senza mutarne l’animo, l’essenza e il senso. Sostenere si coniuga perfettamente all’ecosistema e all’ambiente, alla salubrità del nostro vivere, alla capacità di saper armonizzare l’utilizzo delle risorse naturali a un ritmo consono al loro rigenerarsi naturalmente. Il concetto non ha un argine definito, ma si estende in senso globale anche all’ambito economico e sociale essendo questi elementi, strettamente correlati e interdipendenti.

Sappiamo bene che lo sviluppo economico non può essere raggiunto a scapito dell’ambiente, anche se questo, deve generare reddito e lavoro. È così anche per l’aspetto sociale

La sostenibilità è cultura La cultura è l’elemento catalizzante, l’amplificatore delle coscienze, l’humus del pensiero di chiunque si approcci o decida di operare nell’idea della sostenibilità globale, cercando di creare economia e coesione sociale, offrendo un senso di grande rispetto a tutto ciò che lo circonda, un valore preminente per il nostro futuro.

Sono questi alcuni pensieri con cui Dario Cartabellotta, direttore del Dipartimento della pesca mediterranea della Regione Siciliana, costruisce la proprie certezza, che solo così si può e si deve valorizzarene la biodiversità dell’eco-sistema del Mediterraneo.

È con questo obiettivo che è nato il nuovo brand “Sicilia Seafood” che sostiene e divulga le eccellenze agroalimentari dell’Isola, nella fattispecie quelle legate al settore ittico.

«Abbiamo deciso di parlare di seafood – spiega Cartabellotta – cioè del cibo che viene dal mare, del pesce trasformato ed elaborato in mille specialità gastronomiche e di acquacoltura. Un settore con grandi potenzialità che pertanto deve essere ben comunicato, per arrivare chiaramente agli addetti del settore e ai potenziali fruitori».

Un settore, quello del seafood, che vanta, oggi in Sicilia, ben 500 milioni di fatturato essendo salito al terzo posto nello scacchiere dei prodotti agroalimentari e ittici, sotto al vino, che raggiunge ormai quota 1 miliardo di euro e l’ortofrutta che tocca gli 800 milioni.

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per il quale la sostenibilità deve basarsi sul concetto di equità come principio etico, procedendo di pari passo con lo sviluppo. Ne parliamo e scopriamo e sentiamo più voci in questa babele di lingue, avendo sempre più chiaro che la sostenibilità è legata alla cultura che è forse il suo valore maggiore, la benzina e il motore del sistema sostenibile.

«Oggi anche a Bruxelles si riconosce il valore antropologico delle eccellenze territoriali – prosegue Cartabellotta – e qui abbiamo competenze e tradizione in abbondanza. Abbiamo i mestieri del mare, i vecchi che li insegnano ai giovani anche grazie all’incentivo dei nostri tirocini, abbiamo Chef straordinari che sanno giocare col pesce abbinandolo magicamente al vino».

Sotto il brand Sicilia Seafood – ideato appositamente per l’ultima edizione di Blue Sea Land - l’Expo dei Cluster del Mediterraneo, dell’Africa e del Medioriente e delle filiere agro-ittico-alimentari italiane e siciliane – il sistema ha preso forma, con la presenza a Mazara del Vallo di 80 imprese siciliane, delle quali 20 del luogo; numeri che certificano la ricchezza culturale e tecnica presente sul territorio siciliano alla quale si è aggiunta quella apportata dalle 58 delegazioni straniere che hanno espresso la determinazione corale di voler sostenere questo progetto di identità mediterranea.

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Un duetto tra pesce e vino, anzi “donne del vino”, secondo un’idea nata da Cartabellotta e che reputiamo di sicuro impatto promozionale.

A oggi sono dieci le aziende che hanno aderito al marchio Sicilia Seafood presenziando alla fiera e promuovendo il pesce fresco e il trasformato di pesce azzurro, quello affumicato, il gambero rosso, compresa la produzione di tartare di gamberoni.

Una occasione importante per stimolare l’emancipazione e la maturazione di un mercato in forte sviluppo nell’indice di gradimento dei consumatori, che privilegiano sempre di più i consumi alimentari a base di pesce.

Il Sicilia Seafood rappresenta dunque un valore aggiunto per la trasformazione del pescato sotto il segno della identità mediterranea attraverso la rigenerazione delle risorse naturali marine e terrestri. L’innovazione nei processi produttivi, la responsabilità individuale e collettiva che dalla produzione arriva al mercato creando nuove figure professionali.

Un modo splendido di porre la Sicilia ancora al centro del Mediterraneo e, in questo caso, non solo sotto l’aspetto geografico.

marchio Seafood come già anticipato, è stato creato per il Blue Sea Land, giunto quest’anno alla sua settima edizione.

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Un momento di incontro tra tutti i Paesi rivieraschi che si affacciano sul Mare Nostrum, ideato e fortemente sostenuto da Giovanni Tumbiolo, presidente del Distretto della Pesca, per il quale Mazara del Vallo con il suo spirito di tollerenza e integrazione, è la prima vera metropoli multiculturale del Sud Europa, dove la condivisione dello spazio cittadino è imperniato, in maniera naturale, sul dialogo e il rispetto dell’altro.

Una scelta non casuale dunque, quella della città trapanese come luogo di incontro, perchè Mazara del Vallo è oggi il porto peschereccio più importante d’Italia e si avvale di molta manodopera maghrebina che rievoca il legame con la dominazione saracena iniziata nell’827, che fece di Mazara il più importante centro di scambi tra Sicilia e Africa istituendo anche un centro di studi islamici per l’insegnamento della letteratura, della poesia, del diritto e della religione.

Un legame quello tra mazaresi e africani che dunque risale a secoli or sono, senza mai venire meno, ma rinsaldandosi con la forza che un modello positivo di integrazione sa dare quando diventa consuetudine.

Il compianto presidente Tumbiolo così spiegava la sua scelta in un’intervista a La voce di New York pochi mesi fa: «Il dialogo, a Mazara del Vallo, lo troviamo nella vita quotidiana della Kasbah. Piazza San Francesco è il simbolo della convivenza religiosa: la moschea e la Chiesa. I bambini che giocano a pallone in quella piazza, escono dalla moschea ed entrano in Chiesa. Sono siciliani di origine diversa, loro non lo sanno ma sono i più grandi portatori sani di un elemento innovativo: il dialogo. Lo esercitano senza pensarci, in maniera naturale, il che vuol dire che si può fare».

La marineria di Mazara è dunque l’emblema

dell’integrazione con persone che parlano lingue diverse e profes-

sano religioni diverse in uno spazio ristretto, ma il lavoro diventa strumento di convivenza pacifica. A Mazara non c’è solo tolleranza ma accettazione e rispetto perché nonostante sia una città profondamente cristiana, per 5 volte al giorno si sente il canto del muezzin.

Nell’immaginario del suo padre fondatore, Blue Sea Land doveva essere un appuntamento fisso tra le diplomazie dei Paesi mediterranei, un luogo di dialogo tra membri della comunità mediterranea non soltanto inteso come confronto culturale, ma anche emotivo e sociale nell’ottica di un modello replicabile in ogni Paese costiero per offrire un contributo sostanziale all’avvio di un dialogo internazionale. Blue Sea Land è un’agorà dove si incontrano molti elementi e il tutto avviene in maniera armonica e informale. I delegati si incontrano con l’uomo della strada, non si fanno solo affari ma si discute e si fanno prove di convivenza tra diverse culture.

Blue Sea Land rappresenta dunque un laboratorio di diplomazia enogastronomica, un importan-

te strumento di unione attraverso i sapori e i saperi dei territori mediterranei, africani e mediorientali e riesce nella capacità di mettere insieme valori, opere, innovazioni e ricerca perché le sue edizioni sono tematiche pur prendendo sempre il via dai concetti che rappresentano l’anima della manifestazione ovvero blue e green economy e, conseguentemente, economia circolare ovvero un’economia capace di auto-rigenerarsi.

Il direttore del Dipartimento Pesca della Regione Siciliana, Dario Cartabellotta, con lo slogan “Sicilia Pesca Mediterranea” lanciato durante i quattro giorni dell’evento, ha inteso non soltanto dare operatività ai progetti attraverso un viaggio fra mare e terra nella condivisione del modello del cluster, ma ha anche annunciato le date della prossima edizione di Blue Sea Land che, ferma restando la sede, saranno dal 17 al 20 ottobre 2019.

Sono state molte le conferenze in cartellone per questa edizione 2018 che hanno spaziato nella trattazione di temi legati in maniera diversa al nucleo Mediterraneo inteso come elemento di forza, di coesione e di sviluppo, non soltanto per la ricchezza che da esso proviene in maniera diretta e quindi il pescato e la sua trasformazione – che segue per ogni Paese le tradizionali ricette – ma anche per gli elementi di terra che il suo clima ci permette di ottenere e che non sono replicabili in altre aree.

Di particolare interesse il connubio mare e terra, pescato e vino e soprattutto tra donne di mare e di terra. Forze nuove e generose che si sono dedicate ai due elementi ereditati da nonni e genitori. Donne che non si sottraggono alle fatiche e agli alterni umori di un mare e di una terra che oggi danno ma domani tolgono, che oggi si offrono e domani diventano indomabili. Impresa, ricerca, innovazione e protezione del mare dal punto di vista femminile dunque, con “Donne di Mare”, gruppo che riunisce 15 donne che con la Sicilia e il suo mare hanno costruito un rapporto privilegiato, diventandone portavoce e autentico modello imprenditoriale, manageriale e culturale. Donne che oggi sono parte integrante della filiera ittica siciliana e simbolo di una pesca al femminile che è il vero valore aggiunto dell’intero comparto. Un punto di svolta dato da un’intelligenza tutta al femminile e una competenza frutto di esperienze personali diverse e di un alto livello professionale.

Ma una discussione economica non può prescindere, come si è detto in questi forum, dalla salvaguardia del mare nostrum, dagli elementi inquinanti e soprattutto dalla plastica che finisce in mare uccidendo la fauna che dovrebbe invece diventare elemento di mercato. La plastica è oggi una delle maggiori emergenze nel Mediterraneo, proviene dal turismo, dall’industria e dalla pe-

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sca e influisce in maniera crescente sulla quantità e qualità del pescato. Occorre subito gestire il fenomeno a livello mediterraneo coinvolgendo la politica a più livelli, da quello locale a quello statale come ha sottolineato nel suo intervento Miguel Garcia Herraiz, vice segretario generale della Union for Mediterranean, esperto di blu economy.

E se pur in un’ottica di condivisione, non sono mancate le discussioni in merito ai confini territoriali delle acque con i quali spesso si scontrano i pescherecci mazaresi. Ma se pur il concetto di confine implica, per sua natura, la delimitazione di uno spazio, questa non è vista come motivo di salvaguardia territoriale di un mare che è di tutti, ma come elemento di pace. Per ottenere stabilità nel bacino occorre infatti creare opportunità di lavoro per i milioni di giovani in movimento, opportunità colte dall’UE nel settore della trasformazione del pescato e dei prodotti agricoli da valorizzare sui mercati. Tra i risultati che questa edizione dell’Expò mediterraneo ha portato a casa c’è l’approvazione da parte di tutti i rappresentati dei Paesi coinvolti, del documento da presentare al Ministero dello Sviluppo Economico che prevede come filo conduttore il ruolo del settore agroalimentare per il rilancio dell’Export delle imprese e la bioeconomia.

Il modello del cluster infatti è opposto a quello delle grandi industrie perché fa leva sulle piccole attività, sull’artigianalità. Questo modello consente all’Italia di andare avanti nonostante la crisi perché i cluster conservano un’economia reale, un lavoro di tradizione, identità, artigianato e connessione con il territorio. Lo sforzo di Mazara, «come città titolare del distretto della pesca, è quello di esportare in Africa e in Medio Oriente il modello del cluster della pesca attraverso la creazione di un ponte con la Sicilia, creando opportunità, senza l’obiettivo di delocalizzare ma cooperare.

Un modello vincente nell’era della globalizzazione» (presidente distretto Pesca e Crescita Blu, Nino Carlino).

Oltre 40 sono state le delegazioni presenti al Blue Sea Land che hanno fatto di questa edizione già un successo dal quale sono scaturiti alcuni importanti accordi. Ma importantissimo è che il modello di Blue Sea Land e del cluster delle imprese sarà esportato in altri Paesi africani, mentre la presenza

dell’associazione IORA dei Paesi dell’Oceano Pacifico, presente per la prima volta, aprirà nuovi mercati alle aziende siciliane.

Tra le grandi novità un peschereccio ad alta tecnologia costruito nei cantieri di Mazara da inviare in Egitto e un accordo con la Liberia, che riaprirà le porte dopo la guerra ai nostri pescherecci che torneranno in quei mari. Infine è stato siglato un protocollo d’intesa con il Ghana per creare un modello di Distretto con i nostri armatori e le loro barche che potranno pescare anche in quella zona di mare.

Ogni anno il Blue Sea Land cresce grazie a un modello propositivo che affronta temi sempre diversi ma basati su reali esigenze: l’acqua, la lotta allo spreco alimentare, il supporto alle imprese artigiane e la lotta alla disoccupazione giovanile nei settori mare e terra. È un modello di sviluppo made in Sicily quello che viene dunque proposto: il cluster della pesca e del mare, fatto di piccole imprese e attività artigianali, proprio perchè in Sicilia sono molti i distretti, da quello agroalimentare a quello del vino, e soprattutto quello della pesca che nasce a Mazara. Come ripeteva Tumbiolo, affettuosamente chiamato il ministro del Mediterraneo, «il Distretto ha inventato la blue economy in tempi non sospetti, quando nessuno ne parlava. La vera identità della blue economy è stata fatta qui con esperimenti nelle micro imprese, con artigiani che hanno capacità di innovare senza avere grandi sistemi di ricerca, anche se tra gli associati abbiamo il CNR. Il futuro del distretto è quello di cooperare con i Paesi della sponda sud del Mediterraneo, nonostante la situazione complicata con la Libia. Per riuscire a risolvere questa situazione, che dura da oltre cinquanta anni e che al Distretto è costata oltre 250 sequestri, 3 morti, diversi prigionieri, dobbiamo lavorare con il dialogo».

Dario Cartabellotta, direttore Dipartimento Pesca Mediterranea-Regione Siciliana, ha annunciato i nuovi progetti a favore

dello sviluppo comune dell’area del bacino mediterraneo, il “grande lago”, bagnato da 37 Stati che partono da alcune peculiarità locali: «Il modello del cluster che è partito da Mazara rende tutti indispensabili, e la chiave vincente è il dialogo tra le culture.

Per la gestione del Gambero Rosso ci vorrà una soluzione condivisa, intravista da Tumbiolo nella “Blu Economic Zone”, mentre sono già partiti gli itinerari mediterranei per il cibo, la cultura e il turismo, il brand del pesce siciliano si è sposato con il vino e con il grano anche sulle piattaforme informatiche».

Mazara infatti, è anche la città del Gambero Rosso che, se tutelato e ben promosso, diventa portavoce di un’identità territoriale specifica che funge da traino non soltanto per l’economia ma anche per il turismo. Con il Blue Sea Land si è creata anche un’attrazione turistica di qualità, con visitatori attratti da un modello di valore che è il cluster e dalla filosofia della blue economy.

Ma questa peculiarità non soltanto deve essere identificata in maniera chiara ma anche protetta, soprattutto la fascia più alta. Il distretto ha creato un disciplinare che tuttavia non può essere imposto ma “adottato” dai produttori e distributori che potranno avvalersi di strumenti identificativi, ovvero con i quali identificare il DNA del prodotto.

Il problema resta la volontà degli operatori.

Il Gambero Rosso di Mazara è stato protagonista di diversi momenti degustativi durante la kermesse, in particolare di Rosso Di Vino che ha celebrato l’unione tra le aziende Rosso di Mazara, Tenuta Gorghi Tondi e FAO37. L’accostamento tra vino di Sicilia e Gambero Rosso naque nella prima edizione del Blue Sea Land, su idea di Giovanni Tumbiolo e Dino Taschetta, presidente della cantina Colomba Bianca e attuale sponsor della manifestazione.

Sono state molte e diversificate le realtà aziendali isolane che hanno partecipato ai tanti momenti di ritrovo e confronto, presentando le eccellenze del territorio rielaborate in nuove ed esaltanti combinazioni come quelle proposte dall’azienda Rosso di Mazara che commercializza il Gambero Rosso in Italia, all’estero e produce olio da condimento estratto dalla parte più succulenta del Gambero Rosso, il carapace. Tenuta Gorghi Tondi, realtà imprenditoriale

Assessorato Agricoltura, Sviluppo Rurale e Pesca Mediterranea Dipartimento della Pesca Mediterranea

che nasce nei vigneti della riserva naturale “Lago Preola e Gorghi Tondi” e si distingue per la sua green attitude, il rispetto dell’ambiente e il controllo della filiera produttiva e infine, FAO37 Ristopescheria, giovane impresa nel campo della gastronomia, con la mission di rivisitare la cucina tradizionale in ottica contemporanea.

Tanti dunque i successi in termini di numeri, di idee, di rapporti diplomatici, che segnano questa ultima edizione di Blue

Sea Land che vogliamo simbolicamente chiudere con le parole dell’assessore regionale all’Agricoltura, Sviluppo Rurale e Pesca Mediterranea, Edy Bandiera: «Questo evento ridona alla Sicilia un ruolo centrale e strategico per la Comunità Mediterranea sia in ambito economico, occupazionale che di relazioni. Poiché il Mare Nostrum comprende 46 mila chilometri di costa e 27 Paesi che la condividono, c’è la necessità di regolarizzare i rapporti trans-frontalieri ed euromediterranei per far sì che si possa perseguire il sogno che era di Giovanni Tumbiolo, ovvero la blue economic zone, e

di superare quella che egli stesso definì la guerra del pesce.

Proprio nell’ottica di ridare “centralità mediterrana” alla Sicilia si indirizzano investimenti importanti non soltanto economici, ma di costituzione in rete di forze nuove e internazionali, perché l’obiettivo principale che dobbiamo perseguire è quello della pace attraverso momenti di confronto di dialogo e di condivisione. Ricordiamo del resto che problematiche complesse o opportunità complesse necessitano di un approccio pluridisciplinare, quindi una grande sintonia tra gli assessori e tutto il Governo Regionale.

Giovanni Tumbiolo lascia un vuoto, ma anche una straordinaria eredità immateriale che abbiamo il dovere di onorare e di perseguire perché, come lui stesso diceva: l’universo gira con un unico scopo, quello di farci incontrare e a Mazara del Vallo prima o poi ci devi arrivare».

Giorgio Grai di Fabio Piccoli

Today, more than ever, the world of Italian wine needs men like Giorgio Grai, a figure distinguished not only by his great competence and professionalism, but also as guardian of a priceless collection of memories in the recent history of wine. “Accomplished handyman, knight of good taste and engineer of organisation”, as

his wife, who died prematurely, described him, he is one of the most noted oenologists at both a local and international level, known above all for his ability to stay ahead of the times. Signs of his enthusiastic desire to restore dignity to Italian wine can be found in each and every one of his undertakings.

Uomini come Giorgio Grai dovrebbero essere eterni. Solo così si potrebbe fruire illimitatamente dei loro insegnamenti.

Oggi, più che mai, il mondo italiano del vino ha bisogno di chi, come lui, non solo ha una grande competenza e professionalità, ma anche possiede un bagaglio di memoria orale della recente storia del vino a un tempo straordinario e a rischio purtroppo di estinzione.

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Il signore del vino italiano

Osservatore privilegiato dell’universo italiano del vino, ha attraversato il suo tempo con coraggio, coerenza e signorilità inusuale e, con i suoi 88 anni compiuti, continua a essere uno degli enologi italiani più autorevoli anche a livello internazionale, soprattutto per la sua capacità, tipica dei grandi enologici, di anticipare i tempi. Persone come lui, capaci di tracciare un solco indelebile e condiviso, ce ne sono veramente poche. È risaputo da tutti che Giorgio Grai ha guidato al successo numerose aziende, dando notorietà a molti vitigni e territori del vino italiani, con una dote rara, frutto di un talento straordinario e di una comprovata esperienza: osservare e capire intimamente i vini.

Non è certo per caso che sia stato, anche se pochissimi lo sanno, uno dei consiglieri più ascoltati di Luigi Veronelli, indubbiamente l’uomo di punta della critica enologica italiana.

Scevro da ogni forma di protagonismo, alle luci del palcoscenico ha sempre preferito la penombra del dietro le quinte, lavorando però duramente e con intelli-

gente lungimiranza. «Dottore nel tuttofare, cavaliere del buongusto e ingegnere nell’arrangiarsi», così aveva scherzosamente scritto a mano sua moglie – morta prematuramente lasciandogli due piccole figlie – sotto il nome stampato su un biglietto da visita che certamente Grai custodisce ancora gelosamente nel portafoglio.

Potrebbe sembrare una descrizione simpaticamente ironica, ma a scriverla è stata una donna che ben lo conosceva. Poche parole giocose per tratteggiare l’identità autentica di questo grande uomo che, nato a Bolzano da padre triestino e madre trentina, in un momento in cui la cultura vitivinicola del nostro Paese era ai minimi storici, riuscì a dare un contributo dav-

vero decisivo alla crescita e alla credibilità della qualità enologica nostrana.

Ridare dignità al vino italiano, non di rado polemicamente ma sempre in una prospettiva costruttiva, è stato e continua a essere per lui un anelito insopprimibile, di cui si trova traccia in ogni suo intervento. Di recente, ad esempio, nel corso di un convegno sul vino delle Marche al cui sviluppo ha lavorato a lungo, Grai affermava: «Bisogna essere curiosi, ma anche rispettosi. Non si deve avere la smania di monetizzare subito e anche il tempo va tenuto nella dovuta considerazione.

Bruciare le tappe non serve a nessuno.

Tantomeno al vino. Avevo immaginato nuovi vini dai vitigni endemici, e badate bene endemici, non autoctoni, perché se

così fosse si dovrebbe essere in Mesopotamia, perché è da lì che è nato tutto! I vitigni delle Marche sono straordinari, ma è necessario capire, interpretare, individuare strade nuove, ma sempre attente a quel che un territorio può dare in termini di qualità».

Parole che fanno capire lo stile, il coraggio e la determinazione di Grai, da sempre poco incline alle suggestioni della comunicazione banale del vino e portato invece a dire la verità, anche laddove essa poteva risultare scomoda.

A spingerlo in questa direzione, del resto, è da sempre il suo modo di concepire la figura dell’enologo: «Vorrei far chiarezza

– ha affermato non molto tempo fa – sul termine enotecnico, perché spesso si fa confusione. L’enotecnico è colui che ha la funzione di conoscere la scienza dell’enologia e sa applicarla, si serve della tecnologia ma sa che è un alibi, perché tutte quelle apparecchiature straordinarie che si vedono oggi in cantina non servirebbero a niente se non si facesse attenzione al processo della vinificazione e al prodotto che deve essere vinificato. L’industria vuole risparmiare i tempi, ha grandi urgenze, ma il tempo, lo ribadisco, va rispettato.

L’enologo non deve fare miracoli, aggiustando un vino, ma è sicuramente la figura che deve prevedere, sin dalla fioritura della vite, l’andamento della stagione. Solo

ponendo un’estrema attenzione a ogni particolare, senza mai perdere di vista tutte le variazioni della vigna e le informazioni che da essa si ricevono, riuscirà a stabilire quando e come vendemmiare».

Una descrizione dell’enologo, quella di Giorgio Grai, che si attaglia perfettamente proprio a lui, spinto dalla sua enorme passione per il vino a suggerire ai sommelier di cercare di creare emozioni, usando la testa in proprio ed evitando di proporre un vino solo in ragione del fascino di un’etichetta o del prestigio di una cantina.

E capace di apostrofare benevolmente Paola Di Maura, nota produttrice di Marino, con una frase certo non tenera: «Ma perché lei, che potrebbe fare un figlio sano, si accontenta di un figlio zoppo?».

I.P.

Un volano chiamato

Prosecco

un trend capace di fare da traino all’intero mondo del vino italiano

Nine years after the creation of the Designation, the Prosecco DOC (controlled designation of origin) is anything but a temporary phenomenon, with all due respect to those who wonder if it will last. Stefano Zanette, who continues to work untiringly for its future says: “We are following a path that gives continuity to the Prosecco project, aiming at a balance between supply and demand.

How? By making important and not always popular choices, such as the stockpiling of part of the production. Then there are other more visionary choices, like enlarging the production areas of the DOC in order to have enough to satisfy the market, monitoring the quality and binding

it inextricably to environmental and landscape measures. In the Italian world of wine – continues Zanette – there’s still a lot to be done.

Despite the current challenges, and although difficult for some to imagine, with the right incentives and promotions Prosecco will improve the Italian wine market. Joining forces we can do so much more. If we made a system, at regional and/ or national level, we would be able to maximise the shelf positioning of the entire Made in Italy brand. It would be even better to work together as a nation, promoting Italy by uniting wine and food”.

di Clementina Palese Foto gentilmente concesse dal Consorzio di Tutela Prosecco DOC

A nove anni dalla nascita della Denominazione, il Prosecco DOC è tutt’altro che un fenomeno passeggero, con buona pace di quelli che si chiedono quanto durerà. Parola di Stefano Zanette che alacremente continua a lavorare per il futuro: «Lavoriamo in un solco tracciato che dà continuità al progetto Prosecco puntando all’equilibrio tra la domanda e l’offerta. Come? Facendo scelte importanti, alcune impopolari, come lo stoccaggio di parte della produzione, altre più visionare, come l’ampliamento delle superfici della DOC per disporre di prodotto per soddisfare i mercati, controllando la qualità e legandolo indissolubilmente a delle misure ambientali e paesaggistiche.

US A a i nc

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Un compito quanto mai complesso che affrontiamo attraverso la ricerca di nuovi mercati e il monitoraggio continuo soprattutto di quelli per noi importanti che presentano delle criticità, quali Regno Unito e Stati Uniti, rispettivamente per la Brexit e per i dazi minacciati dal presidente Trump. Nonostante tutto siamo fiduciosi perché le vendite vanno in controtendenza rispetto alle ripercussioni paventate dagli analisti. Mentre negli USA il trend è stabile, nel Regno Unito aumenta il valore per bottiglia, pur a fronte di una leggera contrazione nei volumi.

D’altra parte dobbiamo essere pronti a qualsiasi eventualità di contrazione di questi due mercati, che insieme assorbono il 57% delle nostre esportazioni: un 37% per il Regno Unito e un 20% per gli Stati Uniti. Nel mentre concentriamo i nostri sforzi sull’apertura di altri mercati,

dove stiamo crescendo in modo esponenziale: in Francia, che ormai è divenuta il nostro quarto mercato di riferimento; nei Paesi dell’Est, in Europa, in Indocina e in Australia. Più complesso il discorso sulla Cina, dove un mercato particolarissimo ha finora impedito l’imporsi del prodotto, nonostante l’intensa attività promozionale concretizzatasi anche nell’apertura di una “Casa Prosecco”.

Il cinese è un consumatore difficile e variegato, spalmato su un territorio enorme e molto controverso nelle sue espressioni. E se in alcune aree sembra percorribile la strada dell’abbinamento con la cucina, più globalmente occorre lavorare sui giovani che, associando il Prosecco alla moda e all’Italian Style, possono essere sensibili al consumo del Prosecco nel contesto di aperitivi e party».

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Il Prosecco DOC “è un lusso democratico” che si è trovato al momento giusto nel posto giusto. Con questo vino i paroloni astrusi, che spesso riempiono libri e guide, che nessuno legge, che gravitano intorno “al bere” non servono, così come non serve far credere che “il bere” è un mestiere, un esercizio per pochi eletti, un’arte a cui solo chi sa di sapere si può avvicinare.

Così ha incontrato un consumatore che voleva bere uno spumante meno alcolico, meno impegnativo dal punto di vista della lettura, che fosse di buona qualità a un prezzo accessibile a tutte le tasche e – fatto importantissimo – da bere sempre senza dover ricercare un’occasione particolare: «Alla ricerca di una giusta disponibilità dell’offerta nel 2017, abbiamo avviato un progetto triennale che prevede l’impianto di circa 26 mila ettari di superficie vitata, così come ci stiamo attivando per regolamentare il progetto Prosecco Rosé.

Una grande opportunità per ampliare l’offerta e creare il differenziale del valore che deve esserci all’interno di una Denominazione così grande. Le analisi condotte confermano che il Prosecco Rosé è visto come un prodotto dalle potenzialità enormi. Pensando di costruire un futuro ancora più propositivo abbiamo iniziato una serie di ricerche e sperimentazioni sui due vitigni attualmente previsti dal disciplinare: la Glera e il Pinot Nero. Pensiamo a un prodotto con un affinamento più lungo per creare una netta distinzione di valore fra i due prodotti a marchio Prosecco DOC. Siamo certi che sarà un Metodo Italiano pronto a sorprendere i mercati e farci mantenere ai livelli che abbiamo guadagnato nel panorama vitivinicolo mondiale. Livelli non legati soltanto all’estensione e ai numeri in sé della DOC, ma riferibile anche a ciò che il Prosecco rappresenta nel panorama mondiale, essendo divenuto un emblema del Made in Italy». È significativo che importanti marchi di rossi toscani stiano inserendo nella loro offerta il Prosecco DOC, anche acquistando vigneti e aziende: «La crescita è stata spumeggiante, ma anche controllata. Siamo arrivati a questo punto con i piedi per terra. Tuttavia sull’Italia del vino c’è molto da lavorare: a dispetto di quanto sta accadendo, si stenta a capire che il Prosecco può trainare tutto il vino italiano. Unendo le forze potremmo fare molto di più. Se facessimo sistema, a livello regionale e/o nazionale, riusciremmo a valorizzare i diversi posizionamenti a scaffale e l’intero Made in Italy. Per non dire quanto nella promozione sarebbe utile lavorare insieme come Italia, possibilmente unendo il vino e il food».

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Il Prosecco ha scardinato ogni elemento precostituito, costruendo una realtà nuova e divenendone interprete; un fenomeno socialmente ampio, di cui è interprete in comunione con la “gente” comune, quella che dopo aver lavorato otto ore ha voglia di bere un bicchiere di vino senza farsi troppe domande.

I.P.

nettoni and Offelle (typical Italian sweet

have dedicated themselves to the art of pa-

bread cakes) are sold in over 20 countries

stry making here at Bovolone. I continue

around the world and are much apprecia-

to learn this art from two “pillars” – my

ted and highly sought after products. For

uncle Giovanni Battista and his brother

this reason I am convinced that we must

Flavio who, even though they are very

follow a path which cannot be separated

different in character, both convey to me

from what we represent in the context of

the same motivation as when they began

Italian pastry makers: we are craftsman,

over 50 years ago. Today our Pandori, Pa-

and we are happy to be precisely that.

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For over a century the Perbellini family

Pasticceria Perbellini

Foto gentilmente concesse da Pasticceria Perbellini

di Andrea Zanfi

Pierluigi Perbellini Mi piace come lavorano e come svolgono ciò che amano. È un piacere vederli aggirarsi fra il negozio e il laboratorio della pasticceria di famiglia Sono al cospetto dei Perbellini, pasticceri da oltre un secolo a Bovolone, gli unici che io conosca ad essere riusciti a tenere il timone dritto su una rotta ben chiara, adattandosi, camaleonticamente, al cambiamento dei tempi, facendo apparire magica la tradizione dolciaria alla quale appartengono.

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66 Una rotta portata avanti da tutte le generazioni che si sono susseguite alla direzione di questa azienda familiare, ognuna delle quali ha contribuito a consolidare il passato facendolo risultare sempre moderno.

Camminare su un percorso ben tracciato dà sicurezza, sensazione però che non è facile sentire propria per così tanto tempo, soprattutto se riferita all’arte pasticcera, ma è ciò che riescono a trasmettere i Perbellini guardandoli negli occhi.

Deve essere la consapevolezza del loro passato e la certezza di poter contare su una tradizione orale a renderli così fieri di ciò che sono, sapendo di regalare piacevolezza e sapori sempre attuali, riuscendo ad “addolcire” il sacrificio che la quotidianità a loro chiede.

Li vedo aggirarsi nel laboratorio come se quell’habitat composto da pianali, impastatrici e gli “stenditoi” sui quali riposano panettoni e le Offelle, fosse il loro parco giochi.

Quell’odore di vaniglia, burro e zucchero li abbraccia ogni giorno.

Profumi di una ricetta perfetta, stimolante sotto ogni punto di vista, sapendo d’essere avvantaggiati nell’aver come esempi due “colonne” quali Giovanni Battista Perbellini, nato anche lui a Bovolone il 24 giugno 1937 e suo fratello Flavio, di diciotto anni più giovane, i quali, pur nella loro diversità caratteriale, trasmettono a tutti gli stessi stimoli di quando iniziarono a lavorare oltre cinquant’anni addietro. È come se si trovassero al cospetto del Mastro Martino e sfogliassero, ogni giorno, il suo libro De Arte Coquinaria, scritto nel 1465, in cui si menziona, tra le altre cose, molte ricette fra le quali anche quelle delle Offelle de lo Palio.

