CONSAPEVOLMENTE (a cura di Giuliana Gemelli)

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a cura di Giuliana Gemelli

Consapevolmente Prendersi cura di adolescenti e giovani adulti in onco-ematologia

Baskerville


a cura di Giuliana Gemelli

Consapevolmente

Prendersi cura di adolescenti e giovani adulti in onco-ematologia Introduzione Giuliana Gemelli* Presentazione del programma Giovani adulti in onco-ematologia Cinzia Pellegrini I CURA E PRENDERSI CURA: UNA COMUNITÀ TERAPEUTICA IN CAMMINO Andrea Ferrari, Maria Moletti, Carlo Gambacorti-Passerini, Cinzia Pellegrini, Riccardo Haupt e collaboratori, Eleonora Biasin e Franca Fagioli, Giovanni Martinelli, Guido Biasco, Carla Faralli II LA VISIONE OLISTICA Margherita Galli e Gioacchino Pagliaro, Francesca Sireci, Francesca Bomben, Maurizio Mascarin Caterina Elia e Elisa Coassin, LA DIMENSIONE DEL DOLORE Maurizio Mascarin, Ivo Quaranta, Padre Alberto Maggi, Don Erio Castellucci MUSICALI E FICTION Chiara Stoppa, Roberto Scarpa, Emanuele Ferrari, Silvia Bettini, Valentina CappiIntervista a Giacomo Campiotti V I PERCORSI INNOVATIVI DELL’EPIGENETICA VI TESTIMONIANZE Manuel Coral, Ilaria Rio, Nicolae Soroncean, Maria Grazia Modoni, Marco Covezzi, Valentina, Manuela Russo Postfazione Maurizio Grandi * Giuliana Gemelli é presidente dell’Associazione GrandeGiu’ for Love and Care che cerca di trasformare in pratica un lungo lavoro teorico, in ambito universitario e non, magna e in Friuli -Venezia Giulia valendosi della prestigiosa collaborazione dell’Area Giovani del CRO di Aviano.

Baskerville Collana Coordinate ISBN 978 88 8000 510 0


Coordinate

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Medico e paziente fanno parte della stessa comunità di destino. Alcuni medici ne sono pienamente consapvoli Queste sono le parole di uno di loro. Gentili mamma e papà di Giulia oggi sono andato a sciare nell'elemento che conosco meglio. Sono andato sul piccolo Cervino, una montagna quasi a 4000 metri tra Cervinia e Zermatt Lì l'aria é fine e anche i pensieri si affinano. Ho pensato a Giulia come a un'entità presente. Sono sicuro che Giulia ci guarda e ci sorride. Piangetene la separazione da voi ma non la scomparsa. Ho avuto modo di conoscere Giulia anche se brevemente: mi ha colpito la sua volontà di fare: studentessa, laureata, amazzone. Ecco, queste sono le cose da guardare voltandosi indietro vedere tante cose fatte, magari anche degli sbagli, ma sempre la volontà di usare appieno i propri "talenti". E quindi io continuo la mia ricerca, anche se con i mezzi e il rispetto che si possono avere in italia, affinché ciò che ho imparato da Giulia serva per dare una risposta migliore ad altri pazienti. Perché il tempo per Giulia é finito così in fretta? A questa domanda non so davvero rispondere ma il metro degli uomini è sempre parziale e limitato. Carlo Gambacorti-Passerini Ematologo


Dipinto realizzato - con la guida di Barbara Truzzi - dai ragazzi dei G LAB il laboratorio di vita e creativitĂ per i giovani adulti ricoverati in Onco-Ematologia. Un progetto della AssociazioneGrande Giu' for Love and Care.


Premessa Questo volume nasce dal sogno di una ragazza, si nutre degli slanci e delle energie di una comunità di destino che unisce studiosi, ricercatori, medici, giovani pazienti, artisti, operatori sanitari e prende forma in un percorso che oggi è un programma operativo dell’istituto di Ematologia - Lorenzo e Ariosto Seràgnoli - del Policlinico Sant’Orsola di Bologna, diretto dal Professor Michele Cavo. Il programma ISA Topics dell’Università di Bologna e l’Associazione GrandeGiu'’ for Love and Care lo hanno sostenuto ed animato attraverso una serie di conferenze che, via via, si sono arricchite di nuovi, importanti contributi . La gratitudine verso tutti coloro che hanno accettato di essere parte della nostra comunità e della nostra ricerca-azione é immensa, un pensiero speciale a Giacomo Campiotti, regista di "Braccialetti Rossi" che ci ha accompagnato lungo tutto il percorso. Noi tutti, nel sogno di Giulia, ci abbiamo creduto, seguendo le orme di chi, in Italia, aveva già avviato percorsi di analoga natura - in particolare a Milano e ad Aviano - ed ora siamo una squadra “tra cielo e terra”, perché l’energia di cui si nutre il nostro consapevole operare non ha confini o, perlomeno, non li ha negli orizzonti materiali della fisica classica.

Grazie Giuliana Gemelli

Associazione GrandeGiu' for Love and Care http://grandegiu.blogspot.it Via F. Rosselli, 13 - 47121 Forlì (FC)


CONSAPEVOLMENTE Prendersi cura di adolescenti e giovani adulti in onco-ematologia

a cura di Giuliana Gemelli

Baskerville


a cura di Giuliana Gemelli

CONSAPEVOLMENTE

Prendersi cura di adolescenti e giovani adulti in onco-ematologia © 2017 Baskerville, Bologna www.Baskerville.it ISBN: 978 88 8000 510 0 TUTTI I DIRITTI RISERVATI Questo volume non può essere riprodotto, archiviato o trasmesso, intero o in parte, in alcun modo (digitale, ottico o sonoro) senza il preventivo permesso scritto dell’autore e di Baskerville, Bologna.

Baskerville è un marchio registrato da Baskerville Bologna Il volume è composto in caratteri ITC New Baskerville

Stampato su carta riciclata ecologica di qualità. La carta è inoltre “ACID FREE” e “CHLORINE FREE” prodotta con un processo di sbiancamento effettuato senza acidi e senza cloro.

C ATALO GAZION E Giuliana Gemelli (a cura di ) CONSAPEVOLMENTE Prendersi cura di adolescenti e giovani adulti in onco-ematologia Baskerville, Bologna, 2017 Pag. 480, cm 21, Collana Coordinate ISBN: 978 88 8000 510 0 1. ONCOLOGIA, EMATOLOGIA, GIOVANI ADULTI 2. CURA, VISIONE OLISTICA 3. CURE PALLIATIVE I. GEMELLI, Giuliana


Indice

Introduzione GIULIANA GEMELLI

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CINZIA PELLEGRINI Presentazione del Programma Giovani adulti in onco-ematologia diretto dalla Dottoressa Cinzia Pellegrini presso l'Istituto Lorenzo e Ariosto Seràgnoli – Policlinico Sant'Orsola, Bologna 25 C apitol o 1 CURA E PRENDERSI CURA: UNA COMUNITÀ TERAPEUTICA IN CAMMINO ANDREA FERRARI Gli adolescenti co tumore: dal Progetto Giovani a SIAMO

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MARIA LUISA MOLETI Non solo terapia: la cura globale del bambino e adolescente con tumore ematologico 74 CARLO GAMBACORTI -PASSERINI Medicina personalizzata e Medicina della Persona

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CINZIA PELLEGRINI Linfoma di Hodgkin nuove prospettive terapeutiche

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RICCARDO HAUPT e collaboratori, Passaporto della guarigione per i lungo sopravviventi da tumore pediatrico 101 ELEONORA BIASIN E FRANCA FAGIOLI Adolescenti in terapia e fuori terapia: gestione nella rete di oncoematologia pediatrica piemonte e Valle d'Aosta 117 GIOVANNI MARTINELLI Cosa possiamo fare per favorire l’accesso facilitato della target therapy negli adolescenti young adults 127 GUIDO BIASCO La formazione universitaria in cure palliative

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CARLA FARALLI Curare e prendersi cura. La risposta della medicina palliativa

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C apitolo II LA VISIONE OLISTICA MARGHERITA GALLI e GIOACCHINO PAGLIARO Una nuova concezione della cura in oncologia: la visione olistica del paziente oncologico tra mito e realtà 151 FRANCESCA SIRECI L’olismo scientifico in oncologia. Una nuova visione della salute, della malattia, della cura.” 188 FRANCESCA BOMBEN L’imperativo di costruire e custodire identità 204 MAURIZIO MASCARIN, CATERINA ELIA e ELISA COASSIN Quando il buongiorno ve lo augura il paziente

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C apitolo III SPIRITUALITA’ E ASPETTI ANTROPOLOGICI: LA DIMENSIONE DEL DOLORE MAURIZIO MASCARIN Spazio al tempo: valorizziamo la IV dimensione dell’adolescenza 239 IVO QUARANTA Cura e significato: dalla competenza alla consapevolezza culturale 246 Padre ALBERTO MAGGI Le dimensioni della spiritualità nella malattia

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Don ERIO CASTELLUCCI Una luce sul mistero del dolore?

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C apitolo IV RAPPRESENTAZIONI TEATRALI, ICONOGRAFICHE MUSICALI E FICTION CHIARA STOPPA Charlie. Anima e corpo di una guarigione

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ROBERTO SCARPA Che storia vuoi diventare da grande?

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EMANUELE FERRARI Il canto del dolore. Focolare domestico e dimensione abissale nell’Improvviso Op. 142 n. 3 di Schubert. 315


SILVIA BETTINI Il cielo in una stanza. L’importanza di progettare un ambiente 342 VALENTINA CAPPI Condividere l’essenziale: la malattia e la cura di adolescenti e giovani adulti nella fiction televisiva” 347 Intervista a GIACOMO CAMPIOTTI Una vita tra cinema e televisione per raccontare personaggi alla ricerca della consapevolezza 374 C apitol o V I PERCORSI INNOVATIVI DELL’EPIGENETICA PATRIZIA GENTILINI e RUGGERO RIDOLFI No Country for Children and Teenagers

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ERNESTO BURGIO Epigenetica: possibilità di diagnosi precoce e prevenzione primaria 426 PIER MARIO BIAVA Il senso e l’origine della vita

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Capitolo VI TESTIMONIANZE MANUEL DANIEL CORAL 463 ILARIA RIO 468 NICOLAE SORONCEAN 481 MARCO COVEZZI 484 MARIA GRAZIA MODONI

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VALENTINA 493 MANUELA RUSSO 496 Postfazione di MAURIZIO GRANDI 499


Non si diventa illuminati immaginando figure di luce ma rendendo l’oscurità consapevole Karl Gustav Jung

A chi trova se stesso nel proprio coraggio a chi nasce ogni giorno e comincia il suo viaggio a chi lotta da sempre e sopporta il dolore qui nessuno è diverso, nessuno è migliore.
 A chi ha perso tutto e riparte da zero perché niente finisce quando vivi davvero a chi resta da solo abbracciato al silenzio a chi dona l’amore che ha dentro... Fiorella Mannoia

Un medico che non ha cuore non puo’ neppure avere una mente brillante Giulia, giovane paziente

a lei, Giulia, alla sua grande consapevolezza é dedicato questo libro


Giuliana Gemelli

Introduzione Giuliana Gemelli

Un’unica Forza, l’Amore, lega e da vita a infiniti mondi Giordano Bruno

L’essere umano è un’identità complessa composta di elementi in molti casi impossibili da misurare e non visibili, forme di energia sottile e intangibile in cui si intrecciano anima, psiche e corpo. Questa percezione sempre più’ diffusa sta penetrando progressivamente anche l’universo scientifico. Le consuetudini cristallizzate del ragionamento e della costruzione di sistemi che hanno per fondamento la divisione, la parcellizzazione, l’organizzazione del sapere per discipline, in un percorso che ha profondamente caratterizzato la “nascita della clinica”nel corso del XIX secolo e la sua cristallizzazione negli ultimi due secoli, stanno entrando in una crisi progressiva e verticale. Siamo agli albori di un nuovo umanesimo che si sta affermando nelle relazioni interpersonali e attraversa l’umano agire in varie forme e con diverse modalità espressive, che trovano un punto di coagulo nella ricostruzione delle identità individuali e collettive, ormai purificate dalle ipoteche generate dai vari movimenti del secolo passato: il femminismo, le ansie di potere dichiarato “alternativo”, tendenti a contrapporre le comunità a un gruppo ristretto a sostegno dei processi di disidentificazione degli individui. 15


Giuliana Gemelli

Un percorso unidirezionale che ha finito per abbracciare, seppure su piani diversi ma con una logica penetrante ed espansiva i paradigmi dello scientismo, che, nel campo medico, si è espresso nella glorificazione dei protocolli, delle strategie di randomizzazione, nella supremazia della strumentazione scientifica che ha spesso assunto un ruolo riduzionistico rispetto alla osservazione e alla assunzione della persona come soggetto di cura. In questo orizzonte allineato si é cessato di tendere la mano alla vita, compartimentalizzandola e di conseguenza riducendone le potenzialità, per paura, egoismo, irresponsabilità, aprendo la strada all’inquinamento dell’anima che la priva di risorse essenziali, quali la curiosità, l’esplorazione non condizionata da regole o protocolli, l’immaginazione e infine, soprattutto, la consapevolezza che orienta ed anima tutti questi aspetti dell’umana esistenza. Un medico e ricercatore veterinario, il dottor Marco Polettini, ha osservato che “Chi usa il cervello indirizzandolo ad un ramo specialistico rigidamente incanalato tra due binari e - aggiungo io, ancorato al principio lineare di causa ed effetto, dunque ad una temporalità che esclude durata interiore, immaginazione, creatività, compassione, empatia, cioè il percepire l’altro nella sua complessa identità- si sentirà sicuro nel suo sapere ristretto, ma renderà inattivi molti dei suoi neuroni”. Con grave danno della conoscenza ancorata a rigide linee di demarcazione e al radicarsi di tradizioni scientifiche ricevute che spesso derivano dal consolidarsi di primati. Ad esempio quello di Darwin su Lamark che sino a tempi recenti ha di fatto impedito lo sviluppo della riflessione sulla soft inheritance (acquisizione di fenotipi attraverso eredità non genetiche). Con qualche eccezione nel passato, ad esempio gli studi di Georges Cuvier e Geoffroy Saint-Hilaire che gettarono le basi di una nuova scienza che, nel ventesimo secolo, avrebbe preso il nome di epigenetica, basata sull’ipotesi che l’ambiente possa influenzare le vie di sviluppo e le rotte evolutive. Nella biologia e nella ricerca medica si é progressivamente affermata una nuova attenzione alla relazionalità 16


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tra individuo e ambiente non più secondo schemi lineari ma complessi nell’articolazione gene -ambiente. Le modificazioni epigenetiche agiscono in punti specifici del DNA sotto l’influenza di precisi segnali, e soprattutto sono molto più facilmente reversibili. I fattori che intervengono in questo scenario possono essere molteplici: il cibo, la temperatura ambientale, ma anche lo stato emotivo; tutto ciò può modulare l’informazione genetica, anche grazie a modifiche epigenetiche. Sui meccanismi delle modificazioni epigenetiche che avvengono sul DNA e sulle proteine strutturali della cromatina si è concentrato, negli ultimi anni, l’interesse della comunità scientifica internazionale. Non intendo minimamente entrare nei dettagli di questo dibattito, in quando non ne ho le competenze, se non per rilevare l’assonanza del percorso scientifico col processo di umanizzazione dei percorsi conoscitivi sopra descritto, messo in evidenza con profondità di analisi nei saggi che, in questo volume, trattano tale argomento, cogliendone tutte le implicazioni nell’orizzonte delle malattie onco-ematologiche, con particolare riferimento a gruppi di età specifici, gli adolescenti e i giovani adulti. Questo target, con alcune rilevanti eccezioni, costituisce un orizzonte pressoché inesplorato nella ricerca clinica e nella pratica medica, mentre rappresenta, da molti punti di vista, l’ambito principale di rilevanza delle problematiche dell’epigenetica, oltre che, come vedremo, il sinolo della inscindibilità tra cura e prendersi cura, tra prassi medica e bios - la vita nel suo manifestarsi all’essere umano- tra corpo, oggetto della cura e corpo, come susseguirsi di esperienze vissute e fatte proprie dalla mente. In questo orizzonte olistico e sinergico il corpo non é più un oggetto da analizzare ma é una soggettività incarnata la cui espressività e valenza é tanto più’ forte quando la malattia emerge in fasi di transizione epocale, i percorsi di passaggio verso l’età adulta, verso il pieno dispiegamento della persona, sia dal punto di vista fisico, sia del punto di vista psicologico. In tale processo tutti i fattori e gli agenti di “evocazione” interna ed esterna che si legano attraverso reti 17


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neurali al fenomeno della coscienza hanno una valenza rilevante in termini di esperienza riflessa ed elaborata dalla mente, particolarmente in fasi della vita in cui tale percorso é particolarmente intenso e ricettivo, e cioè l’adolescenza e la giovinezza. Prendiamo ad esempio la musica. Come ha osservato l’oncologo Maurizio Grandi: “Sappiamo quali regioni del cervello e quali recettori sono coinvolti quando percepiamo il nostro ambiente come significativo: le strutture della linea mediana del cervello, le stesse coinvolte nell’esperienza legata al significato che si dà a sé stessi”. Lo stesso vale per le esperienze riflesse nella scrittura, nella elaborazione teatrale del vissuto e più semplicemente nella condivisione verbale del vissuto con chi ci é accanto. Oggi si parla molto della scoperta del neurone della coscienza o meglio delle sue reti “La coscienza appartiene al cervello nella sede dove essa viene evocata dall’attenzione”. Questa agisce su aree selezionate della corteccia cerebrale con la conseguente amplificazione delle risposte dendronali agli stimoli sensitivi afferenti e alla coscienza. Sovrapposto a questo semplice meccanismo che ha come vettore l’attenzione sembrerebbe delinearsi un dialogo continuo fra l’attenzione determinata dall’io e le aree corticali selezionate con i rispettivi stimoli sensitivi afferenti. A tale proposito il dottor Polettini osserva che “L’ampliamento del sistema nervoso in un sistema più complesso ci indirizza ad una comprensione diversa del nostro organismo e ci permette di formulare una nuova terapia che fornisca energia sottile/informativa capace di inter-reagire con il sistema psico-neuro-endocrino-immunitario. Questa energia, introdotta dalla fisica moderna in particolare dalla fisica quantistica - è l’energia del radar che direziona la nave verso il porto, è l’energia che spinge il bambino a prendere il bus per andare a scuola, è l’energia del sistema pre-conscio che indirizza l’organismo verso la salute”. 18


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Da alcuni mesi é circolato sul web un testo da molti ritenuto un falso in cui Albert Einstein rivelerebbe alla figlia il significato profondo dell’intreccio tra energia e coscienza. Vero o falso che sia, il testo esprime in profondità le implicazioni del percorso di profonda trasformazione degli orizzonti della scienza contemporanea e dunque non esito a riprodurlo nella sua parte più’ esplicativa “Se invece di E = mc2 - affermerebbe Einstein - accettiamo che l’energia per guarire il mondo può essere ottenuta attraverso l’amore moltiplicato per la velocità della luce al quadrato, giungeremo alla conclusione che l’amore è la forza più potente che esista, perché non ha limiti. Dopo il fallimento dell’umanità nell’uso e il controllo delle altre forze dell’universo, che si sono rivolte contro di noi, è arrivato il momento di nutrirci di un altro tipo di energia. Se vogliamo che la nostra specie sopravviva, se vogliamo trovare un significato alla vita, se vogliamo salvare il mondo e ogni essere senziente che lo abita, l’amore è l’unica e l’ultima risposta. Forse non siamo ancora pronti per fabbricare una bomba d’amore, un artefatto abbastanza potente da distruggere tutto l’odio, l’egoismo e l’avidità che affliggono il pianeta. Tuttavia, ogni individuo porta in sé un piccolo ma potente generatore d’amore la cui energia aspetta solo di essere rilasciata. Quando impareremo a dare e ricevere questa energia universale, Lieserl cara, vedremo come l’amore vince tutto, trascende tutto e può tutto, perché l’amore è la quintessenza della vita”.

