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numero uno Maggio 2010

paese ospite: Israele


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Sommario

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Editoriale

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Speciale Israele: Letter from Jerusalem La letteratura ebraica in Italia

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Il libro del mese: Abraham Yehoshua,

Il responsabile delle risorse umane 20

Diari di Bordo La mia Gerusalemme liberata

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Interventi: David Grossman La guerra che non possiamo vincere

Redazione Paola Calvetti Carla Casazza Marco Crestani Layla El Sayed Michele Genchi Alen Loreti Valeria Merlini Geraldine Meyer Francesca Schirone

Ufficio Stampa Paola Manduca

Colophon

Agnese Trocchi bookavenue@bookavenue.it le foto di questo numero sono di: Š Gali-Dana Singer da Flickr


Editoriale Lontani dal chiacchiericcio Premio Strega 2010. Non si hanno certezze assolute sui titoli, ma le indiscrezioni insistenti chiamano in causa nomi importanti come Raul Montanari (Strane cose domani, Baldini Castoldi & Dalai), personalitá non appartententi al panorama letterario come Paolo Sorrentino (Hanno tutti ragione, Feltrinelli) e auto-candidature come quella di Rosa Matteucci (Tutta mio padre, Bompiani). Non mancheranno le piccole case editrici, tra le piú vociferate Elliot (Angela Bubba con La casa) e Instar (Sebastiano Mondadori con Un anno domani). Ma tradizione dello Strega, come di tutta la premiopoli nostrana, è la polemica ante-litteram. Impossibile dimenticare l’acceso diverbio che nella scorsa edizione aveva contrapposto Tiziano Scarpa e Antonio Scurati, il primo reo di aver strappato il premio al secondo per un solo voto. L’edizione 2010 non sará da meno: prima Walter Veltroni ritira ufficialmente la candidatura del suo Noi (Rizzoli) come lo scorso anno toccò a Daniele Del Giudice (già proclamato vincitore con il lbro ancora in tipografia), titolo attorno al quale si erano giá concentrate diverse malelingue, poi Neri Pozza annuncia che i suoi autori non parteciperanno a nessun premio poichè ‘la vittoria, nei premi letterari italiani piu’ importanti, e’ riservata da quasi mezzo secolo esclusivamente a due soli gruppi editoriali‘. Che noia. Ce ne andiamo altrove, lontani dal chiacchiericcio salottiero e da questo brusio poco sopportabile che accompagna la vendita dei libri. Questo numero è dedicato alla letteratura israeliania

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speciale del mese letteratura in terra di Israele


letter from Jerusalem by Gali-Dana Singer

Compiling a 'to read' list has always seemed to me a frustrating task sometimes bordering on impossible. Even more so when speaking of new Israeli literature. The reasons are manifold. First of all, Israeli literature as an entity is a fairly new phenomenon – what are sixty years compared to more than three thousand years of Hebrew literature? And then, in light of this disparity, why should we bother with recommendations for this year, or let us say even the last ten years, when the wonderful books of earlier periods are not that well-known? Many are the foreign readers of Etgar Keret, but few are those acquainted with Menashe Levin's surreal prose. Perhaps one of the most important things about modern Israeli literature that many publishers and researchers tend to forget is that it is multi-lingual. You cannot speak of it without mentioning Ida Fink's stories written in Polish or Dennis Silk's English plays, Taha Muhammad Ali's narrative poems composed in Arabic or Manfred Winkler's poems in German, and numerous novelists, poets and playwrights working in Russian. A rebellious reader myself, I find mine a strange position to be in, somewhere between preaching and selling. Nevertheless, being constantly on the lookout for some forgotten or underrated books has made me grateful to the brave people who share their appreciation for them. The invitation I received from Michele gave me the opportunity to repay a small part of my debt. So which of my favorite books would I like to list here besides the ones I already mentioned? The Palace of Shattered Vessels by David Shahar, A Thousand Hearts by Dan Tsalka, Jerusalem Plays Hide and Seek by Ariella Deem, The Name by Michal Govrin, children's books by Nurit Zarchi whose Tanina should be recognized as a classic, Yoel Hoffmann's poetic prose, short stories by Alex Epstein and Shoham Smith, The Eye of the Cat by Haviva Pedaya (all these in Hebrew), Emile Habibi's novels (in Arabic), Shebsel the Musician by Yakov Tsigelman, Black moon by Anna Isakova, Tickets by Nekoda Singer (all three in Russian), and Ezekiel's Tunnel (in English) by Gabriel Levin are the few that come to mind first. And then there are so many excellent poets whose work is so difficult to translate and whom editors and literary agents so easily overlook. But, being part of the Israeli poetry scene myself, I would need much more space and time to even begin scratching the surface. Gali-Dana Singer, Jerusalem http://www.flickr.com/people/77551778@N00 http://israel.poetryinternationalweb.org/piw_cms/cms/cms_module/index.php?obj_ id=3091

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Lettera da Gerusalemme di Gali-Dana Singer La compilazione di un elenco di libri da leggere mi sembra un compito frustrante e a volte che affaccia sull’ impossibile. Tanto più quando si parla della nuova della letteratura israeliana. Le ragioni sono molteplici. Prima di tutto, la letteratura israeliana come entità fine a se stessa è un fenomeno abbastanza nuovo quali sono i sessanta anni rispetto a più di tremila anni di letteratura ebraica. E poi, alla luce di tale disparità, perché dovremmo perdere tempo con le raccomandazioni per quest'anno, o diciamo anche degli ultimi dieci anni, quando ci sono libri meravigliosi di periodi precedenti che non sono noti? Molti sono i lettori stranieri di Etgar Keret*, ma pochi sono quelli che conoscono prosa surreale Menashe Levin, per esempio.** Forse una delle cose più importanti sulla letteratura israeliana moderna che molti editori e ricercatori tendono a dimenticare è che è multilingue. Non si può parlarne senza menzionare Ida Fink storie scritte in polacco o Dennis Silk ascoltati in inglese, Taha Muhammad Ali poemi narrativi composti in arabo o Manfred Winkler con le poesie in tedesco, e numerosi romanzieri, poeti e drammaturghi il cui lavoro è in russo. Mi guardo come una lettrice ribelle, e trovo una (mia***) strana posizione da dentro, da qualche parte tra predicazione e vendita. Tuttavia, essere costantemente alla ricerca di alcuni libri dimenticati o sottovalutati mi gratifica con chi condivide il loro apprezzamento. L'invito che ho ricevuto da Michele (Genchi) mi ha dato la possibilità di rimborsare una piccola parte del mio debito. Quindi, quale dei miei libri preferiti mi piacerebbe elencare qui oltre a quelli che ho già detto? The Palace of Shattered Vessels (Il Palazzo delle navi distrutte)di Shahar David, A Thousand Hearts (Mille cuori) di Tsalka Dan, Jerusalem Plays Hide and Seek (Gerusalemme gioca a nascondino) di Ariella Deem, The Name (Il Nome) di Michal Govrin, i libri per bambini di Nurit Zarchi, cui Tanina dovrebbe essere riconosciuto come un classico, la prosa poetica di Yoel Hoffmann, i racconti di Alex Epstein e Shoham Smith, The eye of the cat (L'occhio del gatto) di Haviva Pedaya (tutti questi in ebraico), I romanzi di Emile Habibi (in arabo), Shebsel il musicista di Yakov Tsigelman, The Black moon (La luna nera) di Anna Isakova, Biglietti di Nekoda Singer (tutti e tre in russo), e The Ezekiele’s tunnel (Il tunnel di Ezechiele (in inglese) di Gabriel Levin, sono i pochi che mi vengono in mente per primi. E poi ci sono tanti poeti eccellenti il cui lavoro è così difficile da tradurre tanto quanto gli editori e gli agenti letterari trascurano così facilmente. Ma, essendo parte della scena poetica israeliana io stessa, avrei bisogno di molto più spazio e tempo per iniziare anche solo a graffiare la superficie. Gali-Dana Singer, Gerusalemme

(note ) * l’opera di Keret è ampiamente tradotta in italiano da E/O * * per esempio, *** mia (aggiunti per necessità di traduzione m.g.)


Israele è un paese che ama leggere. Con una popolazione di quasi sette milioni di persone vengono venduti ogni anno 35 milioni di libri e la produzione letteraria rappresenta un giro d’affari di 360 milioni di euro. Attraverso i libri il pensiero trasmette la conoscenza e il sapere, le idee e la cultura. E’ attraverso il Libro che l’identità israeliana è riuscita a sopravvivere a secolari discriminazioni e pogrom. Israele è un antico nuovo paese, di piccole dimensioni ma con un paesaggio vario ed una popolazione eterogenea e culturalmente attiva. E’ un luogo dove l’Oriente e l’Occidente si incontrano, dove il passato e il presente si toccano e dove le ideologie forgiano i modi di vita. Con quattro millenni di tradizione ebraica alle spalle, cento anni di sionismo e ormai sei decenni di stato moderno, la cultura israeliana ha una propria identità, pur mantenendo al contempo l’unicità delle 70 comunità che la compongono. E’ una cultura che nasce dall’incontro fra individuo e società mescolando tradizione e innovazione. Trattandosi di una società composta prevalentemente da immigranti e figli di immigranti, l’espressione creativa di Israele ha assorbito molte differenti influenze culturali e sociali, dato che le tradizioni di ognuno dei gruppi si trovano in competizione con la storia e la vita recenti nel contesto mediorientale. Israele è senz’altro una fonte di ispirazione per gli scrittori e i poeti del paese. Nel labirinto di complesse relazioni sociali, vive una nazione in sviluppo costruita su tradizioni antiche. I cambiamenti sono avvenuti in modo repentino: ne sono testimoni il periodo del pionierismo, la lotta per l’indipendenza, la costruzione del paese, le guerre e le immigrazioni di massa da molte parti del mondo. Ogni nuovo periodo, ogni cambiamento sociale, ha recato con sé nuove sfide, creando una dinamica di costante inquietudine. E’ ovvio che ciascuno di questi avvenimenti da solo ma a maggior ragione in combinazione con altri, offre materiale per una scrittura creativa. Tanto la prosa quanto la poesia traggono motivi, immagini e ricchezza espressiva dalla Bibbia, da altre fonti ebraiche come il Talmud e la Cabbalà, così come dalle tradizioni creative del popolo ebraico nella Diaspora e dal linguaggio e cadenze di uso quotidiano.