Da quei due totem sgorgano un’infinità di notizie, basta pensare che Giovanni Battista iniziò a 14 anni, non ancora compiuti, ed è ancora qui a stimolare chiunque gli giri intorno, mentre Flavio, dal carattere molto più pragmatico, osserva e controlla ancora ogni cosa gli passi sotto il naso. Mi raccontano che era appena passata la guerra e già lavoravano nella pasticceria di famiglia, che produceva della biscotteria durante i primi giorni della settimana, mentre nel finire preparavano

sia la pasticceria fresca sia le torte ordinate per la domenica.

Erano comunque anni difficili, duranti i quali si dicevano «Se facciamo un impasto di spumini tutte le sere, possiamo com prare anche la macchina planetaria sbattiuova. Facendo così potremmo riuscire a pagare la cambiale di 30.000 lire al mese, dato che costa ben 360.000 lire».

Mi raccontano che avevano solo 24 stampi per i cannoncini e per questo erano costretti a cuocerli almeno 6-7 volte in un giorno per averli pronti per la domenica, mentre adesso ne hanno 3.000 di stampi e li preparano freschi ogni giorno.

Degli artigiani che lavoravano e lavorano ancora per importanti obiettivi.

Altri tempi rispetto all’odierna realtà essendo conosciuti nel modo per quella Offella riproposta sul mercato dal nonno che, dopo essersi licenziato dalla Melegatti di Verona, dove aveva inventato il Pandoro, si dedicò a recuperare quell’antico dolce, cambiandolo un po’ in alcune parti della ricetta, aggiungendo burro e mandorle al posto dei pinoli. Era un personaggio unico quell’uomo, amico di colui che fece lo schizzo dei primi stampi per il Pandoro, il pittore veronese Dall’Oca Bianca; stampi che ancora conservano come reliquie. Dolci, pandori,

panettoni e offelle viaggiano in oltre 20 paesi del mondo; prodotti apprezzatissimi e richiestissimi dal mercato.

Pierluigi invece rappresenta la nuova generazione dei Perbellini, anche lui convinto assertore che la linea da seguire non possa distaccarsi da ciò che la sua famiglia rappresenta nel contesto della pasticceria italiana. Ci sono prodotti che non si possono permettere di cambiare perché, se ciò accadesse, rischierebbero di fare ciò che fa l’industria il cui unico scopo è rincorrere il mercato. Sanno bene che se ciò accadesse perderebbero identità e quell’artigianalità che li contraddistingue.

Del resto come dargli torto… se certi manufatti piacciono, sono apprezzati e hanno attraversato indenni il gusto di svariate generazioni, perché cambiarli?

Le modifiche le fanno operando nell’innovazione tecnologica, nella ricerca e nella sperimentazione di cose nuove che non intaccano lo stato dell’arte di ciò che li contraddistingue da sempre.

Il loro impegno è cercare di riavvicinare le persone agli odori che li hanno accompagnati fin da quando sono nati; profumi di un passato non nostalgico ma “dolce”. Artigiani consapevolmente contenti d’esserlo, felici del loro stato, consci che la tradizione non è statica, ma dinamica e in continuo movimento, pur restando fedele a sé stessa.

di Andrea Zanfi

It all started in Verona. In fact, even though I am from Treviso, from an oenological point of view, I consider myself as coming from Verona.

It was Umberto Menini, my mentor, who helped me to develop not only the technique, but above all the sense to create an overall vision of the oenological path that I would take.

Everything revolves around a continuous search for harmony between the complexity and simplicity of nature. Harmony is the objective and we look for it in actions and choices. In finding it we better understand the real value of our surroundings.

È a Verona che tutto ebbe inizio.

Tanto da farmi affermare, da trevigiano, d’essere enologicamente un veronese.

In quegli anni fu Umberto Menini il mio mentore, colui che mi aiutò a sviluppare non solo la tecnica, ma

la sensibilità a sviluppare una visione d’insieme del percorso enologico che avrei dovuto effettuare nel vino. Mi ripeteva: «Devi lasciarlo andare. Fai sì che si esprima con le forze che l’annata gli ha regalato.

Il vino deve effettuare il proprio percorso, non il tuo; non castrarlo o indirizzarlo dove vuoi tu. Il vino è come un bambino, non puoi imporgli cosa farà da grande. Devi sentirlo, ascoltarlo quando si trasforma; devi far sì che sia lui a indicarti dove sarà il suo punto d’arrivo, una volta giunto al compimento del suo viaggio».

Lo nominerò sempre poiché per me è stato un grande maestro.

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Assieme facemmo un percorso straordinario elaborando un modo di intendere l’agricoltura, pensando a come produrre le giuste e pon-

derate quantità di uve, ponendoci in ossequioso rispetto della terra proprio nella continua ricerca del senso di un personale operato, sentendoci liberi di fare le nostre scelte per capire il patrimonio genetico e ampelografico che avevamo a disposizione. Sperimentavamo per il piacere di capire e, pur non avendo risposte scientifiche su ciò che osservavamo, era splendido seguire certi accorgimenti, ottenendo dei vini qualitativamente migliori.

Il cardine intorno al quale ruota tutto è la continua ricerca dell’armonia che esiste fra la complessità e la semplicità della natura e il tutt’uno composto, da sempre, fra la terra, la luna e il sole.

L’armonia è il punto di arrivo e va ricercata nei gesti e nelle scelte.

Raggiungendola si comprende meglio il vero valore delle cose che ci circondano, si riesce persino a migliorare i punti di osservazione e i tempi giusti per agire.

Fabio Bigolin

Non sono certo il primo ad affermare come vi sia, in tutto ciò che ci circonda, un “ordine” cui dobbiamo far capo, ponendoci in armonia con la natura e la vita.

Sono passati anni e con l’età e l’esperienza certe convinzioni si sono radicate, altre invece, e questo non è bello dirlo da enologo, si sono annacquate. Il tempo cambia le cose, ma non la passione che nutro per il mio lavoro perché ogni giorno cerco di mantenermi in equilibrio con tutto ciò che mi circonda.

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È in quell’areale che mi sono formato e accostato, molto laicamente, all’agricoltura biologica e poi a quella biodinamica, consapevole di avere dalla mia parte la scienza enologica. Una cognizione che non ha limitato il mio desiderio di voler osservare quali risultati scaturiscono dal lavorare la terra in un certo modo, dal voler potare o legare la vite in un certo modo o in un altro, così come poter decidere quante vendemmie sono utili per portare i giusti frutti in cantina. È incredibile constatare quanta differenza vi sia nell’agire così in viticoltura e come poi risulti più facile fare il vino. In quel territorio lavorai pure da Zeno, a Monte dei Ragni.

Lo studio di architettura che crea giganti di Giordana Talamone Non sono molti gli studi di architettura entrati di diritto nella storia e ancor meno quelli che sono riusciti a conquistarsi una voce nell’Enciclopedia Treccani. Ecco perché, varcando per la prima volta la porta a vetri del Broadgate Tower di Londra, dove si trova uno dei dieci uffici di SOM, un sottile brivido mi attraversa la schiena.

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© James Ewing

One of the most important international architecture firms, that has rightfully entered into history, with the creation of some of the fifteen highest skyscrapers in the world: from Burj Khalifa in Dubai to the One World Trade Center in New York, from Taipei 101 in Taiwan to the Zifeng Tower in Nanijng, from the Willis Tower in Chicago to the Trump International Hotel & Tower in Vancouver, from the Jin Mao Building in Shanghai to the Al Hamra Tower in Madinat al-Kuwait. A work of design that aims not only at improving the surrounding environment, but also at optimizing the quality of life of those who live in the spaces, that will also be repeated in the new challenge of giving life, without upsetting the original design, to a new building, in the redevelopment project of the historic building in Corso Italia 23 in Milan, to combine aesthetics and functionality in a key that becomes an avant-garde expression of the contemporary. An ability, the proof of which is the exhibition “Time Space Existence”, presented among the collateral events of the Venice Architecture Biennale 2018.

www.casinabric-barolo.it

SOM

© SOM

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i giganti del mondo

© Lv Henzhong

Ad attendermi Margherita Cardoso, Senior Graphics Specialist di quello che è attualmente uno tra i più importanti studi internazionali di architettura, con all’attivo la realizzazione di sette tra i quindici grattacieli più alti al mondo.

E mentre il mio sguardo si perde oltre le pareti di vetro della sala conferenza dove vengo fatta accomodare, ecco sopravvenire – fulminea – la sensazione di essere in un luogo in cui passato e futuro virtuosamente si incontrano.

Il passato di SOM è rappresentato dal suo stesso nome, composto dall’acronimo dei suoi fondatori: Louis Skidmore, Nathaniel Owings e John Merrill. Furono questi ultimi che, tra il 1936 e il 1939, crearono questa società multidisciplinare, capace di integrare, in una chiave fortemente innovativa, differenti discipline: architettura e ingegneria, progettazione civile e urbanistica, design di interni e grafica. Avvolta da un ambiente sobrio e contemporaneo, reso accogliente e funzionale dalla strategica interazione del bianco e della luce, cerco di intuire almeno qualcosa di ciò

che accade nel grandioso open space da cui mi separa soltanto una sottile parete di vetro. Il mio sbirciare risulterebbe tuttavia vano se Margherita Cardoso non mi spiegasse, con il piglio sicuro di chi di quel mondo fa parte, le grandi sfide vinte da SOM e gli ultimi progetti in fase di elaborazione.

Ognuno dei diversi progetti che Margherita Cardoso mi illustra ha qualcosa di stupefacente. E il suo racconto riesce quasi a materializzarmi davanti agli occhi gli otto “giganti” che la società ha disseminato in diverse parti del pianeta: dal Burj Khalifa di Dubai all’One World Trade Center di New York, dal Taipei 101 di Taiwan allo Zifeng Tower di Nanijng, dal Willis Tower di Chicago al Trump International Hotel & Tower di Vancouver, dal Jin Mao Building di Shanghai all’Al Hamra Tower di Madīnat al-Kuwait. E a stupirmi, oltre alla complessità che fa di ciascuno di questi progetti una tappa avveniristica della recente storia dell’ingegneria mondiale, è soprattutto l’approccio olistico che guida la progettazione attuata da SOM.

Ogni team di lavoro infatti è chiamato ad affrontare il progetto in maniera interdisciplinare, puntando non solo al miglioramento dell’ambiente circostante, ma anche all’ottimizzazione della qualità della vita di chi ne vive gli spazi.

Tra questi “giganti” – per dare un’idea di quale sia il livello di progettazione raggiunto da SOM – il primato spetta al Burj Khalifa. Al momento il grattacielo più alto al mondo, dal 2010 svetta a Dubai con i suoi vertiginosi 830 metri i suoi 162 piani, le sue 558 unità residenziali e le sue ben 297 camere d’hotel.

Cifre da record che SOM, rincorrendo non di rado i suoi stessi primati, riesce via via a superare, ponendosi al vertice dell’architettura e dell’ingegneria internazionale. A prendere forma una dopo l’altra sono così state le straordinarie tower animate da un medesimo concetto guida: quello di costituirsi come icone di design che trovano il loro prototipo concettuale nel “Big John” di Chicago. Nato dalla collaborazione tra l’architetto Brune Graham e l’ingegnere strutturale Fazlur Khan, questo

straordinario grattacielo, integrando armonicamente nella sua forma affusolata spazi lavorativi e abitativi, si è affermato fin dagli anni settanta come il capostipite dei “giganti” che SOM avrebbe costruito nei decenni successivi.

Di grande rilevanza tra i Tall Buildings di più recente costruzione progettati da SOM risulta soprattutto il One World Trade Center, terminato nel 2014. Il suo cuore di cemento armato e ferro, reso esteticamente affascinante dalle enormi vetrate che ne ricoprono gli esterni, intende ovviamente riaffermare il ruolo finanziario e commerciale internazionalmente rivestito da Manhattan. Ad animare la sua struttura e le sue forme è però in primo luogo la valenza simbolica del suo costituirsi come edificio progettato e realizzato con l’obiettivo di esprimere la reazione a un evento che

per gli interi Stati Uniti ha rappresentato un terribile shock: la distruzione, l’11 settembre del 2001, delle famosissime Twin Towers da parte di Al Qaida. Una reazione che, con i 400 metri di altezza che fanno dell’edificio il quarto grattacelo più alto del pianeta, intende riaffermare gli Stati Uniti come capaci di

guidare il futuro del mondo.

Questo futuro tuttavia, di cui SOM intende essere protagonista, non riguarderà soltanto le altezze vertiginose dei grattacieli – mi spiega Margherita Cardoso – ma anche ripensamenti radicali di edifici del passato realizzati nel pieno rispetto delle loro linee e della loro collocazione. Di questa nuova tendenza è espressione un progetto che, coinvolgendo otto progettisti di fama mondiale, sarà realizzato a Milano: in Corso Italia 23 infatti a diventare oggetto di un innovativo progetto di riqualificazione sarà uno storico palazzo a lungo sede della RAS Assicurazioni. Progettato e realizzato da Gio Ponti, Piero Portaluppi e Antonio Fornaroli, il palazzo di 45 mila metri quadri rivestito in granito rosso, ora di proprietà di Allianz Real Estate, si appresta a diventare una delle nuove sfide di SOM. La sfida è quella di dar vita, senza stravolgerne il design originale, a un edificio capace di coniugare esteti-

ca e funzionalità in una chiave che, articolando spazi operativi e aree destinate al tempo libero (ristorazione, palestre…), diventi espressione d’avanguardia della contemporaneità.

Di questa capacità di SOM di essere all’avanguardia nell’espressione della contemporaneità è riprova la mostra “Time Space Existence”, presentata tra gli eventi collaterali della Biennale di Architettura di Venezia 2018. L’installazione “Scale + Form”, presente in due sale nello storico Palazzo Mora e com-

prensivo di un video immersivo, esamina la metodologia di progettazione interdisciplinare dell’azienda, dimostrando parallelamente la forza del suo approccio alle tecniche di costruzione. Proprio l’efficacia di questo approccio trova una convincente conferma in alcuni dei modelli strutturali più innovativi di SOM esposti a Venezia: dal JTI Headquarters, una torre proposta a Charenton-Bercy a Parigi, all’Inland Steel Building, dal Broadgate Exchange House al John Hancock Center, dalla

Willis Tower al Burj Khalifa. Un modo anche questo per immergersi nella storia dell’architettura internazionale dell’ultimo secolo, lasciandosi avvolgere dalla sensazione di vivere in una costante tensione di vivere in un presente costantemente proiettato verso il futuro.

La stessa sensazione che provo io mentre, attraversando un lungo corridoio bianco, esco dalla sede londinese di uno studio che di questa storia ha saputo essere uno degli indiscussi protagonisti.

© Lv Henzhong

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Nick Merrick © Hedrich Blessing

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830 mt 162 piani

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La passione che diventa arte

In order to understand Ernst I think you only need to stop in front of his tidy display window on Via Anfossi 10 in Milan, where every sweet is not what appears, but it is a world enclosed in a three-dimensional composition that embodies far-off places, the same places from where the ingredients come that contribute to the creation of that sweet or the other. One taste is enough to clearly understand the international

vision of Ernst's patisserie art; always new sensory horizons, jewels of taste that open the Milan patisserie art to the world.

In its pastries, mathematics becomes structure, design; a cake becomes an artistic element, that is clean, essential and elegant in shapes as well as of great visual impact, that is able, at the same time, to satisfy all the other senses in a fantastic way.

di Cinzia Taibbi Foto gentilmente concesse da Knam srl

Non è semplice parlare di un personaggio come Ernst senza ripetere ciò che altri hanno già detto o scritto...

Ma chi è e com’è realmente Ernst?

Certamente un tedesco per nascita, ma italiano per scelta e adozione.

Ma chi è questo “ventenne con trentacinque anni di esperienza”?

Certamente uno Chef e un fine pasticciere. Uno scienziato del gusto.

Uno a cui piace avere le mani in pasta e essere protagonista della propria vita.

Un personaggio televisivo di successo che risulta piacevolmente affabile e trovo simpaticamente anche un po’ bullo; certamente tosto, al punto giusto, senza eccessi.

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Scriveva, chi ne ha colto capacità, vizi e virtù, che Ernst con la sua grande professionalità e gentilezza riesce a dominare la scena, diventandone parte e primate allo stesso tempo e risultando, per questo, affascinante.

«Ernst è anche un po’ matto…» colpiti, forse, da quel-

Altri asseriscono che

la stranezza che identifica gli artisti, le persone geniali e tutti coloro che guardano il presente con un occhio nel futuro e l’altro al passato al quale restano riconoscenti, attingendone forza.

Il suo ultimo Maestro,

Può riuscirci solo chi è rigido con se stesso, chi è abituato a una vita militare, a un’educazione rigida, ma solida, come quella ricevuta da Ernst, che accoglie ogni elemento critico come una tappa di crescita del suo divenire, e non come un ostacolo.

Gualtiero Mar-

La vita, per lui, è governata dai numeri; è la soluzione matematica di un problema nel quale la capacità di far bene dà sempre un risultato perfetto.

Ma è questo Ernst Knam? Un matematico della vita?

Non lo so.

Forse non riuscirò mai a scoprire e a raccontarvi chi realmente sia, di certo ho compreso che per lui,

chesi, lo volle al suo fianco avendone com-

preso le potenzialità, le qualità tecniche, ma soprattutto la forza del pensiero, preciso, forte e caratteriale; doti che lo contraddistinguono e rendono un personaggio raro. Del resto niente avviene per caso, siamo tutti figli delle nostre esperienze, ma ho la sensazione che Ernst lo sia molto più di quanti abbiano preferito vivere realtà meno dure, scegliendo alcove tranquille e habitat conosciuti e sicuri. Lui si è strutturato, come uomo e professionista, attraverso un percorso formativo lungo e difficile, iniziato da giovanissimo con la leva militare e proseguito al fianco di grandi Chef del mondo che potevano insegnargli il “fare”.

Immaginate un giovane viaggiatore, curioso e avido di sapere, che si spostò prima in Scozia, poi al Dorchester Hotel di Londra dove operava Anton Mosimann che in quegli anni era il più grande Chef del mondo. Un viaggio avviato avendo come bagaglio la propria forza d’animo, la perseveranza e la determinazione di chi vuole raggiungere prestigiosi traguardi.

l’equazione “impegno + studio + applicazione” è uguale a passione.

Tutto serve per comprendere l’evoluzione dei gusti e delle forme; l’ordine e la precisione, figlia della sua cultura tedesca, sommate alla velocità d’apprendimento e alla capacità di intuire i cambiamenti, ne hanno fatto uno dei più grandi pasticcieri al mondo.

Un vagabondare che lo condusse dopo anni al Noga Hilton Hotel di Ginevra e successivamente in Italia, accolto proprio dal grande Marchesi che, pur restando sorpreso dalle richieste economiche di un professionista ancora così giovane, non esitò ad assumerlo. Per lui ogni tappa ha significato un nuovo mondo da scoprire, un altro pezzo di vita da vivere e colorare, una nuova lingua da imparare, stando a contatto sempre con nuovi maestri e superando nuove sfide.

E sono le nuove sfide che va ancora cercando Ernst.

Vivendo in un mondo in cui la competizione è vita, dove si misurano le specifiche e peculiari capacità professionali e umane che aiutano a interpretare schemi e l’evoluzione dei tempi; un mondo in cui la differenza principale consiste nella capacità di saper dare valore a ciò che si è e a ciò che si è capaci di fare.

Tutto contribuisce ad accrescere la propria sapienza.

Tutto ha un perché e serve per divenire, come lo è stato il passare attraverso l’esperienza militare, ritrovandosi arruolato a cucinare, per due anni, ai soldati del proprio battaglione. Un’esperienza che lo convinse a far sua la regola, non scritta, secondo la quale si diventa pasticceri o Chef dal modo in cui si affronta la vita; da una parte tutto deve essere misurato, pesato e cronometrato alla perfezione, dall’altra, invece, vige la regola del QB: quanto basta.

Certamente un bravo pasticcere può aspirare a diventare un grande Chef, se lo vuole, mentre è certo che un bravissimo cuoco difficilmente diventerà un grande pasticcere, anche se lo desidera.

Questo è quanto ho compreso dalla nostra chiacchierata.

Ma per restare fra i migliori, anche lui sa bene che la curiosità non deve essere mai appagata, ma stimolata giornalmente, così come non deve mai venir meno lo studio delle materie prime che cambiano al mutare dei luoghi di provenienza, portandosi dietro odori e sapori irripetibili.

Tutto fa parte del suo viaggio, teso alla realizzazione di nuovi dolci e nuove esperienze.

Per capire Ernst credo basti fermarsi dinnanzi all’ordinata vetrina di via Anfossi 10 a Milano, dove ogni dolce non è ciò che appare, ma è un mondo racchiuso in una composizione tridimensionale che custodisce luoghi lontani, gli stessi luoghi dai quali provengono gli ingredienti che contribuiscono alla creazione di quel dolce o dell’altro.

Basta un assaggio per comprendere chiaramente quale sia la visione internazionale della pasticceria di Ernst; orizzonti sensoriali sempre nuovi, gioielli gustativi che aprono la pasticceria di Milano al mondo.

Ecco che in essi la matematica diventa struttura, design; una torta diventa un elemento artistico, pulito, essenziale ed elegante nelle forme e, se pur di grande impatto visivo, capace, contemporaneamente, di appagare tutti gli altri sensi in modo fantastico.

La passione è nata tra i fornelli di casa, in compagnia della figura materna con la quale preparava la biscotteria natalizia. «Fai il pasticciere, così ogni domenica avremo una torta a tavola» gli ripeteva.

Così è stato. Così il suo pensiero si è fatto matematico, sapendo che non esiste limite alla creazione se esiste un numero nuovo che sappia dare valore a un nuovo dolce.

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Non è facile trovare nuove parole senza cadere nella tentazione di usare superlativi e iperboli lessicali abusate oltre ogni misura, raccontando la sua vita ricca di successi, di riconoscimenti e di onorati allori.

I.P.

a winemaker. Of course, my life hasn’t been easy but, essentially, I have been a lucky man. I live in a magical place, I have a fabulous wife and children and I have met some extraordinary people: Luigi Veronelli and Mario Soldati, Giacomo Bologna and Count Riccardi, Giacomo Oddero and Alessandro Lupano…the type of men that don’t exist anymore. Men who have helped me in different ways and without whom La Caudrina could not even be remotely what it is today: a dream come true”.

di Piergiuseppe Bernardi fotografie di Bruno Murialdo

Romano Dogliotti: il guerriero che non si arrende La Caudrina oggi è diventata un nome conosciuto e apprezzato. E non solo nell’ambito ristretto dei professionisti del vino, ma anche in quello, ben più vasto, di chi è alla ricerca di etichette venate di autenticità. Per molti degli uni e degli altri questo Moscato Bianco, con i sentori aromatici e la delicata persistenza gustativa che gli derivano dalle uve coltivate sulle ripide colline di Castiglione Tinella, ha rappresentato una vera e propria rivelazione. Peraltro destinata a tradursi, ben al di là del fascino momentaneo della scoperta, in un amore destinato a durare nel tempo: quello per un inconsueto vino

dolce il cui sapore antico, ormai quasi oscurato dai potenti e complessi gusti dei Baroli e dei Barbareschi che crescono a breve distanza, è stato quasi miracolosamente preservato dall’estinzione.

Il nome La Caudrina non indica più dunque soltanto un vino e l’azienda che lo ha lanciato, ma si è trasformato col tempo anche in un simbolo: quello del riscatto di un territorio che, valorizzando un’eccellenza solo ingiustamente ritenuta “povera”, ha saputo con essa ritagliarsi un suo significativo spazio sul mercato nazionale e internazionale.

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The Moscato Bianco by La Caudrina - nowadays a well-known and valued company – with its aromatic scents and delicate and persistent taste, has for many represented a real revelation. An unusual sweet wine whose ancient flavour has been almost miraculously saved from extinction. “How hard we fought! I began in 1961. And in those years – Romano Dogliotti tells us – wine making was not what it is today. The grapes were harvested by day, in the evening the baskets were taken into the cellar and they were pressed during the night. More than just

Le storie di vino, però, sono sempre storie di uomini. E anche dietro la storia de La Caudrina c’è una storia di uomini.

Di un padre, Redento, capace di trasmettere al figlio, Romano, una passione per la terra, per le viti e per il Moscato che sarebbe diventata non solo la sua stessa ragione di vita, ma anche l’elegante firma di una produzione destinata a trasformarsi nello stesso volano di crescita di un territorio troppo a lungo ritenuto, su un piano vitivinicolo, così poco significativo da risultare marginale.

E l’imprinting di Redento su Romano, persino oggi che quest’ultimo è stato chiamato a guidare da Presidente il Consorzio dell’Asti, lo si percepisce ancora fortissimo quando lo si sente parlare:

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Mio padre su queste colline, nell’immediato dopoguerra, faceva il contadino. Due ettari e mezzo di terra, tre o quattro mucche e una famiglia da mantenere con una vita durissima. Come però mi ha sempre insegnato lui, “quando è il momento, bisogna combattere”. E mio padre non si è certo tirato indietro, ponendo le basi per lo sviluppo di quell’avventura che oggi, con mia moglie e i miei tre figli, sto continuando a portare avanti.

Improvvisamente si alza, stacca dal muro una foto in cui è ritratto con suo padre e me la mostra con gli occhi lucidi: «Quanto abbiamo combattuto! In quegli anni, io ho cominciato nel ’61, fare il vino non era mica come oggi.

Di giorno si vendemmiava, di sera si portavano le ceste in cantina e di notte si pigiava. E poi c’era da filtrare il vino nelle vasche di cemento con i sacchi olandesi. Altro che l’enologo! Dall’enologo, a quell’epoca, si andava come si andava dal medico: quando c’era davvero qualcosa che non andava e che col tempo non si risolveva.

Nessun soldo, nessuna attrezzatura, nessun cliente. Si faceva tutto a mano, tutto da soli, tutto ingegnandosi al massimo, per poi portare a casa quel poco che consentiva di mangiare e di continuare a lavorare l’anno dopo.

Sarà solo a partire dal ’70 che le cose, con il primo filtro a piastra e con la fermentazione in bottiglia, cominceranno a cambiare. Non sempre però la fermentazione funzionava e veder saltare il tappo o il culo della bottiglia non era affatto raro. Finalmente, nell’81, siamo riusciti a comprare l’autoclave e a usare bottiglie sterili. Con quanti debiti però…».

Dal tono delle sue parole, improvvisamente interrotte da lungo sospiro, trapela tutta la stanchezza di un uomo che, dopo 57 vendemmie, ha visto tutto quel che doveva vedere sia del mondo del vino sia, forse, anche della vita. E che tuttavia, modulando tenacia ed entusiasmo, ha saputo combattere coraggiosamente dure battaglie, vincendole l’una dopo l’altra senza mai lasciarsi piegare: «Le difficoltà non sono mai mancate, senza sparire nemmeno dopo la partenza alla grande de La Caudrina vent’anni fa. Estinguere un mutuo bancario di oltre

due miliardi di vecchie lire con i relativi interessi, mentre in parallelo ammodernavamo gli impianti di coltivazione e di produzione del vino, ha indubbiamente richiesto un grande sforzo.

Ma siamo qui per combattere e continuiamo a farlo.

Finalmente ora senza più avere l’acqua alla gola, anche grazie a mia moglie, ad Alessandro, Sergio e Marco, i miei tre figli che ora lavorano con noi. Insieme gestiamo ormai una trentina di ettari vitati e abbiamo superato le 250.000 bottiglie. E intanto – ammicca mostrandomi sul cellulare la foto della piccola Noemi e annunciandomi la prossima nascita di un altro nipotino – aspettiamo che a darci una mano arrivino le nuove leve».

Mi lascio cullare dalla sonorità tutta piemontese della sua voce, mentre – tra legittimo orgoglio e sano realismo – mi fa da guida nei vari spazi della “sua” cantina: da quelli esterni dedicati alla pigiatura e al filtraggio del vino, a quelli interni dove questo si affina in acciaio e legno, fino a quelli destinati infine all’imbottigliamento e allo stoccaggio, in attesa che il Moscato prenda vie che lo porteranno lontano: dalla Svezia alla Russia, dal Giappone alla Cina, fino agli Stati Uniti.

«Sono dovuto andare dappertutto – rimarca quasi incredulo – pur di vendere il vino! Eppure oggi, se non fai così, è inutile lavorare bene in vigna e in cantina: il vino non lo vendi!

Per fortuna adesso ci sono i figli e parlano inglese. Ma allora, quando sono nati, c’eravamo solo io e mia moglie Bruna: vi-

gna e cantina, amministrazione e fiere. Oggi un figlio è enologo, gli altri seguono amministrazione e promozione. Allora facevamo tutto noi, sempre di corsa. E per fortuna ogni tanto arrivava una recensione positiva, un premio, un riconoscimento. Era la conferma che eravamo sulla strada giusta e che bisognava andare avanti. Quando fai una vita così, senza avere queste soddisfazioni come faresti a trovare la forza per continuare a combattere?».

Dalla terrazza, avvolta da una bruma autunnale su cui sta ormai calando la sera, mi mostra una parte dei vigneti dove nasce il mitico Moscato de La Caudrina. E, guardando l’orizzonte nel quale durante le belle giornate il sole tramonta mettendo in risalto le essenziali linee del Monviso, sussurra quasi a se stesso: «Certo la mia vita non è stata facile, ma in fondo sono stato un uomo fortunato.

Vivo in un luogo magico, ho una moglie e dei figli splendidi, e ho conosciuto persone davvero straordinarie: Luigi Veronelli e Mario Soldati, Giacomo Bologna e il conte Riccardi, Giacomo Oddero e Alessandro Lupano uomini come oggi non ce ne sono più. Uomini che, in modi diversi, mi hanno davvero dato una mano e, senza i quali, la Caudrina non potrebbe nemmeno lontanamente essere quello che invece è diventata. Un sogno diventato realtà, forse un destino diverso da quello che mio padre Redento, che mi immaginava aviatore, avrebbe voluto per me. Un sogno però di cui – ne sono certo – sarebbe orgoglioso».

I.P.

When I began, I didn’t want to create a new jewellery brand, but rather I wanted to pursue the idea of creating a new type of jewel, dedicated to the female sphere, in its marvellous diversity. It was in the classrooms of the European Institute of Design in Milan that I had the idea to create a product that could be customised in so many ways, for so many kinds of women. I like to think that I have created a style, composed of unique details and sought-after subtleties that raises quality to perfection.

This style is achieved only by the expertise of the Italian craftsmanship and it is inborn in the unique texture that characterises all my jewels: the Dropage.

di Andrea Zanfi fotografie di © Giacomo Artale

Quando ho iniziato non volevo creare un nuovo brand di gioielli, ma realizzare la mia idea di creare un nuovo tipo di gioiello, pensato per la sfera femminile, nella sua meravigliosa diversità.

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Gioielli per donne

Volevo che fosse un gioiello adattabile al carattere di chi lo indossa, che ne rispecchiasse la personalità, realizzato artigianalmente in Italia, che portasse in sé la mia idea e che fosse perfetto per ogni tipo di donna. Pensavo dovesse essere un oggetto così intimo da poter essere personalizzato.

È successo così che ho aperto il mio piccolo atelier, cominciando a lavorare su quell’idea iniziale facendo in modo che quel gioiello, a cui pensavo, fosse un prodotto interamente personalizzabile; come avviene in una sartoria dove da un cartamodello, in base ai gusti e alla personalità, il sarto costruisce l’abito. Per far emergere il gusto di chi indossa quel mio gioiello, faccio scegliere il colore delle pietre naturali da incastonare e degli smalti che ricoprono i metalli, argento, bronzo, ottone e oro, con cui realizzare l’opera. Non è stato facile trovare la giusta strada che ho iniziato a tracciare alla soglia dei trent’anni, quando entrai all’Istituto Europeo di Design di Milano. Oltrepassare quel portone è stato un segno del destino. Lì ho incominciato ad avere più fiducia in me stessa, a comprendere che in quel contesto avrei potuto esprimere la creatività repressa che sentivo appartenermi.

La forza di un marchio è la propria identità, il Dropage è il segno distintivo di tutte le mie collezioni.

In quelle aule, per 5 anni mi sono impegnata con passione e una determinazione che non pensavo di possedere. È stato un periodo fantastico durante il quale, giorno dopo giorno, mi accorgevo che al gioiello, divenuto materia di studio, mancava qualcosa: la mia progettualità.

Lì è scattata l’idea di un prodotto custom made da adattare alla persona. È nato un progetto mai statico, capace di stimolare continuamente la mia creatività, che alimento quotidianamente con un rapporto costruttivo con la mia clientela nazionale e internazionale.

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Abbiamo bisogno di qualcosa che ci appartenga, che ci identifichi, che ci aiuti a esprimere il nostro carattere e a giocare dando spazio alla bambina che c’è in noi.

Maria Grazia Cucinotta

I.P.

Mi piace ciò che faccio. Mi sento libera di creare continuamente, spingendomi al punto di realizzare ben quattro collezioni annuali, inventandomi un mondo nel quale mi sento a mio agio.

Lavorare così è bellissimo, come lo è stare accanto a persone che mi piacciono, tanto da ritenermi fortunata nell’affermare di poter scegliere di fare solo ciò che mi fa stare bene.