Questa citazione vera o falsa che sia, riprende ed estende l’intuizione profonda di un grande filosofo, Wilhem Liebniz, che affermava “Attentio vera gratia est”. L’attenzione non è il semplice atto dell’ascolto é la partecipazione, l’empatia, il prendersi cura appunto. In tale prospettiva è paradossale e assolutamente inconcepibile che adolescenti e giovani adulti che vivono l’esperienza della malattia e la cui mente è attraversata da reti di esperienza particolarmente complesse e da vissuti ed elaborazioni dei medesimi attraverso la coscienza, altrettanto complessi e talora contraddittori, ma sempre ad alta intensità emotiva, non abbiano ricevuto o abbiano ricevuto scarsa attenzione da parte della ricerca e soprat19


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tutto dei percorsi inerenti il “prendersi cura”, in senso olistico, della loro persona. Tuttora, a parte importanti eccezioni, adolescenti e giovani adulti affetti da patologie onco-ematologiche rappresentano una sostanziale “terra di nessuno”, sia dal punto di vista della ricerca scientifica, sia sul piano clinico e assistenziale. Questo “vuoto di attenzione” ha fatto sì che gli indici di sopravvivenza che li riguardano non abbiano registrato significativi miglioramenti rispetto a quelli ottenuti in età pediatrica e in età adulta e nei confronti degli anziani. Ciò è dovuto soprattutto alla divisione di competenze in rapporto alle fasce di età e all’assenza di strutture appropriate che caratterizza il sistema sanitario dipartimentale, strutturato in reparti pediatrici e reparti dell’adulto che non comunicano o raramente risultano comunicanti tra loro. Nel caso degli adolescenti e dei giovani adulti, con maggiore rilevanza rispetto ai pazienti adulti ed anziani, la “cura” (intesa come somministrazione di trattamenti farmacologici che permettano un miglioramento degli indici di sopravvivenza) è inscindibile dal “prendersi cura” (care) della persona in senso olistico. La malattia ha un’origine ma non irrompe nella sequenza temporale secondo una linea di causa ed effetto non é un evento lineare anche se segna nell’esistenza dell’individuo un prima e un dopo. La medicina come cura segue una rappresentazione del tempo che é lineare, dalla diagnosi al protocollo, alla sua applicazione, alla verifica degli effetti della cura prescelta. Le dinamiche del prendersi cura esulano da questo schema sequenziale. Hanno a che vedere con la persona nella sua totalità e nella sua unicità. I giovani attraversano una fase della vita assolutamente “speciale”, caratterizzata da un processo evolutivo proiettato interamente verso la dimensione del futuro che viene ostacolato, interrotto e reso incerto dall’insorgere della malattia, dalle terapie oncologiche e dai loro effetti spesso devastanti, col conseguente sradicamento dei giovani dal loro contesto di vita, caratterizzato da un 20


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dinamismo crescente, costringendoli a ripetuti ricoveri in ospedale, all’isolamento, alla debilitazione fisica e morale. Tutto ciò li porta alla perdita o al repentino azzeramento di tappe evolutive importanti, come il confronto costante coi propri coetanei, il raggiungimento di una progressiva indipendenza, la costruzione di una propria individualità, la possibilità di elaborare progetti, di guardare con serenità al futuro. Questi aspetti “di vita” raramente vengono tenuti in considerazione nella pratica clinica quotidiana e nel modo in cui funzionano e sono organizzate le istituzioni ospedaliere, provocando un forte senso di disadattamento nel giovane paziente. Oggi questo orientamento sta cambiando grazie alla creazione di aree dedicate ai giovani nelle cliniche specializzate, in Italia esistono due percorsi molto avanzati e consolidati non solo dal punto istituzionale ma anche da quello del dibattito scientifico: quello dell’Area Giovani del CRO, presso l’ospedale di Aviano, diretto dal professor Maurizio Mascarin e quello del programma giovani realizzato dal Professor Andrea Ferrari presso l’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano.1 Ad essi si aggiunge ora la recente creazione a Bologna di un programma per i giovani adulti denominato GWeb e GLab diretto dalla dottoressa Cinzia Pellegrini presso l’istituto Lorenzo ed Ariosto Seràgnoli del Policlinico Sant’Orsola e di cui il lettore troverà un’ampia descrizione nelle pagine che seguono l’introduzione a questo libro. Puo’ sembrare paradossale ma é la fiction televisiva e cinematografica, in particolare il serial di grande successo, Braccialetti Rossi, che ha attirato l’attenzione del grande pubblico su queste problematiche, ma il percorso è ancora molto lungo: delicatissimo e complesso. Il volume, con i suoi contributi diversificati, vuole essere di fatto lo strumento di riflessione che accompagna questo percorso operativo, uno strumento critico ed esplorativo, utile per chi opera all’interno dei programmi già in essere, ma anche per tutti coloro che percepiscono la “cittadinanza scientifica” come uno strumento indispensabile alla nostra società, soprattutto quando si 21


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tratta del prendersi cura delle persone e in particolare delle giovani persone. A questo percorso riflessivo, che ambisce ad essere un arricchimento nella crescita della “consapevolezza” rispetto a queste problematiche, hanno contribuito anche una serie di conferenze che la curatrice ha potuto realizzare nel quadro del programma ISA Topics dell’Ateneo bolognese in un’ottica fortemente interdisciplinare, a carattere medico, antropologico spirituale e filosofico e di testimonianze vissute. L’intento non è stato meramente teorico; si é trattato piuttosto di una ricerca-azione che ha al centro - nel sinolo che unisce cura e prendersi cura - l’attenzione alla qualità di vita, al “benessere” fisico e spirituale dei giovani pazienti, favorendo l’attuazione di attività e iniziative che fanno sì che la vita entri a pieno titolo dentro i reparti d’ospedale e si costituisca una nuova comunità terapeutica, centrata sulla condivisione di un percorso comune: la consapevolezza. La consapevolezza è una condizione in cui la cognizione dell’esperienza diventa un percorso interiore, profondo, olistico in quanto assimilato alla persona, nel suo essere unica, indivisibile. La consapevolezza non si può insegnare, né apprendere come si apprendono nozioni o informazioni, é un approccio unico ed originale che fonda e si fonda sull’identità e permette di affrontare le esperienze senza esserne travolti o sopraffatti. Chi è consapevole non subisce ma può affrontare e rielaborare. Consapevolezze condivise rendono possibile un agire comune. Questi sono gli argomenti che, da vari punti di vista, si pongono alla base dell’intreccio delle diverse narrazioni, tutte centrate seppure da diversi punti di osservazione sulla malattia, intensa non più come vincolo ineludibile per la persona, ma anche come un’opportunità di crescita in termini di consapevolezza del proprio esserci, della propria identità in evoluzione. Affrontare e rielaborare ma anche condividere: si tratta di percorsi inscindibili come inscindibile é l’ap22


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proccio della cura da quello del prendersi cura. Un intreccio complesso che spesso, come si è detto, si fonda su incomprensioni, discrasie, logiche non sovrapponibili e sostanzialmente su universi di riferimento cognitivi non ancora assimilati come dimostrano molti dei contributi a questo volume o che si suppongono assimilabili ma, per le ragioni suddette, non lo sono realmente, per un motivo molto semplice enunciato con chiarezza da Albert Einstein: “Non si risolvono i problemi con le stesse categorie che li hanno generati”. Il problema dell’intreccio tra cura e prendersi cura é legato principalmente alla discrasia che caratterizza e che di fatto separa i due approcci - talora anche se si dichiara, a parole, che essi sono inscindibili- nella percezione cognitiva del tempo: la malattia ha un’origine ma non irrompe nella sequenza temporale secondo una linea di causa ed effetto, non é un evento lineare anche se segna nell’esistenza dell’individuo un prima e un dopo. La medicina come cura segue una rappresentazione del tempo che é lineare, dalla diagnosi al protocollo alla sua applicazione, alla verifica degli effetti della cura prescelta. Le dinamiche del prendersi cura esulano da questo schema sequenziale. Hanno a che vedere con la persona nella sua totalità e nella sua unicità e toccano intrinsecamente il problema della conoscenza derivata non dalla informazione o dall’apprendimento ma dall’attentio.

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Cinzia Pellegrini

Cinzia Pellegrini Presentazione del Programma Giovani adulti in onco-ematologia diretto dalla Dottoressa Cinzia Pellegrini presso l’Istituto Lorenzo e Ariosto Seràgnoli, Policlinico Sant’Orsola Bologna G-WEB: Creazione di un web-community e di Laboratori (G-Lab) per il miglioramento della qualità di vita dei Giovani Adulti ricoverati inOnco-Ematologia 1. Premessa Le neoplasie del Giovane Adulto rappresentano circa il 7% di tutti i tumori, ogni anno 70.000 adolescenti e giovani adulti (AYAs: Adolescents and young adults) tra i 15 e i 39 anni ricevono la diagnosi di tumore. La frequenza, in questa fascia di età, supera di 6 volte la frequenza nell’età infantile (Bleyer A. 2006). La prevalenza delle differenti istologie tumorali è variabile nelle diverse fasce di età, mentre le patologie ematologiche, tra cui i linfomi e le leucemie acute, rappresentano più del 25% delle neoplasie riscontrate in questa fascia di età. Il Giovane Adulto dei nostri tempi è una persona nella fascia d’età tra i 18 e i 35 anni, in fase di strutturazione, che sta raggiungendo o ha appena raggiunto un’autonomia economica, professionale, lavorativa, sociale e affettiva. Si tratta di una persona che sta costruendo se stessa ed è in equilibrio tra sogni, desideri che diventano azioni, emancipazione, autonomia, costruzione di relazioni, progetti; una persona protesa verso il futuro e in costante ricerca del suo posto nel mondo. La diagnosi oncologica in questa fascia di età è inattesa e spesso rifiutata perchè il giovane si sente invulnerabile. La malattia irrompe all’improvviso e distrugge la quotidianità, il presente, le certezze. Questa situazione porta il Giovane Adulto a perdere l’autonomia, lo induce ad una fase regressiva in cui è costretto a dipendere da altri (care givers, genitori) e compromette alcuni pilastri della sua vita. In particolare, un’analisi condotta in uno studio pubblicato di recente (Nass S.J. 2015), identifica i seguenti punti chiave: - Alterazione e perdita dell’autostima; 25


Giuliana Gemelli

- Alterazione dell’immagine di sé: la chemioterapia comporta nella maggior parte dei casi caduta dei capelli e inattività fisica con conseguente perdita di perdere massa muscolare; - Alterazione delle emozioni, sfera dominante nella vita di un giovane. Il tempo, in questa fascia di età, è scandito dalle emozioni e, con la diagnosi, queste assumono una connotazione prevalentemente negativa; - Scarsa fiducia nei medici: spesso la diagnosi in questa età è tardiva e i pazienti giovani arrivano all’ematologo dopo mesi di visite specialistiche, di esami non mirati e errori diagnostici. Questo contribuisce a far nascere un sentimento di sfiducia e diffidenza nei sanitari; - Qualsiasi sia la fascia di età del paziente, sia essa scolastica o di affermazione professionale, la malattia assesta un colpo di sospensione-rallentamento-blocco temporaneo alla fase di crescita personale; - Significativo cambiamento delle dinamiche familiari: i genitori faticano a gestire le proprie giuste preoccupazioni e il paziente regredisce in termini di autonomia, quell’autonomia faticosamente conquistata e fondamentale per l’affermazione di sè stessi; - Il futuro assume i tratti dell’incertezza; - La sfera della fertililità viene messa in discussione; - Cambiamento nei rapporti con i coetanei, si possono creare dinamiche di isolamento con perdita degli amici. Questi aspetti, analizzati nella pubblicazione, sono aspetti che viviamo ogni giorno: basta tendere l’orecchio e ascoltare i nostri giovani pazienti per capire quali molteplicità di conflitti e problematiche generano in loro la diagnosi di malattia e il percorso di cura. La diagnosi di cancro e il trattamento con chemioterapia sono spesso correlati con un distress psicologico derivante dall’aumentato senso di vulnerabilità e da emozioni quali tristezza e paura (National Comprehensive Cancer Network 2003). Recenti studi indicano come il 33% - 40% dei pazienti abbia alla diagnosi un livello di distress clinicamente significativo (Zabora J. 2001, Shim EJ. 2006). Questo impatta negativamente sulla qualità di vita (Blinderman CD. 2009, Andersen BL. 2007, Von Essen L. 2002), sulla compliance alle terapie (Von Essen L. 26


Cinzia Pellegrini

2005, Gordon LG. 2011) e sulle prospettive post-terapia (Santacroce SJ. 2006, Stava CJ. 2006). In particolare, gli adolescenti e i giovani adulti sono pazienti, proprio per le ragioni suddette, maggiormente vulnerabili al disagio psicologico derivante dalla diagnosi di neoplasia e terapie specifiche. Negli ultimi anni, numerosi studi internazionali hanno focalizzato la loro attenzione sui bisogni degli AYAs, non solo in termini di biologia, aspetti clinici, cura, effetti collaterali a lungo termine della malattia, ma anche in termini di bisogni psicosociali che si sono dimostrati cruciali per garantire il miglior trattamento in questa categoria di pazienti (Zebrack B. 2012). La diagnosi e i trattamenti anti-neoplastici riducono le attività sociali degli AYAs. La malattia limita la frequentazione dei coetanei, obbliga i ragazzi ad assentsrsi dalla scuola o dall’Università per lunghi periodi, comporta l’astensione dall’attività sportiva e interferisce con le normale socializzazione (Morgan S. 2010). Tutto questo avviene in un momento evolutivo in cui le relazioni sociali sono cruciali per l’affermazione della propria identità e lo sviluppo della propria personalità e indipendenza. La malattia, in questi pazienti, si traduce spesso in un’esperienza d’isolamento e solitudine (Suzuki LK. 2003). In quest’ottica, la possibilità di fornire supporti sociali all’interno delle strutture di cura sembra essere un fattore che impatta positivamente sulla qualità di vita dei giovani pazienti. In particolare, la formazione di gruppi di supporto tra coetanei appare come uno strumento ottimale poiché permette di condividere apertamente dubbi e paure riguardo alla malattia. Per rispondere a quest’esigenza, in Inghilterra negli anni 90’ sono nate le “Teenage Cancer Unit” (Hollis R. 2001). Nel panorama italiano esistono, attualmente, alcune realtà strutturate (come ad esempio l’Associazione “SIAMO” – Società Italiana Adolescenti con Malattie Onco-ematologiche –http://www.progettosiamo.it/ e “L’area Giovani” del Centro Oncologico di Aviano http://www.areagiovanicro.it/), volte a promuovere e valorizzare iniziative e percorsi didattici, ludici e creativi 27


