Decostruzione in architettura. Pensiero e prassi per lo smascheramento del logocentrismo

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Decostruzione in architettura Pensiero e prassi per lo smascheramento del logocentrismo

Politecnico di Milano Scuola di Architettura Civile Corso di Laurea Magistrale in Architettura delle Costruzioni Corso di Estetica Docente: Matteo Vegetti Studentesse: Beatrice Galimberti, Anna Benedetta Rossi A.A. 2011-2012


Politecnico di Milano Scuola di Architettura Civile Corso di Laurea Magistrale in Architettura delle Costruzioni Corso di Estetica Docente: Matteo Vegetti Studentesse: Beatrice Galimberti, Anna Benedetta Rossi A.A. 2011-2012 Š Beatrice Galimberti, Anna Benedetta Rossi. All rights reserved


Decostruzione in architettura Pensiero e prassi per lo smascheramento del logocentrismo Beatrice Galimberti, Anna Benedetta Rossi



Indice

capitolo 1

Jacques Derrida e Peter Eisenman di Beatrice Galimberti Premessa

9

1 Decostruzione in architettura

10

2 Jacques Derrida e Peter Eisenman, il filosofo e l’architetto. Similitudini e differenze nell’intendere la decostruzione

13

3 Due progetti di Peter Eisenman

18

4 Chora L Works

30

Conclusione

40

Bibliografia

41

capitolo 2

Jacques Derrida e Bernard Tschumi di Anna Benedetta Rossi 1 La decostruzione del logocentrismo

45

2 Casuale e necessario: l’incontro tra decostruzione e architettura

49

3 Architettura e decostruzione. Il Parc de La Villette di Bernard Tschumi

54

Bibliografia

71



Jacques Derrida e Peter Eisenman Beatrice Galimberti



Premessa Nel momento in cui si afferma che c’è un modo di pensare al di là dell’uomo che resta ancora centrato sull’uomo1 e che bisogna riportare l’architettura alla scala dell’architettura, risulta chiaro che la decostruzione in questo ambito fa scaturire questioni che risultano più sistemiche rispetto al tema della metafisica della presenza o al tema dell’antropocentrismo e del logocentrismo. Le questioni più profonde (e complesse) che vengono sollevate dalla decostruzione in architettura riguardano l’identità del progetto (cos’è il progetto?) ed il ruolo del soggetto (concetto generalmente, anche se non esclusivamente, coincidente con l’architetto) nel progetto. Dal dialogo tra il pensiero di Derrida e l’opera di Eisenman non emergono risposte certe e definitive, ma qualcosa di più importante. Vale a dire un metodo capace di sollevare e interrogare le problematicità del pensiero e del progetto. Nelle pagine che seguono ho cercato di

illustrare criticamente alcuni punti-chiave del

rapporto tra Derrida e Eisenman al fine di delineare cosa si possa intendere per tale metodo.

1

Dall’intervista a cura di H.Viale, Il filosofo e gli architetti, in J. Derrida, Adesso l’architettura, Libri Scheiwiller, Milano, 2008, p. 195.

9


1. Decostruzione in architettura Più che un metodo filosofico, per Jacques Derrida la decostruzione offre una matrice di investigazione 2 adatta a smascherare le resistenze logocentriche che innervano la tradizione filosofica occidentale, cercando di comprendere in che modo tale tradizione si sia consolidata come metafisica della presenza dell’essere3. La decostruzione permette di comprendere come nelle coppie di opposti appartenenti alla metafisica della presenza un termine sia posto in posizione gerarchicamente prevalente sull’altro, al fine di celare la natura di irriducibilità dell’opposizione. Ciò significa che la decostruzione mira a mettere in luce lo scarto incolmabile (la différance4) tra due termini opposti, ed in ultima istanza a evidenziare come non sia mai esistito un significato puro (ideale) scisso dal proprio significante (supporto tecnico materiale che veicola un significato). Derrida ha elaborato questioni decostruttive in ambito filosofico, tuttavia, per dimostrarsi efficace, la decostruzione non può restare confinata all’interno dei limiti dell’ambito filosofico, ma va inevitabilmente estesa agli altri ambiti del sapere. Ciò permette l’emancipazione delle regioni del sapere dall’autorità del discorso filosofico logocentrico, il quale ha preteso di porsi come fondamento e finalità ideale di tutti i campi del sapere. Derrida sostiene che “il pensiero non è esaurito dalla filosofia, il pensiero mi interessa nella misura in cui eccede la filosofia. Ciò presume che ci siano arti pratiche dello spazio che eccedono la filosofia e che resistono al logocentrismo. C’è pensiero che produce senso

2

“Programma” e “matrice di investigazione” sono i termini usati da J.Derrida nell’ intervista a cura di P.Brunette e D.Wills, Deconstruction and the Visual Arts: Arts, Media, Architecture, Cambridge, Cambridge University Press, 1994, trad.it. Le arti spaziali. Un’intervista con Jacques Derrida in J.Derrida, Adesso l’Architettura, cit.,p. 32. 3

Per metafisica della presenza si intende la messa a tema della presenza dell’essere, l’espressione è definita da M. Heidegger come “pensiero che pensa l’essere dell’ente secondo il modello della semplice presenza a sua volta derivato dalla determinazione del presente temporale sciolto però dal divenire che costituisce l’elemento irriducibile della nostra esistenza”. Tale tema risulta essere un punto nodale del confronto tra Derrida e Eisenman. 4

Neologismo coniato da Derrida. Nella prefazione a J.Derrida, Adesso l’Architettura, op. cit., F. Vitale scrive che “la différance può essere dimenticata o rimossa e proprio per questo non smette di produrre effetti perturbanti sul sistema che si organizza a partire dalla sua rimozione; la decostruzione è da sempre all’opera indipendentemente dalla volontà di qualcuno”.

10


senza appartenere all’ordine del senso e che eccede il discorso filosofico e che interroga la filosofia con un’interrogazione che va oltre la filosofia”.5 L’ambito dell’architettura è “l’ultima fortezza della metafisica della presenza” 6 per più ordini di ragioni. In primo luogo l’architettura è l’arte che appare meno mimetica e pertanto, non rimandando che a se stessa, manifesta un forte valore di presenza; in secondo luogo l’architettura è legata a resistenze logocentriche (teoriche, simboliche, materiali, politiche, istituzionali) che pongono il fine ed il senso dell’architettura al di fuori di essa7. Pertanto la decostruzione trova nell’architettura il suo dispiegamento più difficile ma anche più efficace8. La decostruzione non opera sull’architettura ma da dentro l’architettura, altrimenti si tratterebbe di un nuovo metodo filosofico, di una nuova forma di logos dispensatrice di regole da applicare agli altri campi del sapere. La decostruzione opera in architettura per eliminare le costrizioni imposte dalle finalità della metafisica della presenza; per fare ciò è necessaria la messa in discussione della concezione della produzione del senso in favore dell’autonomia di significato dalle istituzioni logocentriche. Ciò non è finalizzato al ritrovamento della purezza architettonica, ma piuttosto alla volontà di rimettere in gioco l’architettura con gli altri ambiti del sapere; la decostruzione in architettura dev’essere produttiva, non negativa.9

5

Intervista a cura di P.Brunette e D.Wills, Deconstruction and the Visual Arts: Arts, Media, Architecture, in J.Derrida, Adesso l’Architettura, cit.,p. 61.

6

Nella prefazione di F.Vitale a J.Derrida, Adesso l’Architettura, cit.

7

“Basterà desemantizzare l’architettura per cominciare a pensare l’architettura stessa.” da J. Derrida, Maintenant l’architecture in J.Derrida, Adesso l’architettura, cit., p.115. 8

“Architecture is a major test for deconstruction precisely because it is a scene of the proper and a scene of stabilities unlike any other –physical, aesthetic, historic, economic, social and political.” da J. Kipnis, Twisting the Separatrix in J.Derrida, P.Eisenman, J.Kipnis, T. Leeser, Chora L Works, Monacelli Press, New York, 1997, p.137. 9

“Il senza fondo di un’architettura decostruttrice e affermativa può dare le vertigini, ma non è il vuoto, non è il resto beante e caotico, lo iato della distruzione […].Non un luogo che esiste realmente. È un viens: è un’affermazione che non è positiva. Non esiste, non è presente, è un’affermazione che fugge lo spazio della certezza[…].L’appello dice vieni però non so dove, è eterogeneo rispetto al sapere, questo nonsapere è la condizione necessaria perché accada qualcosa di nuovo, ogni evento ha luogo dove non c’era luogo.” in Le arti spaziali.Un’intervista con Jacques Derrida in J.Derrida, Adesso l’Architettura, cit., pp. 65-67.

11


Questo processo è descritto dal punto di vista dell’architettura, ma dal punto di vista della decostruzione bisogna analizzare questo fenomeno a ritroso, in altre parole è necessario pensare l’architettura come archi-scrittura (architettura come scrittura dello spazio), termine che introduce la nozione di spazializzazione10 che è condizione di possibilità dell’esperienza (si ha esperienza di qualcosa solo se è inseribile in un ordine di iterabilità nello spazio della coscienza). Il processo decostruttivo è infinito, è da sempre all’opera e non mira a un punto finale, è in divenire. La decostruzione costituisce così un modo per non arroccarsi mai su nessuna tradizione.

10

Derrida sottolinea che l’effetto della spaziatura implica già una testualizzazione. Il filosofo attribuisce alla parola testo un senso più ampio rispetto a quello comune. Il testo derridiano oltrepassa i limiti della discorsività e del libro, il testo implica una catena, un processo, un contesto; le arti spaziali (tra cui l’architettura) sono testo perché c’è sempre un po’ di discorso o comunque perché la spaziatura implica già una testualizzazione. Per una trattazione più ampia dell’argomento e soprattutto in riferimento alla questione introdotta da writing architecture si rimanda a J.Derrida e P.Eisenman, A proposito della scrittura. Jacques Derrida e Peter Eisenman in J.Derrida, Adesso l’architettura, cit., pp. 219-238

12


2. Jacques Derrida e Peter Eisenman, il filosofo e l’architetto. Similitudini e differenze nell’intendere la decostruzione Per evitare di ricadere nell’ordine della metafisica della presenza, la decostruzione deve operare dall’interno dell’architettura per mezzo degli stessi architetti. 11 Eppure Derrida reclama una certa vigilanza nell’applicazione di questo meccanismo di contaminazione, da un lato per tutelare la propria posizione filosofica da assimilazioni con le correnti postmoderne o nichiliste, dall’altro per mettere in guardia gli “attori” architetti nell’impiegare in maniera opportuna gli strumenti della decostruzione, vale a dire stando attenti a non restare invischiati nelle insidie del logocentrismo. Tra il pensiero derridiano e l’impegno di Eisenman nel rifiutare i luoghi canonici del pensiero architettonico occidentale esistono intersezioni profonde, le quali ragionano talvolta per similitudine, talvolta per contrasto. Ciò che traspare dall’analisi dei nodi tematici, soprattutto se contrastanti, è che l’utilizzo di una terminologia affine tra il filosofo e l’architetto non garantisce altrettanto affini attribuzioni di significati. Tale discrepanza è il sintomo di una latente inconciliabilità

nei modi di intendere la

decostruzione in architettura e, più in generale, l’architettura.

2.1 Metodo di lavoro Derrida e Eisenman operano nei rispettivi campi d’indagine con finalità analoghe, in quanto come il filosofo mette in questione la tradizione filosofica occidentale, similmente l’architetto vuole dislocare la tradizione architettonica classica al fine di smascherare l’assoluto12 che essa ha sempre cercato di simulare.

11

“Infatti, il lavoro di chi intende mettere in rilievo gli effetti i decostruzione in un determinato campo non interviene dall’esterno, non applica una regola prodotta altrove rispetto all’architettura che abita, ma ne frequenta i luoghi, ne utilizza le risorse, ne conosce il più recondito anfratto, e perciò può sondarne le incongruenze, fino a scorgere i punti di rottura propri di quella struttura e non di un’altra”. Da F. Vitale, prefazione a J.Derrida, Adesso l’Architettura, cit., p.21. 12

Per assoluto è da intendere una nozione che può essere trasposta in termini filosofici con i concetti di totalità, di unità, di identità intesa come datità naturale pensata in termini solipsistici, negando la relazione con l’altro-da-sé.