Gli scrittori sono oggi i nuovi profeti d’Israele secondo l’accezione autentica del termine: messaggeri, araldi e anche portavoce dell’ebraico della diaspora che costituiva un legame interculturale, un ponte tra il mondo mussulmano e quello cristiano. Questa lingua è tornata oggi a diffondere ampiamente il suo messaggio. La letteratura e l’arte sono strumenti di dialogo e di pace. (Grossman)


La letteratura israeliana e noi Negli ultimi anni stiamo osservando un crescente interesse da parte del pubblico italiano nei confronti della letteratura israeliana. Un entusiasmo che spinge molti lettori ad accostarsi a scrittori finora poco conosciuti in Italia e, in un panorama letterario così variegato, spicca in particolar modo la presenza di molte voci femminili. Si tratta di una letteratura che, nata in un paese di grandi conflitti, narra vicende umane il cui afflato si trasmette da una generazione all’altra giungendo fino a noi. Attraverso alcuni romanzi importanti è possibile cogliere un nesso, una saldatura fra passato e presente. Nelle generazioni nate dopo la fondazione dello Stato di Israele questa saldatura fra passato e presente porta ad interrogarsi su quel periodo di silenzio della generazione dei padri e delle madri sopravissuti all’Olocausto. Da qui emerge un primo elemento molto importante nella letteratura israeliana, quello della MEMORIA, tema trattato da molti scrittori tradotti in Italia come Aharon Appelfeld, Nava Semel, Savyon Liebrecht, Amos Oz, David Grossman. La letteratura è forse una delle chiavi migliori per capire la realtà complessa e ancora tragica di Israele e di ciò che la circonda. Ma, potremmo chiederci, da cosa ha origine la ricchezza della letteratura israeliana? Certamente è riconducile a vari fattori. Prima di tutto ha a che fare con una lingua antica: l’EBRAICO, che ha una lunga storia alle sue spalle. Questa lingua che ha continuato ad essere usata dagli ebrei nel corso dei secoli sotto forma di “lingua sacra”nella liturgia, nella filosofia e nella letteratura, riaffiorò alla fine del XIX secolo grazie ad Eliezer Ben-Yehuda come veicolo culturale moderno, divenendo un fattore vitale nel movimento di rinascita nazionale che ebbe il suo culmine nel sionismo politico. Oggi siamo di fronte ad una lingua ricca vibrante e viva. Pensate che dai circa 8.000 vocaboli noti della lingua del periodo biblico, il lessico dell’ebraico si è ampliato fino a superare i 120.000 lemmi.. Ed è l’Accademia della Lingua ebraica fondata nel 1953 a guidarne la sua evoluzione. E’ una lingua che si arricchisce, si plasma, si inventa di giorno in giorno. Non c’è autore israeliano giovane o vecchio, religioso o laico, che non abbia coscienza di innovare la lingua e di arricchirla, usandola. Affrontando il tema della memoria vorrei introdurvi due scrittori straordinari seppur poco conosciuti in Italia. Ed è ancora la cifra autobiografica che si delinea in maniera inequivocabile nel libro di AHARON APPELFELD, Storia di una vita pubblicato dalla casa editrice Giuntina nel quale emergono anche gli orrori della guerra e del campo di concentramento. Nato nel 1932 in Bucovina all’età di otto anni è rinchiuso con la famiglia prima in un ghetto poi in un campo di concentramento dal quale riesce a fuggire e a rifugiarsi nella foresta dove vivrà fino all’arrivo dell’Armata Rossa. Nel 1946 grazie a un movimento di emigrazione giovanile, che cercava di recuperare gli orfani e portarli nella Terra promessa, giunge finalmente in Palestina. Appelfeld sfida il dolore e disseppellisce quei ricordi che aveva celato nelle zone buie e cieche della propria memoria per poter continuare a vivere perché, come lui stesso ha affermato, non si può fuggire dal proprio passato.

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L’ultimo romanzo di Appelfeld è uscito recentemente per la casa editrice Guanda e si intitola Badenheim 1939. Il luogo e la data sono due coordinate ben precise. La vicenda si sviluppa in una località di villeggiatura dell’Austria nazista all’inizio della guerra. A Badenheim, come ogni anno, arrivano tanti ebrei austriaci in vacanza nella quiete di una cittadina che offre concerti, letture e spettacoli. Ma la gelida macchina nazista è già in movimento e un fantomatico Dipartimento sanitario pretende che gli ebrei si registrino e attendano. A poco a poco la città si trasforma in una prigione da cui è impossibile fuggire. Memoria e autobiografia si fondono nel capolavoro letterario di RACHEL BERNHEIM FRIEDMAN intitolato Orecchini in cantina. L’autrice che oggi vive nel kibbutz Yakum ricostruisce la sua vita con un tocco davvero magistrale. Dall’infanzia serena a Mukacevo, circondata dall’amore dei genitori, ad una adolescenza che la vede impegnata nel movimento sionista Hashomer Hazair, cui si ricongiungerà di ritorno dalla terribile esperienza della deportazione ad Auschwitz, della perdita della madre e della sorellina Adeleh e della marcia della morte, per realizzare infine il suo desiderio di emigrare in Israele.Nella nuova patria, a fianco dell’amato Zeev, Rachel partecipa alla fondazione del kibbutz Yakum, si sposa e diventa madre di tre figli. Eppure a questa donna così coraggiosa non verrà risparmiato il dolore più lancinante per una madre: la perdita del suo unico figlio maschio morto a 24 anni nella guerra del Kippur. Analizzando la letteratura israeliana osserviamo come in essa alberghino elementi opposti fra di loro e una grande varietà di estremi, sia nello spazio che nel tempo. Ad esempio fra città e campagna. Gli autori israeliani hanno saputo ben presto cogliere la natura cangiante del loro paesaggio, facendo ciascuno delle scelte ben precise. Senza dubbio il più urbano, il più metropolitano è YAAKOV SHABTAI, autore di vari romanzi fra i quali In fine, Inventario entrambi editi da Feltrinelli, le cui storie sono ambientate prevalentemente nelle città ove appaiono cieli grigi e cupi; qualche volta c’è un’escursione all’esterno ma il cuore pulsante delle sue vicende rimane la città dove si vive e si muore. Analogamente YEHOSHUA KENAZ del quale la Casa Editrice Giuntina nella sua collana l’Israeliana ha pubblicato due romanzi: Voci di muto amore e La grande donna dei sogni, fa muovere i suoi personaggi, stupendamente tratteggiati, in un condominio alla periferia di Tel Aviv oppure all’interno di un ospizio, una sorta di casa di cura per gli anziani, piccoli microcosmi dove le esistenze di uomini e donne si intersecano al ritmo del vivere quotidiano. MEIR SHALEV, autore fra l’altro di libri per ragazzi e di romanzi come Per amore di una donna, Il pane di Sara, e il cui ultimo romanzo anch’esso edito da Frassinelli si intitola La casa delle grandi donne, ha privilegiato nelle sue opere la campagna. E’ un Israele rurale quello che si presenta agli occhi del lettore che si immerge in storie di coltivazioni e di contadini con le loro vicende umane e personali. Questo romanzo è costruito sulle storie esilaranti di quattro generazioni di donne straordinarie sullo sfondo di un accecante deserto e le pagine che ritraggono il Negev si animano di oasi segrete, che sono schegge d’arte poetica. Duro è invece il ritratto che fa di Gerusalemme “città di orfani, ciechi e pazzi” e forse proprio per sfuggire a questa città, che lui stesso definisce deprimente e piena di fanatismo, ha comprato una piccola casa nel deserto. Nel suo ultimo bellissimo libro Il ragazzo e la colomba edito da Frassinelli sullo sfondo tormentato della storia di Israele, si narra la storia dell’amore che nasce fra due quattordicenni, separati dalla guerra e uniti dal volo di una colomba. Protagonisti del romanzo sono le case, le migliori amiche degli uomini e le colombe come quella che apre il romanzo volando sopra il frastuono di una battaglia sanguinosa durante la Guerra d’Indipendenza del 1948.

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Un altro contrasto che emerge è fra scrittori laici e religiosi Lacci d’amore il romanzo dello scrittore HAIM BE’ER pubblicato da Giuntina, è ambientato a Batei-Ungarin il quartiere ortodosso di Gerusalemme che fa da sfondo al viaggio interiore dell’autore – cresciuto in una famiglia ortodossa – e che lo conduce ad analizzare i complessi rapporti con i genitori. Oltre a HAIM BE’ER vorrei ricordare JUDITH ROTEM, una scrittrice nata in una famiglia ortodossa di Budapest che si trasferisce in Israele negli anni cinquanta andando a vivere nel quartiere Bnei Brak a Tel Aviv, residenza quasi esclusiva della comunità haredim ultraortodossa E il suo romanzo pubblicato in Italia da Feltrinelli, Lo strappo, narra proprio la vicenda di una bambina, Fifi, che sradicata dall’amato ambiente della sua infanzia si trova a vivere in un quartiere ebraico ultraortodosso. Fifi si trasforma in una giovane partigiana della libertà di pensiero che ingaggia una lotta estenuante con il padre e il rabbino della comunità per scegliere la sua nuova scuola, una lotta che alla fine la vedrà vincitrice. Fra gli scrittori cosiddetti “più laici” vorrei citare ETGAR KERET nato nel 1967 a Tel Aviv da genitori scampati alla Shoah. Le sue opere hanno uno stile immediato, rapido; i suoi racconti sono brevi, a volte crudeli a volte più umoristici. Utilizza una lingua simile a quella parlata per raccontare una vita quotidiana che si avvicina maggiormente a quella vissuta dai giovani. In Italia sono stati pubblicati “Mi manca Kissinger” edito da Teoria e Pizzeria Kamikaze per le edizioni e/o recentemente è apparso Gaza Blues una raccolta di racconti scritta con il palestinese Samir El-Youssef che esplora la complessa situazione del conflitto arabo-israeliano