Cinzia Pellegrini

per i pazienti AYAs nell’ambito del percorso di cura oncologico. È proprio in questa direzione che vuole andare l’Istituto di Ematologia e Oncologia Medica “L. e A. Seràgnoli”, attraverso il progetto G-WEB e la sua parte operativa G-Lab (Laboratorio Giovani). Si tratta di un progetto che si propone di offrire sostegno psicologico, relazionale e spirituale utilizzando lo strumento della web community (G-WEB) per contribuire al benessere psicofisico e al miglioramento della qualità di vita dei giovani pazienti. Il progetto G-WEB prevede l’utilizzo di due metodologie operative: la prima, prettamente virtuale, è strettamente legata alla piattaforma interattiva; la seconda coinvolge i partecipanti in attività e laboratori che prevedono la loro partecipazione fisica e stimolano la loro creatività (G-Lab). 2. Il progetto Il progetto è disegnato come uno studio scientifico esplorativo, interventistico, monocentrico, condotto su pazienti affetti da neoplasia ematologica all’esordio e in ogni fase di trattamento, di età compresa tra i 18 e i 35 anni. L’obiettivo primario dello studio è valutare l’impatto della creazione e utilizzo della piattaforma G-WEB, nonché della sua parte operativa G-Lab, sulla qualità di vita dei giovani pazienti affetti da neoplasia ematologica alla diagnosi e durante il trattamento anti-neoplastico. Gli obiettivi secondari si propongono di: 1) favorire l’acquisizione di conoscenze e competenze rispetto alla malattia e al percorso di cura; 2) organizzare contesti fisici o virtuali che permettano l’incontro fra pazienti e con gli operatori, in modo tale da favorire la condivisione dei vissuti ed una più immediata comunicazione dei bisogni; 3) favorire la possibilità di stabilire un continuum di comportamenti, azioni e stili di vita, nella quotidianità prima, durante e dopo la malattia; 4) associare al concetto di CURA (cure) il PRENDERSI CURA (care), ovvero la personalizzazione del sostegno umano, psicolo-

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gico e sociale per rendere il paziente protagonista attivo del suo percorso di malattia. I criteri di valutazione del miglioramento della qualità di vita saranno così suddivisi: 1) criteri che verteranno sulla variazione dell’ansia e dello stress percepito, correlato alla condizione psico-sociale concomitante alla patologia; 2) l’utilizzo degli strumenti e dei metodi suddetti, potrà variare la percezione del supporto sociale; 3) le variabili come tensione, ostilità, vigore, attività, inerzia, senso di confusione, verranno analizzate nelle due fasi di intervento per valutare la potenziale efficacia del progetto. Questi aspetti verranno valutati in tempi ben definiti: all’arruolamento (T0), dopo i primi 3 mesi di utilizzo dello strumento (T3), dopo i primi 6 mesi (T6), dopo i primi 12 mesi (T12), attraverso due metodi, quello qualitativo che utilizza lo strumento dell’autonarrazione, quello quantitativo che utilizza questionari sulla valutazione della qualità di vita (EQ-5D), sull’analisi degli stati affettivi (POMS) e sulla valutazione del sostegno sociale percepito (MSPSS). 3. Gli strumenti G-WEB/G-Lab Nella scelta degli strumenti finalizzati al miglioramento della qualità di vita dei giovani adulti in trattamento, ci siamo orientati nella creazione di una piattaforma WEB e, in particolare, nella creazione di una webcommunity.
Numerosi studi clinici americani rilevano come Internet fornisca numerosi benefici ai giovani adulti affetti da patologia oncologica. In particolare, la partecipazione a una comunità online di pazienti riduce l’isolamento e promuove un atteggiamento attivo; riduce la depressione e l’ansia secondaria alla malattia e migliora la propria autostima; permette di parlare di argomenti traumatici in modo più leggero e aperto (attraverso l’anonimato). Uno studio australiano, analizzando diversi blog, ha messo in luce i temi più discussi in rete dai giovani pazienti: 1) i cambiamenti fisici secondari alle cure; 2) le prospettive future; 3) il tema dell’isolamento; 29


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4) il tema del senso di colpa; 5) la morte; 6) aspetti legati alla vita dopo le cure, e gli effetti a lungo termine a essi correlati. Pertanto, l’obiettivo della web-community è quello di fornire uno strumento di supporto per superare la situazione di isolamento e durante situazioni cliniche deteriorate che disincentivano l’interazione face to face. Si promuoverà quindi un corretto utilizzo dello strumento internet. La piattaforma online sarà moderata da una professionista Psicologa che favorirà le interazioni tra i ragazzi e li supporterà nel momento del bisogno. I giovani pazienti sceglieranno un nickname al momento dell’arruolamento attraverso cui potranno mantenere l’anonimato se lo desiderano. Avranno a disposizione nella piattaforma un proprio profilo dove inserire una breve biografia, una bacheca dove condividere pensieri e emozioni e un diario di bordo che diventerà la raccolta dei loro racconti. La stessa piattaforma promuoverà attività “virtuali” di svago e apprendimento di natura artisticoculturale, inerenti il mondo della musica, dell’arte, della lettura, della cinematografia, del canto, della scrittura creativa, della fotografia ed altro ancora, utilizzando i canali comunicativi ed espressivi più vicini al mondo giovanile. Molte di queste attività saranno svolte con la partecipazione di ospiti professionisti invitati per l’occasione (come ad esempio musicisti, scrittori, registi) al fine di creare un laboratorio interattivo in grado di indirizzare la passione e l’energia dei soggetti coinvolti verso la nascita di nuove idee, nuove abilità e nuovi interessi nei giovani pazienti. Il G-Lab, che costituisce l’aspetto operativo del G-WEB, prevede lo spostamento delle attività dal campo virtuale a quello fisico, compatibilmente con la necessità di cura di ogni singolo paziente, utilizzando uno spazio vero e proprio per le attività scelte.
Le attività si svolgeranno in un luogo indicato dalla Direzione dell’Istituto, all’interno dell’Istituto stesso, previa prenotazione. Anche questa seconda fase prevede la partecipazione di esperti in alcune attività tra le quali lezioni di canto, attività artistiche legate a esperienze di pittura, teatrali, di 30


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elaborazione grafica, di realizzazione di video e di utilizzo di uno strumento musicale. Ogni soggetto potrà inoltre proporre un’attività, legata a un suo hobby, a una sua abilità o semplicemente a un “saper fare” in cui si sente competente, e potrà rendersi disponibile a insegnare e trasmettere i principi e le tecniche di tale attività così da creare un’interazione all’interno del gruppo che vada ad arricchire tutti i componenti e realizzare la condivisione di esperienze e conoscenze.
 Il G-WEB, attraverso la sua parte operativa G-Lab vuole stimolare, attraverso il coinvolgimento di quanti avranno aderito al programma, la partecipazione attiva dei giovani pazienti. Tutti i soggetti coinvolti, attraverso la progettazione di attività e la costruzione di laboratori, promuoveranno lo scambio di competenze tra i membri della community, attivando percorsi di reciprocità e valorizzando storie ed esperienze vissute, per trasformare la degenza da percorso “subìto” in momento di scambio, comprensione condivisione e accoglienza, da periodo di oggettiva difficoltà in momento di crescita e consapevolezza.
 Il Progetto coinvolgerà numerose figure che daranno vita in modo individualizzato – taylor made – a un laboratorio creativo, gioioso e ludico, in grado di arricchire la vita dei giovani pazienti durante il ricovero, offrendo, in un percorso liberamente scelto, aiuto psicologico, attività creative, esperienze di ascolto e di arricchimento delle potenzialità di ogni singola persona in termini di consapevolezza, di dialogo, d’interazione. 4. Conclusioni La malattia stessa rappresenta un’esperienza intensa che può sfociare in una grande opportunità per riportare l’attenzione sul senso della vita e su se stessi. In questo percorso, è possibile creare, perseguire e raggiungere nuovi obiettivi dando nuovamente un senso alla propria vita. Questo processo permette di trovare e affermare la propria identità e la propria individualità e permette di interpretare la malattia nella sua essenza più profonda per trasformarla in un’esperienza positiva du31


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rante il percorso di cura, caratterizzato da tanti ostacoli e sofferenze. I giovani, a differenza degli adulti, non hanno ancora la piena maturità e tutti gli strumenti psicologici per affrontare questo percorso da soli e rendere possibile questa trasformazione. Il progetto G-WEB/G-Lab ha lo scopo primario di sostenere i giovani pazienti nelle difficoltà della diagnosi e del percorso di cura e di aiutarli a elaborare attivamente quanto sta a loro accadendo, affinché ciò possa generare consapevolezza, maturità e crescita.

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CONSAPEVOLMENTE - Capitolo I

Capitolo 1 CURA E PRENDERSI CURA: UNA COMUNITÀ TERAPEUTICA IN CAMMINO GLI ADOLESCENTI CON TUMORE: DAL PROGETTO GIOVANI A SIAMO Andrea Ferrari Ammalarsi di cancro mentre si va alla superiori. Trovarsi all’improvviso a dover sostituire i compagni di classe con i compagni di corsia, gli esami di scuola con gli esami del sangue, l’ansia di un primo bacio con l’ansia del primo ciclo di chemioterapia. Cosa succede nella testa di un ragazzo, quando tutto ad un tratto si trova a dover affrontare la diagnosi e la cura del tumore, mentre è chiamato contemporaneamente – nell’adolescenza - a non perdere l'appuntamento con il raggiungimento di tappe fondamentali del suo sviluppo, personale e relazionale? A fare i conti con un corpo che non funziona e che fa male? A richiedere l'aiuto del mondo degli adulti (i genitori, i medici) proprio in un momento di grande spinta all'indipendenza? Comunicare attraverso l’arte Ci raccontano Carlo Clerici e Laura Veneroni, gli psicologi del nostro gruppo, che l’evento drammatico e doloroso della malattia può diventare traumatico in senso stretto, cioè avere un impatto a lungo termine sul benessere psicologico dell’individuo e quindi sulla sua vita quotidiana, quando non viene elaborato emotivamente, cioè quando non riesce ad essere vissuto dall’individuo come parte integrata della propria storia. Il processo di elaborazione è però spesso complesso. La sfida è quella di trovare una via per avvicinarsi al mondo personale dei pazienti, entrare in contatto con la prospettiva soggettiva dei ragazzi, fatta di pensieri, paure, aspettative. Magari sperimentando metodi innovativi di comunicazione. L’obiettivo è quello di permettere ai pazienti l'espressione 33


CONSAPEVOLMENTE - Capitolo I

dei propri pensieri e vissuti in una prospettiva di libertà e creatività e non solo in una prospettiva d'ascolto specialistica, medica o psicologica. Per i ragazzi malati di tumore è fondamentale poter raccontare ad altri, professionisti o coetanei, la loro storia: come sono arrivati alla diagnosi di tumore, che terapie stanno seguendo e che disturbi hanno, quali sono le loro paure e le loro speranze. Gli psicologi ci insegnano ancora, però, che la complessità del processo dell’elaborazione del trauma, non sempre prevede passaggi esprimibili a parole, non sempre segue percorsi logici e razionali. In questo senso, la prospettiva artistica può diventare fondamentale per trovare uno sguardo diverso sulla realtà, per permettere una rielaborazione dei pensieri e dei sentimenti. L'espressione artistica, spesso non basata sulla logica razionale, può mostrare senza dover spiegare, può restituire valore alle cose, permettendo di mettere in luce la bellezza delle situazioni e delle persone. La musica per esempio. Da soli chiusi in camera, in coppia o in un gruppo o in un concerto. La musica che fa salire dal profondo emozioni confuse e indistinte. Che fa raccontare senza parlare. La musica attraverso la quale i ragazzi possono esprimere cose che è difficile anche pensare: la ricerca di se stessi, della propria identità, il significato dell’esistere, l’amore, il sesso, il desiderio di rivolta, la paura della morte, la speranza. La musica calmante, catartica e simbolica. La musica costruita, suonata e cantata insieme, in un percorso di gruppo in cui ognuno contribuisce come vuole e come può. Così nel 2013 è nata “Nuvole di Ossigeno”, la canzone scritta dai nostri ragazzi con Faso, il bassista di Elio e Le Storie Tese, e la vocalist Paola Folli. Venti ragazzi di età compresa tra i 15 e i 25 anni hanno partecipato al progetto: metà erano in cura per il loro tumore, metà avevano già terminato i trattamenti ed erano in follow-up. Il percorso totale è durato 8 mesi, con incontri con cadenza ogni 10-15 giorni, 4 mesi di progettazione, 2 in sala di incisione, poi la fase di produzione e infine il lancio della canzone con una serata. Per creare insieme una cosa bella, portare ossigeno, ma anche solo per stare insieme. Per raccontarsi insieme. 34


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Per non sentirsi soli ad affrontare la paura e l’incertezza del futuro. Puzzle di frasi, immagini, ricordi, paure e speranze. Insieme di note canticchiate in motorino o sotto la doccia - o in sala d’attesa – e poi fuse insieme, inframmezzate ai suoni dell’ospedale, il rumore ritmico della pompa della chemioterapia e l’allarme delle infermiere. Per ricordare a tutto il mondo che “la cosa più bella che si possa provare e' la consapevolezza di avere un futuro ed esserne padrone”. La storia di “Nuvole di Ossigeno” è poi diventato un articolo sul prestigioso Journal of Clinical Oncology, una delle più importanti riviste internazionale di oncologia, la vetrina dove ogni oncologo sogna di pubblicare. “Clouds of oxygen: adolescents with cancer tell their story in music” usa le parole stesse dei ragazzi, tra pubblicazioni che parlano dei risultati dei grandi protocolli clinici, per raccontare il perché di un progetto speciale, dedicato ai giovani malati: un progetto che ha l’obiettivo di creare un nuovo modello di cura, che migliori gli aspetti clinici ma che insieme si avvalga anche di attività ludiche e culturali, per farsi carico non solo della malattia, ma della vita intera dei ragazzi che si sono ammalati. Una pubblicazione che diventa un grande momento di diffusione dei nostri progetti, ma anche la dimostrazione di come la comunità oncologica mondiale cominci a riconoscere pienamente l’importanza della qualità di vita dei pazienti e la necessità di affrontare in modo sistematico le problematiche dei pazienti adolescenti. Box 1. Testo “Nuvole di Ossigeno” Vedi, io devo vincere una guerra Tutta dentro me, lo so Non riesci a immaginarti Ma avrei bisogno di sentire che ci sei anche tu Qui con me E stringi le mie mani forte e poi Andiamo a fare un giro usciamo dai Fuori dalla corsia, a respirare Portami con te, lontano da qui Il cielo illumina un orizzonte limpido 35


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Nuvole d'ossigeno Poi fuggiamo via Nuotando dentro un mare blu Credi non è difficile sentire che ti sfugge via la realtà In questa storia assurda Stringere i denti se ti dicono che no non va come può Sfiorire la bellezza a questa età Non sembra neanche vero e adesso io Voglio andarmene via, per non pensare Portami con te andiamo via di qua Via da questo letto sfatto via da quel dottore matto Prendimi per mano insieme andiamo lontano Andiamo via andiamo insieme io e te Portami con te vediamo i tramonti di questo mondo Con questo mio testone tondo Ti prego portami in un'altra realtà Come il sole che tramonta dietro una città Sparisce sotto l'orizzonte una sola linea Portami con te in un'altra galassia A dimenticare questa corsia, quanta voglia di casa mia Certe volte servirebbe una camicia di forza per i pensieri Certe volte mi piacerebbe sapere quanta strada posso ancora fare Avrei voluto tante cose fossero andate per il meglio ma non tutto si può scegliere L'unica con è andare avanti andare avanti Bisogna avere solo la pazienza e la forza di aspettare Quando pensi dia finita alza la testa Ipod a palla e riprenditi la vita La cosa più bella che si possa provare è la consapevolezza di avere un futuro ed esserne padrone Portami con te Lontano da qui Il cielo illumina Un orizzonte limpido Nuvole d'ossigeno Mentre il sole va Sparisce dietro la città

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CONSAPEVOLMENTE - Capitolo I

Figura 1. I ragazzi del Progetto Giovani posano come una vera rock-band (fotografia di Matteo Volta)

Box 2. I ragazzi del Progetto Giovani raccontano “Nuvole di Ossigeno” “Poi fuggiamo via - Nuotando dentro un mare blu” Elisabetta, 20 anni, sarcoma delle parti molli: “E’ una delle frasi che ho scritto io. Amo il mare, che per me ha sempre voluto dire fuga dalla vita quotidiana; ancora di più adesso che la vita quotidiana vuol dire chemioterapia. Per me “Nuvole di Ossigeno” è stato un po’ un modo per scappare dalle mie paure, ma anche l’opportunità di fare insieme un percorso con ragazzi che avevano il mio stesso problema. Capire che non era solo un problema mio. Condividere ansie e preoccupazioni. Ma soprattutto per me è stato un modo di raccontarmi”. “Stringere i denti se ti dicono che no non va come può” Matteo, 18 anni, medulloblastoma: “Stringere i denti per sfidare la malattia, ma stringere i denti anche per non far vedere quanto profondamente si è delusi e tristi, stringere i denti davanti ai genitori perché anche loro stanno soffrendo molto e non voglio farli soffrire di più”.