13


Nell’intervista raccolta in [sequenza 2 - scena 2]13, Eisenman afferma di ritrovare in sé le medesime intenzioni che legge nell’opera di Derrida, vale a dire il ritorno ad una verità assoluta ed ad un mondo “prima di Dio e della natura”.14 Dal canto suo, Derrida sostiene di essersi avvicinato allo studio del lavoro di Eisenman dopo aver riconosciuto un certo numero di somiglianze tra la propria indagine filosofica ed i discorsi dell’architetto, riconoscendo nell’antianalogia del progetto eisenmaniano che “la decostruzione più effettiva, se una decostruzione esiste, passa attraverso qualcosa di simile a quel tipo di architettura; quell’architettura che per prodursi doveva spiegarsi in modo polemico con dei poteri politici, economici, finanziari, ai quali è molto difficile fare accettare queste cose” 15. Derrida tuttavia ha rimproverato in varie sedi ad Eisenman di mantenere una posizione troppo ambiguamente indulgente nei confronti di alcune letture interpretative religiose. Tra queste la più nota è delineata da Renato Rizzi, che propone un’interpretazione dell’opera di Eisenman dove alla volontà di affrancamento dell’architettura dalla tradizione classica è associato l’intento di “imprimere all’asse portante greco-cristiano una decisa rotazione verso quello giudaico e la leva per questo spostamento si trova elaborando un linguaggio per l’architettura testuale” 16.

2.2 Abbattimento dell’antropocentrismo Per scaling Eisenman intende una pratica progettuale che destituisce la scala umana (troppo umana17) dal suo ruolo di unità di misura centrale dell’universo attraverso l’impiego simultaneo di scale diverse, intendendo quindi l’architettura come misura di se stessa.

13

In J.Derrida, Adesso l’architettura, cit., pp. 183-189

14

È da notare che Eisenman sottolinea di essere d’accordo con la propria lettura dell’opera di Derrida, ma l’interpretazione non è necessariamente coincidente con l’opera di Derrida in sè. A conferma di ciò in altri scritti di Eisenman ricorre l’idea che la lettura di un’opera può essere feconda al di là della corretta interpretazione dell’opera stessa. 15

Da J. Derrida, Maintenant l’architecture in J.Derrida, Adesso l’architettura, cit., pp.122-123.

16

Renato Rizzi, Mistico Nulla. L’opera di Peter Eisenman, Motta Architettura, Milano, 1996.

17

“Eisenman est, en architecture si l’on veut, le créateur le plus anti-wagnérien de notre temps”, da J.Derrida, Pourquoi Peter Eisenman écrit de si bons livres, in J.Derrida, P.Eisenman, J.Kipnis, T. Leeser, Chora L Works, cit., p. 173.

14


Il fine ultimo dello scaling sta nella volontà di liberare l’architettura dal valore di presenza e dal valore di origine. Una questione di tale genere non può lasciare indifferente l’ambito filosofico, sebbene ciò non comporti necessariamente posizioni antiumaniste. Per Derrida “c’è un modo di pensare al di là dell’uomo che resta ancora centrato sull’uomo” 18 , in quanto interrogarsi sulla questione dell’uomo non implica pensare l’uomo come misura di tutte le cose siccome nella questione stessa dell’uomo è presente una dismisura. Fare in modo che l’architettura sia misura di sé stessa costituisce un momento importante per la sua liberazione dalla tradizione classica e di conseguenza dal dominio logocentrico della tradizione del pensiero occidentale.

2.3 Decostruzione in architettura Uno degli argomenti di maggior rilievo e di più forte frizione tra Derrida e Eisenman sta nella concezione della decostruzione in architettura. Da tale tema emerge non solo che l’approccio del filosofo e quello dell’architetto alla questione decostruttiva sono sostanzialmente discordi ed irriducibili, ma anche, ad un livello più profondo, che ciò sottende pensieri differenti sull’ architettura intesa come ambito del sapere. Peter Eisenman si esprime in maniera molto netta in merito alla questione della decostruzione in architettura: “Non parlo mai di decostruzione. Altri usano questa parola perché non sono architetti. È molto difficile parlare di architettura in termini di decostruzione, perché non parliamo di rovine o di frammenti. Il termine è troppo metaforico e troppo letterale per l’architettura. La decostruzione tratta l’architettura come una metafora, e noi trattiamo l’architettura come una realtà”19.

18

Dall’intervista a cura di H.Viale, Il filosofo e gli architetti, in J.Derrida, Adesso l’architettura,cit. p. 195.

19

Dall’intervista a Peter Eisenman tratta da Decostrucción ovvero il numero 270 della rivista Arquitectura

15


Attraverso la nota Lettre à Peter Eisenman Derrida manifesta apertamente il proprio disaccordo riguardo le considerazioni espresse da Eisenman ed in un’intervista rilasciata nel 1990 a P.Brunette e D.Wills, sottolinea la superficialità della posizione che ritiene ossimorica la definizione architettura decostruttiva. Il filosofo sostiene la sua affermazione evidenziando che “[la definizione architettura decostruttiva] si riferisce precisamente a cosa accade in termini di ‘raccolta’, l’essere insieme, l’assemblea, l’adesso [maintenant], il mantenersi” 20. Ciò significa che la nozione di decostruzione non è solo da associare alla disarticolazione o alla distruzione, ma è anche condizione necessaria per la costruzione. Infatti per costruire qualcosa di nuovo bisogna decostruire le fondazioni; l’invenzione parte da premesse esistenti, tuttavia queste non bastano per prevedere la produzione dell’invenzione: inventare significa produrre qualcosa che prima non c’era e non era prevedibile sulla base delle condizioni note21.

2.4 Lo spettro della metafisica della presenza In più occasioni Derrida chiede ad Eisenman di rendere conto dell’uso della locuzione presenza di un’assenza22 come movente teorico del suo lavoro. Il filosofo sospetta che tale tema reintroduca in architettura la questione concernente la metafisica della presenza che la decostruzione cerca di debellare. Anche in questo caso il filosofo e l’architetto, pur usando la stessa terminologia, parlano due lingue diverse e alle sollecitazioni di Derrida contenute nella Lettre à Peter Eisenman, Eisenman risponde in Post/el cards: a reply to Jacques Derrida 23.

20

P.Brunette e D.Wills, Deconstruction and the Visual Arts: Arts, Media, Architecture, Cambridge, cit., p.65

21

Derrida afferma che “Noi fondiamo sulla base della non-fondazione”, da J.Derrida, Adesso l’Architettura, cit. 22

Eisenman si riferisce alla questione della presence of an absence soprattutto nel suo testo Moving Arrows, Eros and other Errors, AA, Londra, 1986. 23

Sia Lettre à Peter Eisenman sia Post/el cards: a reply to Jacques Derrida sono contenute in J.Derrida, P.Eisenman, J.Kipnis, T. Leeser, Chora L Works, cit.

16


L’architetto resta fedele alle affermazioni espresse nell’intervista al mensile Arquitectura e puntualizza la propria posizione dichiarando che “architecture, unlike language, is dominated by presence, by the real existence of the signified”24. Eisenman porta l’esempio del vetro, il quale è presenza in quanto materia e contemporaneamente è assenza in quanto bucatura in un muro solido.25 Eisenman esplicita che la decostruzione della dialettica presenza/assenza in Derrida è inadeguata per l’ambito architettonico il quale sarebbe meglio descritto da un three-term system26 in cui a presenza e assenza si affianca il concetto di presentness27. Con presentness l’architetto introduce una terza condizione, diversa dal segno (significante) e dall’essere (significato), che ha la capacità di continuare l’azione critica verso una realtà che muta perennemente. Essa costituisce la possibilità per una diversa aura28 in architettura, laddove per aura si intende la presenza dell’assenza.29

24

Da Peter Eisenman, Post/el cards: a reply to Jacques Derrida in J.Derrida, P.Eisenman, J.Kipnis, T. Leeser, Chora L Works, cit., p.188. 25

È da notare che in questa accezione presenza e assenza non sono poste in relazione antinomica in quanto l’assenza è qui considerata come l’assenza del muro dovuta alla presenza del vetro. 26

Da Peter Eisenman, Post/el cards: a reply to Jacques Derrida in J.Derrida, P.Eisenman, J.Kipnis, T. Leeser, Chora L Works, cit., p.188. 27

Ibidem.

28

Ibidem.

29

Ciò che intende Eisenman per aura non rimanda all’omonimo concetto presente in W.Benjamin. L’architetto da un lato sottolinea che il tema dell’aura resta non problematizzato nel discorso di Derrida e dall’altro spiega che l’architettura aspira ad un’aura che non ha a che fare né con il testo, né con il bene o il male, né con la verità o Dio.

17


3. Due progetti di Peter Eisenman Quello per l’area di San Giobbe a Cannaregio (1978) e quello per la III Biennale di architettura di Venezia (1985) sono tra i progetti di Peter Eisenman che rivelano una maggiore profondità e complessità sia sul piano della prassi sia sul piano della teoria. Nell’economia dell’opera eisenmaniana questi due momenti costituiscono ciascuno un punto di svolta30 per lo sviluppo del pensiero architettonico dell’autore e pertanto contengono in sé alcuni nodi concettuali che successivamente saranno alla base della redazione del progetto del giardino per il Parc de la Villette di Parigi, svolto in collaborazione con Jacques Derrida.

3.1 Progetto per l’area di San Giobbe, Cannaregio, Venezia, 1978 Il progetto per Cannaregio ha in sé l’idea di un’architettura che inventa31 sia il proprio sito, sia il proprio programma funzionale. Non sarebbe possibile riprodurre l’architettura della Venezia esistente poiché la sua autenticità non può essere replicata, pertanto il progetto deve costruire un’altra realtà. Il paesaggio “metafisico” introdotto dal progetto pone la propria identità in contrasto con il contesto preesistente, eppure è per l’alto grado di atopicità fortemente concettuale che il progetto reagisce con l’intorno facendo del sito un intenso palinsesto di strati. Il palinsesto è costituito da almeno tre strati o layers. In primo luogo Eisenman sovrappone all’area di Cannaregio il reticolo del progetto di Le Corbusier degli anni ’40 per un ospedale a Venezia, e lo indica come una griglia dell’assenza costituita da una serie di vuoti che materialmente si traducono in fori praticati nel terreno.

30

Nel saggio Pluralità dell’unico, contenuto in P.V.Aureli, M.Biraghi, F.Purini, Peter Eisenman. Tutte le opere, Electa, Milano, 2007, lo storico dell’architettura e architetto Franco Purini suddivide in cinque fasi la produzione architettonica di Eisenman compresa tra il 1960 ed il 2005. Purini individua nel progetto per Cannaregio l’ultimo tassello appartenente al primo periodo (caratterizzato da un lavoro serrato sui fondamenti del comporre, inteso come il dispiegarsi di logiche autonome che l’architetto deve sapere innescare per poi limitarsi a registrare gli effetti). Il progetto Romeo e Giulietta viene collocato nel culmine del secondo periodo eisenmaniano (contraddistinto da una riflessione sul tempo visto sia come materiale compositivo puro sia come finalità espressiva della composizione). 31

È da ricordare l’utilizzo che fa Derrida del termine invenzione, vedi §2.3.

18


In secondo luogo la geometria cartesiana della maglia corbuseriana è rotta da una linea diagonale che immette nel progetto urbano la possibilità di una trasformazione dello schema insediativo. In terzo luogo i vuoti della griglia dell’assenza sono visti come metafore della destituzione dell’uomo dal suo compito di misura di tutte le cose. I vuoti sono costituiti da oggetti non abitabili la cui forma allude all’uso abitativo ma le scale a cui sono stati realizzati negano tale allusione. Gli oggetti sono riproduzioni a tre scale diverse del precedente progetto di Eisenman House 11a32: l’oggetto più piccolo è troppo piccolo per poterci entrare, quello intermedio ha le dimensioni di una casa ma contiene l’oggetto più piccolo e l’oggetto più grande è troppo grande per essere abitato. L’architetto sottolinea che gli oggetti hanno perso valore autonomo e acquisiscono significato solo per la relazione che instaurano tra loro, diventano “self-reflexive” 33. Eisenman definisce i tre strati che compongono il palinsesto come tre tipi di vuoto34. Il vuoto è interpretato come la condizione per l’uccisione dell’utilitarismo urbano che, legittimando la costruzione di uno spazio pubblico, lega tale spazio ai poteri (logocentrici). Gli oggetti presenti a varie scale articolano una relazione complessa con il terreno in quanto talvolta risultano semi-sepolti. Il suolo non è quindi più inteso come supporto neutro dell’architettura, ma viene destabilizzato ed integrato nell’insieme dei materiali essenziali dal punto di vista semantico.La relazione tra gli oggetti vuoti ed il terreno risponde, secondo Anthony Vidler 35, al tema hegeliano della morte dell’architettura. Gli oggetti affiorano parzialmente dal terreno, sono semi-sepolti o insepolti e tale condizione suscita la paura di un’assenza che rientra in un più complesso orizzonte psicologico freudiano collegato alla sensazione provocata da “qualcosa che un tempo era heimlich e ora [è] divenuto improvvisamente unheimlich” 36.