mostrandoci gli effetti che il clima di violenza produce nella vita quotidiana dei protagonisti delle loro storie Keret ha creato uno stile, un modo di concepire la letteratura estraneo ad ogni tipo di ideologia e retorica; cattura nella vita più banale e ordinaria una sorta di felicità, con una particolare attenzione alla psicologia dei personaggi. Un altro grande contrasto che esiste in Israele è fra askenaziti, gli ebrei giunti dall’Europa nord orientale o comunque dall’Europa occidentale e sefarditi, cioè gli ebrei provenienti dalla Spagna dopo la loro espulsione, ma in realtà con il termine sefarditi si intende anche gli ebrei orientali giunti in Israele dall’Iraq, dall’Iran e dall’Etiopia. La letteratura rispecchia questa pluralità e a fronte di una storia letteraria nata e cresciuta con i modelli dei grandi narratori russi e francesi, cui si rifanno in gran parte gli autori israeliani, si incomincia ora ad esplorare nuovi orizzonti, i luoghi da cui provengono gli scrittori israeliani. Troviamo quindi una letteratura di ambientazione sefardita con SAMI MICHAEL, conosciuto in Italia per il suo romanzo edito dalla Casa editrice Giuntina, Una tromba nello uadi. Sami Michael è uno fra i più importanti scrittori israeliani, insignito di prestigiosi premi in Israele. Nato a Bagdad nel 1926, la sua partecipazione ad un gruppo clandestino che si oppone al regime iracheno, lo costringe a fuggire in Iran nel 1948; dopo un anno, emigra in Israele. Come arriva Sami Michael in Israele? E’ lui stesso a dircelo: con la lingua del nemico, la cultura del nemico e persino il colore del nemico. Per questo motivo il suo primo rifugio in Israele è all’interno della comunità araba e sarà proprio il quartiere arabo di Haifa, dove ha vissuto per cinque anni a costituire lo sfondo di: Una tromba


un romanzo stupendo scritto in prima persona da una donna e costellato di personaggi indimenticabili: Huda la voce narrante, il nonno egiziano Elias, la sorella Mary, bella e trasgressiva, Alex un giovane ebreo giunto in Israele dalla Russia che si innamorerà di Huda. La difficile convivenza fra arabi ed ebrei costituisce lo sfondo di questo romanzo che è prima di tutto un inno alla pace, un richiamo alla convivenza, oltre che un racconto appassionante e drammatico. Recentemente la casa editrice Giuntina ha pubblicato un altro stupendo romanzo di Sami Michael: Victoria: un’ affascinante saga familiare ambientata in una Bagdad ebraica dei primi del Novecento che vede emergere la figura indimenticabile di una giovane donna, Victoria, generosa e sensibile, sottomessa ai soprusi e alle umiliazioni degli uomini, dimostrerà infine un indomito coraggio nell’affrontare le avversità della vita. Una giovane scrittrice di origine persiana che ha pubblicato due romanzi: Spose persiane edito da Neri Pozza e Le figlie del pescatore edito da Piemme, DORIT RABINYAN, merita un’attenzione particolare. Nei suoi romanzi che raccontano saghe e memorie familiari, la dimensione folkloristica si affina in una narrativa più profonda e di ricerca. La sua è una scrittura immaginifica, densa di metafore e le sue storie al femminile raccontano di violenze, di sopraffazioni. Grazie alla sua straordinaria capacità narrativa riusciamo a sentire la fragranza e il profumo delle donne che si ungono, si massaggiano la pelle e gli odori che provengono dalla cucina. I villaggi di fango, l’altopiano che si accende di suoni e colori, i grandi deserti sono la geografia esotica che costella i suoi romanzi. Il panorama letterario israeliano si è andato arricchendo in questi ultimi anni di voci femminili di notevole importanza per la varietà dei registri linguistici, per l’attenzione alla realtà femminile e per la straordinaria capacità di affrontare temi complessi come la Shoah, il conflitto israelopalestinese e il terrorismo. Quello della Shoah è uno dei temi più ricorrenti nell’opera di SAVYON LIEBRECHT che in Italia ha pubblicato per le edizioni e/o Mele dal deserto, una raccolta di racconti, il romanzo Prove d’amore, dove la protagonista è una donna anziana ricoverata in ospedale, la quale nonostante abbia perso la memoria a causa dell’Alzeimer, comincia a ricordare l’Olocausto.

Giunta al termine della sua vita l’orrore di quei giorni dei quali non ha mai voluto parlare, emerge in maniera più forte della rimozione che ha esercitato su sé stessa. Ed è ancora il tema della Shoah che ritroviamo nell’ultimo libro della Liebrecht, Un buon posto per la notte (edizioni e/o) una raccolta di racconti ognuno dei quali prende il nome da un luogo: America, Gerusalemme, Monaco. Oltre alla Shoah è anche la realtà politica israeliana al tempo della seconda Intifada a fare capolino in quest’ultimo libro. Sono racconti che narrano di uno spaesamento. In questa scrittrice appare spesso un’ombra di ignoto che può essere data sia dal vuoto lasciato dalla Shoah, sia da una quotidianità israeliana che fa emergere la solitudine delle protagoniste. Va osservato che, se per lungo tempo la letteratura israeliana ha raccontato la nascita dello Stato ebraico, ha vibrato di sionismo, ci ha fatto intravedere l’ombra dello sterminio, ha dipinto esistenze eroiche quotidiane, individui in bilico fra memoria, esilio, nuova identità, è solo recentemente che la tragedia del terrorismo si è affacciata nella vita e nell’opera degli scrittori israeliani. In alcuni romanzi, ad esempio Il Responsabile delle risorse umane di Yehoshua oppure Parti umane di ORLY CASTEL-BLOOM il riferimento agli attentati suicidi si presenta più come un’eco, un rimbombo funesto ma lontano. In questo romanzo di Orly Castel Bloom, nata a Tel Aviv nel 1960 e considerata una delle personalità più significative e innovatrici della scena letteraria contemporanea israeliana, viene descritta la vita israeliana in un imprecisato anno 2000 dove all’aumento vertiginoso degli attentati terroristici e allo stallo della diplomazia nei colloqui israelo-palestinesi, si aggiunge una strana perturbazione atmosferica e una forma influenzale, chiamata “saudita”, che porta alla morte. La società israeliana vi appare priva di solidarietà sociale e di valori, completamente disillusa. Per Castel-Bloom, come del resto per altri scrittori della sua generazione, il sionismo è finito e il futuro è portatore solo di catastrofe.


il conflitto arabo palestinese è ricorrente in tutta la letteratura ebraica contemporanea che fa i conti con la sua realtà quotidiana.

SHULAMIT HAREVEN della quale la casa Editri-

ce Giuntina ha recentemente pubblicato Una città dai molti giorni è stata fra i fondatori del movimento Peace Now e ha fatto parte della Se per alcuni scrittori il terrorismo costituisce Haganà. lo sfondo dei loro romanzi SHIFRA HORN non si Arrivata in Israele nel 1940 dalla Polonia dove era accontenta delle morti anonime e nebbiose, degli nata nel 1931, si è sempre battuta per favorire il echi lontani, quasi indistinti di un risuonare lugudialogo e per avvicinare arabi ed ebrei. bre. Qualità dominante della sua prosa è il realismo cui Questa straordinaria scrittrice nata a Tel Aviv da fa ricorso per narrare le situazioni estreme dell’inuna madre sefardita e da un padre russo sopravisdividuo emarginato e vulnerabile con particolare suto alla Shoah è nota in Italia per romanzi apparattenzione alla realtà femminile. tenenti al realismo magico (Quattro madri, La più Una città dai molti giorni non è solo un canto di bella tra le donne entrambi pubblicati da Fazi). amore, di dolore e di nostalgia per Gerusalemme Il mondo matriarcale è una tematica ricorrente in che da città dell’impero ottomano si va trasforentrambi i romanzi, e da esso emergono personag- mando in città israeliana ma è anche un romanzo gi e volti femminili di straordinaria intensità. avvincente e capace di suscitare riflessioni sia Tuttavia è con il suo ultimo romanzo Inno alla gioia sulla storia di quegli anni, sia sulla storia attuale. edito da Fazi che la scrittrice ci fa entrare prepoten- Dalla Bibbia, che suo padre le leggeva prima di temente nella tragedia della realtà israeliana. addormentarsi, ZERUYA SHALEV, trae un’imShifra ha scelto di scrivere Inno alla gioia dopo che portante fonte di ispirazione perché, come lei uno shahid ha fatto saltare un autobus nel quarstessa afferma, “la Bibbia e il Talmud contengono tiere gerusalemitano, Gilo, un attentato in cui sono storie dalle quali è possibile attingere molto più morte persone che conosceva. che dalla realtà esterna”. Yael, la protagonista del romanzo, guida la sua La sua attenzione è rivolta principalmente vettura e gioca a fare cucù con un bimbo che la all’animo umano e ciò che più la interessa sono i guarda dal fondo dell’autobus. All’improvviso un rapporti che intercorrono fra uomo e donna, fra frastuono squarcia il cielo e la terra: Yael sopravvibambini e genitori. ve miracolosamente ma attorno vede solo morte, In Italia di Zeruya Shalev sono apparsi due romanstrazio e distruzione. zi editi da Frassinelli Una relazione intima e Una Il trauma è così grave che si prende ogni centimestoria coniugale e l’ultimo pubblicato alcuni mesi tro disponibile del suo cervello e sarà solo grazie fa Dopo l’abbandono, un romanzo di raffinata alla generosità di un’amica psicologa che Yael lensensibilità psicologica che esplora gli aspetti più tamente, dolorosamente ritornerà a vivere. reconditi del matrimonio, della sessualità e del L’importante, questo è il messaggio di Shifra Horn, rapporto genitori/figli. e vede per protagonisti un è non farsi intimorire, continuare ad andare al suuomo Oded psichiatra e una donna Ella, che dopo permercato, al cinema e non rinunciare nonostante la separazione dai rispettivi coniugi tentano con tutto alla propria libertà. fatica di riformare una famiglia: le asperità dei loro Alla domanda “E’ ottimista per Israele?” la sua ricaratteri, il complicato rapporto con i figli metsposta ricorda le parole di Grossman: “Devo essere teranno a dura prova i loro sentimenti e la loro ottimista, altrimenti non potrei vivere qui”. determinazione. Molto diverso è il suo ultimo libro, una prova narrativa davvero insolita. Gatti Una storia d’amore Vorrei ora dedicare due parole a BATYA GUR, scomparsa nel maggio del 2005. Ha insegnato è una raccolta di spassosissimi racconti nei quali letteratura, è stata giornalista e si è occupata di Shifra Horn con uno stile brillante e una prosa che critica letteraria nel quotidiano Ha’aretz. regala esplosioni di comicità esilarante ci racconta del suo amore per i gatti, ricambiato dai suoi amici Batya Gur ha scritto gialli nel senso classico e tradizionale del termine; i suoi romanzi sono veri felini con mugolii di piacere e strusciamenti affettuosi.. Zizi, Sherora, Sheeshee sono i veri protagoni- e propri misteries ma nel contempo anche gialli sti del libro che con le loro imprevedibili avventure psicologici. Sono studi d’ambiente con una ricerca e un’attenci regalano momenti di puro divertimento. zione particolare rivolta ai personaggi.