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CONSAPEVOLMENTE - Capitolo I

"Come puo sfiorire la bellezza a questa eta’ - Non sembra neanche vero" Valeria, 16 anni, sarcoma delle parti molli: “Quando si cresce e ci si aspetta di diventare sempre più forti e più belli… si ha voglia di piacere agli altri e di piacere a se stessi... e poi con la malattia perdi i capelli, il tuo corpo cambia, non ti piaci più e hai paura di non piacere più agli altri… Questa cosa rischia di metterti a disagio, di spingerti a stare da sola perché ti vergogni a farti vedere così, hai paura che gli amici ti trattino in modo diverso e che ti rifiutino…” “Ma avrei bisogno di sentire che ci sei anche tu - Qui con me” Camilla, 20 anni, osteosarcoma: “Affrontare da soli questo percorso non è possibile, non lo può fare un adulto, tantomeno lo può fare un ragazzo. Io mi sono sentita tagliata fuori dal mondo, dai compagni di classe. Avvertivo la distanza da loro, magari non voluta, ma era così. Io volevo solo essere trattata normalmente, come tutti, non da ragazza malata. E alla fine ero sola. E finivo a dover dipendere dagli adulti - dai medici e dalla mamma, che era bravissima, mi dimostrava tutto il suo amore, ma alla fine non la sopportavo più – proprio nel periodo in cui cercavo di staccarmi dal mondo dei grandi, in cui cercavo la mia strada verso l’indipendenza”. “Io devo vincere una guerra - Tutta dentro me” Alessando, 16 anni, linfoma di Hodgkin: “Ho scritto questo perché combattere la malattia è proprio come combattere una guerra, ma una guerra particolare, contro un pezzo di sé. Le terapie sono le armi, che dal di dentro combattono contro un nemico che è dentro il tuo corpo. È una cosa strana, una cosa con cui non è semplice fare i conti” “La cosa più bella che si possa provare è la consapevolezza di avere un futuro ed esserne padrone” Eleonora, 17 anni, sarcoma di Ewing: “Questa è una delle frasi cruciali della canzone, che tutti i ragazzi del progetto sentono loro. Fino a ieri c’era un futuro vago ma comunque tracciato: finire il liceo, l’università, lavorare, viaggiare, costruirsi il futuro passo dopo passo. D’un tratto tutto questo perde la sua definizione, il futuro è “quando finisco il primo ciclo”, “quando esco dalla tossicità”, “quando posso tornare a casa”. È una tipologia di futuro molto diversa. Un futuro a breve. Viene persa la sensazione di essere artefici del proprio destino e ci si deve mettere nelle mani di un altro. Noi abbiamo solo bisogno di 38


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tornare ad essere padroni del nostro futuro, e di un futuro a lungo termine, quell’orizzonte limpido del testo, quello che vedi dalla cima di una montagna”

La musica come strumento di espressione, ma anche la moda. Curarsi con la bellezza. Vivere con forza il momento della vita – questo particolare momento della vita - progettando il proprio stile personale. Per piacersi. Piacere a se stessi, comunque, nonostante la malattia. E piacere agli altri. Progettando la moda per sé, ma anche per gli altri. I nostri ragazzi che inventano la moda cambiano la loro posizione rispetto al mondo dei coetanei: non più ai margini delle cose che succedono nel mondo, ma al centro di tutto, ideatori di tendenze nuove, ispirazione per gli altri. Così è nata nel 2012, B.LIVE - essere credere vivere – una vera collezione di moda creata dai nostri ragazzi con la stilista Gentucca Bini. Ancora una volta incontri, laboratori, discussioni. Sei mesi di lavoro. Colori, tessuti, libertà, creazione pura, bellezza. E poi la sfilata di moda, alla fine di tutto il percorso, per una serata indimenticabile. Progetti speciali per storie speciali. Figura 2. I ragazzi del Progetto Giovani creano la collezione di moda B.LIVE (fotografia di Laura Larmo)

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O il murales con il writer Bros. Mobilitazione di pennelli e vernice, tanta buona volontà, molte risate. Sul terrazzo dell’ospedale, mattoni colorati. Verde come la menta e i boschi, verde come la libertà, l’allegria e la speranza. Giallo come il sole e i limoni, come l’estate e le risate. Rosso, pieno di energia, amore, spavalderia, pomodori, anche rabbia. Blu, salato come il mare, blu come la liqui40


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rizia e l’innocenza. E il nero della macchia che esce dal muro. Un altro modo per portare la bellezza in ospedale, un altro modo per far esprimere i ragazzi. Uno sguardo artistico, un pensiero emozionato. Muoversi con leggerezza tra cose che leggere non lo possono proprio essere. Muoversi con speranza. Perché quando c’è spazio per i colori, per pensare alle cose belle, c’è spazio per la speranza. C’è spazio per la normalità della vita. Attraverso i colori – come attraverso la musica o la moda - i ragazzi ci raccontano le loro storie. Ma ci parlano anche di tutti gli altri ragazzi che si ammalano di tumore. Con precisa presa di coscienza, con coraggioso senso di responsabilità, i nostri ragazzi diventano i preziosi testimoni di un progetto che ha dietro qualcosa di più grande di una canzone o di un murales. Diffondono messaggi forti e chiari: vogliono far sapere che ci si può ammalare di tumore anche nell’età dell’adolescenza; che si può guarire; ma solo se si riesce a ricevere le cure giuste nei tempi giusti; che servono ospedali pensati per loro, con servizi e progetti specifici. Figura 3. Il murales sulla terrazza dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano. I ragazzi e lo staff lavorano insieme. Tra loro, si infiltra una piccola paziente desiderosa di dare una mano (fotografie di Veronica Garavaglia)

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Uno dei concetti fondamentali alla base dei laboratori creativi del Progetto Giovani è quello di utilizzare la “progettualità” come una medicina potente per i ragazzi in cura. L’idea alla base dei vari progetti è sempre quella di costruire insieme un progetto, un percorso che duri molti mesi, con un obiettivo finale molto concreto. Per ragazzi il cui futuro a breve termine è comunque incerto, pensare al futuro – a un obiettivo futuro, condiviso con altri ragazzi – è una forma di terapia. Che non si sa se serva a curare il tumore, ma che di sicuro cura l’anima. E così i progetti sono andati avanti, come raccontato nel volume “Non c’è un perché: ammalarsi di cancro in adolescenza” (Ferrari A. Milano, FrancoAngeli editore, 2016). Il laboratorio del 2015 è stato costruito sulla scrittura. Con la guida della scrittrice Lorenza Ghinelli, insegnante alla Scuola Holden di Torino, i ragazzi del Progetto Giovani hanno scritto un romanzo che parla di supereroi: supereroi che si ritrovano, per diverse ragioni, in un ospedale e qui scoprono i loro talenti nascosti, i loro superpoteri per combattere il male. Ogni ragazzo ha voluto creare il proprio personaggio, inventandone anche 42


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il passato: ha cercato, in parole semplici, a provare a tirare fuori il supereroe nascosto dentro di sé. Ne è uscita una storia piena di temi importanti, una storia che parla di isolamento – quello che spesso provano i pazienti rispetto agli amici e i compagni di scuola – e di rabbia, di senso del gruppo e di bisogno di aiuto - i ragazzi insegnano che è la strada della cura è un percorso che non si può fare da soli - e di cambiamento. Una storia con un stile un po’ pulp, che alla fine diventerà la sceneggiatura di una graphic novel, “Indietro non si torna”, in uscita nell’autunno del 2017. Il progetto successivo, realizzato dall’autunno del 2015 all’estate del 2016, è stato incentrato sulla fotografia. Tre fotografe professioniste (Alice Patriccioli, Veronica Garavaglia e Donata Zanotti), coordinate da Paola Gaggiotti (coordinatrice artistica del Progetto Giovani), hanno insegnato a una trentina di ragazzi ad usare una macchina fotografica reflex ma anche a fare fotografie originali con lo smart phone, oppure a usare i programmi di fotoritocco. Soprattutto, però, le professioniste hanno aiutato i ragazzi a costruire un progetto individuale che permettesse loro di esprimere i loro sentimenti attraverso delle immagini. Come per altri progetti del Progetto Giovani, la scelta del tema è partita dai ragazzi stessi: “La ricerca della felicità”. Ogni paziente ha elaborato un suo cammino personale. La ricerca della felicità fra i ragazzi in cura ha preso due direzioni individuali: una di evasione - non pensare alla malattia, cercare la felicità nella normalità delle cose della vita di tutti i giorni (quella normalità, però, che la diagnosi di cancro e le terapie vogliono portar loro via) - l'altra che considerava la malattia come momento di partenza per ripensare l'idea stessa di felicità. Molti ragazzi nelle loro immagini hanno raccontato di abbracci con genitori e nonni, di viaggi, di amici, di auto da corsa, di natura. Dai loro appunti: “la felicità è il sole d’inverno”, “le lasagne della mamma alla domenica”, o ancora “sentire la mia musica steso sul divano”. Ma anche: “felicità è poter avere una vita da vivere”, “felicità è fare le scale senza reggermi”, “felicità è riuscire a non sprecare nessun momento”. E c’è anche questa frase: “per 43


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trovare davvero la felicità devi prima perderla”. Altri pazienti, invece, hanno scelto di fotografare se stessi e di raccontare in modo molto diretto la loro malattia, con immagini anche forti. Martina ha prodotto autoscatti malinconici. “Nelle mie fotografie ho voluto di rappresentare ciò che è stata la mia ricerca della felicità in questo periodo della mia vita. Da un lato l’evidenza dei cambiamenti del mio corpo (la perdita dei capelli, la perdita di peso, il non poter apparire più come prima, sia esteticamente che nello spirito). Dall’altro, il mio rifiuto a soccombere a questi cambiamenti: cercare la bellezza, i sorrisi e la libertà, nonostante tutto. Non è stato facile. Tutti noi pazienti malati di tumore ci poniamo l’obiettivo di ricercare la felicità. Talvolta la felicità sembra un qualcosa di irraggiungibile. Io, grazie al Progetto Giovani, ho trovato dentro me una forza che non credevo di avere; e l’ho trovata anche in tutti i ragazzi che qui ho conosciuto. Ho imparato a trovare la felicità nelle piccole cose normali di tutti i giorni”. Figura 4. Autoscatto di Martina, alla “ricerca della felicità”

Per Sefora (in cura per sarcoma sinoviale) togliersi la parrucca davanti all’obiettivo e mostrarsi senza capelli ha 44


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voluto rappresentare l'iconografia del cancro, ma anche la sua sfida, il suo guardare la malattia in faccia. Sefora ha voluto cercare la sua felicità nel gesto di riappropriarsi della sua bellezza. Figura 5. Nell’autoscatto di Sefora, si legge orgoglio, ma rabbia e fatica

I ragazzi hanno poi chiesto alle fotografe professioniste di fotografarli. Anche queste fotografie le hanno progettate i pazienti: hanno voluto fotografare i loro sorrisi e le loro cicatrici. I due estremi del loro percorso di ricerca della felicità. Racconta Sefora nel libro “Non c’è un perché: ammalarsi di tumore in adolescenza” (editore FrancoAngeli): “Sapevo benissimo, prima di ammalarmi, dell'esistenza di questa malattia, ma l'errore - o forse la cosa 45


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che normalmente accade ad un adolescente - è pensare di essere invincibile, intoccabile. (…) La domanda fissa era: perchè a me?”. Sefora ha pensato ad una fotografia (realizzata da una delle fotografe professioniste) in cui si vedessero le sue due anime, quelle arrabbiata e quella che cerca comunque la bellezza della vita. “La fotografia che ho voluto fare spiega bene come mi sentivo: ero piena di rabbia e di voglia di urlare, di urlare alla vita, che mi stava facendo la guerra, che io ero una guerriera, che ero pronta a lottare; ma al tempo stesso questa fotografia spiega che ero sempre io, un’adolescente con voglia di sorridere e di vivere la mia vita con gioia e entusiasmo”. È questa un’immagine che descrive una situazione tipica dell’essere adolescente ammalato di cancro: il dualismo tra paura, sofferenza, rabbia e, dall’altro lato, speranza e voglia di vivere. Un dualismo che può essere difficile da accettare in un momento particolarmente delicato della crescita come l’adolescenza. Il dolore e la rabbia devono trovare una via di espressione: i ragazzi malati hanno bisogno di occasioni e strumenti che diano loro la possibilità di affrontare il tema delle loro preoccupazioni. Figure 6. Sefora, con la parruca, mostra al fotografo le sue due anime, una piena di rabbia e una piena di vitalità e gioia (fotografia di Veronica Garavaglia)

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Il percorso della fotografia è poi culminato in un evento, la mostra “Riscatti, la ricerca della felicità”, di 80 immagini, organizzata a febbraio 2017 nel prestigioso spazio del Padiglione di Arte Contemporanea di Milano (con il contributo di Federica Balestrieri e Riscatti Onlus). Questo progetto, come gli altri progetti di supporto organizzati negli anni nell’ambito del Progetto Giovani, si è dimostrato capace di appassionare i ragazzi partecipanti, creare un gruppo, offrire loro uno strumento nuovo per esprimersi e raccontare le loro storie. Per gli adulti coinvolti nel progetto, è stata un’ulteriore esperienza speciale. Quando anni fa è stato lanciato il Progetto Giovani, noi come staff pensavamo di poter insegnare a questi ragazzi qualcosa. Oggi, dopo qualche anno, abbiamo capito che non si può pretendere di insegnare a sopportare l’angoscia e la paura di non farcela (o la paura di restare soli). Sono stati i nostri pazienti, invece, ad insegnare a noi ad aprire i nostri occhi, le nostre orecchie e il nostro cuore e ascoltare le storie che loro vogliono raccontare. Sono stati i pazienti che ci hanno insegnato a ripensare la relazione con loro in modo diverso: non tanto un dottore che deve curare un paziente malato di tumore, quanto un adulto che ha il grande privilegio di camminare fianco a fianco con un ragazzo, nel momento più difficile della sua vita. Queste esperienze ci dicono che i pazienti ci chiedono solo di esserci, di metterci a loro disposizione. Quello che dobbiamo fare noi è relativamente semplice: stringere una mano, stare in silenzio, cercare la leggerezza, affrontare la pesantezza, non mollare quando vorremmo, credere nel potere dei sorrisi. Dobbiamo credere nel potere dei progetti: dare con questi progetti ai nostri pazienti una visione diversa del futuro, che non sia solo il giorno della dimissione o il giorno del ricovero per il prossimo ciclo di terapia; ma la mostra fotografica, per esempio, che realizzeremo tra 9 mesi. Pensiamo oggi che sia nostro dovere, anche, inventare modi per aiutarle i pazienti adolescenti a raccontarsi, per aiutarli a portare la bellezza in questo luogo, l’ospedale, che diventa forza47


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tamente in parte la loro seconda casa. Perché quando c’è la bellezza, che anche la speranza. L’iniziativa del Progetto Giovani che certamente ha avuto la maggiore risonanza, però, resta probabilmente “Palle di Natale”. Ancora un progetto creativo basato sulla musica. Il racconto cantato di un Natale in corsia. Realizzata dai pazienti insieme ad un team di musicisti e autori coordinati da Stefano Signoroni (ricercatore in ambito genetico oncologico all’Istituto dei Tumori, ma anche compositore e cantante), “Palle di Natale (Smile! It’s Christmas Day)” racconta della leggerezza ma anche dello stile dissacrante e auto-ironico che usano in genere i ragazzi del Progetto Giovani. Lo spiega Matteo Davide, curato per un medulloblastoma: “Palle di Natale ha più significati: innanzitutto le nostre teste pelate per colpa della chemioterapia, poi certamente le palle dell’albero di Natale e le palle di neve, ma poi si riferisce anche a “che palle stare in ospedale a Natale!” (che nello slang dei teenager vuol dire “che noia”), o anche alle “palle” (intese come bugie) che la gente spesso ci racconta”. La musica scelta è stata quella di una canzone pop dai tratti vintage. “E’ una musica che ci sembrava perfetta per evocare le atmosfere gioiose del periodo natalizio – dice Michele, in cura per un osteosarcoma – ma anche che comunica l’allegria che viene dal semplice stare insieme”. Il valore della condivisione emerge anche dal ritornello, cantato in coro da tutti i ragazzi, e dalle strofe, in cui si alternano diversi ragazzi. E poi c’è il video, realizzato da CloverThree, con la regia di Jacopo Sarno. Anche la storia del video nasce da un’idea dei pazienti adolescenti. Racconta di una festa di Natale organizzata in ospedale: i medici e gli infermieri entrano nelle stanze del reparto e le trovano vuote e alla fine scoprono che tutti i ragazzi sono raccolti nella stanza del Progetto Giovani a montare l’albero di Natale e festeggiare. “E’ stato bello costruire il video insieme ai medici e agli infermieri – dice Isabella, in cura per osteosarcoma – questo modo del Progetto Giovani di lavorare insieme, noi e loro, è meraviglioso. I medici ascoltano le nostre idee e le nostre richieste. Ci sentiamo davvero coinvolti nella progettazione delle cose che ci riguardano”. Nel 48


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percorso di sviluppo di progetti dedicati ai ragazzi, è di fondamentale importanza dare “voice and choice” ai pazienti adolescenti. Nel video, i ragazzi sono prima in pigiama (anche quelli venuti da casa loro, apposta per l’occasione del video, si sono portati il pigiama), poi si vestono in modo molto elegante, da festa. “Questi progetti ci servono a farci tornare la voglia di essere belli – dice Martina, in cura per rabdomiosarcoma - servono a riportare la bellezza in ospedale”. Nel video, le immagini della festa si alternano alle scene di backstage acquisite in studio di registrazione. La parte più ricca di significati del testo è la parte rap. La spiega Samuele (21 anni, in cura per rabdomiosarcoma), che l’ha scritta e cantata: “Il concetto guida del testo da me scritto è la ”normalità”. Del resto l’intero Progetto Giovani dichiara di avere come dogma quello di promuovere la normalità dei pazienti. Ho immaginato una scena in cui un ragazzo in cura pensa al Natale che si avvicina; e si accorge che l’unico regalo che desidera è un Natale normale, magari banale, con la mamma che prepara il pranzo. La scatola che ha davanti non è la scatola dei desideri, ma la scatola “dei desideranti”, cioè di tutti i ragazzi che si trovano nella sua stessa situazione, di anelare la consuetudine”. “La vera norma è la forma che diamo noi – canta Samuele - Siamo noi, i pazienti, a decidere che cosa è per noi il Natale, a decidere come vogliamo viverlo”. Con la frase “partono le musiche” c’è il cambiamento di umore, ma c’è anche la determinazione dei ragazzi malati di prendere possesso delle cose della loro vita, e anche di trasformarle: il tubo della flebo viene usato per addobbare le stanze, gli occhi sono luci che illuminano la stanza, i globuli bianchi si trasformano in fiocchi di neve, cerotti e bende sono il nastro della scatola dei regali. “Con quest'ultima immagine volevo anche trasmettere l'idea della cura: il regalo di Natale viene protetto da quell'insieme di persone (medici, infermieri, fisioterapisti ecc.) che dedicano la loro vita professionale a noi, che ci proteggono. E il regalo dentro la scatola, alla fine, altro non è che noi stessi, gli amici che condividono con noi questo percorso così difficile di cura, è il Progetto Giovani e tutto quello che ci da” – dice Samuele. 49