Mi piace pensare di essere riuscita a creare un gioiello unico, fatto di particolari, che si contraddistingue per il manto di piccole sfere irregolari che ricopre in modo più o meno fitto le superfici di tutte le mie collezioni, una texture inconfondibile e brevettata: il Dropage. I gioielli, così ricoperti di gocce, vestiti di smalti e pietre naturali, sono da anni riconoscibili ovunque, tanto da far esclamare a chiunque lo noti : «Questo è un gioiello di Daniela de Marchi!».

What is most striking about Maria Grazia Cucinotta, besides her Mediterranean beauty, are her qualities of great humility and generosity, indisputable qualities for someone who has been part of the star system for more than thirty years. A true Made in Italy icon, who is known throughout the world for her roles in such films as Il Postino or as a Bond girl in 007 The World is Not Enough, as well as for her collaborations with artists such as Woody Allen, Emir Kusturica, Spike Lee, Ridley Scott, and John Woo. In recent years, with her own Seven Dreams production house, she has created a series called Teen that is focused on the age band of our new millennials.

di Simona Cangelosi foto di @ Roberto Rocchi

Una bellezza unica e senza tempo Incontrando Maria Grazia Cucinotta ciò che ci colpisce, oltre la sua oggettiva bellezza mediterranea ed eterea, è la sua affabilità e veridicità, doti che si accompagnano a una grande umiltà e generosità. L’impatto emotivo è grande ma quella sua affabilità mi aiuta, facendomi sentire a mio agio davanti a chi è riuscita a restare nello star-system dello spettacolo da più di trent’anni, sopravvivendo a quel mondo effimero, nel quale è facile perdersi, finire nel dimenticatoio, meteore di un breve successo o piccole stelle senza più cielo.

Avevo 16 anni quando partecipai a Miss Italia, ma mio padre mi disse che dovevo compiere 18 anni prima di poter andar via di casa... e così feci il 27 luglio, il giorno del mio compleanno. Mio fratello viveva a Brescia e così pensai di raggiungerlo per fare dei casting da modella a Milano.

L’Italia è un marchio di eccellenza nel mondo, rappresenta la creatività e l’ingegno. Noi siamo il risultato e nel DNA che abbiamo ereditato c’è storia, una cultura millenaria, l’arte e il patrimonio gastronomico che ci contraddistingue. Apparteniamo, indubbiamente, a un popolo fortunato, il problema è saperne farne tesoro.

Ironia del destino, diversi componenti della sua famiglia lavorano alle Poste e lei fu scelta per il ruolo di Beatrice, la moglie de Il Postino, interpretato da Massimo Troisi…

Lei è siciliana, nata e cresciuta alle porte di Messina, torna mai nella sua Terra?

Mio fratello Gaetano lavora alle Poste, ma anche mio padre ci lavorava, io avevo la possibilità di prendere il suo posto, ma dopo aver conseguito il diploma in analista contabile sognavo di fare altro… e per fortuna la vita, e il corso degli eventi, mi hanno dato ragione.

Sì, ci torno spesso, lì vivono ancora mia madre e mia sorella. Penso che la Sicilia sia una terra bellissima, ma è stata sempre depreda-

Siete una famiglia numerosa, due sorelle e due fratelli, riuscite a vedervi, almeno per le feste comandate?

Ho chiamato mia figlia Giulia Maria Grazia, unendo il mio nome e quello di mio marito Giulio, per rimarcare il frutto del nostro amore e del nostro legame. Lei è molto studiosa, frequenta il Liceo Scientifico e da grande vorrebbe occuparsi di ricerca nel campo della biotecnologia e dell’ingegneria. Penso sia un sogno molto bello, che ha scelto in totale autonomia.

Lei è sposata con Giulio Violati da ben 23 anni, qual è il segreto che fa durare così a lungo il vostro matrimonio?

Noi siamo come due amanti, il lavoro mi porta in giro per il mondo, lui è sicuramente un uomo paziente mentre io sono il suo opposto, ed è questo forse il segreto: sceglierci ogni volta che ci vediamo.

Lei è spesso in giro per il mondo, premiata adesso al Festival del cinema di Montecarlo, ha vissuto a lungo a Los Angeles, è di casa in Cina, a Shangai, non è certo facile starle dietro, con i suoi tanti impegni: a quali progetti sta lavorando adesso?

Da diversi anni faccio avanti e indietro con la mia casa di produzione, partecipando al Festival di Shangai che è molto esclusivo: sono infatti l’unica italiana a essere entrata nel mondo del cinema asiatico e questo privilegio mi fa sentire molto onorata. Ho lavorato con registi meravigliosi come Woody Allen, Emir Kusturica, Spike Lee, Ridley Scott, John Woo, ho fatto tante esperienze che mi hanno fatto crescere in questo mondo, e voglio metterle a disposizione dei giovani che vogliono e desiderano imparare. Assistiamo alla nascita di web star che hanno vita molto breve, io sono invece affascinata da ciò che i giovani possono offrire; per questo, con la mia casa di produzione Seven Dreams, ho realizzato una serie chiamata Teen, di 12 puntate, creata apposta per la fascia dei teenagers, i nostri nuovi millennials. Ne ho dovuti scegliere 15, ma al provino si sono presentati in 5000.

Cos’ha imparato in questi 30 anni di carriera?

ta, divenendo oggetto di dominazioni di popoli diversi: francesi, spagnoli, greci, arabi… ma se analizziamo bene la storia è sin dai tempi di Garibaldi, dopo lo sbarco dei Mille, che non si è mai risollevata. Nonostante la spedizione fosse fatta per unire l’Italia, non certo per isolare la Sicilia ancor di più.

Sì, ci riesco sempre, la famiglia per me viene prima di tutto! Io poi sono molto legata a mia sorella Giovanna, che è una scrittrice e cantautrice, è lei la vera artista di casa… A scuola era bravissima, e provavo sempre una (sana) invidia. Adesso vive a Roma, quindi ci vediamo molto spesso.

Lei aveva solo 16 anni quando decise di lasciare la sua Sicilia per imbarcarsi in nuove avventure…

Lei ha una figlia di 16 anni, cosa vorrebbe fare da grande? E che futuro sogna per lei?

Sono una persona molto autonoma e dinamica, mi piace avere la mia libertà e i miei spazi, ho dovuto imparare a cavarmela da sola anche quando emettevo le mie prime fatture o quando dovevo far fronte alle spese di casa appena diciottenne: ho sempre voluto essere una donna indipendente. Mia madre mi disse che il mio nome mi fu dato per devozione a Sant’Antonio, perché la mia nascita è stata una vera grazia, una fortuna comparsa sotto una buona stella: non posso che ringraziare la vita che mi ha dato tanto, che definirei semplicemente UNICA.

We are at Costabissara, in Dario Loison’s pastry shop, where Italian specialities such as Panettoni, Colombe, Pandori, Veneziane (traditional Italian sweet breads), biscuits and focaccias are produced and, thanks to their quality and a careful marketing strategy, have found a prominent place in the market. Loison has managed to create a perfect mix of quality products with amazing packaging. He has a dynamic mind with very particular entrepreneurial ideas that have driven him to unhesitatingly pursue his objectives. His is a real journey in seeking continuous evolution, inspired by imagination and reliability, while still staying true to his past.

Loison di Franco Vergnano

Foto gentilmente concesse da Loison

Una macchina per conciare le pelli e un Panettone, cosa possono avere in comune?

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Lei è un’icona italiana del Made in Italy, è conosciuta in tutto il mondo per la sua partecipazione ai film Il Postino, premio Oscar per le musiche di L. Bacalov, e 007 Il mondo non basta. Come vedono gli stranieri il nostro Paese? La nuova America è diventata forse l’Italia?

Sto parlando proprio di Dario Loison, un nome, un

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“marchio” e forse, potremo aggiungere, un’icona fra le più conosciute pasticcerie italiane. Di sicuro uno che si adopera da anni per rappresentare al meglio l’eccellenza dolciaria italiana nel mondo, avendo ormai da quasi trent’anni optato per la qualità assoluta nel settore, assumendola non solo come metodologia produttiva, ma come filosofia di vita.

Siamo a Costabissara (Vicenza), proprio sulla Strada Statale Pasubio.

Qui si producono principalmente Panettoni, Colombe, Pandori, Veneziane, biscotti, focacce che grazie alla filosofia sopra espressa e un’attenta strategia di marketing, abbinata a strumenti comunicativi e di packaging unici, hanno reso il brand visibile e riconoscibile sul mercato.

Dario è riuscito a creare un mix perfetto, direi, che vede prodotti di qualità confezionati in modo strabiliante o come orgogliosamente usa dire Dario «Vestiti a Festa, per la Festa».

Non si arriva a questi risultati per caso, ma per ingegno, sapienza e lungimiranza, tenendo in equilibrio costante tradizione e innovazione, che nel caso di Dario lo hanno portato a creare prodotti dolciari mai immaginati prima, capaci d’incuriosire e conquistare i mercati internazionali. Una mente dinamica, fervida, con idee imprenditoriali ben precise che lo hanno spinto a perseguire i propri obiettivi senza remore, arrivando persino a lasciare negli

fondata dal nonno nel 1934, per poi ricomprarla nel 1992 dopo esseranni ottanta l’azienda di famiglia,

sene andato in giro per il mondo a vendere macchine per la conceria delle pelli. In quegli anni comincia la “vera” avventura del brand Loison, all’insegna di una continua evoluzione basata «sulla fantasia – racconta lui – e sulla affidabilità» pur restando fedele al proprio passato, tanto da voler aprire un piccolo Loison Museum dove conserva alcune impastatrici storiche e altri macchinari, alcuni dei quali revisionati e ancora funzionanti.

Facendo tesoro delle esperienze passate, oggi Loison è alla ricerca continua di nuove strategie per ampliare la propria visione dei mercati ponendosi in equilibrio con gli stessi attraverso la qualità delle materie prime che utilizza e il marchio Made in Italy che aiuta, abbinando a questi elementi l’eleganza e la classe dell’Italian Style: «Ogni prodotto è accompagnato da un dépliant in cui scriviamo le materie prime utilizzate e i dettagli produttivi». Ma Dario

conUna strategia vincente che ha dato vita a un gioiello im- tinua a sperimentare prodotti tentando provocanti prenditoriale che fattura nove milioni di euro l’anno, , in modo da essere sempre e comunque sul riuscendo a esportare i propri manufatti in 50 accostamenti “leading edge” del gusto, catalizzando costantemente l’attenzione dei numerosi clienti italiani e internazionali.

Paesi del mondo. non si ferma mai e per soddisfare la propria passione

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Lo scopriremo raccontando questa “storia vera” di quel Nord-Est italiano fucina di grandi imprenditori.

Chiamarlo “pasticcere” è riduttivo, così come imprenditore, orbene chiamatelo Loison che farete prima. Una cosa però è certa, il personaggio in questione legato a questa storia ha una energia e un incontenibile entusiasmo, oltre a un fiuto e a un intuito per il business.

I.P.

a land kissed by luck, beautiful and rich in potential as far as wines are concerned, but ... which, victim of its isolation, seems to have become the prey of the winemakers’ inability to organize themselves and to give life to a strategy capable of enhancing it.

But there are those who say that now something is changing, Luca Bellani from Ca’ di Frara, who having returned to his family business, has decided to build his future among these vineyards: “... perhaps, the main problem in the Oltrepò area is represented by the fact that here the cultivation of the vineyard is mostly a family history.

You know very well that I went away from here just because everything was overwhelming me. And yet, by staying away, I began to have nostalgia of this air once again. So, here I am, convinced that something can finally change and that with my wines I will be able to design my future”. And today? “Every day I plan and think of a different future, with the conviction, perhaps a secret certainty, that I can make it, that what I was dreaming can really come true, that everything is possible. And the confirmation comes from the appreciation that my wines receive giving me energy and momentum to go on”.

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Oltrepò Pavese,

Ca’ di Frara

Il respiro del cambiamento Andrea Zanfi fotografie di © Giacomo Artale

A vivere in un terra come quella dell’Oltrepò Pavese ci si deve sentire un po’ baciati dalla fortuna. Non ho dubbi. Chi l’attraversa per la prima volta non può che esserne stupito dalla bellezza.

E anche io, che pur la conosco bene, ogni volta torno a provare questa stessa sensa-

zione, forse alimentata dal piacere di perdermi in quel sali e scendi che mi trovo ad affrontare nell’attraversare le sue colline.

Continuo a ripetermi, a ogni curva e a ogni poggio, che questa è una terra per viaggiatori e che forse i turisti non riusciranno mai ad apprezzarne il segreto!

La sua bellezza – e non sono certo io a scoprirlo – ha qualcosa di inconsueto, quasi di strano. Come quella dei luoghi capaci di suscitare stupore anche, e forse soprattutto, perché manca loro qualcosa. Quasi che, in questa terra vitivinicola ricca di straordinarie potenzialità, il fare trenta non sia affatto una garanzia di poter fare anche trentuno.

Una terra che c’è, è bellissima, riesce ad affascinare, ma…

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Forse il suo giunonico gongolarsi in così tanta opulenza le impedisce di darsi pienamente, di avere una sua identità specifica nel panorama enologico nazionale, di essere qualcosa di diverso da quell’evanescente tutto o niente che sembra rappresentare il suo destino.

Da anni ormai ne seguo, talvolta da più vicino e talaltra da più lontano, il divenire lento, ritmato dai pregi e dai difetti di una cultura che ormai ho finito col conoscere piuttosto bene. Eppure, anche per me, l’Oltrepò resta un enigma insolubile, reso perennemente oscuro dall’atavico individualismo anarchico che anima i suoi vignaioli, perennemente intenti a creare nuovi vini e nuove etichette destinate via via a moltiplicarsi ulteriormente.

Come dar lor torto, del resto? Basta uno sguardo ai loro vigneti, tanto belli da avvolgerti in un armonico concerto di sensazioni, per capire quanto questa terra sia naturalmente vocata alla viticoltura. Le piccole frazioni, gli aguzzi campanili intorno ai quali si aggregano comuni di 200 anime, quasi tutte di vignaioli, fanno dell’Oltrepò un posto antico, un mondo d’altri tempi, adatto sia a chi ama il buon vivere sia a chi cerca semplicemente una pausa alla frenesia che ormai ci avvolge tutti.

Qui è come se il tutto facesse capo alle stagioni che regolano l’andamento della vite e la maturazione delle uve. Il resto? Una parentesi in una sin-

fonia incompiuta, e forse per questo decisamente sottovalutata. Del resto non è forse un gran male – e certamente qui sono in molti a pensarlo – se questo territorio che fiancheggia la A21, scorrendo veloce lungo una striscia d’asfalto percorsa da un fiume di veicoli, ha avuto molta meno attenzione di quella che meriterebbe. Il suo non essersi trasformato in sistema/territorio, insieme alla mancata comunicazione della sua bellezza, non avrebbero favorito un isolamento destinato in ultimo a salvaguardarne l’integrità?

Il prezzo che l’Oltrepò continua a pagare per

"quel cordone ombelicale che mi lega a queste viti..." questo isolamento è però carissimo. Uno dei più grandi territori vitivinicoli d’Italia, anziché trasformare le sue potenzialità in opportunità, sembra divenuto preda dell’incapacità dei produttori di organizzarsi e di dare vita a una strategia davvero in grado di valorizzare la ricchezza che a questo territorio è intrinseca. C’è però chi dice che ora qualcosa stia cambiando.

Stento a crederlo, anche di fronte a figure come quelle di Luca Bellani di Ca’ di Frara che, ritornato nell’azienda di famiglia, ha deciso di costruire il suo futuro fra queste vigne: «…forse, il problema maggiore dell’Oltrepò è rappresentato dal fatto che qui la coltivazione della vigna è per lo più una storia familiare. Chi cresce tra i filari e in cantina, finisce per diventare un tutt’uno con la sua terra, limitandosi a valorizzare il suo fare e il ruolo avuto in eredità, senza comprendere che cosa significhino parole come aggregazione e territorialità e disconoscendo qualsiasi azione che vada al di là del proprio orticello. Del resto, chiunque respiri questi silenzi sin dal grembo materno, non ha alternative. La sua è una storia già scritta, una volontaria costrizione che poi diventa necessità, sopravvivenza, abnegazione…».

Si accorge di non avermi convinto. «Perché – sembra silenziosamente domandare il mio sguardo – altrove è andata diversamente?», «Per chi come te viene da lontano è facile parlarne e scoprire i crucci e le crepe che andrebbero riempite, ma per chi vive fra queste vigne e segna i confini delle sue terre con una vite non lo è. Guarda me.

Sai benissimo che di qui me ne sono andato proprio perché tutto mi stava stretto e mi mancava.

Eppure, stando lontano, di quest’aria mi è tornata la nostalgia. Così, eccomi qui, convinto che qualcosa può finalmente cambiare e che con i miei vini potrò disegnare il mio futuro».

«Il tuo futuro qui?», rimarco polemicamente. Il suo piglio è convinto: «Qualcosa l’ho fatto, qualcosa lo sto facendo. Certo i sacrifici sono tanti e mi rendo conto che mia la vita finisce per maturare con quelle viti, con quei grappoli, inseguendo le vendemmie. Ma vado avanti, perché quello che fac-

cio mi appassiona e mi accorgo che il mio vino è diventato il mio modo di raccontarmi agli altri. E la mia idea di vino, divenuta il mio pensiero costante e la mia preoccupazione quotidiana, si radica proprio – ora finalmente lo vedo con chiarezza – in questo cuneo di territorio lombardo che si insinua fra l’Emilia e il Piemonte. Da qui viene la mia storia e qui me la giocherò».

Il tono deciso della sua voce, nel raccontarmi la storia della sua azienda, tradisce un coinvolgimento autentico: «È in questo contesto incantevole che, nel 1905, nacque la nostra azienda. Fu allora che il mio bisnonno decise di acquistare nel comune di Mornico Losana, frazione Casa Ferrari – in dialetto locale Ca’ di Frara – alcuni appezzamenti di terreno vitato.

A questo corpo iniziale si aggiunsero ben presto altri terreni del comune di Oliva Gessi, applicando una scrupolosa attenzione nella conduzione dei vigneti. Proprio questa attenzione ci avrebbe permesso, in seguito, di procedere a una conversione biologica dell’azienda. Così, già alla fine degli anni settanta fummo i primi a impiantare nei terreni di Oli-

va Gessi il Pinot Grigio, il Pinot Nero e il Riesling, i vitigni cioè che sarebbero in seguito diventati il fiore all’occhiello della produzione aziendale. Nel comune di Mornico Losana invece, i cui terreni apparivano fin da allora già diversamente vocati, a prevalere fu la tradizione dei vitigni rossi: Pinot Nero, Croatina e Barbera».

«E oggi – quasi lo interrompo – che cosa sta succedendo a Ca’ di Frara?». Il volto che mi guarda è quello di un uomo soddisfatto di ciò che sta facendo: «Ogni giorno progetto e penso a un futuro diverso, con la convinzione, forse una segreta certezza, che possa farcela, che ciò che sogno possa davvero accadere, che tutto sia possibile.

E la conferma mi viene dagli apprezzamenti che, dandomi energia e slancio per andare avanti, i miei vini ricevono. Avrei potuto fare dell’altro nella vita?

Forse, ma prezzo di quel vitale ombelicale

al caro recidere cordone che mi

lega a queste viti e alle generazioni che mi hanno preceduto.

Così resto qui, lavorando affinché, per me e per questo territorio, le cose cambino».

E forse, di questo cambiamento, percepisco per la prima volta il profumo nella brezza serale che avvolge ormai il racconto di Luca.

di Alessandra Piubello It is in his Serradenari wine estate, in La Morra, that the writer Giovanni Negri takes shelter in order to write his books, rigorously from six to half past nine in the morning, before dedicating himself to the estate. His adventure in the world of wine began in 2001, when he inherited the estate, while the partnership between writing and enology started in 2006 with Il Romando del Vino, to then arrive, through Vinosofia in 2008, Vineide in 2009 and Roma Caput Vini in 2011, at the thrillers with the trilogy Il Sangue di Montalcino, Prendete e Bevetene Tutti and Il Vigneto da Vinci.

Our writer loves bubbles, he is deeply seduced and uses them to seduce. “They are cunning and charming: they represent man’s technique and ability.

They bewitch, fascinate and take possession of you, enthralling you, driving you to desire them, but also to look for, to study. The expressive power that blends love with the bubbles is all-encompassing »

Il nuovo autentico non teme l’antico: lo contiene. Nulla è vecchio nelle bollicine italiane. Antiche come le abbazie, nuove come le imponenti cantine, le bollicine di lusso in versione tricolore brillano al mondo per quello che sono.

Più jeans meno status symbol. Più design meno avanguardia. Più luce soffusa meno gigantismo. Le bollicine giuste al momento giusto. Senza finte modestie, senza presunzioni e arroganze. Belle sempre. Perle naturali, perle artificiali. Collane di perle, braccialetti di luce. Leggere come seta, dolce e morbida seta di Satèn. Ovunque nel mondo, perle d’Italia. Bollicine che si fanno amare, bollicine che vi fanno innamorare.

Lo scrittore Giovanni Negri racconta, con stile, il suo rapporto con le bollicine.

Siamo nella grande sala della sua azienda vinicola Serradenari, a La Morra, sul bricco più alto, dove scappavano i contadini con i loro risparmi quando sopraggiunse la peste.

Anche Negri scappa qui a scrivere i suoi romanzi, in questa quiete, ai piedi delle Langhe, di fronte le Alpi dalla Liguria al Cervino, con il Monviso che svetta al centro. Scrive dalle sei alle nove e mezzo della mattina, poi segue l’azienda. Accoccolato nel cuoio della poltrona, circondato dai suoi tre cani adoranti, fra bottiglie di vino e libri, Negri guizza di vita e ironia. «In realtà scrivo sempre: mentre faccio altro penso a cosa scrivere, colgo qualsiasi spunto e prendo appunti mentali. La scrittura lenisce

Giovanni Negri

© Aurelio Candido

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«Bollicine… Non c’è nulla di più profondo dell’effimero»

«Giovanni, pianta vigne di Nebbiolo, così poi lo rivendi più caro, no?». Quando i primi grappoli cominciarono a far capolino, l’uomo fu definitivamente conquistato. Cerca un enologo, inizia il consueto scambio: Negri gli scrive i romanzi e Cipresso gli fa da consulente. «Ricordo i primi sette giorni e relative sette notti a Montalcino con Roberto, a riempire taccuini e taccuini: un mondo nuovo mi si schiudeva davanti».

Il nostro scrittore ama le bollicine, ne è profondamente sedotto e le usa per sedurre. «Sono astute e maliarde: rappresentano la tecnica e l’abilità dell’uomo. Appassionano, affascinano e si impossessano di te, catturandoti, spingendoti a bramarle ma anche a cercare, a studiare. La forza espressiva che unisce l’amore alle bulles è totalizzante». È in Bevetene e prendetene tutti che Negri si dedica alle bollicine: Franciacorta, Champagne, Sparkling wine. Sulle tracce di un assassino di un enologo della Franciacorta, Mario Salcetti (che in realtà è Mario Falcetti), Cosulich torna a confrontarsi con il mondo del vino, «con nobili castellani, commercianti spietati, produttori avidi, donne maliarde, poeti sognatori, giovani allo sbaraglio, sacerdoti del vino, i no barrique, i pro barrique, i delinquenti, quelli che ogni annata è sempre la migliore, dagli anni sessanta in poi…».

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Il sodalizio comincia con Il romanzo del vino nel 2006, nel quale gli autori a bordo di una mongolfiera immaginaria attraversano i territori del vino; prosegue con Vinosofia nel 2008, nel quale ogni capitolo è un bicchiere di vino, in un gioco con il lettore che poi troverà la soluzione nelle ultime righe, scritto abbinando sapere enologico a calembour; si chiude poi con Vineide nel 2009, sul mistero del vino, «un geniaccio che ammicca, stuzzica, provoca, si nasconde, ti insegue. Si fa desiderare, gioca a rimpiattino rivelandosi poi specchio dell’uomo». Roma caput vini vede la luce nel 2011 e poi finalmente Giovanni si

dedica ai gialli, genere che lo affascina da sempre. Dalla sua penna felice esce l’ispettore Cosulich, uomo di frontiera («perché io adoro le frontiere, sia geografiche sia culturali, perché a dispetto delle apparenze uniscono anziché dividere») e una serie di personaggi del mondo del vino esistenti realmente nascosti sotto falso nome. La sua trilogia inizia con Il sangue di Montalcino nel 2010, poi Prendete e bevetene tutti, infine Il vigneto da Vinci, nel 2015. Ogni indagine nasconde temi complessi del mondo del vino: l’Islam e le terre da vino, il cambiamento climatico, la genetica e gli ogm. Attualmente Negri sta lavorando a Il mistero del Barolo ma questa volta non leggeremo un romanzo enoico-poliziesco, ma un libro sul Nebbiolo.

La bellezza dell ’amore di Marco Ongaro

fotografie di Sergio Visciano

«artista e’ soltanto chi sa fare della soluzione un enigma», come ci ricorda Karl Kraus,

Se

bisogna ammettere che William Shakespeare ha saputo creare enigmi talmente inesauribili nella loro interpretazione da garantire loro una durata superiore non solo alla sua esistenza di artista, ma anche alla consueta sopravvivenza spaziotemporale di un’opera d’arte.

Nel momento in cui una tragedia ambientata in una città diviene lo stabile set cinematografico di quella città, con tombe trasformate in balconi e case attribuite rispettivamente a una e all’altra delle famiglie avverse – Capuleti e Montecchi – di cui nel borgo non è rimasta alcuna traccia, possiamo dire che la soluzione adottata dall’autore si è fatta molto più enigma di qualunque altra creazione dell’ingegno l’abbia preceduta e ispirata. È il caso della “bella Verona” cantata dal Bardo di Stratford-upon-Avon in Romeo e Giulietta ed eternata dal mito che in tale canto ha coinvolto la città intera. Migliaia di persone ogni anno vanno sulla tomba degli amanti, milioni vanno al balcone più famoso della letteratura mondiale per omaggiare l’amore nella sua forma più risoluta e romantica. Centinaia di migliaia scrivono lettere all’eroina scespiriana impetrandone risposta, come a una santa laica, una creatura immaginaria divenuta l’emblema concreto del sentimento più diffuso e ricercato nella vita di ciascuno. Forse il sentimento più bello? Sulla bellezza dell’innamoramento e delle “intermittenze del cuore” i dubbi si affollano e riempiono un numero considerevole di missive spedite ogni anno con il semplice indirizzo

Le lettere vengono raccolte e viene data loro risposta grazie all’attivita’ del Juliet Club, fondato a Verona da Giulio Tamassia nel 1972 e portato avanti oggi da sua figlia Giovanna.

“Giulietta – Verona”.

«Le bulles sono astute e galiarde: rappresentano la tecnica e l’abilità dell’uomo»

Ispiratore del film hollywoodiano Letters to Juliet, «il Juliet Club è l’ufficio molto speciale in cui le “segretarie di Giulietta” raccolgono e leggono gli innumerevoli messaggi d’amore provenienti da ogni angolo del pianeta», spiega la Presidente del Club. «Queste “segretarie” sono donne e ragazze, ma c’è anche più di qualche uomo e ragazzo tra coloro che da tutto il mondo si incontrano qui per dare una risposta personale a ogni singola lettera, in tutte le lingue».

Una sorta di carteggio tra sconosciuti. Un fenomeno non dissimile da quello che in certe nazioni coinvolge Babbo Natale, ma senza alcun regalo in contropartita acquistato da parenti o da chi ne fa le veci. Qui lo scambio, al di là del supporto cartaceo che ancora caratterizza buona parte della corrispondenza, è di consistenza immateriale, impalpabile, composto di simboli alfabetici che veicolano pensieri e sensazioni sulle correnti alternate dell’attrazione.

«Il mito di Giulietta e’ reale, e’ la piu’ bella storia d’amore di tutti i tempi, fa parlare

e scrivere d’amore oggi come cento anni fa» prosegue Giovanna Tamassia con un’intrigante miscela di calma e passione nella voce. «Lo si vede al cinema, nella letteratura, nell’arte. E lo si nota più che mai nel contenuto delle lettere in cui la famosa eroina diventa amica e confidente mantenendo però la sua “letterarietà”: la “Cara Giulietta” cui si rivolgono in tutte le lingue del mondo è sempre quella di Shakespeare, la giovane che per amore sfida la famiglia e le convenzioni fino alla morte. È il suo coraggio a suscitare l’ammirazione di tanti corrispondenti che si affidano a lei perché comprenda il dolore di una perdita o l’esaltazione amorosa».

A questi amanti felici o straziati il Juliet Club risponde, ne cataloga i messaggi, li archivia, una volta all’anno ne premia alcuni. Secondo quali criteri? «Le lettere a Giulietta parlano di sogni e speranze ma soprattutto di crepacuore

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i dolori e la noia della vita, è il placebo cerebrale degli spiriti irrequieti». Con umorismo, Negri si definisce scrittore “per necessità”: sin dalle elementari e fino alla fine del liceo barattava temi in cambio di compiti di matematica e di educazione artistica, materie nelle quali si dichiara assolutamente inetto. E quando nel 2001, a lui che viveva tra Roma e Bruxelles, capita di ereditare Serradenari, pensa di vendere tutto. Ma Felice Serra, agronomo anche di Gaja, gli dà un consiglio che poi lo legherà per sempre a questa terra:

© Sergio Visciano

e di bisogno d’amore. Si analizza la ricchezza dei contenuti ma anche la loro singolarità. Non esiste un messaggio uguale a un altro: sono scritti su cartoncini raffinati e colorati, accompagnati da disegni, fotografie, poesie, su semplici pagine di quaderno o anche, nel caso dei messaggi lasciati alla Casa di Giulietta, sul retro di un tovagliolo o di un biglietto del treno. Il Premio Cara Giulietta esplora il territorio delle emozioni alla ricerca dei più significativi tra questi, i più simbolicamente rappresentativi dell’immaginario amoroso».

Tra le attività del Juliet Club si annovera anche un premio letterario internazionale. «Il Premio Letterario Scrivere per Amore nasce nel 1996 con l’idea di premiare un’opera di narrativa che abbia per tema l’amore. Il premio ha riscosso la partecipazione sempre più attenta e incoraggiante delle case editrici e l’adesione di numerosi autori italiani e stranieri».

Il mio sguardo spazia da lei all’imponente archivio del Juliet Club. Tutto questo è stato ispirato da un personaggio di fantasia. Lei sorride:

«Letteratura e psicologia, empatia e bisogni, questa e’ l’espressione formidabile della forza dell’amore, il vero elemento che unisce l’umanita’.

L’esistenza di Giulietta non e’ certa, ma il suo mito e’ assolutamente reale».

the onlooker, and dragging their followers from restaurant to restaurant; mixtures of styles, ethnic groups, images, sounds, special effects, enthralling shows, food inspired by algorithms, veganomics, Apps like Shazam that recognize dishes. All this, and much more, is revolutionising the dinner ritual. The choice of a place to enjoy a gastronomic experience becomes an extremely complex task and entails a study of new culinary concepts.

laun’esperienza cena? multisensoriale di Lea Gasparoli

I nuovi trend della ristorazione rivoluzionano il rito della tavola

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«Dimmi dove mangi e ti dirò chi sei». Il nuovo concetto di ristorazione stravolge i canoni utilizzati dal gastronomo francese Jean Anthelme Brillat-Savarin, autore del trattato Physiologie du gout, che aveva coniato la frase, divenuta poi iconica «dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei». Ristoranti digitali, home delivery, sale sempre più simili ai salotti di casa, cuochi che diventano guest star e ruotano nei locali trascinando il proprio seguito, piatti che sembrano quadri declinati in creazioni atte a stupire, commistioni di stili, di etnie, immagini, suoni, effetti speciali, spettacoli coinvolgenti, cibo progettato partendo dagli algoritmi, veganomics, App che riconoscono i piatti, utilizzate come Shazam, tutto questo (e molto altro) rivoluziona il rito della cena.