E così vediamo nel romanzo Omicidio nel kibbutz edito in Italia da Piemme, emergere la figura di Michael Ohayon, l’ispettore di polizia al quale viene affidata l’indagine e che si rivelerà capace di leggere nel cuore delle persone e di scavare a fondo nella vita del kibbutz, facendo emergere alla fine aspetti inquietanti e molti inimmaginabili segreti. E nell’ultimo racconto poliziesco ambientato nella città santa, Un delitto letterario, il commissario Ohayon ha l’incarico di scoprire gli intrighi che si nascondono dietro la morte di due membri del dipartimento di Letteratura dell’Università di Gerusalemme: Shaul Tirosh, il carismatico poeta che ne è anche il direttore, e Iddo Dudai, un promettente dottorando. Il commissario, appassionato di poesia, si addentra fra le tensioni che lacerano il dipartimento, così che l’indagine poliziesca e quella letteraria finiscono per confluire nella sconvolgente verità dei delitti. ALONA KIMHI nasce in Ucraina nel 1966 e si trasferisce in Israele con la sua famiglia nel 1972. Conosciuta in Italia per il divertente e insolito romanzo Susanna in un mare di lacrime (edito da Rizzoli), ha recentemente pubblicato per la casa editrice Guanda Lily la tigre. Nel romanzo l’irresistibile protagonista è Lily una donna che pesa più di cento chili e che vive a Tel Aviv dove conduce un’esistenza simile a quella di una giovane soprappeso in qualsiasi città del mondo, fra fantasie di una vita diversa e frustrazioni quotidiane. Costellato di personaggi indimenticabili, come le sue amiche magre Ninush e Mikhaela o l’ex amante giapponese, Lily la tigre è un originalissimo romanzo di emancipazione e di solidarietà femminile ambientato nella inquieta e turbolenta realtà sociale dell’Israele odierno. Un’altra voce intensa e suggestiva del panorama letterario israeliano è quella di AVIRAMA GOLAN, nata nel 1950 a Givataim scrive per il quotidiano Ha’aretz ed è autrice di numerosi libri per bambini. I corvi, il suo primo romanzo tradotto in italiano, La storia di Genia, che come molti immigrati non riesce ad ambientarsi nella nuova società, percorre il romanzo e si intreccia a quella di Didi, una giovane donna in carriera nata in un kibbutz dal quale ben presto fugge per costruirsi una vita indipendente. I corvi è anche uno spaccato della moderna società israeliana dove la difficoltà del vivere quotidiano, la complessità dei rapporti familiari e personali si intrecciano ai momenti più dolorosi

della storia di Israele.

AVIRAMA GOLAN, nata nel 1950 a Givataim

scrive per il quotidiano Ha’aretz ed è autrice di numerosi libri per bambini. I corvi, il suo primo romanzo tradotto in italiano, La storia di Genia, che come molti immigrati non riesce ad ambientarsi nella nuova società, percorre il romanzo e si intreccia a quella di Didi, una giovane donna in carriera nata in un kibbutz dal quale ben presto fugge per costruirsi una vita indipendente. I corvi è anche uno spaccato della moderna società israeliana dove la difficoltà del vivere quotidiano, la complessità dei rapporti familiari e personali si intrecciano ai momenti più dolorosi della storia di Israele. Ne scaturisce l’affresco di una società piena di contraddizioni ma pervasa da un’inesauribile voglia di vivere. L‘ultimo libro che la Casa editrice Giuntina ha dato alle stampe nella collana l’ Israeliana è Perché non sei venuta prima della guerra? della scrittrice

LIZZIE DORON.

Nata a Tel Aviv nel 1953, dopo aver vissuto in un kibbutz sulle alture del Goman è tornata a vivere a Tel Aviv, sua città natale. I suoi libri hanno riscosso un notevole successo di critica e pubblico e hanno vinto vari premi fra i quali il premio Bucham di Yad Vashem nel 2003. Perché non sei venuta prima della guerra? è un libro assolutamente nuovo sulla Shoah, una tragedia della quale non si parla mai apertamente ma che affiora oscura e devastante attraverso le ferite e i fantasmi che ossessionano Helena.. Una bellissima figura di donna, determinata e indomita che riesce a trasformare l’esperienza del dolore in una visione del mondo libera da ogni condizionamento. A maggio uscirà nella collana l’israeliana della casa editrice Giuntina il primo libro tradotto in italiano della scrittrice SARA SHILO con il titolo La pazienza della pietra, un romanzo per il quale ha ricevuto il Sapir Prize della letteratura e il premio Sharett. Nata a Gerusalemme ha vissuto per molti anni presso la città di Ma’alot per poi trasferirsi con la famiglia a Kfar Vradim. La pazienza della pietra racconta la vita della famiglia Dadon, che vive in una cittadina nel nord d’Israele. Gli abitanti della città vivono sotto la costante minaccia degli attacchi con i missili Katyusha. I membri della famiglia, la madre in particolare, Simona Dadon, trovano difficile confrontarsi con la morte del padre, che era il locale “Re del Falafel” .


La storia è narrata da quattro protagonisti. Il loro ebraico è spesso volutamente scorretto e zoppicante, per meglio rispecchiare la vita di una cittadina sperduta e arretrata sia socialmente che economicamente, l’altro aspetto della società israeliana. Il libro che ha avuto un enorme successo alla sua pubblicazione è stato definito dal critico letterario Dror Burstein, anch’egli candidato al Sapir Prize, “un capolavoro della letteratura israeliana”. Con il suo primo libro ha venduto 100.000 copie in Israele e ha scalato le classifiche dei libri più venduti in Italia. RINA FRANK, nata nel 1951 a Wadi Salib un quartiere di Haifa, è diventata un caso letterario con “Ogni casa ha bisogno di un balcone” un libro in bilico fra romanzo di formazione, saga familiare e affresco storico narra le vicende di una famiglia di ebrei romeni trasferitisi a Haifa negli anni 50 in un monolocale, vicende filtrate dagli occhi infantili e ingenui della protagonista. La scrittura è immediata, l’umorismo e la sottile ironia una nota costante che pervade il romanzo anche nei momenti più dolorosi del racconto, ne risulta un romanzo di forte impatto emotivo che non vedi l’ora di finire per poterlo raccontare, consigliare a qualche amico che sappia commuoversi e divertirsi. Il suo ultimo romanzo Ti seguirò ad occhi chiusi non possiede il ritmo serrato del precedente ma offre uno spaccato doloroso della vita dell’autrice: lo strazio che il tempo non ha attenuato per la perdita dell’amata sorella Sefi, la malattia della figlia Noa, e la scoperta sconvolgente di avere un tumore fra il cuore e il polmone con l’unica possibilità di sopravvivenza rappresentata da un intervento invasivo e ad altissimo rischio. Ma a Rina il coraggio non manca per affrontare l’ennesima sfida che sa di non poter perdere. In un unico volume edito da Stampa Alternativa intitolato “Israeliane” sono raccolte tredici diverse prospettive ben piantate su quella base comune che è la femminilità. Da Orly Castel-Bloom a Mira Magen, da Savyon Liebretch ad Alona Kimchi, passando per Gafi Amir, Edna Masya, Nava Semel e molte altre queste autrici offrono un catalogo femminile vario ma conforme a quella società di cui è, involontariamente, un fedele ritratto: in questi racconti ci sono donne infagottate nei anni religiosi e altre post-moderne; ci sono ragazzine ingenue e nonne piene di storie da raccontare, mamme svogliate e altre ossessionate. bookavenue n.1

Questo catalogo è non solo il ritratto di una varietà di umori e presenze ma è anche lo specchio di una scrittura femminile che in Israele è stata negli ultimi anni più vivace che mai. Infine, un altro autore straordinario è ESHKOL

NEVO.

Nasce a Gerusalemme nel 1971. Completa gli studi a Tel Aviv e si dedica alla carriera di pubblicitario, abbandonata in seguito per dedicarsi alla scrittura. Attualmente insegna scrittura creativa. E’ conosciuto in Italia per il romanzo Nostalgia edito dalla casa editrice Mondatori. Questo intenso e delicato romanzo si dipana sullo sfondo di un villaggio, Castel, un ex enclave araba, abbandonata nel 1948 e da allora diventata dimora di una comunità ebraica proveniente dal Kurdistan. In questo villaggio si muovono i protagonisti, Amir e Noa, la famiglia Zakian tratteggiati con grande maestria, il palestinese Saddiq che tenterà di entrare nella casa di Amir e Noa dove aveva vissuto nell’infanzia. Ma una terribile tragedia collettiva è in agguato: l’assassinio di Rabin e, di lì a poco, l’ennesimo terribile attentato che scuoterà ancora una volta Gerusalemme. Un altro libro che vorrei invitarvi a leggere, uscito pochi mesi fa, è Tredici soldati dell’israeliano RON LESHEM edito da Rizzoli. Nato a Ramat Gan nel 1976, inviato del quotidiano Yediot Acharonot, e ora dirigente in un importante canale televisivo non è mai stato militare sul campo ma molto attento ai racconti di chi c’è stato. Giunge nella Striscia per documentare la morte di David Biri, un infermiere combattente della Brigata Ghivati, colpito da un ordigno esplosivo. Incontra Rotem Yair, un giovane ufficiale che gli parla della Terra dei Cedri e di quanto è accaduto a Beaufort, una fortezza crociata sulle alture del Libano meridionale conquistata da Tsahal nel 1982 ed abbandonata nel 2000. Da quell’incontro nasce il romanzo “Tredici soldati E’ un libro importante perché affronta di petto e con infinita passione la materia più scottante della realtà d’Israele, la guerra. E il regista Joseph Cedar ne ha tratto il film Beaufort che ha vinto l’Orso d’argento al festival di Berlino del 2007. Purtroppo in Italia non è stato acquistato da nessun distributore ed anche il libro è rimasto un po’ in disparte come se toccasse dei tasti troppo sensibili dell’esplosiva realtà speciale Israele pag. 7


