L'Espresso 33

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SBOMBER

Senza campioni, senza giovani, senza donne. È il calcio per sottrazione. Le dimissioni di Roberto Mancini aprono un altro fronte. Bilanci in rosso, vivai utilizzati per far cassa. E diritti tv a rischio

ADDIO ALL'ANTITALIANA, INTELLETTUALE CONTRO IL POTERE numero 33 - anno 69 20 agosto 2023 Poste Italiane s.p.a.sped.in A.P.-D.L.353/03 (conv.in legge 27/02/04 n.46) art. comma 1DCB RomaAustriaBelgioFranciaGermaniaGreciaPortogalloPrincipato di MonacoSloveniaS pagna € 5,50Lussemburgo € 5,60C.T. Sfr. 6,80Svizzera Sfr. 7,00Olanda € 5,90Inghilterra £ 4,70 SETTIMANALE DI POLITICA CULTURA ECONOMIA L’Espresso + La Repubblica In Italia abbinamento obbligatorio alla domenica 3 euro Gli altri giorni solo L’Espresso 4 euro

All’indomani delle ultime elezioni amministrative, perse dal centrosinistra diviso o quantomeno scollato, lanciammo un appello dalle colonne de L’Espresso. «Care forze di centrosinistra, provate a mettervi insieme su un obiettivo comune. Almeno uno ce l’avrete, no? Magari il salario minimo, cominciate da quello». Non dico che ci abbiano dato retta (nessuno vuole meriti che non ha), ma comunque Pd, Movimento 5 Stelle, Azione e sinistra rosso-verde hanno costruito un cartello delle opposizioni per rivendicare il salario minimo di 9 euro lordi per milioni di lavoratori. Giorgia Meloni prima ha convo-

Le opposizioni ricominciano da 9 (euro)

cato le opposizioni per discuterne, poi alla vigilia ha detto che, sì, insomma, se ne poteva anche parlare ma era tempo perso. L’incontro (è già tanto che non sia finito a urlacci) infatti non ha prodotto nessun risultato tangibile se non la richiesta di un parere al Cnel, presieduto da Renato Brunetta. Se ne riparlerà tra due mesi: d’altra parte siamo in pieno agosto e dopo le ferie incombe una complicata manovra finanziaria (con vista sulle elezioni europee) in cui ogni uscita dovrà essere misurata con il bilancino. Francamente è molto difficile che si raggiunga un accordo sui 9 euro perché è una proposta che entra in collisione con Confindustria (le imprese dovrebbero pagare molto di più una parte di lavoratori); con le cooperative, vera potenza non più “rossa” ma economica, che coprono una serie infinita di servizi sia nel pubblico sia nel privato a prezzi concorrenziali grazie proprio agli stipendi bas-

sissimi; con un bel pezzo del sindacato che teme di perdere potere di contrattazione e anche la faccia per i contratti chiusi sotto quella cifra, come quello dei vigilantes. Una delle motivazioni dei contrari al salario minimo è che guardare solo gli aspetti salariali è come guardare il dito e non la luna laddove, nel loro planetario, il dito sono i 9 euro e la luna i diritti contenuti nel contratto collettivo. Certo: il diritto alle ferie, alla malattia, alla maternità è sacrosanto, ma, se lo stipendio è da fame, in ferie non si va, i soldi per le medicine non ci sono e non si fanno figli perché non ce li si può permettere, i diritti da soli non bastano più. Per una volta sono d’accordo con Pier Ferdinando Casini secondo cui «il salario minimo non è una questione di destra o di sinistra ma di giustizia ed equità«. Interessante anche l’analisi di Carlo Cottarelli nelle pagine che seguono. Chi vincerà? Difficile fare un pronostico perché per prima cosa ci saranno da trovare le risorse. Le imprese saranno poco disponibili ad accollarsi il totale dei costi e il governo dovrà trovare una soluzione di sgravi o aiuti. E, appunto, il piatto piange. C’è poi l’aspetto politico. Se Giorgia Meloni vuol continuare a togliere la terra sotto i piedi delle opposizioni come ha fatto con il decreto sulla tassa sugli extraprofitti delle banche (anche se poi bisognerà vedere come andrà davvero a finire), un accordo, magari al ribasso o transitivo, si finirà forse per trovarlo ma ci sarà da fare i conti anche con i sindacati rivedendo la legislazione sulla contrattazione collettiva e la rappresentanza ai tavoli delle trattative. Insomma sarà dura ma almeno un obiettivo l’opposizione, pur così sgangherata, l’ha centrato: fare le prove per stare insieme e soprattutto ritrovare il feeling con la gente, vista la gragnola di firme che sta arrivando a favore del provvedimento sul salario minimo. E soprattutto ricominciare ad affrontare i problemi non dentro i salotti, ma dentro la vita reale.

Pur così sgangherate un obiettivo lo hanno centrato: provare a stare insieme e ritrovare il feeling con la gente
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EDITORIALE
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Sebastiano Messina

STEFANO BONACCINI

Prima ha accusato il governo di non aver ancora fatto arrivare «neanche un euro di indennizzo» alla stragrande maggioranza delle imprese colpite dall’alluvione di maggio, quindi ha attaccato sull’emergenza immigrati la premier, che l’anno scorso gridava «è finita la pacchia», ma arrivata a Palazzo Chigi non è riuscita a impedire il raddoppio degli sbarchi. Il governatore dell’Emilia-Romagna è oggi l’oppositore che fa innervosire più di tutti gli altri Giorgia Meloni.

JANNIK SINNER

Vincendo il Master 1000 a Toronto il tennista altoatesino è diventato il numero 6 del tennis mondiale (solo Adriano Panatta ha fatto di meglio, salendo fino al quarto posto nell’anno magico in cui vinse la Coppa Davis, il 1976). Per arrivare così in alto a 22 anni oggi devi avere la stoffa del campione, ma devi anche essere capace di organizzare una squadra con due coach, un preparatore fisico, un fisioterapista, un osteopata e un mental trainer. C’è del metodo, in questo talento.

DOMENICO DOLCE

Non tutti hanno la fantasia geniale di Domenico Dolce – che a 18 anni salì sul treno per Milano diventando uno dei più grandi stilisti del pianeta – ma nessuno meglio di lui poteva dare la sveglia a quei siciliani «che passano le giornate sdraiati sul divano», senza lavorare. Per i suoi 65 anni lui è tornato a Polizzi Generosa facendo ai compaesani la più scomoda delle domande: «Come si può pretendere il progresso se nessuno fa un cazzo?». Nessuno ha saputo rispondergli.

Bonaccini spina nel fianco, Tajani all’oscuro, Sinner talento e metodo. Dolce e la domanda senza risposta

ANTONIO TAJANI

Il ministro degli Esteri s’è accorto che Giorgia Meloni non lo considera un vero vicepremier: non solo gli ha fatto scoprire in Consiglio dei ministri un decreto a sorpresa che tassava gli extraprofitti della banche, ma quando le è stato chiesto di spiegare perché glielo avesse nascosto ha risposto candidamente che «la questione non doveva girare troppo». Evidentemente la presidente del Consiglio non si fida di uno dei suoi vice, anche se è il segretario di Forza Italia.

ROBERTO MANCINI

Pochissimi saprebbero resistere a un’offerta di 20 milioni l’anno, che per Mancini sono più del quadruplo di quanto lo pagava la Figc. Ma se uno che ha gloriosamente portato gli azzurri a vincere gli Europei decide una sera d’agosto che la ricchezza val bene tre anni a Ryad può anche dirlo alla luce del sole, invece di lasciare la Nazionale inviando una pec di notte, lamentandosi di non essere stato trattenuto. È nell’ora delle scelte difficili che un campione mostra il suo stile.

AURELIO DE LAURENTIIS

Hai vinto lo scudetto e sei stato celebrato come un presidente illuminato: potevi uscirtene da gran signore stracciando la «clausola di non concorrenza» che impedisce a Luciano Spalletti di diventare il commissario tecnico della Nazionale (che non gioca in serie A e dunque non è una tua concorrente). Invece pretendi tre milioni di penale spiegando che «non è una questione di vil denaro, ma una questione di principio»: come dicono tutti quelli che pensano l’esatto contrario.

Foto: Agf (4), La Presse (2)
CHI SALE E CHI SCENDE
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M’HACKERA, NON M’HACKERA, M’HACKERA...

Negli anni ’50 i poderi nella Val d’Orcia, la valle senese a nord e a est del monte Amiata, andavano da un minimo di dieci a un massimo di quaranta persone. Erano famiglie, spesso imparentate tra loro, che vivevano insieme, quasi sempre a mezzadria. Nel periodo che va da novembre fino a marzo, le donne, dopo essersi occupate di svariate mansioni tra cui la cura degli animali da cortile, da stalla e dei figli così come la gestione dell’orto, del bucato e del mangiare, si mettevano, a fine giornata, intorno al camino. Anche nel podere Monte Laccio le donne con le loro sedie erano solite riposare e scambiare qual-

Dalla mezzadria al transfemminismo in Val d’Orcia

che parola davanti al fuoco, ma soprattutto dedicarsi a qualche altro lavoretto. Le donne conservavano le parti più dure delle cipolle, normalmente scartate, per poi metterle vicino alle braci o addirittura sotto la cenere per poi mangiarle come spuntino. Prima di coricarsi, il “capoccia”, il marito di una di loro, cioè il responsabile, sotto al padrone, del podere, faceva il giro delle stalle e delle terre per controllare che fosse tutto in ordine. Finito il giro era solito rientrare in casa, e, un giorno, passando accanto alle donne, notò che stavano sgranocchiando delle bucce di cipolla abbrustolite. Con tono brusco, le apostrofò: «Siete lì per lavorare o per sprecare?».

Questo aneddoto non racconta solo la condizione femminile del tempo, ma un aspetto essenziale di questa civiltà: tutto ritorna alla natura, tutto viene riciclato, nulla si fa a caso. Ogni cosa ha il suo

In provincia di Siena il festival delle disobbedienti sotto lo slogan Cbcr, Cittine birbe crescono ribelli

posto in un economia agricola. Nel Dopoguerra «in queste terre», come altrove certo, «si soffriva e si moriva» (l’Unità, 2009). Giorgio Scheggi in “Species” scrive che «mai si era vista un’accelerazione così rapida e brutale della storia, mai una cultura si era dissolta con tanta rapidità» (2002). Che ruolo hanno avuto le donne in questo processo? L’hanno solo subito? E ora che ruolo hanno? Stare e sostare in provincia significa mettersi in ascolto. Qui sicuramente le fila delle resistenze sono state ereditate: qualcuno ha raccolto i saperi delle grandi città e li sta redistribuendo. La provincia ruggisce e nel farlo ricorda che massaie, che classi subalterne, si è state, prima d’arrivare fin qui. La provincia non può dimenticare la propria storia: le voci riecheggiano troppo forti, la tradizione orale resiste e così si può tracciare il percorso del nuovo, del rinnovato.

La settimana scorsa, la Val d’Orcia ha ospitato il Cbcr, il primo festival transfemminista della provincia di Siena. Centinaia e centinaia di persone hanno parlato di cultura del consenso, di educazione sessuo-affettiva, di saperi decoloniali. Lo slogan “Cbcr” ovvero «cresci bene che ripasso» è una frase comunemente riferita a soggetti, spesso minorenni, che fisicamente «promettono bene», osservati quindi già con sguardo sessualizzante. «Per noi, invece, diventa: Cittine Birbe Crescono Ribelli», mi racconta Luce Scheggi. «Cittine, nella nostra zona, è il modo di chiamare le ragazzine. Noi siamo cittine disobbedienti alla norma sociale. In una prospettiva di critica al sistema patriarcale, le cittine birbe si ribellano a uno status quo che le vuole composte, ubbidienti e relegate in un ruolo subalterno, ruolo rafforzato anche attraverso slogan che sono i veicoli della violenza patriarcale». È bello cominciare da qui: dalla provincia che tiene il filo storico, intergenerazionale, megafono di contro-saperi e antichissimo.

RESISTENTI
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La questione del salario minimo non è una grana da poco per Giorgia Meloni perché la questione sembra essere considerata importante da buona parte dell’opinione pubblica. Per ora Meloni, non potendo rigettare tout court la proposta delle opposizioni, ha allargato il campo della discussione, coinvolgendo il Cnel. Ma in autunno dovrà trovare qualcosa di concreto, magari con risorse da reperire in sede di legge di bilancio, già però molto stretta. Ma, al di là dei tatticismi, cosa su può dire sul merito della questione?

Il salario minimo (ovviamente) non è la soluzione a tutti i problemi italiani. Alla

Non confondiamo salario minimo e aiuti alle aziende

fine, il benessere economico dipende dalla crescita della produttività, il che richiede investimenti in capitale fisico e umano. Il salario minimo cerca di correggere imperfezioni nei meccanismi di mercato, come la mancanza di adeguata concorrenza in certi settori o aree geografiche. Esiste in tutti i G7 tranne che in Italia. Non è una cosa vetero-comunista, come qualcuno ha detto, a meno di pensare che gli Stati Uniti siano Cuba.

Il livello proposto per il salario minimo (9 euro lordi all’ora) mi sembra grosso modo adeguato, tenendo conto del livello in Germania (13 euro) e del fatto che l’inflazione ne ha eroso il valore da quando la proposta fu avanzata. Ciò detto, sarebbe stato meglio affidare il compito di trovare il livello del salario minimo appropriato a un gruppo di tecnici, tenendo anche conto del diverso livello di produttività per aree geografiche.

In futuro, variazioni del salario minimo dovrebbero partire da un’analisi tecnica, che ora è mancata.

Il disegno di legge delle opposizioni non introduce solo il salario minimo, che riguarda la retribuzione tabellare non inclusiva di scatti di anzianità, mensilità aggiuntive eccetera. Fa qualcosa di molto più ampio: dà anche valore di legge agli accordi sulla retribuzione complessiva raggiunti dalle organizzazioni più rappresentative di sindacati e imprese. Questa misura, che è stata probabilmente necessaria per ottenere il sostegno di almeno parte dei sindacati (Cgil, Uil), è apparentemente coerente con il dettato costituzionale (art. 39) per cui i sindacati possono «stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce». Ma questa norma riguarda i «sindacati registrati» e in Italia la registrazione dei sindacati non è mai stata attuata. In ogni caso, se il disegno di legge fosse approvato, accordi tipo quello raggiunto dalla Fiat di Sergio Marchionne, che era uscita da Confindustria, non sarebbero possibili. C’è chi potrà avere opinioni diverse sull’opportunità o meno di questo nuovo vincolo. Fatto sta che non c’entra nulla col salario minimo legale. Il disegno di legge implica che, per un periodo limitato, ma non definito dalla legge, lo Stato fornisca le risorse necessarie per raggiungere i 9 euro all’ora se un’impresa paga di meno. Non ha senso. Il salario minimo serve a correggere situazioni di sfruttamento in cui l’impresa fa extraprofitti a scapito del lavoratore. Perché lo Stato ci dovrebbe mettere dei soldi per perpetuare quella situazione di extraprofitto? Capisco che ci possa essere una necessità di graduale transizione, ma allora meglio sarebbe partire con un salario minimo più basso e prevedere un aggiustamento graduale nel tempo al livello ritenuto appropriato nel lungo periodo.

PANE AL PANE
Lo Stato non dovrebbe intervenire se ciò serve a correggere situazioni di sfruttamento del lavoratore
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La mafia non è stata sconfitta. Le donne continuano a rivestire ruoli centrali nelle organizzazioni criminali e chi decide di non farne parte o di voler abbandonare la famiglia mafiosa, di smettere di essere schiava, di essere minacciata e obbligata a far rispettare i codici malavitosi e spesso a compiere reati a sua volta, non sempre sa a chi rivolgersi.

Alessandra Cerreti, sostituto procuratore della Direzione Distrettuale Antimafia di Milano, è una donna impegnata in prima linea da anni anche con il protocollo “Liberi di scegliere”, un progetto che assicura alle donne e ai minori abusati una concre-

Liberi di scegliere Quel no alla mafia di madri e figli

ta e diversa scelta di vita.

«Funziona: il protocollo è operativo dal 2013 e sinora al Sud si sono verificati più di ottanta casi in cui è stato adottato con esiti prevalentemente positivi. È meno noto al Nord, anche se a Milano lo abbiamo già applicato a una donna coniugata con un appartenente a Cosa Nostra siciliana. Se ne parla poco, perché, in generale, si parla meno di mafia, soprattutto al Nord. Il binomio donne e mafia è considerato un sub-tema. Tuttavia, queste ultime non sono sparite: anche nel Milanese, le nostre indagini rilevano vari ruoli delle donne che possono anche essere apicali».

Sono spietate, vendicatrici, vengono reclutate da altri settori criminali, diventano prestanomi e, una volta accertata la loro fedeltà, ambiscono a ottenere un upgrade: diventare un capo mafia. Al Nord le associazioni mafiose operano con modalità a

Dare un futuro diverso alle donne che recidono i legami con i clan. La magistrata Cerreti spiega come

volte differenti: la cellula mafiosa può essere composta da non appartenenti alla famiglia naturale, cosa più insolita nel meridione d’Italia. Hanno più bisogno di trovare soggetti esterni e li individuano in donne dedite al narcotraffico, all’estorsione, alla raccolta dei soldi, con un ruolo di controllo e di disciplina degli adepti. Vengono informalmente affiliate senza bisogno di rituali, con un’investitura di fatto».

Molte donne che hanno deciso di pentirsi o di diventare testimoni di giustizia lo fanno per proteggere i propri figli da un destino già scritto, ma i figli vengono anche utilizzati come ricatto da parte della famiglia per impedire alle madri di allontanarsi, di testimoniare. È l’aspetto più debole, ma al contempo può diventare una forza «perché genera quel desiderio di staccarsi per dare loro un futuro di libertà. Proprio a questo mira il protocollo: un passo in avanti rispetto all’ordinaria protezione dello Stato prevista per collaboratrici e testimoni di giustizia. Aiuta una donna ad andare via anche senza dover dichiarare nulla. Questa è la differenza eccezionale: la proteggeremo anche se non sa nulla o se non vuole parlare. La donna e il minore verranno protetti in una struttura, che li accoglierà con il prezioso supporto di “Libera contro le mafie”, con i medici, gli psicologi, gli insegnanti.

I minori spesso sono in pericolo: subiscono un indottrinamento sui valori mafiosi, vengono utilizzati per recapitare ambasciate al papà latitante e ricevono una contro-educazione senza conoscere un’alternativa. I rapporti tra la famiglia d’origine e il minore saranno ugualmente garantiti, ma protetti, come con i genitori che abusano o maltrattano e, a diciotto anni, una volta acquisiti strumenti culturali adeguati e non più crescendo in una bolla, potranno scegliere con libertà e maggiore consapevolezza.

Liberi di scegliere diversamente.

20 agosto 2023 11 BELLE STORIE
L’ESPRESSO ICONOGRAFICO DI OLIVIERO TOSCANI 12 20 agosto 2023
La famiglia è un’alleanza contro la morte destinata alla capitolazione.
Ap / La
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Le nostre qualità sono le impronte dei difetti di chi ci ha cresciuto.
Santi Palacios
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Sentiamo il piacere per la presenza di un figlio e il dolore per la sua lontananza attraverso un organo nuovo, cresciuto solo dopo la comparsa di quell’essere.

I bambini sono accessori molto instagrammabili .
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- I miei non si sono separati. - Cos’è successo?

Per passare una vita intera con una persona bisogna educarsi a disprezzare tutte le altre.
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Oliviero Toscani
Saziare i propri bisogni attraverso un figlio è il gesto che più si avvicina al cannibalismo.
Ancora adesso quando conosco qualcuno mi chiedo se mia madre approverebbe la sua frequentazione.
Jerome
Due genitori che non vanno d’accordo sono una scuola di relativismo – o di confusione, che è il relativismo dei poveri.
DelayAp / La Presse
Il figlio unico è orfano in orizzontale.
Muhammed MuheisenAp / La Presse
Di fronte a una donna che partorisce, l’uomo si sente come un fantasma di fronte a chi ha un corpo vivente.
“Ti amo, mammina”, Adolf Hitler. Morale: mai farsi abbindolare da un bimbo.
Testi di Enrico Dal Buono

PRIMA PAGINA

È un campionato per sottrazione. Senza donne, senza giovani. Con i diritti tv a rischio. E il vuoto d’idee al vertice

Un killer protetto per 40 anni da politici di destra e servizi. La condanna di Paolo Bellini svela la rete occulta manovrata dalla P2

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ECONOMIA

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Un’intellettuale in grado di proiettarsi nel mondo che desiderava perché almeno una fiammella di quel fuoco possibile restasse accesa

Il calcio che fa a meno di tutto Gianfrancesco Turano 26 Slalom con salasso e stress da telecomando Beatrice Dondi 32 I soliti noti della nuova stagione a cura di Gianfrancesco Turano 34 Palco europeo: falò di vanità e tanti quattrini Fabrizio Bocca 36 POLITICA Michela Murgia, la narratrice che faceva anima Loredana Lipperini 40 La rubrica che smascherava l’ipocrisia del potere Michela Murgia 44 L’autunno di Giorgia “bifronte” Massimiliano Panarari 46 Operazione sfinimento Simone Alliva 48 Licenza di strage. La Gladio nera depista ancora Paolo Biondani 50 Il confine caldissimo Sabato Angieri 56
DIALOGHI
Quando isolarsi è un gesto elegante colloquio con Marco Risi di Antonia Matarrese 60
Dal vino alla soda, storie di emigrati da bere Marco Ferrari 64 La premier ritrova il sovranismo Marco Ulpio Traiano 68 26
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parte in esclusiva per l’Italia del Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi

numero 33 - anno 69 - 20 agosto 2023

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Con i migranti sbarcarono

vino prodotto

Argentina parlano italiano

Burkini e topless. Cous cous e quiche. Guida per capire Marsiglia. La città meno francese di Francia che ha dato il titolo all’inno

Per approfondire o commentare gli articoli o inviare segnalazioni scrivete a dilloallespresso@lespresso.it

Scandalo extraprofitti. L’occasione giusta per ottenere equità Francesco Fimmanò 70 CULTURA Un tuffo nel mondo Mars Valeria Palermi 74 Sempre meglio che là fuori Patrizio Ruviglioni 80 Modine attore in verde colloquio con Matthew Modine di Claudia Catalli 84 Nella classifica dei personaggi della settimana di Sebastiano Messina, salgono Stefano Bonaccini, Jannik Sinner e Domenico Dolce. Scendono Antonio Tajani, Roberto Mancini e Aurelio De Laurentiis In copertina: illustrazione di Ivan Canu
64
in Sudamerica
che hanno fatto scuola. Tre quarti del
in
LE OPPOSIZIONI RICOMINCIANO DA 9 (EURO) Alessandro Mauro Rossi 3 Opinioni CHI SALE E CHI SCENDE SebastianoMessina 5 RESISTENTI DilettaBellotti 7 PANE AL PANE CarloCottarelli 9 BELLE STORIE FrancescaBarra 11 FUORILUOGO FrancoCorleone 55 CARTA & PENNA GoffredoBettini 59 BANCOMAT AlbertoBruschini 69 BENGALA RayBanhoff 98 Rubriche IO C’ERO - OlivieroToscani 12 CINEMA - FabioFerzetti 83 LIBRI - SabinaMinardi 87 TEATRO - FrancescaDeSanctis 88 ARTE - NicolasBallario 89 TELEVISIONE - BeatriceDondi 90 MUSICA - GinoCastaldo 91 MOTORI - GianfrancoFerroni 92 ANIMALI - ViolaCarignani 93 CUCINA - AndreaGrignaffini 94 VINO - LucaGardini 95 POSTA - StefaniaRossini 96 60 Marco Risi 74
tecniche

IL CALCIO CHE FA A MENO DI TUTTO

Via le dinastie imprenditoriali, diritti tv a rischio, vivai che nutrono casse di club in profondo rosso, donne ai margini e in rivolta. Un vuoto di idee al vertice. È il campionato della sottrazione

PRIMA PAGINA SBOMBER
26 20 agosto 2023
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PRIMA PAGINA SBOMBER

Senza campioni, senza giovani, senza donne. Con un commissario tecnico della nazionale, Roberto Mancini, che si è dimesso a tre settimane da un turno di qualificazione agli Europei 2024 in onore al motto della classe dirigente italiana: non mollare la poltrona mai, salvo se c’è un’alternativa pagata meglio.

La serie A 2023-2024 è così: un campionato senza. Anche i padroni sono declinati lentamente assieme a ciò che fu la borghesia imprenditoriale italiana, sostituiti da fondi stranieri e homines novi, come nel senatus populusque romanus si chiamavano gli emergenti senza appartenenze aristocratiche.

CELESTE E AZZURRO

Khvicha Kvaratskhelia, durante la partita Napoli-Atalanta. A destra, Simone Pafundi prima della finale della Coppa del Mondo under 20 tra Italia e Uruguay

più antica d’Italia.

I Moratti sono spariti da tempo. Silvio Berlusconi, appena morto, è stato divinizzato da un trofeo fra le sue due squadre, Monza e Milan. Che dire degli Agnelli? Andrea, ultimo portatore del cognome che significa Juventus, è finito nella morsa delle plusvalenze, ottima opportunità per fargli pagare la fuga in avanti della Super League. Nella Roma ci sono gli Usa, non si sa per quanto. Alla Lazio c’è il finalmente senatore Claudio Lotito, eletto in un Molise che non è precisamente al centro del pallone nazionale. Ha insegnato lui ad Aurelio De Laurentiis, neocampione d’Italia con il Napoli, che calcio non significa necessariamente buttare denaro. E a Lotito lo ha insegnato Giampaolo Pozzo, veterano dei proprietari di A, habitué dei miracoli sportivi e delle disinvolture tributarie.