32

P.Eisenman, progetto per la House 11°, Palo Alto, California, 1978.

33

Da P.Eisenman, The Representation of Doubt: at the Sign of the Sign, in P.Eisenman, Re:Working Eisenman, Academy Editions, Londra e Ernst&Sohn, Berlino,1993, p.44. 34

Nel primo testo introduttivo al progetto, Eisenman oppone la strategia urbana di Cannaregio all’Instauratio Urbis romana di papa Sisto V. Se il rinnovamento della Roma sistina si articola attraverso la collocazione in punti focali di pieni assoluti (gli obelischi), all’opposto lo schema insediativo di Cannaregio è costituito dall’edificazione di vuoti intransitivi rispetto al contesto. 35

A. Vidler, Il perturbante dell’architettura. Saggi sul disagio nell’età contemporanea, Biblioteca Einaudi, Torino, 2006. Vidler legge alcuni progetti della storia contemporanea secondo la chiave interpretativa del perturbante inteso come “metafora di una condizione moderna fondamentalmente invivibile”. 36

Ivi, p.149.

19



Peter Eisenman, progetto per l’area di San Giobbe, Cannaregio, Venezia, 1978

Peter Eisenman, progetto per l’area di San Giobbe, Cannaregio, Venezia, 1978





 

Peter Eisenman, progetto per la House 11a, Palo Alto, 1978 Nella pagina precedente: Peter Eisenman, progetto per l’area di San Giobbe, Cannaregio, Venezia, 1978


3.2 Moving Arrows, Eros and other Errors: la storia di Romeo e Giulietta trascritta in termini architettonici, Verona, III Biennale di architettura di Venezia, 1985 Il testo Il progetto, presentato alla III Biennale di architettura di Venezia nell’ambito dei concorsi utopici indetti da Aldo Rossi, è rimasto irrealizzato sul piano architettonico, ma si è concretizzato come testo scritto in Moving arrows, Eros and other Errors: an architecture of absence37. Il testo è a sua volta una struttura complessa poiché è costituito dalla sovrapposizione di trenta lastre di plexiglas trasparente in cui, oltre ad una speculazione propriamente teorica principalmente incentrata sul tema della presenza dell’assenza, è presente una descrizione del progetto attraverso disegni alle varie scale. La giustapposizione delle varie scale dei disegni complessifica la lettura del progetto poiché, se da un lato impedisce una lettura chiara dei singoli layers, dall’altro permette nuove interpretazioni attraverso la composizione di nuove immagini, prodotte dalla sovrapposizione di più strati, che disarticolano la concezione tradizionale delle nozioni di presenza e assenza. Derrida ha ripreso in più occasioni il commento al testo Moving arrows a causa delle perplessità nutrite in merito all’articolazione eisenmaniana del discorso sulla presenza dell’assenza. Tale tema, secondo il filosofo, lascerebbe il fianco scoperto alle insidie della metafisica della presenza 38.

L’archi-testo Nell’approccio iniziale al progetto, l’obiettivo di Eisenman constava nella scoperta della storia del sito per poterla raccontare nuovamente attraverso metafore architettoniche che reinventano un contesto per il racconto originario.

37

P.Eisenman, Moving arrows, Eros and other Errors: an architecture of absence , AA, Londra,1986.

38

“L’absence dont on parle dans Moving arrows… ne s’oppose pas, surtout pas dialectiquement, à la présence. Liée à la structure discontinue du ‘scaling’, elle n’est pas vide. Déterminée par la récursivité et par la différence interne-externe de la ‘self-similarity’, elle produit, elle ‘est’ (sans être ni être une origine ou une cause productrice) un texte, mieux et autre chose qu’un ‘bon livre’, plus qu’un livre, plus d’un livre: un texte comme ‘an unending transformation of properties’ .” da J.Derrida, Pourquoi Peter Eisenman écrit de si bons livres, in J.Derrida, P.Eisenman, J.Kipnis, T. Leeser, Chora L Works, cit., p. 178.

26


Ben presto però l’architetto realizza che non esiste un racconto originario in quanto la storia è stata narrata in più versioni39. Romeo e Giulietta sono personaggi immaginari e multipli che vissero luoghi reali. Pertanto Eisenman tratta il sito da un lato come una presenza e dall’altro lato come un palinsesto di memorie e immanenze, vale a dire come un’entità non-statica ma in divenire. Il luogo che ne esce è “palimpsest and quarry”40 e se da un lato le narrazioni conformano il sito, dall’altro anche il sito conforma le narrazioni. Anche in questo progetto, il palinsesto è costituito da una serie di strati rappresentati a scale diverse. Per ciò che concerne il tema anti-antropocentrico eisenmaniano, la definizione di ogni scala implica l’uso di questioni interrelate tra loro quali la discontinuità (riguarda la metafisica della presenza), la reiterazione (riguarda l’origine) e l’autosomiglianza (riguarda la rappresentazione e l’oggetto considerato estetico in opposizione a testuale). A partire dal progetto per Romeo e Giulietta, nell’opera eisenmaniana è messo in luce il tema del tempo come materiale e finalità espressiva della composizione. Nel titolo c’è un riferimento alle frecce in movimento. Sebbene l’immagine di una freccia in movimento sia indistinguibile dall’immagine di una freccia ferma, la freccia in movimento contiene in sé sia il punto di partenza sia il punto d’arrivo, cioè possiede una memoria e un’immanenza che non appaiono in un’immagine e pertanto sono assenze essenziali. Nei disegni stratificati le dimensioni temporali sono presenti contemporaneamente e sono distinguibili grazie all’uso di toni cromatici differenti (agli elementi della memoria è associato il grigio, alle immanenze è associato il bianco, alle condizioni attuali sono associati gli altri colori); in tal modo la stratificazione non è più solo spaziale, ma anche temporale, comportando così la possibilità di nuove letture e nuovi significati. Vidler interpreta l’omissione di elementi significanti dell’architettura tradizionale come una scelta consapevole per fare emergere “qualcosa di opposto”41. Tuttavia Eisenman fa riferimento alle relazioni strutturali identificate nelle narrazioni quali la divisione (la separazione degli amanti, il balcone), l’unione (il matrimonio, la chiesa) e la 39

Tra le molteplici versioni le più importanti sono il Giulietta e Romeo del 1530 scritto da Luigi Da Porto (l’ambientazione è costituita da due castelli vicini ma separati nella città collinare di Montecchio), la versione di Matteo Bandello del 1554 (la scena viene spostata nella città di Verona), il celebre dramma teatrale di William Shakespeare del 1596 (ambientato ancora a Verona). 40

definizione di Eisenman contenuta in M.C.Taylor, Refusing Architecture, in P.Eisenman, Re:Working Eisenman, cit. p.85. 41

A. Vidler, Il perturbante dell’architettura. Saggi sul disagio nell’età contemporanea, cit., p. 143.

27


relazione dialettica tra divisione e unione (la morte, la tomba). Queste relazioni sono legate agli elementi urbani contestuali, cioè il cardo ed il decumano che dividono la città, la griglia romana che unisce la città ed il fiume Adige che crea una condizione dialettica tra le sue due sponde. Eisenman affronta il tema della testualità dell’architettura intesa come capace di presenza, origine, luogo, scala. L’architetto denomina tale forma testuale “testo o spazio interstiziale”42. Il testo interstiziale interferisce con le consuete parole dell’architettura, ponendosi come una seconda lingua, in modo da mettere in discussione l’idea di una sola lettura interpretativa corretta. Eisenman porta come esempio di testo interstiziale e destabilizzante il progetto Romeo e Giulietta siccome questo “pur continuando ad ospitare funzioni, fornire riparo, adattarsi ad un sito, avere un’estetica ed un significato”43 allo stesso tempo parla di “qualcosa d’altro”44, ovvero parla di sé. L’idea di architettura come testo sfida la consolidata idea di architettura come rappresentazione e permette di non pensare più all’architettura come supporto di un significato logocentrico. L’architettura è scala dell’architettura.

42

Da P.Eisenman, Architecture as a Second Language: The Texts of between in Threshold n 4 1988 pp. 71-75 (trad.it.:Architettura come seconda lingua:i testi del between, in P.Ciorra, Peter Eisenman. Opere e progetti, Electa, Milano, 1993, pp.206-210). 43

Ibidem

44

Ibidem

28


Peter Eisenman Moving Arrows, Eros and other Errors: la storia di Romeo e Giulietta trascritta in termini architettonici, Verona, 1985

Peter Eisenman, lastre 18, 19, 20 da Moving Arrows, Eros and other Errors: an architecture of absence, op. cit.

Peter Eisenman, lastre 22, 23, 24 da Moving Arrows, Eros and other Errors: an architecture of absence, op. cit.

Peter Eisenman Moving Arrows, Eros and other Errors: la storia di Romeo e Giulietta trascritta in termini architettonici, Verona, 1985


4. Chora L Works Nel progetto per il Parc de la Villette a Parigi, Bernard Tschumi mira a proporre nuove strategie organizzative per la città, pensando ad un nuovo tipo di parco capace di essere al contempo “a cultural construct and a urban one” 45. Per adempiere tale scopo, Tschumi, dopo avere dato forma al piano generale del parco, pensa di introdurre una serie di giardini di cui affida la progettazione ad altri architetti e paesaggisti affiancati da artisti, scrittori ed intellettuali, in modo da creare scambi fruttiferi tra differenti campi del sapere. “[…] when I first met Derrida, he asked me why architects should be interested in his work, since, he observed, ‘deconstruction is anti-form, anti-hierarchy, anti-structure, the opposite of all that architecture stands for’. ‘Precisely for this reason’, was my reply. I thought that I would introduce Peter Eisenman to Derrida and invite them to work together on one of La Villette’s gardens […] to put together the propose of form (Eisenman) and the component of anti-form (Derrida)”46. Nell’ambito di un dialogo con Christopher Norris, Derrida commenta la propria collaborazione con Eisenman affermando che: “La mia proposta fu di iniziare da un testo che avevo da poco scritto sul Timeo di Platone, perché aveva a che fare con lo spazio, con la decostruzione -per così dire- nell’universo […]. Così diedi questo testo ad Eisenman ed egli, a suo modo, iniziò un progetto che era correlato al mio testo, ma che allo stesso tempo ne era indipendente. Questa fu una vera collaborazione -non “usando” il lavoro dell’altro, non limitandosi meramente a illustrare o selezionare da esso- e perciò c’era una certa discrepanza oppure direi, un dialogo produttivo tra interessi, tra stili e anche tra persone”47.

45

Da B.Tschumi, Introduction, in J.Derrida, P.Eisenman, J.Kipnis, T. Leeser, Chora L Works,cit., p.125

46

Ibidem.

47

Da Discussione con Christopher Norris, in J.Derrida, Adesso l’architettura, cit., p. 131.

30


4.1 Il testo Il progetto di Derrida e Eisenman non è mai stato realizzato come opera architettonica, ma ha trovato forma in un testo scritto, Chora L Works48. Il testo raccoglie numerosi disegni che si riferiscono direttamente al progetto per il giardino per il Parc de la Villette o alla sua premessa, il progetto di Eisenman per Cannaregio, alcuni saggi, qualche lettera e molte trascrizioni di dialoghi49. Come già nel testo eisenmaniano Moving Arrows, Eros and other Errors, anche in questo caso il supporto tecnico del libro influenza il contenuto 50 poiché il volume è attraversato nel suo spessore da fori (o vuoti) che inevitabilmente destabilizzano il valore del testo. Nella prima metà del testo i buchi sono praticati secondo la maglia del progetto per il giardino, mentre nella seconda parte sono disposti secondo la griglia del progetto di Cannaregio. Un aspetto rilevante del testo sta nel titolo. Derrida descrive la formulazione del titolo come un processo complesso poiché il compito del titolo non è solo riassuntivo ma è anche nominativo, soprattutto nel caso in cui ciò che si deve informare non è un giardino, ma un luogo nuovo a cui bisogna cercare di dare un nome (anche se potrebbe risultare innominabile). Come in altri casi riguardanti sia l’opera di Derrida sia l’opera di Eisenman, si tratta di un gioco di parole. Tuttavia, a differenza degli altri casi, in Chora L Works gli strati dei significati sono innumerevoli. È immediato il riferimento al concetto di chora platonica. È meno scontato il passaggio da chora a choral, termine che si riferisce all’area semantica della musica (corale) e della coreografia. La parola, il canto e la musica sono composizioni ritmiche, fare musica è affine a dare luogo ad un ritmo. Choral work si riferisce anche alla firma plurale del lavoro di Derrida e Eisenman. La spaziatura presente tra la parola chora e la lettera L non solo dà risalto al termine platonico (elemento teorico), ma anche rileva l’importanza del morfema a L nella ricerca formale dell’ opera eisenmaniana.