La scelta di un luogo in cui concedersi un’esperienza gastronomica diventa un compito estremamente complesso ed implica uno studio dei nuovi concept culinari. La crescita irrefrenabile dell’eating out che a Londra, capitale indiscussa della ristorazione mondiale e dell’originalità in chiave estrema, nell’ultima stima ha superato i 55 miliardi di sterline con un trend in salita, è accompagnata da una sempre maggiore ricerca di qualità e novità da parte di clienti sempre più esigenti e preparati. Nuovi trend provenienti dall’Inghilterra, dalla Spagna, dall’America e dall’Asia conquistano l’Italia e si impongono con format innovativi e contemporanei. La Capitale si

Immagine di Immersive Show Dinner

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“Tell me where you eat and I’ll tell you who you are”. This is the new catering concept, overturning the ones used by the French gastronomist and author of the treatise The Physiology of Taste, Jean Anthelme Brillat-Savarin, who coined the iconic phrase, “tell me what you eat and I’ll tell you who you are”. Digital restaurants, home deliveries and restaurants that increasingly resemble home dining rooms; chefs who become guest stars taking their specialty dishes, designed to impress

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pag. 106-107 Immagini di Immersive Show Dinner

aggiudica il primato e a oggi l’esclusiva in Italia, annoverandosi tra le citta più cool del mondo, di un format visionario di food entertainment fino a ora presente (con una formula leggermente differente) soltanto a Shanghai (Ultraviolet) e a Ibiza (Sublimotion): Immersive Show Dinner. Un percorso di esperienze multisensoriali, ospitato nella Casina Valadier, che inizia con un aperitivo con vista spettacolare sulla Città Eterna per poi proseguire in una delle sale del palazzetto ottocentesco con un’immersione in un mondo virtuale fatto di sensazioni, ricordi, scoperte di nuovi orizzonti. Un viaggio coinvolgente nel quale l’eccellenza culinaria proposta dallo Chef Designer Massimo Viglietti di Enoteca Achilli al Parlamento, 1 Stella Michelin, (e, nelle cene speciali a 4 mani, dagli Chef stellati che si avvicendano nel tempo affiancandosi allo Chef Resident), si coniuga perfettamente con l’ambient creato da colonne sonore avvolgenti, immagini e fotogrammi che, attraverso le tecnologie più avanzate e sofisticate, trasportano gli ospiti in una infinità di mondi virtuali, realtà parallele e oniriche fatte di

sogni e di storia che evidenziano il legame profondo e imprescindibile tra cultura, arte, bellezza, moda, vino e cibo. Il progetto, ideato e fondato da Pier Paolo Roselli con l’intento di internazionalizzare il format (Immersive Show Dinner è infatti il primo pop up restaurant immersivo che può essere replicato anche in location differenti) attraverso l’apertura di più temporary restaurant in Italia e all’estero, focalizzando il piano di sviluppo a partire da Dubai, Miami, e Mosca, passando per un breve opening a Milano, ha l’obiettivo di valorizzare le eccellenze del Made in Italy attraverso una formula di grande impatto emotivo.

E se il Made in Italy della cultura gastronomica rappresenta il fiore all’occhiello del Bel Paese nel mondo, non si può certamente affermare che l’Italia chiuda le porte alla cucina etnica che conquista posizioni sempre più alte tra le preferenze degli italiani e viene scelta da 14 milioni di connazionali. A Milano, la Guida Rossa, per la prima volta nel nostro Paese, premia l’incontro tra Oriente

e Occidente. Iyo, il primo ristorante etnico stellato, conquista la scena della città Meneghina (e anche la stella Michelin) proponendo, oltre ai piatti della cucina giapponese, un’esperienza gastronomica di respiro internazionale. E dopo 12 anni dall’apertura di Iyo Taste Experience, Claudio Liu decide di avventurarsi in un grande progetto tecnologico e innovativo rispondendo alle esigenze della clientela milanese con un’idea in linea con ciò che sta avvenendo nella ristorazione di tutto il mondo: sbarca a Milano Aji, un avanguardistico ristorante a portar via e con consegne gourmet a domicilio incentrato su design e tecnologia, a pochi passi dalla casa madre, con cucina a vista e un unico tavolo imperale per chi desidera mangiare in loco godendosi la scena. Una nuova società (con lo chef Lin Yin Lu e il restaurant manager Federico Zhu) per una nuova idea che parte dalla città Meneghina ed è destinata a crescere oltre confine. Il dictat di internazionalizzazione dei locali e dell’offerta culinaria, nell’ottica delle contaminazioni delle culture, di ispirazione newyorkese, si diffonde in tutte le

capitali mondiali, in special modo nel mercato inglese. Arrivano le regole del futuro della nuova arte della ristorazione che raccolgono esperienze provenienti da tutto il mondo per dare forma a sperimentazioni che coinvolgono i sensi regalando emozioni inedite. Il fascino coinvolgente di terre lontane, di tradizioni che si incontrano in un orizzonte di esplorazione dei sapori, conquista la Sicilia. Per la prima volta sbarca a Catania un format internazionale e contemporaneo, Amocù, ideato da Nunzio Di Bella e Fortunato Fasanaro, incentrato su tre elementi essenziali: la ricerca, l’innovazione, il design. Con l’intento di portare nella città siciliana una visione che oltrepassi la cucina regionale e italiana e con l’obiettivo ambizioso di creare uno stile da portare nelle altre città, un pezzo del mondo arriva nel cuore di Catania.

Un viaggio attraverso la passione per la cucina che nei vari Paesi racconta l’antropologia e la cultura dei popoli e che riassume la sonorità gastronomica dell’Asian Mood Cusine con tocchi esotici

La crescente qualità dell’offerta culinaria, la ricerca sempre più impegnata delle materie prime di eccellenza, la sempre più visionaria creatività dell’ambient dei locali, la crescente professionalità dell’accoglienza, la stimolante possibilità di socializzazione, la diffusione della cultura della cena fuori casa sempre maggiore tra i giovani, fanno sì che la ristorazione diventi sempre più un’esperienza culturale che migliora la qualità della vita.

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o d u a b a s o t por l e d e t t o r delle

nel

Rum

di Piergiuseppe Bernardi Foto gentilmente fornite da Sagna S.p.A.

foto 1 e 2: Piatti del ristorante milanese Iyo foto 3 e 4: Ambienti del ristorante di Catania Amocù

For centuries the rum route connected the New World with the Old Continent.

This ultimately led to the discovery of an unusual port – Turin - whose Savoy style, at first glance, is a far cry from the sunny climes of the islands of Central America.

Starting from this peculiar port, the company Sagna S.p.A. has for many decades been distributing the prestigious Rhum J.M. Martinique all over the country, using its solid sales network which is linked to prominent restaurants and well-known wine bars. For this Turin importer and exporter of boutique wines and spirits these distillates have become the flagship of a company that has constantly aimed for the highest quality. It has found a highly reliable partner in the company that produces these rhum agricole (cane juice rum), which assures quality and international recognition.

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e moderni in un equilibrio sapiente creato dallo Chef Rui Antunes che ha viaggiato per mondi e cucine diverse sperimentando le contaminazioni della cucina giapponese con quella portoghese e peruviana. Suggestioni che arrivano dalla commistione di tecniche e di ispirazioni di una cucina moderna e millenaria allo stesso tempo. Un percorso nel design che comincia con il sakè bar, il primo a Catania, un vero e proprio laboratorio di miscelazione animato da attrezzature tecnologiche e scenografiche, guidato dall’esperienza nell’arte della mixology e ispirato ai viaggi intorno al mondo. Un’esperienza inedita che passa attraverso un mood contemporaneo in cui non mancano i dettagli che rendono omaggio al territorio unendo l’intramontabile eleganza delle tradizioni all’energia dell’innovazione delle forme con giochi di luci e architetture visionarie.

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«Fifteen men on the dead man’s chest / Yo-ho-ho / and a bottle of rum! / Drink and the devil had done for the rest / Yo-ho-ho / and a bottle of rum!»

del Tesoro da Robert Louis Stevenson al

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capitano della nave Long John Silver, hanno forse legato per sempre il rum a uno mondo infestato da pirati senza scrupoli e che identificavano in questa bevanda il marchio stesso dell’universo trasgressivo in cui vivevano. Sono dunque le atmosfere caraibiche, con la magia rarefatta dei litorali e delle isole che compongono il loro accattivante paesaggio marino, a essere evocate non appena il profumo intenso del rum dapprima ci riempie le narici, per pervaderci poi il palato con l’aromatica intensità alcolica della canna da zucchero distillata. E il nostro immaginario viene così proiettato quasi automaticamente in un orizzonte fantastico, legato a infantili e adolescenziali letture popolate di galeoni carichi d’oro e inseguiti da feroci corsari pronti a tutto per impossessarsi dei loro tesori.

In realtà, a fare da sfondo alla nascita di questo distillato non furono affatto gli assolati panorami caraibici, ma la densa e maleodorante nebbia – così la definiscono testimonianze dell’epoca – che fin dal XIII secolo a lungo afflisse Londra. Fu qui, nella capitale di quello che sarebbe presto diventato l’Impero d’Inghilterra, che durante il XV secolo venne per la prima volta distillato questo particolarissimo superalcolico, destinato nelle epoche successive a diventare, anche nelle sue versioni più popolari, un prodotto sempre più prestigioso. E a rappresentare l’ingrediente principale di questo primo rum, il cui nome viene fatto risalire da alcuni al gorgoglio (rumble) che ne accompagnava la fermentazione, fu indubbiamente la canna da zucchero, proveniente però non dai Caraibi ma piuttosto dall’India. Solo due secoli più tardi, e dunque nel XVII secolo, si sarebbe assistito allo sviluppo graduale di una produzione di rum finalmente realizzata nelle stesse piantagioni di canna da zucchero delle isole caraibiche.

Sarebbe stato in questo contesto che i successivi “stili” di distillazione si sarebbero precisati: quello inglese, connotato da una speziata potenza; quello francese caratterizzato da una raffinata eleganza; quello spagnolo infine, reso peculiare da un’avvolgente morbidezza. E sia che si tratti di traditional rum, ottenuti a partire dalla melassa o da altri sottoprodotti del processo di estrazione dello zucchero, sia che si abbia invece a che fare con i rhum agricole, ricavati direttamente dal vesou e dunque dal puro succo della canna da zucchero – anche se l’area geografica di produzione di questo distillato va ben al di là dei Caraibi – sono proprio questi ultimi a essere divenuti col tempo gli scenari immediatamente evocati dai sentori e dai sapori del rum. Martinica e Guadalupa, Barbados e Grenada, Giamaica e Santa-Lucia sono solo alcune delle isole che, con le loro spiagge bianche e i loro mari cristallini, si sono trasformate nel sinonimo di un mondo il cui stile di vita, a un tempo slow e trendy, ha trovato proprio nel rum il suo stesso simbolo internazionale.

e h c i b i a r a c e r e f s o m t a

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Le parole di questo canto, fatto intonare nell’Isola

la

magiacome passione

The Torino illusionist Walter Rolfo believes he is a very lucky man, not only because he can boast having finished in the Guinness World Records four times, but mostly because he has been able to live the life he dreamed of as a boy. Graduating from the Politecnico di Torino in Engineering and Management, he has always dedicated himself to his passion for magic. This passion has enabled him to travel the world, taking part in international magic events, and to create performances and television programs that have made him both appreciated and famous.

di Lamberto Vallarino Gancia

«Come tutti gli altri prodotti su cui abbiamo puntato in questi novant’anni di storia aziendale – spiega Leonardo Sagna, che con il padre Massimo lavora nell’azienda di famiglia fondata dal bisnonno Amerigo – anche i Rhum J.M appartengono alla più alta gamma di questo tipo di distillati. È nella nostra filosofia infatti proporre vini e liquori che non solo siano espressione di realtà incentrate su gruppi familiari, ma che risultino anche capaci di distinguersi nel sempre più affermato mercato internazionale. Ecco il perché della scelta di una linea di rum che nasce nell’isola caraibica della Martinica sotto la stretta supervisione della storica famiglia Crassous de Médeuil, che segue direttamente e cura ogni fase dell’intero processo di produzione; rum garantiti dalla ferrea normativa dei Rhum Agricole de la Martinique, senza il rispetto della quale non potrebbero essere riconosciuti e commercializzati come A.O.C.». È il terreno vulcanico della Montagne Pelée, il cui terroir risulta ottimale per la coltivazione della canna da zucchero, a rappresentare lo scrigno in cui si cela il segreto dei sapori e dei profumi unici dei Rhum J.M. Dai trenta ettari della tenuta della famiglia Crassous de Médeuil, destinati a questa coltura, si ottengono infatti, attraverso l’estrazione del vesou, ben 250 mila litri di distillato l’anno.

Proprio questa produzione della materia prima, necessaria alla distillazione, costituisce uno dei punti di forza dei Rhum J.M, consentendo prima di non far intercorrere troppo tempo tra la raccolta e la macinatura e poi di curare al meglio la fermentazione e la distillazione. A fare il resto ci penserà il tempo, attraverso un affinamento in fusti di quercia. Saranno questi ultimi a rendere piacevolmente complesso il sapore dei Rhum J.M. e a imprimere loro il caratteristico colore acquisito dai diversi blend in cui esso verrà declinato.

Se, per la Sagna S.p.A, il Rhum J.M. rappresenta lo “stile francese”, lo “stile inglese” è espresso invece dal Rum Admiral Rodney, marchio super premium della Saint Lucia Distillers di proprietà anch’essa della famiglia Crassous de Médeuil. In questo caso, dalla distilleria realizzata al centro della suggestiva valle di Roseau nell’isola caraibica di cui

Sul Guinness dei Primati ci è finito ben quattro volte, ma uno dei suoi record è davvero il massimo per un “mago” come lui: è stato lui infatti, in modo del tutto classico, a riuscire a tirar fuori dal suo cilindro più conigli di ogni altro. Stiamo parlando di Walter Rolfo, prestigiatore torinese con nel sangue una passione per la “magia” insorta alla tenera età di appena nove anni e mezzo. Dovettero tuttavia passare ben tre anni prima che essa, grazie ai corsi di don Silvio Mantelli, in arte quel “Mago Sales” alla cui scuola crebbe anche il famoso trasformista Arturo Brachetti, trovasse il modo di esprimersi ai livelli più alti.

l’azienda stessa porta il nome, a essere sottoposto a distillazione mediante discontinui alambicchi a colonna non sarà il vesou ma la melassa, precedentemente fatta fermentare a lungo con lieviti autoctoni in vasche aperte. In questo caso ad accompagnare il processo di invecchiamento, antecedente al blend e mai inferiore ai 5-9 anni, saranno botti di rovere americano impiegate per il Bourbon Whisky, lo Sherry o il Cognac. «La potenza raffinata dei tre blend della linea Rum Admiral Rodney – sottolinea Leonardo Sagna con il legittimo orgoglio di chi è consapevole di rappresentare un prodotto unico – emerge con una tale evidenza che non stupisce affatto il successo di questo distillato, unanimemente considerato come uno dei migliori rum al mondo».

La notevole dedizione con cui continuò a guardare alla “magia”non impedì tuttavia a Rolfo di proseguire regolarmente gli studi, fino alla laurea in Ingegneria Gestionale conseguita al prestigioso Politecnico di Torino. Una preparazione che ovviamente userà per sviluppare, in modo rigoroso e professionale, quella che per lui è la sua autentica passione.

Sarà abbinando questi due universi che Rolfo, in meno di dieci anni, si trasformerà nel leader mondiale della creazione e della produzione di spettacoli live e televisivi legati al mondo dei giochi di prestigio.

Walter è un uomo fortunato e si ritiene tale. Se non sono molti coloro che possono vantare di essere finiti nel

Guinness dei Primati,

Walter ROLFO

forse ancor meno sono quelli che possono dire di aver vissuto una vita realizzando i sogni che avevano da bambini.

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acchito risulta del tutto estraneo a quello, vivace e caliente, delle più assolate isole del Centroamerica. Proprio da questo singolare “porto”, ormai da decenni, la Sagna S.p.A. fa arrivare su tutto il territorio nazionale, grazie a una solida rete di vendita legata a prestigiosi ristoranti e affermate enoteche, i prestigiosi Rhum J.M della Martinica. Distillati che, per l’azienda torinese di importazione e distribuzione di vini e superalcolici d’essai, si sono trasformati col tempo nel vero e proprio fiore all’occhiello di una proposta che ha costantemente voluto puntare sulla qualità. E che ha trovato nell’azienda produttrice di questi rhum agricole un partner altamente affidabile per qualità e fama internazionale.

foto di ©Giulio Crivellari

Le rotte del rum, che ormai da secoli legano il Nuovo Mondo al Vecchio Continente, proprio in quest’ultimo contesto hanno finito con lo scovare un porto insolito, lontano dal mare e creato ben novant’anni fa ai confini di una città – Torino – il cui stile sabaudo di primo

Il vero punto di forza della sua carriera fu l’essere eletto Presidente del Campionato del mondo di Magia realizzato in Italia nel 2015 dalla Federazione Internazionale Società Magiche.

Sarà in questa veste che Rolfo, ormai già entrato nell’Olimpo della “magia”, darà vita al World Championship of

Ovviamente la sua passione per il vino non è per nulla paragonabile alla sua passione per la magia. È quest’ultima infatti ad averlo spinto ad abbandonanare tutti i vecchi stereotipi di “cappello, bacchetta e conigli” per ripensare in profondità il mondo della magia. E in una chiave volta, per un verso, a

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Magic più grande di sempre, cui parteciparo-

Il vino del resto è qualcosa che appartiene alla sua infanzia, visto che sia suo nonno sia suo padre lo producevano. Ecco forse il perché del suo conservare ancora la bottiglia ricevuta in dono dai suoi genitori al suo battesimo perché la aprisse il giorno dei suoi diciott’anni. Ed ecco perchè, senza mai eccedere, Walter ama degustare vini differenti e, con la complicità di amici esperti, abbinarli a piatti di qualità capaci di sedurre, anche loro magicamente, il suo palato.

foto di © William Scaramuzzino

E lui appartiene a questo piccolo numero di fortunati. Inseguendo il suo sogno, in questo caso autenticamente magico, ha potuto pagarsi gli studi, viaggiare per il mondo, corteggiare e conquistare donne famose, partecipare a eventi di magia a livello internazionale e, soprattutto, creare spettacoli e format televisivi che, legati a questo specifico mondo, lo hanno reso apprezzato e famoso.

no 5.000 maghi e assistettero 500.000 spettatori, che culminò in quattro prime serate trasmesse da Canale 5 e condotte da Gerry Scotti, supportato dallo stesso Walter. Il successo raggiunto, ampio e condiviso, non ha però indotto Rolfo a dimenticare il percorso fatto per raggiungerlo. È forse per questa ragione che colui che tutti riconoscono come uno dei più grandi “maghi” del nostro tempo ha creato, fin dal 2008, la Masters of Magic Gang. Un’iniziativa singolare volta a promuovere le capacità di ragazzi autenticamente appassionati di “magia” e a offrire loro la possibilità di misurarsi, dopo una rigorosa selezione e formazione, in spettacoli effettuati sia dal vivo sia in televisione. La passione per la magia, che Rolfo ha vissuto come un vero e proprio fuoco interiore e descritto efficacemente nel libro L’arte di realizzare l’impossibile, lo ha portato a essere considerato uno dei formatori più innovativi e apprezzati d’Italia. E i suoi clienti sono brand di prim’ordine: dalla Coca Cola alla FCA, dalla Ferrero alla Juventus, dalla GoodYear alla Wind. Un mix dal quale traspare come cibo e vino siano tutt’altro che estranei al suo “magico” universo.

far tesoro di una tecnologia capace di offrire opportunità indedite e, per l’altro, a continuare a stupire un pubblico divenuto col tempo sempre più competente ed esigente.

E sempre in questa prospettiva Rolfo, che non ha mai lasciato venir meno il suo contatto con i sogni, continua a sognare senza porsi limiti di sorta. E il nuovo sogno che nella sua geniale mente sta prendendo forma è quello della creazione di un vero e proprio “Cirque du Soleil” della magia. Un modo per rendere visibile a tutti come anche in questo settore il contributo del Made in Italy, capace di imprimere alla magia un tratto unico ed esclusivo di bellezza, sia stato e resti fondamentale.

Cagliari is the summary of a past carved into rock and framed by a blue that changes with the seasons. Incandescent in summer and freezing in winter, it remains separate from the rest of the island, almost as though proudly defending its history. Seen from the sea, its buildings rise on a slope dominated by the Castle, reminiscent of Middle Eastern citadels, suspended between history and legend. Inside the city, a tangle of streets journey through the centuries, witnessing the civilisations that have contributed to its unique character.

Cagliari CAGLIARI, UN’IMMERSIONE NEI COLORI DEL TEMPO

Paola

Cerana

«È una città bellissima, aspra, pietrosa, con mutevoli colori tra le rocce, la pianura africana, le lagune, con una storia tutta scritta e apparente nelle pietre, come i segni del tempo su un viso: preistorica e storica, capitale dei sardi e capitale coloniale di aragonesi e di piemontesi, una delle più distrutte dai bombardamenti dell’ultima guerra e, in pochi anni, una delle più completamente ricostruite…».

Con queste parole Carlo Levi, in Tutto il miele è finito dipinge Cagliari, cogliendone l’anima. Le probabili origini nuragiche del suo nome, Karalis, suggeriscono l’appartenenza della città alla nuda pietra: da “kar”, infatti, ovvero “roccia”, “macigno”, ma anche “rocca”. In effetti, a guardarla dal mare, a una distanza sufficiente affinché lo sguardo l’abbracci tutta, quel caparbio ammucchiarsi verso l’alto di case variopinte contrasta prepotentemente con la fluidità del Mediterraneo. È terra che parla ai naviganti approdati qui nei secoli, in cerca di rifugio e di ristoro. E insieme alla fermezza della terra, questo scorcio di urbanità che emerge dalle acque evoca lo scorrere del tempo, l’affastellarsi degli anni che hanno plasmato il volto della città.

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fotografie di © Stefano Falchi

Incandescente d’estate e gelida d’inverno, si estranea dal resto dell’isola, quasi voglia difendere con orgoglio la sua storia. Il precipitoso incedere dei suoi edifici ricorda un po’ le cittadelle mediorientali, presepi laici sospesi tra storia e leggenda, dove il sole inclemente s’inchina la sera all’aura dorata della luna.

Ma se, ammirando la città dal mare, vince la seduzione del suo arroccarsi verso il cielo, penetrando all’interno si sprofonda nel groviglio di stradine in cui pare veder sfilare le civiltà che qui nei secoli si sono succedute.

Carri e carrozze hanno seminato impronte puniche, romaniche, bizantine, cui si sono sommate quelle delle più recenti dominazioni pisana, aragonese e piemontese.

Curioso è il fatto che i viaggiatori forestieri nell’Ottocento e nel Novecento chiamassero Cagliari la “città gialla”, per via della sua bella roccaforte, il Castello, a quei tempi certamente molto più visibile di oggi per via del nulla che la circondava. Il “Castéddu”, costruito in roccia calcarea, trasudava infatti la colorazione giallognola tipica del giglio, fiore per altro diffuso nelle pri-

mavere di quei tempi sui pendii di queste montagne. Ancora oggi il Castello è il simbolo storico della città: appollaiato sul colle a cento metri dal mare, pare scrutare l’orizzonte a caccia del nemico, come una vedetta fedele alla propria terra.

Il quartiere medievale che lo ospita è il più antico della città, costruito e fortificato nel XIII secolo dai pisani, che hanno lasciato in eredità ai futuri viandanti le possenti mura, le torri e i bastioni.

Eloquenti narrazioni architettoniche dei trascorsi storici.

Scendendo dal Castello verso il porto, si passa per Marina, altro quartiere storico in origine abitato prevalentemente da pescatori. Mentre più a ovest s’incontra un’altra fetta della storia di Cagliari, Stampace, quartiere animato da botteghe di artigiani e artisti ma soprattutto ricco di chiese, forse le più seducenti della città, che riassumono il profondo senso religioso dei cagliaritani. Dalla Chiesa di S. Anna a S. Restituita, da S. Efisio a S. Michele, fino agli edifici spirituali del quartiere di Villanova, il filo conduttore dell’arte si perde, o meglio si ritrova, nella fede. Sposalizio tra sacro e profano disseminato in ogni dove, tra viuzze ombrose, tetti assolati e panni stesi, e che culmina nella Chiesa di Santa Maria Assunta e nella Basilica di San Saturnino, santo protettore di Cagliari.

Passeggiando per via Roma e viale Regina Margherita, passando sotto lo sguardo solenne

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la città gialla

Cagliari è dunque il riassunto di un passato scolpito nella roccia e incorniciato da un blu che cangia con l’alternarsi delle stagioni.

Spiritualità e riverenza emergono anche laddove l’architettura lascia spazio alla natura. Cagliari, infatti, non è solo culla d’arte e architettura ma anche regina di spiagge e oasi protette che invitano il viandante a scoprire il volto più selvaggio della città. Affacciata sul Golfo degli Angeli si allunga la spiaggia del Poetto, particolarmente amata dai cagliaritani ma non solo. Dal Margine Rosso, sul litorale di Quartu Sant’Elena, si srotola per otto chilometri di sabbia fino alla Sella del Diavolo, il promontorio che domina il porticciolo di Marina Piccola. Il litorale s’allaccia poi al Parco Molentargius-Saline con le sue spettacolari nuvole rosa di fenicotteri (“sa genti arrubia”, come li chiamano qui, ovvero il “popolo rosso”). Anche questa è una preziosa opera d’arte naturale che all’animo sensibile suscita la stessa commozione di un’opera d’arte sacra.

Così il viaggio prosegue all’insegna dei colori. Dal giallo del Castello, al rosa dei fenicotteri, al blu del mare. Dopo l’immersione in secoli di architettura, un tuffo rinfrescante nel Mediterraneo è d’obbligo per decantare la bellezza che il pennello del tempo ha impresso su questa città aspra, pietrosa, con una storia tutta scritta e apparente nelle pietre, come i segni del tempo su un viso...

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del Bastione di Saint Remy, ecco che ci s’imbatte invece nel simbolo politico e civile di Cagliari: il Palazzo Viceregio, antica dimora reale oggi sede della Prefettura. Dal Trecento a oggi i vari restauri lo hanno resuscitato a nuova vita e i dipinti che ospita all’interno delle sue sale ne fanno una vera e propria galleria d’arte. Ancora una volta il passato riaffiora nel presente attraverso la bellezza.

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Baldassare Agnelli, la storica fabbrica del “Made in Italy” in cucina, ha ideato 1907, una linea di pentole molto speciali. 1907, associa l’eccezionale conduttività termica e la leggerezza dell’alluminio con la lucentezza dell’acciaio inossidabile. Le pentole della collezione 1907, dal cuore spesso in alluminio, rivestite internamente ed esternamente dall’acciaio, offrono così uno straordinario risultato nella distribuzione uniforme del calore, migliorandone le prestazioni, riducendo i tempi di cottura e permettendo un notevole risparmio energetico. Le pentole 1907, adatte anche per la cottura ad induzione, con il loro rivestimento esterno in acciaio inox lucido amano mostrarsi nelle cucine a vista, seducendo e incantando chiunque le veda.

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It was in the sixties that the Maglio family’s activity began to thrive. With solid businesses in home catering and banquets, as well as liqueur production, Vincenzo Maglio turned his hand to chocolate production. Today Maurizio and Massimo carry on a heritage that over the years has grown stronger, claiming success and awards at a national and international level. The choice to work with only the best raw materials led to the selection of high-quality products from small producers, and to the Maglio family developing a plantation of 50 hectares in Cuyagua, Venezuela, where they maintain a solid ethical commitment with regard to both the environment and working conditions. Although more than a century has passed, their style has remained intact, because despite its size, the company remains an artisan workshop, driven by the same spirit that has always inspired this family.

La cioccolata del salento

Quanta storia può raccontare una “semplice” tavoletta di cioccolato. Antonio arriva a Maglie nel 1875, allora una piccola località nel cuore del Salento, e con grande fiuto apre una locanda con cambio di cavalli, proprio al centro di un sistema viario che rende la cittadina il fulcro di uno snodo che la congiunge con tutti i paesi limitrofi e con tutto il basso Salento.

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maglio

di Pasquale Porcelli Foto gentilmente concesse da Maglio

il ristorante a Torino

DEL CAMBIO Il piccolo centro cresce, le attività prosperano e Giuseppe Maglio, figlio di Antonio, apre un caffè con annesso laboratorio di dolciumi, dando inizio così alla storia che legherà i Maglio all’arte dolciaria e in particolare a quella del cioccolato. È negli anni sessanta che però l’attività si svilupperà in modo pieno, quando alla ormai consolidata organizzazione di ricevimenti, banchetti e produzione di liquori, Vincenzo Maglio, affiancherà la produzione di cioccolato creando ricette e nuovi prodotti e introducendo il marchio del calesse, che da allora contraddistinguerà tutta la produzione. Forti di una storia fatta di tanto lavoro e intraprendenza, Maurizio e Massimo portano oggi avanti un’eredità consolidatasi negli anni anche con successi e premi nazionali ed esteri. Ma cosa rende unico il loro cioccolato? Cosa lo rende diverso e goloso? Senza dubbio la materia prima, che nel cioccolato vuol dire innanzitutto la provenienza delle fave che saranno poi lavorate sino a ottenere il nettare degli dei. Le fave selezionate esprimono gusti e aromi unici, in virtù delle caratteristi-

Perù, Cuba, Ecuador, Repubblica Dominicana, Tanzania, Guayaquil. La costante ricerca nelle piantagioni di tutto il mondo che del territorio e del clima e provengono dal

ha portato a scegliere non solo delle piccole produzioni di altissima qualità, gestite da famiglie produttrici di cacao da generazioni, ma anche nell’impegno a lavorare cacao provenienti da coltivazioni sostenibili, dove non si impiega lavoro minorile. Prende così forma, qualche anno fa, l’impegno dei Maglio in Venezuela, in una piantagione nella località Cuyagua, un piccolo paese che si affaccia sul Mar dei Caraibi. Qui

redefined the restaurant within its Piedmont history.

This change, however, could not have been limited solely to the cuisine.

The restaurant’s wine cellars have also been revamped, thanks to the innovative Davide Buongiorno, wine director of the prestigious establishment.

piantagione di 50 ettari, con l'aiuto di una equipe dell'università di Merida, si selezionano le piante di criollo puro, tra le varietà più pregiate, fornendo una mappatura genetica della specie. Inol-

nella piccola

tre Maglio sostiene il progetto anche con l’aiuto alimentare e finanziando l’acquisto di nuove attrezzature. Un impegno etico concreto, che coinvolge circa 100 famiglie, nel rispetto dell’ambiente e delle condizioni di lavoro. Dietro la frutta ricoperta di cioccolato, le praline, la piccola pasticceria, le tavolette c’è tutto questo. Uno spirito imprenditoriale giusto, fatto di tanto lavoro, di ricerca, di creatività e di visioni, ma anche un impegno civile concreto, tangibile che vuol dire rispetto per la natura e per il lavoro dell’uomo. Più di un secolo è passato, ma lo stile è rimasto intatto, perché nonostante le dimensioni attuali raggiunte, l’azienda resta un grande laboratorio artigianale animato dallo stesso spirito che da sempre muove questa famiglia.

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The Del Cambio restaurant, a true Turin temple to fine taste, has represented an important piece of the city’s history since 1757 – and not only in a food and wine sense. In 2014 the Piedmont chef Matteo Baronetto took the reins, and thanks to his experience working with award winning chefs such as Gualtiero Marchesi and Carlo Cracco, has creatively

di Piergiuseppe Bernardi

Quando la creatività fa i conti con la storia Foto gentilmente concesse da Ristorante Del Cambio

Il ristorante Del Cambio, tempio torinese del gusto, rappresenta dal 1757 un importante pezzo di storia – non solo enogastronomica – della città che fu per prima capitale d’Italia. Ancora oggi, cenando nelle sue prestigiose sale fatte di boiserie e specchi d’antan, di pavimenti e lampadari senza tempo, si ha l’impressione di essere per un momento proiettati in un mondo ormai perduto: quello che nei secoli le ha viste frequentare non solo da Camillo Cavour, ma anche da eterogenei miti del passato come Eleonora Duse e Maria Callas, Honoré de Balzac e Giuseppe Verdi, Friedrich Nietzsche e Giacomo Puccini.

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Camillo Cavour, Eleonora Duse , Maria Callas, Honoré de Balzac, Giuseppe Verdi, Friedrich Nietzsche, Giacomo Puccini.

E

forse sarebbe rimasto prigioniero per sempre di questo magico sortilegio, se a sottrarlo dalla paralisi in cui sembrava ormai avvolto non fosse arrivato, forte di un’esperienza maturata alle tavole stellate di Gualtiero Marchesi e Carlo Cracco, uno Chef dal DNA rigorosamente piemontese: Matteo Baronetto.

Sarà Baronetto, a partire dall’aprile 2014, a imprimere al ristorante Del Cambio una svolta la cui gradualità solo ingenuamente avrebbe potuto essere scambiata con un mantenimento dell’ormai sincopato status quo. Questa svolta, prendendo il via dalla cucina, si incamminerà davvero su una strada tanto arrischiata quanto ambiziosa: rideclinare, in una prospettiva di creatività, la storia tutta piemontese del locale. Ora, a oltre quattro anni di distanza, se avrete occasione di sedervi a uno dei tavoli del ristorante Del Cambio,

non avrete più dubbi circa la riuscita dell’operazione: anche se vi limiterete a un classicissimo vitello tonnato o a dei tradizionali agnolotti alla piemontese, non tarderete ad accorgervi come dietro ai nomi fin troppo sobri di questi piatti si nasconda una capacità rielaborativa d’eccezione, pur animata nel suo profondo da quel tratto sabaudo che riesce a stupire con la sostanza, anziché con gli effetti speciali.

Questa svolta tuttavia non avrebbe certo potuto limitarsi alla cucina, impossibile da rilanciare senza ripensare davvero a

fondo anche l’intera cantina. Ecco allora il vulcanico Davide Buongiorno, wine director del prestigioso locale, entrare immediatamente in sintonia con la filosofia di Baronetto e rilanciare il vino fino a farne uno dei protagonisti ineludibili del nuovo corso del ristorante Del Cambio: sia rimettendo ordine tra le quasi 20.000 bottiglie che si assiepano lungo i suggestivi muri in mattoni dei ricuperati sotterranei delle cantine; sia studiando una carta dei vini in linea con la nuova scommessa in atto; sia soprattutto creando – nella ma-

gica penombra del lungo e stretto corridoio dove ha trovato posto “il tavolo della cantina” – veri e propri eventi volti a far crescere, attraverso la degustazione di etichette prestigiose accompagnate a piatti appositamente pensati per valorizzarle, la cultura autentica del vino.