Essere senza padroni non è necessariamente un male. L’incertezza del risultato, dopo i terrificanti nove scudetti consecutivi della Juve dal 2012 al 2021, più pesanti della pandemia, fa da motore a una campagna abbonamenti con ottimi risultati. Oltre alle solite milanesi e romane, si stanno confermando realtà di passione come il Lecce, squadra di una città da 90 mila abitanti avviata a replicare le 20 mila tessere della stagione scorsa. Per una Sampdoria retrocessa dalla crisi sportiva e finanziaria, il pubblico genoano ritrova in serie A la società

L’assenza di padroni fa accettare meglio al pubblico un calciomercato di storica marginalità, dopo che agli inglesi della Premier League si è aggiunta la concorrenza saudita. Che importa perdere Kim se a Napoli rimane Kvaratskhelia? Se Sandro Tonali lascia il Milan, Rafa Leão rimane. Almeno per quest’anno. In mancanza d’altro si guarda il bicchiere mezzo pieno, anche se il livello continua a scendere, al contrario dei debiti dei club, saliti dai 4,78 miliardi di euro della stagione 2018-19 ai 5,6 miliardi del 2020-21, secondo i dati del report Figc anticipato da L’Espresso.

La nuova stagione calcistica sarà, come il film di Alberto Sordi, una vacanza intelligente? Per adesso, è tutto all’insegna del fare di necessità virtù. A partire dalla televisione. Il match sui diritti televisivi della serie A è in piena bagarre. Il prossimo torneo è l’ultimo del trienna-

Mercato marginale, stretto tra inglesi della Premier e concorrenza saudita.
Funziona la campagna abbonamenti. Accanto alle blasonate, il tifo trascina l’entusiasmo per Lecce e Genoa
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GIANFRANCESCO TURANO illustrazione di IVAN CANU

le 2021-2024 conquistato da Dazn per il pacchetto principale di sette partite, con le altre tre a Sky Italia e Mediaset per la Coppa Italia. Ma la Lega è alle prese con un rinnovo che si annuncia difficile. La fine del termine triennale della legge Melandri è una variabile aggiuntiva. Il nuovo contratto potrà durare tre, quattro oppure cinque anni con una base d’asta di 1,15 miliardi all’anno per il triennale, di 1,265 miliardi di euro per il quadriennale e di 1,38 miliardi per il quinquennale.

Senza insistere sul fatto ormai noto che i diritti televisivi tengono in piedi un sistema traballante, finanziariamente suicida, vessato dagli agenti, blandito da una politica in cerca di consensi e assediato da ogni categoria di creditori, la prima offerta dei network presentata all’inizio di luglio era al ribasso di circa metà della cifra ed è stata respinta dalla Lega guidata da Lorenzo Casini e Luigi De Siervo. Nelle settimane successi-

ve, trascorse in trattative private, le parti si sarebbero avvicinate. La scadenza per trovare l’accordo è metà ottobre.

«È l’asta dei diritti tv più difficile di sempre?», si è chiesto l’ad della Lega De Siervo. «Sì, lo sapevamo e lo abbiamo detto in tempi non sospetti. È la più difficile perché la competizione tra le emittenti in questo momento in Italia è latente».

Più che latente, è fantomatica. Sky appare molto titubante dopo due anni di perdite di bilancio aggregate di quasi 1,5 miliardi di euro (764 milioni nel 2021 e 735 nel 2022). E il gruppo Dazn di Len Blavatnik ha perso 6 miliardi di dollari in cinque anni.

Così si sono affacciate soluzioni al risparmio. Urbano Cairo, proprietario del Torino e di La7, e l’anchorman-businessman Michele Criscitiello di Sportitalia hanno deciso di puntare sul calcio della scoppiettante Saudi Pro League per qualcosa meno di mezzo milione di euro.

Per approfondire o commentare questi articoli o inviare segnalazioni scrivete a dilloallespresso@ lespresso.it

Foto: A. Garofalo –LaPresse, M. Baglietto –NurPhoto / GettyImages
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PRODEZZE IN CAMPO

Il calciatore Olivier Giroud, del Milan, durante la partita contro il Monza per il 1° trofeo “Silvio Berlusconi”. A destra, il milanista Rafael Leão festeggia dopo aver segnato contro la Sampdoria

In questo quadro di fondamentali economici ansiogeni, la Figc di Gabriele Gravina si è fatta sorprendere come un portiere sul primo palo dal micidiale colpo di tacco di Roberto Mancini, ct dimissionario due giorni prima di Ferragosto. Anche il ministro dello sport, Andrea Abodi, ha manifestato la sua perplessità di fronte a una figuraccia di sistema. Non la prima. Ma se dopo l’eliminazione al Mondiale in Qatar, Gravina ha potuto teorizzare che in campo non ci va lui, le dimissioni di Mancini sono un fatto politico, anche applicando la tara dell’attrazione del ct verso l’euro o il petrodollaro.

Per la Figc, la parola d’ordine per uscire dalla crisi è sempre la stessa: riforme. Gli esperti federali sono impegnati nella stesura di testi ponderosi che dovrebbero rimettere in sesto i conti dei club e riportare la nazionale al posto che aveva

nell’élite del calcio mondiale. Ma il dialogo tra la Figc, diretta verso la scadenza elettorale del 2024, e la confindustria dei presidenti riunita nella Lega di serie A rimane una conversazione tra sordi.

L’unico punto in comune sembra la necessità di rinnovare un parco stadi che ha costretto l’Italia a consorziarsi con la Turchia di Recep Tayyip Erdogan per ottenere gli Europei del 2032 con un ticket assai singolare. Poi basta guardare i bilanci della Juventus degli ultimi tre anni, con 558 milioni di euro di rosso di bilancio aggregato, per capire che uno stadio nuovo, per di più costruito con condizioni di estremo favore da parte del Comune di Torino, non impedisce di perdere a rotta di collo.

Gli altri feticci delle riforme calcistiche sembrano presi da un quotidiano di cinquant’anni fa: i giovani e le donne.

30 20 agosto 2023

La verità del campo sui vivai è in tre tornei giocati fra giugno e luglio. L’Italia ha vinto l’Europeo under 19 il 16 luglio contro il Portogallo. Il capocannoniere del torneo è Cesare Casadei, che l’Inter si era affrettata di cedere al Chelsea per 20 milioni. L’Under 20 ha figurato bene nel Mondiale fino alla finale persa contro l’Uruguay, superiore tecnicamente e atleticamente. Infine, gli azzurri sono crollati in modo catastrofico all’Europeo under 21: eliminati al primo turno con un pareggio e due sconfitte nonostante il rinforzo di due nazionali maggiori come Wilfried Gnonto e Sandro Tonali, mister mercato 2023 ceduto dal Milan al Newcastle del fondo saudita Pif per 80 milioni di euro. Naturalmente è stata colpa degli arbitri e la stampa ha preventivamente sostenuto che la Francia avrebbe regalato la partita alla Svizzera.

Eppure, prima di dimettersi, Mancini aveva proposto Simone Pafundi come test di rilevamento sulla situazione dei giovani calciatori nella serie A 20232024. Pafundi, fantasista alto 1,65 metri nato in Friuli da genitori napoletani e tifoso dei campioni d’Italia, ha avuto il privilegio di essere benedetto dall’ex ct («prima lui, poi tutti gli altri») quando ancora non aveva compiuto i suoi attuali 17 anni. Il ragazzo è un tesserato dell’Udinese della famiglia Pozzo, che si è costruita una fama come fabbrica di talenti reclutati in ogni angolo di mondo con modica spesa. Finora ha giocato pochissimo nel club (77 minuti la scorsa stagione in A). Ma da lui passa una certa idea di calcio un po’ antiquata, quella di Rafa Leão e di Khvicha Kvaratshkelia, che significa dribbling, rischio, verticalità invece di passaggi indietro di cinquanta metri al proprio portiere.

Sull’altro tema della riforma perenne, si potrebbe dire che il calcio italiano continua a non essere, disgraziatamente, sport per signorine. Ma nemmeno per signore, fanciulle e bambine. In un Paese dove le donne dominano lo sci, la pallavolo, il nuoto a livello mondiale, le colleghe del calcio hanno incassato un’eliminazione al primo turno dal mondiale Fifa giocato in Australia e Nuova Zelanda che si chiude con la finale del 20 agosto. L’uscita dalla competizione delle azzurre è stata segnata da una lettera aperta delle giocatrici che avrà scandalizzato i colleghi maschi, da sempre votati a un’omertà che le mafie si sognano. Nella loro critica collettiva le azzurre hanno rilevato il disinteresse della Figc assente dalla manifestazione e, più velatamente, le responsabilità della ct Milena Bertolini, diventata popolare per le sue apparizioni in tv ma incapace

Foto: Spada –LaPresse, A. Calanni –Ap / LaPresse
20 agosto 2023 31
La Figc, in un dialogo tra sordi con i presidenti, invoca riforme. Il match sull’asta televisiva della serie A è in piena bagarre. Con le pay che perdono a rotta di collo e giocano al ribasso

di competere con nazioni dove la base di reclutamento è molto più ampia delle circa 32 mila tesserate italiane contro le oltre 100 mila delle altre nazionali europee. Nel volley femminile in Italia ci sono circa 170 mila praticanti ufficiali nella fascia fra i 6 e i 15 anni. Bertolini si è dimessa. La Figc ha incassato con la consueta indifferenza verso il risultato, soprattutto quando è negativo.

VOLTO DI DAZN

La conduttrice Diletta Leotta. Salterà l’apertura di stagione per il parto

C’era un tempo in cui Sandro Ciotti con la sua voce del sottosuolo rubava la linea ad Ameri. Per seguire il calcio si guardava la radio, senza intoppi e al massimo nel bilancio familiare poteva entrare una sostituzione delle pile. Poi qualcosina è cambiata, come la goccia che esce dal rubinetto. Così in quest’estate in cui tutta l’attenzione del risparmiatore sembra essere rivolta verso la frisella a 20 euro o il piattino messo in conto col servizio come unici esempi di rincaro, a scombinare le tasche ci pensa il calcio. Per godere in televisione degli incontri di quegli omini in mutande che tanto amiamo fare due conti diventa a dir poco necessario. Innanzitutto, la serie A.

Per seguire il campionato bisogna abbonarsi a Dazn che trasmette tutte le partite in esclusiva tranne tre, in coesclusiva con Sky. I prezzi? Ovviamente ritoccati rispetto allo scorso anno: 40,99 euro al mese per l’abbonamento standard che non si può condividere fuori casa, perché, si sa, la piattaforma ci tiene all’unione familiare. Meglio sarebbe il pass annuale, basta avere in tasca 299 euro da versare in un’unica soluzione e la spesa si tiene sotto controllo.

Resta il fatto che la serie A donne, sponsorizzata da eBay e in partenza il 16 settembre, stenta a decollare perché molti club, obbligati dalla federazione ad avere un settore femminile, nicchiano di fronte a un impegno dove il rapporto costi/ricavi è senza speranza.

Sul fronte televisivo, una partita di campionato per turno e la finale di Coppa Italia saranno mandate in chiaro dalla Rai che rimpiazza La7 con una spesa di 250 mila euro. Per i diritti pay, non ancora assegnati per la modestia delle offerte, i network hanno ottenuto una proroga dell’asta fino al 31 agosto. Saranno comunque spiccioli.

L’abbonamento Plus invece ti fa registrare 7 dispositivi e vedere i match con connessioni diverse. In questo caso se si paga tutto insieme si arriva a 449 euro, mensilmente invece 55,99. Però così almeno si vede tutto il calcio italico? Eh no, parliamo di serie A e serie

B. Per la Champions e le altre Coppe bisogna passare a Sky tv (+ Calcio + Sport) spendendo 35,90 euro al mese, ma solo per 18 mesi perché poi si passa a 44,70. Ma così si vedono tutte le gare di Champions? Eh no, per la migliore del mercoledì (16 partite per l’esattezza) serve Amazon che le trasmette in esclusiva e l’abbonamento a Prime Video costa 49,99 euro l’anno.

Insomma, alla fine, considerando i soldi spesi, lo stress e i muscoli da telecomando forse converrebbe comprarsi direttamente un calciatore da lasciare palleggiare in salotto. Che in caso di buffering è carino lo stesso.

Foto: F. Sasso –Agf PRIMA PAGINA SBOMBER
Slalom con salasso e stress da telecomando
32 20 agosto 2023
Beatrice Dondi
€49,99 ABBONAMENTO ANNUALE 52 NUMERI A PARTIRE DA ABBÒNATI QUI Contatti abbonamenti carta Tel.: 0864256266 Email: abbonamenti@gedidistribuzione.it Sito: ilmioabbonamento.gedi.it Contatti abbonamenti digitali Tel.: 0689834120

I SOLITI NOTI DELLA

Il Mancio taglia la corda. De Laurentiis (ri)tenta il miracolo a Napoli. In campo e nella Federazione, c’è chi aspetta conferme. Si è inaugurato il campionato 2023/24. Senza grandi novità per il pallone italiano

A cura di GIANFRANCESCO TURANO

L’eroe di Wembley taglia la corda via pec e abbandona la nave Italia a ridosso delle qualificazioni europee. Euro, sterline o petrodollari, per l’ex ct è l’ora di monetizzare.

Romelu, perché sei tu Romelu? Il centravantone belga ha scontentato i tifosi interisti e juventini, i sauditi e il Chelsea. Lo volevano tutti, non lo vuole più nessuno.

AURELIO DE LAURENTIIS

Il produttore di film si è convertito al calcio full time. Con lo scudetto sulla giacca, Adl tenta una riconferma mai riuscita a Napoli, l’unica squadra dove la star è il presidente.

In Argentina un bisnonno italiano non si nega a nessuno. E la Nazionale senza prime punte si è affrettata a selezionare l’oriundo. Come ai tempi del Ventennio.

Il senatore latinista e patron biancoceleste ruba sempre la scena. Ha ottenuto dal ministro Andrea Abodi, che non lo ama, la nomina del cognato a Sport e salute. Obtorto collo

PRIMA PAGINA SBOMBER NAPOLI ROMELU LUKAKU BELGIO MATEO RETEGUI GENOVA CLAUDIO LOTITO LAZIO ROBERTO MANCINI
34 20 agosto 2023
FIGC

DELLA NUOVA STAGIONE

Foto: Agf (4), Getty Images (4), La Presse (2)

Per l’ex costruttore di Castel di Sangro si avvicinano le elezioni. Ma le dimissioni a sorpresa di Roberto Mancini sono state un brutto colpo. E la conferma non appare scontata.

Per un Retegui che arriva, un Casadei finisce a Leicester, dove Claudio Ranieri vinse una Premier miracolosa. Per il campioncino romagnolo è ciao mare, sperando si confermi.

L’avvocato calabrese ha passato un annus horribilis fra processi, penalizzazioni e minacce personali. Lui stesso si augura una stagione tranquilla. Senza troppo crederci.

Il derby fra cugini l’ha vinto il più ricco. Fuori Andrea, il numero uno della galassia Agnelli si è ripreso il club. I suoi manager devono vincere alla svelta, la Juve non aspetta.

Il tempo passa e lo Special One vive sempre meno di battibecchi. Peraltro, il suo bersaglio preferito è il datore di lavoro Usa. Ma in una serie A senza padrone può fare bene.

Dopo il vincolo della Soprintendenza su San Siro, Inter e Milan fuggono verso i nuovi paradisi di Rozzano e San Donato. Il sindaco Sala saprà a breve se si tratta di un bluff.

JOHN ELKANN JUVENTUS GABRIELE GRAVINA FIGC JOSE MOURINHO ROMA GIUSEPPE SALA SINDACO DI MILANO GIUSEPPE CHINÉ FIGC CESARE CASADEI
20 agosto 2023 35
CHELSEA

Palco europeo Falò di vanità e tanti quattrini

Dalla Super Lega, ormai abortita e ripudiata anche dalla Juve, alla Super Champions League, che tra un anno piomberà nei nostri salotti col suo vorticoso giro di partite (189) e i suoi 5 miliardi di euro tra marketing e diritti tv. Un nuovo grandioso Circo Barnum del football internazionale, prepariamoci perché questo è l’ultimo anno del calcio europeo così come lo conosciamo. Ceferin e la Uefa hanno rivoluzionato tutto, anche per attenuare gli impulsi separatisti di alcuni: si va verso un nuovo grande salto.

La Champions League

è diventata un moloch. Restarne fuori non è solo uno smacco ma un tracollo economico.

La condanna sportiva che ha estromesso la Juve ha bruciato almeno 60 milioni

Per capire dove andiamo, forse è meglio prima capire da dove veniamo. Prendiamo 50 anni fa esatti. Coppa Campioni, la mamma della Champions di oggi. La Juve - come l’intero calcio italiano dalla Corea del ’66 - è completamente autarchica, l’unico straniero è l’allenatore cecoslovacco Čestmír Vycpálek, lo zio di Zeman. In porta c’è Zoff, non ancora mito ma sempre Zoff, a centrocampo il futuro commentatore Fabio Capello, in attacco Bettega e Anastasi più Altafini. Si gioca in Germania Est a Dresda e la Juve ne prende due. Al ritorno la Juve va in gol con Furino, Altafini e Cuccureddu ma ne prende altri due dai tedeschi orientali. Amen, Juve fuori al primo turno. Fine della Coppa Campioni, e siamo al 3 ottobre 1973. Succedesse oggi ai

nostri poveri presidenti verrebbe l’infarto. Passiamo alla Coppa Uefa, la mamma dell’Europa League, ci sono Fiorentina, Inter, Torino e Lazio. Le prime tre saltano subito al primo turno, e siamo ai primi di ottobre, la Lazio di Maestrelli e Chinaglia, che poi vincerà lo scudetto nel ’74, resiste un turno ancora, fino ai sedicesimi: ma a Ipswich in Inghilterra trova tale Trevor Whymark che gliene fa quattro e al ritorno all’Olimpico scoppia l’inferno, partita «all’arma bianca» come si diceva allora, una rissa selvaggia per rigori non dati alla Lazio e dati invece all’Ipswich, Chinaglia, tre gol, è scatenato, ma il 4-2 per la Lazio qualifica l’Ipswich. È il caos - invasione di campo, l’arbitro olandese Van der Kroft aggredito e assediato, incidenti, lacrimogeni. «Oh, manco co’ l’Ipswich!», ancora oggi è la tipica imprecazione del laziale furioso con l’arbitro. La società pagherà con un anno di

Foto: M. Fernandez –Ap / La Presse
PRIMA PAGINA SBOMBER
36 20 agosto 2023
FABRIZIO BOCCA

esclusione dalle Coppe e siccome vincerà lo scudetto ci rimetterà la Coppa Campioni. Siamo al 7 novembre e pure la Coppa Uefa ce la siamo giocata.

In Coppa delle Coppe invece il Milan di Rivera e Trapattoni in panchina arriverà alla finale di Rotterdam, ma ne prenderà due dai tedeschi dell’Est del Magdeburg di Sparwasser. Anche quello un bello smacco.

Era il calcio roulette che piaceva tanto proprio per la sua brutalità del dentro o fuori, fin da subito e senza classifiche. Se ti diceva male in due partite eri già ko a ottobre. Tutti insieme alla stessa ora, il mercoledì sera, ancora dovevano arrivare Martino e De Laurentiis a farci vedere i gol sulla Rai. Il giovedì notte. Un mondo europeo parallelo e accessorio, ancora primitivo e abbastanza misterioso per noi rozzi tifosi del campanile. Altra espressione tipica dell’epoca, quando si veniva elimina-

ti: «È finita, mercoledì al cinema». Figuriamoci, oggi al calcio tv ti ci incollano e devi pure pagare. Cinquant’anni dopo, adesso, il mondo è rovesciato. Giusto, naturale. Ma sarà ulteriormente rivoluzionato a partire dal 2024. Ormai il globo è il campo di gioco, il circo è internazionale per definizione, i calciatori un melting pot tale che quasi non hanno più nazionalità. E la Champions League è diventata un moloch che tutto comanda e fagocita. Restarne fuori, nonostante i 4 posti riservati a Inghilterra, Italia e Germania, e la Spagna quest’anno 5, non solo è uno smacco, è un tracollo economico insopportabile. La condanna sportiva che ha costretto la Juve a lasciare la Champions ha bruciato almeno 60 milioni. La Premier, che con la Liga è il campionato più ricco e seguito, ha lasciato fuori Liverpool, Tottenham e

FINALE

Robin Gosens dell'Inter durante la finale di Champions League tra Manchester City e Inter allo stadio Ataturk di Istanbul, il 10 giugno 2023

20 agosto 2023 37

PRIMA PAGINA SBOMBER

AI RIGORI

Fernando del Siviglia, al centro tra Bryan Cristante, a sinistra, e Zeki Celik della Roma durante la finale di Europa League a Budapest il 31 maggio 2023

Chelsea. Tutto finisce in un pozzo senza fine che inghiotte cascate di denaro: del resto sceicchi, fondo Pif (Newcastle, più i club arabi) e fondi americani ecc. ne hanno talmente tanti che non c’è limite. Il City di Guardiola, vincitore dell’ultima Champions contro l’Inter, per ora è l’unico che ha strategicizzato efficacemente i maxi investimenti. Arrivare a vincere la Champions è costato comunque a Manṣūr bin Zāyed Āl Nahyān oltre un miliardo e mezzo di sterline solo sul calciomercato. Dal City passò anche l’ormai ex ct Roberto Mancini, che lì conobbe il colore dei petrodollari. Fascino che tuttora probabilmente subisce…

Avere casse illimitate aiuta ma per fortuna non è ancora una certezza. Mettere insieme Mbappé, Messi e Neymar una follia, tecnica ed economica. Solo per Mbappé spesi 636 milioni di euro in tre anni, i tre tenori sono riusciti a sfasciarsi clamorosamente prima di vincere la Champions. Il fallimento sportivo dell’operazione Paris Saint-Germain da parte del Qatar Sport Investment provoca anche, inutile negarlo, una sadica goduria. Ma intanto il calciomercato internazionale è un vortice senza controllo: 100 milioni per Kane al Bayern, 130 stimati per Caicedo, Rice all’Arsenal per 122, Gvardiol al City per 90, senza contare gli ingaggi pa-

gati dagli arabi che nemmeno fanno più scandalo. Poi trovi il Barcellona che è negli impicci più neri, non riesce nemmeno a tesserare i propri giocatori.

L’Italia ha piazzato in Champions Napoli e Lazio, più Milano. Veniamo da tre finali perdute da Inter in Champions League, Roma in Europa League e Fiorentina in Conference League. Le considerazioni tecniche e i traguardi virtuali sono chiacchiere. Se Lukaku la butta fuori a porta vuota, ti resta solo un gran rodimento. L’ultima vittoria è stata la Conference 2022 della Roma di Mourinho: il cui valore rientra nella categoria «sì, va bene, però…». L’Europa League non l’abbiamo mai vinta da quando ha sostituito l’Uefa, l’ultima Champions vinta è quella del Triplete interista del 2010, sempre con Mourinho.

Ora il sistema dei gironi è all’epilogo. Dal 2024 si passerà da 32 a 36 club, ma - ecco il bello - in classifica unica. Ogni squadra giocherà 8 partite, tutte con avversari diversi, sorteggiati in fasce, 4 in casa e 4 fuori. Il classificone a 36 è comunque unico, le prime otto passano ai sedicesimi, dal 9° al 24° posto si va a un playoff che serve a reperire le altre otto della fase a eliminazione diretta. Lo chiamano “Swiss Model”: la prima volta, pare, fu applicato a fine 800 nei tornei di scacchi. Per la Champions settimane esclusive senza le altre Coppe, si giocherà martedì, mercoledì e giovedì. Alla Uefa sostengono che il progetto fosse già allo studio prima ancora della notte fra domenica 18 e lunedì 19 aprile 2021 in cui fallì il golpe della Super Lega. Che non è, inoltre, un occhio strizzato ai superclub, che anzi ci guadagneranno i medio piccoli, e soprattutto che potrebbe essere una mattanza di superclub e superstar che non dovessero preoccuparsi di vincerle tutte e basta. Il classificone unico non dà certezze, non permette di fare calcoli come ora, ci saranno più sorprese e non andranno avanti sempre gli stessi. Dedicato a chi pensa che nel calcio contano solo i soldi.

Foto: D. Erdos –Ap / La Presse
Il City di Guardiola è l’unico che ha dato una strategia agli investimenti. Vincere
è costato comunque a Manṣūr oltre un miliardo e mezzo di sterline soltanto sul calciomercato
38 20 agosto 2023

Michela Murgia la narratrice che faceva anima

Il caso raro di un’intellettuale in grado di proiettarsi tutta intera nel mondo che desiderava perché almeno una fiammella di quel fuoco possibile restasse accesa

POLITICA L’ANTITALIANA
40 20 agosto 2023

IL SUCCESSO

Michela Murgia qui nel 2009 alla presentazione di Accabadora a Courmayeur. Il romanzo vinse il premio Campiello

Q

uando questo articolo verrà pubblicato saranno passati dieci giorni dalla notte di San Lorenzo e dalla morte di Michela Murgia. Saranno scivolati nelle ombre della rete milioni di post, di storie Instagram, di elzeviri e di ricordi, di fotografie in cui Michela sorrideva, perché è raro che non lo facesse, anche se alcuni andavano in cerca delle sue immagini imbronciate per poterle dare della strega.