israeliana per i palati spesso prevenuti di molti italiani. Ed è a Beaufort, la fortezza crociata avamposto degli israeliani in Libano, che si svolge il romanzo, proprio nelle settimane che precedono il ritiro del 2000. E’ la storia di un gruppo di ventenni che vogliono combattere per difendere Israele, ma a Beaufort si trovano in trincea a fronteggiare i colpi di mortaio sparati da un nemico feroce quanto invisibile. E nei confronti di quei giovani Leshem non nasconde la propria ammirazione: il rimpianto di non aver combattuto non è per la mancanza di emozioni forti ma per quell’amicizia salda e forte che nasce quando “la tua vita dipende dall’altro”. Cosa è Beaufort? Ce lo racconta Liraz Liberti, Erez, un ufficiale che ha subito richiami disciplinari, una testa calda, responsabile di tredici soldati che hanno il compito di ispezionare le vie d’accesso all’avamposto alla ricerca di mine. I personaggi che ruotano attorno a Erez sono tipi duri, dolci, nostalgici, religiosi o laici ma tutti consapevoli di compiere una missione: la difesa del proprio paese. Momenti durissimi che tolgono il respiro sono quelli che raccontano la perdita dei compagni colpiti da quel nemico invisibile Hezbollah che ama la morte ancor più della vita. Scritto con un linguaggio crudo e duro che non lascia spazio a metafore, il romanzo infarcito di slang militari e di espressioni spontanee, grazie ad uno stile immediato consente di cogliere le minime sfumature dell’ambiente militare e dell’atmosfera che pervade i giovani soldati in procinto di abbandonare l’ultimo avamposto in Libano. Con questo romanzo Leshem ha saputo raccontare la forza, il coraggio, l’angoscia e i dubbi di una generazione che pur seppellendo i suoi amici è riuscita a conservare intatto l’amore per il suo Paese e la volontà di continuare a proteggerlo. Vorrei ora citare alcuni autori che, benché famosi in Israele, solo recentemente sono stati tradotti in Italia. E il merito di averli fatti conoscere al pubblico italiano spetta alla Casa Editrice Giuntina che alcuni anni fa ha dato vita ad una nuova collana l’Israeliana, diretta da Shulim Vogelman, lui stesso bravissimo scrittore, oltre che traduttore dall’ebraico. Vi si trovano romanzi estremamente interessanti sia sotto il profilo letterario sia per la varietà delle tematiche affrontate. E così RON BARKAI professore di storia medioevale all’Università di Tel Aviv e uno dei massimi esperti nelle relazioni fra ebrei, musulmani e cristiani ci regala nel suo romanzo Come in un film egiziano, un personaggio bookavenue n.1

Josef Alfandari, esaltato sionista e amante della musica araba, nemico feroce di arabi e comunisti. Mentre DAN BENAYA SERI con il romanzo I biscotti salati di nonna Sultana ci conduce, utilizzando uno stile poetico e immaginifico, nelle atmosfere popolari del quartiere bucariota di Gerusalemme attraverso gli occhi malati ma ancora vigili di nonna Sultana. E’ un quadro di grande suggestione quello che dipinge Dan Benaya Seri in questo romanzo per il quale ha ricevuto in Israele il premio Newman. La conoscenza della musica è insita nell’animo di NATHAN SHAHAM nato a Tel Aviv nel 1925 e membro del kibbutz Bet Alfa dove suona la viola nel quartetto d’archi. Vincitore del prestigioso premio Bialik, in Italia è conosciuto per Il quartetto Rosendorf: ambientato a Tel Aviv nel 1930, il romanzo narrato a cinque voci, procede in un intreccio di emozioni e riflessioni attraverso la storia di Israele e dell’Europa e vuol anche essere un tributo all’innegabile potere terapeutico della musica. Sfondo del romanzo di RUVIK ROSENTHAL, opinionista del quotidiano Maariv, esperto di linguaggio e di media e vincitore nel 2004 del prestigioso premio giornalistico Sokolov, è ancora una volta la Seconda Guerra Mondiale. Il protagonista del romanzo Blumenstrasse 22, Erich Freyer, abbandona Berlino dopo che i nazisti gli hanno devastato la Casa Editrice e arriva in Israele lasciando la moglie cristiana e la figlia in Germania. Nel romanzo emerge non solo la storia difficile di vite distrutte dagli eventi, ma anche la profonda delusione provata dagli israeliani di sinistra dinanzi al rifiuto che i governi comunisti hanno opposto all’esperienza sionista. Il mio primo Sony è l’unico libro di BENNY BARBASH finora tradotto in Italia. Barbash è considerato un autore della nuova generazione, ma questo suo romanzo potrebbe essere posto accanto al più famoso “Inventario” di Ya’acob Shabtay . Eppure Il mio primo Sony è il contrario dell’epopea distruttiva di Tel Aviv narrata in Inventario, dove il passato segnato da dolori e perdite si scioglie in un presente svuotato di ogni senso e valore. In questo libro il punto di osservazione è quello di un ragazzino, Yotam e il suo è un personaggio decisamente positivo. Egli è ossessionato dal bisogno di registrare le conversazioni e i rumori della vita intorno a lui. E attraverso lui e il suo registratore parlano tutti gli altri, ciascuno con la propria voce: la madre speciale Israele pag. 8


di origine argentina, impegnata nel movimento di sinistra Shalom akhshav, il padre scrittore di teatro, il nonno entusiasta di Jabotinsky e delle sue idee politiche, una nonna che è riuscita ad uscire da Auschwitz ma che non si è mai lasciata sfuggire alcun ricordo. E’ difficile offrire una trama esatta del libro dove tutto è raccontato per associazioni e passaggi avanti e indietro nel tempo. Barbash riesce tuttavia costruire un romanzo fluido e armonico dove emerge il ritratto di una famiglia israeliana sospesa tra shoah e impegno politico, narrato con sentimento e umorismo. La letteratura israeliana tradotta in Italia non esclude comunque il mondo dell’ INFANZIA. I bambini italiani hanno a disposizione molti libri di autori israeliani. Alcuni di questi scrittori sono molto conosciuti anche nel mondo degli adulti come Amos Oz, David Grossman e Meir Shalev, altri come URI ORLEV si dedicano prevalentemente alla letteratura per l’infanzia e per i ragazzi. Ed è su quest’ultimo autore che vorrei soffermarmi brevemente. Uri Orlev è nato a Varsavia nel 1931. Assieme al fratello minore è stato nel ghetto di Varsavia durante l’occupazione nazista, dove ha perso la madre, poi nel ghetto di Bergen Belsen ed infine è giunto nella Palestina del Mandato Britannico. Come è possibile raccontare ai bambini quanto è accaduto agli ebrei in Europa durante la 2^ Guerra Mondiale? Uri Orlev ci riesce dando vita a storie che trasmettono amore per la vita e rispetto per lo straordinario mondo interiore che i bambini riescono a costruirsi e che li aiuta a sopportare il peso della realtà. I libri di Orlev come L’aggiustaossa (Feltrinelli), Gioco di sabbia (Salani), L’isola in via degli uccelli (Salani) non sono tristi o dolorosi. Al contrario le sue storie infondono ottimismo, mostrano che anche quando tutto pare crollare esiste una fiducia che si trasforma in forza e che permette di superare tutte le difficoltà. Un’altra giovane scrittrice israeliana che scrive anche libri per ragazzi è NAVA SEMEL, autrice di Lezioni di volo (Mondatori) e L’esclusa (Mondatori). Ne Il cappello di vetro pubblicato dalla Casa editrice Guida di Napoli ritornano le tematiche che nei libri per ragazzi appaiono sullo sfondo: la difficoltà dei sopravissuti allo sterminio nazista di inserirsi in una società che vuole che si continui a vivere, anche a costo di rimuovere il passato e i problemi della seconda generazione dei figli della Shoah. bookavenue n.1

Si tratta quindi di racconti che hanno una certa analogia con quelli di Savyon Liebrecht contenuti nella raccolta Mele dal deserto. In una frase di Nava Semel è racchiusa l’importanza della trasmissione della memoria: “ Lo scrittore è come un pescatore, seduto sulle rive di un lago oscuro, ma invece di pesci pesca ricordi; questo è il suo compito e la sua responsabilità, riscattare dall’oblio le memorie che altrimenti andrebbero perdute e trasmetterle alla generazione successiva. Già troppo è andato perduto, uomini, cose, non possiamo permetterci di perdere anche il loro ricordo, se non lo trasmettiamo la loro voce non sarà più udita” Elena Lattes http://fuoridalghetto.blogosfere.it/ fine

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il libro del mese


il libro del mese: una piccola riproposta

Il responsabile delle risorse umane di Abraham Boolie Yehoshua

“Passione in tre atti”. Questo il sottotitolo del libro di Yehoshua. Gli atti di una “passione” che si fa espiazione e pellegrinaggio esistenziale. La vicenda muove dal senso di colpa. Gerusalemme. In un giornale locale sta per uscire un articolo in cui si accusano i responsabili di una grande azienda di mancanza di umanità: il cadavere di una donna, deceduta a seguito di un attentato kamikaze, priva di documenti, a parte il cedolino aziendale, è abbandonato nell’obitorio dell’ospedale da alcuni giorni senza che nessuno, sul luogo di lavoro, si sia accorto della sua assenza. L’anziano direttore della ditta chiede spiegazioni al responsabile delle risorse umane. Lui dovrebbe sapere chi è quella donna e perché nessuno si sia reso conto del fatto che non venisse a lavoro da qualche tempo. Inizia una sorta di indagine: Julia Regajev, questo il nome della vittima, è stata allontanata dal suo posto di lavoro senza che l’ufficio del personale ne fosse messo al corrente. Tecnicamente, quindi, non è più una dipendente dell’azienda. Nonostante questo, il responsabile delle risorse umane si ritrova ad essere anche il responsabile del destino della salma della donna morta. E’ stato lui ad aver sottoposto Julia ad un colloquio di lavoro, è stato lui ad assumerla, è lui che, ora, non ricorda neppure che faccia avesse né se fosse bella come tutti si ostinano a rammentare. Una mancanza che si fa personale e quasi intima. La coscienza di un’indifferenza che, considerando le drammatiche circostanze, si trasforma in un grave senso di colpa. Il responsabile delle risorse umane, sulla spinta del direttore, preoccupato per la reputazione della sua ditta, e di avvenimenti sempre più pressanti, deve riscattarsi, vuole rimediare all’errore. Parte per un viaggio ed accompagna la bara con Julia Regajev nella sua terra natale. Perché Julia, un’ingegnere, è una straniera giunta a Gerusalemme per un motivo che nessuno sa spiegare. Ha accettato di fare la donna delle pulizie pur di non abbandonare quella città, come invece hanno fatto il suo ex marito e suo figlio. Gli eventi conducono il responsabile delle risorse umane ad avvicinarsi ad una terra gelida e sconosciuta, ad una serie di personaggi particolari e, soprattutto, alla ricerca di un significato che dia davvero la misura e il senso a tutta la vicenda e anche oltre. Nessuno dei personaggi de “Il responsabile delle risorse umane” ha un nome. Tranne la donna morta. Una presenza muta e carica, la sua, e, forse, proprio per questo, bisognosa di essere alleggerita da un nome. Anche i luoghi sono sfumati e vaghi. L’autore ce li descrive ma non li nomina e ci si rende conto, come lettori, che non è poi così necessario avere riferimenti né denominazioni puntuali. E’ l’aspetto surreale, e a suo modo affascinante, del libro di Yehoshua. L’attenzione e la narrazione si spostano dalle pagine dedicate direttamente al racconto del responsabile delle risorse umane a dei brani in corsivo che, come inserti corali, ci fanno guardare la vicenda con altri occhi e la descrivono con altre voci. bookavenue n.1