48

J.Derrida, P.Eisenman, J.Kipnis, T. Leeser, Chora L Works, cit.

49

In più occasioni Derrida dichiara di preferire la forma del dialogo a quella del saggio in modo da allontanare più facilmente i rischi del logocentrismo. 50

Derrida fa proprie le riflessioni di Saussure sul rapporto tra significante e significato. Questo testo è una riconferma del fatto che il significante non è un supporto neutro per il significato.

31


4.2 Chora Chora platonica Se nella Repubblica Platone problematizza il tema della kallipolis, nel Timeo il discorso politico è considerato in un’accezione più ampia, fino ad arrivare alla questione cosmogonica. Platone compie una distinzione tra mondo ideale (invisibile, immutabile) e mondo sensibile (visibile, in divenire), leggendo quest’ultimo come copia del primo. Il filosofo però introduce un triton genos che chiama chora51. Nel mito platonico il Demiurgo, per desiderio di perfezione, plasma chora secondo il modello del mondo delle idee, ricavandone il mondo sensibile52. Chora è il grado minimo dell’essere, è materia indifferenziata in movimento caotico; non appartiene né all’ordine delle idee né all’ordine del sensibile eppure partecipa di entrambi. È a priori rispetto al mondo sensibile ma non rispetto al mondo delle idee. Chora introduce il concetto di spazialità, eppure è un luogo atopico. Platone per descrivere chora utilizza più immagini53 tra cui madre, nutrice, ricettacolo (dechomenon), ricettacolo totale (pandeches 54), luogo generale. Nel pensiero filosofico occidentale la cosmogonia platonica è stata assimilata attraverso l’interpretazione di Plotino. Tale interpretazione elimina il terzo genere di chora riducendo ad una dualità55 composta da mondo delle idee e mondo del sensibile, più conforme alla tradizione giudaicocristiana56. Interpretazione derridiana della Chora platonica

51

Letteralmente chora significa regione, luogo in cui si abita, paese.

52

Platone chiama schemata le figure staccate ed impresse in chora.

53

Inevitabilmente appartenenti al mondo sensibile in quanto mondo visibile.

54

Derrida in chora come pandeches legge la possibilità di un dono finalmente slegato dal debito.

55

Trattandosi di una dualità gerarchizzata si può parlare di un’unità.

56

Per questo il pensiero occidentale valuta la coppia logos/mythos senza avere la possibilità di considerare una terza via.

32


Derrida rileva che, nella cosmogonia platonica, chora apre tra il mondo delle idee ed il mondo sensibile un abisso (chasma) che sconvolge le logiche gerarchiche del logocentrismo. Sebbene nella parte finale del Timeo l’abisso viene richiuso da una conclusione ontologico-encliclopedica, resta il dubbio della possibilità di esistenza di una terza via. Sono soprattutto due i temi messi a fuoco da Derrida nel Timeo, uno riguarda l’uso della retorica per descrivere chora, l’altro è incentrato sull’alternativa logos/mythos. Quando Platone parla di chora in termini di madre o di nutrice, non si tratta di semplici figure retoriche, sebbene generalmente gli interpreti del Timeo le considerino tali. Descrivere chora attraverso l’uso di figure retoriche è un procedimento che ha un vizio di fondo in quanto la retorica è costruita sull’alternanza tra intellegibile e sensibile, sistema che esclude in partenza chora in quanto terzo genere. Molti interpreti del Timeo hanno aggirato il problema definendole metafore didattiche, ma questo nodo è ritenuto troppo cruciale da Derrida per essere risolto in maniera approssimativa. 57 Scrive Derrida: “Giammai pretenderemo proporre la parola giusta per chora, né chiamare infine essa stessa al di là di tutti i giri e le circonlocuzioni della retorica, né infine di abbordare essa stessa per ciò che sarà stata. […] Il suo nome non è un nome giusto.[…] La tropica e l’anacronismo sono inevitabili, ne fa altra cosa che accidenti, debolezze o momenti provvisori. […] In che modo, non essendoci essenza, la chora si terrebbe al di là del suo nome? La chora è anacronica, ‘è’ l’anacronia nell’essere o meglio l’anacronia dell’essere. Essa anacronizza l’essere.”58 57

“Il ricorso meta-linguistico o meta-interpretativo a questi valori di metafora, di comparazione o d’immagine non è mai interrogato di per sé. Non è posta alcuna questione sulla retorica interpretativa, in particolare riguardo a ciò che essa prende a prestito necessariamente da una certa tradizione platonica (la metafora è una svolta sensibile per accedere ad un senso intellegibile), ciò che la renderebbe poco adatta a fornire un metalinguaggio per l’interpretazione di Platone ed in particolare di un testo così insolito come questo passaggio del Timeo su chora. […] Ben inteso, non si tratta qui di criticare l’uso delle parole metafora, comparazione o immagine. Sovente è inevitabile […]. Ma c’è un punto, sembra, dove la pertinenza di questo codice retorico incontra un limite e deve essere interrogato in quanto tale, al fine di divenire un tema e cessare di essere soltanto operativo. è precisamente il punto dove i concetti di questa retorica sembrano costituiti a partire da opposizioni “platoniche” (intellegibile/sensibile, essere come eidos/ immagine, etc.) alle quali si sottrae precisamente chora. L’apparente molteplicità delle metafore (o del resto dei mitemi in generale) significa in tali luoghi non che il senso proprio non possa divenire intelligibile se non attraverso queste svolte, ma che l’opposizione tra il proprio ed il figurato, senza perdere ogni valore, incontra qui un limite.” da J.Derrida, Il Segreto del nome. Tre saggi, Jaka Book, Milano, 1997, p. 48. 58

Ivi, p. 51.

33


Derrida si chiede se è possibile capire chora rimanendo nell’alternativa mythos/logos59 oppure se sia necessario trovare un triton genos del discorso, applicando una logica metonimica che permette di passare dai generi dell’essere ai generi del discorso. Nel Fedro platonico si distingue tra il logos filosofico, dotato di un padre che risponde per lui e di lui, ed il detto mitico, che è un discorso orfano o bastardo. Derrida osserva che chora in quanto madre o nutrice appartiene al terzo genere e pertanto resta esclusa dallo schema paradigmatico padre/figlio. Il discorso su chora è quindi un ragionamento senza padre legittimo (logismoi ini nothoi) ed è necessario tornare a un’altra origine, posta prima dell’alternanza logos/mythos, per potere capire chora. Chora nella decostruzione Il concetto di chora corrobora la decostruzione poiché indica la possibilità di un terzo genere che sfugge sia alla logica del logos sia alle verità rivelatrici. Chora mette in crisi la logica binaria logos/mythos perché non può essere pensata all’interno di tale sistema. È un’ “origine differente”60 o “la differenza come origine”61. Nell’ottica della decostruzione dell’architettura chora rinvia alla riformulazione della logica con cui si considerano i luoghi.

4.3 Progetto per il giardino presso il Parc de la Villette, Parigi, 1987 Tschumi pone un’unica condizione sul giardino che affida alla progettazione di Eisenman e Derrida. Non deve essere un giardino concepito nel senso tradizionale del termine e

59

È interessante l’osservazione di Derrida in merito al doppio motivo che sembra ordinare le proposizioni che riguardano il mito nel Timeo e che costituirebbe il filosofema del mitema. Da un lato il mito libera dal gioco ed in quanto tale non è da prendere seriamente; dall’altro lato quando non si può mirare ad un logos stabile ci si limita ad approssimazioni, le quali sono possibili solo mediante l’uso del mito. 60

Da M. Vegetti, Filosofie della metropoli. Spazio, potere, architettura nel pensiero del Novecento, Carocci, Roma, 2009, p.265. 61

Ibidem.

34


pertanto non deve prevedere vegetazione ma solo materia liquida in opposizione a materia solida, vale a dire acqua in opposizione alla pietra. 62 Questo presupposto è conforme alla volontà di Tschumi, Derrida e Eisenman di mantenere disgiunte forma e funzione in architettura, poiché la funzione è esterna alla prassi architettonica. Come già nel progetto per l’area di San Giobbe e in Romeo e Giulietta, anche in questo caso è posto in rilievo il tema della stratificazione, sia spaziale sia temporale. La sovrapposizione di più strati a scale diverse implica la mancanza di una sola origine e di una sola centralità. Il sito diventa un palinsesto in cui gli strati non sono regolati da un ordine gerarchico. Tra i layers riconoscibili c’è il sito della Villette (limite tra la ville e la banlieue) con i vecchi abbatoirs demoliti, c’è il progetto di Cannaregio con la griglia corbuseriana trasformata in una griglia di vuoti, ci sono le folies di Tschumi, c’è l’interpretazione derridiana di chora, c’è l’idea di città, di parco urbano, di piazza, di casa. La molteplicità di strati spaziali ricorda una molteplicità di strati di memorie appartenenti a tempi diversi. Infatti il progetto è anche uno studio sul tempo e la rappresentazione temporale in architettura. Il sito è inevitabilmente calato in un tempo presente, tuttavia si fa contenitore di allusioni al passato ed al futuro attraverso la presenza di oggetti63 che in certi casi sono semisepolti nel passato e in altri casi sono proiettati verso il futuro. Il progetto cerca di sostituire il tempo reale, il luogo reale e la scala reale con loro trasposizioni analogiche attraverso spostamenti metaforici e metonimici. La pratica eisenmaniana di scaling applicata a questo progetto si presta a dei parallelismi con il lavoro freudiano sui sogni64. Infatti si attuano processi di spostamento di scala e

62

Eisenman registra con stupore la reazione di Derrida a tale condizione imposta: “He wants architecture to stand still and be what he assumes it appropriately should be in order that phisolophy can be free to mode and specultate. In other words, he wants architecture to be real, to be grounded, to be solid, to not move around –that is what Jacques wants. And so when I made the first crack at the project we were doing together […] he said things to me that filled me with horror: ‘How can it be a garden without plants?’ ‘Where are the trees?’ ‘Where are the benches for people to sit on?’ This is what philosophers want, they want to know where the benches are. The minute architecture begins to move away from its traditional role as the symbolizations of customary use, that is when philosophy starts to shake. [Such movement] starts to question its philosophical underpinnins and starts to move it around and suggests that what is under philosophy may be architecture and something that isn’t so nice. In other words, perhaps it’s not so solid, not so firm, not so well constructed” da J.Kipnis, Twisting the Separatrix, in J.Derrida, P.Eisenman, J.Kipnis, T. Leeser, Chora L Works, cit., p.139. 63

Tali oggetti a scale diverse rimandano agli oggetti di Cannaregio.

64

Con riferimento ai meccanismi di spostamento e condensazione.

