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Quell’angelo di Ricciardi Maurizio de Giovanni
from L'Espresso 51
by BFCMedia
Quell’angelo di Ricciardi
Leggi razziali, autarchia, alleanza col nazismo. Sullo sfondo di “Caminito”, subito successo di lettori, la follia della storia. E una promessa tassativa al Commissario
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di Maurizio de Giovanni
na delle domande più
Ufrequenti e banali, ma anche tra le più difficili alle quali rispondere, è: da dove viene l ’idea di questo romanzo? Vedrete il sorriso dello scrittore appannarsi, lo sguardo sfuggire per un attimo, la voce incrinarsi. Facilmente emetterà un suono, un fonema di incertezza, e magari schioccherà la lingua. Se gli sarà possibile, si manterrà generico ed eviterà di rispondere, divagando chiaramente e cambiando argomento (gli scrittori sanno essere abilissimi in quest’arte). Riser vatezza? Timidezza? Volontà di difendere il proprio territorio da curiosità indiscrete? Niente di tutto questo. Semplicemente, la risposta alla domanda è oscura allo stesso scrittore.
Spieghiamo meglio, ricorrendo all ’agricoltura (alla quale il processo creativo assomiglia assai più di quanto si sia disposti ad ammettere). Immaginiamo un seme, che approda su un terreno portato chissà da che, vento, acqua, animali. Nessuno lo vede arrivare, nessuno si accorge del silenzioso lavoro che da subito comincia a fare, aprendosi e prendendo nutrimento sotto la superficie. Poi spunta qualcosa, e comincia a crescere mettendo foglie e rami. A llo scrittore l ’ idea è ev idente solo allora, quando la vede; ed è autonoma e identitaria, molto diversa dall ’anonimo seme arrivato nel terriccio chissà come e da dove.
“Caminito” v iene forse dalla canzone, un tango stranissimo e straordinariamente bello, nato prima nella musica (1923) e poi nel testo (1926), autori diversi e diversi sentimenti, migliaia di chilometri di distanza fisica ma nessuna tra i cuori. O arriva trasportato dall ’ identità musicale che unisce quella melodia alla canzone della mia città, attraverso le musiche del sud del mondo, il fado, la bossa nova, il samba. O dalla malinconia di un’epoca, la fine degli anni Trenta, che era diventata così radicalmente diversa dal 1934, anno in cui avevo lasciato R icciardi e il suo mondo: leggi razziali, sanzioni internazionali, autarchia, follia dell ’ impero e alleanza con la Germania nazista. Semi sparsi, frammenti agitati dal vento, non ancora un’ idea compiuta, non ancora un romanzo: e soprattutto in contrasto aperto con la decisione di non raccontare più di quel mondo, di
“Caminito” (Einaudi, pp. 280, € 19). A sinistra: Ricciardi interpretato in tv da Lino Guanciale. Sotto: lo scrittore

quella nuova euforica follia sociale, di quella potenza militare che era tutt’altro che potente.
Poi, l ’estate scorsa, mi sono ritrovato di fronte alla seria ipotesi di dover morire. E di lasciare tutto incompiuto, di abbandonare le cose che stavo facendo e quelle che av rei voluto fare. In un letto d ’ospedale, privato del contatto col resto del mondo e coi miei cari, senza poter connettermi o comunicare, solo coi miei pensieri. Niente dolore, niente paure: il sentimento dominante era un’ immensa, straziante nostalgia del futuro. E il riconoscimento nuovo, devastante, di una personale fragilità che non sapevo, e che collocava i miei passi inconsapevolmente sicuri su un filo sospeso a mezz’aria.
È stato allora che tra un infermiere e l ’altro è comparso R icciardi. Non aveva l ’aria di rimprovero che mi aspettavo, per averlo abbandonato tre anni prima nonostante avesse continuato a sussurrarmi storie; e nemmeno era poi invecchiato più di tanto, ev identemente mantenuto giovane da tutto l ’amore dei lettori che nel frattempo non hanno mai smesso di chiedermi sue notizie.
Non mi ha detto molto, gli è bastato starsene lì a fissarmi; sapevamo tutti e due che il seme aveva attecchito, e che la piantina della storia era ormai da tempo forte e netta, pronta a trovare spazio articolandosi in un romanzo. Il suo sguardo significava che non potevo tenerlo ancora fuori la porta, che dovevo lasciarlo entrare.
È stato allora che ho fatto la promessa, a lui prima ancora che a me stesso o ai lettori, che se fossi sopravvissuto e se avessi av uto di nuovo la forza e l ’energia per mettermi a raccontare, la prima storia sarebbe stata la sua. Ammetto che in quel momento era tutto abbastanza distante, e indistinto nei contorni; ma chi conosce il fenomeno della scrittura, e sa qualcosa del modo in cui i personaggi vivono e rivendicano la propria indipendenza, capisce bene di che cosa sto parlando. I giorni successivi, dedicati al recupero di una condizione minimamente accettabile, sono stati pieni di una nuova determinazione: la storia da scrivere. Il ritorno di Ricciardi. Non dirò che mi ci sono aggrappato, perché non è vero; i miei affetti, la voglia di tornare a percorrere il mondo e l ’odore del mare venivano prima, e costituivano una bella lepre mentale dietro la quale correre. Ma nelle pieghe e nelle piaghe di quel tempo sospeso, dal quale purtroppo non si esce mai più del tutto, Ricciardi c’era. E con lui, il suo mondo fatto di tanti personaggi e di tanti sapori e odori, di scorci panoramici e di miserie, di odio e rancore e di amore e dolcezza.
Mi ci sono ritrovato a passegg iare, avendo smesso di porre le inconsapevoli barriere che lo hanno lasciato per tre anni indietro rispetto alle altre storie. Devo dire che i Bastardi di Pizzofalcone, Sara e Mina Settembre hanno capito e si sono dimostrati più disciplinati e discreti di quanto io stesso li immag inassi capaci. Hanno lasciato al loro antico compagno di v iagg io più strada e spazio, e si sono disposti in serena attesa, av ranno il loro turno: adesso però toccava a R icciardi.
A lla fine l ’ ho scritto. È stato bello? Sì, lo è stato. Ho ritrovato sensazioni note e dolci, sono tornate le parole che nella narrazione della contemporaneità non posso usare, i sentimenti di allora e le canzoni. E anche nuove atmosfere, una Buenos A ires autunnale fatta di fumo e tango e pioggia, e nuove emozioni di maternità e paternità compiute e incompiute. È stato doloroso? Sì, lo è stato. Per un tempo lanciato verso l ’abisso, per nuove povertà assai meno dignitose, per infamie che comparivano nella nostra storia per la prima volta.
Adesso sono molto più sereno delle a ltre volte. In genere l ’uscita di un nuovo libro implica ansie e tensioni, ci si chiede se la storia piacerà e se incontrerà il g usto dei lettori. Si controllano le classifiche e si leggono le recensioni, cercando consensi e sf uggendo dissensi. Stavolta no. Stavolta, quando “Caminito” è arrivato sug li scaffa li e non è stata più questione mia o di R icciardi ma dei lettori, io ho sorriso e me ne sono disinteressato. Perché avevo una promessa da mantenere. E l ’avevo mantenuta . Tutto qui.