Ma saranno passati comunque dieci giorni, e dunque i fiori di carciofo del funerale saranno appassiti, e le notifiche sui telefonini, impazzite nelle prime ore, saranno quasi nulle, e avremo riso nel frattempo, e l’estate starà dolcemente volgendo al termine, e i giorni di agosto si staranno consumando in attesa della grande ripresa, le agende pronte, i telefoni carichi, i biglietti dei treni già fatti. In altre occasioni, avremmo già dimenticato chi abbiamo pianto con sollecitudine pubblica, distribuendo ricordi e immagini come dolcetti.

Ma questa è una storia diversa. Non dimenticheremo Michela Murgia: e non parlo di coloro che hanno avuto la benedizione di conoscerla e di ascoltarla e di leggerla o addirittura di vivere con lei. Parlo dei molti che, anche se non hanno mai aperto un suo libro, sanno chi era, e quale era la sua concezione della vita e della giustizia e dell’amore.

Perché Michela è stata uno dei rarissimi intellettuali in grado di proiettarsi tutta intera nel mondo che desiderava perché almeno una fiammella di quel fuoco possibile restasse accesa. È molto difficile definirla con una parola sola. Per una volta, scrittrice non basta: perché sono pochi gli scrittori in grado di tessere un unico filo dalla prima opera all’ultima, senza che chi legge se ne renda conto. Mi viene in mente Stephen King, che Michela amava moltissimo, così come amava tutte le storie: negli anni in cui faceva la portiera di notte giocava di ruolo, e leggeva Tolkien e parlava l’elfico, e leggeva prima ancora Marion Zimmer Bradley, scoperta sulla nave che dalla Sardegna la portava nel continente (lo ha raccon-

L’IMPEGNO

Michela Murgia nel 2019 al Liceo Virgilio di Roma occupato. Una delle tante immagini del suo impegno da intellettuale militante

tato in un piccolo e prezioso libro, L’inferno ha una buona memoria, pubblicato da Marsilio). E leggeva George Martin e le Cronache del ghiaccio e del fuoco: al Salone del libro di qualche anno fa scelse di omaggiare Arya Stark, la giovanissima vendicatrice de Il Trono di Spade Aveva anche lei una «lista di Arya», con i nomi delle persone che le avevano fatto del male. Almeno per un po’, credo: perché poi la lista è diventata troppo lunga, viste le tonnellate di odio che negli anni le si sono riversate addosso. Dunque, Michela era una narratrice lucidissima e geniale che fin dall’inizio ha avuto chiaro cosa doveva raccontare. Prima con Il mondo deve sapere, forse il più anomalo dei suoi libri, giustamente feroce nel mettere in scena una giovane donna colta che impatta con il mondo del lavoro (in un call center, nel caso). Ne seguì un film di

POLITICA
L’ANTITALIANA
Sono pochi gli scrittori in grado di tessere un unico filo dalla prima opera all’ultima, senza che chi legge se ne renda conto. Lucidissima e geniale ha avuto chiaro subito cosa doveva raccontare
42 20 agosto 2023

Paolo Virzì, e non fu un’esperienza semplice: posto che Michela abbia mai avuto esperienze semplici. Venne Accabadora Fu un trionfo.

Se Michela fosse stata simile a molti altri colleghi, avrebbe continuato sulla strada sicura, quella della Sardegna rurale e arcaica narrata con gli occhi di una donna di oggi.

Non lo fece, se si esclude l’omaggio teatrale in cui interpretò Grazia Deledda in Quasi Grazia. Invece, continuò a curare il blog (aveva un blog, e già allora aveva cominciato a capire come il mondo della Rete fosse di enorme importanza per costruire comunità) e cambiò rotta. Scrisse un saggio, Ave Mary: lo scrisse da credente, da laureata in teologia, da femminista. Perché femminista era sempre stata, dopo quel famoso viaggio in nave, e stava mettendo insieme i tasselli di quella che sa-

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rebbe stata l’unica grande opera dove si parla di diritti, di maternità, di amore.

Maria, che è al centro di Accabadora, è una figlia d’anima. Chirù, il protagonista del suo terzo romanzo, è un figlio d’anima. Di figli e figlie d’anima o di elezione o di scelta si parla nei saggi, in Saremo Tempesta, in God Save the Queer. Michela faceva, in una parola, anima. Fare anima, diceva John Keats e dopo di lui James Hillman, significa stare nel sacro e nella vita, far sì che la vita stessa diventi sacra attraverso l’amore reciproco e attraverso lo stare insieme per ottenere che anche chi non riesce ad aver voce trovi le parole per chiedere di spezzare la solitudine, che è quel che più conta, poi, nell’esperienza del mondo.

Tre ciotole, l’ultimo libro, è davvero la Nigredo, l’Opera al nero, il momento in cui si lasciano andare tutti gli elementi alchemici per tornare al punto di partenza. Solve et coagula. Per raggiungerla, Michela non ha risparmiato un solo istante della sua vita.

Mi fa male leggere che avrebbe usato i social per ottenere like. Non è così: ha usato i social, così come ha usato la radio e la televisione e i giornali come L’Espresso per raggiungere il maggior numero di persone possibile e non per convogliarle nei teatri dove presentava libri o dove proponeva, con la meravigliosa Chiara Tagliaferri, l’esperienza live del podcast Morgana (che ha raccontato alle giovani donne, più di altro, cosa significa essere considerate storte o marginali, e come si esce da quella condizione). Lo ha fatto per distribuire passione e consapevolezza: pagando, tutte le volte, come quando in Istruzioni per diventare fascisti ci ha messo davanti a quello che non volevamo vedere.

Fin quasi all’ultimo giorno. Quello che, come chi la ama spera, le abbia consentito di passare all’Albedo degli alchimisti. Di essere cigno, rosa bianca, luce.

Foto 40-41: V. Pennicino/Getty Images. Foto pagine 42-43: C. Fabiano / La Presse
20 agosto 2023 43

La rubrica che smascherava

Femminismo

Perché Meloni non è meglio di Salvini

Dovresti essere contenta di Giorgia Meloni, dopotutto è l’unica donna leader di partito in Italia». Appare improvviso così, in mille frasi simili a questa, il grande equivoco del femminile scambiato per femminismo. Una donna a capo di un partito che affonda le sue radici nella tradizione fascista non solo non dovrebbe compiacere nessunə che abbia a cuore l’emancipazione femminile, ma impone anzi di far scattare una serie di allarmi ulteriori rispetto a quelli che già trillano per questioni di tutela dei valori democratici. Cosa succede nella testa di chi è convintə che una donna sia sempre un valore aggiunto a prescindere dal contesto e dalle modalità con cui agisce? Perché Meloni dovrebbe allertarci menodiquanto possafare un Matteo Salvini di medesima area ideologica? La risposta è nella struttura del pensiero patriarcale, che attribuisce pregiudizialmente al maschile e al femminile inclinazioni differenti. È facile per tuttə guardare a un ma-

Diritti

schio a capo di un partito di estrema destra come si guarderebbe all’uomo nero per definizione (...). La donna al comando di un partito di matrice storica fascista, come già accadde con Marine Le Pen in Francia, sembra misteriosamente stemperare questo effetto allarmante. L’insistenza sui suoi marcatori di genere, soprattutto quello della maternità, conferma in chi ascolta il pregiudizio positivo di avere a che fare con una forma di autoritarismo sostenibile, privo degli estremismi del maschile (...).

Un governo Meloni sarebbe espressione democratica? Sì, se la democraticità di un leader si misurasse dal consenso che raccoglie, ma questo non è vero: anche i peggiori dittatori del ’900 sono arrivati al potere passando per le urne. La democrazia si misura dalla qualità della vita di chi esprime dissenso e chi si è opposto a Meloni in questi mesi ha potuto misurare come la leader di Fratelli d’Italia tratti chi pronuncia parole di critica alle sue (...). Giugno 2021

Al netto dei giochi politici che sono costati l’affossamento del ddl Zan, la questione dell’odio verso categorie umane specifiche e di come bisognerebbe affrontarlo resta aperta. Per capire perché non bisogni mollare nemmeno un istante l’enorme partita culturale dei diritti civili è utile osservare come, all’indomani della bocciatura in Parlamento, il fronte del conservatorismo intellettuale abbia sentito il bisogno di ribadire gli argomenti con cui per mesi aveva osteggiato la proposta di legge. A farlo sono le stesse firme che gridano contro il pericolo della fantomatica cancel culture – l’ultimo

a farlo è stato Luca Ricolfi dalla prima pagina di Repubblica – o che inorridiscono per il presunto stupro della lingua italiana perpetrato da chiunque provi a sperimentare soluzioni che smascherino i dispositivi di potere riflessi dal linguaggio.

A queste persone verrebbe voglia di dire: non compiacetevi, perché ogni volta che scrivete un editoriale dove ve la prendete con gli obiettivi o i metodi delle categorie discriminate a cui non appartenete, non state agendo da acuti intellettuali in direzione ostinata e contraria. Non sentitevi coraggiosi paladini del pensiero alternativo e “scorretto”, perché è vero il contrario: state agendo in noiosa conformità con decine di commentatori conservatori che parlano indisturbati dalla medesima posizione, quella di chi è cresciuto comodo in un mondo fatto

POLITICA L’ANTITALIANA
44 20 agosto 2023
Il ddl Zan e il fortino dei privilegiati

l’ipocrisia del potere

Sinistra

Il Pd tace, quando dovrebbe urlare

Caro Enrico Letta, non ci siamo mai incontratə come persone, ma è al segretario del Pd che scrivo questa lettera pubblica per fare una sola domanda. Qualche settimana fa, all’indomani della firma del presidente Mattarella sul decreto cosiddetto anti-rave – in realtà anti-qualsiasi espressione pubblica di dissenso collettivo a discrezione delle questure –sulla prima pagina di un giornale ho letto il titolo “Mattarella sconfessa Saviano e la Murgia”. È spontaneo chiederle: perché ci sono il mio nome e quello di Saviano, invece che il suo o di qualcun altro dell’opposizione? Perché siamo noi quelli che i capi dell’estrema destra espongono alla rabbia della loro base sui social media? Come mai la destra si comporta come se la sua opposizione fossero gli intellettuali, invece che gli avversari politici seduti in Parlamento? La risposta è brutta, ma evidente: non state facendo il vostro lavoro e noi ci ritroviamo nostro malgrado a farlo al posto vostro. In

tutto a sua misura. (...) La logica del privilegiato è quella di chi si considera l’unica unità di misura delle cose e non è quindi strano che non colga il ridicolo di continuare a ripetere «non è un mio problema, ergo non è un problema». C’è una teoria, nello studio della parabola delle lotte per i diritti civili, che dice che in ogni società in cui si vive un conflitto di potere il gruppo privilegiato cederà il suo vantaggio al gruppo discriminato solo quando il privilegio avrà ormai un margine di esercizio così risicato che richiederà più energia difenderlo di quanti vantaggi offra agirlo. Lo abbiamo visto qualche anno fa, quando le forze politiche in Parlamento hanno riconosciuto alle coppie omosessuali un surrogato di matrimonio solo nel momento storico in cui le nozze non erano più l’ambita meta di vita nemmeno per le coppie etero.

questo vi siamo anche comodi. Basta l’atto di prendere posizioni pubbliche contro il nuovo fascismo governativo per essere associati a voi, il soggetto politico che per eredità storica dovrebbe essergli antagonista, tanto che ad alcuni sembra persino che siate voi, attraverso le nostre voci, a prendere posizione. Invece non è così: siete troppo impegnati a giocare al vostro Risiko interno, un congresso che nella migliore delle ipotesi tirerà fuori una faccia pulita in cui la base può ancora credere, ma che avrà dietro il solito verminaio di piccoli potentati a reggere i veri fili.

Nel mentre, il governo Meloni fa una scelta catastrofica e illiberale al giorno e l’urgenza civica impone a chiunque abbia una voce pubblica di usarla. Lo stiamo facendo, ma siamo stanchə di fare da supplenti morali a un partito incolore, che tace invece che parlare, che sussurra dove dovrebbe gridare e che cerca mediazione dove dovrebbe innalzare barricate (...). Novembre 2022

Il fatto che stavolta la maggioranza non sia stata disposta a cedere di un millimetro sull’estensione delle aggravanti d’odio verso disabili, donne e persone Lgbt, significa due cose: che la possibilità di esprimere o fomentare odio impunemente verso queste categorie è ancora fondamentale nel discorso pubblico di una parte importante dei partiti e che non è considerata abbastanza grave dagli altri. (...) Il ddl Zan non vietava l’odio transfobico, come la legge Mancino non vieta quello razziale, ma lo indicava come pensiero discriminatorio comune contro il quale si poteva agire istituzionalmente con l’educazione specifica nelle scuole. Il fatto che si faccia finta di non sapere che era culturale, e non penale, il punto più controverso del ddl, dimostra che è proprio quella cultura che non si vuol cambiare. Novembre 2021

Foto: La Presse
20 agosto 2023 45

L’autunno di Giorgia “bifronte”

MASSIMILIANO PANARARI

Il

Il neopopulismo è un fenomeno politico complesso e un prisma pieno di sfaccettature (spesso contraddittorie). E dei populismi – variamente intesi e declinati – l’Italia è da almeno un secolo un laboratorio permanente e un’officina «aperta h 24». Così, per parlare solo degli ultimi anni, il nostro Paese ha sperimentato un governo gialloverde (il Conte I, giugno 2018 – settembre 2019), sorto dalla confluenza del neopopulismo postideologico del Movimento 5 Stelle con la Lega nazional-populista. E dopo il Conte II e l’esecutivo presieduto da Mario Draghi, è la volta del governo di destracentro a trazione meloniana. Tra i cui meandri, peraltro, come confermato da vari segnali, si sviluppano le geometrie variabili di «un’intesa abbastanza cordiale» nerogialla, con relativi scambi tra FdI e M5S basati su reciproci interessi; non siamo ancora al «melocontismo», ma – come dire – fra neopopulisti ci si intende, per l’appunto.

Nulla di così stupefacente, tuttavia, poiché anche quando sono in lotta per strapparsi voti – come nel caso delle fibrillazioni tra Matteo Salvini e Giorgia Meloni – il dna risulta, almeno in parte, comune e condiviso. Un codice genetico che rende i leader e i partiti populisti bicefali e bicipiti, prontissimi – a dispetto dei proclami moraleggianti (e «anticasta») che costituiscono il pezzo forte delle loro narrazioni –all’ambiguità e all’adattamento alle circostanze. L’ultima, eclatante incarnazione è quella di «Meloni bifronte», che nel corso di questi mesi ha inanellato una sfilza di inversioni a U, sterzate impreviste e mutamenti repentini (nonché di passi del gam-

bero e stop and go). Senza mai motivarli, né sciogliere i plurimi nodi di Gordio ereditati da un «passato che non passa», come nella natura dei neopopulisti, che non si giustificano per le contraddizioni e gli improvvisi cambi di rotta.

Il repertorio è vasto e tocca praticamente tutti gli ambiti. C’è il piano ideologico, dalle dichiarazioni di vari esponenti di FdI (e di qualcuno della Lega, che torna a competere sul segmento più a destra dell’elettorato) su fascismo e dintorni all’affaire De Angelis e al negazionismo della matrice neofascista della strage di Bologna del 2 agosto 1980. C’è quello politico più propriamente detto, con la scoperta che sulle migrazioni «l’approccio securitario non basta»: già, specialmente al cospetto di un incremento degli sbarchi del 111 per cento in un anno (come certifica il Viminale) e nonostante una retorica elettoralmente alquanto redditizia fondata su blocchi e respingimenti. C’è quello delle politiche sociali, dove su determina-

POLITICA L’ANALISI
governo Meloni incarna il neopopulismo di destracentro.
Con la tendenza a brusche inversioni di marcia.
Presto, però, le contraddizioni verranno al pettine
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ti temi – dal reddito di cittadinanza al salario minimo – stanno pure emergendo le tensioni tra la leadership meloniana e i gruppi eredi della «destra sociale». E c’è quello, molto vasto, delle politiche economiche, nel quale le contraddizioni esplodono e risultano palesi, come ha mostrato l’ultimo decreto legge Asset e investimenti, contenente di tutto un po’. E, per l’appunto, in forma anche contraddittoria, oltre che onnicomprensiva, secondo quello stile dei «dl omnibus» che sollevano sempre alcune perplessità nel presidente della Repubblica, anche se vi appone la firma. Un decreto che da (pseudo)liberista, secondo le attese della vigilia, si è convertito in uno strumento di protezione delle corporazioni e di attacco propagandistico alle banche e alle compagnie aeree, fotografando delle questioni reali, ma proponendo soluzioni discutibili e inappropriate, o sostanzialmente irrealizzabili.

E, dunque, ecco il pasticciato provvedimento di tassazione degli extraprofit-

IN SPAGNA

La premier Giorgia Meloni in videocollegamento a un comizio elettorale di Vox, a Valencia, lo scorso luglio

ti delle banche, con le divergenze interne alla coalizione magicamente convertite in «problemi di metodo», come li ha liquidati la premier, e la seria possibilità di una catena di reazioni controproducenti, dalla sfiducia dei mercati agli istituti finanziari che scaricano i costi aggiuntivi sui risparmiatori. E, ancora, la narrazione sullo sviluppo tecnologico quale priorità che si traduce, assai più prosaicamente, nell’applaudire all’ipotesi di un surreale scontro «da gladiatori delle arti marziali» in qualche anfiteatro di età romana fra Elon Musk e Mark Zuckerberg e in una semplicistica idea di sovranità digitale (come già per quella alimentare). Vale a dire la volontà del governo di entrare (fino al 20%) nel capitale della società della rete di Tim (Netco), esplicitata tramite la firma da parte del Mef di un «memorandum of understanding» con il fondo statunitense Kkr (e che richiede 2,6 miliardi di euro di denaro pubblico da reperire nella prossima legge di Bilancio). Un’ulteriore manifestazione dello statalismo che sta nel codice genetico di questa destra arrivata al potere, ben lontano dagli annunci delle «piccole (le ennesime incompiute e impossibili, ndr) rivoluzioni liberali». Interventi al di fuori delle regole di mercato che ribadiscono la concezione incline al corporativismo e alla ricerca del consenso à la carte presso le varie categorie (in primis quelle dei supporter storici, dai tassisti ai balneari).

Per adesso ha funzionato e le contraddizioni sono state tamponate, ma all’orizzonte di «Giorgia bicefala» si prospettano un «autunno caldo» senza adeguate risorse finanziarie e il complicato appuntamento delle Europee del 6-9 giugno 2024, il quale metterà a dura prova la sua ambizione di essere la «nuova Merkel». E da cui derivano gli ulteriori capovolgimenti e le frequenti oscillazioni senza mai giungere alla nascita di una destra conservatrice di stampo europeo a tutti gli effetti, come da lei vanamente promesso in ripetute occasioni. E si capisce il perché…

Foto: J. Gil –Europa Press / GettyImages
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Operazione sfinimento

SIMONE ALLIVA

Prendiamoci qualche giorno di pausa. Di silenzio. Di letture», Gianni Cuperlo, leader della mozione arrivata al terzo posto al congresso, si sottrae. Stefano Ceccanti, ex parlamentare, esponente di primo piano di “Base riformista”, firmatario di una lettera in cui attacca, passo dopo passo, tutte le scelte del nuovo Partito Democratico, non vuole commentare. E per Stefano Bonaccini: non è il momento. Un bilancio sulla segretaria Elly Schlein resta, oggi, sommerso. Ma c’è, sia tra gli oppositori interni della segretaria che tra i suoi sponsor, aria di scontento. Mentre sulla questione salario minimo, la sinistra appare, in uno dei pochi momenti della sua storia, unita, dentro il Partito Democratico si consuma una guerra sotterranea, un gran lavorio di candidati e candidabili, telefonate e incontri, liste buone e fasulle, nomi da nascondere, altri da bruciare. Obiettivo: elezioni Europee 2024. Nessuno vuole e può perderci la faccia e la poltrona. E proprio per questo che non si critica a viso aperto la segretaria. Eppure, i fronti sono tanti.

Primo: quello del dialogo nel partito, assente. «Schlein elogia l’unità ma lei stessa parla con pochi e non ascolta nessuno. Continua a ripetere “unità” e “uniti nelle differenze”, “la bellezza del confronto” poi fa come la Regina di Alice nel Paese delle meraviglie: qui tutte le strade sono mie». È il sentimento che corre nella minoranza. Anche tra i più dialoganti che ancora non hanno digerito la sostituzione di Cuperlo alla guida della Fondazione del Pd e la promozione di Nicola Zingaretti

Molti raccontano di un Gianni Cuperlo furioso dopo aver appreso la notizia mezz’ora prima che fosse pubblica. Non è l’unico. Bisognava esserci durante una lunghissima riunione alla presenza della capogruppo del Pd alla Camera, Chiara Braga, convocata la sera del 18 luglio per aprire una discussione sulla gestazione per

altri. Non è stato soltanto il tema a spaccare ma il metodo: «Dopo aver collezionato sconfitte su sconfitte alle Amministrative, il Partito Democratico non ha più fatto riunioni di direzione, nessuna assemblea di Partito. Poi si decide di notte, all’insaputa di gran parte del gruppo dirigente, la linea su qualcosa di insensato come il reato universale che pure potrebbe spaccare il partito. Ci sono cose che vanno discusse in direzione politica, non con il solo il gruppo parlamentare». A dirlo, sottovoce, non sono gli ex renziani ma quelli che oggi sostengono pubblicamente Elly Schlein.

Più in chiaro viene ribadito a Cesena il 21 luglio durante la presentazione della “non corrente” (di fatti una corrente) di Bonaccini, cioè “Energia Popolare”. Presenti anche i nomi di chi rischia e di chi aspira a Bruxelles: Lorenzo Guerini, Alessandro Alfieri, Pina Picierno, Brando Benifei, Giorgio Gori

I posti a disposizione oscillano tra i 17 e i 19. Insomma, l’ipotesi più accreditata è che il Pd ripeta il risultato del 2019 (22%, 19 seggi) o registri una lieve flessione (20%, 17 seggi). Probabilmente l’unico partito immobile. Sono dietro l’angolo i ribaltoni, col balzo in avanti di FdI (aveva il 6,4%, 5 seggi) che potrebbe addirittura triplicare e il ridimensionamento della Lega (34,3%, 28 seggi nel 2019) e del M5S (17,1%, 14 seggi) con in

POLITICA I TORMENTI DEL PD
Idillio concluso. Al via il logorio della segretaria tra invettive sul dirigismo, malumori, dissidi. Tutto sotto voce: ci sono le Europee e il terrore di rimanerne tagliati fuori
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più le incognite di Forza Italia post-Berlusconi (8,8%, 6 seggi) e del Terzo Polo in corsa forzata dato che nessuno dei due partiti supera da solo, al momento, la soglia del 4% necessaria per accedere al Parlamento di Strasburgo.

LEADER

Elly Schlein, già numero due dell’Emilia-Romagna, dal 12 marzo scorso è la segretaria del Partito Democratico

Ma quello in corso nel Pd è un vero risiko del potere, nebuloso perché nel regno di Schlein tutto è in movimento. Per le candidature si fanno i nomi di Sandro Ruotolo, giornalista che gode di una certa popolarità, ma soprattutto di Roberto Saviano, molto amico della segretaria. Salgono le quotazioni della calabrese Jasmine Cristallo, del movimento delle Sardine, entrata da pochi mesi in direzione nazionale. Resta invece in bilico Pina Picierno, per cui la candidatura da capolista è già fuori discussione, tuttavia, sarà difficile giustificare l’assenza dalle liste della più alta in grado nel Parlamento Europeo, vice presidente succeduta a David Sassoli. Spinge invece Andrea Orlando, che ha sostenuto Schlein alle primarie e non potendo chiedere un’altra deroga per fare il deputato punta su Strasburgo, candidatura che passa per l’erosione di un volto noto del Pd italiano all’Europarlamento, quello del capodelegazione Brando Benifei. Molto più giovane, sostenitore della mozione Bo-

naccini quindi sacrificabile. La segretaria dovrà dunque attraversare lunghe riunioni dense di scontri, multiformi lusinghe, ego straripanti, consapevole, da ex europarlamentare esperta, che il quinquennio europeo sarà uno dei più importanti, l’ultimo dell’agenda 2030, con il collasso climatico alle porte e la decisione di come e se rinnovare il Next Generation Eu. Ma non solo. È tutta interna alla segreteria una guerra di ombre cinesi. Le più larghe quelle di Dario Franceschini che insieme a Andrea Orlando e Nicola Zingaretti oscurano il tentativo di Schlein di «rivoluzionare» il partito. Tre nomi che dopo averla sostenuta l’hanno messa di fronte al muro del regolamento che impone candidati perdenti e «cacicchi» che proprio la segretaria aveva promesso di estromettere. Le liste devono essere votate dai due terzi della direzione. Un gioco tutto interno ai do ut des al quale la segretaria in stato d’assedio tenterà nei prossimi mesi di sottrarsi.