35


condensazione per sovrapposizione e i materiali condensati o sovrapposti a loro volta generano analogie usate a scale nuovamente spostate. Eisenman dichiara65 che ad ogni spostamento di scala vengono prodotti riverberi spaziali e temporali che danno luogo ad immagini non indentiche ma simili tra loro, come riflessi di uno specchio imperfetto. La strategia dello scaling è sviluppata profondamente in questo progetto per cercare una figurazione per l’idea di chora. Una tale figurazione è impossibile perché chora non può essere rappresentata. Pertanto il compito dell’architettura diventa rappresentare l’impossibilità di rappresentazione. Derrida non solo si occupa di questioni teoriche nel progetto, ma anche offre a Eisenman uno spunto rilevante per la progettazione. Il filosofo registra nel Timeo un’allusione figurativa riferita a chora in cui si parla di un setaccio che filtra le semenze come chora ‘filtra’ ciò che si imprime in lei pur restando imperturbata. Pertanto il filosofo propone la materializzazione di un setaccio (o una griglia o uno strumento dotato di corde) semisepolto nel terreno in direzione obliqua. Per Derrida a rappresentazione di chora nel progetto deve essere vicina alla scultura perché è una sorta di vuoto radicale, sebbene non sia un vuoto. Eisenman coglie lo spunto, sostituisce il setaccio con una lira66 e modifica le dimensioni dell’oggetto che dalla scala della scultura passa alla scala architettonica trasformandosi in un grande piano inclinato. Come Derrida fornisce evocazioni per il progetto materiale, analogamente Eisenman riflette sul concetto di chora. 67 Eisenman dichiara che se per un filosofo chora è una spaziatura, per un architetto (che, a differenza dei filosofi, ha bisogno del concetto di sfondo) chora è come la sabbia sulla spiaggia. Vale a dire che non si tratta di un oggetto ma della registrazione delle orme o dei movimenti delle onde. Ciò permette all’architetto distinguere tra la nozione di traccia e la

65

Il riferimento è al testo di Eisenman Separate Tricks in J.Derrida, P.Eisenman, J.Kipnis, T. Leeser, Chora L Works, cit. 66

Non è casuale l’assonanza tra lira (lyre) e strato (layer).

67

“What is interesting for me as I read the ‘chora’ text is that I feel that I was actually making chora before I new about it” da P.Eisenman, Refusing architecture, in Re-working Eisenman, cit., p.86.

36


nozione di impronta: quando qualcosa è impresso in chora, su chora resta un’impronta mentre su ciò che è stato impresso resta una traccia.68 Le riflessioni di Eisenman si riflettono operativamente dentro il progetto per vari ordini di ragioni. In primo luogo in questo progetto per la prima volta utilizza il concetto di traccia (e impronta) anche a livello urbano e non solo a livello architettonico; in secondo luogo è il primo progetto in cui distingue tra mera sovrapposizione, traccia e impronta; in terzo luogo è il primo caso dell’opera eisenmaniana in cui la terza dimensione non è la semplice estrusione di quanto accade su un piano cartesiano ma viene mappata grazie all’introduzione dell’idea di chora e attraverso l’uso della griglia.

68

Eisenman chiarisce la distinzione tra “track” e “imprint” nel suo scritto Separate Tricks in J.Derrida, P.Eisenman, J.Kipnis, T. Leeser, Chora L Works, cit., p. 134-135.

37


 

Peter Eisenman, Progetto per il giardino presso il Parc de la Villette, Parigi, 1987

Peter Eisenman, Progetto per il giardino presso il Parc de la Villette, Parigi, 1987


Conclusione Come espresso nella premessa al testo, dal confronto tra il pensiero di Derrida e l’opera di Eisenman non deriva una risposta ma piuttosto l’indicazione di un metodo di indagine per il progetto. Tale metodo è costituito da più prassi che mettono in guardia il soggetto dal ricadere nelle insidie della tradizione logocentrica. Conclusione

Peter Eisenman, Progetto per il giardino presso il Parc de la Villette, Parigi, 1987


Conclusione Come espresso nella premessa al testo, dal confronto tra il pensiero di Derrida e l’opera di Eisenman non deriva una risposta ma piuttosto l’indicazione di un metodo di indagine per il progetto. Tale metodo è costituito da più prassi che mettono in guardia il soggetto dal ricadere nelle insidie della tradizione logocentrica. Tra le prassi è importante ricordare che in architettura deve avvenire la liberazione della forma dalla funzione (in quanto la funzione non appartiene all’architettura), che l’architettura deve essere misura di se stessa, che il suolo su cui poggia il progetto non è un supporto neutro ma interagisce con il costruito (più in generale, il significante non è mai un supporto neutro per il significato). Le prassi specifiche sono importanti, sono l’applicazione del metodo di indagine e pertanto costituiscono il momento analitico del progetto. Tuttavia l’aspetto più importante è costituito dal risultato finale dell’applicazione del metodo. Tale risultato sta nel maturare la concezione che il progetto deve avvenire nell’architettura e per l’architettura, nel luogo e per il luogo. La forza della decostruzione sta nell’essere “un modo per non fissarsi ad alcuna tradizione”69. Applicare indifferenziatamente lo stesso schema di ragionamento a situazioni diverse comporta rischi logocentrici poiché il progetto si forma a prescindere dal contesto di inserimento. E pertanto il progetto e le metodologie di attuazione sono da ricalibrare e ripensare ogni volta.

69

da H.Viale, Il filosofo e gli architetti, in J.Derrida, Adesso l’architettura, cit., p.198.

40


Bibliografia

AURELI P.V., BIRAGHI M., PURINI F., EISENMAN P. (2007) Peter Eisenman. Tutte le opere; Milano: Electa

CIORRA P. (1993) Peter Eisenman : opere e progetti; Milano: Electa DERRIDA J. (1997) Il segreto del nome.Tre saggi; Milano: Jaka Book DERRIDA J., EISENMAN P., KIPNIS J., LEESER T. (1997) Chora L Works; New York: Monacelli Press DERRIDA J. (2008) Adesso l’architettura; Milano: Libri Scheiwiller EISENMAN P. (1986) Moving arrows, Eros and other Errors: an architecture of absence ; Londra: AA EISENMAN P. (1993) Re:Working Eisenman, Londra: Academy Editions e Berlino: Ernst&Sohn RIZZI R. (1996) Mistico Nulla. L’opera di Peter Eisenman; Milano: Motta Architettura VEGETTI M. (2009) Filosofie della metropoli. Spazio, potere, architettura nel pensiero del Novecento; Roma: Carocci VIDLER A. (2006) Il perturbante dell’architettura. Saggi sul disagio nell’età contemporanea, Torino: Biblioteca Einaudi

41



Jacques Derrida e Bernard Tschumi Anna Benedetta Rossi



1. La decostruzione del logocentrismo De-centrato, dis-integrato, dis-locato, dis-giunto, de-costruito, s-mantellato, dis-continuo, de-regolamentato…de-, dis-, s-. Sono questi i prefissi di oggi. Non post-, neo- o pre-. 1 L’attuale situazione culturale vede il disgregarsi delle relazioni forma e funzione, programma e contesto, struttura e significato, alla cui base è sottesa la fiducia nel soggetto unitario, centrale e autogenerativo, consolidatesi con la cultura dell’umanesimo. Si assiste al decentramento del soggetto (periodizzando al cosiddetto post- umanesimo) e al conseguente estraniamento dalle strutture consolidate resistenti che sono alla base della cultura e della filosofia occidentale. Segno tangibile di questa trasformazione in atto sono le città in cui viviamo e l’architettura, per eccellenza arte della misura e delle proporzioni che vede snaturato il suo antico ruolo con l’avvento della telecomunicazione delle immagini e con la velocità. La città è deregolamentata (Paul Virilio) e ciò è rafforzato dal fatto che gran parte di essa non appartiene più al regno di ciò che è visibile. Perché gli architetti dovrebbero ancora parlare di monumenti? Attualmente i monumenti sono invisibili. Sono sproporzionati: talmente grandi (della dimensione del mondo) da non poter essere visti, oppure talmente piccoli (della dimensione di un microchip) da risultare egualmente impossibili da vedere. 2 La città non ha più limiti, le mura di accesso che delineavano la vecchia città Europea hanno perso il loro ruolo, il concetto di città non identifica più un’entità chiusa e finita; abitiamo in uno spazio definito da fratture, privo dei simboli che ne hanno caratterizzato la storia: non ci sono più monumenti, linee direttrici ma regna la parcellizzazione, la sovrapposizione casuale di immagini che non instaurano rapporti di reciproca connessione se non per il fatto di essere entrate in collisione. L’architettura, seppur presenza fisica, non rivendica più la sua solidità non è portatrice di un significato stabile in quanto continuamente reinterpretata e reinterpretabile; la presunta relazione causa- effetto, forma- funzione viene messa al bando nel momento in cui la

1

Bernard Tschumi, Architettura e disgiunzione, Pendragon, Bologna, 2005, p.177

2

Ibidem, p.170

45


funzione diventa effimera. La disgiunzione tra significato e significante sta alla base di questo processo che ha le sue radici, in architettura, alla fine del XIX secolo con le Esposizioni Mondiali di Londra e di Parigi che vedono protagoniste leggere e trasparenti strutture metalliche, di produzione industriale. Il decentramento del soggetto, dell’uomo come misura di tutte le cose, principio chiave dell’umanesimo porta alla ricerca di una nuova misura: le griglie e i sistemi modulari sostituiscono le proporzioni umane. Le teorie scientifiche del XX secolo sgretolano i capisaldi teorici che hanno caratterizzato la cultura occidentale investendo tutti gli ambiti, non solo quello della fisica, causando la crisi del determinismo, ovvero delle relazioni causa- effetto e della continuità, sostenuta dalla definizione di energia e materia come strutture discontinue di punti. Con l’avvento del surrealismo e dell’astrattismo si assiste alla deformazione del simbolo e alla disgiunzione tra soggetto e oggetto, nonostante il tentativo di “ritorno al significato” dei postmodernisti negli anni ’70, la cultura odierna è caratterizzata dalla mancanza di relazione causa- effetto, tra significato e significante, tra forma e funzione, tra parola e concetto cui si intende rimandare. Il significante non deve dar conto della propria esistenza in virtù della presenza di qualche ipotetica significazione. Il significato, ovvero il concetto puro, stabile, l’idea stessa, non è mai stabilito, è incerto per la pluralità di impressioni e di interpretazioni che esso racchiude. L’architettura diventa questione di apparenze, di superfici prive di struttura grazie all’avvento di nuovi metodi di costruzione che permettono la separazione tra la pelle e la struttura portante. L’architettura si svuota del suo significato, diventa superficie, decorazione applicata, “edificio insegna” come scrive Venturi in Learning from Las Vegas. Le cose continuano a funzionare quando la loro idea è scomparsa già da molto. Esse continuano a funzionare con una totale indifferenza nei confronti del proprio contenuto, paradossalmente, in questa maniera, finiscono per funzionare meglio. 3 Il pensiero che intacca l’ordine reale delle resistenze, che contesta le strutture consolidate che definiscono le architetture del logocentrismo, ovvero il primato della ragione sull’irrazionale, caratteristica intrinseca della metafisica occidentale, prende il nome di decostruzione. Non sono io che decostruisco; è l’esperienza di un mondo, di una cultura, di una tradizione filosofica cui avviene qualcosa che io chiamo decostruzione: qualcosa si decostruisce, non 3

Jean Baudrillard, La trasparenza del male. Saggio sui fenomeni estremi, SugarCo, Milano, 1991

46


funziona, qualcosa si muove, si sta dislocando, disgiungendo o disaggiustando e io comincio a prenderne atto; si sta decostruendo e bisogna risponderne. 4 Il filosofo franco- algerino, Jacques Derrida, interroga la tradizione filosofica occidentale costituitasi e impostasi come “metafisica della presenza”, secondo la definizione di Hiddegger. Derrida introduce il termine différance che focalizza l’attenzione sul carattere dinamico della differenza quale irriducibile condizione di possibilità della presenza. Il termine différance nasce dalla sovrapposizione di due parole; distinguere e differire; è una nozione che intende perforare, tagliare, far violenza a tutte le possibili catene secolari intaccando la metafisica della presenza. L’identità si determina in relazione ad altro, nel differire da sé, non è mai una presenza stabile, autonoma, autocostituita. La decostruzione permette di rilevare un’elaborazione che tenga conto della relazione all’altro quale condizione di ciò che è presente e che turba, sollecita, destabilizza il campo concettuale costituito. La différance, quale condizione di possibilità, non può essere semplicemente annullata e per questo non smette di produrre effetti perturbanti. Intaccare la metafisica della presenza significa destabilizzare l’ordine del discorso che innerva le istituzioni che governano la nostra vita. La decostruzione è in atto e ciò che si decostruisce è la struttura dello chez-soi, l’esser presso di sé, la casa, la città d’appartenenza, la nazione di cui siamo cittadini. È l’intera articolazione della cittadinanza e dell’appartenenza ad essere intaccata dal processo decostruttivo. Tale processo non è riducibile a un pensiero filosofico, a un nuovo principio di ragione o metodo o programma filosofico ma è un evento, è in atto, è in continuo divenire, non è possibile stabilirne un inizio e una fine. Decostruzione, inoltre, non significa distruzione. È uno smontaggio metodico e analitico, propone una rottura con la nozione di sistema ma non con tutte le forme di tenere insieme, suggerisce la ricerca di nuove configurazioni non sistematiche. La decostruzione non è semplicemente negativa o semplicemente critica. È affermativa… affermazione qui significa semplicemente…il desiderio della decostruzione non è nichilista. Nel senso nietzschiano del termine, è il desiderio che il meglio ritorni, in un modo selettivo. Quello che Nietzsche chiamava affermazione è il desiderio che il meglio ritorni