I piatti di Baronetto e i vini di Buongiorno, pur decisivi nella dinamica strategia di rilancio del ristorante Del Cambio, sono soltanto le espressioni di punta di un progetto dall’intento ben più articolato e complesso.

Quello che ormai ha portato questo locale a trasformarsi in una vera e propria Maison, dotata anche di una singolare Farmacia dove, oltre a poter acquistare take-away piatti pronti creati dalla cucina stessa del ristorante, si può anche gustare un ottimo aperitivo nelle atmosfere rarefatte di una delle più affascinanti piazze di Torino. Proprio quella Torino che – ed è evidentemente questo l’obiettivo ultimo del progetto di cui Baronetto attraverso la creazione della Maison Del Cambio intende porsi a capofila – deve tornare a essere l’effettiva e legittimata capitale enogastronomica di un territorio risultato capace di imporsi, nel giro dell’ultimo decennio, come uno dei “luoghi del gusto” più apprezzati dal turismo nazionale e internazionale.

Soul Festival

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Blues & Wine

Blues & Wine Soul Festival: quando i grandi vini e grande musica.

Joe Castellano

fotografie di © Vincenzo Meli The tastes and smells of the fabulous nights of the biggest wine and music festival in the world, that is the “Blues and Wine Soul Festival” are still vivid for all the enthusiasts that took part in the XVI edition of this marvellous event at the end of July and throughout the month of August.

The event was an itinerant “Gran Galà” which took place in hotels and luxury resorts, as well as villas, farmhouses, castles, boutique hotels,

and in the great historic squares of Sicily and Lazio. It offered a unique symphony of occasions for guests to enjoy prestigious presentations of cooking, wine and music. Emotion-filled events coloured the warm Summer nights refreshed by Italian wineries, offering the best of their wine production and integrating themselves into the events conceived by the historical artistic director and creator of Blues & Wine, Joe Castellano.

I sapori e gli odori delle stupende notti del più grande Wine Music Festival del mondo, quale è il Blues & Wine Soul Festival, sono ancora vivissimi in tutti quegli appassionati che, tra la fine di luglio e agosto, hanno vissuto la XVI edizione di questo meraviglioso evento.

Un itinerante “Gran Galà” svoltosi in hotel e resort di lusso, nonché ville, casali, castelli, luoghi di charme e anche nelle grandi piazze storiche della Sicilia e del Lazio,

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capace di proporre un’unica grande sinfonia regalata agli ospiti delle serate da prestigiosi interpreti della cucina, del vino e della musica. Eventi accompagnati da emozioni che hanno colorato le calde notti estive rifrescate da realtà vitivinicole italiane che si sono date appuntamento per offrire il meglio della propria produzione enologica, integrandosi perfettamente negli eventi voluti dallo storico direttore artistico e creatore del Blues & Wine, Joe Castellano.

Tutto è iniziato le sere del 27 e 28 luglio sulla spiaggia dell’imponente promontorio della Scala dei Turchi di Realmonte ad Agrigento, con due cene svoltesi nel bellissimo e omonimo Club “Lounge Beach Scala dei Turchi”, durante le quali freschissimi piatti di pesce sono stati abbinati a gustose bollicine e profumati vini fermi delle aziende partecipanti, il tutto accompagnato da alcuni dei grandi musicisti e special guest della band internazionale di Joe Castellano.

Il 31 luglio, nella location del Luxuria Hotel Metropoli, nel pieno centro della sempre affascinante Taormina, si è tenuto il secondo appuntamento del tour.

Una notte meravigliosa che ha visto andare in scena, nelle meravigliose terrazze a strapiombo sul mare di questa celebre baia dello Jonio, un tripudio di piatti proposti dallo Chef dello stesso Hotel Metropoli accompagnati dai vini selezionati dal

Bisol, Maeli, Colomba Bianca, Planeta, Luna Sicana, Feudo Disisa, Alessandro di Camporeale, Carlo Fauner, Milazzo, Feudo Principe di Corleone e Sergio Mottura hanno così reso ancor più

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frizzante una serata di classe, che ha visto trionfare una star internazionale della musica: la bravissima Sarah Jane Mori, accompagnata dai 2 eccellenti chitarristi Tim Mansfield (già con Prince, Ray Charles, Steve Pinewood, Elton John e in ben 10 dischi dei leggendari Bee Gees…) e Tony Remi (già con Annie Lennox, Herbie Hancock e Sting). Il tutto sigillato da fuochi di artificio finali, esplosi con la performance dell’intera band di Sting.

Gran Galà tenutosi il 1° agosto nel meraviglioso contesto di Cefalù e dell’accogliente e confortevole Hotel “Cefalù Sea Palace”.

Altrettanto spettacolare anche il

Una specialissima notte di emozioni, profumi e grandi sapori, dove gli Chef dell’Hotel si sono scatenati in circa quaranta diverse succulente portate, innaffiate da spettacolari bottiglie di Chardonnay, Catarratti, Sauvignon Blanc, Nocera, Grillo, Grechetto, Inzolia, Malvasia, Perricone, Nero d’Avola, Frappato, Moscato in doppia versione e decine di altri vitigni. L’8 agosto poi, ecco prendere forma nella Masseria del Barone Agnello, oggi trasformata in bellissimo resort ad Agrigento, il Relais Gran Galà Blues & Wine. Una serata effervescente, nella quale duecento ospiti hanno potuto godere di musica, cibo e vini.

Il 10 agosto è stata la volta del famoso e celebratissimo “Verdura Resort” di Sir Rocco Forte. Uno dei

templi europei del golf, trasformatosi per l’occasione in un villaggio della gastrono-

mia, del migliore vino e della più coinvolgente soul music. Tra i prati e il mare… tra le bellezze di un territorio unico al mondo, ha preso corpo una serata indimenticabile. La notte dell’11 agosto, nella splendida Piazza del Duomo di Mazara del Vallo, si è chiusa davanti a circa quattromila persone la prima parte della XVI edizione del Blues & Wine Soul Festival. Non sono però mancate, successivamente, le Notti Speciali dedicate ai “Piccoli Borghi Antichi”. In Sicilia è stata la volta del Borgo di Comitini (Agrigento), dove il 29 settembre il Festival è tornato nella meravigliosa Rocca Medievale di Civitella d’Agliano (Viterbo), dove in gemellaggio con il locale “Festival del Vino e della Musica” ha proposto per il secondo anno un importante convegno e una cena di gala presso la bellissima e prestigiosa azienda di Sergio Mottura.

Nell’anno che il Mibac ha indicato come “Anno del Cibo”,

uno dei più bei Festival estivi italiani, con i suoi Gran Galà composti di musica, vino e cibo, ha dato vita a un circuito della “Bellezza” e dei grandi sapori costruito insieme a Bubble’s. E destinato a proseguire a dicembre con gli annuali “Blues & Wine Awards”, consegnati alle migliori e più votate etichette che hanno partecipato al circuito del Festival.

Senza dimenticarsi ovviamente dell’edizione del prossimo anno, nella quale saranno coinvolti anche famosi territori del vino del nord Italia.

Buon Bubble’s a tutti!

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magazine Bubble’s.

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Che l’arte per lei sia una passione fortissima, di Lamberto Vallarino Gancia

glielo si legge in volto ogni volta che ne parla.

I suoi occhi brillano quando racconta di come lei, cresciuta in mezzo a dipinti e oggetti di arte antica, abbia ereditato dalla madre quella propensione al collezionismo che l’ha spinta quasi naturalmente verso l’universo dell’arte contemporanea.

Fu così che Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, dai primi anni novanta, cominciò a esplorare autonomamente questo universo tramite innumerevoli viaggi, frequenti visite a musei prestigiosi e incontri sempre più fitti con artisti contemporanei famo-

si dai quali, ben presto, comincerà ad acquistare i suoi primi quadri.

La madre però non mancò di continuare a supportarla, spingendola a curare una raccolta prestigiosa di American Costume Jewelry, destinata a diventare un “tesoro” di oltre 1.000 pezzi di bigiotteria preziosa e rarissima, capace di ripercorrere la storia dell’artigianalità creativa stelle e strisce del Novecento.

Senza spaventarsi per i nuovi materiali che, in questo contesto, l’alta gioielleria nordamerica-

Foto gentilmente concesse da Patrizia Sandretto Re Rebaudengo

na aveva scelto per dar corpo a nuovi oggetti di fantasia: dalla gomma vulcanica alla celluloide, dalla bakelite al plexiglas, fino al sempre più pervasivo acrilico.

Fu così che, per Patrizia, il collezionare arte contemporanea divenne l’occasione per vivere splendide esperienze. Eccola allora, nel 1992, approdare nella Londra degli Young British Artists. Una città che, fin da subito, la affascinò, dischiudendole gli innovativi mondi della Lisson Gallery e della White Cube e mettendola in contatto con curatori e

direttori di musei del calibro di Iwona Blazwick, Julia Peyton Jonese, soprattutto Nicholas Serota, quest’ultimo destinato a condizionare in modo significativo il suo modo di intendere il collezionismo.

«Entrare direttamente in contatto con questi personaggi – racconta Patrizia – mi ha indotto a riflettere su come l’arte contemporanea e il suo sguardo sul mondo che ci circonda ci aiutino a vivere con maggior consapevolezza il nostro tempo e ad acquisire una visione più critica su ciò che accade.

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Patrizia Sandretto Re Rebaudengo

Patrizia Sandretto Re Rabaudengo’s eyes sparkle when she tells me how she inherited her mother’s gift for collecting that led her almost naturally towards the universe of contemporary art. It was an opportunity to live some amazing experiences and to come into contact with curators and museum directors of such calibre as Iwona Blazwick, Julia PeytonJones and Nicholas Serota. In the 1990s she “decided to create the Sandretto Re Rebaudengo Foundation, conceived with a very precise objective: to give to my city and to my fellow citizens a modern and interdisciplinary contemporary art centre, at the same time supporting and helping young artists. A centre capable of not only becoming an exhibition space, but more than anything a meeting point open to all aspects of contemporary culture”.

Collezionare, in questo senso, è un po’ come esplorare, disegnando poco a poco la propria mappa del mondo. Nella mia ricerca non ho mai prestato attenzione ad acquisire solo opere di artisti già affermati, non mi sono mai interessata al grande nome, ma ho sempre guardato l’opera in sé, privilegiando la sua qualità, la sua precisione rispetto al momento in cui è stata prodotta».

Ecco allora materializzarsi nella sua mente un nuovo concetto di collezionismo: «Un’opera d’arte contemporanea deve essere in grado di rappresentare il presente, anticipare il futuro e, nel futuro, raccontare una storia del passato. Per me è sempre

stato importante creare un rapporto con l’artista prima di acquistare una sua opera, capire lo sviluppo del suo lavoro: per questo mi interessa mantenere con ciascuno di loro un rapporto stabile e duraturo, partecipando laddove possibile alla produzione di nuove opere. Proprio in questa prospettiva, a partire già dagli anni ’90, decisi di dare il via alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, nata con un motivo ben preciso: donare alla mia città e ai miei concittadini, al contempo sostenendo e aiutando giovani artisti, un centro d’arte contemporanea moderno e interdisciplinare, in grado di diventare non solo un contenitore di mostre, ma soprattutto un punto di incontro

aperto alle molte sfaccettature della cultura contemporanea».

L’avventura della Fondazione, che prenderà il via dalla sua sede storica di Guarene d’Alba, troverà tuttavia il suo cuore pulsante a Torino, nel quartiere di San Paolo, di un centro espositivo di ben 3.500 metri quadri. Progettato dall’architetto Claudio Silvestrin, il centro si articola in uno spazio espositivo, una project room per video installazioni, un’aula didattica, un bookshop e una caffetteria/ ristorante – Spazio7 – oggi gestita da suo figlio Emilio e diventata un punto di riferimento per il food d’eccellenza del capoluogo subalpino.

In questi spazi, avvolte in un elegante minimalismo, vengono organizzate mostre,

incontri, convegni, attività educative, domeniche al museo per le famiglie e molte altre iniziative finalizzate a far conoscere e apprezzare l’arte contemporanea.

Per la Fondazione tuttavia Torino sta diventando forse troppo angusta. Ecco dunque nascere il progetto, destinato a diventare realtà nel corso del 2019, di aprire al Matadero di Madrid una sede spagnola della Fundacion Sandretto Re Rebaudengo. L’obiettivo è quello di dar vita a una sorta di ponte in grado di dischiudere alla cultura latino-americana le esperienze maturate in 23 anni di lavoro alla sede torinese della Fondazione.

Quello di Madrid sarà così un centro espositivo dedicato alla ricerca e alla produzione di nuove mostre e opere, grazie agli spazi dedicati al Dipartimento educativo, alla mediazione culturale, alla formazione specialistica e alle residenze per artisti e curatori.

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Non ho mai considerato le opere d’arte contemporanea come un oggetto di arredamento o un modo per decorare la mia casa: ho sempre guardato con interesse invece alla dimensione politica e sociale che le attraversa.

Un universo sempre più complesso, quello della Fondazione, cui fa da effervescente sfondo il parallelo universo delle bollicine italiane: quelle dello spumante che a Guarene ne ha accompagnato la nascita; quelle che hanno innaffiato i cinquant’anni di Patrizia nella festa a sorpre-

sa, con relativa mostra, organizzatale da suo marito e dai suoi collaboratori negli spazi stessi del Centro Torinese; quelle ancora dell’inaugurazione, nel 2014, della mostra dei suoi “Gioielli Fantasia” alla Cà d’Oro di Venezia; quelle infine che suo figlio Emilio, nel ristorante Spazio7, propo-

ne alla sua clientela per dar vita a degustazioni ed eventi speciali. «Il vino racconta una storia e credo che saper abbinare il giusto vino a ogni piatto sia fondamentale. Un abbinamento sbagliato può mortificare il piatto più riuscito, mentre il vino giusto riesce ad accompagnare, esal-

tandoli, i sapori di ciascuna portata». Nel vino, come nell’arte, a guidare Patrizia è una straordinaria curiosità.

Capace, in entrambi i mondi, di dischiuderla a nuovi approcci e a nuove esperienze in grado di proiettarla al di là delle effimere mode del momento.

and gallery owner, he took part in the creation of the work dedicated to Pier Paolo Pasolini in the neighborhood where the film Accattone was shot, and then returned, in October 2016, to depict the Pope again intent on playing tic-tac-toe with the symbols of peace. An artist who feels his own creation living in a relationship with the citizen in one soul, with an artistic concept of street-art as a form of denunciation, connivance and union.

di Simona Cangelosi

Maupal: l’artista che mette d’accordo potere spirituale e potere temporale Roma, Borgo Pio. 2018.

C’è un artista che sta riempiendo di disegni lo storico rione, proprio nel cuore della Città Eterna.

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Born in the heart of the Eternal City, Maupal - in the civil registry Mauro Pallotta - is known by all as the artist of SuperPope, the mural born from the idea of depicting the Pope as a symbol of trust towards people who are now disillusioned, lost and looking of hope. “My intention was to depict a simple and human superhero Pope: with his belly, his spectacles, the bag with the words “Valores”, with the scarf of the San Lorenzo football team”. Thanks to Agathe Jaubourg, the curator of exhibitions

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L’autore si chiama Maupal, all’anagrafe Mauro Pallotta, romano doc, conosciuto da tutti come l’artista del SuperPope, il murales che ha già fatto il giro del mondo, divenendo un vero e proprio manifesto di Pace.

In una mattina di metà ottobre del 2016, fece nuovamente scalpore l’immagine apparsa su vicolo del Campanile che raffigurava Papa Francesco sorretto su una scala, intento a giocare al tris della pace, con una guardia svizzera a fare da palo: subito ammonito con cancellazione immediata, Maupal fu poi invitato sia in Campidoglio che in Vaticano, dopo essere stato osannato dalla stampa internazionale.

Nato nel cuore della Città Eterna, definita da sempre la più bella: «Tu non vedrai nessuna cosa al mondo maggior di Roma», diceva Orazio Flacco Quinto.

Quando nasce la sua passione per la street-art?

«Ho respirato Arte da sempre, perché sono cresciuto tra Borgo Pio e il Rione Ponte, a due passi dal Vaticano. Ho studiato al Liceo Artistico e poi all’Accademia di Belle Arti. Vivere con la creatività però non è semplice. Non potevo farmi finanziare dalla famiglia e così mi sono rimboccato le maniche e ho cominciato a lavorare ovunque. Nel locale dove facevo il lavapiatti, esponevo le mie opere e i clienti, quando chiedevano al proprietario chi fosse l’autore, restavano increduli alla risposta: “Vada nel retrobottega, è la stessa persona che sta lavando i piatti dove avete consumato i vostri pasti…”. In quelle prime opere ho raffigurato personalità della mia romanità come Gabriella Ferri, Franco Califano e Aldo Fabrizi. Poi ho realizzato le mappe di Roma con le carte da gioco, arrivando persino a sperimentare la lana d’acciaio per i miei ritratti, ma qualsiasi sforzo facessi non riuscivo a sbarcare il lunario. Quando venne eletto Papa Francesco pensai di raffigurarlo come simbolo di fiducia verso un popolo ormai disilluso, sperduto e in cerca di speranza. E così nasce il mio SuperPope, ovvero il supereroe dei nostri tempi ed è con questo personaggio che è cambiata la mia storia».

E cosa accadde?

«Il finimondo. Mi chiamarono tutte le testate del mondo, persino un’emittente afghana. Il mio intento era quello di raffigurare un Papa supereroe semplice e umano: con la pancia, gli occhiali, la borsa con su scritto “Valores”, con la sciarpa del San Lorenzo, la squadra del cuore argentina per cui tifa. Comunque il murales fu subito cancellato, ma tutto il mondo dei media parlò di me. Tutti i ristoratori e gli abitanti di Borgo Pio si ribellarono alla rimozione, e così l’A.M.A. fu costretta a venire all’alba per eliminarlo».

il tappo di sughero

Come proseguì la sua carriera?

«Per un po’ venni identificato come l’artista che aveva realizzato il vero ritratto di questo Papa, ma la persona che devo ringraziare è Agathe Jaubourg, curatrice di mostre e gallerista, che mi propose di partecipare alla realizzazione di una opera dedicata a Pier Paolo Pasolini, in via Fanfulla da Lodi al Pigneto, il quartiere dove fu girato il film Accattone.

Dopo qualche mese, a ottobre 2016, decisi di rappresentare nuovamente il Papa, mentre era in corso la guerra al confine russo-ucraino, pensando che l’unica persona in grado di lanciare un messaggio di pace fosse proprio lui, pronto a indicare la giusta direzione a chi l’aveva persa. Ho pensato: cosa farebbe il Papa se fosse me? Decisi di far diventare il Papa uno street-artist, con delle difficoltà, mentre si regge su una scala volutamente al contrario, intento a giocare a tic tac toe (tris) con i simboli della pace, indicando la mossa vincente. Dopo poche ore il murales viene cancellato, ma, stranamente, vengo chiamato dal sindaco Virginia Raggi in Campidoglio.

Non era la prima volta, la cosa accadde anche durante l’amministrazione Marino. Entrambi mi dissero la stessa cosa: “Il disegno è bello ma bisogna applicare la legge”. Solo che un artista spagnolo mi ha copiato le opere, ugualmente abusive, e nessuno gli ha detto nulla».

La sua ultima opera?

«Un gabbiano, che solitamente viene rappresentato come simbolo di libertà, ma per la mia città di Roma ha assunto un altro significato: il volatile tiene in becco un curriculum vitae per essere assunto in A.M.A. S.p.A. – Azienda Municipale Ambiente Roma – ormai arrivata al collasso. In città c’è spazzatura ovunque e i quartieri sono diventati vere e proprie terre dei fuochi …».

Che cosa unisce il cittadino all’artista?

«Per me la relazione tra cittadino e artista convive in una sola anima, con la stessa franchezza meditativa mentre si realizza una concezione artistica dello street-art che diventa forma di denuncia, di convivenza e unione. Mi piace stare in mezzo alla gente e fare volontariato. Sono stato a Mombasa, in Kenya, a decorare una scuola per i bambini, e poi al carcere minorile di Reggio Calabria a insegnare pittura a quei ragazzi. Sono tutte esperienze che ti segnano e ti cambiano dentro. Ne ho viste di cose e ho degli aneddoti simpatici da raccontare, accaduti neanche tanto lontano, anche qui a Borgo Pio, a pochi passi dal Vaticano, dove si vocifera che Papa Benedetto XVI venisse a mangiare spesso in una trattoria insieme alla sorella che soffriva di narcolessia, cioè si addormentava sul piatto tra il primo e il secondo, tra l’imbarazzo dei presenti…».

di Riccardo Malgheri

La modernità della tradizione passa per il tappo di sughero Ci sono tappi e tappi.

Sono spesso croce e delizia degli appassionati di vino in ambasce all’apertura di ogni grande bottiglia, nell’attesa di sapere se il nettare tanto agognato, e pagato, può essere goduto, oppure se la sperata estasi dei profumi e del gusto sia rovinata da qualche difetto imprevedibile. Ma le cose stanno cambiando.

A chi volesse prendere il suo esempio cosa consiglierebbe?

«Di mettersi in gioco, anche illegalmente. La street-art si è evoluta, anche se le istituzioni hanno cercato di addomesticarla. Oggi siamo davanti a un bivio tra il legale e l’illegale, ma entrambi hanno un denominatore comune: la libertà. E io mi considero una persona libera».

Never before has there been such a wide variety of bottle closures available to wineries as in recent years. A recent study by Amorim, world leader in the production of cork stoppers, investigated how cork is experiencing a revolution today, in terms of quality and reliability, with a general decrease in the percentage of defective pieces. In fact, cork not only preserves, but also contributes to the evolution of wine. It gradually releases the oxygen contained in the interstices of the raw material of the cork and generates polyphenols which react with the anthocyanins of the wine, creating a more complex and longer-lasting product.

Thus, cork has an air of modernity yet still manages to maintain its links with tradition.

Foto gentilmente concesse da Amorim

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Poi a marzo del 2014 l’incontro con Papa Francesco...

«Sì, fu una grande emozione, prima di entrare in udienza tutte le guardie svizzere mi riconoscevano e volevano farsi dei selfie con me. Il Papa mi guardò, mi sorrise e mi diede uno scappellotto. Oggi però collaboro con lui: disegno il SuperPope su t-shirt e gli incassi vanno in beneficenza a enti bisognosi».

Una recente ricerca della portoghese Amorim, leader mondiale nella produzione di tappi di sughero, approfondisce questi temi, portando a risultati certo sorprendenti. Intanto, che cosa si richiede ad un sistema di chiusura? Una perfetta azione sigillante dai liquidi e dai gas esterni; la capacità di preservare la qualità sensoriale del vino, consentendone l’evoluzione in una forma che ne rispetti le peculiarità; la “neutralità sensoriale”, ovvero che non vi sia nessuna aggiunta all’apparato olfattivo o alla consistenza tattile delle qualità gustative del prodotto in questione.

Ciò può essere implementato con adeguata continuità – il che vuol dire praticamente sempre, fino a percentuali di

difetti statisticamente irrilevanti – attraverso l’inesausta ricerca della qualità e l’innovazione tecnologica.

Si ammetta, appunto, la presenza di un tappo di qualità: materia prima scelta, ovvero corteccia tagliata ad adeguata distanza dal suolo per ridurre – già di un buon 40% – il pericolo di contaminazioni di muffe da alberi selezionati senza alterazioni apparenti; plance di sughero sanitizzate attraverso distillazione in vapore acqueo; controlli a campione della presenza degli agenti infestanti, sia in termini di analisi chimica sia sensoriale; crescente implementazione di una metodologia di controllo esclusiva di Amorim,

la tecnologia gas-cromatografica Ndtech®, che consiste nell’analisi della qualità individuale, pezzo per pezzo di ogni singolo tappo.

Si dia tutto questo, e i risultati delle analisi del tappo di sughero sono di tutto rilievo.

Gli esperimenti di stoccaggio in atmosfera contenente sostanze contaminanti, rilevano che sia dopo un mese, 12 mesi o anche dopo 30 mesi, la presenza del pericoloso TCA non è mai misurabile, a differenza di quanto avviene, peraltro, anche con tappo a vite.

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Mai come negli ultimi anni è a disposizione delle aziende vitivinicole una vasta varietà di possibili chiusure per le bottiglie. Ogni lobby di produttori di tappi “tira l’acqua al suo mulino”, magnificando le qualità del rispettivo sistema. Il buon vecchio sughero però, pur con tutti i patemi che a volte procura agli appassionati, sta vivendo una rivoluzione, qualitativa e di affidabilità, nel senso di generale diminuzione delle percentuali dei pezzi fallati: sia a causa del famigerato TCA (tricloroanisolo), sia di tutte le altre molecole che possono infestare le plance di materia prima utilizzate per la produzione e non adeguatamente sanitizzate.

Non è in discussione nemmeno l’efficacia del sughero anche per quanto attiene l’evoluzione del vino. Lo studio portoghese cita una ricerca dell’Australian Wine Research Institute secondo la quale, a 36 mesi dell’imbottigliamento, campioni di Riesling e Chardonnay con diverse chiusure hanno evidenziato per il tappo in sughero fenomeni di ossidazione superiori al tappo a vite solo in misura marginale; in compenso il sughero si è dimostrato nettamente migliore per altre alterazioni, mantenendo immutate le caratteristiche olfattive delle referenze in studio e consentendo di apprezzarne la superiore complessità dovuta all’invecchiamento.

I risultati della ricerca di TCA e altre molecole infestanti nei tappi, al termine del ciclo produttivo, mostrano inoltre la sparizione del difetto, determinando una sua rilevazione in percentuali statisticamente insignificanti: anche laddove cioè queste sostanze sono presenti, ciò avviene comunque in concentrazioni ben al di sotto della soglia di percezione.

Da ultimo il sughero non solo preserva, bensì anche contribuisce all’evoluzione del vino. E come dimostrano recenti studi, lo fa non tanto lasciandolo trafilare attraverso il collo della bottiglia, ma piuttosto rilasciando gradualmente l’ossigeno contenuto negli interstizi della materia prima del tappo stesso. Il tappo inoltre apporta polifenoli, le cui reazioni con gli antociani contenuti nel vino contribuiscono a fissare questi composti, a stabilizzare il colore e i tannini, in una parola a dar vita a un prodotto potenzialmente più longevo e compiuto.

Il sughero interpreta la modernità con tutto il peso della propria tradizione. I segni della grande cura nella produzione già si notano. Si può auspicare un futuro in cui molte grandi bottiglie saranno maggiormente godute grazie a questo tappo, che nel cuore di chi ama il vino non passerà mai di moda.

Gli appassionati ne saranno ripagati con colori brillanti, profumi intensi e variegati, sensazioni gustative che sfidano il passare del tempo.

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I.P.

QUISTELLO cantina di

The Cantina Sociale di Quistello is located in the Lambrusco Mantovano production area of the Mantuan Oltrepò. Established in 1928, it now has a base of 300 contributors, focusing on the development of the Grappello Ruberti, an indigenous grape, widespread in the area, but only recognised as a variety in 2013. The fact that the Grappello Ruperti is essentially different from the other grape varieties grown in the Oltrepò is undeniably significant. At Cantina Sociale di Quistello they have not been sitting around twiddling their thumbs, and after 6 years of experimentation they have released Armonia 1.6, a Brut Classic method Sparkling Wine made with Grappello and Chardonnay grapes.

Initially taking a bet with only a few thousand bottles, now in their third year production will exceed 10,000.

Foto gentilmente concesse da Cantina Sociale di Quistello

Viaggio lungo strade che fiancheggiano canali e casolari.

Tutto sembra uguale e non mi accorgo di aver superato i confini di comuni e regioni. La terra ha il solito profumo.

Mi appare uguale persino lo sguardo di questa gente che percepisco arcigna e fiera; è gente che sa di “buono”, che non si arrende mai, neanche davanti al terremoto, infischiandosene di dover combatte le nebbie, le zanzare e il caldo estivo.

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152 È gente speciale quella di Quistello, dedita a recitar poesie, a coltivar la terra e a fare il vino, che sorride ed è pronta a far festa e a ritrovarsi fra amici. Attentamente osserva lo scorrere delle acque del Serchia, di cui diffida preferendo l’effervescenza che gli regala il Lambrusco che qui si produce; vino che sa di memoria, capace di ravvivare il piacere del bere con profumi di frutti mordaci e fiori di viola.

Terre di antica storia, segnata dagli Etruschi e dai Romani tanto da presentare una rilevante area archeologica, fino a giungere a quel

“Custello” che comparve nel celebre atto di donazione – risalente al 1007 – con cui Tedaldo di Canossa dona il territorio, il castello e la chiesa al celebre Monastero Polesiniano di San Benedetto.

Sono nella zona di produzione del Lambrusco Mantovano DOC, quella dell’Oltrepò mantovano, dove anche la coltivazione della vite ha origini antiche, tanto che già nella sua quinta Bucolica il poeta Virgilio, natio di queste terre, descrive l’esistenza della “labrusca”. Una viticoltura che incominciò ad avere rilevanza economica grazie ai monaci che stabilivano agli affittuari un imponibile

vinicolo, come attestato da una delle scene del Ciclo dei Mesi scolpito dalla Scuola di Wiligelmo, a cavallo tra l’XI e il XII secolo, sugli stipiti interni della Porta della Pescheria del Duomo di Modena: quella dedicata a Ottobre che travasa il mosto.

Parlare di Lambruschi in queste terre sembra facile, ma non lo è affatto. Basti pensare come dal punto di vista varietale si possa contare su Lambruschi prodotti con uve di Grappello Ruberti, Lambrusco Maestri, Lambrusco Marani e Lambrusco Salamino, usati da soli o congiuntamente, ai quali si possono sommare le uve

di Lambrusco di Sorbara, Lambrusco Grasparossa, Ancellotta e Fortana. L’unicità però della piccola Cantina Sociale di Quistello, costituita nel 1928 e ora composta da una base associativa di 300 soci conferitori, è quella di aver puntato il suo programma di sviluppo sul Grappello Ruberti: un’uva autoctona diffusa in zona, ma riconosciuta come varietale solo nel 2013 e da allora in poi definitivamente pensata come diversa dal Lambrusco Viadanese al quale fino a quel momento veniva assimilata.

L’obiettivo raggiunto, dopo tre anni di verifica effettuata su un campo sperimentale, è davvero importante.

Il convergere di elementi capaci di far propendere per una caratterizzazione del vitigno, raccolti sulla base di prove di micro vinificazione e di degustazione, hanno infine appurato che il Grappello Ruperti è effettivamente diverso dalle altre uve coltivate nell’Oltrepò.

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Questo risultato, indiscutibilmente significativo per la vitivinicoltura mantovana, potrebbe essere sfruttato anche da altre cantine, oltre a quella di Quistello. Dove non sono stati con le mani in mano e hanno già fatto uscire, dopo sei anni di sperimentazione, Armonia 1.6: uno Spumante Metodo Classico Brut realizzato proprio con uve Grappello e Chardonnay. Una scommessa nata per caso e con poche migliaia di bottiglie, che tuttavia, già dal loro terzo anno, supereranno le 10.000.

di Debora Lupi Milan. Fashion Week. And according to the usual timetable, the big names bring their shows to the stage. An audience of journalists, influencers, buyers, photographers and celebrities, organised in somewhat sizeable rows, who follow with bored attention the hum-drum succession of outfits on the catwalks. To keep them interested, various tactics are employed such as exceptional locations (like the Emporio Armani airport), surprise returns of top models to the catwalk (as in Versace) and challenges to stereotypes (as in Dolce and Gabbana). It almost seems like no one cares about the clothes anymore. Yet at the end of every Fashion Week the list of trends returns without fail. And in a few short months, no one will be able to do without them. The magazines, the shops and the streets will be brimming with copies.

Moda donna: Milano. Settimana della moda. Seguendo il classico calendario, le griffe portano in scena il loro show. Una platea di giornalisti, influencer, buyer, fotografi e celebrities, ben organizzata in file più o meno rilevanti, segue con un’attenzione annoiata il cantilenante succedersi di outfit sulle passerelle. A risvegliare i loro interessi sono location d’eccezione (ad esempio l’aeroporto per Emporio Armani), inaspettati ritorni di top model sul catwalk (come in Versace) o sfide agli stereotipi (come nelle sfilate di Dolce & Gabbana).

Un’immagine della sfilata di Fendi, la modella è Gigi Hadid foto: Courtesy by Fendi

Sembra quasi che nessuno badi più agli abiti. Eppure, immancabile, al termine di ogni settimana della moda, torna la lista delle tendenze di cui, qualche mese dopo, nessuno sembrerà più esser in grado di fare a meno. E i giornali, i negozi, le strade si affolleranno dei medesimi cloni.

Da sempre le tendenze interferiscono con le abitudini vestiarie delle persone. Si indossano indumenti tanto lontani dal proprio stile solo perché cool. I trend visti in passerella, insomma, modellano stagione dopo stagione, il look della nostra società. Allora la domanda viene spontanea: chi crea le tendenze? La risposta? Beffarda, ironica. È la società stessa a plasmare la moda. La moda è anzi la sua più evidente espressione estetica. Gli stilisti danno vita all’idea che hanno del mondo. Ma è un mondo che essi condividono. Dunque, una volta che gli accecanti fari sulle passerelle si spengono, mettendo a confronto le varie collezioni, ecco l’emergere di tratti in comune. Diventa più chiaro capire perché le quattro città della moda abbiano in questi anni costruito un’immagine iconica della moda che propongono.

