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Alle origini della guerra Caterina Bonvicini
from L'Espresso 51
by BFCMedia
nel nazionalismo è la sua teatralità». Per teatralità intende il vittimismo? «Sì. Il discorso per cui nessuno come noi sa cosa vuole dire sofferenza. Ripeto, è naturale la cura della tua comunità. La questione è come concili questo con una visione strategica, cioè con l’Europa». Tace e poi: «A partire dagli anni Novanta, tutti hanno parlato di democrazia inclusiva. Ma democrazia comporta pure esclusione. Si discute su chi è dentro e chi è fuori. Sono questioni identitarie complesse».
E così, siamo entrati nel cuore della questione delle identità (al plurale), dei confini e dei limiti. Dice il nostro interlocutore: «Non sono d’accordo con l’affermazione per cui siamo tornati alla guerra fredda. Intanto a differenza del comunismo, un’ideologia radicale e un modello unico di esercitare il potere, le autocrazie si muovono ciascuna per conto suo e con modelli diversi. Siamo invece tornati alla politica delle identità a livello globale. Prenda per esempio Putin. Nei suoi discorsi usa il linguaggio delle guerre di cultura americane: la retorica anti Lgbt, il con-
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Alle origini della guerra
di Caterina Bonvicini
Forse è venuto il momento di tornare un po’ indietro, alle origini della guerra in Ucraina. E non c’è modo migliore che farlo in compagnia di Pierre Sautreuil, un giornalista francese che a soli vent’anni è stato a lungo in Donbass, fin dal 2014, quando quel conflitto non interessava a nessuno. “Le guerre perdute di Jurij Beljaev” (Trad. di Silvia Manzio e Silvia Mercurio, Einaudi), uscito in Francia nel 2018, è molto più di un reportage, si legge come un appassionante romanzo perché è costruito intorno al rapporto con un separatista russo, eroe negativo del suo tempo. Sia chiaro subito: non c’è ambiguità filorussa in Sautreuil, la sua posizione è netta. La spasmodica curiosità per Jurij, detto il Gatto, è più un desiderio di conoscere il male da vicino, anche a costo di restarne affascinato. È un modo per entrare nella Russia degli anni Novanta, quella che ha prodotto Putin e poi la guerra, però da una diversa prospettiva, perché Jurij fa parte dei separatisti nemici del Cremlino. Si entra a fari spenti in una spettrale Repubblica popolare di Lugansk, dove le acque del Donec sembrano uno Stige, attraverso ponti crivellati, guard-rail squarciati da granate, posti di blocco, crateri, strade devastate, fra rovine di villaggi, finestre rotte tappate con i cartoni e un’aria che sa di plastica bruciata. Si entra negli alberghi ucraini, dove si muore di freddo e non c’è acqua corrente. Si entra persino nelle stanze dei signori della guerra russi, suite disseminate «di proiettili di kalashnikov, soprammobili pacchiani e preservativi», dove la bandiera ucraina viene usata come zerbino. Si cammina fra soldati che «ciondolano sul marciapiede nelle loro uniformi disparate. Denti marci, mani gialle, indelebili incrostazioni di carbone sotto le unghie, tra le palpebre e in ogni minima piega della pelle, facce da minatori di fondo». Ecco il Donbass. È il regno dei signori della guerra. Fra i separatisti russi ci sono corrotti uomini politici che godono della fiducia del Cremlino e approfittano della situazione per fare affari con il traffico di armi o di aiuti umanitari, ci sono gli uomini della brigata Wagner che fanno il lavoro sporco al soldo di Putin, ma anche cani sciolti, alla testa di eserciti personali, scomodi alla stessa Russia. Gente che appartiene «alla razza dei perdenti e degli eccentrici, di quelli che vivono ai margini finché, con il favore
cetto dell’Occidente corrotto e simili». Chiarisce: «Non si tratta dell’affermazione di identità forti quanto della paura che la tua sia un’identità debole, della convinzione che l’identità possa essere facilmente perduta, dissolta». Questo significa che c’è una politica di nostalgia, dato che il concetto dell’identità è spesso nostalgico? «Sì», risponde il professore e spiega: «C’è paura della labilità, timore che non ci siano più limiti. E per questo che la politica ha oggi come oggetto i confini». Krastev, all’improvviso, ride. E poi: «Il politologo americano Ken Jowitt ha dato una definizione del confine. Ce ne sono di tre tipi. Il primo: “barricata”. Assomiglia al matrimonio cattolico: impossibile il divorzio. Il secondo: “bar da single”. Si sta una notte insieme ma all’indomani niente impegno né memoria. Il terzo: “liberale”. Assomiglia a un matrimonio moderno. Si può divorziare. Oggi il confine e le identità liberali», prosegue, «sono attaccati da due parti. Da un lato da gente convinta che l’identità non esista o possa essere cambiata a piacimento ogni giorno, dall’altro dai nazionalisti persuasi
del caos, non intraprendono l’ascesa, appoggiandosi alle macerie e arrampicandosi sulle rovine di questa società che non li ha voluti, e una volta giunti in cima piantano una bandiera nera». A questa seconda categoria appartiene Jurij, fuggito in Donbass per non essere arrestato a San Pietroburgo. Nella «peggiore no-go zone d’Europa» non deve guardarsi solo dall’artiglieria ucraina, ma anche da quella russa, che elimina personaggi sgraditi al Cremlino a suon di attentati o esecuzioni. Il Gatto, con gli occhiali rettangolari e i capelli grigi, come un sessantenne qualunque dal «viso banale, glabro e grassoccio» fa pensare a un medico di campagna. Invece ha un passato che ha dell’incredibile: «poliziotto, deputato, soldato disperso in Bosnia, mafioso, leader di un partito; la sua carriera è talmente eclettica che fatico a trovare una logica, un denominatore comune in grado di spiegare come si sia ritrovato coinvolto in tutto ciò che la Russia contemporanea ha prodotto di più scabroso». Piano piano svela la sua vita a Pierre, il «ragazzino». Si crea un rapporto forte fra loro, che ricorda quello raccontato