Foto: A. BenedettiCorbis / Getty Images
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Licenza di strage La Gladio nera depista ancora

POLITICA TERRORISMO E SEGRETI DI STATO
L’ATTENTATO La stazione di Bologna sventrata dopo la strage, il 2 agosto 1980. I morti furono 85 50 20 agosto 2023

PAOLO BIONDANI

Perché una parte della destra non può dire la verità sulla strage di Bologna? Per quali motivi la premier Giorgia Meloni e altri esponenti di Fratelli d’Italia non hanno voluto riconoscere neppure dopo 43 anni, nel giorno della commemorazione delle 85 vittime, che l’eccidio del 2 agosto 1980 fu commesso da terroristi neofascisti? Come mai Marcello De Angelis, già vicecapo del gruppo armato Terza Posizione, oggi portavoce del presidente della Regione Lazio, continua a difendere non solo il cognato, Luigi Ciavardini, ma anche Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, i killer dei Nar, condannati in tutti i gradi di giudizio, che confessarono di aver ucciso perfino loro camerati?

Una risposta logica, non definitiva ma molto documentata, si può trovare nell’ultima sentenza sulla strage di Bologna. È il verdetto di 1.704 pagine che ha condannato all’ergastolo, in primo grado, Paolo Bellini, un criminale con una storia impressionante: negli anni del terrorismo era un killer neofascista, latitante in Italia con una falsa identità brasiliana, poi è diventato un sicario della ’ndrangheta, reo confesso di almeno undici omicidi, e un infiltrato dello Stato in Cosa Nostra.

Nelle motivazioni depositate tre mesi fa, i giudici concludono che Bellini fu «certamente» uno degli esecutori della strage, ma era «una pedina» che obbediva a «un livello superiore»: «una rete eversiva e occulta», più segreta di Gladio, composta da «militari ed esponenti dei servizi segreti deviati, che seguivano le direttive dei vertici della loggia P2». La ricostruzione giudiziaria fa luce per la prima volta anche sulle coperture politiche della latitanza di Bellini, prima e dopo la strage, che secondo la sentenza furono garantite da almeno tre parlamentari del Movimento sociale italiano (Msi): lo storico partito da cui sono nati An e poi FdI, che ne conserva il simbolo della fiamma tricolore. Per dirla in breve, la sentenza più completa sulla bomba alla stazione, dove si concentrano i risultati di 43 anni di indagini e processi, sembra un vaso di Pandora, che può spargere veleni anche nel pantheon della destra di oggi.

I giudici di Bologna documentano con dovizia di prove che il quinto neofascista

condannato per la strage è stato protetto da apparati deviati dei servizi fin dal primo omicidio. Nel giugno 1975 a Reggio Emilia viene assassinato uno studente di sinistra, Alceste Campanile. Il depistaggio è immediato: già la mattina dopo, un fonogramma anonimo del Sid indirizza le indagini verso una falsa «pista rossa», interna a Lotta Continua. La velina dei servizi diffama la vittima, insinuando legami inesistenti con le Brigate rosse, e viene pure mostrata al padre, che per anni perseguita gli amici innocenti di suo figlio. L’omicidio viene confessato da Paolo Bellini, come killer neofascista di Avanguardia nazionale, più di trent’anni dopo, quando non è più punibile grazie alla prescrizione.

Bellini commette altri reati violenti tra il 1974 e il 1976: un tentato omicidio e due attentati esplosivi, che lui stesso ricollega al padre autoritario. Aldo Bellini, ex paracadutista, aveva «rapporti assidui con politici missini e ufficiali dei servizi». Anche il figlio Paolo conferma che era legato a «militari di estrema destra» e a un loro referente, il senatore Franco Mariani, che lo mandavano anche all’estero, in nazioni controllate da dittature, a loro dire, su richiesta del leader storico del Msi, Giorgio Almirante Bellini aggiunge che il padre gli chiese più volte di entrare nei servizi, ma lui giura di aver rifiutato.

Ricercato dal 1976, Bellini scappa in Brasile, dove viene registrato con il falso nome di Roberto Da Silva, con una procedura assurda: un’autocertificazione, controfirmata da un altro neofascista ita-

Foto: Olycom / LaPresse
Un killer fasciomafioso protetto per quarant’anni da politici di destra e servizi deviati. La condanna di Paolo Bellini svela
“il livello superiore”: la “rete occulta” manovrata dalla P2
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liano in fuga. Quindi Bellini ottiene un vero passaporto brasiliano e rientra in Italia. Nel 1977 viene ammesso all’aeroclub di Foligno e ottiene il brevetto di pilota. A presentarlo è il solito senatore Mariani, che fa intervenire un onorevole missino di Foligno, Stefano Menicacci, lo storico avvocato di Stefano Delle Chiaie, il leader di Avanguardia nazionale. A raccomandare quel «brasiliano con l’accento reggiano» è un altro senatore del Msi, Antonio Cremisini. Dal 24 maggio 1978 Bellini inizia a trasportare in aereo anche il magistrato Ugo Sisti: il procuratore capo di Bologna.

A Foligno il finto Da Silva ottiene addirittura il porto d’armi. L’avvocato Menicacci, sentito nell’ultimo processo, ha giurato di non aver mai sospettato che quel brasiliano fosse in realtà un latitante neofascista italiano, ma si è visto accusare di falsa testimonianza. A fine luglio Menicacci è finito pure agli arresti domiciliari, a 91 anni, con l’accusa di aver orchestrato altre false testimonianze a favore di Delle Chiaie.

Per ricostruire «il livello superiore», i giudici trascrivono molti verbali e sentenze sui terroristi neri protetti dai servizi, ma anche l’interrogatorio di un vecchio amico e socio di Bellini, l’antiquario Agostino Vallorani: «Paolo mi raccontò della sua appartenenza a uno strano e per me altamente pericoloso mondo dell’estrema destra. Mi disse che aveva fatto parte di gruppi incaricati, in caso di colpo di Stato, di prelevare dalle loro abitazioni i comunisti di Reggio Emilia per segregarli in uno stadio».

Il 2 agosto 1980 Bellini, ancora sotto falso nome, è in stazione a Bologna quando esplode la bomba: lui lo nega, ma è stato ripreso in un filmato e riconosciuto dall’ex moglie, che ha fatto crollare il suo alibi.

Il 4 agosto la polizia perquisisce l’albergo del padre Aldo, dove spunta il procuratore Sisti, che ha dormito lì, anche se l’hotel è chiuso. Con loro c’è l’avvocato di famiglia, che è nipote del senatore Mariani. Sisti viene poi indagato per favoreggiamento, ma è prosciolto. Sostiene che il suo amico Aldo

gli nascose di avere un figlio latitante e di non aver capito che fosse il suo pilota brasiliano. Oggi a smentirlo è lo stesso Paolo Bellini, che ai giudici racconta: «Una settimana dopo la strage, incontrai Sisti e mio padre, che mi chiesero di entrare nei servizi. Ma io rifiutai».

L’amico testimone:

Il procuratore aveva rapporti strettissimi con i vertici piduisti del Sismi. E ha organizzato almeno tre manovre per screditare le indagini sui neofascisti e accreditare «false piste internazionali», pochi giorni dopo un’identica richiesta di Licio Gelli a un altro ufficiale piduista. Il 26 settembre Sisti viene nominato capo delle carceri (Dap). E nel maggio 1982 toglie al Sisde e assegna al Sismi l’autorizzazione a trattare in carcere con il boss della camorra, Raffaele Cutolo, per far liberare l’assessore democristiano Ciro Cirillo, rapito dalle Brigate rosse. Il generale autorizzato da Sisti è il suo amico Pietro Musumeci, affiliato alla P2, poi condannato con Gelli per i depistaggi di stampo terroristico del gennaio 1981.

Bellini viene arrestato a Pontassieve il 15

Foto: M. Nucci / LaPresse, Olycom / LaPresse POLITICA TERRORISMO E SEGRETI DI STATO
“Mi rivelò che apparteneva a una struttura neofascista molto pericolosa, in caso di golpe dovevano rinchiudere in uno stadio i comunisti di Reggio Emilia”
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febbraio 1981 su un furgone carico di mobili rubati, ma resta in carcere sotto falso nome. Il 31 dicembre una fonte del Sisde rivela che il finto brasiliano è Bellini, ma la notizia viene dichiarata «segreto di Stato». Il neofascista viene smascherato solo nel marzo 1983, dopo l’ennesima copertura. I carabinieri chiedono al distretto di Modena, dove Bellini ha fatto il militare, le sue impronte digitali, che sono sparite dal fascicolo: le aveva nascoste un colonnello.

Dall’aprile 1991 all’autunno 1992 Bellini si infiltra in Cosa Nostra, per conto di un maresciallo dei carabinieri (presentatogli da Vallorani) che cerca di recuperare opere d’arte rubate. In Sicilia incontra Antonino Gioè, un boss poi condannato per la strage di Capaci. Ed è Bellini a suggerire la strategia di attacco ai monumenti, poi realizzata dalla mafia nel 1993. Gioè muore in carcere in un suicidio anomalo, bollando Bellini come «infiltrato dei servizi».

In quei mesi l’ex neofascista è già diventato un killer della ’ndrangheta. Scoperto e arrestato, si accredita come pentito e confessa di aver commesso, dal 1990 al 1999, otto delitti, due tentati omicidi e un attentato esplosivo con decine di feriti in un bar di Reggio Emilia.

Oltre a Bellini, nella stazione di Bolo-

CONDANNATI

Paolo Bellini, con il fotogramma del filmato che secondo l’accusa lo ritrae alla stazione di Bologna all’ora della strage, all’ultima udienza prima della sentenza, il 6 aprile 2022. A sinistra: Valerio Fioravanti e Francesca Mambro durante il loro processo

gna, alle 10.25 del 2 agosto 1980, c’era un altro latitante, per furti e truffe, Sergio Picciafuoco. Ferito dalla bomba, si è fatto curare sotto falso nome. Condannato in primo grado, viene poi assolto. Ora i giudici scrivono che quel verdetto fu un errore, dovuto all’insufficienza di prove dei rapporti tra Picciafuoco, i neofascisti dei Nar e i servizi deviati. Le nuove indagini documentano, tra l’altro, che ha usato anche a Bologna una carta d’identità fabbricata da un falsario di fiducia di due ufficiali piduisti. Quei documenti dei servizi arrivarono anche ad altri neofascisti di Terza Posizione, il gruppo di Ciavardini.

Picciafuoco oggi risulta legato anche a una sigla nera (“Mia”) che organizzava attentati in Alto Adige. E ha avuto legami inconfessabili con Bellini. Il 12 ottobre 1990, da poco assolto, è andato a Reggio Emilia a chiedergli soldi e una pistola, dicendogli: «Tu puoi farmela avere, perché sei uno dei servizi». Bellini ammette l’incontro, ma giura di averci litigato, urlandogli: «Sei tu il provocatore, sei tu che eri nel Mia».

Picciafuoco è morto nel marzo 2022. Al processo ha negato tutto, perfino i suoi verbali passati. Ha ammesso però di essere diventato amico, in carcere, di Carlo Maria Maggi: il capo di Ordine Nuovo nel Triveneto, condannato come organizzatore della strage di Brescia, eseguita da un neofascista pagato dai servizi come fonte.

Nel 1996, mentre era ai domiciliari, Maggi ha rivelato ai familiari cosa ha saputo sulla strage di Bologna: «Sono stati loro, Fioravanti e Mambro». E ha aggiunto che la bomba fu portata da un «aviere», figlio di «uno dei nostri». Per i giudici è un chiaro riferimento al «pilota» Bellini. Quando l’intercettazione viene trascritta a Bologna, però, la parola «aviere» scompare: diventa «corriere». Giudici e giurati, a quel punto, la riascoltano più volte: Maggi dice chiaramente «aviere». Quindi i tre periti ammettono di aver usato «un filtro», che ha distorto «per errore» la parola cruciale. Ora la sentenza li accusa di falsa perizia.

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Il 2 agosto alla Camera è andata in scena, a opera dei 5 Stelle, una mediocre replica della rancida polemica contro i vitalizi.

Lo scopo era quello di montare l’indignazione contro i privilegi, di chi condanna la cancellazione del reddito.

La propaganda è uno strumento che va maneggiato con cura, evitando l’uso disinvolto di falsità che disorientano i cittadini e alimentano un clima di odio inutile. La demagogia contro la casta spinse il Parlamento ad abolire i vitalizi nel 2012 e a instaurare un sistema pensionistico contributivo e legato al raggiungimento dei 65

Querelle vitalizi Cosa insegna un falso costruito

anni di età. Quindi i vitalizi non esistono più. Nel 2018 la scure si abbatté sugli ex parlamentari con una operazione di ricalcolo retroattivo con il metodo contributivo. L’errore marchiano nell’utilizzo di coefficienti sbagliati ha obbligato l’amministrazione di Camera e Senato a effettuare dei riconteggi. I ricorsi dei parlamentari hanno costretto gli organi di giustizia interna, Consigli di Giurisdizione e Consigli di Garanzia, ad assumere decisioni anche tenendo conto delle indicazioni della Corte costituzionale.

Siamo di fronte a un contenzioso giudiziario, perdipiù affidato, secondo la vigenza della autodichia, a parlamentari che devono resistere a pressioni partitiche ed essere autonomi nel giudizio. Per fortuna nella discussione è intervenuto Piero Fassino a difendere la dignità dei rappresentanti del popolo stigmatizzando l’orgia populi-

La demagogia spinse il Parlamento ad abolirli nel 2012. La propaganda va maneggiata con cura

sta dei 5 Stelle e di Fratelli d’Italia. Un connubio che spiega la deriva del Paese e molti accordi sottobanco.

La vicenda non merita una particolare attenzione nel merito, ma vale la pena di ricordare che nel 2018 un carneade chiamato Di Maio vomitava verso gli ex parlamentari frasi del genere: «I vitalizi non sono diritti acquisiti, ma privilegi rubati», «Parassiti sociali che hanno campato sulle spalle di tanta gente», «Questi ex dis-onorevoli, vitalizio-dipendenti, non conoscono vergogna». In questi anni sono scomparse figure eccezionali della storia della Repubblica e con ipocrisia sono state celebrate. Il proverbio secondo cui il bue dà del cornuto all’asino si attaglia a un personaggio che si è accaparrato un ruolo internazionale senza merito e solo grazie a spartizioni di sottopotere.

Quali lezioni si devono trarre da questo episodio minore, ma non trascurabile?

La prima: la ricostruzione di una cultura politica che caratterizzi l’opposizione, capace di contrapporsi alla destra al potere, richiederà intelligenza inedita e pensieri lunghi. La seconda: la consapevolezza che la crisi della democrazia è assoluta, se non irrimediabile, è drammaticamente assente. La terza: il ruolo del Parlamento è inesistente e ridotto a pura caricatura, a luogo di registrazione di decisioni prese altrove, stretto tra decreti e voti di fiducia.

Prima di pensare al cosiddetto campo largo, occorre chiedere conto degli errori politici e istituzionali compiuti con il taglio dei parlamentari (sempre a opera dei 5 Stelle) e del delitto di Carlo Calenda alle ultime elezioni politiche. Il Pd deve giustificare l’incapacità di imporre la modifica di una legge elettorale che dà la maggioranza alla minoranza.

Va ricordato l’ultimo ammonimento di Mario Tronti che auspicava che «nell’irrazionalità della storia» si accendesse una scintilla «capace di incendiare la prateria».

FUORILUOGO
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Il confine caldissimo

Il confine dimenticato». Gli attivisti polacchi che da due anni assistono i migranti che tentano di entrare nel territorio dell’Ue chiamano così la frontiera tra Polonia e Bielorussia. Oggi, invece, quella stessa striscia di terra è diventata una delle aree più osservate d’Europa. Mercenari della Wagner che si ritraggono minacciosi in marcia verso Ovest, il governo polacco che invia migliaia di soldati e mezzi pesanti a presidiare e, a 65 chilometri, l’exclave russa di Kaliningrad, con oltre 200 mila soldati di Mosca. Una polveriera che al momento sembra pronta a esplodere e che potrebbe causare una serie di reazioni a catena incalcolabili.

Dall’inizio della guerra in Ucraina sono riemerse vecchie questioni nell’Est Europa. Una tra tutte, quella dei confini, passati attraverso le vicissitudini ottocentesche, ridefiniti tra le due guerre mondiali e tracciati nella forma attuale alla caduta dell’Unione sovietica. I nazionalisti ungheresi, polacchi, romeni, per non citare quelli russi e ucraini, hanno iniziato a parlare di «nazione storica», di regioni da riconquistare e torti da riparare. Mosca negli ultimi due anni ci ha abituato a discorsi di questo tipo, non solo a proposito dell’Ucraina, che per il presidente russo sarebbe «un errore storico», ma anche a proposito di Varsavia. Di recente, Vladimir Putin ha definito le regioni occidentali della Polonia come un «regalo di Stalin» e il suo ministro della Difesa, Sergei Shoigu, ha evocato il «piano» polacco per impadronirsi della parte occidentale dell’Ucraina con la scusa del sostegno a Kiev. È un vecchio ritornello in Russia, apparso sui canali Telegram e nei programmi tv fin dal febbraio scorso: la Polonia intende inviare i propri soldati in Ucraina e occupare di fatto le regioni a Ovest di Kiev, trasformando Leopoli nella nuova capitale. «Per questo stanno acquistando armi in grandi quantità dagli Usa, vogliono ap-

Una polveriera

prontare l’esercito più potente d’Europa ed espandersi», ha dichiarato Shoigu. Un’altra delle giustificazioni propagandistiche che il Cremlino sta usando per l’invasione dell’Ucraina, ma che, si noti bene, in alcuni ambienti riscuote un certo credito.

Inoltre, nonostante l’attenzione dei media sia focalizzata sugli sbarchi nel Mediterraneo, c’è una rotta migratoria aperta dall’agosto del 2021 che dalla Bielorussia e dalla Russia arriva fino al confine orientale polacco. Qui, da due anni, masse di disperati affrontano il freddo della foresta nera di Bialowieza, dove anche d’estate la temperatura può rasentare lo zero, e rischiano la vita tra le violenze dei corpi di guardia da entrambi i lati della frontiera. Nel luglio 2022 il primo ministro polacco, Mateusz Morawiecki, appartenente al partito di estrema destra Diritto e Giustizia, e gli alti funzionari della sicurezza nazionale hanno tenuto una pomposa conferenza stampa presso il confine per annunciare il completamento del «muro». Ossia 186 chilometri di grate d’acciaio alte fino a sei

POLITICA SCENARI DI GUERRA
frontiera tra Polonia e Bielorussia si concentrano
di
pronta a esplodere, l’ultima propaggine del conflitto in Ucraina. Alla
appetiti
Mosca, Varsavia e Minsk
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SABATO ANGIERI

metri che, nelle intenzioni del governo di Varsavia, avrebbero dovuto «fermare l’invasione utilizzata dal presidente bielorusso, Alexander Lukashenko, come arma per destabilizzare il nostro Paese e l’Unione europea». Sono trascorsi due anni dalle prime tragiche immagini dei corpi dei ragazzi congelati nella foresta, ritrovati senza vestiti (alcuni di quelli che sono riusciti ad arrivare in Germania raccontano che in certi casi le guardie di frontiera li facevano spogliare per punizione, dopo aver sottratto loro i telefoni cellulari necessari per orientarsi con il Gps), e il governo polacco ha ripreso ad accusare Lukashenko di utilizzare i migranti per il suo «piano» di destabilizzazione dell’Occidente. Nessuno sembra preoccuparsi del fatto che a pagare le spese di questa disputa tra Stati siano i migranti; in nome della difesa del «fianco orientale della Nato», tutto passa in secondo piano.

DETERRENZA

Militari inviati dal governo di Varsavia al confine tra Polonia e Bielorussia

rawiecki che, come Viktor Orbán in Ungheria, Marine Le Pen in Francia e Matteo Salvini in Italia, ha fatto della «difesa della nazione» un punto fermo della sua azione politica. Ma in questa sede valgono soprattutto le due premesse fatte in apertura che dovrebbero essere sufficienti a capire perché la crisi al confine polacco-bielorusso è tutt’altro che una schermaglia diplomatica. Si aggiunga soltanto che, sul cittadino polacco medio, la retorica antirussa per fare presa non ha bisogno di particolari spinte, in quanto il ricordo degli anni dell’Urss e del movimento Solidarnosc è ancora ben radicato nella popolazione.

Si dovrebbe anche citare l’impostazione populista e xenofoba del governo di Mo-

Per questo, quando il 29 luglio scorso oltre 100 mercenari della Wagner, di stanza in Bielorussia dopo il tentato (o presunto) golpe in Russia, si sono spostati verso la frontiera, la tensione è salita immediatamente. L’obiettivo dichiarato della compagnia di mercenari era il corridoio di Suwalki, una striscia di terreno sul-

Foto: A. Husejnow/SOPA Images/LightRocket Getty Images
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la quale si incontrano quattro frontiere: Bielorussia, Polonia, Lituania e l’exclave russa di Kaliningrad. Un territorio delicatissimo, in cui un incidente potrebbe causare un disastro. Secondo Morawiecki, da quel momento «la situazione è ancora più pericolosa». Semplice provocazione, si potrebbe obiettare. Se non fosse che il giorno prima anche Lukashenko aveva pubblicamente accusato la Polonia di mirare ad annettersi il territorio occidentale ucraino.

E che la Wagner, costretta all’esilio dal territorio russo, d’ora in poi farà base in Bielorussia. Quattro giorni dopo la Polonia ha protestato ufficialmente a causa di alcuni elicotteri di Minsk che avrebbero sconfinato. Lukashenko ha negato, spiegando che si trattava di manovre decise da tempo e delle quali Varsavia era stata informata.

Il 9 agosto il viceministro degli Interni, Maciej Wsik, ha annunciato che la misura era colma e per questo duemila soldati polacchi erano stati destinati al confine con la Bielorussia. Le specifiche sono arrivate il giorno dopo dal ministro della Difesa, Mariusz Blaszczak: innanzitutto si tratterà di 10 mila soldati, di cui «quattromila supporteranno direttamente la guardia di frontiera e seimila saranno nella riserva». Oltre ai numeri, ciò che stupisce è la moti-

RESPINTI

Migranti provenienti da Siria e Iraq assiepati al “muro” costruito al confine tra Polonia e Bielorussia

vazione: «Spostiamo l’esercito più vicino al confine con la Bielorussia per spaventare l’aggressore, in modo che non osi attaccarci». In altri termini, deterrenza. Lukashenko, a quel punto, ha fatto sapere di aver ordinato al suo governo di «contattare» la controparte per parlare della crisi in atto, aggiungendo: «Siamo vicini e non si scelgono i propri vicini». Varsavia ha parlato di «parole vuote» e ha inviato i carri armati e gli elicotteri d’assalto al confine. Ancora Blaszczak ha chiarito: «Non ho dubbi che le provocazioni di Minsk si ripeteranno, ma l’esercito polacco è preparato a molti scenari diversi e reagirà adeguatamente alla minaccia». Si noti che persino il ministro non ha osato nominare apertamente la parola «guerra».

La Bielorussia non ha reagito, ma è importante ricordare che il confine polacco è il confine della Nato. Ancora prima che la guerra in Ucraina arrivi a una qualsiasi conclusione è su questa frontiera che si costruisce uno dei punti nevralgici dei nuovi equilibri globali.

Foto: W. Radwanski –Afp / Getty Images POLITICA SCENARI DI GUERRA
Da qui passano la rotta migratoria che va dalla Russia all’Europa e il limite orientale della Nato. Le provocazioni militari tra gli Stati vicini si spiegano in nome della difesa dell’Occidente
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La vertenza degli attori e sceneggiatori americani con i rappresentanti e i boss degli studios e dell’industria hollywoodiana sta via via allargandosi, assumendo un rilievo persino simbolico. In ballo vi è una questione (che mi sembra ragionevole) di denaro. Con le piattaforme streaming che hanno ridotto la durata delle serie tv e cambiato il metodo della fruizione on demand del prodotto, per la grande maggioranza degli attori sono drasticamente diminuite le royalties

C’è chi sostiene di non avere più neppure le risorse sufficienti a pagare la propria

Il cambiamento epocale dell’Ia stravolge il cinema

assicurazione annuale.

Da qui la richiesta di maggiori diritti residuali, sulla base dei dati di ascolto dei servizi di streaming; che, tuttavia, le piattaforme (Netflix, Amazon e Disney) non intendono rendere pubblici.

Ampia è stata la solidarietà di tanti volti noti. George Clooney, Matt Damon, Leonardo Di Caprio, Nicole Kidman, Jennifer Lopez, Ben Affleck, Julia Roberts, Arnold Schwarzenegger, Dwayne Johnson, Meryl Streep e Oprah Winfrey e altri hanno infatti donato oltre un milione di dollari a testa creando un fondo di solidarietà.

Ma a questo si è aggiunta una questione più di fondo che riguarda il futuro di tutto il comparto creativo dell’industria di Hollywood.

Che effetti avrà su di esso lo sviluppo repentino dell’Intelligenza artificiale?

La vertenza di Hollywood contro le piattaforme ha già inciso sui festival ma Venezia ha retto bene

Quando sarà quest’ultima a comporre soggetti, sceneggiature, voce degli artisti, sfornando inevitabilmente prodotti medi misurati sui gusti standard degli spettatori abituali e destinati a imporre le regole conseguenti.

È un terreno scivoloso. In questi casi sono subito pronti a intervenire i difensori a oltranza dell’innovazione tecnica e scientifica.

Eppure, resta il fatto che sempre più grandi attività umane sono destinate a essere sostituite dall’automazione della tecnica. Che, da strumento, si trasforma nel soggetto dominante. Tema, peraltro, tipicamente cinematografico. Anche su questo, nella protesta americana si chiedono regole, garanzie e spazi di libertà.

L’impatto sul mercato dell’audiovisivo della vertenza si potrà valutare nei prossimi mesi. Ma sui festival è stato immediato. Film in ritardo. Assenza di cast. Proiezioni che saltano.