Ognuna è frutto di una società diversa. La moda a Parigi è intellettuale e chic. Quella a Londra irriverente e innovativa. New York presenta una moda più underground, giovanile e commerciale. E a Milano? Gli esperti lo sanno: nella città meneghina ci si aspetta glamour e sensualità.

Max Mara foto: Courtesy by Max Mara

Un foulard in seta di Bulgari foto: Courtesy by Bulgari

Se già negli anni passati si è assistito a un allungarsi degli orli di gonne e abiti, all’utilizzo di indumenti comodi e di taglie extralarge e all’accorciarsi dei tacchi, nella scorsa edizione della MFW persino sulla passerella di Versace si sono viste scarpe da ginnastica. E chissà se la vendita del brand al gruppo americano di Michael Kors non inciderà su questo ulteriormente. In effetti una firma che ha avuto grande successo negli ultimi anni è stata quella del grande cambiamento, quella di Gucci (che, a settembre, ha presentato la sua collezione a Parigi. Indicativo?). Il look nerd-vintage vagamente hipster di Alessandro Michele ha conquistato il mondo, inclusi Instagram e lo street-style. Un fenomeno di dimensioni mastodontiche che rivela quanto l’immagine di una donna in minigonna e tacchi a spillo sia assolutamente poco attuale.

Come può un abbigliamento tanto scomodo vestire una donna attiva, ri-

belle e intelligente? La donna non può essere giudicata soltanto in base al suo essere attraente, sensuale. Questo non significa che la sensualità sia stata bandita dalle passerelle in vista di un inaspettato ritorno ai secoli bui del passato. La moda, peraltro, non è rimasta estranea ai cambiamenti sociali.

Miuccia Prada, tra le maggiori esponenti di una moda introspettiva e impegnata, ha conosciuto una crescita dei profitti.

Un caso? Forse. O forse no. La sua collezione, in costante contraddizione tra voglia di libertà e conservativismo, è stata molto apprezzata. Anche MaxMara ha scelto una moda più impegnata: alcune delle modelle hanno indossato un velo sul capo durante la sua sfilata, riuscendo nell’impresa di non scandalizzare stampa e pubblico. Perché in fondo non c’è nulla di anormale in questo. E ancora, una maison come Roberto Cavalli, conosciuto per le sue passerelle super sexy, ha invece quasi abbassato il tono. Nessuno sembra rimasto immune a questa metamorfosi. Indicativa anche la presenza del brand sportivo Fila all’interno del calendario della MFW. Lo sportwear ha mostrato una grande influenza sulle ultime tendenze, conquistando una posizione importante negli show del ready-to-wear.

Da uno sguardo più generale, accanto a evergreen come pattern floreali, colori vivaci e total denim, tra le tendenze per la prossima estate ve ne sono alcune interessanti. Assolutamente in voga saranno le uniformi minimal, velatamente maschili, dalle linee morbide e oversize. Stesso successo avrà il boiler suit, cugino

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Eventi recenti, tuttavia, hanno influito considerevolmente sulle ultime fashion week, specie su quella milanese. A seguito del caso Harvey Weinstein e del movimento #MeToo, è avvenuta una maggiore sensibilizzazione sul problema di abusi e aggressioni sessuali nei confronti delle donne. Non che prima non ne fossimo a conoscenza, ma denunce tanto rumorose da parte di donne del mondo dello spettacolo di fama internazionale non potevano che avere un’enorme risonanza a livello internazionale. Il tutto ha portato a un’idea diversa della bellezza femminile. E dunque, la Milano sexy del passato si è vista protagonista di un visibile cambio di look.

Fendi foto: Courtesy by Fendi

Bella Hadid sfila per Versace foto: Courtesy by Versace

Un’immagine della sfilata di Versace

della jampsuit, ma con caratteristiche più vicine a una tuta da lavoro (visto da Lorenzo Serafini, MaxMara, Emporio Armani, Jil Sander, Byblos). Altro trend parte di questo rinnovato stile casual sono gli utility pants, ampi sulle gambe e più stretti sulla caviglia e con un buon numero di tasche, visti ad esempio da Elisabetta Franchi, Alberta Ferretti, DSquared2 e da Fendi. In ascesa negli ultimi anni, si riconferma il trend del layering, stavolta però più vivace, fatto di accostamenti di colori e fantasie diverse e contrastanti.

Il glam milanese, tuttavia, non scompare del tutto: accanto a uniformi, boiler suit, utility pants e sportswear sono gli accessori, quindi borse, cinture, gioielli e foulard, a conservare quella femminilità sensuale di cui pare la moda non sia più troppo sicura. Capofila di questa controtendenza è certamente Bulgari, che presenta una collezione glamour, raffinata e ipnotica, con il serpente sempre protagonista. La fantasia rettile, che come ogni animalier è sinonimo di sensualità, è piuttosto diffusa tra hand bags e cinture, non solo in Bulgari. Una sensualità che tradisce un generale cambiamento? Non proprio. Sembra invece gridare: possedere e sfoggiare accessori non ci rende accessori. E ciò rimane coerente allo spirito delle altre tendenze.

Un’immagine della sfilata di Elisabetta Franchi foto: Courtesy by Elisabetta Franchi

Il bracciale della linea Serpenti di Bulgari foto: Courtesy by Bulgari

Le borse in pitone della linea Camera Bag di BADURA by Aleksandra Badura www.badura.it foto: Courtesy by Badura

Foto gentilmente concesse da Sheraton Parco de’ Medici Rome Hotel

The Sheraton Parco de’ Medici Rome Hotel founded in 1990, was the first Golf Club park to open in Italy.

Once a papal hunting reserve, the 70 hectares of grounds were transformed by the current president Gaetano Rebecchini who built a hotel inside the golf course, thus laying the foundations for the creation of a piece of paradise just a stone’s throw from the centre of Rome. In this magical green parkland populated with wildlife, of which the ibis and storks are the most striking examples, every effort has been made to create an exclusive space dedicated to the pleasure and psychophysical wellbeing of the guests.

What’s more, with its proximity to the airport and the construction of two ultra-modern hotels equipped with 80 meeting rooms, it is destined to become the nerve centre of the business world in Rome and internationally.

di Lorena Bernardini

La Club House del Golf è un luogo magico, molto accogliente, tutto rivestito da legno con un grande camino che gli conferisce un particolare fascino e che immagino d’inverno con il fuoco acceso e il cielo nitido per il freddo. È qui che vengo accolta, in una calda serata di fine settembre, per una cena stellata organizzata dallo Sheraton Parco de’ Medici Rome Hotel.

Tutto intorno, completamente circondati da una natura affascinante e con all’orizzonte il crepuscolo dalle tinte rosee, i campi da golf sfoggiano tutto il loro splendore nel riflesso del laghetto illuminato.

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Parco de’ Medici Rome Hotel

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ono emozionata, nonostante sia a pochi chilometri da casa, dal trovarmi nel primo Golf Club a essere stato aperto in Italia nel 1990. Vedere questi ampi spazi da lontano però non mi basta. Decido, prima di sedermi a tavola, di fare due passi sui campi da golf, curati con una vegetazione tanto rigogliosa da formare una riserva naturale nella quale fagiani e uccelli migratori rendono l’atmosfera ancora più accattivante.

Al tavolo con me c’è Paolo Bellè, il general manager, e tutto il team che ogni giorno lavora con lui per creare e mantenere l’altissimo livello del Club. La nostra cena inizia sorseggiando un bicchiere di vino bianco che si sposa perfettamente con la selezione di crudi proposta dallo Chef che, quella sera, era l’ospite d’onore. Lo Sheraton Golf Club, in ogni cena stellata, ha l’obiettivo di far vivere un’esperienza unica ai propri ospiti, messi in condizione di degustare le eccellenze culinarie che hanno reso famosi i diversi Chef stellati e i vini consigliati dai loro sommelier.

È in questa piacevole atmosfera che lascio vagare la mia mente cercando di immaginare il passato di questi spazi che, da riserva di caccia dei Papi, agli inizi del ‘500 vennero prima trasformati da Papa Leone X de’ Medici in luogo destinato a brevi soggiorni di villeggiatura di artisti e intellettuali e, successivamente, utilizzati come aeroporto per idrovolanti, in seguito dismesso. Fu nel 1990 che Gaetano Rebecchini, presidente del Golf Club, ebbe l’intuizione di farne l’attuale campo da golf, inducendo il pubblico romano ad avvicinarsi a questo sport e creando in prossimità della capitale un ambiente esclusivo e internazionale che consentisse di praticarlo.

Risanati, grazie anche all’aiuto dell’allora presidente del WWF Folco Quilici, i 70 ettari di terreno ormai ridotti a discarica a cielo aperto, il presidente Rebecchini riuscì a far costruire all’interno del campo da golf un albergo, ponendo così le basi per la creazione di un angolo di paradiso a due passi dal centro di Roma. Un angolo

di paradiso che verrà successivamente preservato, visto che ancora oggi lo Sheraton Golf Parco de’ Medici non solo ama definirsi GREEN a 360°, ma anche irriga le sue aree, estranee a ogni pesticida, grazie all’energia tratta da quattro istallazioni fotovoltaiche.

In questa magica area verde, popolata di animali selvatici di cui ibis e cicogne sono solo i più eclatanti esempi, ogni cosa è pensata per dare vita a uno spazio esclusivo finalizzato al piacere e al benessere psicofisico di chi li vive come ospite. Uno spazio peraltro destinato, grazie anche alla vicinanza con l’aeroporto e alla costruzione di due modernissimi alberghi dotati di 80 sale riunioni, a trasformarsi nel polo nevralgico del mondo del business romano e internazionale.

Mentre la nostra cena procede piacevolmente nel suggestivo spazio della terrazza che si affaccia sui campi da golf, Sandro Mannarino e Tiziano Sfrezzichini, rispettivamente director sales e sales representative dell’albergo, mi illustrano gli eventi che hanno reso eccellente questo luogo: l’organizzazione di gare elitarie di cui sono stati illustri sponsor, per citare solo alcuni nomi, Ferrari, Bmw, Aston Martin, Mercedes, Bulgari, Fendi; e la partecipazione alle

stesse di giocatori di fama mondiale che hanno contribuito a far diventare la città di Roma una delle tappe fondamentali del circuito golfistico Internazionale.

L’entusiasmo dell’intero tavolo si accende quando Paolo Bellè annuncia la Ryders Cup, che si svolgerà a Roma nel 2022 e che vedrà lo Sheraton Golf Club ospitare la tappa romana del torneo. La competizione rappresenta infatti uno dei più prestigiosi tornei di golf al mondo, disputata dal 1927 ogni due anni come sfida tra una selezione di giocatori americani e una di giocatori europei.

Una competizione giocata quest’anno a Parigi sui campi del Le Golf National a Saint-Quentin-en-Yveline, dove il giocatore italiano Francesco Molinari è risultato decisivo nel portare la vittoria alla squadra europea. Una tappa, quella romana della Ryders Cup 2022, che rappresenterà per lo Sheraton Parco de’ Medici Rome Hotel un’occasione unica per coronare, ospitando l’evento, gli sforzi messi in campo nei suoi trent’anni di attività.

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di Lea Gasparoli

Langosteria Holding group, and its CEO and founder, Enrico Buonocore «are an expression of that determination to constantly seek excellence and offer a unique and innovative experience».

These are the words of Pietro Ruffini, executive member of the Board of Directors of Archive S.r.l., after the announcement of the company’s acquisition of 40% stake in Langosteria Holding, a Holding which has reached over 18 million euro in total tur-

nover. 11 years of history, 4 restaurants, 1 seasonal fish bar at the Super G mountain lodge (Langosteria Fish Bar Courmayeur), and top notch service in over 500 sittings each day all chronicle the biography of a Milan-born brand that is destined to grow beyond Italian borders.

and sumptuous. «The goodness we find in the dish is already in the raw materials; the cook helps the ingredients to release their quintessence». His concept has its roots in his origins, in the simple home-cooked flavours; in the cleanliness of taste, cooking methods and combinations.

It is a cuisine which has always been characterized by quality and consistency; an emotional, recognisable and voluptuous cuisine – at the same time both minimal

This is mingled with a modern awareness acquired through years of experience and travel culture that have opened up new taste horizons.

Ha creato uno stile. Un metodo. È divenuto un punto di riferimento. Ha sancito l’inizio di una nuova era della ristorazione. Ha portato a Milano il cambiamento. È stato uno dei promotori dell’accelerazione verso l’internazionalizzazione della città meneghina. È un imprenditore visionario e fortemente innovativo. Enrico Buonocore e il gruppo Langosteria Holding, di cui è fondatore e CEO sono espressione di quella determinazione nel ricercare costantemente l’eccellenza e nell’offrire un’esperienza unica e innovativa.

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fotografia di © Claudia Calegari

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ueste le parole di Pietro Ruffini, membro esecutivo del CdA di Archive S.r.l., dopo l’annuncio dell’acquisizione da parte della società di una partecipazione del 40% del capitale di Langosteria Holding. Con questa operazione la società della famiglia Ruffini entra come socio azionista di minoranza nella Holding a cui fanno capo i ristoranti Milanesi Langosteria, Langosteria Bistrot, Langosteria Cafè Milano e lo stagionale Langosteria Paraggi. «Abbiamo trovato in Archive un partner ideale per comunione di intenti, valori e visione imprenditoriale – commenta Erico Buonocore –. Questo nuovo assetto societario è strategico per lo sviluppo internazionale del brand, con un programma graduale di aperture in selezionate città estere, partendo dall’Europa, perché abbiamo bisogno che i primi progetti siano vicini così da poter supervisionare il tutto e stare accanto ai nostri collaboratori, per poi arrivare al mercato americano, a quello asiatico e probabilmente anche a quello arabo».

Aragosta alla plancia fotografia di © Brambilla - Serrani

Un dettaglio di Langosteria Cafè Milano fotografia di © Brambilla - Serrani

Langosteria via Savona fotografia: Courtesy Langosteria

Portare all’estero la qualità del Made in Italy e dimostrare la capacità manageriale e organizzativa degli italiani con un progetto di ristorazione fine dining attraverso un concept replicabile e di successo sono gli obiettivi del gruppo. Fare avanguardia significa rimanere fedeli a se stessi. È questa la filosofia dell’ambizioso imprenditore visionario che ha creato una Holding che ha toccato oltre i 18 milioni di euro di fatturato complessivo. 11 anni di storia, 4 ristoranti, 1 Superbanco del pesce stagionale presso il mountain lodge Super G (Langosteria Fish Bar Courmayeur), oltre 500 coperti di altissimo livello al giorno e 10 ristrutturazioni raccontano la biografia di un brand nato a Milano e destinato a crescere oltre confine. «Abbiamo ristrutturato totalmente Langosteria di via Savona, in cui, nelle tre vetrine a fianco nascerà un nuovo concetto di ospitalità molto importante». Anche il Bistrot è stato completamente rinnovato e ha riaperto i battenti lo scorso mese con una nuova veste, nuovi arredi, nuovi impianti, nuove luci, spazi molto ben organizzati e un bancone del bar all’ingresso che dà al locale un’immagine contemporanea e internazionale.

«Mancava il bar – spiega Enrico – mancava un concetto di accoglienza più corretto, adeguato ai canoni contemporanei. Io penso che i ristoranti devono mantenere una propria identità, di cui inevitabilmente il percorso e la storia fanno parte, ma è molto importante avere una visione contemporanea, moderna, attualizzarsi e adeguarsi ai nuovi trend, all’offerta del mercato e alle esigenze del consumatore che sono in continua evoluzione». Al Bistrot è stata stravolta anche la cucina, già tecnologicamente all’avanguardia. «Oggi è una Ferrari – dice orgoglioso l’imprenditore – come quelle della Langosteria e del Cafè. Quando si è abituati a degli standard molto alti è impossibile non adeguare tutto il sistema.

Credo sia fondamentale avere la tecnologia migliore disponibile sul mercato, perché quando dai alle persone la possibilità di lavorare bene, evitando gli errori tecnici, le persone poi hanno solamente la possibilità di dar da mangiare meglio».

La sala centrale di Langosteria Cafè Milano fotografia di © Brambilla - Serrani

Una filosofia molto chiara quella dell’imprenditore: al primo posto c’è il cliente. Quindi al primo posto c’è la qualità della materia prima. E lui punta all’eccellenza per offrire ai suoi ospiti il cibo migliore in circolazione. «Stiamo facendo un grande lavoro anche sulla tracciabilità, un tema oggi molto importante. Il cliente deve essere informato in maniera corretta e reale sul prodotto che arriva a tavola che deve essere garantito e certificato». La qualità è stata sempre il punto cardine della sua cucina. Una cucina costante. Una cucina emozionale, riconoscibile, voluttuosa. Minimale e sontuosa al tempo stesso. «Il buono che ritroviamo nel piatto è già nelle materie prime, il cuoco aiuta l’ingrediente a sprigionare la sua quintessenza».

La sua idea affonda le sue radici nelle sue origini, nei sapori semplici di casa, nella pulizia del gusto, dei metodi di cottura e degli accostamenti, ma con una consapevolezza moderna maturata con l’esperienza degli anni e con la cultura dei viaggi che lo hanno portato ad aprirsi anche a nuovi orizzonti di sapori. La qualità e l’organizzazione, il metodo, sono al centro di un’azienda che fa della managerialità delle persone che la animano un concetto replicabile. Enrico lo ha dimostrato con i fatti, con il progetto Paraggi, che quest’anno, al di sopra di ogni aspettativa più rosea, ha sfondato abbondantemente i 2 milioni di euro di fatturato. È molto importante per l’imprenditore gratificare le persone che lavorano per il gruppo, investire su di esse e renderle orgogliose di far parte di un sistema. «L’orgoglio condiviso crea subito la squadra. Nei locali ci vuole energia. Entusiasmo, ritmo, passione, professionalità. Tenere il team interessato, attivo, focalizzato, stimolato, è fondamentale. Per questo stiamo anche facendo un grande lavoro di costruzione di managerialità. Se distribuisci a qualcuno le tue ricchezze ti impoverisci. Se invece condividi il tuo sapere questo si moltiplica».

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Enrico Buonocore in Langosteria Cafè Milano fotografia di © Stefania Sainaghi

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fra passato e futuro nella ricerca della bellezza

Foto di Laura Francesconi

I.P.

For years the La Recherche company has had great success advancing the concept of innovative yet timeless furniture, promoting only “beauty� as an objective element of lifestyle. Its new showroom located in Florence presents a harmonious space characterised by fascinating objects from numerous businesses, designers, craftsmen and artists whose contributions have made it all possible. Each of these objects has its own story to tell and without doubt, the lucky buyer will have the chance to add his own story to the previous one.

Foto di Laura Francesconi

Foto di Laura Francesconi

Creiamo sogniamo produciamo ricerchiamo e selezioniamo con un idea guida la bellezza

Foto di Laura Francesconi

Aspettavo questo momento da un po’ di tempo.

L’amico Giovanni, avvocato e interior designer per passione, mi aveva anticipato alcune sue idee su come sarebbe stato questo nuovo punto vendita La Recherche, brand che si propone di ottenere consensi sulla spinta di concetti di un d’arredamento innovativo, ma fuori dal tempo e capace di promuovere solo il “bello” come elemento oggettivo di uno stile di vita.

Non volevo perdermi l’appuntamento per nessuna ragione al mondo, essendo stato coinvolto dalle lunghe chiacchierate fatte con Giovanni su quale fosse l’idea guida del suo stile, basato su una tradizione familiare orientata alla maniacale ricerca delle materie prime, della trasformazione delle stesse tramite le mani esperte di artigiani, il tutto proiettato al minuzioso studio dei particolari, non tralasciando mai la cultura d’arredo che pulsa nella sua isola: la Sardegna.

Ero curioso di vedere come avesse collocato, nelle stanze del suo nuovo showroom, gli oggetti, gli accessori e i tessuti d’arredo che rendono lo stile La Recherche unico. Pertanto, prima che il tintinnio dei bicchieri, alzati per il brindisi inaugurale, rendesse meno chiaro questo mio scopo, ho fatto di tutto per arrivare con largo anticipo.

Entrando resto affascinato dall’insieme, ovunque vedo sobrietà ed eleganza.

Mani esperte toccano la tastiera in avorio di un pianoforte Bösendorfer, a coda lunga, che occupa

lo spazio centrale del negozio, mentre gli oggetti disposti come in un atelier di moda infondono un senso di equilibrio. Avverto armonia intorno a me. È la parola che riempie l’aria con la musica, con l’oggettivazione platonica delle idee suscitate dalla rappresentazione degli oggetti qui esposti, con le opere d’arte appese alle pareti, i mobili che riempiono gli spazi, i teli e le lenzuola tessute da mani esperte che odorano di pulito; oggetti affascinanti, di cui faccio conoscenza aprendomi al pensiero di come e quante aziende, artigiani, designer e creativi abbiano contribuito a rendere possibile ciò che sto vedendo. Ognuno di questi oggetti ha una storia da raccontare e sono sicuro che chiunque li acquisterà avrà l’opportunità di aggiungere la sua a quella precedente. Ognuno di questi complementi, lampade, lumi o mobili oggettivano la pluralità delle idee di chi li ha costruiti e resi fruibili; forme che Giovani sa descrivere con dovizia di particolari tanto da rendermele tridimensionali all’animo.

La musica oltrepassa i miei pensieri e sembra ignorarli, andando oltre a ciò che la circonda, mentre io ascoltandola l’accosto a questo habitat lasciandomi trasportare da quelle note, sognando come, ciò che vedo, arricchirebbe di stile la mia casa.

La musica è l’essenza che accomuna le arti qui presenti ed è il perfetto connubio con l’immagine che nello shoowroom La Recherche vuole trasmettere ai suoi clienti (ospiti).

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Andrea Zanfi

“My passion would not have been enough to make me produce it on my own. It took a special line up of the stars to make me decide and even if this endeavour was subsequently interrupted, together with

the oenologist Riccardo Cotarella, I had already decided to move ahead on my own. And so “Futura 14” came to be – my winery and that of my children. From the start we concentrated on modern wines that were pleasing and engaging, enhancing one of the most important wine varieties of the region, the Primitivo, and the Negroamaro, in addition to a great and exciting Nero di Troia. It’s a project that requires considerable investment but nonetheless is giving us great satisfaction, so much so that thanks to the wine, and despite my age, I feel like a boy”.

di Andrea Zanfi

È lui, proprio lui, quello che qualcuno ha definito “il Presidente della Terza Camera”: Bruno Vespa. Giornalista e scrittore, conduttore di Porta a Porta, colui che ho scoperto nutrire per il vino una grande passione. Così, se dapprima si è limitato a dedicargli qualche puntata del suo famoso programma televisivo e una rubrica specificatamente dedicata a questo tema sul settimanale “Panorama”, col tempo ha deciso di scendere in campo in prima persona, trasformandosi in produttore.

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foto © michelangelo gratton

Bruno Vespa the wine producer is very different to the one we see on television, pondering his words, cajoling politicians, holding journalists at bay and getting answers out of guests. The Bruno Vespa before me is a shrewd entrepreneur, outspoken in his thoughts and in his intellectual transparency.

Masseria

Li Reni

amici come Riccardo Cotarella, sia alle forme della scrittura attraverso cui ha saputo magistralmente raccontare il mondo del vino. Un insieme di percorsi – guidati da casualità e fato – alla fine approdati proprio in Puglia, dove ha deciso di fare il suo vino.

Il Bruno Vespa che conoscevo è l’uomo che in televisione, ponderando le parole, blandisce i politici, tiene a bada giornalisti, sollecita gli ospiti.

Quello che ho davanti a me è un sagace imprenditore, diretto, immediato, schietto nel pensiero e nella trasparenza intellettuale.

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Davvero un’altra persona, a me sconosciuta e – lasciatemelo dire – ben diversa dal cliché che io stesso mi ero costruito: «Non sarebbe certo bastata la mia passione a indurmi a produrlo in prima persona. C’è voluta una situazione astrale positiva – l’acquisto da parte di alcuni amici della più bella masseria della Manduria – a farmi decidere, insieme a mia moglie, di essere della partita nel loro progetto enologico.

E se questa avventura successivamente ha finito con l’interrompersi per una serie di divergenze, ormai il dado era tratto. Insieme all’enologo Riccardo Cotarella, conosciuto in tutta la Penisola come mentore di alcune delle più celebrate etichette degli ultimi trent’anni, avevo già deciso di andare avanti per conto mio. Nacque così Futura 14, quella che sarebbe ben presto diventata la cantina mia e dei miei figli.

Ed è in questa veste, forse grazie anche alla lontananza dalle stanze del suo studio televisivo, che a svelarsi è un Bruno Vespa diverso da quello che conoscevo. Lo scopro non appena comincia a raccontarmi del suo rapporto col vino. Intuisco che non mi sta affatto parlando di un investimento economico, ma di qualcosa che gli sta a cuore, lo agita, l’appassiona, lo coinvolge e lo stimola come potrebbe esserlo un giovane innamorato di seducente fanciulla. Dal movimento degli occhi, dalle pose che assume, dai sorrisi e dal tono della sua voce comprendo che l’argomento è parte integrante di un amore antico, la cui forza remota continua a risuonare intatta nel presente, suscitandogli ancora stupore.

Nonostante la sua professione gli abbia insegnato a gestire le emozioni, mi compiaccio di vederle affiorare quando parla del suo vino, quello che lui, “abruzzese DOC”, ha deciso di fare, con i suoi figli Federico e Alessandro, in Puglia. «Una terra meravigliosa» che conosco bene, della quale ho ampiamente scritto fino a innamorarmene. Proprio come ho l’impressione sia capitato a lui.

Del resto come avrebbe potuto sottrarsi alla potente seduzione di un vino come il Primitivo?

Il suo tratto serio e impegnativo, i suoi sapori inconfondibili, l’immediatezza consistente della sua bevibilità, non lasciano scampo. Se poi viene proposto in una versione Spumante Metodo Classico, allora sì che stupisce, incanta.

Come incanta Bruno Vespa, fino quasi a stregarlo, il Nero di Troia.

Uno dei più grandi vitigni, a bacca rossa, dell’ampio patrimonio genetico italiano, figlio anch’esso di quelle terre chiamate Puglie: quelle dell’albero della vita e delle altre suggestive storie racchiuse nei frammenti di un tappeto di pietra posto nella cattedrale di Otranto. Terre oscure, strane, uniche e suggestive, dalla luce accecante; porta d’Oriente attraversata da chi partiva per le Crociate; terre che dischiudono a spazi altri dominati da minareti e sultani, infestati da pirati che infestano mari sconosciuti; terre che evocano mondi lontani come la Gerusalemme di Salomone o la Babele intenta a costruire la sua incompiuta torre. Sono le Puglie delle disfide, dei cavalieri, del porto di Badisco, dove quando approdò Enea esisteva già la Grotta dei Cervi, destinata a diventare incisione preistorica e pittogramma per futuri astronauti e a vedere materializzarsi sopra di essa un grande giardino megalitico ricco di menhir.

Chi beve vini di questa terra deve lasciarsi incantare da queste storie, chiudendo gli occhi per farsi trasportare nella mitologia di un racconto antico. Bruno Vespa l’ha compreso a tal punto da lasciarsi cullare da un sogno. Una visione figlia forse della sua lunga esperienza nel settore del vino, legata sia alla degustazione di straordinari prodotti di altissima qualità, sviluppata attingendo al sapere di personaggi del calibro di Luigi Veronelli e Giacomo Tachis e collaborando con

Da subito abbiamo puntato su vini moderni, piacevoli e coinvolgenti, valorizzando una della più importanti varietà enologiche regionali: il Primitivo, presente negli 8 ettari di vigneto che circondano la masseria di Manduria, e il Negroamaro, l’altra grande varietà salentina dalle cui piccole quantità abbiamo deciso di creare un affascinante spumante rosato, oltre a un entusiasmante e grandioso Nero di Troia.

Nel proseguo abbiamo scommesso anche sul restauro della Masseria Li Reni, un vecchio convento originario del Cinquecento, facendo interagire bellezza e storia. Qui per ora abbiamo creato quattro suite, con l’obiettivo però di costruirne altre sei, inaugurando, di recente, anche uno showroom di alto livello con annessa sala di degustazione e un’ampia bottaia, capace di soddisfare le nostre future necessità in funzione dei 26 ettari già vitati e degli altri cinque che stiamo per vitare.

Un progetto che pur richiedendo notevoli investimenti ci sta dando grandi soddisfazioni, tanto da affermare che grazie al vino, nonostante l’età, mi sento un ragazzo.

La mia vita è tornata, in una prospettiva di attenzione concreta verso la natura, a essere piena di progetti e di sensazioni fantastiche, restituendomi una vitalità che pensavo ormai smarrita. Ritrovarla, le assicuro, non è davvero una cosa da poco conto!.

The culture of the Bel Paese has so prevailed in São Paulo in Brasil that for the 7th consecutive year it is hosting the Italian Regional Cuisine Week. Sicily will be represented by the restaurant Antica Filanda di Capri Leone, which has been present for the last three editions. According to Nunzio Campisi “It is seduction of places, aromas and tastes that are strongly linked to our territory which allow us to keep the features and characteristics of our cuisine, our traditions, intact”. The dishes of Antica Filanda are very much bound to regionality, but they have a sought-after and unconventional flavour that translates into the perfect balance between tradition and creativity, that pays homage to the island’s magical atmosphere. A culinary philosophy that has its centrepoint in the depth and elegance of flavours, it emphasises local produce and pays particular attention to quality and seasonality.

di Lea Gasparoli fotografie di © Nunzio Parafioriti

La cucina siciliana in Brasile nella settimana della Cucina Regionale Italiana

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Duecentonove miliardi di euro. È il valore della cucina italiana nel mondo e rappresenta il 13% in un mercato che globalmente vale duemiladuecentodieci miliardi di euro, con una penetrazione del 15% in Usa e Gran Bretagna e del 13% in Brasile e India (dati emersi da una ricerca sulla ristorazione italiana sviluppata da Deloitte e commissionata dalla scuola di cucina Alma). Il Made in Italy enogastronomico, dunque, è un efficace strumento di penetrazione all’estero, e ben si inserisce in un contesto strategico in cui i grandi gruppi alberghieri stanno puntando, valorizzando la cucina mediterranea nei Paesi stranieri, attraverso grandi investimenti per l’acquisizione di materie prime di provenienza italiana, da sempre sinonimo di qualità, lusso e stile.

Un'immagine della piscina del ristorante

Alcuni dei piatti proposti dal ristorante

La cultura del Bel Paese conquista San Paolo del Brasile, la metropoli più grande del Sudamerica, la città con più discendenti di italiani al mondo (6 milioni di abitanti hanno nonni originari del nostro Paese). E per il settimo anno consecutivo la città annoverata tra le principali capitali gastronomiche internazionali ospita la Settimana della Cucina Regionale Italiana. Nunzio Campisi e Pinuccia di Nardo, del ristorante Antica Filanda di Capri Leone, che da tre edizioni rappresenta la regione Sicilia in Brasile, ci raccontano quanto sia importante per la valorizzazione nel mondo del Made in Italy enogastronomico (in un contesto globale in cui l’italian sounding è più una regola che un’eccezione), non solo l’autenticità dei prodotti ma anche l’esperienza concreta della materia prima, l’acquisizione delle nostre tecniche di cottura, di preparazione, di conservazione. «Basta qualche secondo in più di cottura – afferma Nunzio Campisi – qualche ora in meno di lievitazione, qualche grado in meno nel raffreddamento, un accostamento di spezie sbagliato, per rovinare un piatto. È questione di dettagli. Ci vuole davvero poco per tradire l’identità, le tradizioni di una cucina fatta di artigiani che credono nell’eccellenza e nella bellezza del cibo come espressione culturale e storica». I cuochi mediterranei hanno il privilegio di portare

con sé una grande cultura gastronomica che hanno appreso sin da bambini, nelle cucine di casa, nei vicoli che profumano di pane appena sfornato, nei sentieri che odorano di origano, nelle campagne che emanano note di zagara, di agrumi. «I luoghi, gli odori, i sapori, sono armi di seduzione che ci legano a doppio filo al nostro territorio e che ci consentono di mantenere intatti i tratti che caratterizzano la nostra cucina, le nostre tradizioni» continua Nunzio. I piatti dell’Antica Filanda sono molto legati alla regionalità, ma hanno un gusto ricercato e non convenzionale che si traduce in un equilibrio perfetto tra tradizione e creatività rendendo omaggio alle magiche atmosfere dell’isola.

Una filosofia culinaria che individua il suo fulcro nella profondità e nell’eleganza dei sapori con un accento alla valorizzazione della territorialità e una particolare attenzione alla qualità e alla stagionalità. «Il Cannolo ripieno di finto foie gras con perle di aceto di fichi e melograno, uno dei piatti del nuovo menu, può rendere l’idea del nostro concetto di creatività legata alla territorialità. Il finto foie gras infatti è una terrina di maialino nero dei Nebrodi lavorato con le tecniche di lavorazione del foie gras per ottenere una consistenza tale da poter elaborare un piatto più moderno ma comunque ancorato al nostro territorio» racconta Pinuccia Di Nardo,

una delle 4 Chef che hanno fatto la storia di un ristorante che affonda le proprie radici nelle tradizioni di famiglia, l’Antica Filanda.