4

Jacques Derrida, Ferraris Maurizio, Il gusto del segreto, Laterza, Roma, 1997

47


eternamente; implica la selezione in un mondo in cui ci sono solo differenze…Questa è affermazione…in questo senso, la decostruzione è affermativa. 5

5

Jacques Derrida, Adesso l’architettura. Frammenti di una conversazione con Jacques Derrida, Libri

Scheiwiller, Milano, 2008, p.108

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22.Casuale Casualeeenecessario: necessario:l’incontro l’incontrotra tradecostruzione decostruzioneeearchitettura architettura Ma Macome comepotrebbe potrebbemai maiun unarchitetto architettointeressarsi interessarsialla alladecostruzione?In decostruzione?Infin findei deiconti, conti,lala decostruzione decostruzione èè contro contro lala forma, forma, contro contro lala gerarchia, gerarchia, contro contro lala struttura, struttura, cioè cioè l’esatto l’esatto oppostodidiciò ciòche cheèèfondamentale fondamentaleper perl’architettura? l’architettura? opposto Esattamenteper perquesta questaragione ragione6 6 Esattamente (Bernard (Bernard Tschumi, Tschumi, Architettura Architettura ee disgiunzione, disgiunzione, dialogo dialogo tra tra Jacques Jacques Derrida Derrida ee Bernard Bernard Tschumi,Pendragon, Pendragon,Bologna, Bologna,2005, 2005,p.p.197) 197) Tschumi, Nel1985 1985Bernard BernardTschumi Tschumichiede chiedeaaJacques JacquesDerrida DerridaeeaaPeter PeterEisenman Eisenmandidicollaborare collaborare Nel peril ilprogetto progettodidiun ungiardino giardinodel delParc Parcde deLa LaVillette, Villette,parco parcoparigino pariginoprogettato progettatoda daTschumi Tschumi per nel 1982. 1982. IlIl progetto progetto didi Derrida Derrida ee Eisenman Eisenman non non sarà sarà realizzato realizzato ma ma dall’esperienza dall’esperienza inin nel campoarchitettonico architettonicodel delfilosofo filosofofrancofranco-algerino algerinoJacques JacquesDerrida Derridanascerà nasceràil iltesto testoPoint Pointde de campo FolieMaintenant Maintenantl’architecture, l’architecture,dedicato dedicatoall’opera all’operadella dellaVillette VillettedidiTschumi. Tschumi. Folie Maintenant, questa questa parola parola francese francese ee l’intero l’intero titolo titolo non non sono sono traducibili traducibili per per lala fitta fitta Maintenant, disseminazione del del significante significante che che esso esso comporta. comporta. Point, Point, punto punto oo point point de-, de-, nessun; nessun; disseminazione maintenant,ora, ora,adesso; adesso;maintenir, maintenir,mantenere, mantenere,tenere tenereininvita; vita;se semaintenant, maintenant,andare andareavanti, avanti, maintenant, progredire,lalamaintenance, maintenance,il ilmantenimento mantenimentoininforza. forza. progredire, Maintenant,non nonvuole vuoleessere esseresegnale segnalemodernista, modernista,né néindividuare individuareuna unapost-modernità; post-modernità;non non Maintenant, esisteperiodizzazione periodizzazionestoricista, storicista,una unasuccessione successionelineare, lineare,un unprima primaeeun undopo; dopo;limiterebbe limiterebbei i esiste rischidella dellatrasformazione trasformazioneeedella dellapermutazione. permutazione.L’architettura L’architetturavavasciolta scioltada datutte tuttelelefinalità finalità rischi allequali qualièèstata statasubordinata subordinatanei neisecoli secoliche chene nehanno hannoridotto ridottol’orizzonte l’orizzontedidipossibilità. possibilità.Ciò Ciò alle cheav-viene, av-viene,sta staper perav-venire, av-venire,promette promettedidiav-venire av-venireall’architettura all’architetturanon nonèèinscrivibile inscrivibilenel nel che corso ordinato ordinato della della storia, storia, instaura instaura un un nuovo nuovo rapporto rapporto con con lala storia, storia, senza senza rimanerne rimanerne corso estraneo. estraneo. sequesto questociciav-viene av-vienebisogna bisognaprepararsi prepararsiaaricevere riceverequeste questedue dueparole. parole.Da Dauna unaparte, parte,non non EEse avvieneaaun unnoi noicostituito, costituito,aauna unasoggettività soggettivitàumana umanadidicui cuisia siafissata fissatal’essenza l’essenzaeeche chedopo dopo avviene vedrebbeaffetta affettadalla dallastoria storiadidiquesta questacosa cosachiamata chiamataarchitettura. architettura.Non Nonappariamo appariamoaanoi noi sisivedrebbe stessi se se non non aa partire partire da da un’esperienza un’esperienza della della spaziatura spaziatura che che porta porta già già un un marchio marchio stessi d’architettura.Ciò Ciòche cheav-viene av-vieneattraverso attraversol’architettura l’architetturacostituisce costituisceeeistruisce istruiscequesto questonoi. noi.EE d’architettura.

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Bernard BernardTschumi, Tschumi,Architettura Architetturaeedisgiunzione, disgiunzione,dialogo dialogotra traJacques JacquesDerrida DerridaeeBernard BernardTschumi, Tschumi,cit., cit.,p.p.197 197

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quest’ultimo già si trova messo in gioco dall’architettura prima di esserne il soggetto: signore e possessore. 7 Non vi è decostruzione efficace se non è in grado di farsi opera, di materializzarsi. E come avviene questo farsi opera? Attraverso l’architettura. L’architettura, secondo Derrida, è la manifestazione simbolica più evidente e resistente della metafisica della presenza. Il rapporto tra filosofia (architettonica) e architettura è di coabitazione, la decostruzione, all’opera in filosofia, non può non intaccare anche l’architettura, anzi il processo decostruttivo è già da sempre in atto in architettura come lo è in ambito filosofico. L’incontro tra processo decostruttivo e architettura è necessario ma, nello stesso tempo, casuale, inatteso e imprevedibile. Derrida insiste sulla sorpresa destata da tale incontro per evitare di ridurlo alla semplice applicazione di un programma già dato e gerarchicamente organizzato. La decostruzione è sottratta a qualsiasi tentazione di farne un nuovo principio di ragione, un nuovo metodo o programma filosofico il che eluderebbe la possibilità che ognuno di questi incontri possa produrre effetti significativi su entrambi i termini della relazione che ogni volta l’evento istituisce. L’evento è tale se determina una configurazione assolutamente nuova e se rende necessaria la rideterminazione di quelle premesse che l’evento stesso ha reso in qualche modo obsolete. Nell’orizzonte descritto in cui gli spazi un tempo dotati di significato ne rimangono vuoti, in cui le regole categoriche cui era soggetta l’attività architettonica sembrano non avere più valore emerge la necessità di stabilire che cosa tiene insieme l’architettura oggi, quoi maintenant l’architecture? L’architettura è rappresentativa in quanto presente; è questo il modello dominante con il quale si è verificata la rottura, o meglio che si sta decostruendo. Il concetto di architettura è un’eredità che ci comprende prima ancora che noi si tenti di pensarlo; il modello che il processo di decostruzione attacca è fissato nella nostra cultura e si fonda su un postulato imprescindibile: l’architettura deve avere un senso, deve presentarlo e pertanto significare. Jacques Derrida, nel testo Point de folie- maintenant l’architecture individua quattro invarianti che costituiscono la mappa di un sistema che le rende inseparabili e che indirizza tutta la teoria e la critica dell’architettura occidentale. L’architettura deve essere abitabile, abitata; è destinata alla presenza. L’architettura è portatrice di memorie, conserva le nostalgia della storia religiosa o politica, ne è custode per destinazione. 7

Jacques Derrida, Point de Folie maintenant l’architecture, Psyché. Invenzioni dell’altro, vol.2, Jaka Book,

Milano, 2009, p.108

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L’architettura è servizio al servizio, sottoscrive tutti i regimi della finalità, etico- politica, servizio religioso, finalizzazione utilitaria o funzionale. L’ordine dell’architettura dipende dalle belle arti; regnano il valore di bellezza, di armonia, di totalità. L’architettura è intesa come sintesi armoniosa di Venustas, bellezza; Utilitas, funzione; Firmitas, solidità. Si assiste alla negazione dell’architettura stessa intesa secondo i canoni tradizionali, alla rottura con le regole che ne hanno caratterizzato il fondamento. Tale rottura è un momento di decostruzione, fuori dal tempo, non periodizzabile. La nuova architettura è riappropriazione dell’architettura stessa nella purezza della sua essenza interna; abbiamo finalmente spogliato l’architettura di tutto ciò che fino ad oggi l’aveva subordinata, asservita, ricoperta, dissimulata.

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Il processo decostruttivo è simile all’innesto. Non è meccanico, vive e dà vita, organizza in un modo nuovo, è movimento, produzione di un nuovo organismo vivente, è imprevedibile e non programmabile. Il gesto decostruttivo è liberato da ogni tonalità nostalgica, indice di un’inclinazione teoretica orientata alla ricerca del fondamento, di una rammemorazione, di un’origine mitologica. La nuova architettura non è destinata alla rovina della disfatta o della nostalgia. L’opera si mantiene in questa follia, in questa dislocazione trascinandovi tutto ciò che fino ad oggi ha dato senso all’architettura stessa. L’architettura vive di assenza delle regole storicamente consolidate, di disgiunzioni, di non- significato, di frammenti. È assente ogni riferimento ad una totalità intaccata, perduta; non si parla, quindi, di rovina in quanto accenna ad una totalità che lascia ancora tracce. La decostruzione non è disintegrazione e allo stesso tempo memoria di un corpo intero. Questa disconnessione dà luogo a tracce architettoniche, a frammenti, come sono tenuti insieme? In cosa si identifica il maintenir dell’architettura? Le folies del Parc de La Villette di Bernard Tschumi, la griglia regolare di punti rossi, disarticolano, destabilizzano e decostruiscono la configurazione del parco. Proprio in ciò sono follia, accanendosi con il senso stesso del senso architettonico lasciatoci dalla tradizione e che ancora abitiamo. Le folies non fanno, però, tabula rasa riconducendo al deserto di una non architettura ma affermano nel maintenant, mantenendo, rilanciando e reinscrivendo l’architettura. Non sottomettendo l’opera alle norme dettate dalla tradizione, restituiscono l’architettura a ciò che essa avrebbe dovuto, sin dalla sua origine, firmare. Il maintenant di cui parla Derrida sarà questa firma. I punti rossi delle folies mantengono l’architettura nella dissociazione della spaziatura; ma questo maintenant non mantiene solo 8

Jaques Derrida, Adesso l’Architettura, cit., p.123

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un passato o una tradizione, non assicura una sintesi; mantiene l’interruzione, il rapporto con l’altro come tale. Questo Altro non si presenta mai, non è presente, maintenant. Può essere rappresentato da ciò che troppo sbrigativamente chiamiamo il Potere, i decisori politico- economici, gli utenti, i rappresentanti dei domini, della dominazione culturale, e qui, in modo peculiare, di una filosofia dell’architettura. Questo Altro, sarà chiunque – ancora nessun [point de] soggetto, io o coscienza, nessun uomo [point d’homme] – chiunque venga a rispondere alla promessa, a rispondere, anzitutto, della promessa: l’a- venire di un evento che mantenga la spaziatura [l’espacement], il mantenente [le maintenant] nella dissociazione, il rapporto all’altro come tale. Non la manu- tenzione [maintenue] ma la mano tesa [main tendue] al di sopra dell’abisso. 9

9

Jacques Derrida, Point de Folie maintenant l’architecture, Psyché. Invenzioni dell’altro, vol.2, Jaka Book,

Milano, 2009, p.124

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Bernard Tschumi, Parc de La Villette, Parigi, 1982-1997, pianta del sito

 