In questo mare in tempesta, la nostra Venezia ha saputo navigare con abilità, presentando alla fine un programma di altissimo livello.

Se ha dovuto rinunciare all’apertura con l’atteso “Challengers” di Luca Guadagnino (rimandato al 2024), alla fine apre con “Comandante” di Edoardo De Angelis; conferma Roman Polanski con “The Palace” e poi Sofia Coppola, Woody Allen, Saverio Costanzo, Matteo Garrone, Giorgio Diritti e molto altro ancora.

Alberto Barbera si conferma un direttore bravissimo e di sostanza, con dietro un presidente della Biennale, Roberto Cicutto, colto, di grande esperienza ed efficace sobrietà.

Il vecchio Lido, la cui edizione 2023 si aprirà tra pochi giorni, rimane una certezza e una base di lancio del cinema mondiale (in anteprima), in grado di influenzare e pesare sul futuro di un settore strategico, quantomai incerto.

CARTA & PENNA
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Quando isolarsi è un gesto elegante

Marco Risi, regista, sceneggiatore, scrittore, padre, nonno, figlio di, è un po’ come il quartiere Trieste di Roma, dove ha scelto di abitare da qualche anno: raffinato, flemmatico, intellettuale de core. Mentre indugia a guardare i villini freschi di restauro a Piazza Caprera, dove si incontrano neolaureati chiassosi con corona di alloro che brindano al futuro incerto e amanti furtivi che si danno appuntamento proprio qui, alle spalle di quel liceo Giulio Cesare cantato da Antonello Venditti, sorseggia un succo alla pesca e inizia a parlare delle vacanze. «I ricordi più belli sono quelli di ragazzino. Come diceva François Truffaut: mi piacciono gli adolescenti perché gli succede tutto per la prima volta. Negli anni Sessanta trascorrevamo le estati a Tor San Lorenzo, un posto selvaggio vicino ad Anzio: il nostro tucul, una casa di paglia, non aveva corrente elettrica né acqua. Già allora i compagni di avventura miei e di mio fratello Claudio erano Carlo ed Enrico Vanzina assieme a Massimo Gualdi e Paolo Lucernari. La sera si andava all’arena per vedere i film: quello che ci spaventò di più fu “La maschera di cera” con un giovanissimo Charles Bronson. Una volta tornati faticammo a prendere sonno.

Le giornate al mare erano scandite dalle canzoni di Edoardo Vianello, Michele, Mina che arrivavano dallo stabilimento della Sor’Emilia. Poi ci fu il periodo di Castiglioncello e della prima fidanzatina, Flaminia Sanjust, avevo 12 anni e lei 14. Negli anni Settanta, i miei genitori comprarono la casa al Circeo, dove vado ancora oggi: 91 scalini per arrivare al mare. Sei isolato dal mondo. D’inverno si saliva a sciare al Terminillo, dove mi ruppi una gamba e papà, che era laureato in medicina, si precipitò a soccorrermi, ma anche in Svizzera dove vi-

Un motto del papà Dino per rivendicare la capacità di estraniarsi. La solitudine creativa, i viaggi, le vacanze e il rapporto tra generazioni, secondo Marco Risi

vono ancora i parenti di mia madre, Claudia Mosca. Ci torno spesso con i ragazzi. E poi il lungo periodo di Todi, dove ho sposato Francesca (D’Aloja, attrice e scrittrice con cui ha condiviso quattordici anni di vita, madre del figlio Tano, 30 anni, ndr), assieme agli amici e colleghi Enzo Siciliano, Bernardo Bertolucci, Guido Torlonia, Marco Tullio Giordana, spesso nostro ospite. Una vacanza che mi torna in mente con particolare nostalgia fu quella alle isole Canarie, durante il periodo natalizio. Io, mamma e papà. L’unica volta di noi tre insieme. Le nostre valigie andarono perse e mamma, accanita lettrice di gialli, ci prestò il libro che aveva con sé in aereo. Ecco, quella fu la prima volta che mi sentii trattato da adulto. Avevo undici anni.

Tra i viaggi più divertenti della mia gioventù c’è sicuramente quello con la scuola (il San Giuseppe de Merode in Piazza di Spagna, ndr) nel 1967: un tour fra Canada e Stati Uniti in un momento storico di certo poco tranquillo visto che

I DIALOGHI DE L’ESPRESSO 60 20 agosto 2023
colloquio con MARCO RISI di ANTONIA MATARRESE illustrazione di IVAN CANU

i disordini erano all’ordine del giorno. L’organizzatore ci portò in un hotel di Pittsburgh che era dentro un bordello». Una comitiva di burloni. Eppure si fa fatica oggi a immaginare questo elegante e altissimo signore di 72 anni come un tipo da pacche sulla spalla e battute a raffica. «Sto bene anche da solo e penso che solitudine ed estro creativo possano convivere felicemente. E poi l’artista è solo per definizione. Quando scrive, dipinge, compone. Picasso non lavorava in coppia e neppure Caravaggio così come Mozart o Philip Roth. Sartre diceva che all’innamoramento e quindi al rimbambimento che ne consegue, si poteva dedicare al massimo una settimana per poi tornare al proprio lavoro. Mio padre Dino, che di solitudine se ne intendeva, ha trascorso gli ultimi trent’anni della sua vita in un residence, solo, che non vuol dire disperato, semplicemente vedeva le persone che aveva voglia di vedere quando ne aveva voglia. Un’attitudine che forse mi ha trasmesso. Ricordo che un giorno mio zio Nelo (poeta e regista fratello di Dino, scomparso nel 2015, ndr), dopo aver visto un mio film in televisione mi telefonò per dirmi che tutti i miei lavori parlavano di persone solitarie. Credo sia abbastanza vero. Lo era Jerry Calà in “Vado a vivere da solo” oppure Luca Argentero in “Cha cha cha” e ancora i ragazzi di “Mery per sempre” o le tre donne abbandonate dai mariti protagoniste di “Tre mogli”».

Da qui la celebre frase di Dino «se fossi a casa vostra andrei a casa mia» che Marco ha apposto come un mantra sul suo profilo WhatsApp. «Era un pretesto per dileguarsi quando c’erano persone che cominciavano a diventare noiose. Se la serata virava sul moscio, si alzava dalla sedia o dalla poltrona e pronunciava le fatidiche parole, ereditate dallo zio Antonio. Capita l’antifona?».

Nella famiglia Risi, tutta declinata al maschile, l’ultima arrivata è Matilda, 8 mesi, figlia di Andrea, 35 anni, nato dalla relazione con Eliana Miglio. L’unico

che non ha seguito il richiamo del cinema. «Ha avuto successo come imprenditore e sta con la stessa donna da quando andavano a scuola. Mio padre pagava i nipoti per non farsi chiamare nonno, io dedico più tempo ai ragazzi, li abbraccio e mi lascio abbracciare, dispenso consigli se richiesti. Del resto, papà girava due film all’anno, io uno ogni quattro anni. In generale c’era poco, mamma c’era di più, la Gina c’era sempre».

Gina era la tata di casa Risi: lombarda, comunista, con una certa antipatia per gli americani. «Diceva che non erano mai stati sulla luna ma avevano ricostruito tutto nei teatri di posa. Sono andata a trovarla con i miei figli due mesi prima che morisse. Era finita in un ospizio e si lamentava». E proprio in un ospizio è ambientato il prossimo film di

I DIALOGHI DE L’ESPRESSO 62 20 agosto 2023
Ho votato anche per Cicciolina e il suo Partito dell’Amore. Oggi confesso di essere parecchio disorientato: mi piacerebbe avere una salda, forte appartenenza a sinistra

Marco Risi, co-sceneggiato con Riccardo de Torrebruna e Francesco Frangipane, che uscirà nelle sale in autunno prodotto da Domenico Procacci e Rai Cinema. Nel cast, uno stuolo di mostri sacri del teatro italiano: da Massimo De Francovich a Eros Pagni, da Erica Blanc a Elena Cotta, da Maurizio Micheli ad Ariella Reggio. E poi volti giovani come Alessandro Fella, Roberto Gudese, Lucia Rossi. «Sono più di dieci anni che giro intorno al tema del film, l’incontro tra due generazioni. È la storia di un ragazzo che una sera ne combina una grossa: invece che mandarlo in galera, lo spediscono in una casa di riposo per un anno intero. Lì conosce un vecchio - Dino, non a caso – sarcastico, scorbutico, cinico ma anche attento e stimolante. Fra i due nasce un’amicizia che porta verso qualcosa che, in questo Paese, non è permesso. Il titolo del film è piuttosto insolito: “Il punto di rugiada” ovvero quando la temperatura esterna

L’album

Marco Risi con Eva Herzigova a Taormina. Nell’altra pagina, in alto, da sinistra Bernardo Bertolucci, Dino Risi, Marco Risi e Alberto Sordi. In basso, tre generazioni di cinema Risi: Marco, Dino e il figlio di Marco, Andrea Miglio Risi

si scontra con quella interna e mi è stato suggerito da un anziano avventore del ristorante “Al Padovano”, che frequento solitamente». Ma, una grande vecchia c’è pure in casa Risi: Edith Bruck, scrittrice ebrea di origini ungheresi sopravvissuta ad Auschwitz, vedova di Nelo. «Vado a trovarla quasi tutte le settimane. Ha 92 anni e una testa brillante. Parliamo di affetti, di vita, di politica».

Ecco, la politica, capitolo speculare al suo cinema di impegno civile come ne “Il muro di gomma”, su soggetto del compianto Andrea Purgatori che cofirmò la sceneggiatura. «In passato ho votato anche per Cicciolina e il suo Partito dell’Amore. Oggi confesso di essere parecchio disorientato: mi piacerebbe avere una salda, forte appartenenza a sinistra e sono spesso tentato di astenermi. Ma non si fa. Se penso ai miei film, il più politico è stato “Cha Cha Cha” (uscito nel 2013 e interpretato da Luca Argentero, Eva Herzigova, Claudio Amendola, ndr) mix di faccendieri, intrighi e sottobosco in una Roma decadente».

S’è fatta una certa, come si dice a Roma. I tavoli dei locali si riempiono di clienti. Il sole di agosto lascia il posto alla luna che sbuca tra le chiome degli alberi secolari a Villa Torlonia. Sentinelle della movida, rombante di moto e di chiacchiere.

Marco Risi è pronto per raggiungere la famiglia al Circeo, nella villa disegnata da Michele Busiri Vici, l’architetto della borghesia pariolina che firmò pure il paesaggio urbano della Costa Smeralda nei primi anni Sessanta. Alle spalle, la montagna. Davanti, il mare. Una casa candida. Piena di curve. Come quelle affrontate con spavalderia da Bruno Cortona-Vittorio Gassman nel film “Il sorpasso”. «Eh già, le curve. Quando incontrai papa Francesco a casa di mia zia Edith, finimmo col parlare di cinema. Gli chiesi cosa ricordasse de “Il sorpasso”. E lui rispose sorridendo: “Tutte quelle curve”. All’inizio non capii. Poi qualcuno mi spiegò che, in Argentina, le curve non esistono».

Foto: M. Romano / LaPresse, Ufficio Stampa Filmare / Ansa, olycom / Lapresse
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DAL VINO ALLA SODA STORIE DI EMIGRATI DA BERE

Con l’ondata migratoria sbarcarono in Sudamerica soluzioni tecniche e metodi che hanno fatto scuola. Tre quarti della produzione enologica argentina arriva da Mendoza, dove tutto parla italiano

LA PRODUZIONE Vigneti della provincia argentina di Mendoza che conta oltre 1.500 aziende vinicole
ECONOMIA SUCCESSI D’OLTREOCEANO 64 20 agosto 2023

ECONOMIA SUCCESSI D’OLTREOCEANO

Quando gli italiani si dispiegarono a migliaia nel continente latino-americano, una delle prime cose a cui pensarono fu il bere. Gran parte delle etichette di vino prodotto in Argentina e Uruguay portano cognomi italiani. Tra le «bodegas» uruguaiane si distinguono quelle della famiglia Giacobbe che nel 1903 da Genova si stabilì nella zona di Manga, allora periferia rurale a nord di Montevideo, giunta alla quarta generazione; cantina Bracco Bosca è sorta dalla fusione di due famiglie che erano vicine di casa in Piemonte; alla Bodega Mori Maglio si deve invece l’introduzione in Uruguay dell’uva Ancellotta, originaria dell’Emilia. Questo vitigno si produce ora a Parada Dayman, nel dipartimento di Paysandú, ed è venduto in edizione limitata sotto il nome María Rosa Ancellotta, omaggio alle donne della famiglia. Una delle più grosse aziende del settore in Uruguay fu avviata dal piemontese don Próspero José Pizzorno a Canelón Chico, dipartimento di Canelones. Il salto avvenne agli inizi degli anni Novanta quando Carlos, nipote del fondatore, decise di scommettere sulle innovative tecniche di coltivazione per i vini di alta qualità oggi venduti prevalentemente all’estero.

Ma la zona più nota in Sud America per la vite è quella di Mendoza, situata nelle colline pedemontane delle Ande. Qui i primi vigneti vennero innestati dai gesuiti nella metà del Cinquecento. All’inizio dell’Ottocento con l’introduzione delle barbatelle malbec, innestate a un’altitudine da 650 a 1.070 metri sul livello di mare, si ebbe una crescita impressionante della qualità del vino mendozino. Il merito va a un veneto, Antonio Tomba, nato a Valdagno nel 1849, giunto in Argentina nel 1873: capì che la ragione per cui il vino non veniva troppo buono, era il caldo eccessivo al tempo della vendemmia. Scelse cantine fresche e riparate e quindi i frigoriferi. Sposatosi con Olaya, figlia dei Pescara, nobile famiglia italiana, ebbe un tale successo che venne raggiunto dagli altri fratelli, già viticoltori in Italia. La famiglia Tomba è stata la prima a esportare nella penisola il vino di Mendoza, rivo-

PRECURSORI

Felipe Rutini e, in alto, Antonio Tomba. A destra una sala da concerti in una cantina vinicola nel distretto di Valle de Uco nella provincia di Mendoza, in Argentina

luzionando pure i sistemi di macinazione e di filtrazione avvalendosi prima dell’enologo ligure Gracco Spartaco Parodi e quindi di Adriano Fugazza. Altri imprenditori italiani del vino sono i Galise, i Toso e soprattutto Felipe Rutini: sbarcato in Argentina nel 1889, ha fondato la sua cantina, la Bodega La Rural che oggi ospita un museo con i più vecchi macchinari vinicoli. Nel 1887 è stata la volta di Juan Giol e Bautista Gargantini che hanno comprato un pezzo di terra a Maipú diventando a inizio Novecento i viticoltori più ricchi del Paese. Al suo apice, la cantina, chiamata Colina de Oro, occupava 260 ettari, producendo metà del vino argentino. Venduti i terreni e tornato in Italia, Giol ha lasciato il Museo Nacional Del Vino y la Vendimia nella Casa de Giol a Maipú, contribuendo anche alla creazione della Escuela Nacional de Vitivinicultura, corroborata da docenti italiani quali Renato Sanzín, patologo botanico e Modestino Jossa, enochimico e diretto-

Foto: pagine 64 -65 D. Silverman / Getty Images, pagine 66 -67 D. Silverman / Getty Images
Le etichette più celebri in Uruguay rimandano all’Italia. In Bolivia la bevanda alla papaya inventata da uno spezzino. In Nicaragua il rum più noto viene dalle distillerie di un armatore genovese
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re del laboratorio della scuola. Con l’arrivo di migliaia di emigranti italiani, nel 1885 si costituì la ferrovia Mendoza-Buenos Aires che serviva a trasportare il prodotto sulla costa ma anche manodopera italiana nella regione. Oggi tre quarti della produzione vinicola annuale dell’Argentina (circa 1.240.000 bottiglie) viene dalla regione di Mendoza, pari a 1,3% del Pil del Paese.

Lo spezzino Dante Salvietti si avventurò nella giungla. Era partito nel 1918, lasciando i genitori Anselmo e Assunta e dieci fratelli, nella loro piccola mescita di vino, come racconta un suo discendente, Renato Pucci Salvietti. A Genova salì su un transatlantico che lo scaricò ad Antofagasta, in Cile. Con in tasca un biglietto con l’indirizzo di un’altra famiglia spezzina, i Mosca, stabilitosi in Bolivia raggiunse La Paz, si spostò a Chulumani e, nel solco di una ditta che vendeva gazzose alla Spezia avviò una fabbrica di bibite e sciroppi. Iniziò a sperimentare una miscela di estratti

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di frutta, acqua di sorgente e ginger seltz. Un po’ scienziato, esploratore e uomo d’affari, scoprì per caso un frutto speciale, dalla polpa fresca e dal sapore incantevole, la papaya di Chulumani e nel 1920, riuscì a introdurre nel mercato boliviano il prodotto chiamato “Champan Cola”. Il 24 luglio di quello stesso anno mise in vendita con il nome di Papaya Salvietti la sua invenzione in una bottiglia di vetro spesso, di colore verde. Quando un branco di muli imbizzarriti distrusse interamente la piantagione di papaya tornò nella capitale, come racconta Mauricio Belmonte Pijuan nel libro “Polenta, Familias Italiana en Bolivia”. Lì, chiamando dalla Spezia i fratelli Ruggiero e Pierino avviò la più laboriosa industria di bibite della Bolivia. Lo sciroppo di papaya dolce e aromatico prodotto nelle Yungas si trasformò gradualmente fino a diventare una consistenza gassosa ed effervescente, come è noto ancora oggi. Sposatosi con una boliviana, Esther Nieto, Dante ebbe tre figli, Guillermo, Mario e Anselmo. Nel 1954 decise di tornare alla Spezia, dove morì nel 1974. La Papaya Salvietti è diventato uno dei prodotti tipici della Bolivia e lui un personaggio da leggende. Si narra che Dante, passeggiando nel boschetto Pura Purao si imbatté in un folletto che gli fornì una ricetta segreta per la papaya in cambio di comparire sulle etichette delle bottiglie. La ditta è però fallita nel 1995 e tutte le proprietà, ad eccezione della formula della soda, furono messe all’asta. Ha riaperto nel 2015, quando la bevanda è stata rilanciata e il folletto è ricomparso negli scaffali dei negozi. «Da cento anni, sebbene siano state apportate alcune modifiche, il sapore della bevanda è stato mantenuto», dicono dall’azienda, gestita prima da Anselmo Salvietti, successivamente dal figlio Armando, adesso da Gabriele Salvietti, pronipote di Dante. Dal 2011 la produzione è passata da 20 mila a 100.000 confezioni di tutti i formati esportati in gran parte dei Paesi latino-americani.

Flor de Caña, il rum più noto al mon-

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ECONOMIA SUCCESSI D’OLTREOCEANO

La bocca della verità Marco Ulpio Traiano

do, ha invece una storia tutta genovese. Nato a Genova il 27 aprile 1850, a 25 anni, Francesco Alfredo Pella Canessa salì su una nave in cerca di avventure imprenditoriali, seguendo i tragitti del padre, Carlo Napoleone. Girò largamente il Centro America e nel 1875 si stabilì in una verdeggiante pianura all’ombra del vulcano San Cristobal, il più alto del Nicaragua. Divenne Francisco Pellas e ottenne dall’allora governo nicaraguense i diritti di navigazione a vapore tra Granada e San Juan del Norte. Già nel 1892 era conosciuto come lo straniero più ricco del Paese con una flotta di 23 navi. Aveva avviato pure una miniera d’oro a Chontales e una fazenda del caffè a San Marcos. Fu allora che si guardò attorno e diede l’avvio alla produzione di zucchero. All’interno della tenuta, fondò una distilleria indipendente, chiamata Compañia Licorera de Nicaragua, che in seguito prenderà il nome di Flor de Caña. Nel 1959, il Rum Slow Aged di Flor de Caña cominciò a essere venduto nei Paesi vicini, dal Costarica al Salvador, dal Guatemala al Venezuela. Da quel momento si sono succedute cinque generazioni di Pellas Canessa, nel frattempo il rum da loro prodotto è diventato popolare in tutto il mondo, tanto che oggi si esporta in oltre 40 Paesi e si è guadagnato 180 premi. Nel libro “Gli italiani in Nicaragua”, scritto congiuntamente da Claudia Belli Montiel, Felipe Mántica Abaunza e Norman Caldera Cardenal si raccontano tante storie di emigrazione delle famiglie Cassinelli, Belli, Menicucci, Fabbri, Lupone, Favilli, Conti, Macor, Mantica, Castigliolo, Salvo e altre, in maggioranza liguri, attratte dal commercio. Si narra del genovese, Francisco Alfredo Pellas che insieme con un gruppo di possidenti di Granada diede vita alla Nicaragua Sugar Stetes Limited. L’ultimo discendente è Don Carlos Pellas Chamorro, classe 1953, grande ufficiale della Repubblica Italiana, nominato da America Economia una delle 50 persone più influenti dell’America Latina.

La premier ritrova il sovranismo

Meloni torna all’Alfa. Dietrofront meloniano: si torna all’auto italiana, l’Audi è stata nascosta nel garage. Per il vertice pre-ferragostano sul salario minimo, organizzato a Palazzo Chigi, Giorgia Meloni per arrivare a Roma ha preso un aereo di linea da Brindisi. Sul velivolo ha trovato Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra italiana. Poi di corsa a piazza Colonna, con la scorta che ha atteso la fine del vertice senza farsi notare. Dove? In piazza del Parlamento, dove si trovava una scintillante Alfa Romeo Stelvio. Pronta per far tornare la presidente del Consiglio in Puglia.

Set alla Luiss. Cine34 manda in onda un film del 1975, “La città gioca d’azzardo”, di Sergio Martino: un classico «poliziottesco». Alcuni docenti della Luiss, nota come «l’università della Confindustria», hanno riconosciuto la scala che Corrado Pani sceglie per uccidere il padre, Enrico Maria Salerno, su una sedia a rotelle. Nel 1955 aveva ospitato il set di “La canzone del cuore” e nel 1957 quello di “I misteri di Parigi”. Nel 2012 appare nei panni attuali, quelli Luiss, nel film “Posti in piedi in paradiso” di Carlo Verdone, con Marco Giallini che entra per assistere alla laurea del figlio, Paolo Verdone (che proprio in quell’ateneo ha conseguito la magistrale). Nella pellicola appariva anche Andrea Purgatori.

Lazio, pacemaker per Rocca. Alla Regione Lazio servono tanti defibrillatori. Da una parte, al consiglio regionale, dicono che il governatore Francesco Rocca «ha fibrillato per le dichiarazioni del suo fedelissimo Marcello De Angelis sulla strage di Bologna», dall’altra un bando di gara del valore di 149,7 milioni di euro punta ad acquistare una grande quantità di dispositivi salvavita. Offerte entro il 28 settembre.

Ferrero vs Zuckerberg. «Giovanni Ferrero è più ricco di Mark Zuckerberg. Elon Musk in Italia dovrebbe incontrare lui, altro che il padrone di Facebook», dicono ad Alba. Fatto sta che il gruppo della Nutella ha fatturato 14 miliardi di euro e guarda al futuro con la creazione di Ferrero Technical Center, il polo d’innovazione della multinazionale firmato dall’architetto Enrico Frigerio. E alla fine di agosto non mancherà la riunione dei vertici ad Alba, guardando la grande scultura di Valerio Berruti nella piazza Michele Ferrero.

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68 20 agosto 2023

articolo 47 della Costituzione recita: «La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito». Poche righe ignorate dalle autorità monetarie nazionali dal momento in cui l’inflazione ha colpito, presentandosi come un fenomeno di non breve durata per gli effetti indiretti della guerra in Ucraina.

Con il recente decreto del governo sulla tassazione al 40 per cento degli extraprofitti del margine di interesse delle banche, dall’indifferenza siamo passati alla mortificazione dei risparmiatori e

Banche e governo non si curano dei risparmiatori

del risparmio per esigenze di cassa. Lo scopo è reperire risorse finanziarie, che non ci sono, da disporre per la prossima legge di Bilancio.

Le banche, dopo aver trascorso dal 2012 un periodo travagliatissimo a causa di una crescita esponenziale dei crediti non pagati (Npl) per la crisi fiscale dello Stato, che ne aveva minato la stabilità, indubbiamente hanno sfruttato le condizioni che un mercato anodino offriva loro.

I banchieri, per rendere floride le loro imprese, non si sono curati del danno che avrebbero potuto procurare ai risparmiatori, i quali fornivano loro una provvista finanziaria stabile di molti miliardi di euro (1.163). Il costo medio della raccolta è passato dallo 0,31 per cento allo 0,62 nel culmine dell’inflazione. Il costo dei crediti a tasso variabile per fa-

Con la tassa sugli extraprofitti, l’esecutivo ignora la Costituzione. E turba il mercato finanziario

miglie e imprese, invece, è cresciuto dal meno 0,50 per cento al 4,25.

I controllori, con molta probabilità, si sono dimenticati di avvertire i controllati della distorsione che si stava verificando. È aumentato il prezzo della vendita degli strumenti finanziari (crediti), mentre è rimasto quasi invariato il prezzo della materia prima (risparmio).

Il mercato finanziario in Italia non è paragonabile a quello che deriva dall’incontro di domanda e offerta di beni. Le parti in causa si incontrano grazie all’attività di un intermediario finanziario abilitato che avrebbe la funzione, proprio perché intermediario, di tenere in eguale conto il peso di chi acquista un credito e di chi vende il risparmio. Tutto ciò purtroppo non si è verificato.

