
5 minute read
Il ritorno dei confini colloquio con Ivan Krastev di Wlodek Goldkorn
from L'Espresso 51
by BFCMedia

N
Advertisement
on siamo tornati ai tempi di prima della caduta del Muro di Berlino, a un passato di cui qualcuno è nostalgico ma che la maggior parte degli europei sperava superato, salvo ripiombare in un incubo con la guerra in Ucraina, ma stiamo vivendo in un’epoca in cui manca il futuro. Questa non è certamente una buona notizia per la democrazia, che però dimostra delle capacità sorprendenti di difendersi. Ivan Krastev ha 57 anni, è nato in Bulgaria, abita a Vienna dove è fellow all’Istituto per le Scienze dell’Uomo, si occupa della crisi del liberalismo, dell’ascesa dei populismi, del fenomeno migratorio e delle politiche dell’identità, e scrive su giornali come il “New York Times”, la “Frankfurter Allgemeine Zeitung”.
La conversazione comincia con una constatazione obbligatoria, per cui non solo la Storia non è finita, come teorizzava dopo la fine della guerra fredda Francis Fukuyama, ma anzi è tornata con una inaspettata prepotenza: una guerra in Europa, di tipo coloniale fra un Impero e un Paese che difende la sua libertà. Krastev sorride e risponde:
«Le guerre erano date per finite, forse per sempre. Ma lo erano in Europa occidentale, altrove invece sono continuate, talvolta sotto la forma di guerre civili. E il numero delle vittime dei conflitti armati dal 1989 e fino a oggi corrisponde alla metà delle vittime della seconda guerra mondiale». Precisa: «Comunque il libro di Fukuyama sulla fine della storia era un bestseller, ma solo negli States e in Europa. Altrove si leggeva il saggio di Samuel Huntington “Lo scontro delle civiltà”». Riflette: «Il processo di decolonizzazione ebbe inizio in Europa negli anni Venti dell’Ottocento, con la lotta per l’indipendenza della Grecia dall’Impero Ottomano e sta finendo in Europa con la guerra fra Russia e Ucraina. Un cerchio si chiude». Ironia della Storia, il movimento nazionalista ellenico nasceva a Odessa, oggi città al centro delle cronache belliche. Il professore prosegue: «Il problema è che quando gli Usa e l’Europa dicono agli asiatici o ai latinoamericani: dovete essere solidali con l’Ucraina dato che è una guerra di decolonizzazione, loro rispondono, non è la nostra decolonizzazione. Ecco perché questa guerra è una sfida prima di tutto per l’Europa».
Però, a guardare bene, l’Europa è stata una specie di progetto che possiamo chiamare “post-storico”: democrazia, pace, diritti universali e anche una certa gioia della vita. «Certo» è la risposta: «L’Unione europea è stata costruita con l’idea che il potere militare non abbia tanta importanza quanto invece lo ha il potere economico e i modi di vita, il soft power». Si ferma, dice: «La guerra in corso è fra un impero autocratico e una democrazia disfunzionale. E la resistenza degli ucraini è, a pensarci bene, un successo della democrazia». Sorride: «Ma è anche un successo del nazionalismo, seppure civico. La domanda è: saremo in grado di conciliare una certa misura di nazionalismo con la democrazia?». Allarga il discorso, per far capire che non parla dell’Ucraina e non solo dei Paesi ex-comunisti. Dice: «Abbiamo creato in Occidente delle società in cui la gente non era disposta a sop-


portare sacrifici perché le persone si consideravano più consumatori che cittadini. I cittadini hanno bisogno di leader e sono disposti a sopportare sacrifici. I consumatori invece necessitano di camerieri». Sorride di nuovo: «Dal 1987, dal dopo Reagan e fino all’11 settembre 2001, la parola sacrificio non è mai stata pronunciata da un presidente americano. Il contratto sociale era “sacrifice free”». Obiezione. È facile parlare dei sacrifici se si è borghesi e si fa parte delle élite. Non altrettanto per chi è precario o percepisce un salario bassissimo. Risposta: «La disuguaglianza in guerra diventa una questione di sicurezza. Se non si possono pagare le bollette si scende in piazza, giustamente. Ecco perché la risposta a questa crisi è diversa da quella alla crisi finanziaria del 2008. Allora si parlava di austerità. Oggi la parola austerità è sparita (come prima la parola sacrificio)». E poi: «Noi dell’Unione europea non siamo in guerra, vediamo altri morire. Però da quando c’è guerra, la gente deve sapere che nelle elezioni vota per qualcuno che potrebbe diventare il leader in guerra. E questo è il ritorno della politica e della Storia».
Abbiamo parlato del nazionalismo. Krastev, impaziente interrompe: «Il nazionalismo e la democrazia hanno un legame molto più stretto di quanto si usi e osi pensare. La democrazia comincia con il fatto che c’è una nazione e che i cittadini votano (e non entro nella questione di come si diventa cittadino). All’inizio della pandemia lo spirito nazionalista era in crescita ovunque in Europa. Era un fenomeno normale: la prima preoccupazione di un governo sono coloro che l’ hanno votato e i connazionali». Sospira: «La stessa cosa la posso però raccontare in un altro modo, riferito non alla pandemia ma ai rifugiati, la sostanza comunque non cambia. Ecco, c’è stata indignazione per il fatto che alcuni Paesi europei, per esempio la Polonia, hanno accolto molto bene i profughi ucraini mentre continuavano a rifiutare gli altri. Io invece penso che la gente tenda a sentirsi più vicina a chi è percepito come simile. Diciamolo: il fatto che ci si occupi prima di tutto della propria comunità non è nazionalismo». E allora cosa è nazionalismo? Risposta: «Credere che vinci solo se gli altri perdono. Ma non funziona. Infatti durante il Covid, i vaccini sono stati comprati insieme da tutti i Paesi dell’Unione. Lo stesso vale oggi per la crisi ucraina, la possiamo affrontare solo tutti insieme. E poi, ecco, quello che non va
9 novembre 1989, uomini contro il muro di Berlino. A destra: il politologo Ivan Krastev