da Arpino in «Il buio e il miele» o da Kevin Mecdonald nel film «L’ultimo re di Scozia», dal romanzo di Giles Foden. Una madre con la sua bimba a Novomoskovsk. A sinistra: carri armati russi a Kiev Jurij comincia la sua carriera nella polizia criminale di Leningrado. Poi c’è l’ascesa come deputato e leader di un partito ultranazionalista. Neonazista, varie volte condannato per istigazione all’odio razziale, responsabile di omicidi a sfondo razzista, fa fortuna con la guerra in Bosnia. Partecipa alla strage di Srebrenica e viene accusato di complicità in crimini contro l’umanità, per avere ucciso 64 civili. Se lo si osserva nella sua stanzetta da adolescente disordinato, non si direbbe che è stato anche un milionario. Invece. Jurij comincia procurando mercenari russi ai serbi, fonda una società di sicurezza privata che serve a reclutare uomini, diventa un bandito. Fa attentati e subisce attentati, uccide nemici con finte overdosi o investendoli con la macchina, è deputato alla Duma e ricercato, milionario e soldato di ventura. È un prodotto dei tumultuosi anni Novanta che «ha cominciato a brillare quando le regole e le certezze hanno iniziato a vacillare, simile a un barile di polvere inerte che non aspettava altro che una scintilla per esplodere. Non credo che la sua caduta sia una ricompensa per i misfatti, perché non c’è nessuna morale in questa storia». E questa è la bellezza del libro, che innamora un lettore quanto il “Limonov” di Carrère.



che l’identità sia come il matrimonio cattolico. Ecco, i confini oggi sono intesi in termini di identità e non del territorio».
Sorride quando sente dire che quanto sopra è una critica della ragione geopolitica, dato che negli ex Imperi in Europa (austroungarico, ottomano e zarista) nelle stesse città convivevano popolazioni di tre o quattro lingue diverse e quindi il confine immaginario non era tracciabile se non in termini di cultura e idioma. Poi si continua a parlare dei confini e degli immigrati, e concretamente del fenomeno di quello che possiamo chiamare l’outsourcing delle frontiere. Si cerca di fermare i migranti in Libia o in Turchia. Krastev introduce ancora un elemento: la situazione al confine polacco-bielorusso. Secondo le autorità di Varsavia, sarebbe il governo di Lukashenko a spingere i profughi in Polonia per destabilizzare il Paese. «Da allora anche nei Paesi più aperti alle istanze dei migranti è cambiata aria. Se si percepisce questa gente come arma del nemico, il contesto cambia. Si cerca di chiudere le frontiere ma senza venire accusati di averlo fatto». Tace e poi: «L’ostilità nei confronti dei migranti è dovuta al sentimento per cui l’Europa ha paura delle propria forza d’attrazione». Krastev al tema aveva dedicato studi importanti. La sua tesi era: per molte persone in Africa l’Europa era l’Utopia realizzata, arrivare nel nostro Continente era più semplice che non cercare di fare la rivoluzione nel proprio Paese. Quando sente dire che è controproducente per un’Europa (e in particolare l’Italia) in piena crisi demografica chiudere le frontiere, risponde: «Quella battaglia è stata persa nel momento in cui si è cercato di dire che l’immigrazione non fosse un problema. Lo era invece e lo è». E racconta una specie di parabola: «Frequento un posto a Vienna. Cominciò come ristornate italiano: proprietario italiano, camerieri italiani e così il cibo e il vino. Ora è sempre chiamato “ristorante italiano” ma nessuno è italiano. Certo, il cibo e i vini sono ancora italiani. Ma è davvero un ristorante italiano? Per me lo è. Per un italiano di nascita magari no». Guarda l’interlocutore e dice: «La crisi migratoria distrugge l’idea che abbiamo di noi stessi. Abbiamo pensato di essere liberali, aperti ad altri. Ma non era vero. E quindi lasciamo ad altri, ai libici per esempio, di fare le cose che non ci piace o che non possiamo fare: è l’outsourcing della violenza».
E così, concludiamo con una domanda sulla sinistra. Ma prima di formularla accenniamo allo scandalo di corruzione al Parlamento europeo. Krastev reagisce: «La ragione per cui quell’assemblea è stata protagonista delle leggi più progressiste esistenti e al contempo di un disgustoso fenomeno di corruzione è il fatto che i deputati sono lontanissimi dai loro elettori». Ma la nostra domanda è sul perché la sinistra non sappia conciliare diritti civili e diritti economici. Risposta: «L’identità della sinistra era una certa idea del futuro. Seguendo le teorie di Marx si pensava che la classe operaia fosse una classe universale: emancipando se stessi i lavoratori avrebbero emancipato l’umanità intera. Questa convinzione è scomparsa. La sinistra difende i gruppi identitari, ma allora la domanda è qual è il più importante. La cosa più sorprendente però è vedere una sinistra che teme il futuro, esattamente come ne ha paura la destra. La destra dice che in gioco sono le nostre identità, la sinistra che la vita sul pianeta potrebbe finire. Ambedue percepiscono l’avvenire come una minaccia».
11 settembre 2001 al World Trade Center