Bernard Tschumi, Parc de La Villette, Parigi, 1982-1997


3. Architettura e decostruzione. Il Parc de La Villette di Bernard Tschumi Il Parco de La Villette di Bernard Tschumi è un’architettura capace di ospitare la différance, la decostruzione stessa. È in Francia, a Parigi, che il pretesto di dar luogo alle Folies di Tschumi fu offerto; une chance est offerte, scrive Derrida. Nel 1982 il governo francese ha indetto il concorso per il Parc de la Villette nella periferia nordorientale della città, tra le stazioni della metropolitana Porte de Pantin e Porte de la Villette. Si colloca in un’area di cinquanta ettari, in precedenza occupata dagli impianti per la macellazione, in uno degli ultimi grandi siti liberi esistenti a Parigi. Il bando di concorso per un parco del ventunesimo secolo richiedeva una struttura integrata di verde e servizi aperta alla città, proposta che andasse oltre la tradizionale concezione otto-novecentesca del parco, rifugio in cui fosse possibile dimenticare la città. Tschumi propone di distribuire le richieste programmatiche su tutta l’area attuando una sovrapposizione di tre sistemi autonomi, denominati punti, linee e superfici. L’obiettivo del bando era, inoltre, quello di selezionare un capo-architetto cui affidare il progetto principale e la costruzione degli elementi chiave del parco e di coordinare e dirigere eventuali interventi da parte di altri artisti, paesaggisti, architetti. Il parco doveva suggerire molteplici combinazioni e sostituzioni; una parte poteva sostituire un’altra, il programma di un edificio poteva modificarsi. Le circostanze generali suggerivano una struttura organizzativa che potesse esistere indipendentemente dalla funzione, priva di centro, di gerarchie e basata su una strategia di differenze. Sovrapposizione La sovrapposizione rende impossibile qualsiasi composizione, conserva le differenze e rifiuta la supremazia di qualunque sistema privilegiato o elemento organizzatore. Vige il principio dell’eterogeneità; molteplici elementi separati e intrinsecamente contrastanti turbano la coerenza e stabilità della composizione aprendo all’instabilità e alla follia programmatica e introducendo note dissonanti nel sistema. L’origine di questa metodologia di lavoro si ritrova negli esperimenti condotti da Tschumi con testi letterari tratti da Edgar Allan Poe, Franz Kafka, Italo Calvino e James Joyce. L’uso della griglia come struttura organizzativa dello spazio si ritrova nel Joyce’s Garden del 1977.

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Era un lavoro che facevo spesso, allora: prendevo un testo di uno scrittore […] in questo caso Finnegans Wake di James Joyce, e gli studenti dovevano disegnare uno schema basato su di esso. Per fare questo, avevo ideato una griglia di progettazione di punti che attraversa il Covent Garden di Londra. 10 Le intersezioni di una griglia di rilievi topografici diventano luoghi destinati ai singoli interventi architettonici, accogliendo in questo modo una varietà eterogenea di costruzioni separate dalle distanze regolari che dividono i punti. La griglia ha la funzione di mediare tra due sistemi mutualmente esclusivi; quello delle parole e quello della pietra; tra il programma letterario e quello architettonico senza nessun tentativo di armonizzare le differenze risultanti dalla sovrapposizione di un sistema sull’altro. Evita la sintesi suggerendo la disgiunzione tra significante architettonico e significato programmatico, tra spazio ed uso che se ne fa. I progetti puntuali definiscono un campo potenzialmente infinito di punti di intensità, non esistono né centro né gerarchie. Punti, linee, superfici sono i tre sistemi astratti autonomi che si sovrappongono nel progetto de La Villette. Ognuno di essi costituisce soltanto una delle componenti del progetto; nessuno prevale, per importanza, sull’altro. Ogni sistema è determinato dall’architetto ma, nel momento in cui un sistema è sovrapposto ad un altro il soggetto è cancellato; la sua presenza è relativizzata dalla partecipazione di altri professionisti che intervengono nell’opera, impedendo così il riconoscimento di un unico soggetto creatore. Le Folies, i punti, sono distribuiti uniformemente sulla superficie del parco a intervalli di 120 metri. Hanno la forma di cubi (10x10x10 metri) e sono strutture neutre, vuote, indifferenziate, di metallo di colore rosso che possono essere trasformate ed elaborate secondo specifiche necessità programmatiche. Folies, è il nome che Bernard Tschumi dà alla trama puntuale che organizza la superficie del Parc de La Villette. Folies, con questo nome si parla del parco per metonimia in quanto i punti rossi ne rappresentano solo una parte, quella puntuale, ma esso è un insieme che implica anche la presenza di linee e superfici. Le Folies intrattengono un rapporto metonimico con l’insieme del parco, rappresentando il denominatore di questa decostruzione programmatica. Decostruzione che intacca i punti stessi, anch’essi divisibili

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Yoshio Futagawa, Interview with Bernard Tschumi, in GA Document Extra, n.10, 1997

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e in continuo rapporto sia con le altre Folies, sia con le proprie parti; point ouvert et point fermé, niente affatto aperto e niente affatto chiuso. Il nome proprio Folies rimanda al denominatore comune per tutto ciò che avviene al senso quando va fuori di sé, si aliena e dissocia, spazia svanendo in ciò che non è esso stesso; la follia. Follia è costante punto di riferimento per l’intero intervento urbano ed è simbolo della disgiunzione tra uso- forma e valori sociali che caratterizza il XX secolo. Nella schizofrenia accade qualcosa che disturba profondamente la relazione del soggetto con la realtà e soffoca il contenuto con la forma. 11 Lecita è l’analogia tra le parti che compongono la città contemporanea, il progetto parigino de La Villette e gli elementi dissociati della schizofrenia. La relazione tra elementi disgiunti introduce l’idea di transfert; frammenti dissociati che in un contesto architettonico vengono proiettati sull’architettura stessa e catturati in particolari punti di intensità, di ancoraggio che nel progetto de La Villette sono identificabili nelle Folies. Il punto della Folie diviene il centro di questo spazio dissociato; articola lo spazio e lo attiva offrendo la possibilità di ristrutturare un mondo dissociato attraverso lo spazio intermedio della Folie, dove avvengono questi innesti di transfert. Le Folies non distruggono; come la follia in generale sono tutto tranne che il caos di un’anarchia; decostruiscono e ricostruiscono inventando nuovi rapporti del tutto liberati dalle componenti e dalle norme tradizionali. A La Villette si tratta di una messa in forma, di una messa in atto della dissociazione…Ciò non avviene senza difficoltà. La messa in forma della dissociazione rende necessario che il supporto (il Parco, l’istituzione) sia strutturata come un sistema di raccoglimento. Il punto rosso delle Folies è il fuoco di questo spazio dissociato.

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La griglia delle Folies è legata a una struttura coordinata più ampia; quella delle linee e quella delle superfici. Le linee, un sistema ortogonale di circolazione pedonale ad alta densità attraversa il parco in direzione nord-sud ed est-ovest collegando i due ingressi che si aprono sulla città e le stazioni metropolitane (asse verticale) e Parigi e la sua periferia occidentale (asse 11

Jacques Lacan, Gli scritti tecnici di Freud, Einaudi, Torino, 1978

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Jacques Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., p. 121

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orizzontale). Alla linea retta si affianca quella ondulata della struttura coperta, larga 5 metri, che corre per l’intera lunghezza degli assi ortogonali e un percorso curvilineo che collega diverse parti del parco in un circuito, la Promenade Cinématique. Il percorso aereo, ovvero gli assi coperti e intersecanti del ponte sopraelevato; quello terrestre, il sentiero curvilineo che unisce i giardini tematici e quello acqueo del vecchio canale commerciale sono semplicemente tre sentieri che attraversano il parco, senza la pretesa di determinarne un inizio. L’asse, a differenza di quello di Versailles, non pretende di controllare altro territorio che il proprio, unendo in una sequenza non necessariamente significativa una serie di vedute, oggetti e funzioni. […]Così anche i percours ondulati […]servono solo come alternativa all’asse, un altro modo per entrare o uscire. 13 Le superfici; l’intersezione tra il sentiero curvilineo e gli assi ortogonali dà luogo ad incontri imprevisti, i giardini tematici, trattati a prato o a ghiaia, dove si collocano tutte le attività che hanno bisogno di vaste estensioni spaziali in senso orizzontale. L’intersezione tra i sistemi rappresenta un complesso luogo di eventi […] in cui vengono sfidati sia lo stato di forme ideali, sia la composizione tradizionale. 14 Non esiste architettura senza evento, senza azione. L’evento non è semplicemente d’azione ma evento di pensiero, il momento di erosione, di crollo, di critica o di problematizzazione degli assunti stessi dell’ambientazione in cui si può svolgere un dramma, dando origine alla probabilità o alla possibilità stessa di un’altra, diversa ambientazione (Foucault). Evento e invenzione, spazio di azione, di svolta e luogo in cui noi ci reinventiamo, capace di eventualizzare ciò che nella nostra storia e tradizione viene inteso come fisso ed essenziale. L’architettura è il luogo dove questo può attuarsi in quanto combina concetto ed esperienza, rappresentazione ed utilizzo, immagine e struttura; l’immagine non esiste mai senza essere combinata all’attivit

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Anthony Vidler, Il perturbante dell’architettura: Saggi sul disagio nell’età contemporanea, Einaudi

editore, Torino, 2006, p.125 14

Mark Wigley, Deconstructivist Architecture, catalogo della mostra, Museum of Modern Art, New York,

1988, p.92

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Bernard Tschumi, Parc de La Villette, 1982-1997, sovrapposizione linee, punti, superfici

 

Bernard Tschumi, Joyce’s Garden, Londra, 1976-1977


Cinegramma L’invenzione qui consiste nel far incrociare il motivo architettonico con quanto c’è di più singolare e di più concorrente in altre scritture, a loro volta trasportate nella suddetta follia, nel suo plurale, quello della scrittura fotografica, cinematografica, coreografica, e perfino mitografica. 15 Il cinema è un mondo segmentato in cui ogni fotogramma, mantenendo la propria indipendenza e permettendo una molteplicità di combinazioni, è posto in continuo movimento; la rapida successione di fotogrammi costituisce il cinegramma. Da qui nasce l’analogia con il progetto di architettura, in particolare con il Parc de La Villette, inteso come una serie di cinegrammi basati su un preciso complesso di trasformazioni architettoniche, spaziali e programmatiche. Nel progetto di architettura si trovano simultaneamente presenti tre livelli di realtà; evento, movimento, spazio. La ricerca teorica svolta in questa direzione da Tschumi porta all’elaborazione del testo The Manhattan Transcripts, un insieme di progetti teorici dove l’evento è rappresentato da fotografie riprese dalla cronaca, il movimento da diagrammi in uso nella coreografia e nello sport, lo spazio tramite edifici rappresentati con i metodi tradizionali; piante, planimetrie, assonometrie. Evento, movimento, spazio sono indipendenti ma, nello stesso tempo, entrano in relazione. Le tre bande parallelamente sovrapposte permettono una lettura delle immagini in orizzontale, secondo una narrazione logica e continua o in verticale, tramite la giustapposizione di ambiti differenti. Questo gioco di permutazioni è il manifesto dell’intercambiabilità di oggetti, persone ed eventi; il giocatore di football pattina sul campo di battaglia; improbabile combinazione di eventi già introdotta dall’incontro surrealista tra una macchina da cucire e un ombrello su un tavolo anatomico e ripreso da Rem Koolhaas nella descrizione del Downtown Athletic Club, mangiare ostriche con guantoni da pugilato, nudi, al piano n. I fotogrammi sono i momenti delle sequenze, il rapporto con l’oggetto architettonico implica, di per se stesso, almeno tre relazioni sequenziali: sequenza spaziale, sequenza temporale, sequenza di eventi. Il significato finale di qualsiasi sequenza dipende dalla relazione spazio/ evento /movimento. Tutte le sequenze sono cumulative, i fotogrammi acquistano significato tramite la giustapposizione, ma i contenuti dei fotogrammi affini

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Jacques Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., p.116

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possono essere mescolati, sovrapposti, dissolti, disgiunti, intersecati così come le sequenze architettoniche possono essere rese strategicamente disgiuntive. In questo modo funzionano le sequenze dei Transcripts, in un processo continuo di permutazioni e di complesse relazioni trasformazionali. Intenzione esplicita dei Transcripts era descrivere elementi rimossi dalle rappresentazioni architettoniche convenzionali, come la relazione tra spazio ed uso, tra il set e la sceneggiatura, tra programma e tipo, tra oggetti ed eventi. Tema dominante è dunque la disgiunzione tra uso- forma- valori sociali, la non coincidenza tra significato ed essere, tra spazio e movimento, tra soggetto ed oggetto. Il programma usato per mettere in scena questi temi prevede la rappresentazione di eventi, in cui filo condutture è la concezione che l’architettura abbia a che fare con l’amore e la morte, attraverso una serie di spazi; il parco (the park), la strada (the street), la torre (the tower), l’edificio a blocco (the block). Le sequenze vedono la loro origine nella realtà, Manhattan è una città reale, gli eventi narrati sono reali, si tratta, però, di una realtà che aspetta di essere decostruita, trasformata. Vi è una sovrapposizione tra elementi astratti, basati su trasformazioni architettoniche astratte, e figurativi, tratti dal sito scelto.