Nata proprio nei locali di una filanda, antica, grazie all’intraprendenza di due coppie di fratelli, Nunzio e Salvatore Campisi, Nino e Basilio Parafioriti e delle rispettive mogli, Pinuccia, Nuccia, Nina e Pina. Le donne in cucina e gli uomini in sala. La loro storia dice molto. Una storia che ha inizio 28 anni fa. Una storia fatta di successi: dall’ingresso nella più importante associazione dell’isola, un circuito enogastronomico che raggruppa l’eccellenza della cucina siciliana, Le Soste di Ulisse, di cui oggi l’Antica Filanda è parte del consiglio direttivo, all’acquisto della nuova struttura con vista sulle Isole Eolie, in cui, accanto al ristorante nasce anche un albergo con tanto di piscina. E poi, l’inserimento nell’azienda di famiglia, delle nuove generazioni, che dopo aver sviluppato nuove competenze, o dopo esperienze prestigiose (come quella di Licia Campisi, a Roma, in uno dei ristoranti di Heinz Beck, lo Chef 3 Stelle Michelin), oggi rivestono ruoli importanti in un’attività che si adegua ai nuovi meccanismi del sistema e inserisce nuove figure professionali e qualificate. «Credo che oggi la formazione, l’esperienza fatta sul campo in altre grandi cucine, il confronto con altre realtà, l’attenzione al web e ai so-

Alcuni dei piatti proposti dal ristorante

zione familiare, è un’azienda strutturata, un brand che si è inserito autorevolmente tra le più importanti realtà ricettive della Sicilia e che ha grandi progetti per il futuro. «Abbiamo una forte richiesta di banchettistica.

Dunque stiamo iniziando i lavori per costruire una sala banchetti a pochi chilometri di distanza dalla struttura, che verrà ancora

arricchita con la realizzazione di un centro benessere, verranno impreziosite le camere e il ristorante avrà soltanto 70 posti con grandi spazi tra i tavoli e dettagli estremamente curati. È giusto che l’Antica Filanda ritrovi la sua identità di ristorante gourmet».

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Nunzio Campisi, Pinuccia Di Nardo e la figlia Licia Campisi

cial, siano fondamentali. È una grande soddisfazione per noi vedere che i nostri figli apprezzano ciò che abbiamo costruito ed è proprio grazie all’unione della nostra esperienza e con le loro nuove competenze che possiamo permetterci di fare ulteriori progetti di crescita» dice Nunzio. Oggi, l’Antica Filanda, nata come un ristorante a condu-

Giampietro Comolli fotografia di Giulio Ziletti

Ottocento,

dai Lumi alla Macchina Cambiano i gusti: dallo Champagne dolce al Brut Alla fine del XVIII secolo, in Francia, anche se si bevono soprattutto vini della Champagne, non tutti accettano il monopolio. Il noto pensatore alto borghese e illuminista Beguillet, nell’apprezzare la diffusione e la supremazia dello Champagne “francese”, soleva scrivere ironico che quella dello Champagne è «l’unica industria che può ottenere dal nulla vini che non erano mai esistiti e dare prestigio a un prodotto che non era conosciuto e non aveva patria prima di allora».

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Solo con il nuovo secolo, intorno agli anni 1818-1830, cominciò ad avviarsi quella che sarebbe divenuta l’attuale impostazione e regolamentazione della produzione, rendendo comuni ricerche, mettendo a disposizione nuovi macchinari, descrivendo nel dettaglio metodi e ingredienti. Questo stimolò altri territori francesi a produrre bollicine con il Metodo Champenoise.

Fu così che il piccolo produttore Antoine Muller – ci dice la storia – risultò il primo a mettere sul mercato 1.000 bottiglie vestite e abbigliate come le vediamo oggi.

Il vino era ancora dolcissimo, al punto che, come attestato dall’ingegner Bidet, le ultime casse provenienti da Londra presentavano tutte un contenuto zuccherino intorno al 45-50 gr/l.

By the start of the 19th century sparkling wines made with the “Methode Champenoise” had become popular all over Europe. The Italian pioneers and farmers of the Piedmonte region planted Chardonnay, Marsanne, Sava-

gnin, Pinot Nero vines amongst the Moscato and Cortese vines. In 1865 the first Italian sparkling wines were produced between Canelli and Oltrepo’, obtained using the Methode Champenoise. When Martinotti invented “the

big bottle” made of steel (the autoclave) the “Italian Method” was born, in the context of the enological schools of Asti and Conegliano and Italy made up for lost time with France.

But then the Phylloxera arrived.

Fu un altro tecnico, Jullien, a codificare nel 1820 la tecniche del remouge e del dégorgement. In Champagne il vitigno più impiantato era il Pinot Meunier, presenti molti vigneti di Savagnin, Grenache, Marsanne; Carcasonne inizia a produrre i vini Blanquette, o Limoux, secondo l’antica tradizione dell’abbazia di Saint Hilaire; alcuni importanti produttori di Bourgogne creano l’etichetta comune “Fleur de Champagne”, ottenuta da uve di Chardonnay, Aligotè, Pinot vari. Solo nel 1843 Sutaine e Maumené disegnano le prime macchine per produrre vino ed elencano gli ingredienti della “liqueur”: frutto di zucchero bianco pesante, vino della stessa cuvée, Porto e Marsala, Cognac, kirsch, alcolato di lampone, soluzione satura di allume, tintura di Fisme, acido tartarico e tannino. Guyot criticò molto l’abbondanza degli ingredienti, inevitabilmente destinati ad alterare il sapore del vino.

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Erano 100, allora, i produttori di Champagne.

Una bottiglia costava l’equivalente di un paio di scarpe di marca.

Dolce o Secco?

In Italia nel XVIII secolo si registrarono ancora molti convegni sul tema spumante. Forse anche complice un illuminismo italiano molto filosofico e poco operativo, se i tecnici sperimentavano e i letterati scrivevano, nessun produttore trovò il coraggio di lanciarsi nell’impresa che invece in Francia proseguiva con sempre maggior convinzione. Non è certo un caso che, in questo contesto, la bevanda più acclamata fosse il caffè. Occorrerà dunque aspettare il conte Dandolo, enologo molto considerato anche dai tecnici francesi, per assistere a una svolta.

182

Fu lui, negli stessi anni in cui in terra Toscana il marchese Ridolfi presentava per la prima volta all’accademia dei Georgofili di Firenze una relazione sulla filiera produttiva di bollicine, a creare tra il 1820 e il 1830, un «vino spumoso, mettendo mosto e vinacce in uno stesso tinello e facendovi aggiunta di zucchero».

L’ASTI Docg ideale per ogni momento conviviale, da oggi lo trovi sia Dolce che Secco.

proposito di ‘spumantizzazione’, l’ASTI docg utilizza il metodo

Martinotti, inventato ad Asti dall’omonimo ricercatore alla fine del diciannovesimo secolo ed oggi utilizzato in tutto il mondo.

Consiste nella ‘presa di spuma’ in grandi recipienti (autoclavi) a tenuta di pressione dove lieviti selezionati trasformano in modo naturale una piccola quantità di zucchero (quello già presente nell’uva) in alcool e anidride carbonica.

Quest’ultima conferisce all’ASTI Docg una sovrapressione in bottiglia che permetterà di apprezzare il perlage nel calice, con la formazione di bollicine naturali fini e persistenti.

Tutto il ciclo di produzione utilizza il ‘sistema del freddo’ per conservare al meglio la freschezza e le caratteristiche dell’uva esclusivamente Moscato bianco.

Inconfondibile il profumo dell’ASTI Docg, intenso e fruttato con sentore di glicine, pesca, salvia, tiglio, fiori di acacia e molti altri ancora.

LE SEC. BBIETTA MANUA

FORMATRICE GA

XVIII°

Fu solo a partire da quest’epoca che i vitigni Chardonnay/Pinot e Pinot Nero iniziarono a essere piantati in gran numero in Francia, mentre anche fra i proprietari terrieri piemontesi si avviò il processo di “champanization”. I Pergamo, i Rovasenda, gli Incisa, gli Asinari, i Leardi sono i primi viticoltori a impiantare i vitigni provenienti dalla Francia, pur non essendoci certezze su varietà, cloni e specie. Carlo Gancia, Francesco Cinzano, Antonio Carpano, Luigi Cora intensificano i viaggi in Champagne e nel Rodano, per studiare e importare vitigni. Torino diventa contemporaneamente la capitale di due vini: Dettoni, Cinzano, Cora partono con la produzione di Vermut (alla piemontese) o Vermouth, utilizzando uve di Cortese e Moscato nei broli delle case e sui colli del Monferrato; dal canto loro verso il 1850, Carlo e Edoardo Gancia impiantano a Canelli, grazie anche all’opera di ricerca di esperti come Leardi e Demaria, nuove vigne-mix di Moscato Bianco, Chardonnay e Pinot Nero. Fu così dunque che nacque lo Spumante Italiano con il Metodo Champenoise.

Nel 1857 a L’Aquila, Speranza Relleva presentò una memoria «sui vini spumanti e di lusso», partendo da vini base della Valle Subequana caratterizzati da un alto tenore zuccherino naturale e di lenta fermentazione.

Qualche anno più tardi Gaetano Pirovano, nell’astigiano e nel ducato di Piacenza, avviò una sperimentazione analoga. Successivamente il Pollaci si interessò alla preparazione del moscadelletto di Montalcino spumante, lo Strucchi e lo Zecchini a quella del Moscato di Canelli e il Carpené a quella del Prosecco. In questi anni si concretizzarono le ricerche tecniche, di Martinotti in Italia e di Charmat in Francia, volte a inventare una macchina in grado di sostituire le operazioni manuali del Metodo Champenoise. Sarebbe così stato lungo

con la creazione della travasatrice isobarica ordinata dal conte Marone-Cinzano, Martinotti avrebbe di fatto creato la prima autoclave.

AZIENDE CHE PRODUCONO ASTI Secco Docg

C

ome abbinare l’ASTI Docg

Il territorio fa la sua parte Non è possibile parlare di un vino senza riferirsi al suo territorio: l’ASTI Docg, sia Dolce che Secco, nasce dall’uva Moscato bianco, coltivata sulle colline del sud Piemonte (Asti, Alessandria e Cuneo), riconosciuti dall’UNESCO Patrimonio Mondiale dell’Umanità.

Qui il suolo ricco di calcare e il microclima garantiscono all’uva le condizioni per esprimere al massimo i suoi aromi.

Dolce con dolce: l’abbinamento ideale con il dessert richiede bollicine dolci di cui l’ASTI Dolce Docg ne è l’eccellenza.

L’ASTI Secco Docg, diventa invece il protagonista assoluto negli aperitivi, anche nello Spritz, e a tavola dove viene abbinato a primi piatti, carni bianche, pesce e crostacei.

Il Consorzio aderisce a:

• Acquesi • Araldica • Arione • Banfi • Bosca • Bosio • Cantamessa Aldo • Cantina Sociale

di Maranzana • Cantina Sociale La Torre • Cantina Vallebelbo • Cantine Amerio • Cantine Manfredi • Casa Sant’Orsola • Casa Vinicola Morando

• Cascina Bastieri • Cascina Fonda • Daffara & Grasso • Dogliotti 1870 • Duchessa Lia • Fontanafredda • Gaglione

Gian Luigi

• Gancia • La Manna • Perlino • Santero • Sarotto Roberto • Soria Matteo • Toso • Tosti • Tre Secoli

questa linea di ricerca che più tardi,

Nel 1885, in Francia e in Italia, vennero emanate leggi e norme che giudicavano frudolente, vietandole, tutte le pratiche di sostegno e arricchimento liquoroso e zuccherino del vino. Il loro prolungato utilizzo, anche posteriormente a questa normativa, sarebbe stato fortunatamente destinato a sparire, anche a seguito del diffondersi molto reclamizzato della moda degli spumanti Brut o Pas Dosé o “sans sucre”. Solo lo sciroppo restò in vigore per definire la tipologia di sapore da inserire in etichetta come informazione obbligatoria per il consumatore. Purtroppo contemporaneamente, dall’Inghilterra e dalla Spagna arrivarono, prima in Francia e dieci anni dopo in Piemonte, le grandi epidemie crittogamiche che sterminarono i vigneti, interrompendo a lungo un percorso virtuoso divenuto via via più esplosivo.

ASTI SECCO

COSA SIGNIFICA DOCG Docg è la denominazione di origine controllata e garantita. È regolamentata da un disciplinare che definisce il territorio di produzione, stabilisce le rese per ettaro e le caratteristiche organolettiche del prodotto imbottigliato. Il Consorzio dispone di un Laboratorio di ricerca e analisi, e di un team di agronomi che garantiscono i controlli sulla maturazione delle uve e sulla sicurezza alimentare.

D.O.C.G.

ASTI DOLCE

Come servire l’ASTI Docg TEMPERATURA IDEALE:

6/8

D.O.C.G.

°C

MOSCATO D’ASTI D.O.C.G.

Metodo Classico

di Giampietro Comolli

184

Dal

terza stella che escono dal quadrilatero dei fornelli e della sala e della 1986 assaggio vino con cognizione di causa. Prima lo procreatività del menù o solo dalla lista di portate e del numero di etichette ducevo e lo bevevo. Amici di merende professionali del vino come Petriin cantina. E Gualtiero si è comportato di conseguenza. Il gruppo di amini, Veronelli, Dubourdieu, Sabellico, Masnaghetti, Arrigoni, Bonilli, Ziliaci affiatati, che ringrazio, che conosco minimo da 20 anni e che hanno ni, Bettane e tanti altri mi hanno insegnato molto. Per anni ho ascoltato, sempre degustato per passione più che per mestiere, che hanno manimparato. Per anni la degustazione del vino, e ancora oggi per molti, ha tenuto una barra dritta… avuto l’obiettivo della ricerca della qualità un po’ veronelliana… assoluta attraverso i nostri sensi, visivi-olun po’ decubertiana, ha fattivi-gustativi. Per tanti miei “maestri” With this 6th edition of “Bubble’s”, dedicated to “bubbles” selezionato pochissimi bisognava cercare anche qualcosa d’altro, made in the Traditional Method, we would like to follow the vini, che di seguito elenanche immaginifico, etico, spirituale, d’anirules of “wine tasters” and not those of “sommelliers”, taking chiamo a casaccio senza for granted that certain great “bubbles” will always be great, ma e di coscienza, di cervello aggiungo io. while others are unknown, outside of privileged channels, less nessuna regola, e sicuraIntendendo che oggi la qualità si deve dare praised, with owners who are more reserved and less inclined mente non tutti superaper scontata dopo 32 anni. Difficile oggi to “smooth the jaguar’s fur”. The world of wine consumption, no alla grande i 92/100° trovare un vino cattivo, anche del cosiddetin Italy and abroad, has changed; must change. come minimo. Ci sono to impunemente contadino. Purtroppo è A group of close-knit friends, whom I thank, has selected very vini che hanno avuto molto facile constatare che molti, anche fra few wines, which we have listed below in no particular order, un punteggio inferiore tantissimi blogger dell’ultima ora e qualche and certainly not all of them surpass the 92/100ths as a mima… rappresentano una neo maestro, svicolano con il mi piace/non nimum. There are wines that have a lower score but they rereale vera verità di che present a very real idea of what the sparkling wine consumer mi piace, e l’alto prezzo è sempre indice is looking for today. This selection is not so much to appease cosa oggi il consumatore della qualità! Per non parlare poi di quei sethe producers with a high score (of each of the 1,764 wines tadi bollicine va a cercare. mi-professionisti o professionisti della mested we have at least 2 point evaluations) but rather to indicaQuesta nostra selezione scita che osannano per particolari coinvolte that these Italian Traditional Method “bubbles” (it’s enough non è tanto per gratifigimenti. Distacco e astrazione dai rapporti, to use the term “Classic”. For the same reason, many years care i produttori con un mai farsi coinvolgere per lavoro, aprire la ago I maintained the futility of Talento, a method used these punteggio altisonante degustazione tecnico-professionale alle dodays only by the more obstinate. Maybe in a few years…) are quanto per segnalare mande del consumatore, certo senza mai those that best cater to the needs, wants and habits of today e indicare che queste with the most complete identity, quality and value. perdere l’obiettivo della qualità e del gusto, “bolle” sono quelle che senza lasciarsi prendere dalle mode, come meglio rispondono per è stato per l’innamoramento del legno, del alta e completa identità/ minerale a tutti i costi, del vino rosso semqualità/valore alle richieste, abbinamenti, consumi di oggi. Più asciutto, pre e in ogni caso, dei soliti noti. È ovvio e indiscutibile che certe cantine meno dolce, più fresco e sapido, più profumato, meno titolato ma estrattop di tutti i territori italiani devono fare un grande vino, fanno sempre tivo, più soddisfazione diretta, più voglia di bere un secondo calice! Ecco, un grande vino. Con questa edizione n. 6 di Bubble’s, dedicata alle bollianche questi parametri sono stati, parzialmente, presi in consideraziocine Metodo Classico vogliamo seguire queste regole, da “saggiamentali” ne. Le “bolle” italiane, prima devono essere diffuse, riconosciute, note e e non da “sommelliers”, dando per scontato che certi grandi bolle sono ampiamente consumate in Italia, poi si deve pensare all’estero sopratgrandi sempre, mentre altre sono sconosciute, fuori dai canali privitutto per il Metodo Classico ancora troppo piccolo di numeri. 60 milioni legiati, meno decantate, con proprietari più riservati e meno inclini a di stranieri in Italia, 130 milioni di pernottamenti, 40 mld/euro di spesa, “lisciare il pelo dei giaguari”. Il mondo del consumo del vino, in Italia e 320 milioni di pasti in un ristorante italiano… quanti potranno innamoall’estero, è cambiato, deve cambiare. Ogni Paese, ogni regione, ogni vita rarsi di un Franciacorta, un Trento, un Alta Langa, un Oltrepò, un Alto ha il suo rapporto con il vino, un rapporto anche di celluline grigie, di Adige… che poi chiederanno e cercheranno tornati a casa? Un brand è contesto, di disponibilità economica, di liste dei vini nei ristoranti. Forse noto e riconosciuto nel mondo quando è consumato, diffuso e sicuro nel la Michelin ha sempre avuto ragione: fare il cuoco vero, alla Marchesi, Paese dove è stato creato. e non essere Chef, comporta un insieme di caratteristiche per avere la

M-C Scaglione Brut Riserva

bianca con tono di mandorla e di fiori d’acacia gial-

Azienda Agricola Cieck, strada Montalenghi,

la. In bocca asciutto e pieno, raffinato, energico e

cascina Castagnola 2, 10090 San Giorgio Canavese

fruttato al richiamo di kiwi e ananas, spiccata fre-

(TO) - www.cieck.it

sca acidità con beva lunga e suadente.

za. Olfatto attratto da fiori di campo bianchi e da

vendemmia 2011, uvaggio Pinot Nero in purezza Gabriele Scaglione, via M. D’Azeglio 8, 14053 Canelli (AT) www.gabrielescaglione.it

Abito paglierino intenso, lucente, portante una coroncina etera di leggere bollicine. Ventaglio aromatico di fiori secchi di gladiolo e richiamo d’ananas.

Praeclarus Produttori San Paolo

tono di vaniglia. In bocca è pieno e fresco, caldo e

Brut, Alto Adige DOC, senza

armonico con acidità angolare arrotondata dai can-

annata, uvaggio Chardonnay in

diti d’ananas e di mela su pasta di biscotto.

purezza Cantina Produttori San Paolo, via Castel Guardia 21, loc. San Paolo, 39050 Appiano (BZ) - www.stpauls.wine

In bocca vivace e pieno, ampio e sapido, morbido e

Calice pieno di elegante effervescenza continua mi-

dinamico, dai toni di mandorla armellina salata, di

nuta formante una larga regolare spessa corona.

prugna e lampone, finale equilibrato acido dall’idea

Corredo aromatico intenso e variegato di fiori gialli

di torrone morbido.

di campo e di cornetto al forno. In bocca suadenti toni di percocca bianca e di clementina, equilibrio armonico perfetto acido-titolo-sapidità, struttura

Banfi Cuvée Aurora Brut, Alta

cremosa, bel finale fresco leggermente speziato.

Veneto 22, 15019 Strevi (AL) www.castellobanfi.it – www.banfi.it

Bel corpo biondo-paglierino brillante con una effervescenza diffusa e dinamica di perle minute sinuo-

Kaltern Brut Nature, Alto Adige

DDR Brut Rosso Dosaggio Recente Millesimato, Modena DOC, vendemmia 2009, uvaggio Lambrusco di Sorbara in purezza

cantinadellavolta.com

DOC, vendemmia 2012, uvaggio

Fini bollicine trasparenti in un corpo rosso violaceo

Chardonnay in purezza

formano una spuma evidente ed evanescente. Naso

Cantina Kaltern, via Cantine 12, 39052 Caldaro (BZ) - www. kellereikaltern.com

se salenti. Olfatto aperto su nota di felce e fiori gialli

Spumeggiante esplosione di bollicine finissime,

di campo. In bocca è armonia fresca, sentori mine-

persistenti fontanelle mosse in un abito paglierino

rali e vaniglia, di struttura elegante, titolo equili-

anche intenso. Ventaglio di aromi floreali di Achil-

brato, terminanti con cremosità acidula di nocciola,

lea e frutti di Corniolo e Corbezzolo. Delicati e netti

miele e giovane agrume.

sapori di candito d’albicocca, note di pane del forno, fini trame di burro e sasso, vibrante acidità, solidità continua e finale freschissimo.

incentrato su fiori di fresia e geranio, accenni di lievito, melograno e frutti di bosco. Sorso potente e ben equilibrato, spesso e profondo, di frutto intenso, marasca, armonico perfettamente acido-tannico, chiusura minerale fresco elegante.

Bellei Extra Cuvée Brut Rosso, Vino da Tavola Spumante-VSQ, vendemmia 2014, uvaggio Lambrusco di Sorbara in purezza

San Silvestro Brut, Alta Langa DOCG, vendemmia 2012, uvaggio

Cantina della Volta Lambrusco

per Modena 82, 41030 Bomporto (MO) - www.

uvaggio Pinot Nero 70% e

Banfi Piemonte, via Vittorio

Emilia Lambrusco

Cantina della Volta Bellei, via

Langa DOCG, vendemmia 2014, Chardonnay 30%

Abito oro chiaro cristallino con meches smeraldine con spessa mousse di bollicine sottili in evanescen-

Millesimato, Alta Langa DOCG,

25%

Calepio Bergamo

Cantine San Silvestro Sartirano Figli Cantine e

Tallarini Angelo Tallarini Brut

Spumeggio vivo e cremoso, bollicine fini per una

Cuvée, Vino da Tavola Spumante-

corona ampia dai bagliori rosa in un abito rosso

Pinot Nero 75% e Chardonnay

Vigneti srl, Via Ciocchini 7, 12060 Novello (CN) www.sansilvestrovini.com

Francesco Bellei & C. srl, via Nazionale 130-132, Cristo di Sorbara, 41030 Bomporto (MO) - www. francescobellei.it

VSQ, senza annata, uvaggio

rubino scarico e nitido. Profumi intensi di fragola,

Sguardo dal colore paglia di grano trasparente con

quasi paritetico Chardonnay,

di mora rossa selvatica, di fiori di viola mammola

una effervescenza continua cremosa, non invaden-

Pinot Nero e Pinot Bianco

te. Quadro olfattivo variegato rimanda a gelsomino e coreopsis con papaia. In bocca è avvolgente, carico, equilibrio titolo-acido, fresco invitante con finale piacevole fruttato misto biscotto secco caldo.

Tallarini Az. Agr., via Fontanile 7/9, 24060 Gandosso (BG) - www.tallarini.com

neari e continue mosse in un abito paglierino giallo. eliotropio. In bocca asciutto di evoluta acidità, armonia fruttata di mela Gala e Golden, finale ben strutturato e complesso con fragrante gusto di panbrioche.

Quinto Passo Rosé Brut, Modena DOC, uvaggio Lambrusco di Sorbara in purezza Cleto Chiarli Tenute Agricole, via Belvedere 4, 41014 Castelvetro di Modena (MO) -

Kettmeir 1919 Extra Brut Riserva Millesimato, Alto Adige DOC,

accattivante chiusura di frutto minerale.

Ricca corona di minute bollicine con più sorgenti liProfumi intensi delicati floreali, tali di margherita e

Alto Adige DOC

e raffinato tono di crosta di pane. Sapore fresco e intenso, rotonda tannicità e acidità, toni erbacei e

www.chiarli.it – www.quintopasso.it

Caluso DOCG Erbaluce

garofano. Sorso di grande equilibrio armonico ti-

39052 Caldaro (BZ) - www.kettmeir.com

Cieck Calliope Brut Millesimato,

Spuma di bollicine piccole regolari con più fonta-

Erbaluce di Caluso DOCG,

anima elegante con finale lungo piacevole pietroso,

vendemmia 2012, uvaggio Chardonnay 60% e Pinot Nero 40% Kettmeir spa, Via Cantine 4,

nelle salenti lenti sinuose su abito paglierino tenue.

Quadro aromatico ampio di fiori e di polpa di pesca

vendemmia 2011, uvaggio Erbaluce in purezza

Vestigia rosa tenue verso salmone percorse da catenelle fini e persistenti terminanti in una corona vivace. Spettro aromatico di fior di pesco, ribes e tolo-acido-tannico, stuzzicante e suadente, corpo e saggio di liquirizia e pompelmo rosa.

185

I migliori

Alta Langa

Torre Fornello Olubra Brut

agrumi maturi su toni di pietra e calcareo vivo, finale

Montedelma Pas Dosè,

Castello Bonomi Satèn,

Millesimato, Vino da Tavola

sapido di pane, armonico raffinato lungo.

Franciacorta, vendemmia 2011,

Franciacorta, senza annata, uvaggio Chardonnay in purezza

Spumante-VSQ, vendemmia

Enrico Gatti Brut, Franciacorta,

Le Marchesine Brut,

uvaggio Chardonnay 80%, Pinot

2013, uvaggio Marsanne 90% e

senza annata, uvaggio

Franciacorta, senza annata,

Bianco 15% e Pinot Nero 5%

Chardonnay in purezza

uvaggio Chardonnay, Pinot

Franciacorta Brut Nature

Bianco e Pinot Nero

Torre Fornello Az. Vitivinicola, loc Fornello, 29010

Ancestrale “Nudo”, senza

Az. Agr. Enrico Gatti via L.

Ziano Piacentino (PC) - www.torrefornello.it

annata, uvaggio Chardonnay e

Metelli 9, 25030 Erbusco (BS) -

Azienda Agricola Le Marchesine ss di Biatta

Pinot Nero

www.enricogatti.it

Giovanni & C, via Vallosa 31, 25040 Passirano (BS) -

ni sostenuto da una misurata produzione di micro-

Società Agricola La Fiòca srl, via Villa 13/B, 25040

Spumeggio da diverse sorgenti di catenelle sinuose

bollicine formanti una corona circolare evanescen-

Nigoline di Corte Franca (BS) - www.lafioca.com

e lente, importante ma etereo, accenno di corona su

Sguardo profondo color paglia con lampi smeraldi-

te. Profilo aromatico di mirabelle, biancospino, paglia di orzo e mela Granny. Sorso asciutto e morbido con acidità sostenuta, crosta di panettone, chiusura e retrogusto intrigante, fresco e amaricante.

Diverse sorgenti di bollicine formano una intensa spuma terminante in corona intensa continua di minute perline su corpo paglia giallo-oro. Profumi delicati di pompelmo e fico d’India e floreali di narciso. Sorso pieno elegante, struttura equilibrata, intenso e fragrante tono di vaniglia chiuso da un

Croci Alfiere Zero Dosaggio,

www.lemarchesine.com

Spuma intensa e continua, finale briosità alimen-

San Pietro 46, 25030 Coccaglio

loc. Valenzano, 25050 Passirano (BS) - www.

BS) - www.castellobonomi.it

montedelma.it

Veste giallo paglierino scarico una cospicua effer-

Bel corpo di color paglierino brillante con venature d’oro bianco sprigiona cremosa effervescenza nel

vescenza pastosa di minute bolle adagiate in coro-

calice e fine corona di minute bollicine continue.

na sottile vivace. Spettro olfattivo di banana e pom-

Richiami aromatici ai fiori di matricaria e prunus selvatico, con mela Gala matura. Palato pieno e ric-

un bel corpo paglia chiaro. Quadro aromatico ele-

tata da tante catenelle su un vestito paglia carico.

pelmo giallo fresco con fiore di biancospino. Sapore

gante molto fruttato, chiama ananas e clementina,

Richiami aromatici di crocus e pimpinella su toni

nitido, pulito, fresco, accattivante e rotonda acidità,

co, struttura minerale-acido-sapida equilibrata e

con erbe officinali. Consistente e sapido in bocca,

eleganti di biscotto. Gusto asciutto e fresco, di nervo

di grande beva, leggera vaniglia secca con gheriglio

armonica, suadente e setoso e succoso, finale raf-

morbidi canditi di melone e mandorla tostata, buo-

estrattivo, tono di susina gialla, finale accattivante

piacevole amaricante.

na crosta di pane, retrogusto finale elegante piace-

di lattosio misto a lime candito e raffinato germo-

vole.

glio d’orzo.

fresco mela Granny.

finato di vaniglia e mandorla secca su candito di papaia.

Majolini Brut Millesimato,

Vino da Tavola Spumante-VSQ,

Franciacorta, vendemmia 2014,

Bonfadini Carpe Diem Satèn,

vendemmia 2014, uvaggio

Romantica Brut Millesimato,

Lantieri Cuvée Brut,

uvaggio Chardonnay prevalente

Franciacorta, senza annata,

Ortrugo in purezza

Franciacorta, vendemmia 2014,

Franciacorta, senza annata,

e Pinot Nero

uvaggio Chardonnay in purezza

uvaggio Chardonnay in purezza

uvaggio Chardonnay 80%, Pinot

Majolini srl, via Manzoni 3, loc.

Bonfadini az. agr. ss di Bonfadini

Valle, 25050 Ome (BS) - www.majolini.it

Francesca e Andrea, via L. di Bernardo 85, 25049

Bosio Dosaggio Zero Millesimato,

Croci Ermanno soc. agr.

Franciacorta, vendemmia 2013,

Tenuta Vitivinicola, loc. Monterosso 8, 29014

uvaggio Chardonnay 70% e Pinot

Romantica di Avanzi Nicola

Castell’Arquato (PC) - www.vinicroci.com

Nero 30%

e Giuseppe ss, via Vallosa 29,

Lantieri, via Videtti-via 2 Agosto,

25050 Passirano (BS) - www.

1, 25031 Capriolo (BS) - www.lantierideparatico.it

Catenelle lineari e dinamiche in un corpo paglierino

Bosio soc. agr., via Mario Gatti 4, 25040 Timoline di

con trame dorate luccicanti e uno spumeggio cre-

Corte Franca (BS) - www.bosiofranciacorta.it

moso chiude in corona vivace. Colonna aromatica di fiori di caprifoglio, margherita bianca e richiamo polpa pesca bianca. Palato asciutto-acido invitante, versatile stuzzicante nervoso, chiusura fresca grande beva e caratterialmente ammandorlata.

186

Castello Bonomi soc. agr. srl, via

Tenuta Montedelma di Berardi P. & P. Soc. Agr.,

Abito bel giallo paglia con striature intense. Bollicine continue e dinamiche sono spesse, fitte e piccolissime. Profumi importanti e carichi, fiori di prato e pesca gialla matura. Sorso elegante e pieno, appagante e raffinato, giustamente acidulo-morbido chiusura lunga speziata tostata e mordente.

Franciacorta Fratelli Berlucchi Casa delle Colonne Brut Riserva, Franciacorta, vendemmia 2011, uvaggio Chardonnay 80% e Pinot Nero 20% Az. Agr. Fratelli Berlucchi srl, via

Ronco Calino Dosaggio Zero Millesimato, Franciacorta, vendemmia 2012, uvaggio Chardonnay 70% e Pinot Nero 30% Az. Agr. Ronco Calino, via Fenice 45 - Torbiato, 25030 Adro (BS) - www.roncocalino.it

Broletto 2, 25040 Borgonato di

Sguardo effervescente persistente di bollicine di-

Cortefranca (BS) - www.fratelliberlucchi.it

verse e vivaci in un abito giallo paglierino con ri-

Corpo giallo con lampi oro racchiude persistente sinuosità di fini perline creanti una corona aristocratica continua leggiadra evanescente. Profumi di frutto maturo giallo-pesca e foglie verdi di tabacco.