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Un’angolazione narrativa parallela e distinta. Chi è abituato a libri veloci e scorrevoli, probabilmente troverà “Il responsabile delle risorse umane” un testo un po’ faticoso e, comunque, diverso dalle altre opere dello stesso autore. I lettori più allenati, invece, sapranno godere della complessità e della laboriosità dell’opera, del suo dilungarsi o del suo procedere per minuzie e dettagli. La scelta del tema della colpa e della sua necessaria, consapevole espiazione è legata, immagino, alla cultura ebraica di cui Yehoshua è uno dei più illustri rappresentanti contemporanei. C’è sempre un castigo per chi sbaglia, una redenzione da conquistare per chi non ha compiuto il proprio dovere nel migliore dei modi. E in tempi in cui tutti, più o meno, tentano, e spesso riescono, a sollevarsi dai propri obblighi, leggere una storia in cui il senso di responsabilità è così profondo, viscerale e imprescindibile, può essere entusiasmante. Umanamente parlando. Monnalisa lankelot.eu

Abraham Boolie Yehoshua è nato nel 1936 a Gerusalemme. Si è laureato presso la Facoltà di Filosofia e Letteratura Ebraica alla Hebrew University di Gerusalemme. Dal 1963 al 1967 Yehoshua vive e lavora a Parigi come Segretario Generale dell’Unione Mondiale degli Studenti Ebrei. E’ rientrato nel suo paese natale nel ‘67 e pochi anni più tardi e ha iniziato ad insegnare Letteratura Ebraica e Comparata all’Università di Haifa. Insieme ad Amos Oz, Abraham Yehoshua è considerato uno dei rappresentanti più importanti della letteratura israeliana moderna. Abraham B. Yehoshua, "Il responsabile delle risorse umane", Einaudi, Torino, 2005. Traduzione di Alessandra Shomroni.

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da1 giugno online il nuovo BookAvenue.

Nuove rubriche, nuovi autori per nuovi libri


diari di bordo di Valeria Merlini


Diari di Bordo: il luogo dove viaggi immaginari e reali s’incontrano

IL VIAGGIO CHE FARO’…ovvero LA MIA GERUSALEMME LIBERATA di Valeria Merlini Mi concederò un paio di giorni. E sarà un viaggio intenso, con molto da fare e da visitare, da conoscere, da assimilare e, sempre, da portare nel cuore. Sarà un viaggio che, al solito, non verrà mai preparato nei minimi dettagli. Non fa per me, perché è sempre bello lasciarsi stupire. Perché non si potrà decidere a priori se visitare i luoghi ebraici a discapito di quelli cristiani o viceversa. Sarà l’istinto del momento la mia guida. Gerusalemme. L’arrivo. Quindi l’inizio del viaggio che sarà. La città che non si potrà non toccare con mano, la Gerusalemme d’oro che non ha paragoni in tutta la terra. Sacra alle tre grandi religioni monoteiste (Ebraismo, Cristianesimo ed Islam), e contesa per millenni da una varietà di popoli e nazioni, la si potrebbe tranquillamente definire come il centro del mondo. Sarò molto combattuta. Amante del kitsch sarà difficile impedirmi, anche per riposarmi dalle lunghe camminate, di salire sul bus 99, il turisticissimo bus a due piani, il city sightseeing per farla breve. E scenderò alla Porta di Jaffa. Gerusalemme Vecchia è circondata da mura erette nel XVI secolo dal sultano turco Solimano il Magnifico e oggi patrimonio dell’UNESCO. Non completerò per intero il chilometro della loro lunghezza, ma comunque vi salirò per camminare sui suoi bastioni e avrò due possibilità: da Jaffa fino alla Porta di Damasco (zona est del muro) oppure da Jaffa fino alla Porta del Letame (il lato del Monte Sion). Da quest’ultima scenderò al famoso muro Occidentale, il muro del pianto. Qui incontrerò gli Ebrei giunti da ogni angolo del mondo mentre eseguono le preghiere rituali quotidiane e lasciano i loro messaggi rivolti a Dio, scritti su pezzi di carta e nascosti tra le pietre del muro. Vedrò dagli anziani Ebrei in abito tradizionale hassidico, alle teenagers che si avvicinano alla sezione femminile del muro. Se capiterò al muro di sabato (ma anche di lunedì o giovedì) potrò anche assistere alla celebrazione di un Bar Mitzvah. Chiederò poi a due passanti come arrivare al Monte del Tempio, al di là del muro e giace sulla spianata del Tempio o delle Moschee, uno dei luoghi religiosi più contesi al mondo, uno dei luoghi noti per gli scontri che scaturiscono dalle proteste dei giovani Palestinesi. Si metteranno a discutere tra loro perché uno dirà che non si può andare, mentre l’altro, quello con il cappello nero, dirà che i non Ebrei possono accedervi. Mi manderanno quindi verso un’entrata dove verrò controllata al metal detector, ma alla fine sarà un posto di blocco a fermare il mio avanzamento. E allora ritenterò. Non mi resterà altro da fare che passare quindi attraverso i vicoli della Gerusalemme araba, simili ad un suq, sui quali si affacciano innumerevoli botteghe con i loro venditori che cercheranno di attirarmi e con i quali non potrò sottrarmi dal contrattare per questo o per quell’oggetto. Mi fermerò a bere una spremuta d’arancia, buonissima e densa di polpa.

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E allora andrò sulla Via Dolorosa, cioè il cammino percorso da Gesù dall’orto del Getsemani al Calvario, attualmente dalla Porta dei Leoni fino al Santo Sepolcro. La Basilica del Santo Sepolcro, chiamata anche Chiesa della Resurrezione, è una chiesa cristiana costruita sul luogo che la tradizione indica come quello della crocifissione, unzione, sepoltura e resurrezione di Gesù. Ripercorrerò, all’interno, le ultime stazioni della Via Crucis di Gesù. E l’emozione aumenterà fino ad arrivare alla sua tomba. Dove la principale preoccupazione del sorvegliante ortodosso, oltre a quella di regolare il traffico, sembrerà essere quella di pulire con uno straccetto la bava lasciata dai baci dei pellegrini sulle reliquie e redarguire le ragazze con pantaloni troppo stretti. Davanti all’entrata vedrò la pietra rettangolare levigata sopra la quale si prostrano i pellegrini, baciandola e accarezzandola. Alcuni strofinano sopra delle candele per farle diventare benedette. È la pietra dell’unzione, sulla quale secondo la tradizione fu deposto il corpo di Gesù per essere preparato alla sepoltura. Mi fermerò, a questo punto, a pranzare su una terrazza dominante la piccola piazza da cui si accede alla Basilica. La temperatura lo permetterà. Mangerò l’hummus, la famosa purea di ceci con sopra l’olio piccante, i felafel, le polpettine fritte a base di ceci e fave, poi insalata e degli involtini di spinaci. Starò bene qui. La visuale su tutta Gerusalemme Vecchia sarà a mia disposizione: la Cupola della Roccia (o Moschea della Roccia) spiccherà in tutto il suo splendore dorato verso est, mentre con lo sguardo rivolto in basso osserverò la piccola piazza brulicante di tavolini dei bar all’aperto, della fiumana di gente che passeggerà e sentirò il suono dell’acqua che ricade nella fontana. Volgendo invece lo sguardo verso sud non potrò fare a meno di notare le sterpaglie, la spazzatura e le case diroccate, Gerusalemme è una città antichissima, traboccante di vita, di storia e di tragedie, non una cittadina leccata in attesa dei turisti. Terminerò il pranzo e mi rimetterò in marcia. Uscirò dalla Porta Nuova diretta verso il quartiere ultraortodosso di Mea Shearim, situato fuori dalle mura. Mea Shearim, il cui nome significa le cento porte, è uno dei più antichi centri abitati costruiti dagli Ebrei residenti in Palestina prima della nascita del movimento sionista. La sua popolazione è aumentata vertiginosamente, sia per l’immigrazione massiccia soprattutto dall’est Europa, sia perché le famiglie degli haredim (gli Ebrei ultraortodossi) fanno molti figli, secondo l’ammonimento biblico di moltiplicarsi. Non sarà la classica visita ad un quartiere turistico. E lo apprezzerò ancora di più per questo. Man mano che mi avvicinerò al quartiere vedrò andare verso la città vecchia uomini, donne e bambini vestiti nella foggia degli haredim. Le donne con vestiti lunghi o a mezzo polpaccio e camicie con maniche lunghe, quelle sposate nascondono i capelli, spesso rasati, con un foulard, una retina o addirittura una parrucca. Gli uomini con pastrani neri, cappelli neri a larga tesa. Quasi tutti hanno i payot, le lunghe ciocche sulle tempie, che scendono arricciate ai lati della faccia, o arrotolate dietro le orecchie. Le differenze nella foggia dei vestiti, dei cappelli e dei payot fanno riferimento alle diverse provenienze e sette. E una miriade di bambini sarà il loro seguito. Sentirli parlare sarà strano. Non ancora avezza alla lingua, noterò comunque una sensibile differenza. Infatti gli haredim tra loro non parlano l’ebraico, che considerano troppo sacro per essere usato nella vita di tutti i giorni, ma l’yiddish, quel misto di ebraico e tedesco che dall’alto medioevo diventò la lingua degli Ebrei tedeschi e dell’est europeo.