In Italia la marcia del mercato finanziario è iniziata da poco più di trent’anni, dal momento in cui i titoli del debito pubblico sono stati sottoscritti da investitori esteri. I quali, da più di 150 anni, agiscono in un mercato finanziario maturo, in cui i risparmiatori forniscono la provvista finanziaria alle banche sottoscrivendo obbligazioni e non attraverso conti di deposito.

Ci vorranno tre generazioni perché si possa parlare di mercato finanziario in cui la domanda e l’offerta, consapevolmente e responsabilmente, si possano incontrare. Il governo, invece che operare in conformità al dettato costituzionale, ha preferito ignorarlo, cosciente che dopo la presentazione dei bilanci avrebbe colpito le banche tacciandole «di guadagni ingiusti». Guai ad agire senza pensare alle conseguenze. Il danno mina la stabilità degli intermediari finanziari e la fiducia degli investitori esteri, che dovrebbero muoversi senza preoccupazioni di sorta in un sistema istituzionale ed economico in cui il mercato finanziario è regolato a misura del governo in carica. Così non è.

BANCOMAT
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L’

Scandalo extraprofitti L’occasione giusta per ottenere equità

Accanto ai soliti tormentoni il Ferragosto ci regala quest’anno il dibattito sulla famigerata tassa sugli extraprofitti delle banche, approvata “a sorpresa” dal Consiglio dei ministri nel decreto Asset, come imposta una tantum, già adottata peraltro in altri Paesi europei a cominciare dalla Spagna, con diverse modalità. Si tratta, in gergo economico, di una windfall tax ossia un prelievo straordinario che viene applicato a settori economici che beneficiano di guadagni prodotti da situazioni straordinarie. Nel primo trimestre di quest’anno infatti le principali banche hanno visto, a causa del rialzo dei tassi, aumentare i propri profitti in media addirittura del 75 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, senza avere sostenuto particolari costi aggiuntivi. La misura involge questioni complesse specie in relazione all’inflazione e agli effetti macroeconomici che potremo analizzare solo nel tempo e infatti gli stessi mercati, viste le implicazioni, dopo le pesanti perdite di Borsa registrate nei primi giorni, hanno subito digerito la misura con un rimbalzo dei titoli.

Viceversa, ciò che fa davvero sorridere è la propaganda politica “stereo” con l’esecutivo che da un lato ne sbandiera gli effet-

PIAZZA AFFARI

La scultura di Maurizio Cattelan, davanti alla Borsa italiana a Milano

ti salvifici dopo l’impopolare abolizione del reddito di cittadinanza e dall’altro le opposizioni che a loro volta provano persino a intestarsene la paternità putativa, dopo aver tentato qualche timida critica isolata. D’altra parte sono sempre più disarmanti i brevi videoclip che passano nei telegiornali in cui i politici ogni giorno declamano un “pensierino tecnico”, uguale e contrario su qualsiasi argomento, a seconda degli schieramenti, a guisa di scolaretti alla prima elementare a caccia della medaglietta di capoclasse. Si tratta di uno spettacolo nuovo in cui ogni giorno su argomenti tecnici compaiono improbabili testimonial con brevi dichiarazioni recitate a memoria, che un tempo vedevamo fortunatamente solo alla fine delle tribune elettorali e che già allora ci apparivano ridicole e che oggi dobbiamo sorbirci quotidianamente.

Nella fattispecie si tratta di un’imposta pari al 40 per cento sul maggior valore del margine di interesse degli ultimi due esercizi che ecceda per almeno il cinque per cento il margine del 2021 e il dieci per cento il margine dello scorso anno, non deducibile ai fini delle imposte sui red-

ECONOMIA
POLITICA CREDITIZIA
Occorrerà vigilare perché ciò che
è uscito dalla porta non rientri dalla finestra. È vero che bisogna garantire la stabilità ma anche la correttezza e la buona fede sono cardini del sistema
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FRANCESCO FIMMANÒ

diti e dell’Irap e che andrà versata nella maggior parte dei casi entro il prossimo giugno. Il margine di interesse è la differenza tra quello attivo incassato dalle banche come guadagno per aver concesso prestiti o mutui e interessi passivi che dovrebbero pagare alla clientela sui conti correnti e di deposito. Invero le banche si guardano bene dal remunerare adeguatamente i risparmiatori in proporzione ai maggiori ricavi, specie perché la maggior parte dei clienti sono poco solerti nel rivendicarli o peggio non hanno la forza di farlo. Il modello ricalca quello adottato per le imprese energetiche contro il caro-bolletta e che allo stesso modo dovrebbe contenere l’impatto sociale derivante dall’aumento delle rate dei mutui, in quanto le maggiori entrate dovrebbero servire a rifinanziare il fondo prima casa e gli interventi di riduzione della pressione fiscale. Le misure dovrebbero essere inserite nella prossima manovra finanziaria con entrate stimabili, in mancanza allo stato di una relazione tecnica, in un massimo di 2,8 miliardi di euro. La cifra è sufficiente per i mutui, che valgono alcune centinaia di milioni, ma insufficiente per la riduzione della pressione visto che rinnovare, ad esempio, il taglio del cuneo costa per un solo anno circa 9 miliardi.

In tutto questo è subito emerso il disappunto, dietro il silenzio sintomatico, dell’Abi e degli istituti di credito, colti alla sprovvista senza preavviso, e che non

hanno avuto il tempo di mettere in atto le consuete attività di lobbying. Tant’è che, rispetto alla prima versione, ci sono state già delle epifaniche modifiche, come l’introduzione del tetto massimo per cui la tassa non potrà essere superiore allo 0,1 per cento del totale dell’attivo. È prevedibile peraltro che aumenterà il costo dei servizi e dei mutui di nuova accensione facendo ricadere su imprese e famiglie una parte dell’imposta con un effetto tutt’altro che virtuoso, su cui occorrerà vigilare con grande attenzione in modo da evitare che ciò che è uscito dalla porta rientri dalla finestra.

Ma al di là delle chiacchiere il vero tema è altro. Una nota del Mef recita che la misura non inciderà sulle banche che hanno già adeguato i tassi di interesse attivi di remunerazione seguendo le raccomandazioni della Banca d’Italia e andrà a colpire quelle che stanno abusando della propria posizione, disincentivando i soliti comportamenti scorretti. Vorremmo allora chiedere al Mef dove stanno queste banche? Forse su un altro pianeta? Sfidiamo qualsiasi lettore a trovare sui propri conti un incremento del 75 per cento della loro remunerazione in questi sette mesi proporzionale ai guadagni delle banche.

Sarebbe doveroso che gli istituti di propria iniziativa aumentassero i tassi sui conti a cominciare da quelli di poveri anziani che neppure possono spostarsi per reclamarli senza invece inviare quegli odiosi proclami di mutamento unilaterale delle condizioni solo quando conviene loro. E invece, come al solito, le istituzioni finanziarie, Bce in testa, fanno le forti con i deboli e le deboli con i forti. È vero che le banche sono imprese e che occorre garantire la stabilità del sistema ma anche la correttezza e la buona fede sono cardini del sistema. Quindi invece di fare le solite polemiche strumentali sugli effetti di una misura complessa che comunque porterà gettito, sia questa la volta buona in cui tutti gli attori provino finalmente a fare giustizia ed equità.

Foto: G. Bouys / AFP via Getty Images
20 agosto 2023 71
CULTURA LAST MINUTE

Un tuffo nel mondoMars

Burkini e topless. Cous cous e quiche. Yoga e berè. Istruzioni per l’uso di Marsiglia: la città che ha dato il nome all’inno nazionale ed è la meno francese di Francia

IN VOLO

Un ragazzo si tuffa in mare a Marsiglia davanti alla facciata del Museo Mucem

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VALERIA PALERMI

Mashallah, mi dice ogni volta Fatima, quando la incontro sulle scale. Fa le pulizie nello stabile, sempre allegra. «Non ti preoccupare di aspirare l’acca, tu dillo come ti viene». Tanto è il senso che conta: «Come Dio ha voluto», in sostanza «Stai bene, grazie a Dio», o «Ben fatto», o ancora «Sono contento per te». Le prime volte non capivo, credevo fosse una storpiatura di Inshallah - ho imparato dopo che questa invece riguarda il futuro, «Se Dio vorrà».

Si imparano parole che col francese hanno poco a che fare, a vivere a Marsiglia. Hookah e kif, per esempio (entrambi si fumano). «Cagnard» l’ho letto sull’insegna di un fotografo, e anche qui avevo frainteso, pensavo fosse il cognome. Invece vuol dire Sole implacabile, Posto assolato, o Canicola: «Quel cagnard!».

Veniamo da tutti gli orizzonti, ti dicono i marsigliesi. Non è una spacconata, basta guardare i cognomi sulle cassette della posta: quelli armeni si mischiano agli arabi, gli italiani si sprecano, rari gli inglesi, qualche polacco. I nomi francesi sono in minoranza, però nel mio palazzo vantiamo uno Chopin. Annie, che incontro a un raduno di motard, mi racconta del nonno, di Gallipoli. Negli anni del fascismo voleva portare la famiglia via dall’Italia, per motivi politici. Intendeva emigrare a New York, ma Ellis Island non la vide mai. Arrivato a Marsiglia, dove dovevano imbarcarsi, si lasciò attrarre dalle bische del Vieux Port e non partì più. Non diede un sogno americano ai suoi figli, ma il Mistral e le Calanques, e più mare di quanto potessero desiderare. Non un Paese solo, ma tutto il Mediterraneo.

Sono venuti da tutti gli orizzonti e sono sbarcati qui, sulla Planète Mars, come i rapper del gruppo Iam chiamano Marsiglia.

SAPORE D’AFRICA

Spezie e prodotti magrebini in vendita al mercato di Marsiglia. A destra: la cattedrale

Perché questo è davvero un altro pianeta. Niente a che fare con la Douce France, ancora meno con Parigi, chic e intellò, per non parlare della deliziosa-leziosa Provenza di cui pure è capoluogo. Aix e Arles, colte, eleganti, sono vicine ma lontanissime. Marseille somiglia più a Napoli, Palermo, Tangeri, sa di cous cous e panisse, così simile alla torta di ceci di Livorno o alla panissa ligure. La città che ha dato il nome all’inno nazionale è la meno francese di tutte e la più snobbata dai connazionali: non ce la fanno proprio, a riconoscersi in una città dove quasi una persona su cinque arriva dall’altra parte del Mediterraneo, da Algeria, Tunisia, Marocco. Dove il Marché du soleil, alla Porte d’Aix, e quello des Capucins, nel quartiere di Noailles, vendono datteri e salsa piccante harissa, brick (fagottini ripieni) e merguez (salsicce di agnello o capra).

Però li attira, come sempre fanno le città malfamate, piene di storie e promesse: nessuno sogna di perdersi a Zurigo. Questa è la città più filmata di Francia dopo Parigi, con 1200 giorni di riprese l’anno. Non si tratta solo di fare il verso a Hollywood con la scritta gigante “Marseille” che svetta sulle colli-

CULTURA LAST MINUTE
Veniamo da tutti gli orizzonti, dicono da queste parti. Non è una spacconata: sulle cassette della posta i cognomi armeni si mischiano agli arabi, gli italiani si sprecano, rari gli inglesi
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ne fuori città: il governo vuole davvero farne la capitale mediterranea del cinema, con un’iniezione di oltre 22 milioni di euro nella filiera, e quattro progetti tra formazione e produzione.

Ci mettono tre ore, i parigini, ad arrivarci in Tgv, il treno ad alta velocità, e qualche volta non se ne vanno più. Nascono anche per loro posti come il Tuba, hotel e ristorante super cool semi nascosto all’entrata delle Goudes - dove Marsiglia si fa villaggio di pescatori - pensato per «amateurs de farniente, puristes du bleu de Jacques Mayol». Si gentrifica, come tutto, Marsiglia. Declina il pastis, impazza lo Spritz. Tanto, il rischio di «chichi», smancerie, non è mai eccessivo, qui. Mai visti tanti materassi per strada, o vecchi sofà - una volta persino un wc. Certo che si potrebbe chiamare il Comune, per il ritiro «des encombrants», ma è più semplice buttare tutto vicino ai cassonetti.

Sporcizia e criminalità fanno parte del suo mito e sono la sua realtà. Una volta ci siamo persi. Volevamo fare un giro nei dintorni pittoreschi, invece siamo finiti in un quartiere dello spaccio a nord, in una delle Cité. L’ingresso della strada era sorvegliato

da guardiani, giovani ninja neri con il viso coperto dal passamontagna, ma nessuno ci ha torto un capello. Eravamo chiaramente due sprovveduti che avevano sbagliato strada, niente di cui preoccuparsi, nemmeno il cenno di andar via, abbiamo fatto inversione da soli.

Ce ne siamo tornati al Septième. Un quartiere da cui capisci tutta la città, perché la condensa. Ci trovi i ricchi e i poveri, la città e il mare aperto, i turisti e i marsigliesi che la sera vanno a pique-niquer in spiaggia con tapenade e quiche lorraine. Sulla Plage des Catalans convivono i condomini del Sea One, firmatissimo (è di Rudy Ricciotti, architetto del museo Mucem) dove dicono abbia comprato un appartamento Christine Lagarde, e le barbone che passano la giornata sulle panchine davanti al mare, circondate da sacche di plastica in cui tengono ciò che possiedono; il runner con gli auricolari da 300 euro e chi piscia la sera sotto l’hotel Les bords de mer. Alla Plage, Nicolas viene di mattina, a suonare la fisarmonica. All’inizio sospettavo fosse pagato dall’ufficio del turismo tanto è un cliché, invece gli piace e basta.

Per approfondire o commentare questi articoli o inviare segnalazioni scrivete a dilloallespresso@ lespresso.it

Foto pagine 74-75: C. Simon –Afp / GettyImages, pagine 76-77: Hemis –Agf, Image Source –GettyImages
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Sotto la Tour du Lazaret del 1558, in restauro, scendono in acqua francesi sui 60 e più in topless, arabe in burkini o tutte vestite, le nere africane con le treccine. Tutte le mattine fa il bagno Marie, 94enne, bikini turchese. Traballa un po’ e chiede di essere aiutata a uscire se ci sono le onde forti, però viene sempre. Aux Catalans c’è la rivincita spettacolare dei boomer (e oltre): la settantenne che fa Wing Chun e la Forma del Tai Chi; la tipa sui 60 che fa yoga presto sulla rotonda, davanti al mare; quelli che marciano a lungo in acqua o nuotano oltre il Cercle des Nageurs, fino al Musée Subaquatique con le sue dieci statue sommerse. È lo spettacolo del mattino, questo. Al pomeriggio la scena la prendono i giovani senegalesi che fanno la lotta berè, i teenager francesi che si allenano per il parkour, e Irina la kirghiza. È la star della squadra di volley beach locale e quando non gioca allena maschi che non riescono a starle dietro. Implacabile: di solito dopo un quarto d’ora lui è morto o quasi, in affanno, sconfitto, lei continua a saltare, a mostrargli come si dovrebbe fare. La sua pelle slava si è abbronzata di Mediterraneo, ma le resta la durezza delle origini. Anche lei qui ha trovato il suo orizzonte. Nella Ville più antica di Francia, e più povera anche, che a modo suo resta sempre un villaggio. Il giorno che rientriamo alla Plage des Catalans da un giro in kayak e ci mettiamo a ripulirlo da sabbia e acqua, tutta la spiaggia ha un’opinione su come dovremmo fare. Dice la sua la signora serenamente enorme col bikini arancione totalmente inadatto al suo compito; una coppia un po’ âgée, fan-

no sport anche loro; ci consiglia pure la Police, che sorveglia la spiaggia: serve la vaselina per sfilare senza fatica le pinnette del kayak. Un capannello curioso e bonario osserva i nostri sforzi, di dare una mano non se ne parla, ma un consiglio non ce lo nega nessuno.

Ci faremo un aperò più tardi, in un baretto sulla Corniche Kennedy, che parte da qui: un trionfo di mare a perdita d’occhio, l’arcipelago delle Frioul appena al largo, tornanti che corrono verso la pietra bianca delle Calanques. Bisogna farla col bus 83, quello “delle spiagge”: Prophète, Roucas-Blanc, Prado: sei in città, ma totalmente dentro il Grande Blu.

Corniche Kennedy è anche il titolo di un romanzo di Maylis de Kerengal, nota in Italiasoprattuttoper“Riparareiviventi”,suun gruppo di adolescenti marsigliesi che sfidano la sorte tuffandosi dai promontori della Corniche, ogni sera un tuffo più dall’alto, più pericoloso. Li tiene d’occhio un commissario, Sylvestre Opéra, che sorveglia la zona, cruciale per il traffico di droga. Il romanzo è stato poi adattato per il cinema dalla regista Dominique Cabrera, e come stupirsene? Marsiglia è un film. Ogni giorno, ogni tornante, ogni faccia una scena - e il bello è che non paghi mai il biglietto.

CULTURA LAST MINUTE
Corniche Kennedy è anche il titolo di un romanzo di Maylis de Kerengal su un gruppo di ragazzi che sfidano la sorte
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tuffandosi dai promontori: ogni sera, sempre da più in alto

STREET ART

Il Parc national des Calanques. Sopra, da destra: graffiti sui muri di Saint-Julien; barche da pesca alle Goudes; il Vieux Port

Marsiglia di Valeria Palermi continua la serie di racconti d’autore sulle città da scoprire ad agosto intitolata “Last minute”. Le puntate precedenti erano dedicate a Berlino (scritta da Mario Desiati), e a Siviglia (di Matteo Nucci).

Foto: Anadolu Agency –GettyImages, Andia –Universal Images Group / GettyImages, F. Soltan –Corbis / GettyImages, Biosphoto –Agf
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Sempre meglio che là fuori

Il fatto è che i videogiochi sono tra noi da più di quarant’anni. Ci sono da quando all’inizio degli Ottanta erano dei passatempi a cristalli liquidi, il cui compito rimaneva segnare l’ora esatta e ciò che veniva intorno, spesso piccoli puzzle o rompicapo, serviva giusto a distrarsi. Sono tra noi dai primi, enormi cabinati in stile monoliti, che anche in Italia radunavano giovani nelle sale da giochi, oggi rievocate pure con nostalgia. Pac-Man e Space invaders, cioè mattoni della cultura condivisa, erano videogiochi. E ancora: sono nei racconti incantati dei bambini che trovano il Sega Master System sotto l’Albero, cronache di un paese edonista, tre televisori per casa; nella pubblicità con Jovanotti del primo Nintendo, nel film d’avventura “The wizard” (1989) che è un romanzo di formazione di un ragazzino che diventa un prodigio di “Super Mario Bros. 3”, nel vincolo di sangue ‒ e siamo già nei Novanta ‒ tra amichetti che si vedono davanti ai joystick, all’ora dei compiti, in un culto diffuso e carbonaro, ché allora non erano mica alla moda. E sono nella Playstation (1995) che li rende cool, nella Wii (2006) che li trasforma in un affare per famiglie, nei “giochini” dei primi smartphone, là dove nel deserto di altre funzioni ri-

coprivano una parte fondamentale.

Eppure, anche se la storia dimostra il contrario, tuttora vengono percepiti come interesse esclusivo dei giovani, forse per la distorsione per cui il concetto stesso di gioco deve restare fuori da ogni vita adulta. E un po’ per pregiudizi, paternalismo, e un po’ per tutela vera e propria, la sensazione è che i ragazzi vadano protetti a prescindere. Si pensa ai bei ricordi, ma i richiami all’ordine c’erano già trent’anni fa, con genitori terrorizzati dall’idea che i figli perdessero tempo e fantasia davanti allo schermo, cacce alle streghe e demonizzazioni. E poi la violenza, con questi sparatutto che, si diceva, istigavano a una visione distorta della realtà, sempre con una pistola in mano. Chiaramente restano semplificazioni: di molti titoli è stata riconosciuta la portata artistica, e l’eventuale dipendenza che possono causare non è

CULTURA VIDEOGIOCHI
I rischi del gaming sono aumentati. Ma dare la colpa ai nuovi prodotti è superficiale. Un documentario sui “Futuri probabili” punta il dito contro la precarietà esistenziale
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PATRIZIO RUVIGLIONI

l’unica prospettiva da cui osservarli, anzi.

Però proprio la dipendenza è un fenomeno concreto, in crescita, tanto che nel 2022 l’Organizzazione mondiale della Sanità l’ha inserita ‒ la chiama “gaming disorder” ‒ nel manuale internazionale di classificazione delle patologie, con sintomi facili da immaginare: dalle conseguenze tipiche di qualsiasi dipendenza (abbandono degli studi, disinteresse per la socialità) allo sviluppo di ossessioni, stati d’ansia e depressioni, fino alla sedentarietà. Ne sono vittime in particolare i giovani, soprattutto maschi. Appunto: perché proprio adesso, è cambiato qualcosa rispetto a trent’anni fa?Qualcosa è cambiato, sì. E prova a spiegarlo un report della Fondazione Leonardo che sarà presentato il 24 agosto al Meeting di Rimini, con un documentario che raccoglie interviste a ragazzi ed esperti in stile “Comi-

La qualità dei videogiochi aumenta, ma anche i “gamig disorder” sono sempre più diffusi, soprattutto tra i giovani maschi

zi d’amore”. S’intitola “2030-2040 Futuri Probabili”, ha un compito più ampio e si chiede che adulti saranno quelli della generazione zeta e chi sta per entrare nell’adolescenza, ragionando su etica e visione del mondo in generale. Però non può prescindere dal gaming, che occupa una bella fetta della vita dei protagonisti dell’inchiesta, in un rapporto stretto e pressoché incomprensibile perfino per i videogiocatori più grandi. A un certo punto del video, una bambina spiega come Minecraft, cioè un classico del genere che crea un mondo virtuale in cui ragionando “per blocchi” si può costruire tutto, possa stimolare la creatività e avviare qualcuno alla professione d’ingegnere. Non sbaglia, le opportunità ci sono. Però poi le si domanda: e se i videogiochi fossero anche capaci di farci percepire gli odori? Lei resta sbalordita: «Sarebbe bellissimo…». Il punto è lì.

Negli ultimi anni la dimensione virtuale, che copre concetti abusati che vanno dal metaverso fino ai social stessi, si è sviluppata sempre di più e sempre meglio. Da tempo si parla di “onlife”, il termine del filosofo Luciano Floridi che indica le nostre vite in cui le dimensioni online e offline sono finite per appartenersi a vicenda, e il confine tra l’una e l’altra è sfumato. Siamo partiti con gli smartphone, ora non si torna indietro e non ci resta che gestire. In un contesto del genere, ai videogiochi si è aperta una prateria: grafica, trama e profondità si sono evolute, ma in generale l’esperienza è diventata più immersiva, realistica, accogliente. Così, è scontato, è venuta fuori anche la malafede di molti sviluppatori, inseriti in un giro da miliardi di dollari e che con tecniche varie stimolano i neurotrasmettitori dei giocatori, alimentando quelle dipendenze da incidenti domestici, episodi di epilessia, difficoltà a gestire la rabbia e storie ragazzi costretti a frequentare ospedali per il recupero, come succede sempre più spesso negli Stati Uniti. Però non può neanche essere tutto ridotto a questo: è

Foto: Getty Images
DOPPIO TAGLIO
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il discorso più vecchio del mondo, non è il videogioco in sé ma il modo in cui ci si rapporta al videogioco. E allora arriviamo al secondo aspetto della questione: per i giovanissimi la realtà virtuale è molto più attraente di quanto lo fosse per i loro coetanei vent’anni fa; e non è questione di qualità visiva o interazioni, la cui percezione è sempre relativa.

È un concorso di fattori, semmai. Li elenca per esempio Vincenzo Marino nel suo “Sei vecchio. I mondi digitali della Generazione Z” (nottetempo), in cui prova a ricostruire il rapporto tra Internet e adolescenti di oggi, così diverso da quello delle generazioni precedenti e che ha garantito loro un altro sguardo sul gaming. Svanito l’effetto per famiglie della Wii e sotterrati i tempi in cui era un argomento di cui parlare a bassa voce, per molti oggi i videogiochi rappresentano una delle forme principali di intrattenimento. Titoli come lo sparatutto “Fortnite”, di cui si è detto già tutto, spesso sono imprescindibili nella loro dieta mediatica, e il fatto di poter giocare a distanza, tutti insieme, li rende delle piattaforme social in cui ritrovarsi o fare nuove amicizie, ora che per loro Instagram e Facebook hanno perso valore. Un po’ come

quando, nei Novanta, s’invitava l’amico di scuola per giocare con il Super Nintendo. Stavolta però è più semplice e amplificato. Nessuno si muove da casa ma la ricerca di quel senso di comunità, che i millennial invece hanno perso, continua. Così un videogioco diventa un connettore sociale più che un modo per competere, e a volte si traduce in una sorta di ossessione per gli streamer, persone cioè che trasmettono le proprie partite a un determinato titolo, di solito tramite Twitch. A chi la osserva non resta che commentare e donare soldi per farla continuare, senza mettere mano al joystick. Cos’è, questo, se non sentirsi parte di un qualcosa di più grande, l’equivalente di quando negli anni Novanta si compravano le magliette dei propri gruppi preferiti?