In bocca grande equilibrio e armonia acido-estrat-

flessi più carichi. Quadro aromatico floreali di acacia e aranci e buon frutto. In bocca complesso con richiami a albicocca e ananas, di carattere e delicato, elegante finale morbido-acido giusto con sentori di vaniglia balsamica e filo di mela verde.

romanticafranciacorta.com

Mosnel, Franciacorta Extra Brut “EBB”, vendemmia Uberti Francesco I Extra Brut, Franciacorta, senza annata, uvaggio Chardonnay, Pinot Bianco e Pinot Nero Azienda agricola Uberti G. &

2013, Millesimato, uvaggio Chardonnay in purezza Il Mosnel di Emanuela Barboglio e figli, via Barboglio 14, 25050 Camignone (BS) www.mosnel.com

G.A., via E. Fermi 2, loc. Salem,

Corpo giallo paglierino esprime effervescenza niti-

25030 Erbusco (BS) - www.

da e dinamica, misurata in catenelle fini continue

ubertivini.it

aperte in evanescente corona. Raffinati eleganti

Esuberante schiuma finissima di perle lampeggianti paglierine su un corpo giallo tenue di spessore. Spettro aromatico netto di ginestra e magnolia. Titolazione pregnante di struttura, asciutto verticale diretto,

aromi che richiamano fiori di bergamotto maturo, nocciuolo e fresca vaniglia. Palato pieno e profondo, equilibrato e caratteriale, dall’incisivo e nitido gusto finale allungato di sapido agrume.

Corpo paglia limpido con riflessi oro e smeraldo

Intensa e brillante vestaglia dorata con ombre sme-

Clusane d’Iseo (BS) - www.bonfadini.it

raldine attraversata da fini catenelle, sovrastante

Corpo paglia con lampi d’oro zecchino solcato da

bella corona spessa di bolle minute. Profumo inten-

una effervescenza ricca e compatta, corona fitta

Veste giallo brillante limpido con catenelle sinuo-

porta una spuma spessa e compatta eterea in una

so di pera duca, panbrioche e fior di pesco. Sorso

persistente. Bouquet di fiori di tiglio e di vaniglia

se, lente e finissime continue a formare coroncina

coroncina sottile. Abbraccio olfattivo di fiori pesco,

invogliante e appagante, struttura calda e spessa,

tostata. Sorso vellutato e pieno con venatura mor-

evanescente. Al naso è molto fine e fresco, di acidi-

bergamotto e olivella con buon lievito di pane. In

acidità fresca e sapida, chiusura dal tono di caffei-

dace, eleganza sapida-minerale, finale suadente

tà-agrumata spiccata con accenno deciso di menta.

bocca è godibile, croccante e ben strutturato, sala-

na, equilibrio limone e tostatura.

minerale cremosità di mandorla e di caramella di

Al palato è avvolgente e completo, vaniglia pulita,

to-acido al punto giusto, finale di vaniglia e nocciola

un sapido rilevante equilibrio con invogliante chiu-

tostata molto elegante e raffinato.

sura di mallo rotondo e di noce moscata.

Camossi Franciacorta DOCG

miele.

Franciacorta Satèn

Bersi Serlini Anteprima Brut,

Extra Brut, Millesimato,

Lo Sparviere Satèn, Franciacorta,

Franciacorta, senza annata,

vendemmia 2009, uvaggio

senza annata, uvaggio

uvaggio Chardonnay 80% e

Chardonnay in purezza

Chardonnay in purezza

Az. Vitivinicola Camossi, via

Lo Sparviere Agricole Gussalli

Metelli 5, 25030 Erbusco (BS) - www.camossi.it

Beretta, via Costa 2, 25040

Pinot Bianco 20% Azienda Agricola Bersi Serlini, via Cerreto 7, 25050 Provaglio - www.bersiserlini.it

Abito color paglierino oro brillante e nitido con si-

Monticelli Brusati (BS) - www.losparviere.com

Vivaci bolle, fini e regolari, persistenti e continue

nuose performance di bollicine aperte a ventaglio

Abito classico paglierino con riflessi smeraldini luc-

da più sorgenti evolvono in una corona piana su un

in piccola corona eterea. Spettro olfattivo di fio-

cicanti e uno spumeggio pastoso e fitto persistente.

Monti Lessini (Lessini Durello) Franchetto Durello Brut 2013, Lessini Durello DOC, vendemmia 2013, uvaggio Durella in purezza Franchetto soc. agr., via Binelli 22, 37030 Roncà (VR) - www.cantinafranchetto.com

Bollicine fini persistenti continue in un corpo gial-

abito paglia brillante di vene oro. Aromi nitidi di ka-

ri bianchi di lauro e buccia di pesca gialla. Palato

Mousse floreale bianca di gelsomino e caprifoglio

licantus, velatura di rosmarino e tabacco. In bocca

spesso e compatto, teso, spiccano agrumi canditi e

con aromi del frutto. In bocca fresco e sapido, gran-

lo-paglia con lampi dorati formano una corona

mela Stayman e albicocca, frutto-acido e speziatura

nocciola secca, cremosità morbida, chiusura intri-

de beva e piacevole tocco d’uva, pieno e leggiadro,

spessa. Spettro aromatico di fiori di ginestra e ca-

fresca, finale rotondo ben equilibrato con toni sec-

gante caldo-acida intensa e di lungo profilo.

finale piccatamente acidulo.

prifoglio e buon naso di pasta biscotto. Sorso caratteriale, diretto, struttura ben fatta, frutta matura e

chi e racenti di pasticceria.

tono acerbo di mandorle, finale pietroso agrumato

tiva, profondità e tensione strutturale con un finale misto lievito caldo tostato e filo di agrume piacevole.

Bianco 10% e Pinot Nero 10%

Castello di Gussago Selezione

La Montina Satèn, Franciacorta,

Villa Emozione Brut Millesimato,

Gozio Brut Millesimato,

senza annata, uvaggio

Franciacorta, vendemmia 2014,

Franciacorta, vendemmia 2013,

Chardonnay in purezza

uvaggio Chardonnay 85%, Pinot

uvaggio Chardonnay 70% e Pinot

Bianco 5% e Pinot Nero 10%

Nero 30%

Villa, località Villa 12, 25040

Castello di Gussago-La Santissima, via Manica 8,

Monticelli Brusati (BS) - www.

25064 Gussago (BS) - www.castellodigussago.it

villafranciacorta.it

Tenuta La Montina Fratelli Bozza, via Baiana 17, 25040 Monticelli Brusati (BS) - www.lamontina.com

Corona piena e spessa nel calice sopra a un corpo giallo con lampi oro. Naso pieno di fiori di acacia

con tanta freschezza.

Casa Cecchin Riserva Pas Dosé Millesimato, Lessini Durello DOC, vendemmia 2011, uvaggio Durella 90% e Pinot Nero 10% Casa Cecchin, via Contrada

Talare paglia con vene intense giallo-oro solcato da

e tiglio bianco e gialli e buona scorza di pompel-

Vestigia di un bel paglierino carico nitido arricchito

fitte e fini bollicine per una spuma importante e

mo. Sorso decisamente piacevole, fresco, accat-

da bollicine crescenti in evidente spuma e coron-

una corona sottile persistente. Ventaglio aromatico

tivante, grande beva con toni di vaniglia e bella

cina fitta nel calice. Bouquet ricco e attivo di fiori

di fiori bianchi di gelsomino, caprifoglio espunto di

chiusura piena di punzecchiante frutta d’ananas

d’acacia e di buccia di pesca percocca. Bocca piena

nocciola verde. Gusto fragrante succoso, profondo

e mango.

e gustosa, elegante e spessa, richiamo al pane cotto

elegante, di grande beva e morbidezza, un mix fina-

tinue per formare una effervescenza misurata e

le di vaniglia, agrumi canditi e pasticceria.

corona regolare. Quadro aromatico richiama la pa-

e al cioccolato bianco, chiusura acido-morbida, fragrante, fresca e lunga.

Agugliana 11, 36054 Montebello Vicentino (VI) - www. casacecchin.it

Abito giallo dorato rifilato con catenelle sottili con-

sta frolla e fiori di camomilla, sentori di buccia di clementina. Gusto cremoso e sapido, sferzante e ver

187

Malvasia di Candia Aromatica 10%

misurato lento e sinuoso di minute bolle aperte in corona cremosa continua e spessa. Bouquet intenso dai sentori di fiori di achillea e albizia e nocciole tostate. Sorso complesso, struttura piena, lievito niti-

Sandro De Bruno Durello Extra

do e buon miele caldo, equilibrata ed evoluta acidità

primealture.it

Briose dirompenti bollicine con catenelle leggere

correnti in una bella corona evidente persistente.

Olfatto fine elegante leggero dai toni di melone e pesca gialla con fiori di narciso. Sorso pieno e ricco,

sinuose per una sottile corona su bell’abito giallo

bella struttura acido-sapido-minerale, equilibrio e

paglierino nitido. Bouquet di fiori di pera duca, pescanoce bianca e papaia. Gusto secco, equilibrato e

Zenato Lugana Brut, Lugana

armonico, fresco e ben strutturato, piacevoli toni di

DOC, vendemmia 2014, uvaggio

DOC, vendemmia 2010, uvaggio

arachidi tostate e pane cotto, lungo elegante fresco

Trebbiano di Lugana in purezza

Durella in purezza

croccante.

Brut Millesimato, Lessini Durello

Sandro De Bruno Az. Agr. di Ferraretto Marina, via Santa Margherita 26, fraz. Pergola, 37030 Montecchia di Crosara (VR) - www. sandrodebruno.it

e mineralità con finale lungo di morbida nespola.

Oltrepò Pavese Monsupello Nature Pinot Nero Pas Dosè, Vino da Tavola Spumante-VSQ, senza annata,

Calice colore giallo paglierino carico con ascenden-

uvaggio Pinot Nero 90% e

ti colonnine di perle e effervescenza dinamica con

Chardonnay 10%

persistente corona. Spettro aromatico ampio dai toni di fiori narciso, mimosa e bella mela golden con grissino stirato. In bocca è sapido e fresco, per-

Monsupello Eredi Boatti Carlo sa, via S.Lazzaro 5, 27050 Torricella Verzate (PV) - www.monsupello.it

sonale, pungente e avvolgente acidità, finale ama-

Abito giallo paglierino carico con spuma minuta rigo-

rognolo minerale piacevole elegante.

gliose luminosi trasparenti formanti bella corona circolare. Profumi nitidi di fior di rosa e di pane del forno caldo. Di un bel gusto crudo, sapido fresco, piacevole

Fongaro Brut Riserva Millesimato, Lessini Durello

richiamo al cassis e mandorle secche tostate, ben strutturato e secco, finale persistente lungo di lievito madre.

Zenato Az. Vitivinicola srl, via San Benedetto 8, 37019 Peschiera del Garda (VR) - www.zenato.it

Quaquarini Pinot Millesimato, Oltrepò Pavese DOCG, vendemmia 2011, uvaggio Pinot Nero in purezza

Firidolfi, loc. Cacchiano, 55013 Monti in ChiantiGaiole (SI) - www.castellodicacchiano.it

quaquarinifrancesco.it

cida finale accattivante persistente.

to giallo paglierino con toni oro. Quadro aromatico floreale gelsomino e genziana con tono di mela

Elegante vestaglia paglierino giallo brillante con ef-

Golden. Sapore deciso e netto, buon corpo e nota di

fervescenti sorgenti di bollicine di regolare fittezza chiudono in una corona evidente. Profumi eleganti

Collavini Ribolla Gialla Brut

e fini fruttati e tono piacevole di rabarbaro. Gusto di

Millesimato, Vino da Tavola

sciroppo di lampone, morbidezza evoluta e matura,

Spumante-VSQ, vendemmia

finale succoso cremante di agrume rosso

2014, uvaggio Ribolla Gialla in

Eugenio Collavini, via della

candito, finale fresco croccante con toni amaricante

melograno del colore del vestito. Profumi ampi di cen-

grande beva.

tifolia e dianthus, di frutto giallo e rosso. In bocca ha

Vino da Tavola Spumante-VSQ,

di nocciola.

Borgo Priolo (PV) - www.olmoantico.it

sapida freschezza, ossigenazione gradevole nervosa e profonda, finale pieno salmastro e delicato di manBellaguardia Romeo Il Durello

dorle secche, tuorlo e buccia d’arancia.

del Castello, vendemmia 2009, Sessantaseimesi, Lessini Durello DOC, uvaggio Durello in purezza Bellaguardia soc. agr., via Ziggiotti, Salita dei Castelli, 36075 Montecchio Maggiore (VI) www.bellaguardia.it

Figura giallo dorata solcata da un fonte cospicua di catenelle sinuose fini con ef-

Ribolla Gialla 2, 33040 Corno di Rosazzo (UD) - www.collavini.it

Effervescenza presente e continua, bollicine finissime risalenti in un corpo paglierino dorato con vene smeraldo vivaci in cerchio minuto. Sensazioni olfattive dell’uva e di pera ruggine, fior di genziana

Tavola Spumante-VSQ, senza

angelonegro.it

annata, uvaggio Nebbiolo in

Oltrepò Pavese DOCG, senza

buccia di cipolla con sfumature rosa chiaro. Profu-

annata, uvaggio Pinot Nero in

mo nitido e spiccato di ciliegia durone nero e fiori

Bussia 55, 12065 Monforte d’Alba (CN) - www.

di violaciocca. Bocca piena, richiami alla prugna

parusso.com

blue, buon lievito corpo intenso avvolgente l’acidità

Invogliante color cipolla rossa carica e brillante

ilbosco.com

fervescenza aperta in piccola corona. Sensazioni

Bel corpo rosa vivo brillante con spumeggiante briosa

olfattive di fiori d’acacia, propoli e biscotti da forno.

mousse di bollicine aperte in corona circolare conti-

In bocca ha corpo complesso, nerbo minerale, nota

nua. Ventaglio di aromi fragranti di fiori di manda-

acidula rotonda, gusto finale spiccato di pero coto-

rancio e nocciuolo. In bocca toni di ribes e mirtillo ros-

gno e mela Golden.

so, fragoline aspre in morbido corpo pieno e elegante finale di lievito di pasta e sapidità agrumata.

Giannitessari 120 Extra Brut

rosso.

dell’abito con effervescenza minuta sottile sinuosa formanti geometrica corona circolare. Piatto olfattivo di viola del pensiero, fiori di dianthus ed erbe secche. Palato spesso e corposo, particolare caratte-

acido-morbido-sapido con finale che richiama una

Mirizzi Verdicchio Extra Brut, Verdicchio dei Castelli di Jesi DOC, vendemmia 2015, 24 mesi, uvaggio Verdicchio in purezza Montecappone sarl, via Colle Olivo 2, 60035 Jesi (AN) - www. montecappone.com

Spumeggio pieno e cremoso su un corpo paglierino

e nespola matura.

e ginestra gialla oltre ad un tono iodato. Palato sapido salmastro, equilibrato fragrante, note pesca e prugnolo giallo maturo con finale molto piacevole

Villa Sandi Opere Trevigiane, via Erizzo 113, 31035 Crocetta del

Dorigo Pas Dosé, Vino da Tavola

Montello (TV) - www.villasandi.it

Spumante-VSQ, senza annata,

uvaggio Durella e Pinot Nero

senza annata, uvaggio Pinot

Azienda Agricola Alessio Dorigo,

Nero in purezza

ta in una serrata corona circolare persistente. Ven-

loc. Casa Sparse Campo 1, 33040

taglio di aromi dai toni di fiori di campo freschi e

Premariacco (UD) - www.dorigowines.com

di pasta di pane lievitante. Gusto fragrante di frutti succosi bianchi, pesca e lime, elegante equilibrato,

di mallo di noce.

uvaggio Chardonnay in purezza

Corpo giallo paglia anche intenso limpidissimo solcato da sottili e sinuose catenelle di bollicine

da Tavola Spumante-VSQ, senza annata, uvaggio Chardonnay in purezza Sergio Mottura, loc. Poggio della Costa 1, 01020 Civitella d’Agliano (VT) - www.motturasergio.it

Abito classico paglia-oro per una esuberanza cremosa di bollicine eterea terminale in minuta coroncina continua. Ventaglio aromatico dal floreale di gelsomino e zenzero alla buccia di albicocca. In bocca è pieno, asciutto, fresco, appagante, sapido-acido giusto, finale di torta giardiniera con nota agrumata piacevole.

Lungarotti Brut Rosé, Vino da

uvaggio Chardonnay prevalente e Pinot Nero

Sergio Mottura Millésimé, Vino

fresca ciliegia.

carico con lampi verdolini chiude con fitta corona

vivaci catenelle continue, spuma esuberante evolu-

27045 Casteggio (PV) - www.

reali di viola del pensiero, rosa rossa e delicata

continua. Ventaglio olfattivo legato ai fiori di tiglio

Abito giallo scarico con lampi cristallini percorsa da

Madonna vicinale per Campone,

josettasaffirio.com

bo acido-morbido armonico con finale di salgemma

Noir Brut, Oltrepò Pavese DOCG,

Vestito di un giallo paglia brillante con spumeggio

Castelletto 39, 12065 Monforte d’Alba (CN) - www.

re tannico-vinoso, appagante e lievito elegante, ner-

Durello DOC, vendemmia 2006,

Prime Alture soc. agr. srl, strada

Az. Agr. Josetta Saffirio di Sara Vezza, loc.

Serenissima DOC, senza annata,

Prime Alture Io per Te Blanc de

- www.giannitessari.wine

purezza

Villa Sandi Opere Brut,

Riserva Millesimato, Lessini

GianniTessariWine, via Prandi 10, 37030 Roncà(VR)

uvaggio Nebbiolo d’Alba in

purezza Armando Parusso az. agr., loc.

Poggio sas, loc. Bosco, 27049 Zenevredo (PV) - www.

DOC Spumante, senza annata,

con frutta secca, struttura piena, equilibrio forte

fraz. Sant’Anna 1, 12040 Monteu Roero (CN) - www.

e fiore di eucalipto. Sorso tannico-acido armonico,

Brut Rosé, Nebbiolo d’Alba

pulita anisette. In bocca bilancia bene l’agrumato

Az. agr. Negro Angelo & figli di Giovanni Negro,

aperta a ventaglio per spuma evidente, eterea.

Profilo olfattivo di viola mammola, foglia tabacco

finale continuo lievito balsamico piacevole.

meggio evanescente. Sensazioni aromatiche flo-

Parusso Brut Rosé, Vino da

Vestigia rosa delicato con lampi brillati cerasuoli e di fondo rubino con catenella centrale continua

Josetta Saffirio Nebbiolo d’Alba

spesse bollicine aperte a raggiera nel calice e spu-

in purezza

Az. Agr. Castello di Cacchiano di Giovanni Ricasoli-

grande estrazione, struttura morbida e graffiante,

fichi gialli maturi e secchi, austero tono di selce e

senza annata, uvaggio Nebbiolo

spiccata, trama lunga finale di noce moscata e pepe

e di grande beva, retrogusto ammandorlato.

Figura slanciata color rosa salmone brillante con

Effervescenza continua brillante in un talare color

Tenuta il Bosco-Castello del

pera Kaiser, equilibrio acido sapido notevole, fresco

e rosa bianca. Al palato ricorda piacevoli sentori di

Il Bosco Oltrenero Cruasè,

purezza

Sangiovese in purezza

una evidente corona circolare brillante su un abi-

pietra, avvolgente lunga chiusura sapido-citrica di

Fattoria Olmo Antico sa, via Marconi 8, 27040

vendemmia 2014, uvaggio

agrumato, vellutato e bilanciato, con nota fresco-a-

Negro Maria Elisa Rosé Brut,

di erba di campo e fiori bianchi appassiti su bel

Chardonnay

69, 34072 Farra d’Isonzo (GO) - www.villaparens.com

Vino da Tavola Spumante-VSQ,

Zambianchi 26, 27044 Canneto Pavese (PV) - www.

danti dai bagliori salmone, buccia di cipolla antica e

vescenza crescente di bollicine minute e sinuose in una cremosa corona circolare evanescente. Aromi

Pinot Nero, Pinot Meunier e

Az. Agr. Villa Parens di Giovanni Puiatti, via Dante

Castello di Cacchiano Brut Rosé,

Spuma consistente, bollicine continue formanti

nerale di pietra e sapido, citrina rotondità di cedro

Vestigia giallo intenso dorato cristallino con effer-

VSQ, senza annata, uvaggio

Spumante-VSQ, senza annata,

fiori di sandalo e coreopsis e pompelmo. In bocca è

Spumeggio continuo e vivace di bollicine fini e abbon-

fongarospumanti.it

Extra Brut, Vino da Tavola

armonico e pieno, struttura completa, buon frutto

lievito maturo. In bocca caratteriale e verticale, mi-

Motto Piane 12, 37030 Roncà (VR) - www.

acidità rotonda prolungata e nota di mela Granny.

20%

Dal Monte Bianco all’Etna… dal Friuli-Venezia Giulia alla Puglia

Brut, Vino da Tavola Spumante-

rosa selvatica variegata. Beva intensa appagante,

Villa Parens Blanc de Blancs

sorgente ricca persistente, aperta in sottile perlinarino chiaro con lampi oro. Naso complesso ricorda

nescente cremosità fitta diafana in sottile corona.

Bouquet ricco floreale-fruttato dove spicca ribes e fresco e sapido, grande frutto e struttura, finale di

Chardonnay 80% e Ribolla Gialla

tura circolare luccicante su un corpo giallo paglie-

Corpo color cerasa tendente al rosa solcato da tante catenelle fini serrate continue per creare una eva-

ss di Quaquarini Umberto e Maria Teresa, via Casa

Durella in purezza Fongaro soc. agr. ss, via

brioche e mandorle secche.

Spumeggio intenso cremoso evanescente, unica

purezza Olmo Antico Marty 72 Rosato

armonia al massimo, chiusura con albicocca, pan-

lescretes.it

Az. Agr. Quaquarini Francesco

DOC, vendemmia 2009, uvaggio

188

acidità verticale su fondo morbido amaricante e tostato.

Les Crêtes Neblù Brut Rosé, Vino da Tavola Spumante-VSQ, senza annata, uvaggio Pinot nero 80% e Neblù/Premetta Rosso 20% Les Crêtes soc. agr. di Charrère & C ss, loc. Villetos 50, 11010 Aymavilles (AO) - www.

Tavola Spumante-VSQ, senza annata, uvaggio di Pinot Grigio e Sangiovese Lungarotti soc. agr., viale Giorgio Lungarotti 2, 06089 Torgiano (PG) - www.lungarotti.it

Effervescenza buona nitida, grana minuta di bollicine continue formanti un accenno circolare di corona su un corpo color buccia di cipolla intenso cristallino. Quadro aromatico caratteriale di fior di gardenia, glicine e felce con nota fine di biscotto. In bocca è pieno e strutturato, elegante e fragrante, acido minerale armonico, tocco finale abboccato fra buccia di limone e mandorla secca.

Carpineti Kius Brut Biologico, Vino da Tavola Spumante-VSQ, vendemmia 2015, uvaggio Bellone in purezza Marco Carpineti Az. Agr. Bio, str. prov. Velletri-Anzio km 14,3,

189

ticale, fragrante, finale secco minerale citrico con mandorla amara tostata.

04010 Cori (LT) - www.marcocarpineti.com

Effervescenza esuberante spessa e setosa, evanescente in catenelle di bollicine minute a formare

Az. Agr. Cantine Alberto Longo, str. per Pietra

Etyssa Cuvée N.2 Extra Brut

Montecorvino Fattoria Cavalli, 71036 Lucera (FG) -

Millesimato, TrentoDoc,

www.albertolongo.it

vendemmia 2013, uvaggio

Toblino Antares Brut

Chardonnay in purezza

Millesimato, TrentoDoc,

una corona sottile su una figura paglierina intensa

Abito d’oro bianco cristallino con vene paglia so-

con lampi oro bianco. Naso colpito da nitidi sentori

stiene spumeggio dinamico e continuo che termina

Etyssa Spumanti, loc Moià 4, 38121 Trento - www. etyssaspumanti.it

avvolgenti fruttati di mango e ananas. Bocca piena

in corona ricca di finissime perline. Olfatto affila-

e croccante, toni tufacei e peperino, armonia sapi-

to al mentolo con elegante filo floreale di sambuco

do-acida delicata ed elegante, tocco citrico e lungo

e erbe officinali. Sapore deciso e vellutato, calibro

finale di torta crostata ben cotta.

perfetto acido-iodato e croccante pane lievitato, freschezza e lunga beva finale con ricordi di cedro e mandarino.

Ca dei Frati Cuvée dei Frati Brut

coroncina di perle minute. Spettro olfattivo flore-

gna. Bocca piena e succosa con note di nocciola e

ale ampio richiama erbe aromatiche, kalicantus e

albicocca, giusto equilibrio minerale-sapido, chiu-

felce. Gusto fresco e bilanciato, d’angolo acido ro-

Rotari AlpeRegis Pas Dosé

Zero Millesimato, TrentoDoc,

Millesimato, TrentoDoc,

Cantina di Soave sac, viale Vittoria 100, 37038

vendemmia 2011, uvaggio Pinot

vendemmia 2012, uvaggio

Soave (VR), www.cantinasoave.it

Bianco Teleki in purezza

Chardonnay in purezza

Spumante-VSQ, vendemmia 2012, uvaggio Chardonnay 80% e Pinot Nero 20%

concentrate in fila unica. Profilo aromatico elegante

Sguardo paglierino giallo brillante, effervescenza

Az. Agr. Zeni r.ss. di Andrea e Roberto Zeni, via

Rotari, via del Teroldego 1, SS 43 Val di Non 110,

misto di frutti rossi piccoli, salinità con tocco di lievito

sottile e vigorosa, finale in evanescenti catenelle

Stretta 2, loc. Grumo, 38010 San Michele all’Adige

38016 Mezzacorona (TN) - www.mezzacorona.it –

fresco. Sorso pieno stimolante e intrigante, grande ar-

aperte e libere. Spettro aromatico richiama bucce

(TN) - www.zeni.it

www.rotari.it

monia acido-tannica, potente sapidità, finale lungo di

di agrumi vari su nitida crosta di pane caldo. In

mora e corbezzolo in ambiente salmastro

bocca freschezza croccante, nervosa acidità con fragrante di rinnovata beva con note di canditi e

Le Morette Brut , Vino da Tavola

mela Golden.

Spumante-VSQ, vendemmia 2013, uvaggio Turbiana e Chardonnay Le Morette az. agr. Valerio Zenato ss, viale Indipendenza 19, 37019 Peschiera del Garda (VR) www.lemorette.it

TrentoDOC Aldeno Altinate Brut Blanc de Blanc Bio, TrentoDoc, senza

Corona delicata e vivace creata da diverse sorgenti di

annata, uvaggio Chardonnay in

bollicine minute e salenti sinuose in un abito paglie-

purezza

rino carico con riflessi oro. Profumi delicati di foglie di acero, fieno di medica e lievito. In bocca è gustoso di grande beva, equilibrato e pieno, buon acido innestato su polpa di nespola, finale pane tostato con sapido-balsamico e toni di mallo di noce verde

Cantina Aldeno, via Roma 76, 38060 Aldeno(TN) - www. cantinaaldeno.com

Corona sottile evanescente di una effervescente cremosità abbondante su un vestito giallo color paglia d’orzo. L’olfatto coglie ventaglio di aromi

Cuvage Cuvage de Cuvage Pas Dosé, Vino da Tavola SpumanteVSQ, uvaggio Pinot Nero 65%, Chardonnay 25% e Nebbiolo 10%

floreali bianchi e propoli mielosi. Gusto asciutto e fresco, titolo leggero e spessore morbido fruttato di mela e di pane al forno, estrazione sapida, retrogusto finale pulito e delicato di nocciole amaricanti.

Oro paglierino e nuances scure con effervescenza

Effervescenza pastosa dinamica diafana in una

misurata, spessa eterea in coroncina persistente

bella corona brillante continua su un corpo giallo

non invadente. Bouquet floreale pieno di melissa,

paglierino con bagliori oro bianco. Nuances invi-

erbe officinali e bianchi petali di acerola e coreop-

tanti di mela Golden molto matura, tono elegante di

sis. Sorso delicato con personalità, intrigante frutto

lievito e bel floreale margherita. Bocca di struttura

agrumato, elegante raffinato, preciso angolo acidi-

piena, spessa e suadente, armonica sapidità, tocco

tà morbido, d’estratto pieno, chiude con sentore alto

di pasta brisé, chiude lungo fresco rotondo su ali di

di vaniglia e chicco di cioccolato maturo.

nocciola secca.

Balter Brut, TrentoDoc, senza

Abate Nero Linea Classico Extra

annata, uvaggio Chardonnay in

Dry, TrentoDoc, senza annata,

purezza

uvaggio Chardonnay in purezza

Azienda Agricola Balter, via

Abate Nero sas di de Castel

Vallelunga II 24, Rovereto (TN) - www.balter.it

Terlago E & C, sponda Trentina 45, 38121 Trento -

Bellosguardo paglia-oro con cristalli lucenti smeral-

191

morbidezza sapida-minerale, chiusura suadente e

190

mela Golden e tanti fiori tipici di campo di monta-

Zeni Maso Nero Dosaggio

Millesimato, Vino da Tavola

cremosa importante e evanescente con perline sottili

Classico abito oro paglierino con lampi smeraldini e carbonica allegra e persistente termina in eterea

tondo, palpito di pera kaiser e pompelmo, fragrante

Marzemino, Sangiovese e Barbera

Corpo color rosa confetto con trame chiare e spuma

lo brillante con toni chiaroscuri e catenelle vivaci continue fini e sinuose. Il naso ricorda una bella

cenno di vaniglia, finale salato e di buon pane cotto.

Equipe5 Cantina di Soave Brut

25019 Lugana di Sirmione (BS) - www.cadeifrati.it

Calavino (TN) - www.toblino.it

schezza morbida.

senza annata, uvaggio Groppello,

Pietro e Figli s.ag.s, via Frati 22,

Cantina Toblino, via Longa 1, loc Sarche, 38072

de con trame di vaniglia, pane toast e spiccata fre-

Rosé, Vino da Tavola Spumante,

Az. Agr. Cà dei Frati di Dal Cero

Calice colmo di esuberante spuma su abito gial-

vendemmia 2013, uvaggio Chardonnay in purezza

www.abatenero.it

dini, lento continuo spumeggio cremoso nel calice,

Spuma cremosa e setosa di grana finissima su un

raccolto in una corona sottile di perle a grana minu-

corpo giallo paglierino carico solcato da catenelle

ta. Quadro aromatico verticale di fiori gialli di cam-

lente e sinuose evanescente in corona lineare. Sen-

po di montagna e grande corniolo. Bocca succosa e

sazioni olfattive intense di frutta matura di mela

piena, fresca e suadente beva, fragranza acida raffi-

Gala, mimosa. Al palato è strutturato, corposo, ric-

nata e rotonda, chiusura secca e lunga con deliziato

co, armoniosa acidità-morbidezza, fragranza verti-

abbinamento di crostata di pere e mandorla secca.

cale e nervosa di caramella, chiusura di fico maturo e crème brûlée.

Cuvage srl , stradale Alessandria 90, 15011 Acqui Terme (AL) - www.cuvage.com

Bellaveder Brut Nature Riserva,

Vestaglia paglia di grano tendente al giallo tenue.

TrentoDoc, vendemmia 2013,

Spumeggio cremoso persistente con sinuose catenel-

uvaggio Chardonnay in purezza

le dinamiche all’infinito. Nuances olfattive di gelsomino e geranio con richiami alla pescanoce bianca. Al palato è fragrante e setoso, calibrata acidità minerale, elegante e pieno, chiude nervosamente con piacevole spezia e sentori di biscotto secco

Az.Agr. Bellaveder, Maso Belvedere, 38010 Faedo (TN) www.bellaver.it

Sguardo di color paglierino con riflessi e venature d’oro con spuma intensa e cospicua evolvente in bella raggiera di bolle a grana minuta. Profumo di

Alberto Longo Brut Nature Millesimato, Vino da Tavola Spumante-VSQ, vendemmia 2013, uvaggio Falanghina in purezza

frutta matura e fresca di pesca e albicocca. Gusto accattivante, equilibrio acido-sapido fine, buona estrazione e succosa corposità, richiamo finale alla pasta fresca, ancora frutta e nota mandorlata secca.

Cavit Altemasi Riserva Graal Millesimato, TrentoDOC Brut,

Pedrotti Brut Riserva 12, Vino

vendemmia 2011, uvaggio

da Tavola Spumante-VSQ, senza

Chardonnay 70% e Pinot Nero

annata, uvaggio Chardonnay

30%

90% e Pinot Nero 10%

Cavit s.c., via Ponte di Ravina 17,

Pedrotti Spumanti sas, via Roma 6, 38060 Nomi

38123 Trento (TN), www.cavit.it –

(TN) - www.pedrottispumanti.it

www.altemasi.it

Calice spumeggiante intenso, bollicine continue a

Vestigia oro grano con bagliori e nuances cariche solcate da sinuose e lente catenelle di perle minute

grana sottile aperte a raggiera su un vestito color

formanti spuma diafana in corona sottile. Bouquet

paglia d’orzo e lampi oro pieno. Aromi dai toni flo-

unico intenso ricorda frutta gialla passa e matura

reali di pescanoce, salice di montagna e fruttato di

con tono di ananas fresco. In bocca è pieno e ric-

albicocca. Sorso pieno, equilibrato e austero sapi-

co, bilanciato acido-minerale, titolazione suadente,

do-minerale, corpo strutturato proteico, finale ricco

toni evoluti di pane, chiude con muschio e radice di

di confetto mandorlato, pasta briosche e vaniglia.

rafano secca

Anno II · numero 6 Novembre 2018 Periodico quadrimestrale

Editore Andrea Zanfi Editore s.r.l.

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