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Durante lo Shabbat, essendo il giorno di riposo del signore dopo i sei giorni della creazione, agli haredim sono vietate 49 attività, tra cui lavorare, guidare, accendere fuochi (quindi cucinare), e in generale qualsiasi tipo di azione che indichi un’intenzionale attività di produrre qualcosa, anche schiacciare un bottone per accendere una lampada. Tant’è vero che esiste tutto un settore della scienza israeliana che produce apparecchi per aggirare le regole, come lampade con sensori che si accendono quando ti avvicini, ascensori che si fermano automaticamente a ogni piano, temporizzatori che scaldano le bevande. Agli haredim è vietato guardare la televisione (non solo al sabato), hanno giornali propri dove spesso le foto delle donne (ad esempio le rappresentanti femminili del parlamento) sono rimosse digitalmente, ma sembra che non si riesca a tenere la gente lontana da internet, nonostante gli anatemi dei rabbini. Proprio per le rigidissime regole che vigono durante lo Shabbat, seguirò il consiglio di non avventurarmi per il quartiere in questa giornata. Pena, non tanto l’essere guardata male, ma nei casi estremi, dover evitare lanci di pietre o sputi, per la motivazione che se anche mi aggirerò per le sue vie adeguatamente vestita, il solo portare la borsa sarà visto ai loro occhi come un lavoro. Per tutti questi motivi mi sembrerà di essere in un altro mondo. La visita al quartiere varrà in ogni caso la pena negli altri giorni, dove potrò assistere alla vita quotidiana, con le scuole, le piccole botteghe e le vie di tutta Mea Shearim. Uno dei divertimenti, delle cose da fare, delle cose che non concepisco non si facciano in un viaggio, sarà intrattenersi alla prima occasione con questo o con quello. La gente vera. E scoprirò così che gli ortodossi non saranno molto propensi a parlare, al contrario degli Ebrei, gentilissimi e molto disponibili al colloquio, che siano essi tassisti, proprietari di negozi di antiquariato o ristoratori. A tutti porrò domande sulla situazione in Israele e sul loro pensiero nei confronti dei Palestinesi. E mi verrà detto di tutto, ognuno avrà la sua versione. Ma ciò che prevarrà sarà il parere unanime verso quel muro costruito a dividere i Palestinesi dagli Ebrei (dal Monte degli Ulivi si potrà vedere chiaramente il muro di confine). E il mio solo rammarico sarà non aver avuto l’occasione di superare quel muro per chiedere ai Palestinesi il loro pensiero. Come ristorante per questa prima cena mi affiderò al consiglio di esperti e al fedele Tripadvisor: la scelta cadrà su Olive and Fish. E non sbaglierò. Il secondo giorno ritornerò sui miei passi. Non sarà facile entrare alla spianata del Tempio (Monte del Tempio, o spianata delle Moschee). I vari accessi risulteranno tutti sbarrati da soldati che mi daranno indicazioni non sempre chiare sull’entrata davvero agibile. Alla fine non mi resterà altro da fare che ritornare al muro del pianto, attraversare tutta la piazza e salire su una lunga passerella coperta per arrivare alla sommità del muro. Qui un altro minuzioso controllo con perquisizione delle borse e metal detector, mi permetteranno di accedere finalmente sul Monte del Tempio, sotto custodia musulmana. Sempre se indovinerò le tempistiche. L’accesso alla spianata è infatti dal 2000 consentito solo dalla domenica al giovedì in orari molto ristretti, vale a dire dalle 7 alle 11 del mattino. Gerusalemme è una città di colline e qui mi troverò sulla sommità di una di esse. Il luogo più sacro agli Ebrei. Secondo la tradizione qui si trova la Grande Roccia su cui Dio fondò il mondo, su cui Adamo, Eva, Caino e Abele compivano i sacrifici rituali e su cui Abramo avrebbe dovuto sacrificare il figlio Isacco. Attorno a questa pietra Salomone, secondo la Bibbia, fece costruire il I tempio intorno al 1000 a.C., ponendo al suo interno l’Arca bookavenue n.1

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dell’Alleanza, la cassa di legno rivestita d’oro che Dio donò a Mosè come prova della sua esistenza, dentro la quale erano custodite le tavole della legge, il bastone di Aronne, fratello di Mosè e sommo sacerdote, e la manna, il cibo divino che sostenne gli Ebrei nelle peregrinazioni nel deserto. Gli Ebrei non salgono in questo luogo perché non essendo chiara l’esatta ubicazione del tempio di Salomone, temono di calpestarne la sacralità del suolo. Il Monte del Tempio è oggi una vasta spianata lastricata disseminata di cipressi. Rispetto alla confusione della città vecchia, per non parlare della massa brulicante del Santo Sepolcro, qui troverò una pace assoluta, pochissimi turisti, alcuni arabi dalla lunga veste azzurra. Una donna velata scivolerà silenziosamente, quasi senza ombra, sul bianco pavimento di arenaria. Ed ecco che in fondo, sopraelevato su una scalinata, potrò ammirare la maestosa e armoniosa mole della Cupola della Roccia. La moschea più antica del mondo ancora oggi esistente è rotonda e la sua cupola dorata è diventata il simbolo di Gerusalemme, stagliandosi come un sole contro l’azzurro del cielo. Nella parte della spianata direttamente opposta alla Cupola della Roccia vedrò una costruzione senza grosse attrattive architettoniche, ma il vero e proprio luogo di culto: la Moschea Al-Aqsa, in grado di accogliere fino a 5000 fedeli. Nel Corano sta scritto che in un viaggio durato una sola notte Maometto volò su un cavallo alato dalla Mecca fino alla moschea più lontana, dove salì in cielo e incontrò Allah. Non sta scritto che questa moschea fosse a Gerusalemme, dove al quel tempo non c’erano ancora moschee, ma chissà perché circa 100 anni fa, all’epoca dell’immigrazione degli Ebrei in Palestina, cominciò a diffondersi la credenza che Maometto fosse asceso al cielo nella moschea Al-Aqsa. Al-Aqsa diventò da allora, come se lo fosse sempre stato, il terzo luogo più santo dell’Islam, dopo Mecca e Medina. Il guardiano nella sua allabiyah azzurra, con lo zucchetto in testa, mi inviterà infine ad andarmene. Giungerà anche il momento di arrivare alle pendici del Monte degli Ulivi, costellato di chiese che ricordano gli ultimi avvenimeti della vita di Gesù e di Maria raccontati dai vangeli. Il sole picchierà, ma io affronterò la salita per ammirare il panorama. Da qui andrò poi verso Yad Vashem, il museo dell’Olocausto. Tappa irrinunciabile e imperdibile per me, che ogni anno puntuale per il 27 gennaio preparo lo speciale sul Giorno della Memoria. Il tassista sarà un palestinese loquace che si dimostrerà una guida perfetta. Attraverseremo il quartiere residenziale di Rehavia, con belle ville, ambasciate, giardini. Mi mostrerà la residenza del primo ministro Netanyahu, una normalissima casa cubica di cemento grigio. Chiederò al tassista per chi ha votato e lui mi risponderà: “…tanto cambiano le facce, ma le idee sono le stesse”. Mentre io replicherò che da noi non cambiano nemmeno le facce. Il museo dell’Olocausto, situato a circa 10 chilometri dalla città vecchia in una foresta di cedri, è un vasto complesso di architetture moderne, giardini e sculture. Yad Vashem, che in ebraico significa un memoriale e un nome, è stato inaugurato nel 2005 per raccogliere le testimonianze dell’Olocausto e onorare le sue vittime. La struttura triangolare dell’edificio principale penetra la montagna da una parte all’altra, con le due estremità drammaticamente sospese nell’aria

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Il triangolo simboleggia una delle due metà della stella di David, perché l’Olocausto ha dimezzato la popolazione ebraica nel mondo. Il museo raccoglie migliaia di documenti storici, lettere, fotografie, testimonianze dei sopravvissuti, descrivendo la storia dell’Olocausto in un crescendo di angosciante brutalità che lascia totalmente schiacciati. Il mondo si divideva in due parti: quella in cui gli Ebrei non potevano andare e quella in cui non potevano stare. Nel museo vedrò anche il Giardino dei Giusti, dedicato ai Giusti tra le nazioni che nel mondo si sono prodigati nell’aiutare il popolo ebreo, come l’italiano Perlasca e il tedesco Schindler. Avviandomi verso l’uscita passerò di fianco alla grande cupola luminosa con incisi i nomi dei milioni di Ebrei scomparsi (la Sala dei Nomi), quindi verso la luce e infine, oltrepassando una porta di cristallo, su una terrazza sospesa sopra Gerusalemme. E resterò senza fiato, per il sole, il vento e le splendide colline. Il ricordo del milione e mezzo di bambini morti nell’Olocausto è custodito invece nel Children’s Memorial, scavato nella roccia. Nel buio assoluto, la luce di una singola candela si riflette in centinaia di specchi, come se mi trovassi sotto la volta di un limpidissimo cielo stellato, mentre una voce pronuncia il nome del bambino, la sua provenienza e l’età in cui è morto. Sarò sola qui dentro, l’emozione sarà enorme, tanto da farmi considerare questo come il vero Santo Sepolcro di Gerusalemme. All’uscita troverò la scultura che raffigura un vecchio che abbraccia dei bambini, Janus Korczak, il nome di penna del pediatra-scrittore direttore dell’orfanotrofio per bambini Ebrei di Varsavia. Una calma indefinibile calerà qui fuori. Il silenzio e il rispetto per chi non c’è più. A questo punto della giornata mi ricorderò che non potrò lasciare Gerusalemme senza un passaggio in questa piccola gemma, che potrebbe sfuggire a chi non sa dove cercarlo: Barood. Non un vero ristorante, piuttosto un bar con squisiti assaggi di cucina sefardita, molta atmosfera, musica non assordante e alcuni deliziosi liquori di frutta fatti in casa. Ogni viaggio che si rispetti per la sottoscritta merita una visita o ad un museo della fotografia o ad una vecchia biblioteca. Sceglierò invece l’Israel Museum e al suo interno visiterò solo il Santuario del Libro, dove sono conservati i famosi rotoli del Mar Morto, una raccolta di documenti religiosi, rituali e mistici, quasi tutti in ebraico, alcuni in aramaico. Il pezzo più importante è il grande rotolo di Isaia, scritto 2200 anni fa, lungo 7,5 metri, formato da 17 pezzi di pergamena cuciti insieme, contenente tutti i 66 capitoli del libro di Isaia. All’esterno il Santuario del Libro ha la forma del coperchio di una giara (come quella in cui furono ritrovati i rotoli, nel 1947), di un bianco candido, che si staglia contro una scultura quadrata nera, a simboleggiare la luce che emerge dalle tenebre. Un taxi mi riporterà, a questo punto della mia giornata, davanti alla Torre o Cittadella di David, subito al di là della Porta di Jaffa. La Torre di David è una cittadella difensiva circondata da possenti bastioni e torri, ma delle tre torri edificate da Erode rimangono solo i resti della più grande. Leggerò che all’interno della cittadella è allestito un museo che in modo molto semplice e accattivante descrive la storia di Israele con plastici, animazioni, modelli, descrizioni, disegni e cartine. Ma il tempo sarà tiranno. Dovrò proseguire. Uscita dalla cittadella di David affronterò un altro capitolo non meno strano e interessante: il quartiere armeno. La comunità armena di Gerusalemme conta circa 3000 persone, ha una struttura molto chiusa, con bookavenue n.1