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Anche se quello che può fare il Progetto Giovani è regalare un’ipotesi di normalità, è preparare il terreno. Ma sono poi i ragazzi stessi a dare un senso a ciò che si stanno trovando a vivere (“la vera norma è la forma che diamo noi”). "Natale ha senso se tu sei con me” e “niente può dividerci" dice il testo della canzone: sottolinea l’importanza dei ragazzi malati di trovare un peer support, di condividere il percorso di malattia e di cura con ragazzi che hanno il loro stesso problema. “Condividere e sentirmi accolto – specifica Christian, in cura per un osteosarcoma – Costruire insieme Palle di Natale ha voluto dire trovare un modo per venire in ospedale, per un bel motivo: stare con gente che mi piace”. “Ridere con chi ha avuto le mie stesse esperienze” – conferma Riccardo, curato per un sarcoma delle meningi. “Non mi perdo neanche un attimo” dice una strofa di Palle di Natale. Una frase che sottolinea la voglia di vivere dei ragazzi, il bisogno di trascorrere in modo intenso ogni istante: “da quando mi sono ammalato apprezzo la vita in modo diverso – dice Riccardo. “Il mio contributo al testo è la frase 'la voglia di sorridere che non mi passa' – dice Leo, in cura per un sarcoma di Ewing – che spiega la nostra voglia di festa, nonostante tutto, nonostante il fatto incontrovertibile che siamo qui dentro, in ospedale”. Nel testo di Palle di Natale c’è anche la frase “Non è un film”: che spiega che questa non è finzione (come il film di Hollywood “Colpa delle stelle” o la fiction italiana “Braccialetti rossi); è la vita vera. Dove gli adolescenti si ammalano di tumore e dove possono morire. Un pezzo cruciale del testo, infatti, è la terza strofa: “Natale insieme con chi resterà, accanto a me, nell’anima, la nostra stella che ci illumina, sarai tu la mia risposta, ricomincio con più forza”. È un esplicito riferimento ai compagni di viaggio che non ci sono più. È successo ogni anno, in ogni progetto del Progetto Giovani: un gruppo di pazienti adolescenti inizia un percorso insieme e poi succede che ad un tratto uno dei ragazzi non viene più agli incontri. E poi, qualche tempo dopo, i pazienti vengono a sapere che è morto. Creando attività coordinate di aggregazione, programmi come il Progetto Giovani creano le condizioni 50


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per far nascere amicizie forti, ma anche possibili occasioni di ulteriore dolore. Sono situazioni di grande difficoltà e angoscia. Nella testa dei ragazzi il dolore per la perdita di un amico si sovrappone alla paura di poter subire lo stesso destino, di “essere il prossimo”. O al senso di colpa, come raccontava Camilla, guarita da un osteosarcoma: “il senso di colpa di avere avuto la fortuna di essere dal lato buono della percentuale di guarigione”. Il gruppo di medici e di psicologi si mette a disposizione dei ragazzi per gestire queste situazioni, anche se è difficile avere delle regole precise. Con coraggio, i pazienti adolescenti raccontano con Palle di Natale anche questa situazione. Dice Viola, nel libro “Non c’è un perché: ammalarsi di tumore in adolescenza”: “All’interno del gruppo sono tutti ben consci del rischio che qualcuno di noi possa ad un tratto non riuscire più a venire agli incontri, possa morire. Tutti, all’interno del gruppo, giorno dopo giorno si preparano ad affrontare questa situazione. È un pensiero dal quale dentro il reparto, dentro il Progetto Giovani, non si può prescindere. Il dolore di fronte alla morte di un compagno di strada è enorme. Ma quando accade, non ne veniamo travolti”. Dice Matteo Davide, curato per un medulloblastoma: “Chi resta si porta dentro la forza e il modo di essere di tutti gli altri, degli amici che ha perso. Chi resta accoglie un’eredità da portare avanti in termini di lotta e di attaccamento alla vita. Una grande forza acquisita. E ci aiuta tanto vedere la stessa forza negli adulti che lavorano insieme a noi”. Box 3. Il testo di Palle di Natale (Smile! It’s Christmas Day) Natale ha senso se tu sei con me la festa è pronta e sai che c’è che non mi perdo neanche un attimo se siamo qui e non è un film niente può dividerci è un’occasione per rinascere qualcosa che ti cambierà 51


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e questa voglia di sorridere che non mi passa, è un sogno in tasca è l’universo in una stanza In spite of everything it’s Christmas Day (a very Merry Christmas) my heart is full of joy and wishes (all I want for you) is happiness and the little things that make you laugh all I want for Christmas is your smile! Natale insieme con chi resterà accanto a me, nell’anima la nostra stella che ci illumina sarai tu la mia risposta, ricomincio con più forza In spite of everything it’s Christmas Day (a very Merry Christmas) my heart is full of joy and wishes (all I want for you) is happiness and the little things that make you laugh all I want for Christmas is your smile! RAP Il ragazzo della stanza 13 pensa Che le feste sono vicine e sua madre riempire la dispensa E riflette sul regalo che già si trova davanti Chiuso com’è nella scatola dei desideranti. Vorrebbe la normalità di ogni anno, la consuetudine Ma si tratta di un giudice che condanna all’abitudine La vera norma è la forma che diamo noi, nessuno dorma d’ora in poi, perché partono le musiche. Passami il tubo della flebo per fare gli addobbi, le lucine non servono bastano i tuoi occhi che illuminati di speranze illuminano le stanze e nei globuli bianchi vedono la neve a fiocchi. Dunque il ragazzo scarta il nastro di cerotti e bende Altrimenti poi il Natale chi ce lo difende! 52


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Dentro la scatola un biglietto che invita a recarsi dagli amici in sala d’affetto e infine lascia detto: “Ci vediamo in pediatria e condividiamo la magia” Firmato l’Istituto del Natale, speciale In spite of everything it’s Christmas Day (a very Merry Christmas) my heart is full of joy and wishes In spite of everything it’s Christmas Day (a very merry Christmas) my heart is full of joy and wishes (all I want for you) is happiness and the little things that make you laugh all I want is Christmas… and Christmas is your smile! Figura 7. I pazienti adolescenti in sala di incisione

La canzone e il video di Palle di Natale sono stati un incredibile e inatteso successo di disseminazione. Il video è diventato virale, come si dice oggi per i video più condivisi in rete, con oltre 6 milioni e 400mila visualizzazioni nel periodo del Natale 2016, superando ogni altra canzone natalizia professionale in Italia. In questo modo, il video è arrivato poi, attraverso la rete, ad interessare i 53


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principali mass media, che hanno dedicato ampio spazio alla storia della canzone e al Progetto Giovani. Un fenomeno di tale portata non era mai accaduto in Italia per un progetto realizzato da pazienti. L’inatteso successo è ancora più particolare se si considera che nessuna particolare strategia di disseminazione è stata attuata. Si è avuta una specie di auto-propagazione sulla rete, che ha seguito percorsi spontanei legati ai social networks (ed in particolare a Whatsapp chain messages), un fenomeno basato su meccanismi emotivi e non certo abituale per compagne di informazione di medicina e nello specifico di oncologia pediatrica. Il percorso di Palle di Natale – come gli altri progetti creativi - è stata un’esperienza importante per i pazienti adolescenti, ma anche per i medici e i vari professionisti che hanno avuto la fortuna di partecipare a questo progetto e hanno imparato tanto da questi ragazzi. Considerano un grande privilegio averne fatto parte. E amano ricordare lo slogan del team degli adulti del Progetto Giovani: “Sii entusiasta, sii creativo, sii il meglio che puoi”. Il Progetto Giovani I nostri pazienti adolescenti sono i primi testimonial del Progetto Giovani della Pediatria dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano. Un progetto lanciato nel 2011, ma un modo di vedere le cose che è iniziato molto prima. L’idea di creare un nuovo modello di organizzazione medica e di cultura specifica, con la sfida di occuparsi non solo della malattia, ma della vita dei ragazzi, facendo entrare in ospedale la loro normalità, la loro creatività, la loro forza, la loro bellezza. Il Progetto Giovani (www.ilprogettogiovani.it) è dedicato agli adolescenti (tra 15 anni e 18 anni) e ai giovani adulti (tra 19 e 25 anni) con tumori di tipo pediatrico, con lo scopo da un lato di ottimizzare l'accesso dei pazienti ai protocolli clinici e a servizi speciali come il supporto psicosociale o le misure di conservazione della fertilità, dall’altro di creare - in un reparto inizialmente nato per curare i bambini - spazi e iniziative dedicati esclusivamente ai pazienti in questa fascia di età. Il Progetto Giovani nasce all’interno della Struttura 54


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Complessa di Pediatria Oncologica dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, l’unico centro di oncologia pediatrica in Italia ad essere parte di un istituto oncologico (in genere, l’oncologia pediatrica nasce all’interno di un ospedale pediatrico o come parte di un dipartimento pediatrico all’interno di un ospedale generale). Questa particolare collocazione ha facilitato lo strutturarsi di una stretta collaborazione con oncologi medici dell’adulto e ha permesso nel corso degli anni lo sviluppo di una peculiare esperienza nella cura di alcuni tipi di tumore a cavallo dell’età adolescenziale-adulta (ad esempio i sarcomi dell’osso e delle parti molli o le neoplasie germinali), così come di situazioni cliniche specifiche come un tumore tipico dell’adulto (melanoma, carcinoma) che insorge in un bambino o in un adolescente, oppure al contrario giovani adulti che vengono colpiti da tumori di tipo pediatrico. Di fatto, non è mai esistito un limite massimo di età per il ricovero di pazienti, se affetti da tumori pediatrici: di 4,110 pazienti con tumore solido curati dal 1985 al 2010, il 26% erano di età maggiore di 15 anni (880 di età compresa tra 15 e 19 anni, 206 maggiori di 20 anni). Il Progetto Giovani: la cura degli adolescenti Il punto di partenza del Progetto Giovani resta quello di affrontare i fondamentali problemi clinici degli adolescenti malati. Grazie ad una canzone, una collezione di moda, un murales, il Progetto Giovani vuole far sì che la comunità oncologica italiana prenda piena coscienza del fatto che gli adolescenti ammalati di tumore sono pazienti speciali che richiedono attenzioni speciali. L’aspetto cruciale è questo: ogni anno in Italia circa 800 adolescenti (tra i 15 e i 19 anni di età) si ammalano di tumore e anche se globalmente circa tre adolescenti su quattro possono guarire grazie ai trattamenti multimodali più moderni, esiste di fatto un problema di accesso alle cure e di arruolamento nei protocolli clinici, in particolare se paragonato all'ottimizzazione dei percorsi di cura in atto per i pazienti <15 anni. Gli adolescenti corrono spesso il rischio di trovarsi in una "terra di nessuno" tra il mondo dell'oncologia pediatrica e il mondo dell'on55


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cologia medica dell'adulto, di essere inviati in ritardo ai centri di riferimento per la mancata consapevolezza che ci si può ammalare a questa età, o per la mancanza di percorsi di rete definiti, con il risultato che a parità di malattia e stadio un adolescente ha minori probabilità di guarigione di un bambino. Questo è il concetto fondamentale: gli adolescenti guariscono meno di quello che potrebbero. Per esempio lo studio di sopravvivenza EUROCARE 1995-2002 ha riportato la differenze di guarigione tra i pazienti di età compresa tra 15 e 24 anni e quelli di età inferiore a 15 anni: la percentuale di guarigione per i pazienti con leucemia linfoblastica acuta era dell'85% per i pazienti minori di 15 anni e del 50% per quelli tra 15 e 24 anni. Per l'osteosarcoma e per il sarcoma di Ewing, la differenza era 77% verso 60% e 66% verso 48%, rispettivamente. Nella fascia di età tra i 15 e i 19 anni, possono insorgere neoplasie tipiche dell’età pediatrica come leucemie e linfomi, neoplasie cerebrali, sarcomi dell’osso e delle parti molli (circa due terzi dei tumori dell’adolescente sono in realtà “tumori tipici del bambino”), ma cominciano ad essere presenti tumori di tipo adulto, come carcinomi e melanomi. Già questo è un problema. In questa fascia di età c’è un po’ di tutto e chi deve curare gli adolescenti deve in qualche modo essere esperto di tutto le patologie che possono insorgere in questa età, deve avere accesso a tutti i protocolli di cura, quelli dedicati ai tumori bambini e quelli dedicati ai tumori degli adulti. Inoltre, le cose sono ancora più complicate dal fatto che talvolta un certo tumore quando insorge nell’adolescente ha caratteristiche biologiche diverse ed andamento clinico diverso rispetto a quando insorge nel bambino o nell’adulto. Questo rende complicate anche le scelte di cura: non sempre è facile applicare semplicemente il protocollo di cura usato per un certo tumore del bambino ad un adulto. E viceversa. Inoltre, anche il cosiddetto “ospite” è diverso: lo stato ormonale, la distribuzione corporea di liquidi e grasso, le funzioni degli organi sono diverse tra bambino e adolescente. Un adolescente non è semplicemente un bambino più grande o 56


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un adulto immaturo. La tossicità di alcuni chemioterapici, quindi, può essere differente. La tollerabilità di alcuni protocolli può essere differente. Un altro aspetto fondamentale è poi quello che gli adolescenti hanno bisogni complessi e peculiari, legati all’insorgenza della malattia in un momento particolarmente delicato del processo di crescita: i ragazzi si trovano ad affrontare la diagnosi e la cura del tumore mentre contemporaneamente sono chiamati a non perdere l'appuntamento con il raggiungimento di tappe fondamentali del loro sviluppo, personale e relazionale; fare i conti con un corpo che non funziona e che fa male; richiedere l'aiuto del mondo degli adulti (i genitori, i medici) proprio in un momento di grande spinta all'indipendenza. Tra gli elementi peculiari che caratterizzano questo gruppo di pazienti, c’è il problema del ritardo diagnostico, la peculiarità della comunicazione della diagnosi in relazione all’età e la diversa consapevolezza della malattia, i peculiari bisogni psicologici e spirituali e gli aspetti comportamentali (alcol, fumo, stupefacenti), la compliance ai trattamenti, i problemi legati a sessualità, scuola, lavoro, rapporto con i coetanei, la particolare necessità di privacy, spazi dedicati, riduzione dell’ospedalizzazione, il problema della preservazione della fertilità. Il Progetto Giovani: percorsi e servizi dedicati Diversi dati ci raccontano di un mancato miglioramento delle percentuali di guarigione dei pazienti adolescenti, rispetto a bambini ed adulti. Uno dei fattori che gioca un ruolo importante in questo è la ridotta partecipazione ai protocolli clinici e quindi il limitato accesso alle migliori cure possibili. Lo sviluppo di protocolli clinici è indubitabilmente un momento fondamentale della ricerca oncologica, ma la partecipazione ai protocolli è di fondamentale importanza anche per il paziente stesso, che può beneficiare in tal modo del miglior trattamento conosciuto, dell’accesso a centri di eccellenza, della massima attenzione dei professionisti che si fanno carico della sua gestione, del rigore imposto dal protocollo stesso. Di fatto, però, gli adolescenti non vengono arruolati con regolarità nei protocolli clinici: cut-off di età, 57


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negli ospedali o nei protocolli stessi, rappresentano talvolta barriere insormontabili, ma molte volte è anche il medico a cui il paziente afferisce per la prima volta che non lo invia ai centri in grado di trattarlo in modo adeguato. Scopo principale del Progetto Giovani è sicuramente quello di mettere a disposizione del paziente i protocolli clinici – così come l’esperienza medica – per tutti quei tumori che possono insorgere in questa età di mezzo, cioè tumori sia di tipo pediatrico che di tipo adulto. Curare gli adolescenti vuol dire riconoscere la complessità della loro gestione, la necessità di una presa in carico globale, la necessità con un'equipe multi-specialistica in cui accanto all'oncologo lavorano quotidianamente psicologo, assistente sociale, educatore, intrattenitore, assistente spirituale, la necessità di infrastrutture e servizi adeguati. Fornire un supporto psicologico adeguato deve essere un obiettivo prioritario di chiunque voglia occuparsi di adolescenti malati, attraverso il coinvolgimento diretto di tutto il team, ma anche grazie al supporto specialistico. Presso la Pediatria Oncologica dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, due specialisti di psicologia clinica fanno parte stabilmente dello staff medico e lavorano ogni giorno in stretta collaborazione con gli altri membri del personale, in modo da poter stabilire un rapporto continuativo con i pazienti, e uno di essi si occupa in modo specifico degli adolescenti e incontrano sistematicamente ogni nuovo paziente ricoverato. Un aspetto particolare è quello del ritardo diagnostico. Diversi studi hanno evidenziato come in molti casi i pazienti adolescenti arrivino alla diagnosi con ritardi eccessivi (137 giorni di intervallo mediano tra la comparsa del primo sintomo e la diagnosi per gli adolescenti, contro 47 giorni per i bambini, nella nostra serie di 425 pazienti). Questo ritardo dipende sia da quanto rapidamente il paziente e la sua famiglia si rivolgono ad un medico in seguito alla comparsa dei sintomi, sia dalla interpretazione di questi sintomi da parte del primo medico che ha visitato il paziente e dalla conseguente adeguatezza e rapidità dell’invio ad un centro oncologico. 58