C’è poi un altro tema, quello già trito per cui la generazione zeta è così diversa dalle precedenti e che ovviamente si rispecchia anche nel rapporto con i videogiochi. Accertato come in linea di massima siano ragazzi costretti a fare i conti con l’infelicità, i primi nati con il mito della decrescita incorporato e con l’idea di un futuro ‒ se di futuro si parlerà, dicono ‒ peggiore di quello vissuto dai genitori, costretti a proteggere la propria salute mentale più di chi era giovane nei decenni precedenti. La stessa “2030-2040 Futuri Probabili” dà voce a ragazzi che raccontano gli stati d’ansia quotidiani. Ecco, in un contesto del genere la realtà virtuale è un rifugio apparentemente sicuro, un luogo d’evasione dalla realtà. Poi, appunto, ci pensano le case produttrici che se ne approfittano e gli smartphone che hanno distrutto i confini a riempire di pericoli quella che potrebbe essere solo una normale caratteristica generazionale. E ancora, come sempre, verrebbe da pensare che i ragazzi, per quanto svegli, non hanno gli strumenti per orientarsi e difendersi, e andrebbero protetti. Però poi ci siamo noi, noi grandi, con i nostri sguardi persi nei telefoni. E allora si capisce perché stavolta è così difficile salvarsi.

Foto: Getty Images CULTURA VIDEOGIOCHI
Il fatto di potersi sfidare a distanza, tutti insieme, ha trasformato i giochini degli anni Ottanta in piattaforme social in cui i giovani possono ritrovarsi
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GARE DI GRUPPO Campionato di videogame. Le giocatrici hanno cuffie e microfono per comunicare con squadra e coach

Licantropi si diventa

Aspettando i tanti vampiri che si preparano a dilagare in tutte le sezioni della Mostra di Venezia, ecco un piccolo social-horror di vaste ma confuse ambizioni che sembra voler offrire un’appendice odierna alle leggende commentate nel classico di Clarissa Pinkola Estés, “Donne che corrono coi lupi”. La donna in questione è infatti un’attualissima madre singleche affronta tutti gli stereotipi destinati a rendere ancora più affannosa la sua condizione, mentre il lupo (mannaro) con cui deve imparare a correre è nientemeno che suo figlio. Un ragazzino dagli occhi ostinati che un brutto giorno – nota bene: il film è stato girato prima del “Bones and All” di Guadagnino – azzanna un coetaneo a ricreazione. Rampognata dal preside, che oltre a sospendere il ragazzo, mica siamo in Italia, la invita a trovarsi un compagno, la bella Elaine si licenzia dal fast food – certi registi non sprecano neanche una metafora – e parte con il dolente Martin alla ricerca del padre svanito poco dopo il concepimento. O se non del padre, almeno della sua famiglia. Ed ecco la svolta social. Mentre la radio parla di migranti e altre emergenze, Elaine e Martin arrivano infatti nella tenuta dei mancati suoceri, che igno-

AZIONE! E STOP

Una giornata per l’Amazzonia. A Venezia il 4 settembre Giornate degli Autori e Isola Edipo ospiteranno il regista Morzaniel Iramari e le sue opere. Di etnia Yanomami, Iramari è uno dei nomi di punta del progetto varato nel 2010 per formare nuovi registi nelle regioni più remote del Brasile. Una scommessa appassionante.

Ci voleva Ken Loach. Mentre tutti solidarizzano con gli sceneggiatori in sciopero a Hollywood, il grande regista inglese si chiede perché, oltre che compensi adeguati al boom dello streaming, gli autori non esigano anche più libertà. Nella scelta dei soggetti come nel taglio della scrittura. Curioso: nessuno ci aveva pensato.

Che fai se il tuo bimbo azzanna un compagno di scuola? Cerchi i suoi nonni e scopri che buon sangue non mente. Un horror per cinefili

ravano perfino l’esistenza di quel nipote mordace. Due adorabili nonnini che ballano il valzer ma forse non la contano giusta, tanto più che sono ricchissimi e lui somiglia a David Lynch. Fidarsi o non fidarsi di quegli anziani di nome Urwald (in tedesco: foresta vergine), dotati degli immancabili trofei di caccia in salotto, ma anche di una stanza con ceppi e catene?

L’ingenua Elaine si fida, anche se nemmeno i suoceri sanno nulla del babbo di Martin, mentre per casa circola un “cognato” inquietante con fidanzata russa incinta e preoccupata. Evidentemente nessuno dei personaggi è mai stato al cinema, mentre il regista (lussemburghese, classe 1980) ha visto ogni possibile horror e piano piano ne cita parecchi, in un caleidoscopio di suggestioni che non chiariscono il messaggio ma rassicurano lo spettatore smarrito. Il famelico Martin deve poter vivere libero e selvaggio, o la licantropia allude a privilegi e crudeltà della razza padrona? E quella mamma single, che ha la (pessima) abitudine di placare il figlio mettendogli un dito in bocca, deve scoprire il proprio lato indomito oppure guardarsi dai ricchi rapaci che portano il nipotino a messa (è il momento “Rapito”, col piccolo cresciuto laicamente che contempla estatico martirii e crocifissioni)? Girato benino, scritto maluccio, Wolfkin conferma il luogo comune: il problema oggi sono le sceneggiature. Una tassa sulle metafore e il cinema d’autore risorgerà.

WOLFKIN di Jacques Molitor BelgioLussemburgo, 87’
20 agosto 2023 83 BUIO IN SALA
Fabio Ferzetti

CULTURA PROTAGONISTI

Modine attore in verde

Se vuoi rendere il mondo un posto migliore guarda te stesso e cambia». Lo cantava Michael Jackson in “Man in the mirror”, lo ripete oggi l’attore ambientalista Matthew Modine, applaudito interprete di “Full Metal Jacket” e “Birdy - Le ali della libertà”, vincitore della Coppa Volpi a Venezia nell’83 per “Streamers”, tornato alla ribalta grazie al successo della serie Netflix “Stranger Things” per cui le nuove generazioni lo adorano. Dal 23 agosto è sul grande schermo con l’atteso nuovo film di Christopher Nolan “Oppenheimer” in cui veste i panni dell’ingegnere informatico Vannevar Bush. Lo abbiamo incontrato all’Ora! Fest in Puglia, prima che abbracciasse lo sciopero di sceneggiatori e attori a Hollywood.

colloquio

Partiamo dal film “Oppenheimer”, come lo definirebbe?

«Una storia gigantesca con un cast d’eccezione. Cillian Murphy è straordinario, dividerci il set e vederlo recitare mi ha entusiasmato». Aveva lavorato con Robert Downey Jr. in “America oggi”, invece.

«Ai tempi però non avevamo scene insieme. Lo stesso con Matt Damon, mentre con Gary Oldman e Kenneth Branagh non ci siamo neanche incrociati, capita quando ci sono cast così grandi».

Chi è il suo Vannevar Bush?

«Uno dei primi scienziati ad avere a che fare con computer e intelligenza artificiale: era a capo dell’ufficio di ricerca e sviluppo scientifico statunitense, gestiva tutto il team informatico per gli studi tecnologici militari. Il bello è che il pubblico non ha idea se lui lavori per il presidente, per l’esercito o per chi altro: è un personaggio grigio, avvolto nel mistero».

Dal cinema alla realtà, trova che oggi la minaccia nucleare sia realmente incombente?

«Al cento per cento. È per questo che abbiamo tanta paura di certi Paesi. Ma per me è davvero ipocrita da parte dell’America temere stati dotati di armi nucleari, come l’Iran o la Corea del Nord, quando è stata l’unica al mondo finora a usarle, a Hiroshima e Nagasaki».

La infastidisce l’ipocrisia americana?

«Non sopporto il tipo di ragionamento di “Questo è ok per me, ma non è ok per te: io posso farlo e tu no”. È una storia vecchia, l’esercito americano è il più grande consumatore di carburanti fossili del pianeta, gli Stati Uniti producono il più forte inquinamento atmosferico del mondo, non solo per tutti coloro che usano le automobili a benzina ma per l’uso militare dei carburanti fossili». Quando ha iniziato a interessarsi di ambientalismo?

«Da bambino. Raccoglievo le bottiglie e mi davano qualche centesimo per il vuoto a rendere. Mio padre gestiva un drive-in in un posto pieno di vegetazione, ricordo ancora i colori dei ciliegi, le piante, le angurie, e poi di colpo negli anni Settanta l’urbanizzazione e la deforestazione della California. Ne sono stato testimone, ho visto con i miei occhi distruggere tutto per costruire edifici e

I rischi delle armi atomiche. E l’impegno per salvare la Terra. All’uscita di “Oppenheimer” il divo parla di film e del futuro da costruire insieme
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centri commerciali. Da allora sono rimasto scioccato: ho sempre visto la Terra come un organismo vivente che respira».

Non respira granché bene ultimamente.

«È complicato distinguere la verità dalle fake news oggi. Ma sin dagli anni Settanta sappiamo che usare combustibili fossili distrugge la qualità dell’aria, o che il fumo delle sigarette provoca il cancro. Eppure le multinazio-

ECOLOGISTA

nali del petrolio e del tabacco hanno pagato per anni medici e scienziati, come anche politici, per negarlo. Per sollevare un dibattito dal valore di svariati milioni di dollari, per dire: “Non è detto che le sigarette provochino davvero il cancro”, oppure “Non è sicuro che i combustibili fossili siano responsabili del cambiamento climatico”».

Seminare il dubbio a cosa ha portato?

«È una politica precisa, tesa a sostenere le multinazionali a scapito della salute degli esseri umani, che a loro volta hanno detto, e dicono ancora, “Mah, forse sarà come dicono loro, non è detto che”. E invece è detto, è scientificamente provato, non c’è più alcun dubbio. La buona notizia è che oggi possiamo scegliere da che parte stare».

Lei l’ha scelta chiaramente: è ambientalista, animalista…

«E realista: la realtà è che le risorse del Pianeta sono esaurite. Non possiamo continuare a consumare e accumulare rifiuti come stiamo facendo, dobbiamo cambiare atteggiamento e dobbiamo farlo oggi. Se consumassimo all’anno tanti esseri umani quanti animali effettivamente mangiamo, l’intera razza umana si estinguerebbe in sole tre settimane. Abbiamo una grossa responsabilità verso le nuove generazioni: dobbiamo lasciare un mondo migliore e sostenibile, altrimenti saremo tutti complici e non ci sarà alcuna speranza per il futuro».

L’attore americano Matthew Modine. A destra è con Robert Downey Jr. nel film “Oppenheimer” di Christopher Nolan mo, ma così non dà il buon esempio».

Essere ambientalista “paga” a Hollywood?

«Quel che cerco di fare io è parlarne più che posso per far capire alla gente che è fondamentale agire adesso per il bene del pianeta. Quello che cerco di non fare è parlare di ambientalismo e poi andare a Cannes con il jet privato, come ha fatto Harrison Ford. Lo sti-

In Italia tornerà mai a girare?

«Magari, mi piacerebbe. L’ultima esperienza risale all’88, per “La partita” di Carlo Vanzina. Con me sul set c’erano Jennifer Beals e Faye Dunaway, era una storia potente sulla vita e sulla morte. Sulla carta era un grande film, ma solo sulla carta».

Che idea si è fatto della morte?

«Il giorno che ne accetti l’inevitabilità è quello in cui inizi a vivere pienamente».

Foto: C. Gallay/Getty Images for TNT
20 agosto 2023 85

BOOKMARKS Sabina Minardi

Fuga d’amore con cerbiatta

Uno scrittore affermato, noto in tutto il mondo. Una studentessa di letteratura, che sogna la scrittura. E una “Lettera d’amore e d’assenza” (pubblicata da Neri Pozza Editore, nella traduzione di Sarah Kaminski e Maria Teresa Milano) che scandisce, passo dopo passo, il loro incontro, il potere e il carisma dell’uno, la curiosità e il desiderio dell’altra. Parole potenti che seducono, amplificano, chiariscono e, all’occorrenza, proteggono. Perché è la lucidità della scrittura l’antidoto alla follia d’amore.

I frammenti di passione di Shavit. Le relazioni letterarie di Siri Hustvedt. Léonor de Récondo cerca la madre. L’eleganza del riccio

Venti appassionanti saggi per ripercorrere le figure più emblematiche nel cammino della scrittrice. Una famiglia reale e letteraria fatta dalla nonna Tillie e da Shahrazad, dalla madre Ester, dalla giornalista Djuna Barnes, dall’artista Louise Bourgeois. Perché siamo il risultato di influenze diverse e dietro ciò che sappiamo - di storia, filosofia, psicologia o solo arte di vivere - ci sono donne straordinarie. Che questo vertiginoso memoir invita a riconoscere.

MADRI, PADRI E ALTRI

Siri Hustvedt (trad. Gioia Guerzoni)

Einaudi, pp. 341, € 22

Tornare a una madre che non c’è più da anni. Rimettersi sulle tracce di una ferita aperta: per guarire, a rischio di soccombere. Un romanzo intenso sul rapporto madre-figlia. E un’indagine sulla femminilità e sul senso del materno che si affida a miti letterari per andare a fondo. Come a quell’Antigone che ha plasmato la nostra cultura e che ancora ci parla di pietas e giustizia. Traduzione di T. Gurrieri.

LETTERA D’AMORE E D’ASSENZA

Sarai Shavit

Neri Pozza Editore, pp. 190, € 14,50

Sarai Shavit è una scrittrice trentenne che vive a Tel Aviv, vincitrice di prestigiosi premi e insegnante di scrittura creativa (con tanto di endorsement di Eshkol Nevo: per l’autore di “Tre piani” è lei la star della nuova letteratura israeliana). La sua “Lettera” è un libro di pagine scarne e intense, minime e ricercate, interessanti per la loro architettura: “frammenti di un discorso amoroso” che dal primo incontro, dai grani di una fiamma che tutto accende, fuoco che chiama fuoco, fino all’epilogo, affidano all’esattezza linguistica la ricerca dell’essenza di un sentimento. Lente, cadenzate, affascinanti, le parole - il ritmo, il modo in cui riempiono lo spazio - vanno incontro al desiderio, lo pregustano. Fanno luce sulla vita dei protagonisti: una moglie che già c’è, due madri che mancano a entrambi, attese sociali, impegni di lavoro. Vita quotidiana che Shavit tratteggia appena, affidandosi a un dettaglio, a un aggettivo, a un non detto che fa scontrare attese e realtà, fantasie e compromessi. L’amore è illusione, sembra dire la scrittrice («Quando qualcosa ti affascina e ti conquista la devi spegnere, affinché la tua anima non venga imprigionata e non si faccia troppo male»), fugace magia che produce proiezioni visive, persino: come quel cerbiatto che fa capolino, addensando fragilità e vulnerabilità. In mezzo la domanda insistente: chi sono io chi sono io chi sono io. Perché l’amore è il coltello col quale frugare dentro noi stessi, come David Grossman ci ha insegnato meglio di chiunque altro. Chi sei tu chi sei tu chi sei tu. Come la domanda muta che nella passione che tutto riscrive ogni amante si fa.

TORNARE A TE

Léonor de Récondo

Edizioni Clichy, pp. 166, € 18,50

È stato un bestseller delle edizioni e/o e nel 2007 un caso editoriale internazionale. Arriva ora, in versione audiobook, il romanzo di Muriel Barbery letto e interpretato da Anna Bonaiuto e Alba Rohrwacher. Un’occasione per rivivere l’atmosfera del palazzo al numero 7 di rue de Grenelle a Parigi e le vicende della portinaia Renée, coltissima autodidatta, della dodicenne Paloma e di monsieur Ozu. Tra allusioni letterarie e citazioni buddiste.

L’ELEGANZA DEL RICCIO

Muriel Barbery

Emons Audiolibri

20 agosto 2023 87

Faticoso Don Chisciotte

Tra poesia e cronaca, Cappuccio e Latella portano nel presente l’opera di Cervantes. Risultato: un caos lastricato di belle invenzioni

Ed eccoci qui a darvi qualche anticipazione delle prossime stagioni, spettacoli che hanno debuttato quest’estate nei vari Festival e che molto presto vedrete nei nostri teatri. Partiamo da Antonio Latella, regista pluripremiato, presente con diverse proposte in più di una rassegna estiva. Al Festival di Spoleto ha diretto i giovani attori dell’Accademia Silvio D’Amico (“Il male sacro”), a Kilowatt Festival è stato protagonista di un focus dedicato a lui, e al Campania Teatro Festival ha firmato la regia di “Circus Don Chisciotte”, riscrittura di Ruggero Cappuccio del capolavoro di Miguel de Cervantes, un testo amato a tal punto da Cappuccio da riprenderlo per la terza volta (la prima con Roberto Herlitzka e Lello Arena nel 2011, la seconda con Cappuccio stesso nel 2017) e amato anche da Latella, che lo portò in scena anni fa riadattato da Federico Bellini. Qui l’impatto scenografico gioca un ruolo importante (scene di Giuseppe Stellato, disegno luci Simone De Angelis). Immaginate la platea del Teatro Mercadantedove ha debuttato (una coproduzione Fondazione Campania dei Festival con Teatro di Napoli-Teatro Nazionale) - completamente svuotata. Al posto delle poltroncine ci sono una ventina di sedie di ogni forma con altrettanti vecchi monitor. Su quelle sedie resteranno immobili e in silenzio per tutta la durata dello spettacolo una ventina di persone non più giovanissime, quasi imbambolate di fronte al flusso di informazioni trasmesse dalla tv.

“Circus Don Chisciotte” di Ruggero Cappuccio per la regia di Antonio Latella

Attorno si muovono i due protagonisti, Michele Servante (Michelangelo Dalisi) e Salvo Panza (Marco Cacciola), stravaganti personaggi che s’incontrano per la prima volta in una discarica, dalla quale inizia un viaggio/ battaglia il cui fine ultimo sembra essere la salvezza della ragione attraverso la letteratura. Ecco allora che la platea silenziosa diventa il mondo stordito, solo, indifferente, un mondo in caduta libera a cui sopravvive solo la parola, che viene smontata dal teleindicatore a palette su cui scorrono nomi di autori, titoli di libri. E i due attori, non più servo e padrone, diventano complici di una grande impresa, straordinari giullari, acchiappafantasmi, combattenti. Lo spettacolo si regge proprio sulla bravura della coppia Dalisi-Cacciola (ma può bastare?), che usando la lingua napoletana impastata con lo spagnolo conduce lo spettatore in un viaggio impossibile. Peccato però sia un viaggio faticoso e confuso, a tratti anche poetico, ma eccessivo, debordante, che finisce così per inghiottire nel suo ventre, annulandoli, anche certi slanci d’inventiva. Circus Don Chisciotte di Ruggero Cappuccio regia Antonio Latella Napoli, dal 15 al 26 novembre

APPLAUSI E FISCHI

Ascanio Celestini, Lella Costa, Marta Cuscunà, Federica Molteni, Andrea Pennacchi, Paola Roscioli, Arianna Scommegna: sono i protagonisti della seconda edizione di “Voci umane”, Festival di Teatro di narrazione che dal 24 agosto al 10 settembre porterà piccole e grandi storie nei musei e nei siti della Lombardia. Evviva.

Una data secca per ogni spettacolo. Ma siamo certi che sia un punto di forza? Il Todi Festival prevede un solo evento a giornata, dal 26 agosto al 6 settembre. Nella serata inaugurale Iaia Forte renderà omaggio a Patrizia Cavalli (“Vita meravigliosa”, con la musica live di Diana Tejera). Peccato non siano previste repliche.

88 20 agosto 2023
COLPO DI SCENA Francesca De Sanctis

Mostri della porta accanto

Èda un po’ che Pietrasanta, un tempo capitale estiva dell’arte, non brilla per la qualità dei progetti che propone. Qualche galleria con spazi e mostre interessanti c’è, ma in linea di massima la cosa più divertente da vedere sono gli sketch che posta su Instagram una super star della critica come Francesco Bonami, che ha casa lì a due passi, a Forte dei Marmi, e ogni anno si presenta in piazza per tirare schiaffi virtuali, a destra e a manca, che potete vedere sul suo profilo Thebonamist. Seguitelo. Quest’anno però c’è una mostra che vale il viaggio, realizzata da Annalisa Bugnani in uno spazio che è attivo da un paio d’anni, The Project Space: “The Blind Leading the Dead” dei fratelli Chapman (fino al 5 novembre). Forse sarebbe meglio chiamarli “ex fratelli” - solo per quanto riguarda la produzione artistica - perché pare che il più vecchio dei due, Dinos, si sia ritirato e abbia lasciato il palcoscenico al più giovane, Jake. Un palcoscenico che i due si sono guadagnati partendo dal prestigiosissimo Royal College of Art di Londra, che qualche anno più tardi avrebbero definito «una completa perdita di tempo, dove la gente giocava con i colori a olio». Fanno gli assistenti di Gilbert & George e riescono poi a cavalcare l’onda del

LUCI E OMBRE

L’Agenzia nazionale ucraina per la prevenzione della corruzione ha creato un database di dipinti e sculture acquistati o venduti da oligarchi russi. Da oggi è dunque più facile, per chiunque si occupi di mercati dell’arte, controllare che ricchi sostenitori e finanziatori di Putin possano continuare a guadagnare in questo ambito.

«Purtroppo la situazione del centro storico è ben più grave di quanto avessimo previsto»: così la delegazione dell’Unesco che la settimana scorsa è stata a Odessa per valutare i danni al patrimonio culturale dei bombardamenti di luglio. Oltre cinquanta siti, tra i quali la cattedrale ortodossa, sono finiti sotto le bombe.

Ritratti riveduti e corretti. Bambini deformi. Pinguini killer. Il mondo splatter dei fratelli Chapman vale un viaggio a Pietrasanta

movimento Young British Artists, realtà che avrebbe imposto a livello globale artisti del calibro di Damien Hirst, Tracey Emin o Sarah Lucas. La mostra è una piccola e lineare retrospettiva di una storia che, tra lo splatter e il pulp, la filosofia noir e uno humor macabro, ha portato i Chapman a imporre come pochi altri la normalità di un incubo. Ci sono bambini geneticamente modificati, deformi e inquietanti, con in faccia organi genitali. Però attenzione, il loro intento non è quello di stupire, ma l’opposto: con queste opere ci vogliono parlare dell’ossessione della società a usare in modo quasi eugenetico l’omologazione culturale, educativa e sociale, che si insinuerà come falange mostruosa nella crescita dei più giovani. C’è anche un uomo in tunica e cappuccio bianco del Ku Klux Klan, che però indossa birkenstock e calzini rainbow. Ha in mano un pennello e sta modificando vecchie croste che i Chapman trovano nei mercatini: nobiluomini, nobildonne e nobilfanciulli a cui vengono cambiati i connotati, vengono trasformati in mostri. E tra scenari in cui in un mondo devastato dai cambiamenti climatici vedremo pinguini diventare carnefici in cerca di cibo oppure giubbotti esplosivi in bronzo che diventano monumenti all’immortalità, la visione dei Chapman pare la più naturale possibile: semplicemente riflettono il mondo deprimente com’è. E per quanto dark sia il risultato, è sempre illuminato da una calamitica comicità.

Foto: Ipa agency 20 agosto 2023 89 smART Nicolas Ballario
Jake e Dinos Chapman, in arte “The Chapman Brothers”

Mezzibusti di mezza estate

Giornalisti impeccabili per notizie improbabili. Dal “diario di Giorgia” al mondiale di Pokémon. Succede ogni sera, al Tg1 delle 20

Era il lontanissimo 1972 quando il critico televisivo de L’Espresso Sergio Saviane inventò di sana pianta una parola che significava da sola più di mille articoli: il mezzobusto. «Galleria di mezzibusti impacciati che non sanno dove mettere le mani e leggono le notizie che la censura gli elargisce col volto più impenetrabile... Un museo di busti del Pincio che cercano di addolcire le cadenze della loro parlata, ben attenti a non dire niente che abbia una parentela col giornalismo, quasi grotteschi nel loro turbamento da video». Poi questa sequela di dettagli dispregiativi scomparirono dalla memoria comune e mezzobusto diventò semplicemente un sinonimo come tanti per definire il giornalista che conduce il telegiornale dietro a un tavolo. Ecco, con tutte le molle a disposizione da prendere con cura, è divertente ripensare a quel colpo di genio tra i tanti che ebbe Saviane, mentre sera dopo sera scorrono i titoli del Tg1 delle 20 in zona Ferragosto. Dove giornalisti impeccabili dalla dizione perfetta cercano di restare seri mentre annunciano il certamen miliardario tra Elon Musk e Mark Zuckerberg, lo scontro fantascientifico si farà o non si farà? E spazio alle immagini, alle ricostruzioni e agli interrogativi, con due servizi, ma anche tre, che si sa la notizia è interessante. Oppure l’approfondimento sulla premier Meloni che ha detto (commentato, criticato, non importa

L’immagine di apertura del telegiornale del primo canale Rai

tanto cambia poco) un qualche cosa in un video sui social (salario minimo, banche, molti numeri, sorrisi e via dicendo). Ovvero l’annuncio giornalistico di un messaggio fai da te dove c’è ben poco da aggiungere visto che il contraddittorio sul “diario Giorgia di Facebook” viene difficile. Così sera dopo sera scorrono voci altisonanti per annunciare bizzarre scalette in cui Mancini shock viene prima dei morti nel Mediterraneo, il caldo intenso anticipa il consueto femminicidio del giorno. E poi perché non parlare degli imperdibili campionati di Pokémon in Giappone, ancora caldo, un po’ di gran caldo, la reliquia di Padre Pio che deve trovare il suo posto nella teca. E mentre un’inviata si reca appositamente in Puglia per approfondire il tema tarallo, c’è lo spazio per una celebrazione come si deve per la giornata dell’elefante, altrimenti detto l’animale più potente della terra. Che dire, la deriva fa riflettere. Ma soprattutto ricordare con amore imperituro la sequenza di «mezzibusti da allevamento, da allattamento, da riscaldamento; da carrozza, da rintocco, da cupolone, da carta geografica, da inquinamento e da arialibera». Insomma grazie a Sergio Saviane, al Tg1 un po’ meno.