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Bernard Tschumi, The Manhattan Transcripts, MT1, The Park, 1976-1981

Bernard Tschumi, MT2, The Tower


Decostruzione Contrariamente all’apparenza, “decostruzione” non è una metafora architetturale. Il termine dovrebbe, dovrà nominare un pensiero d’architettura, un pensiero all’opera. Prima di tutto non è una metafora. Qui non si confida più nel concetto di metafora. Inoltre la decostruzione dovrebbe innanzitutto decostruire, come il nome indica, la costruzione stessa, il motivo strutturale o costruttivista, i suoi schemi, le sue istituzioni e i suoi concetti, la propria retorica. Ma decostruire pure la costruzione strettamente architetturale, la costruzione filosofica del concetto di architettura, il cui modello sorregge sia l’idea del sistema in filosofia, sia la teoria, la pratica e l’insegnamento dell’architettura. 16 La decostruzione perde la sua efficacia se non si materializza, e ciò avviene attraverso l’architettura. I principi della decostruzione minano la netta separazione tra teoria e architettura; nessun disegno è meramente teorico ma è finalizzato sempre alla costruzione. Il Parc de La Villette di Parigi è l’occasione attraverso cui Bernard Tschumi può attuare i principi già esposti e rimasti in forma teorica nei Transcripts. Per attuare la decostruzione la Villette deve essere costruita. Intenzione principale è, infatti, quella di provare che è possibile costruire un complesso architettonico senza ricorrere alle regole tradizionali di composizione, gerarchia, ordine. Decostruire l’architettura richiede la demolizione delle sue convenzioni, impiegando concetti derivanti sia dall’architettura sia da altre discipline (ad esempio cinematografia, critica letteraria, filosofia, psicoanalisi) in un’intertestualità che sovverte l’autonomia modernista. La demolizione delle componenti tradizionali, la strategia disgiuntiva messa in atto nel progetto de La Villette frammenta la spazio in strutture autonome, in relazioni conflittuali deliberatamente mantenute nel rifiuto della sintesi e della totalità. Le tre strutture sovrapposte del parco parigino non generano una totalità, ma qualcosa di indeterminabile che rifiuta l’architettura stessa intesa come sintesi armoniosa tra struttura, funzione, significato e forma. Il termine di bellezza scompare e il piacere dell’architettura non è più nella contemplazione delle grandi opere del passato e del presente ma nella loro distruzione, nel farle a pezzi. L’architettura non deve puntare a soddisfare fantasie, aspettative spaziali di ciascuno ma, piuttosto, deve eccedere i limiti che ad essa vengono posti; è qui che si trova il piacere ultimo dell’architettura, qui dove i limiti vengono sovvertiti e i divieti trasgrediti. Il punto di partenza dell’architettura diviene la distorsione, la 16

Jacques Derrida, Psyché. Invenzioni dell’altro, cit., p.151-152

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dislocazione, non come distruzione ma come eccesso, come differenza dai residui del passato. L’architettura del piacere risiede dove i frammenti entrano in conflitto, dove regna il disagio, lo squilibrio, dove sono turbate le antiche credenze architettoniche. Ciò che conta, però, non è lo scontro tra questi frammenti in sé, ma il movimento che tra essi si instaura, un movimento verso l’assenza, movimento che prende il nome di desiderio. L’architettura non ha, però, il fine di rappresentazione di questi desideri invisibili della società, ma è punto di intensità in cui questi desideri confluiscono. In questo modo l’oggetto architettonico è tale in quanto attiva l’inconscio e le operazioni di seduzione. L’architettura è spinta verso i suoi limiti, è nei suoi margini che Tschumi vede la possibilità di rinnovamento e rifondazione del pensiero. Il termine limite è legato alla definizione stessa di architettura. Definire è determinare il confine o il limite di oltre che esporre la natura essenziale di. Le architetture al limite della produzione ne rappresentano spesso irregolarità, rivelando elementi perturbanti e inappropriati e ponendosi come figure indispensabili, secondo la lettura di Tschumi, nella produzione architettonica che non esisterebbe senza di esse. La decostruzione prende avvio da questi limiti superandoli e sovvertendone i significati da sempre tramandati. Il ripensamento e la riformulazione dei diversi elementi dell’architettura non può avvenire semplicemente analizzando le distorsioni e le incertezze della nostra condizione contemporanea, la nuova definizione di città e di architettura non è progettabile come non è possibile progettare la decostruzione stessa. Ciò che si progetta sono le condizioni che rendono possibile la nascita di una società priva di gerarchie e non fondata sulle norme tradizionali, riorganizzando gli elementi in modo che la nostra esperienza divenga quella di eventi organizzati e strategici, intensificando il conflitto tra eventi e spazi. Tokyo e New York sembrano solamente caotiche e invece segnano l’apparizione di una nuova struttura urbana […]. Le loro contraddizioni e combinazioni di elementi eterogeni possono offrirci l’evento, lo shock, che io auspico possa rendere l’architettura delle nostre città un punto di svolta nella cultura e nella società. 17

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Bernard Tschumi, Architettura e disgiunzione, cit., p.204

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Bernard Tschumi, da Architettura e disgiunzione, cit, p


Non- sense/ no significato Il processo decostruttivo attuato nei progetti d’architettura prende avvio dal contrasto con una premessa propria della tradizione architettonica; la sua ossessione per la presenza, per l’idea di un significato immanente delle strutture e delle forme. Il legame indissolubile tra significante architettonico e significato programmatico. La forma porta in sé un significato. Il progetto de La Villette si distanzia da questa premessa mirando a sconvolgere memoria e contesto. Il significante non rappresenta più il significato, non deve dar conto della propria esistenza in virtù di qualche ipotetica significazione. La Villette perde il proprio significato universale di parco, non riferendosi più ad un principio assoluto o a un ideale. Il parco parigino privilegia l’instabilità progettuale, la follia funzionale, non una pienezza ma una forma vuota. Il significato non è mai stabilito ma reso incerto dalla pluralità di interpretazioni che racchiude. Il rifiuto di fissità porta non all’insignificanza ma ad una pluralità semantica permessa dalle infinite possibilità combinatorie e di interpretazione. Non esiste una verità assoluta del progetto; il significato, infatti, non risiede nell’oggetto ma scaturisce dall’interpretazione da parte del soggetto. Ogni osservatore progetterà la sua personale interpretazione che a sua volta può essere reinterpretata da altri infiniti osservatori. La struttura trasparente della Glass Video Gallery di Groningen, 1990, esprime la condizione di instabilità e immaterialità di sistemi astratti che fanno parte della nostra esperienza quotidiana, come le immagini televisive ed elettroniche. Il progetto nasce per il Groningen Museum ed è situato nella rotonda verde dell’Hereplein Medallion. L’invito era quello di realizzare un padiglione che mettesse a tema il rapporto tra videomusic e architettura. La scatola nera che tradizionalmente ospita questo tipo di proiezioni, viene sostituita da Tschumi con una struttura interamente in vetro, permeabile alla vista di tutti, che mette in crisi l’apparenza stessa della sua solidità. Il contenitore si presenta come un fragile prisma appoggiato su plinti di cemento inclinati lungo due direttrici opposte, al fine di insinuare nel fruitore il senso fisico di disagio. L’architettura è sospesa, come un ponte senza rive da congiungere; l’accesso avviene attraverso una scala metallica e una rampa inclinata. Gli schermi all’interno dello spazio trasparente formano facciate instabili, i riflessi sul vetro creano miraggi e suggeriscono l’idea di uno spazio illimitato di cui non è possibile comprenderne i confini. Il limite tra reale e virtuale è labile e l’involucro di vetro si trova al confine tra struttura reale e spettacolo illusorio.

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Bernard Tschumi, Glass Video Gallery, Groningen, 1990

 

Bernard Tschumi, Folie decostruito, Parc de La Villette, Parigi, 1982-1997


Programma e distanziamento Un programma architettonico consiste in una lista di necessità di cui è richiesto l’adempimento; esso indica la loro relazione, ma non suggerisce la loro combinazione né la loro proporzione. 18 Il programma è rimasto a lungo una parte importante del processo architettonico, riflettendo culture e valori particolari. L’industrializzazione ha portato all’esigenza di nuove strutture che ospitassero attività prima inesistenti come le stazioni ferroviarie, i grandi magazzini e le gallerie, che hanno dato impulso a programmi propri, spesso rischiando la disgiunzione tra forma e contenuto. Il movimento moderno si distanzia dai contenuti dell’epoca industriale e dai programmi tradizionali, per cui la forma segue la funzione. Il programma modernista propone la forma segue la forma. Il XX secolo vede il realizzarsi di una serie di programmi tutti volti alla dimostrazione del fatto che non esiste nessuna relazione necessaria tra la funzione e la forma conseguente, oppure tra una data tipologia di costruzione e un dato uso. Nell’epoca contemporanea l’allontanamento dei discorsi sulla forma a favore di un’architettura dell’evento ha comportato la disgiunzione tra programma e architettura. L’evento è di per sé stesso non programmabile, non prevedibile. Se l’architettura è evento, non è possibile l’identificazione tra architettura e programma. Una banca non deve sembrare una banca, un teatro non deve sembrare un teatro, un parco non deve sembrare un parco. 19 Si verifica un distanziamento tra programma e architettura paragonabile al principio di non identificazione tra attore e personaggio nella recitazione. Il distanziamento avviene attraverso cambiamenti calcolati delle aspettative programmatiche oppure attraverso strumenti di mediazione astratti che agiscono disgiungendo la realtà della costruzione e le richieste del soggetto. Il ruolo di mediatore astratto è svolto, nel Parc de La Villette, dai punti rossi delle Folies. Il concetto di programma non va, però, eliminato. Il distanziamento architettura- programma prevede la ridefinizione dei due termini. Il programma è reinterpretato, riscritto, decostruito dall’architetto. Nel progetto de La Villette, il contenuto programmatico è riempito di distorsioni e di interruzioni calcolate determinando un architettura dis- narrativa, dis-

18

Ibidem, p.91

19

Ibidem, p.161

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programmatica. La Villette è, così, un frammento di città nel quale ogni immagine ed evento tende al suo stesso concetto.

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Bernard Tschumi, The Manhattan Transcripts, MT4, The Park, 1976-1981


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Bibliografia

COSTANZO M., TSCHUMI B. (2002) L’architettura della disgiunzione; Torino: Testo & Immagine DAMIANI G. (a cura di) (2003) Bernard Tschumi; Milano: Rizzoli DERRIDA J. (2008) Adesso l’architettura; Milano: Libri Scheiwiller DERRIDA J. (2009) Psyché. Invenzioni dell’altro, vol.2; Milano: Jaka Book TSCHUMI B. (2005) Architettura e disgiunzione; Bologna; Pendragon TSCHUMI B. (1994) The Manhattan Transcripts; Londra: Academy Editions VIDLER A. (2006) Il perturbante dell’architettura. Saggi sul disagio nell’età contemporanea, Torino: Biblioteca Einaudi VEGETTI M. (2009) Filosofie della metropoli. Spazio, potere, architettura nel pensiero del Novecento; Roma: Carocci WIGLEY M. (1998) Deconstructivist Architecture; New York: Museum of Modern Art

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Politecnico di Milano Scuola di Architettura Civile Corso di Laurea Magistrale in Architettura delle Costruzioni Corso di Estetica Docente: Matteo Vegetti Studentesse: Beatrice Galimberti, Anna Benedetta Rossi A.A. 2011-2012 Š Beatrice Galimberti, Anna Benedetta Rossi. All rights reserved


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