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Alla fine, la diagnosi e l’inizio delle cure possono essere così tardivi, lo stadio della malattia più avanzato, le possibilità di guarigione minori. Di fatto, è evidente come la consapevolezza che anche gli adolescenti possano ammalarsi di tumore sia ancora insufficiente non solo tra i giovani e le loro famiglie ma anche in ambito medico. L’adolescente non è più “controllato” dai genitori, spesso ha quel senso di invincibilità tipico dell’età o tende a fidarsi poco degli adulti in generale e dei medici in particolare. Ma anche i medici stessi possono talvolta sottovalutare sintomi aspecifici in questa fascia di età più che in altre. Occuparsi di adolescenti vuol dire occuparsi in qualche modo anche di questo fatto sconfortante. Tra le possibili misure correttive per ridurre il ritardo diagnostico negli adolescenti, lo staff coinvolto nel Progetto Giovani ha pensato di puntare l’attenzione sul problema della comunicazione, che in molti casi è insufficiente se non addirittura errata, studiando i percorsi di comunicazione dei teenagers e cercando di utilizzare gli strumenti e i canali utilizzati appunto dai giovani, come Internet, Youtube, Facebook (dove spesso di trovano informazioni inadeguate e fuorvianti), con la produzione di video informativi, semplici ma precisi, dedicati ai ragazzi e alle famiglie. Sempre per l’aspetto della comunicazione, fondamentale in un contesto in cui appare evidente la generalizzata mancanza di consapevolezza del problema della qualità di cura del paziente adolescente con tumore, sono stati organizzati convegni, locali e di portata nazionale e internazionale, ed è stata effettuata una vera e propria campagna di stampa, con articoli e interviste su giornali, radio e televisione. Il supporto psicologico va di pari passo a quello sociale: insegnanti ed educatori (di cui uno dedicato a tempo pieno ai ragazzi grandi) hanno un ruolo importante per ridurre le reazioni disadattive alla malattia. La perdita di un anno di scuola può avere un importante impatto negativo sulla futura vita sociale e sono stati organizzati pertanto diversi livelli di intervento, da supporti per rendere i pazienti in grado di frequentare regolarmente la propria scuola, alla “scuola in ospedale” per i pazienti ricoverati oppure costretti a stare lontani da casa 59


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per lunghi periodi, alla “scuola a casa”. Quando si ha a che fare con giovani adulti, può anche capitare che il personale debba rispondere a problemi che riguardano anche il lavoro dei pazienti: un ruolo fondamentale, a questo proposito, è giocato dagli assistenti sociali in staff, che incontrano i pazienti e aiutano le famiglie in vari modi, dai possibili aiuti economici all’ospitalità presso strutture convenzionate, al supporto ai pazienti stranieri. In molti casi, per gli adolescenti l’incontro iniziale con gli assistenti sociali è spesso il primo passo per l’adattamento e la riorganizzazione della propria vita in funzione dei nuovi bisogni che la diagnosi di cancro comporta. Un altro aspetto cruciale è quello della spiritualità: l’adolescenza, più di ogni altra, è l’età delle grandi domande sul senso della vita (chi siamo, dove andiamo, che significato ha l'esistenza). La malattia e la sofferenza interferiscono inevitabilmente con questi processi (che sono di per sé già critici) e medici e psicologici possono talvolta non essere sufficienti per aiutare i pazienti adolescenti ad affrontare questa situazione. La nostra esperienza di collaborazione, ma anche di ricerca, con l’assistente spirituale può essere un modello di approccio al mondo dei ragazzi malati. Il cappellano (ma in contesti culturali e in paesi diversi l’assistente spirituale può benissimo essere un’altra figura) è presente costantemente in reparto, e non chiamato solo in caso di bisogno e di necessità di riti (come per esempio l’estrema unzione), fa parte dello staff, incontra quotidianamente gli psicologi e il team medico. Solo la presenza costante e attiva dell’assistente spirituale durante tutte le fasi della malattia e della cura può permettere la creazione di una vera relazione e garantire così le istanze spirituali dei pazienti e dei loro familiari indipendentemente dall'appartenenza religiosa e culturale. Di fatto, la stessa Joint Commission for Accreditation of Hospital Organizations dice che, per l’esigenza di tutelare i diritti dei pazienti in un’accezione ampia, è auspicabile in un ospedale moderno un’assistenza ai bisogni spirituali integrata con le cure multidisciplinare. Tra i servizi particolari da implementare nell’ambito dei progetti dedicati agli adolescenti ci sono anche le 60


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misure di conservazione della fertilità (soprattutto per quei pazienti la cui terapia antitumorale prevede la radioterapia sulla regione pelvica o l’uso di regimi chemioterapici contenenti alchilanti). Chi vuole occuparsi di pazienti in questa fascia di età deve essere in grado di fornire servizi come la crioconservazione degli spermatozoi, la trasposizione delle ovaie o, anche se più complessa, la crioconservazione degli ovociti. L’intervento degli psicologi è utile anche in questo contesto: la comunicazione di un danno potenziale alle proprie capacità riproduttive può avere un impatto psicologico importante sui giovani pazienti. Un ulteriore problema è quello dell'accesso alle cure mediche appropriate per gli adolescenti e giovani adulti che hanno completato con successo la terapia. La maggior parte di questi pazienti richiedono un attento monitoraggio a lungo termine a causa dei rischi di ricaduta, ma anche dei rischi di sequele iatrogene; inoltre è necessario anche un opportuno e competente follow-up psicosociale, in parte per individuare le esigenze inespresse e le eventuali conseguenze psicopatologiche della diagnosi il tumore e del trattamento, che possono incidere in modo significativo sulla vita futura di questi pazienti, e in parte per aiutare gli adolescenti guariti di cancro a costruire una vita adulta indipendente. Vari modelli sono stati proposti per promuovere l'accesso alle cure/controlli dopo la terapia e per regolare il passaggio, a volte traumatico, dal sistema sanitario centrato sul bambino a quello degli adulti. Il modello proposto dalla Pediatria Oncologica dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano prevede uno schema flessibile, in cui le visite di controllo vengono effettuate nell’ambulatorio pediatrico, in giorni dedicati, programmate secondo le caratteristiche di ciascun paziente (della neoplasia e del trattamento ricevuto), indipendentemente dall'età del paziente. Dopo il decimo anno dalla fine delle cure, il follow-up prosegue con soli contatti telefonici annuali per i casi a "basso rischio" (pazienti curati senza radioterapia o agenti alchilanti, quindi senza elevati rischi di sequele funzionali), o con programmi dedicati per i pazienti ad "alto rischio" (es. riabilitazione neurologica e monitoraggio endocri61


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nologico per i pazienti guariti da tumore cerebrale, monitoraggio cardiologico per i pazienti trattati con antracicline, screening della mammella in fase precoce dopo la radioterapia alla parete toracica). In casi selezionati, quando è richiesta una competenza specifica (es. i pazienti affetti da melanoma sono probabilmente più adeguatamente controllati dai dermatologi), è proposto un trasferimento ai reparti dell’istituto dedicati agli adulti (modello di switch sito singolo), anche se viene mantenuto comunque un contatto con il personale pediatrico. Il Progetto Giovani: spazi e progetti Il Progetto Giovani ha previsto la creazione di spazi multifunzionali dedicati, attraverso la riconversione di tre stanze in precedenza dedicate ad altro (due laboratori e uno spogliatoio): una stanza multifunzionale per tenere corsi, ma anche per semplice svago, arredata con poltrone, TV, computer e connessione Internet, strumenti musicali, libri, riviste, DVD, radio; una stanza tranquilla con diverse postazioni computer per leggere, chattare e anche studiare; una palestra di 30 m2, sullo stesso piano del reparto, fornita di attrezzi vari, con un personal trainer con competenze specifiche. Oltre agli spazi dedicati, sono necessarie iniziative, progetti e laboratori specifici pensati per provare a trasformare l’ospedale in un luogo un po’ speciale, per dare il maggior spazio possibile all’identità, alla creatività, alla bellezza dei ragazzi, per dare ai ragazzi dei mezzi di espressione particolari. Un aspetto fondamentale è poi quello dello sport. La palestra in reparto è un’opportunità straordinaria per i ragazzi. Spesso succede che durante il periodo delle terapie i ragazzi (in precedenza appassionati sportivi) si trovano ad interrompere ogni esercizio fisico, al punto di non trovare le giuste motivazioni per riprendere la pratica sportiva nemmeno dopo la fine delle cure. Di fatto, però, non esistono evidenze scientifiche che controindichino in maniera assoluta lo sport durante le terapie oncologiche e, tanto più, alla conclusione di esse. Inoltre, in molti casi lo sport fa parte della vita di un giovane, come il gioco per il bambino. Attraverso lo sport si impara a 62


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conoscere il proprio corpo, si fa esperienza del superamento dei propri limiti, si rinforza il senso di competenza e di autostima. Per un adolescente malato, che deve fare i conti con un corpo improvvisamente sofferente e vulnerabile, fare sport può essere l’occasione preziosa per fare esperienza di sé anche come di una persona che può essere forte nonostante la malattia, accettando nuove sfide. Per queste ragioni, lo sport ha un ruolo centrale all’interno del Progetto Giovani: allenatori con competenze specifiche lavorano in palestra con i ragazzi (attività muscolare, apparato cardio-vascolare e respiratorio, controllo del peso corporeo, riabilitazione), ragazzi che spesso tornano in ospedale, anche fuori dai loro percorsi di terapia, apposta per proseguire il lavoro in palestra, e che partecipano con entusiasmo alle attività di gruppo come le uscite in barca a vela. La collaborazione con centri specialistici sportivi e di medicina sportiva permetterà di sviluppare anche progetti di ricerca scientifica e faciliterà l’accesso allo sport dei ragazzi (idoneità sportiva, abilitazioni, certificazioni). Figura 8. I ragazzi del Progetto Giovani in barca a vela

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Figura 9. La palestra del reparto

Il Progetto Giovani non potrebbe esistere senza il fondamentale supporto dell'Associazione Bianca Garavaglia, che da 30 anni sostiene le attività del reparto e che oggi ha fatto del Progetto Giovani uno dei suoi principali obiettivi. Per alcune iniziative, l’associazione è stata affiancata dalla Fondazione Magica Cleme. Infatti, in un contesto globale di crisi economica, con impatto severo per le risorse sanitarie, la proposta di un progetto nuovo deve avere costi ridotti o nulli per l’amministrazione ospedaliera: il progetto deve autofinanziarsi e deve essere in grado di dimostrare la propria utilità. Nell’impossibilità di definire come obiettivo il miglioramento dei tassi di sopravvivenza dei pazienti (non misurabile a livello locale e nel breve periodo), diversi indicatori di efficacia possono essere presi in considerazione, dal semplice numero dei casi di adolescenti “attratti” presso la struttura, a parametri che riguardano la cura complessiva del paziente (es. percentuale di pazienti arruolati negli studi clinici, percentuale dei pazienti che beneficiano di procedure di conservazione della fertilità, percentuale di pazienti in età scolare che beneficiano del sostegno didattico) o le esperienze e la soddisfazione riferite dai pazienti, a parametri più legati alla ricerca (pubblicazioni, finanziamenti ricevuti). Resta però indispensabile 64


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poter avere a disposizione delle risorse dedicate. SIAMO - Società Italiana Adolescenti con Malattie Oncoematologiche Oltre al Progetto Giovani dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, in Italia esisteva di fatto fino a ieri solo un altro progetto locale dedicato ai pazienti adolescenti (e ai giovani adulti, che condividono in parte le stesse peculiarità degli adolescenti), cioè l'Area Giovani del Centro di Riferimento Oncologico (CRO) di Aviano. Per affrontare in modo coordinato le problematiche dei pazienti adolescenti, quindi, l’Associazione Italiana Ematologia Oncologia Pediatrica (AIEOP) ha dato vita qualche anno fa ad una Commissione Adolescenti. Come prima indagine, la Commissione AIEOP ha confermato anche in Italia i dati già pubblicati nel mondo anglosassone circa le difficoltà di accesso dei pazienti adolescenti ai centri e ai protocolli di cura: in uno studio su oltre 22,000 pazienti curati dal 1989 al 2006, mentre l’80% dei pazienti sotto i 15 anni attesi in Italia in base ai dati epidemiologici era curata nei protocolli AIEOP, ciò avveniva solo nel 10% dei pazienti tra 15 e 19 anni. Un ulteriore studio ha suggerito come possibili cause di questo problema l’esistenza, in molti centri di oncologia pediatrica italiani, di rigidi limiti di età per l'accesso ai reparti. Questi limiti, fissati dalle amministrazioni ospedaliere o dalle Regioni, rappresentano vere e proprie barriere al trattamento dei pazienti adolescenti con i protocolli pediatrici, anche se affetti da tumori tipici dell'età pediatrica come rabdomiosarcoma, medulloblastoma o leucemia linfoblastica acuta. Cambiare questo situazione rappresenta una sfida complessa, da intraprendere a vari livelli, a livello mediatico, ma anche a livello di Università e Scuole di Specialità, medici di base, gruppi cooperativi e società scientifiche. Quello che è parso presto evidente, però, è stata la necessità di un progetto su base nazionale più ampio, capace di coinvolgere diverse figure (i cosidetti "stakeholders", i "diretti interessati") e di passare dall’essere una commissione medica originata in ambito pediatrico al diventare una vera e propria task-force che coinvolga 65


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anche i gruppi di infermieri, psicologi, assistenti sociali, i gruppi di genitori e parenti, i gruppi di guariti e di pari, e soprattutto abbia come partner fondamentale le associazioni scientifiche dell’oncologia medica dell’adulto. È in questo modo che, ad inizio 2014, è nata SIAMO - Società Italiana Adolescenti con Malattie Onco-ematologiche (o oggi, meglio, Società scientifiche italiane Insieme per gli Adolescenti con Malattie Onco-ematologiche) (www.progettosiamo.it) – fondata da AIEOP, con il supporto fondamentale di FIAGOP (Federazione Italiana Associazioni Genitori Oncoematologia Pediatrica), e con la formale collaborazione delle società scientifiche dell’adulto, AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica) e SIE (Società Italiana di Ematologia). SIAMO vuole essere innanzitutto un movimento culturale che si occupi delle peculiarità degli adolescenti malati, con attenzione particolare al problema dell’accesso alle cure, ma anche all’idea di portare avanti un nuovo modello di organizzazione medica e di cultura specifica, con la sfida di occuparsi non solo della malattia, ma della vita dei ragazzi. Da un punto di vista medico, SIAMO vede per la prima volta oncologi pediatri e oncologi dell’adulto, insieme per i pazienti adolescenti; non vuole essere una nuova società scientifica in concorrenza con le altre pre-esistenti – non coordinerà protocolli e non curerà direttamente i pazienti - , ma un gruppo di lavoro inter-societario che possa promuovere iniziative specifiche e supportare le società scientifiche in un possibile programma prospettico istituzionalizzato su base nazionale. In ultima analisi, lo scopo di SIAMO è quello di costituire una struttura che venga riconosciuta in modo ufficiale, come riferimento per i pazienti adolescenti, da parte dei mass-media e delle istituzioni. SIAMO ha ottenuto già il supporto ufficiale del Ministero della Salute, ha stabilito una partnership importante con una grossa charity come Fondazione Umberto Veronesi, ed è membro ufficiale dell’European Network for Teenagers and Young Adults with Cancer (ENTYAC). Uno degli scopi fondamentali di SIAMO è quello dell’informazione e disseminazione: aumentare la consapevolezza delle problematiche degli adolescenti malati di 66


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tumore, tra la popolazione e tra gli addetti ai lavori. Sono state realizzate due campagne per la diagnosi precoce, dedicate soprattutto ai ragazzi. La campagna “Non c’è un perché”, su iniziativa soprattutto di FIAGOP, con lo slogan “non c’è un perché se qualcuno si ammala di cancro quando va alle superiori, ma c’è un perché se c’è chi guarisce: la diagnosi precoce parte da te, vai su progetto siamo.it”. Sul sito di SIAMO, una pagina dedicata, illustrava i possibile segni e sintomi sospetti: “a) Se hai un dolore che non ha un’altra spiegazione medica e che torna di continuo, b) se hai un gonfiore che non è chiaro da dove venga e che non passa da più settimane, c) se sei molto stanco, senza una ragione chiara, da parecchio tempo, d) se ti capita spesso di perdere sangue, e) se hai perso molto peso nelle ultime settimane, f) se hai un neo che ha cambiato forma, colore o dimensione, g) se hai dei sintomi che non capisci e che persistono; non ti allarmare: considera che ci sono molte possibili spiegazioni,ma per sicurezza ti consigliamo di rivolgerti al tuo medico”. Una seconda campagna è stata “#fattivedere”, organizzata con Fondazione Umberto Veronesi e dedicata in particolare ai ragazzi delle scuole superiori. Un altro scopo di SIAMO è quello di stimolare e supportare lo sviluppo di progetti locali (oltre a quelli di Milano e Aviano). Con questi scopi è stata organizzata da SIAMO e FIAGOP (con il supporto di FC Internazionale Milano e il suo sponsor Pirelli, il comitato di Milano del Centro Sportivo Italiano CSI e il Comitato Olimpico Nazionale Italiano CONI), ad aprile 2017 a Milano, la Winners Cup, un torneo di calcio tra pazienti ed ex-pazienti adolescenti delle oncologie pediatriche italiane: 144 ragazzi di 15-24 anni provenienti da 16 diversi centri (Milano, Monza, Genova, Padova, Roma, Bologna, Modena, Napoli, Bari, Pisa, Firenze, Aviano, Udine, Trieste, Palermo e Catania) hanno partecipato al torneo e condiviso le loro storie. Le squadre sono state accolte per due notti in hotel vicini al campo e questo ha favorito la socializzazione. La trasferta dei giocatori è poi stata seguita da molti “tifosi” da tutta Italia, in molti casi da altri pazienti che per svariati motivi non potevano giocare a calcio. Circa 600 persone hanno assistito alle partite. 67