DA GUARDARE MA ANCHE NO

Non si sa bene dove e neppure quando. Ma Goldrake sta tornando. Probabilmente il prossimo anno, su piattaforme non identificate, con un nuovo logo e nuovi personaggi. Ma di certo si trasformerà di nuovo in un raggio missile, con circuiti di mille valvole e tra le stelle sprinta e andrà. Che gioia.

Un messaggio rassicurante per tutte le persone che hanno vissuto col cruccio di non poter vedere Tina Cipollari nella prossima stagione di “Uomini e Donne”. L’opinionista del dating show ci sarà, lo ha annunciato sulle sue pagine social, con una sottile minaccia: «Sarò più pungente che nelle edizioni passate».

90 20 agosto 2023 HO VISTO COSE
Beatrice Dondi

Errori da non ripetere

La grande bolla dei concerti di questa estate non si ferma, ci sono concerti dovunque, a ogni costo, in ogni angolo, stadi e arene sono riempite con una voracità che non si ricordava da tempo, una bulimia che ha sicuramente molte diverse motivazioni ma che rischia di causare incidenti inaccettabili come il disagio creato al concerto dei vent’anni dei Negramaro con parcheggi lontani e difficili, viabilità ridotta e un inferno per molti spettatori che sono arrivati a concerto già iniziato o peggio non sono arrivati affatto a destinazione. Disavventure come questa non devono mai più accadere, e sono evidentemente casi eccezionali, ma rimane la tendenza a sparare concerti in quantità esagerata. La prima e più importante spiegazione viene da una semplice considerazione. I dischi non si vendono più, lo streaming rende ma solo quando i numeri sono molto elevati, e quindi i concerti sono diventati la più importante se non unica fonte di reddito per i musicisti. Ecco perché suonano tutti dovunque, approfittando di una colossale ed euforica reazione collettiva agli anni di chiusura pandemica. Anche dall’estero le notizie che arrivano sono piuttosto rivelatorie. Il tour di Taylor Swift ha fruttato un incasso astrono-

UP & DOWN

In un impeto di generosità Vasco Rossi sta trascorrendo le sue vacanze concedendosi all’entusiasmo dei fan, e i suoi sono notoriamente tra i più fedeli al mondo. È stato alcuni giorni al suo paesello di Zocca per stare vicino alla mamma Novella, e in Puglia di tanto in tanto si fa vedere in giro e gioca con i suoi fedelissimi seguaci.

Drake in concerto a Los Angeles ha dovuto chiedere alle sue spettatrici se gentilmente potevano evitare di ripetere il consueto rito di denudarsi e lanciare i reggiseni sul palco. Motivo? Non un richiamo di sobrietà, ma semplicemente una tregua temporanea perché quella sera era presente il suo figliolo di cinque anni.

Concerti ovunque. Folle oceaniche. Incassi astronomici. Ma la voglia di musica dal vivo va gestita bene. Per non far la figura dei Negramaro

mico, più di un miliardo e quattrocento milioni di dollari, molti più degli oltre novecento milioni guadagnati da Elton John col suo tour d’addio. Sono cifre enormi e ingiustificate rispetto all’alto prezzo dei biglietti. È ovvio che il nuovo mercato della musica sia ormai quello dei concerti, e ci sono forme di specializzazione sempre più sofisticate per sfruttare economicamente l’ardore dei fan, biglietti speciali, posti privilegiati con gadget legati all’artista. Nel mondo anglosassone stanno sperimentando con successo delle formule definite di “esperienza” o più semplicemente pacchetti vip in cui, pagando profumatamente, è possibile andare molto oltre la semplice visione del concerto, si può addirittura incontrare il proprio idolo, passarci del tempo, parlarci, magari perfino bere un drink con loro, e possiamo essere certi che formule del genere verranno esplorate presto anche in Italia. Tutto questo per non parlare del secondary ticketing, delle forme di bagarinaggio più o meno legalizzate che fanno salire i prezzi, e dei paradossali meccanismi che fanno sì che appena i biglietti di un concerto vengono messi online dopo mezz’ora siano esauriti, cosa tecnicamente molto difficile da comprendere. Eppure siamo in piena bolla. Questa è la stagione dei pienoni, tutti vogliono vedere, ascoltare, esserci, e in sé è una cosa positiva. Basta cercare di fare le cose al meglio perché questa euforia diventi un’abitudine.

Foto: S. Infuso
Corbis / GettyImages
20 agosto 2023 91 LE GAUDENTI NOTE Gino
Giuliano Sangiorgi, frontman della band salentina Negramaro
Castaldo

Rivive la berlina del “riscatto”

Bmw ripropone una nuova serie 5, l’auto che affidò a Derrick il compito di ripulire l’immagine del marchio preferito dai banditi

Arriva la nuova Bmw serie 5, un successo a quattro ruote che ha superato il mezzo secolo di vita. La prima versione ufficiale è datata 1972: una berlina lussuosa ideata per combattere la concorrenza, non solo quella interna, tedesca, della “collega” Mercedes, ma anche dell’italiana Alfa Romeo. Nessuno prevedeva lo shock petrolifero dell’anno successivo, il 1973, e le case automobilistiche creavano mezzi sempre più grandi senza considerare adeguatamente il valore dei consumi di carburante. Per il lancio, un’intelligente sinergia con il mondo della produzione televisiva: partiva una serie per il piccolo schermo destinata a vivere per tante stagioni, “L’ispettore Derrick”, e al numero uno della squadra omicidi di Monaco di Baviera viene messa a disposizione una nuova Bmw serie 5. Horst Tappert, l’attore che ha interpretato il poliziotto tedesco più famoso nel mondo (i telefilm sono stati visti in 108 nazioni) amava guidare la 525, e con la serie televisiva ha accompagnato ogni cambiamento dei modelli “5”. All’epoca non si parlava di product placement, le star fumavano allegramente senza problemi etici e salutistici mostrando bene il pacchetto delle sigarette, in primo piano, e il pubblico copiava atteggiamenti e stili di consumo dei personaggi famosi. Bmw stava cercando di modificare quell’immaginario collettivo che associava le proprie vetture ai banditi che utilizzavano modelli come Touring e 2002 per compiere rapine e scappare rapidamente.

La nuova Bmw serie 5 che sarà disponibile con ampia gamma di motorizzazioni dall’autunno prossimo

Derrick ha contribuito a sdoganare l’immagine di una Bmw istituzionale, un emblema della legalità, avendo accanto il fidato Klein, l’attore Fritz Wepper. Un cammino destinato ad evolversi, poi, guidando la serie 7: prima una 735i e poi una 740i, di taglia e aspetto presidenziale. Ma torniamo alla nuova “5” che sarà disponibile nella prossima stagione autunnale: sarà più lunga di quasi dieci centimetri, con le versioni elettriche che saranno destinate ad attirare le attenzioni del pubblico. Un alto tasso di elettrificazione con protagonista l’eDrive40 da 340 Cv. Potentissima, per gli amanti della velocità, la M60 xDrive, con doppio motore elettrico da 601 Cv, in grado di raggiungere i 230 km/h, percorrendo la distanza tra Milano e Roma senza bisogno di ricaricare la batteria. Non mancherà una mild hybrid benzina 520i e l’unica diesel sopravvissuta nel listino, la 520d. A partire dalla primavera del prossimo anno si aggiungeranno le ibride plug-in 530e e 550e xDrive.

Da segnalare la possibilità di mettersi al volante utilizzando gli ultimi prodigi della guida assistita, come l’Active Lane Change col Gaze Assist: per cambiare corsia in autostrada basta indirizzare lo sguardo verso sinistra o destra e l’auto effettua la manovra richiesta. Chissà cosa avrebbe pensato l’ispettore Derrick.

IN & OUT

Marcia a gonfie vele il gruppo Mercedes-Benz: ottimo l’andamento dei modelli di fascia alta, con le vendite nel secondo trimestre di Amg cresciute del 19%, di Maybach del 39% e del fuoristrada Classe G del 29%. Con Mercedes-Benz Mobility che ha visto triplicare il suo volume di affari, arrivando a quota 1,8 miliardi di euro.

Chiude Mirafiori Baby. L’asilo Fiat voluto da Sergio Marchionne al’interno dello stabilimento torinese di Mirafiori non c’è più. Inaugurato nel 2007, con i suoi mille metri quadrati (senza contare l’area esterna) era il nido aziendale più grande d’Italia: la fine dello spazio dedicato ai figli dei dipendenti è stata decretata da Stellantis.

92 20 agosto 2023
MOTORI Gianfranco Ferroni

Lunga vita ai cavalli

Icavalli vivono un terzo della loro esistenza da anziani. Pensate che superano agevolmente i trenta anni ma, dopo i venti, cominciano gli acciacchi. La vita sportiva di un cavallo atleta è molto più corta. Il Purosague Inglese difficilmente corre dopo gli otto anni, i cavalli da equitazione competono in salto ostacoli fino a diciotto circa. Ma la loro esistenza prosegue per tanti, tanti anni. Fortunatamente crescono i centri dove poter alloggiare i quadrupedi vecchietti, così come quelli gestiti da volontari che si fanno carico di molti equidi che potrebbero finire male. Potremmo definire questi posti come residenze assistite per anziani a quattro zampe. Il cavallo geriatrico ha molte patologie e va saputo gestire al meglio a cominciare dall’alimentazione. L’assimilazione del tratto digerente comincia a fare cilecca e l’efficienza digestiva diminuisce. I reni potrebbero non essere più così pronti a filtrare e quindi il livello proteico degli alimenti non deve essere alto. Accortezze che si devono avere quando si supera una certa età. Il mio cavallo di razza maremmana ha ventiquattro anni e mezzo: è vivace e ancora montabile, ma negli ultimi tempi ho notato un calo fisico. Forse il caldo, il fieno non eccellente gli hanno fat-

CAREZZE E GRAFFI

Lievito di birra. Si tratta di un integratore estremamente utile per il benessere del cavallo anziano. Mi raccomando, però, fate attenzione a scegliere: non quello che si acquista al supermercato, quello da pizza, per intenderci. Il lievito giusto per i cavalli è quello essiccato a uso zootecnico.

Frazionare i pasti del cavallo è un’ottima soluzione per aiutarli nella digestione. Per quanto riguarda il cavallo anziano che tende a dimagrire, si può utilizzare il fieno “wafer”, una tipologia di fieno essiccato che mantiene le proprietà nutritive e allo stesso tempo è facilmente masticabile.

Mangimi poco proteici. Lievito di birra. E dentista almeno una volta all’anno. Per migliorare la vecchiaia del più elegante dei quadrupedi

Un cavallo può arrivare a vivere trent’anni, ma già a venti deve essere considerato anziano e richiede cure particolari

to perdere il suo peso forma. Mi sono rivolta a un amico, un esperto in alimentazione degli equidi che lavora presso il dipartimento di Medicina veterinaria dell’Università di Pisa, Livio Magni. «Ricordati che la prima digestione avviene in bocca con la masticazione, quindi controlla bene che i denti siano a posto». Almeno una volta all’anno i cavalli necessitano del dentista per limare le “punte”, parti di denti che crescono creando ferite all’interno del cavo orale e impediscono la buona masticazione. Controllata la bocca, si passa all’alimentazione. Abbiamo detto che il livello proteico deve essere contenuto. Quindi fieno di qualità ma non di erba medica. Le porzioni vanno frazionate nelle 24 ore. Il mangime: la percentuale proteica non deve superare l’11 per cento per non sovraccaricare i reni. Meglio se si tratta di un prodotto estruso, un processo di cottura che ne facilita assimilazione e digeribilità. I mangimi estrusi permettono l’assimilazione degli amidi fino al 90 per cento. L’intestino del nostro vecchietto assimila sempre meno, quindi potrebbe essere opportuno aggiungere sali minerali e vitamine. Molto utili al benessere generale del cavallo sono i probiotici come il lievito di birra. Attenzione: assolutamente non usare quello da pizza o da pane che si trova al supermercato, perché potrebbe avere effetti negativi. Quello giusto da usare è il lievito di birra essiccato a uso zootecnico. I cavalli ringraziano.

Foto:
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AMICI BESTIALI Viola Carignani

GUIDE DE L'ESPRESSO A TAVOLA Andrea Grignaffini

Stelle guizzanti nel mare

Secondo una leggenda, le acciughe erano una costellazione condannata da Dio a brillare nell’acqua. Ma anche in cucina

Maira che giravano di cascina in cascina, per stradine inghiaiate o innevate, attraversando le piatte campagne per approdare fino in città come Torino e Milano, tirando o spingendo il loro carico di pesci salati.

Ma non basta, l’acciuga fa capolino anche nel repertorio di prelibatezze mediterranee, qui voluttuosamente sott’olio; si passa da quelle del Mar Cantabrico, le più carnose e ghiotte, a quelle più delicate della Liguria e della Sicilia.

Un ricchissimo concentrato di virtù marine…e molto di più.

Protagonista di antiche leggende, guizza argentata in tanti detti nazional-popolari prestandosi a interpretare altrettante antropizzazioni e perfino certi vezzi attribuiti all’animo femminile: si parla della saporosa acciuga, la più ammiccante e vanitosa tra i pesci azzurri. Una credenza narra che le acciughe sarebbero nient’altro che la punizione di Dio alle Engrauline, piccole stelle luminosissime che avevano offeso la luna e annoiato il firmamento con il loro estenuante vaniloquio. Così Dio le fece precipitare in mare a «correre, a stancarvi, patir la fame e la paura», decretando una funesta sorte da sottile sottomarino per quei corpi celesti e una nuova fortuna per l’uomo che, lungi dal limitarsi ad ammirarne i bei riflessi luccicanti, prese soprattutto ad apprezzarle come cibo.

Acciughe appena pescate: adattissime alla conservazione sotto sale e quindi al commercio, compaiono in piatti tipici di tutta Italia

Un sottile pescetto che dà mostra d’incredibile versatilità anche nelle ricette di carne come vivace comprimaria all’interno di basi e salse o nella sua preziosa quintessenza, la colatura, un sopraffino condimento per primi piatti ma anche per vegetali e uova, o, ancora, per incarnare quell’insostituibile quid in certi intingoli della tradizione – ben lo sanno gli amanti della bagna cauda.

Poi è nell’insolito connubio tra mondo ittico e caseario, di cui è tanto felice quanto rara se non unica testimone, che strugge in piacevolezza: sul pane appena tostato, adagiata su un generoso strato di burro, meglio se di malga, fa la storia di una vera libidine palatale.

DOLCE E AMARO

Questo fu vero non solo per chi, di acciughe fresche, poteva farne agile incetta vivendo in prossimità di porti e pescherecci, ma anche per coloro che, oltre i valichi, i passi e le valli, ne beneficiavano nella versione più longeva, sotto sale; raro non era trovare acciughe appese a testa in giù sopra le tavole delle sempiterne polente padane o, ancora più su fino alle Langhe e in Val d’Aosta, vederle arrivare dentro ai caruss, i carretti dei famosi anchoiers dalla Val

La colatura di alici. La fermentazione rappresenta il metodo più utilizzato per la conservazione, pensiamo ai Garum (salse di pesce fermentato). E proprio questa preziosa salsa ambrata dall’intensa espressività umami, è preparata ancora secondo l’ancestrale tradizione. Per chi ama le alici questa è la loro quintessenza.

Bollicine e bianchi in abbinamento. Nonostante venga istintivo l’abbinamento con i vini bianchi diciamo “da spiaggia”, quelli beverini e aciduli, in realtà diventano troppo disarmonici con la parte amarotica e più selvaggia dell’alice che spadroneggia il gusto. Da premiare quelli più morbidi al sorso capaci di addomesticarne l’impronta.

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Foto:Getty
94 20 agosto 2023

Brunello della rovere

Una delle cantine che hanno accompagnato il fenomeno del Brunello fino alle dimensioni attuali, ossia di punto di riferimento per la produzione italiana nel mondo, è proprio Canalicchio di Sopra, attiva fin dal 1962. Ci troviamo nel quadrante Nord-Est della “collina” di Montalcino, sede di alcune delle espressioni più eleganti e raffinate della tipologia: 60 ettari, di cui 19 vitati, con una prima bottiglia di Brunello prodotta già nel 1966, è tra le 12 cantine fondatrici del Consorzio, nato nel 1967. Si deve all’intraprendenza di Primo Pacenti, poi affiancato, a partire dal 1987, dal genero Pier Luigi Ripaccioli, i cui nipoti, Francesco, Marco e Simonetta, ovverosia la terza generazione familiare, sono ora alla guida, dal 2001, perseguendo fermamente le stesse idee di orientamento alla qualità. Filosofia di vinificazione per singola vigna, con 10 unità totali (Casaccia, Cerrino, Cantina, del Poggio, del Piano, Suga, Bersaglio, Filari Lunghi, Vigna di Mezzo e Vecchia Mercatale) e i cru di Canalicchio e Montosoli, suoli prevalentemente argillosi, con qualche componente galestrosa e limosa e grande attenzione al lavoro svolto in campagna sono, in un progetto monografico dedicato alla coltivazione esclusiva del Sangiovese, i pilastri del successo di casa. Questi, assieme a lavorazioni accurate in cantina - dove si procede con lunghe macerazioni e affinamenti raffinati, in botti grandi di rovere di Slavonia - garantiscono circa 70 mila bottiglie ogni anno, vini caratterizzati dall’eccellente qualità media, dotati della cifra stilistica dell’eleganza e dell’equilibrio, che stupiscono platee sempre più vaste. Del resto la magia di Montalcino e del Brunello è consistente e vigorosa, un abbraccio magnetico che, se al grande Luigi Veronelli ricordava Mahler, nelle sue punte espressive è, davvero, arduo da tradurre in parole. Per questo il mio consiglio è di farlo roteare un poco nel bicchiere, quel vino, e poi, semplicemente, assaporare.

Botti in legno di Slavonia. Terreni argillosi. Uva Sangiovese. Così da 50 anni la Canalicchio di Sopra guida un successo senza eclissi

Francesco Ripaccioli, che con Marco e Simonetta è la terza generazione della famiglia che ha fondato l’azienda Casalicchio di Sopra. In alto: l’ingresso della nuova cantina

BRUNELLO DI MONTALCINO DOCG

VIGNA MONTOSOLI 2018

PUNTEGGIO: 98/100 - PREZZO: € € €

Da uno dei cru più rinomati di Montalcino, a suoli con prevalenza galestrosa, una lettura di verticalità e sapidità. Vinificazione in acciaio a temperatura controllata, poi una lunga macerazione, successivamente 36 mesi in rovere di Slavonia da 25 hl, note di gelso nero al naso, con tocchi di buccia di clementina e maggiorana, grande freschezza-succosità al palato e tannini sapidi, con grande persistenza e finale agrumato-fruttato. Perfetti con un bel piatto di mezze maniche ai cardi e alla salsiccia. CANALICCHIO

Loc. Casaccia - 53024 Montalcino (SI) Tel. 0577 848

DI SOPRA
- info@canalicchiodisopra.com
316
€ da 11 a 25 euro€ € da 25 a 35 euro€ € € più di 35 euro 20 agosto 2023 95
GUIDE DE L'ESPRESSO IL VINO Luca Gardini

Il paradiso può attendere

Cara Rossini, le invio questi miei «appunti dall’inferno», che non è quello del nostro immaginario, ma quello vero di un’estate a 40 gradi, dove tutto sembra partecipare a una sorta di penitenza universale. A riprova, ecco i roghi che hanno consumato boschi e colture in Sicilia e in Sardegna e, al di là del clima, ecco una miriade di altri fatti che quotidianamente ci vengono propinati. Uno per tutti: il licenziamento dei cosiddetti fannulloni del reddito di cittadinanza, stavolta al grido di giubilo «Abbiamo restaurato la povertà!». Ma questo è inferno per i poveri, mentre per la gente di potere c’è l’oblio. Dell’oblio s’è fatta scudo Giorgia Meloni, sempre pronta a proclamare: «Sono soddisfatta!», anche quando si gratta la testa o mostra la lingua come una lucertola. Oblio per quei morti che ormai non si contano nelle acque del Mediterraneo. Oblio per la guerra in Ucraina, cui si aggiunge la cancellazione delle atrocità con mezze verità e menzogne intere, ma intanto si finge una conferenza di pace. Così l’oblio colpisce anche le parole del Papa. Oblio per i danni e le rovine del colonialismo, resuscitato oggi più subdolo e strisciante nell’Africa nera, con finti aiuti umanitari in cambio di materiali rari. A tale proposito, ecco il golpe in Niger, il Paese su cui l’Occidente s’era industriato

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a esportare la democrazia, come se non fossero bastati Afghanistan, Libia, ecc. Oblio per la continua mattanza di donne, chi per mano del marito, chi del compagno, chi dell’ex, chi del vicino di casa.

La grande calura è finita, ma l’Italia s’è spaccata in due anche sul clima. Al Nord fulmini e saette hanno riaperto la diatriba del clima impazzito: «Colpa di chi violenta la natura», dicono i fautori della svolta green. «È sempre stato così», sostengono coloro che la considerano il flagello del nuovo secolo. E intanto si perpetra l’ultimo oblio, i buoni propositi di arginare il dissesto idrogeologico sono riposti nel cassetto in compagnia del Pnrr. Sì, il grande caldo finalmente è finito, ma l’inferno continua, il paradiso può attendere.

Una lettera sconfortata e purtroppo in gran parte condivisibile che, però, finisce con parole che evocano il titolo di due film deliziosi, uno degli anni Trenta e un remake dei Settanta. In entrambi il paradiso poteva attendere perché il protagonista scopriva sulla terra l’incanto dell’amore. Per dirci, con la grazia che qualche volta ha Hollywood, come la vita sappia regalarci emozioni che fanno dimenticare anche l’inferno.

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TIRATURA COPIE
96 20 agosto 2023

Sapete quanto me ne frega di sapere a quanto ammonta l’indennità di Fassino? Niente. Idem per lo stipendio di ogni politico. L’idea giacobina dei grillini, secondo cui i politici sono pagati troppo, è sbagliata di fondo. Il problema non è quanto li paghiamo, ma il loro operato; e quello è così delicato, comporta così tante responsabilità, che giustamente dovrebbe valere oro. Solo che scoccia sapere quanto in alto nella società siano arrivate persone di dubbie qualità morali e professionali. Ne abbiamo schiere, non ne cito per paura di querele (la querela è veramente un mezzuccio, una roba da

Non mi interessa il loro stipendio ma ciò che fanno

permalosi. Più onesto sfidarsi a duello o su un ring come spero facciano Elon Musk e Mark Zuckerberg). Il problema è che come per tutti i lavori in cui si ha a che fare con il bene collettivo, non sono richiesti degli standard morali da rispettare. Questo è il limite della democrazia, è in mano all’uomo.

Teoricamente il politico dovrebbe essere buono, competente, votato al bene collettivo. Vi sfido: fate il conto e mettete assieme dieci nomi di politici italiani attuali che corrispondono a questi requisiti. Difficile, eh? Quando parlare di politica diventa parlare di politici è qualcosa che rovina le giornate. Se prima uno ti stava simpatico, ci parli di politici e tutto il buono che c’era viene spazzato via. Chiunque crede a qualsiasi sciocco. Tutto è polarizzato, le squadre avversarie si identificano completamente con il proprio rappresentante, non

c’è più spirito critico, hanno tutti ragione. È tifo. E poi i politici di oggi sono veramente impresentabili, con Instagram e Twitter fuori controllo ti fanno rimpiangere la Prima Repubblica, i poteri occulti e i grandi vecchi tipo Andreotti; quando si stava peggio; Moro che andava in spiaggia con la giacca e la cravatta. Passatismo? Ok, ci sta. Però non è vero che siamo tutti uguali, che fare il politico è un mestiere che deve essere pagato come qualsiasi altro. Francamente preferivo la monarchia, si l’ho detto. Un re mi permetterebbe di fare la mia vita da suddito - quale sono - in santa pace, invece mi devo prendere lo sbattimento di ascoltare politici meteore che si alternano all’infinito e non risolvono niente. Ma soprattutto devo capire cosa dicono veramente in mezzo a tutto il loro darsi arie e ciarlare e nel caso votarli, quando invece sono troppo impegnato: cerco di stare a galla, lavorare, pagare le tasse, le multe (a proposito, una bestialità che non si può dire a voce alta: grazie a quei veri patrioti che hanno sabotato l’autovelox a Padova da 24 mila multe l’anno. Finalmente un gesto del popolo per il popolo, questo si un gesto politico) e dormire.

La politica non è fatta per gli esseri umani, sono troppo corruttibili, troppo imperfetti, troppo invidiosi. Dovremmo farci commissariare da Paesi moralmente più elevati tipo quei posti del Nord Europa tutti ordinati, oppure delegare l’amministrazione pubblica a un’intelligenza artificiale. Sarebbe questo un buon lavoro per le macchine, che lascino a noi la manodopera in cui eccellevamo, mentre oggi non sappiamo più fare niente. Imperturbabili, senza sentimenti, senza ego, ecco la soluzione. Non lo facciamo solo per un motivo, ovvero che quando cercheremmo di spegnerle si sgamano le nostre malefatte, quelle imiterebbero Hal 9000, il computer di “2001: Odissea nello spazio”, che fa fuori gli astronauti.

BENGALA
Il problema è che ai parlamentari non sono richiesti standard morali. È il limite della democrazia
98 20 agosto 2023
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