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proprie scuole, chiese, seminari e biblioteche, con il quartiere residenziale circondato da mura. Gli Armeni hanno avuto una storia per molti versi simile a quella ebraica, fatta di persecuzioni, piccoli e grandi massacri, fino al genocidio perpetrato dai Ottomani nel 1915, cui seguì la diaspora in cui parecchi Armeni fuggirono anche qui a Gerusalemme. Il quartiere è austero, molto pulito, rallegrato dai negozi di ceramiche. Il nonno della ragazza che mi venderà i sottopentola dipinti a mano da lei è appunto arrivato a Gerusalemme intorno al 1920. La storia continua a grondar sangue dappertutto, e al tempo stesso la vita va avanti. Andrò poi verso il quartiere ebraico, totalmente distrutto durante la guerra arabo-israeliana del 1948, e completamente riedificato dopo la riunificazione di Gerusalemme nel 1967. Non avendo ancora visitato nessuna sinagoga mi dedicherò a cercare una delle più caratteristiche. Troverò così una piccola sinagoga con la particolarità di essere l’unica a non essere stata distrutta durante la guerra del 1948. Potrò entrare liberamente e nessuno farà caso a me. Mi troverò così in una stanza semplice, anche abbastanza piccola, con dei banchi, una biblioteca, un armadio addossato ad una delle pareti contenente la Torah. Le sinagoghe decorate e artistiche sono una caratteristica dell’Europa, dove gli Ebrei subivano l’influenza e la competizione del culto locale. Sarò colpita dall’osservare un vecchio mentre pregherà cantilenando appoggiato alla finestra, dondolandosi avanti e indietro. Ma uscirò subito, vergognandomi un po’ per averlo spiato in questo suo momento così privato. Mi fermerò in un bar sulla piazza principale per un buon tè alla menta prima di decidere dove cenare. E la scelta cadrà su quel ristorante molto carino adocchiato nel quartiere armeno. Dove la cena sarà accompagnata dal lustro per gli occhi: scenderò infatti nel suo seminterrato decorato con dipinti e candelabri, pieno di mobili antichi, vecchie lampade di bronzo, vetrinette con esposti gioielli. E così terminerà il mio viaggio che sarà… Un’amica prima della partenza mi dirà: “Gerusalemme è intrisa di lacrime, sangue, storia e martiri. E come ci giungi, senti tutto. Che tu creda o meno”. E io, con questo viaggio, lo sperimenterò sulla mia pelle. Anche a costo di bruciarmi. Uno degli aspetti più affascinanti di Gerusalemme sarà realizzare come in essa si intreccino gli avvenimenti storici. Nessuna città al mondo ha avuto una storia così complicata e interessante, legata agli avvenimenti storici e alle credenze religiose di oriente e occidente. E dove finisca la storia e inizi la pia o la losca invenzione è difficile dire. Fine.

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La guerra che non possiamo vincere di David Grossmam


Come le volpi del racconto biblico di Sansone, legate per la coda a un'unica torcia in fiamme, così noi e i palestinesi ci trasciniamo l'un l'altro, malgrado la disparità delle nostre forze. E anche quando tentiamo di staccarci non facciamo che attizzare il fuoco di chi è legato a noi - il nostro doppio, la nostra tragedia - e il fuoco che brucia noi stessi. Per questo, in mezzo all'esaltazione nazionalista che travolge oggi Israele, non guasterebbe ricordare che anche quest'ultima operazione a Gaza, in fin dei conti, non è che una tappa lungo un cammino di violenza e di odio in cui talvolta si vince e talaltra si perde ma che, in ultimo, ci condurrà alla rovina. Assieme al senso di soddisfazione per il riscatto dello smacco subito da Israele nella seconda guerra del Libano faremmo meglio ad ascoltare la voce che ci dice che il successo di Tsahal su Hamas non è la prova decisiva che lo Stato ebraico ha avuto ragione a scatenare una simile offensiva militare, e di certo non giustifica il modo in cu ha agito nel corso di questa offensiva. Tale successo prova unicamente che Israele è molto più forte di Hamas e che, all'occasione, può mostrarsi, a modo suo, inflessibile e brutale. Allo stesso modo il successo dell'operazione non ha risolto le cause che l'hanno scatenata. Israele tiene ancora sotto controllo la maggior parte del territorio palestinese e non si dichiara pronto a rinunciare all'occupazione e alle colonie. Hamas continua a rifiutare di riconoscere l'esistenza dello Stato ebraico e, così facendo, ostacola una reale possibilità di dialogo. L'offensiva di Gaza non ha permesso di compiere nessun passo verso un vero superamento di questi ostacoli. Al contrario: i morti e la devastazione causati da Israele ci garantiscono che un'altra generazione di palestinesi crescerà nell'odio e nella sete di vendetta. Il fanatismo di Hamas, responsabile di aver valutato male il rapporto di forza con Tsahal, sarà esacerbato dalla sconfitta, intaserà i canali del dialogo e comprometterà la sua capacità di servire i veri interessi palestinesi. Ma quando l'operazione sarà conclusa e le dimensioni della tragedia saranno sotto gli occhi di tutti (al punto che, forse, per un breve istante, anche i sofisticati meccanismi di autogiustificazione e di rimozione in atto oggi in Israele verranno accantonati), allora anche la coscienza israeliana apprenderà una lezione. Forse capiremo finalmente che nel nostro comportamento c'è qualcosa di profondamente sbagliato, di immorale, di poco saggio, che

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rinfocola la fiamma che, di volta in volta, ci consuma. E' naturale che i palestinesi non possano essere sollevati dalla responsabilità dei loro errori, dei loro crimini. Un atteggiamento simile da parte nostra sottintenderebbe un disprezzo e un senso di superiorità nei loro confronti, come se non fossero adulti coscienti delle proprie azioni e dei propri sbagli. È indubbio che la popolazione di Gaza sia stata "strozzata" da Israele ma aveva a sua disposizione molte vie per protestare e manifestare il suo disagio oltre a quella di lanciare migliaia di razzi su civili innocenti. Questo non va dimenticato. Non possiamo perdonare i palestinesi, trattarli con clemenza come se fosse logico che, nei momenti di difficoltà, il loro unico modo di reagire, quasi automatico, sia il ricorso alla violenza. Ma anche quando i palestinesi si comportano con cieca aggressività - con attentati suicidi e lanci di Qassam - Israele rimane molto più forte di loro e ha ancora la possibilità di influenzare enormemente il livello di violenza nella regione, di minimizzarlo, di cercare di annullarlo. La recente offensiva non mostra però che qualcuno dei nostri vertici politici abbia consapevolmente, e responsabilmente, afferrato questo punto critico. Arriverà il giorno in cui cercheremo di curare le ferite che abbiamo procurato oggi. Ma quel giorno arriverà davvero se non capiremo che la forza militare non può essere lo strumento con cui spianare la nostra strada dinanzi al popolo arabo? Arriverà se non assimileremo il significato della responsabilità che gli articolati legami e i rapporti che avevamo in passato, e che avremo in futuro, con i palestinesi della Cisgiordania, della striscia di Gaza, della Galilea, ci impongono? Quando il variopinto fumo dei proclami di vittoria dei politici si dissolverà, quando finalmente comprenderemo il divario tra i risultati ottenuti e ciò che ci serve veramente per condurre un'esistenza normale in questa regione, quando ammetteremo che un intero Stato si è smaniosamente autoipnotizzato perché aveva un estremo bisogno di credere che Gaza avrebbe curato la ferita del Libano, forse pareggeremo i conti con chi, di volta in volta, incita l'opinione pubblica israeliana all'arroganza e al compiacimento nell'uso delle armi. Chi ci insegna, da anni, a disprezzare la fede nella pace, nella speranza di un cambiamento nei rapporti con gli arabi. Chi ci convince che gli arabi capiscono solo il linguaggio della forza ed è quindi quello che

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dobbiamo usare con loro. E siccome lo abbiamo fatto per così tanti anni, abbiamo dimenticato che ci sono altre lingue che si possono parlare con gli esseri umani, persino con nemici giurati come Hamas. Lingue che noi israeliani conosciamo altrettanto bene di quella parlata dagli aerei da combattimento e dai carri armati. Parlare con i palestinesi. Questa deve essere la conclusione di quest'ultimo round di violenza. Parlare anche con chi non riconosce il nostro diritto di vivere qui. Anziché ignorare Hamas faremmo bene a sfruttare la realtà che si è creata per intavolare subito un dialogo, per raggiungere un accordo con tutto il popolo palestinese. Parlare per capire che la realtà non è soltanto quella dei racconti a tenuta stagna che noi e i palestinesi ripetiamo a noi stessi da generazioni. Racconti nei quali siamo imprigionati e di cui una parte non indifferente è costituita da fantasie, da desideri, da incubi. Parlare per creare, in questa realtà opaca e sorda, un'alternativa, che, nel turbine della guerra, non trova quasi posto né speranza, e neppure chi creda in essa: la possibilità di esprimerci. Parlare come strategia calcolata. Intavolare un dialogo, impuntarsi per mantenerlo, anche a costo di sbattere la testa contro un muro, anche se, sulle prime, questa sembra un'opzione disperata. A lungo andare questa ostinazione potrebbe contribuire alla nostra sicurezza molto più di centinaia di aerei che sganciano bombe sulle città e sui loro abitanti. Parlare con la consapevolezza, nata dalla visione delle recenti immagini, che la distruzione che possiamo procurarci a vicenda, ogni popolo a modo suo, è talmente vasta, corrosiva, insensata, che se dovessimo arrenderci alla sua logica alla fine ne verremmo annientati. Parlare, perché ciò che è avvenuto nelle ultime settimane nella striscia di Gaza ci pone davanti a uno specchio nel quale si riflette un volto per il quale, se lo guardassimo dall'esterno o se fosse quello di un altro popolo, proveremmo orrore. Capiremmo che la nostra vittoria non è una vera vittoria, che la guerra di Gaza non ha curato la ferita che avevamo disperatamente bisogno di medicare. Al contrario, ha rivelato ancor più i nostri errori di rotta, tragici e ripetuti, e la profondità della trappola in cui siamo imprigionati. [David Grossman]

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Da tempo David Grossman è impegnato perché vi sia una soluzione pacifica del conflitto che da decenni divide israeliani e palestinesi. Ma anche per quanto riguarda le azioni di guerra contro il Libano aveva espresso il proprio dissenso e consigliato direttamente al Primo ministro Olmert - ancor prima che il figlio Uri fosse coinvolto, e ucciso, nel conflitto libanese - la via del dialogo anziché quella delle bombe.

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bookavenue.it la rivista di libri e culture letterarie bookavenue@bookavenue.it

il prossimo numero sara pubblicato il 10 giugno, Paese ospite: Gli Stati Uniti


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