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Un evento del genere non era mai stato realizzato, almeno in Italia. Il fatto di riunire un gruppo di pazienti cosi numeroso da tutta la nazione, per una festa basata sullo sport ma anche sulla condivisione di una storia comune così speciale come la malattia, è stato un evento straordinario che ha mosso l’interesse dei mass media, compresa la TV nazionale. Ciò ha permesso a SIAMO di raccontare le storie di questi ragazzi, storie di coraggio ma anche di normalità; ma ha anche permesso di parlare dei bisogni speciali di questi pazienti che vivono in una terra di mezzo tra il mondo dell'oncologia pediatrica e quello dell'adulto e che necessitano per questo di spazi e progetti dedicati. L’attenzione mediatica è stata favorita dalla popolarità del calcio in Italia, ma anche dal fatto che la Winners Cup ha avuto un inno, diffuso sul web. L’inno, “Uniti per vincere”, è stato creato dai ragazzi del Progetto Giovani di Milano, con il musicista Stefano Signoroni (lo stesso team della canzone di successo “Palle di Natale”). “Siamo qui, siamo noi, siamo gli eroi. Uniti per vincere – dice il testo della canzone - Siamo qui per trasformare la realtà". La Winners Cup è stata anche e soprattutto una grande festa per i ragazzi. Il modo migliore per riassumere il senso di questo evento è proprio quello delle loro parole. Riccardo, uno dei 144 giocatori, ha detto in un’intervista alla TV: “Per tutti noi questa è una grande rivincita nei confronti di tutto quello che abbiamo passato”. “Ci guardiamo negli occhi – ha detto Marco - insieme a tanti ragazzi che hanno fatto un percorso simile al mio, e ci riconosciamo. Noi siamo marchiati nel cuore dal segno della tempesta. E oggi siamo qua. E’ una cosa meravigliosa”. Ha detto Cristian: “In squadra giochiamo uno per l’altro, siamo un team. Così come serve un team per riuscire a vincere la sfida contro la malattia. Abbiamo bisogno dell’aiuto di tutti”. Sono molti i ragazzi che hanno detto che la squadra di calcio che era stata creata per l’occasione della Winners Cup non si scioglierà, che il gruppo formatosi andrà avanti e diventerà un progetto più grande: proprio lo scopo di SIAMO nell’organizzare il torneo. Infine la frase scritta da Bonvi, uno dei giocatori, sul suo profilo di Facebook: “Non importano i risultati, le reti 68


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prese e quelle segnate, la classifica e i premi, i piedi dolenti e le facce scottate dal sole. C'erano tutti gli amici. C'era chi ha passato avventure simili alla mia. C'era chi le ha condivise. C'era chi si impegna per la vita degli altri. E chi non c'è più, c'era ancora più di prima. Esserci stato per me è già aver vinto tutto”. È proprio così: per la cronaca, ha vinto il trofeo la squadra della Toscana (Pisa/Firenze), battendo in finale la squadra di Modena ai calci di rigore. Ma questa volta si può dire davvero che hanno vinto tutti. Figure 10. I giocatori di una delle squadre partecipanti alla Winners Cup si incoraggiano a vicenda prima di una partita

In senso più prospettico, SIAMO ha poi l’obiettivo di supportare le società scientifiche italiane in un ambizioso progetto istituzionale: arrivare alla definizione delle caratteristiche funzionali e strutturali indispensabili per un centro per essere idoneo nella gestione clinica dei pazienti adolescenti, con un documento condiviso che sia approvato a livello istituzionale e che diventi parte integrante dei percorsi organizzativi (es. Piano Oncologico Nazionale). In linea generali, i criteri potrebbero essere i seguenti: 1) un adeguato numero di casi, 2) l’assenza di limiti di età che possano limitare l’accesso dei pazienti al 69


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centro, 3) la disponibilità di una gestione multidisciplinare, 4) il coinvolgimento diretto nella gestione del paziente sia dell’oncologo pediatra che dell’oncologo medico, 5) la disponibilità dei protocolli clinici di trattamento per tutte le neoplasie che possono insorgere in questa fascia di età, 6) la presenza di spazi dedicati e di uno staff dedito alle problematiche gestionali (psicologo, assistente sociale, infermiera dedicata, educatori), 7) un programma di preservazione della fertilità, 8) un programma di gestione del follow-up e delle problematiche a lungo termine. L’obiettivo finale di un’azione istituzionale sarebbe quello di poter arrivare a identificare un numero limitato di centri oncologici specificatamente dedicati (indipendentemente dal fatto di essere centri di oncologia medica o di oncologia pediatrica), omogeneamente distribuiti sul territorio nazionale. La creazione di SIAMO rappresenta un passo fondamentale per la cura dei pazienti adolescenti (e giovani adulti) in Italia. È però oggi sempre più evidente che gli adolescenti e i giovani adulti affetti da cancro devono essere considerati un gruppo distinto di pazienti le cui esigenze sono state scarsamente considerate dai sistemi sanitari in passato. Un reale cambiamento culturale è in atto oggi: l’attenzione e le risorse dedicate a questi pazienti sono davvero cambiate ed è aperta la strada verso una nuova comprensione degli aspetti biologici dei tumori di questa fascia di età così come degli aspetti clinici e psico-sociali dei ragazzi. Molti sono gli aspetti da affrontare, dall'accesso alle cure alla compliance al trattamento, dalla promozione della salute alla transizioni attraverso i servizi di assistenza sanitaria dedicati alle diverse età. Diversi programmi dedicati sono in fase di sviluppo nel mondo, la maggior parte nati nel contesto dell'oncologia pediatrica (come il modello proposto dal Progetto Giovani), altri sviluppati nell’ambito dell’oncologia medica, altri in un qualche luogo tra le due. La sfida finale, però, sarebbe quella di fondare una nuova disciplina, una vera e propria nuova sub-specialità dell’oncologia, quella che gli anglosassoni chiamano “adolescent and young adult (AYA) oncology, 70


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l'oncologia dell'adolescente e del giovane adulto, con unità ospedaliere fatte su misura per questi pazienti, con le loro peculiarità e sui loro bisogni, con personale dedicato adeguatamente formato, con schemi di ricerca specifici. Bibliografia Barr RD, Ferrari A, Ries L, Whelan J, Bleyer WA. A Narrative Review of Cancer in Adolescents and Young Adults; Current Status and a View of the Future. JAMA Pediatr 170(5):495-501,2016 Ferrari A, Aricò M, Dini G, et al. Upper age limits for accessing pediatric oncology centers in Italy: a barrier preventing adolescents with cancer from entering national cooperative AIEOP trials. Pediatr Hematol Oncol 2012 ; 29:55-61 Ferrari A, Barr RD. International evolution in AYA oncology: current status and future expectations. Pediatr Blood Cancer 2017 Mar 30. doi: 10.1002/pbc.26528. [Epub ahead of print] Ferrari A, Bleyer A. Participation of adolescents with cancer in clinical trials. Cancer Treatement Review 33(7):603-608, 2007. Ferrari A, Clerici CA, Casanova M, et al. The Youth Project at the Istituto Nazionale Tumori in Milan. Tumori, 2012, 98(4):399-407 Ferrari A, Dama E, Pession A, et al. Adolescents with cancer in Italy: entry into the national cooperative paediatric oncology group AIEOP trials. Eur J Cancer 2009; 45:328-334. Ferrari A, Gaggiotti P, Silva M, et al. In search for happiness. J Clin Oncol, in press 2017 Apr 27:JCO2017728733. doi: 10.1200/JCO.2017.72.8733. [Epub ahead of print] Ferrari A, Lo Vullo S, Giardiello D, et al. The sooner the better? How symptom interval correlates with outcome in children and adolescents with solid tumors: regression tree analysis of the findings of a prospective study. Pediatr Blood Cancer 63(3):479-85, 2016 71


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Ferrari A, Marino S, Gaggiotti P, Garavaglia V, Silva M, Veneroni L, Massimino M. Shout in fury but smile at life: a portrait of an adolescent with cancer on the Youth Project in Milan. Pediatr Blood Cancer 2017 Apr 28. doi: 10.1002/pbc.26611. [Epub ahead of print] Ferrari A, Rondelli R, Pession A, et al. Adolescents with cancer in Italy: improving access to national cooperative pediatric oncology group (AIEOP) centers. Pediatr Blood Cancer 63(6):1116-9, 2016 Ferrari A, Signoroni S, Silva M, et al. “Christmas Balls”: a Christmas carol by the adolescent cancer patients of the Milan Youth Project. Tumori 103(2):e9-e14, 2017 doi: 10.5301/tj.5000597. Ferrari A, Signoroni S, Silva M, et al. Viral! - the propagation of a Christmas Carol produced by adolescent cancer patients at the Istituto Nazionale Tumori in Milan, Italy. Pediatr Blood Cancer. 2017 Mar 7. doi: 10.1002/ pbc.26516. [Epub ahead of print] Ferrari A, Silva M, Veneroni L, et al. Measuring the efficacy of a project for adolescents and young adults with cancer: a study from the Milan Youth Project. Pediatr Blood Cancer 63(12):2197-2204, 2016. Ferrari A, Thomas DM, Franklin A, et al. Starting an AYA program: some success stories and some obstacles to overcome. J Clin Oncol 2010; 28:4850-4857. Ferrari A, Veneroni L, Clerici CA, et al. Clouds of Oxygen: adolescents with cancer tell their story in music. J Clin Oncol 33(2):218-221, 2015 Ferrari A. Coping with the clinical complexity of adolescents with cancer: an ad hoc italian scientific society is born (SIAMO). Recenti Prog Med. 105(10):392-393, 2014 Ferrari A. Italian pediatric oncologists and adult medical oncologists join forces for adolescents with cancer. Pediatric Hematology and Oncology, 2014 Sep;31(6):574-5. Ferrari A. Non c’è un perché: ammalarsi di cancro in adolescenza. Milano, FrancoAngeli (eds) 2016 Magni C, Maggioni F, Ricci A, et al. “There’s no reason why”: a campaign to raise cancer awareness among adolescents. Tumori Journal (3):270-5, 2016 72


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Magni C, Segrè C, Finzi C, et al. Adolescents’ health awareness and understanding of cancer and tumor prevention. When and why an adolescent decides to consult a physician. Pediatr Blood Cancer 63(8):1357-61, 2016 Proserpio T, Ferrari A, Veneroni L, et al. Spiritual aspects of care for adolescents with cancer. Tumori, 100: e130-e135, 2014 Proserpio T, Veneroni L, Silva M, et al. Spiritual support for adolescent cancer patients: a survey of pediatric oncology centers in Italy and Spain. Tumori Journal 3;102(4):376-80,2016 Spreafico F, Murelli M, Ferrari A, et al. Should we encourage exercise and sports in children and adolescents with cancer? Pediatr Blood Cancer 61(11):2125, 2014 Veneroni L, Clerici CA, Proserpio T, et al. Creating beauty: the experience of a fashion collection prepared by adolescent patients at a pediatric oncology unit. Tumori Journal, in press Veneroni L, Clerici CA, Proserpio T, et al. Creating beauty: the experience of a fashion collection prepared by adolescent patients at a pediatric oncology unit. Tumori Journal 101(6):626-30, 2015 Veneroni L, Mariani L, Vullo SL, et al. Symptom interval in pediatric patients with solid tumors: adolescents are at greater risk of late diagnosis. Pediatr Blood Cancer 2013;60(4):605-10.

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NON SOLO TERAPIA: LA CURA GLOBALE DEL BAMBINO E ADOLESCENTE CON TUMORE EMATOLOGICO Maria Luisa Moleti Grazie ai progressi terapeutici compiuti negli ultimi decenni sono sempre di più i bambini e adolescenti guariti da un tumore ematologico, che diventeranno adulti e affronteranno la vita. Ma accanto all’aspetto strettamente medico delle terapie si è rivolta una attenzione sempre maggiore alla qualità di vita dei piccoli e grandi pazienti in tutte le fasi della loro malattia, al benessere durante la terapia ed infine al completo ristabilimento psicofisico dopo la sospensione delle cure. La malattia onco-ematologica determina una perdita del delicato equilibrio del bambino o dell’adolescente e di tutta la famiglia. Solo attraverso un approccio articolato che metta al centro la “persona” bambino/adolescente si può cercare di riconquistare faticosamente questo equilibrio, continuamente minacciato nel corso delle varie fasi della terapia e della malattia. Vorrei condividere alcuni aspetti della nostra esperienza sulla cura globale del bambino e adolescente con tumore ematologico, svolta ormai da più di 30 anni presso il reparto Pediatrico della Ematologia della Sapienza di Roma, dando anche voce ai coraggiosi piccoli e grandi protagonisti. L’esordio Entriamo nel mondo di emozioni provate all’esordio attraverso le parole di Valentina, una bambina di 10 anni, scritte poco dopo la diagnosi di leucemia linfoide acuta. “Sembrava un giorno come tutti gli altri… mi ero addormentata con un po’ di mal di schiena, pensavo fosse solo stanchezza ma purtroppo non era così; mi svegliai di notte con dei dolori assurdi alla schiena, io andai subito al letto dai miei genitori a chiedere aiuto…” La prima emozione è la paura: che cosa mi sta succedendo? 74


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“i dolori persistevano allora i miei genitori ed io andammo all’ospedale.Lì mi visitò un ortopedico molto antipatico, mi guardò appena e mi fece una mezza visita concludendo che non era niente di grave tanto che potevo tornare a scuola e in piscina.Il comportamento di questo medico mi ha dato molto fastidio perchéio stavo male e lui non mi prendeva sul serio…” L’emozione è sempre la paura, ma compaiono anche la rabbia e l’impotenza: io sto male e non mi prendono sul serio. ”...ero triste perché avevo forti dolori e non sapevo cosa erano e vedevo che anche i medici non sapevano cosa fare e questo mi dava paura.” Valentina si ricovera in ematologia ”... i primi giorni stavo tranquilla, però poi sentivo parlare di malattie, virus, medicine e altre cose strane e cominciavo a preoccuparmi” Ritorna la paura dell’ignoto ...sentii mamma parlare con la vicina di stanza…tu mi devi dire la verità, cosa ci sto a fare io qui! Perché con gli altri parli e con me no? Lei impaurita dalla mia reazione, mi rispose: "Sei qui perché hai la Leucemia, una malattia al sangue, e ti stanno curando". Appena sentito questo nome, mi impaurii e pensavo che mi succedesse qualcosa di drammatico, addirittura che potessi morire! ” Ora Valentina ha paura della malattia, ma subito i medici le parlano ”...Piano piano mi sono resa conto che a tutto c’era una cura, perché parlavo con i medici e loro mi spiegavano che avrei fatto delle terapie che avrebbero mandato via la malattia, che ci sarebbe voluto un po’ di tempo e pazienza, ma poi sarebbe passato tutto.” La paura è passata con la chiarezza. Deve iniziare un nuovo equilibrio, nell’ambito di un lungo iter terapeutico che comporterà lunghi ricoveri, continui accessi in ambulatorio e day hospital, limitazioni della vita di relazione. Le attività di prima non sono più tutte possibili ma bisogna continuare, nel nuovo ambito, il percorso di vita 75


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e di crescita. Entra in gioco la squadra, di cui fanno parte oltre a medici e infermieri, la associazione genitori, volontari, terapisti occupazionali, clown, psicologi, fisioterapisti e insegnanti. La scuola La attività principale per i bambini e gli adolescenti è rappresentata dalla scuola. La scuola in ospedale consente al bambino/adolescente di proseguire senza interruzioni il suo percorso di formazione e di mantenere le attività della vita di prima. In Ematologia sono presenti sia la scuola primaria che le superiori, con insegnanti dotati di specifica attitudine e preparazione, distaccati dagli Istituti scolastici e completamente dedicati alla scuola in ospedale. Gli alunni effettuano percorsi individualizzati, con lezioni al letto del bambino o in aula, in continuità con i programmi della scuola di provenienza. ...adesso la mia scuola è quella vicino all’ospedale e la trovo “speciale” e i bambini che incontro, sono adesso i miei amici e compagni (V.). Non appena possibile, al rientro a scuola si sentono preparati e all’altezza dei compagni; altrimenti scrutini ed esami sono effettuati presso la scuola in ospedale. Un aspetto molto importante, perché la scuola in ospedale possa avere un ruolo non solo didattico, ma anche “terapeutico” è la totale integrazione dell’attività scolastica nel progetto di cura. Per questo è risultata fondamentale una riunione settimanale che coinvolge i medici, gli insegnanti e la terapista occupazionale. Nel corso della riunione i medici aggiornano gli insegnanti su eventuali problematiche che possano interessare gli aspetti didattici e si scambiano importanti informazioni sugli alunni e sui loro problemi. Il coinvolgimento della psicologa, sempre pronta all’ascolto dei piccoli e grandi pazienti, dei genitori ma anche di tutta la squadra, nasce spesso proprio durante questi incontri. Il rapporto con il proprio corpo Una problematica particolarmente sentita nel corso dell’iter terapeutico, soprattutto per gli adolescenti, è legata ai cambiamenti del corpo: si verificano spesso una 76


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riduzione della massa e del tono muscolare, aumento di peso, perdita dei capelli, alterata percezione di sè con mancata accettazione del proprio corpo e conseguente depressione. A questo aspetto è stato dedicato un particolare impegno da parte degli insegnanti di educazione fisica, che dal 1999 hanno svolto nel nostro reparto progetti per gli alunni della scuola media inferiore e superiore: “Allenarsi in ospedale”, “Educazione alla percezione”, “Yoga, promuovere il benessere psicofisico della persona”. I primi a stupirsi della possibilità di effettuare un “allenamento” in ospedale sono stati proprio i ragazzi, come testimoniano le loro parole, da cui però emerge anche il grande beneficio di una attività fisica guidata, adattata alla particolare situazione. Valentino 12 anni “Io pensavo che l’allenamento si potesse fare solo con gli strumenti adeguati e nei luoghi come la palestra e il campo sportivo. Poi invece “mi è capitato un incidente di percorso” e ho dovuto rinunciare ad alcune attività come lo sport che mi piace tanto. I primi tempi ero sicuro di non poter fare attività di allenamento, in una camera di ospedale. Però mi sono dovuto ricredere ... una scheda di allenamento e mi è stata di grande aiuto, mi ha aiutato a riprendere prima.” Anche in ospedale ci si può allenare... Francesca 11 anni “Non pensavo che si potesse fare educazione fisica anche in ospedale perchè pensavo che ci sarebbero serviti gli attrezzi adatti. Sono stata molto contenta quando ho saputo quante cose possiamo fare anche noi in questo momento che non stiamo bene. Adesso faccio molte cose per stare in allenamento con i muscoli ed altro. Sono molto contenta di questo” ...si impara a percepire il proprio corpo per affrontare le difficoltà del ricovero... Sara 14 anni “Nel primo caso il mio corpo era come “ammosciato” e l’ho disegnato come un gelato che si stava squagliando. Dopo, mettendomi nella posizione giusta mi sono sentita più forte e solida come un ghiacciolo” (figura 1) ...e si può essere attivi e nuovamente padroni del proprio corpo Elena 12 anni “Io pensavo che arrivata qui in ospedale non potessi svolgere l’attività fisica, invece mi sono sbagliata. 77


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Mi sono allenata per la respirazione, e vi garantisco che è molto interessante e poi ti rilassi. Ho fatto esercizi sulla posizione seduta ed eretta e sulle diverse parti del corpo da rilassare. Poi ho fatto esercizi per la potenza dei muscoli che possono sempre servire in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo. Con gli esercizi per la colonna mi sono sentita meglio perchè alcune volte avevo il mal di schiena. Gli esercizi per aiutarsi quando si ha qualche dolore da qualche parte: massaggi, respirazione rilassata, pressione su mani e piedi, sono utili e interessanti.” Matura anche la consapevolezza della respirazione e della sua importanza Nicola 13 anni “All’inizio la mia respirazione era pesante e bloccata in gola. Con la respirazione profonda invece era molto leggera e quando entrava in gola io mi sentivo bene e mi arrivava fino alla pancia” Emanuele 11 anni “La mia respirazione è come un mare di ossigeno e il mulino ad ossigeno rappresenta il mio ciclo respiratorio” (figura 2) Irina 16 anni “Quando faccio queste respirazioni mi sento bene il corpo. Quando non faccio niente sento il corpo come chiuso, adesso mi sento come qualcuno mi ha fatto un massaggio. Sento il corpo molto rilassato”. Il dolore Il dolore purtroppo è parte della esperienza di malattia; l’ospedale senza dolore è l’obiettivo da raggiungere, utilizzando tutte le tecniche a disposizione. C’è ormai un comportamento unanime per combattere o prevenire il dolore, con l’impiego dei farmaci antidolorifici più efficaci e della sedazione in caso di manovre invasive dolorose. Ma di grande aiuto possono essere le tecniche antalgiche non farmacologiche. Anche in questo campo nella nostra esperienza si è rivelata molto importante l’integrazione tra le varie competenze della squadra terapeutica; con la collaborazione dei medici, l’attività della educazione fisica si è spontaneamente estesa nel campo della terapia/prevenzione del dolore, con tecniche guidate di respirazione e rilassamento per i ragazzi più grandi.

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“mentre mettevano l’ago sentivo il dolore, ma mi concentravo sul movimento della pancia e a non pensare a sentire il dolore. Quindi non ci ho pensato all’ago ed è finito in un attimo. Tu senti più male quando già sai che una cosa ti fa male, ma se tu non ci pensi, sei concentrato su un’altra cosa il dolore lo senti ma è una cosa in più piccoletta secondaria e svanisce subito” La consapevolezza della possibilità di gestire il dolore dà forza, ne riduce la percezione “ieri mentre ho fatto la lombare ho usato il respiro e non ho sentito niente, è andato tutto bene. Di solito le altre volte mi avevano fatto male e ho avuto mal di schiena. Non pensavo alla schiena, e pensavo a rilassarmi (il corpo)” Non si è più passivi a subire il dolore, si può fare qualcosa “oggi è stata particolarmente utile la pratica di yoga poiché l’ho effettuata dopo aver fatto il puntato e quindi in una situazione di dolore. Questi esercizi mi hanno aiutato perché mi sono rilassata e tranquillizzata. Soprattutto gli ultimi due esercizi di meditazione sono stati molto utili. Mi hanno fatto concentrare infatti sulla sensazione di libertà e di benessere facendomi dimenticare il dolore”. E si riacquista la fiducia nelle possibilità della propria volontà e del proprio corpo. I ragazzi ci dicono come la tensione e la paura aumentino la percezione del dolore. Accanto alle tecniche antalgiche farmacologiche e non farmacologiche, è indispensabile una comunicazione corretta e chiara, prima di ogni azione medica, sia diagnostica che terapeutica. La spiegazione, accurata e adattata all’età, di ogni esame, manovra o terapia cui si sarà sottoposti, aiuta a ridurre la paura del non conosciuto, ad affrontare con consapevolezza ogni situazione e quindi a combattere ansia e dolore. Il lungo tempo vuoto in ospedale Al momento del ricovero si interrompe la vita di prima, piena di attività, impegni, stimoli e relazioni. Inizia un lungo tempo riempito dagli interventi dei medici e degli infermieri, in cui il bambino e l’adolescente si ritrovano in condizione di passività. E’ quindi importante ripro79


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porre al bambino/adolescente ricoverato attività in cui sia di nuovo protagonista. Accanto agli insegnanti della scuola in ospedale intervengono le altre figure della squadra terapeutica. Per i più piccoli c’è anche la psicomotricista (progetto Santa Maria in Aquiro) che propone, attraverso il gioco, attività motorie molto utili a mantenere tono e coordinazione durante il lungo periodo di allettamento. Un ruolo fondamentale nel coordinare le attività di tutti i volontari delle associazioni presenti nel nostro reparto (Romail per l’accoglienza, ABIO e Sale in Zucca per l’intrattenimento) nella nostra esperienza è svolto dalla terapista occupazionale. Il tempo è scandito regolarmente dalla presenza di queste figure, che propongono il gioco o attività che stimolino le abilità manuali e la creatività dei ragazzi, adattando gli interventi alle diverse età, desideri ed esigenze, sempre però con l’obiettivo di ritrovare e rafforzare la fiducia nelle proprie capacità. Tra le tante attività, la recita di Natale, cui partecipano tutti i pazienti, piccoli e grandi, volontari, medici, infermieri, è l’evento dell’anno, atteso sempre con emozione rinnovata (figura 3). Il momento del sorriso con i Clown dottori, (associazioni Theodora e Andrea Tudisco) è anch’esso molto atteso; in reparto e Day Hospital passa una ventata di allegria che contagia anche medici e infermieri. La sensibilità dei volontari e dei clown dottori è però sempre attenta a cogliere momenti particolari o tristi per il reparto, e allora il loro intervento si adatta con delicatezza anche alle situazioni più difficili, con una presenza rasserenante ma mai intrusiva. Anche in questo caso è fondamentale il lavoro di squadra; prima dell’inizio della loro attività in reparto i clown dottori hanno un breve incontro con i medici “Tutto bene? Ci sono problemi?” soffermandosi a parlare con loro di eventuali situazioni delicate e regalando anche a loro un sorriso o il sollievo della condivisione. Il tempo in ospedale è lungo anche per le mamme. Per loro una volta a settimana c’è l’ora del thè, insieme alla terapista occupazionale; è uno spazio dedicato ad attività manuali creative scelte dal gruppo, come costru80


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ire oggetti, inventare ricette e cucinare cose buone, adatte per i figli. Proprio durante questi momenti di incontro è nata l’idea di un progetto sulla corretta alimentazione in onco-ematologia, con la conquista di un ruolo attivo e propositivo per le mamme. L’alimentazione L’alimentazione durante l’iter terapeutico è infatti un argomento molto importante e complesso, con implicazioni mediche e psicologiche. E’ necessario assicurare un corretto apporto nutrizionale ed evitare complicanze da alimentazione errata, a breve e lungo termine. Per quanto riguarda le implicazioni psicologiche, gravano il peso di ulteriori divieti e la mancata gratificazione del gusto; nel complesso vissuto della nutrizione si inseriscono inoltre i problemi del rapporto mamma-bambino e del rapporto dell’adolescente con la propria immagine corporea. I problemi dell’alimentazione sono molto differenti a seconda della malattia e della fase di terapia. Nel complesso iter terapeutico per una patologia oncoematologica, si può passare da fasi di bulimia legate all’impiego di steroidi (sentiamo la voce di Mattia, 12 anni “ho talmente fame che il mio autoritratto è un panino” figura 4), a fasi di riduzione dell’appetito, legate alla assunzione prolungata di chemioterapie ad effetto anoressizzante. Non mancano inoltre fasi in cui le complicanze di terapie particolarmente intensive determinano gravi mucositi con difficoltà oggettive ad alimentarsi. E’ molto difficile in ambito ospedaliero adattare il vitto (già la parola risulta poco appetibile) alle singole esigenze legate alle terapie, tenendo conto del gusto personale e degli improvvisi desideri di una particolare pietanza: nel corridoio del reparto echeggia alle 3 di notte la vocina di Pietro, 3 anni “papa’ pasta and chicken, papa’ pasta and chicken!”. Nella nostra esperienza resta purtroppo ancora un problema aperto e sentiamo la mancanza dell’importante apporto psicologico/terapeutico del buon cibo. Il progetto di educazione alla alimentazione in corso di terapie onco-ematologiche, che prevede una collaborazione tra le mamme e il nutrizionista e che darà voce 81


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anche ai ragazzi e bambini in terapia, dovrebbe dare un contributo importante per affrontare questo problema. Il desiderio di casa: l’assistenza domiciliare Nel corso del lungo iter terapeutico il sogno è ovviamente la casa: “meno male! Il momento dell’uscita! Ero molto contenta: sprizzavo gioia da tutti i pori,” Eleonora esprime la gioia, ma anche la rabbia repressa della costrizione del ricovero “saltellavo tra i corridoi dell’ospedale come un cavallo infuriato!!!!”. Ogni minuto in più in ospedale è una sofferenza. Ma a volte la dimissione non è possibile, perché bisogna continuare alcune terapie o perché è necessaria una assistenza complessa. In questi casi tornare a casa può essere possibile grazie alla assistenza domiciliare, che può essere adattata ed offerta in situazioni molto diverse, sia durante il corso della chemioterapia, che in situazioni croniche invalidanti o infine in fase avanzata di malattia. La assistenza domiciliare Romail per i piccoli e grandi pazienti dell’Ematologia è attiva ormai da più di 20 anni. Dal 2012 è parte di un più ampio progetto di assistenza domiciliare pediatrica finanziato dall’AIL, grazie alle raccolte Mediafriends Cup e Fabbrica del Sorriso, e rivolto ai centri pediatrici della associazione italiana di ematologia e oncologia pediatrica AIEOP. Nella nostra esperienza la assistenza domiciliare è sempre stata concepita come parte integrante della struttura terapeutica, in simbiosi funzionale con tutti i servizi dell’ematologia, con l’obiettivo della continuità terapeutica. Diventa naturale e reversibile il passaggio da una modalità di assistenza all’altra, sempre seguiti dai medici costantemente reperibili e dagli infermieri dell’ematologia con cui è stabilito un rapporto di fiducia e amicizia. L’accoglienza La casa resta però un sogno per chi viene da lontano e deve rimanere a lungo nei pressi dell’ospedale. L’esigenza di dare a queste famiglie la possibilità di essere accolte in strutture create per questo scopo è molto sentita e trova riscontro in numerose iniziative nei diversi centri oncoematologici. La residenza Vanessa della Ro82


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mail e la Casa di Peter Pan ospitano i nostri piccoli e grandi pazienti e i loro genitori in un ambiente familiare, con grande spirito di accoglienza e professionalità, affiancati dalla Associazione Albergatori che offre da anni ospitalità anche ai familiari che hanno necessità di rimanere vicini ai pazienti ricoverati. I momenti difficili Quando guarire non è più possibile il mondo ci crolla addosso. La malattia è presente e incombe sul paziente e la sua famiglia. La fragilità del corpo, con una debilitazione fisica sempre maggiore, provoca ansia, depressione. E la percezione che i medici “non sanno cosa fare” contribuisce ad aumentare l’ansia e la paura. E’ vero, l’angoscia della malattia incurabile attanaglia anche i medici e tutta la squadra, che insieme ha combattuto e sperato nella guarigione, e la sensazione di impotenza percepita dal paziente e dalla famiglia ha una sua profonda ragione. Ma i medici devono sapere cosa fare. Se non è più possibile guarire la malattia, si può e si deve curare la persona bambino, adolescente, giovane adulto, continuando a infondere fiducia e sicurezza. Tutta la squadra adesso deve lavorare ancora di più in sintonia, con un nuovo obiettivo: dare ancora la certezza di essere curati e accuditi nel modo migliore, con empatia e accogliendo le esigenze di ognuno; come, se possibile, essere assistiti a casa dai propri medici e infermieri, tra le proprie cose e i propri cari. Anche e soprattutto ora continua, accanto al lavoro dei medici e degli infermieri, l’impegno dei volontari, dei clown e anche della scuola. Perché sappiamo quanto sia fondamentale il supporto degli amici di sempre e quanto sia stato importante per alcuni ragazzi e giovani provare l’orgoglio e la gioia di aver superato l’esame finale, di licenza media o maturità, impegnandosi fino alla fine, come ultima esperienza della loro vita. La forza dell’empatia parole scritte per un medico, da una bambina che non c’è più: 83


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“Aveva un talento, sapeva ascoltare… alla fine sospirava e se serviva ti abbracciava… e non sbagliava, non sbagliava mai. Quando mi abbracciava era quello che volevo da lei” Giorgia Al professor Franco Mandelli, che da sempre ci ha trasmesso che curare è prendersi cura Figura 1 Il corpo come un gelato

Figura 2 La respirazione come un mare di ossigeno

Figura 3 La recita di Natale

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MEDICINA PERSONALIZZATA E MEDICINA DELLA PERSONA Carlo Gambacorti Passerini Queste due espressioni racchiudono in realtà due diversi concetti. Con il termine “Medicina Personalizzata” si intende in genere la cosiddetta Medicina di Precisione, termine recentemente derivato dall’inglese “Precision Medicine” per indicare che la Medicina ed in particolare la terapia delle malattie sia guidata dalla conoscenza esatta dei meccanismi patogenetici che ne stanno alla base. Questo concetto si adatta soprattutto alla terapia delle malattie neoplastiche, ma non solo. Esempi molto famosi di malattie che sono state sconfitte con la Medicina di Precisione comprendono per esempio la Leucemia Mieloide Cronica ed I linfomi ALK+. In queste malattie la scoperta dell’evento patogenetico dominante, unito alla disponibilità di farmaci in grado di modularlo in maniera molto specifica, ha permesso di cambiare radicalmente la prognosi di queste malattie. Anche lo sviluppo di resistenza a quete terapie specifiche puó essere affrontato in termini di Medicina di Precisione e vinto conoscendone i meccanismi (ad esempio selezione di cellule contenenti dei mutanti del gene oncogenico) e realizzando buovi farmaci in grado di mantenere la propria attività anche in presenza di mutazioni che causano resistenza ai farmaci inizialmente utilizzati. Al contrario la “Medicina della Persona” si rivolge ad ogni paziente come ad un essere unico, unico perché essere umano degno di rispetto, considerazione e “conpatimento” inteso come “sentire insieme”. Se guardo un quadro, posso misurarne le dimensioni, la quantità di linee, la distanza tra le figure.., ma tutto ció non mi permetterà di comprenderne la bellezza, il messaggio, in ultima analisi, il “senso” di quel quadro. 85


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Questo approccio dovrebbe informare tutta la pratica medica ma recentemente ne è stata denunciata la progressiva sparizione in nome e a causa di una Medicina tecnologica che sarebbe portata per sua natura a sradicare il legame umano esistente tra paziente e medico, infermiere o altro personale sanitario. In altre parola la “tecnica” di cui la Medicina Personalizzata viene vista come la forma più estrema, sarebbe per sua natura depersonalizzante e porterebbe a vedere nel paziente un mero insieme di organi, molecole, fenomeni biologici (o finanziari) che ne porterebbero a smarrire l’unicità dell’essere umano, del paziente. Nulla di più sbagliato e falso! In realtà i due approcci sono invece assolutamente complementari. La conoscenza più approfondita dei meccanismi patogenetici dei tumori ci permette di poter affermare che, al limite, ogni tumore è unico, come il paziente che lo ospita: le neoplasie non sono causate da una singola mutazione; nella maggior parte dei casi ma da alterazioni dei geni A, B, C.... Ogni tumore puó essere causato dalla contemporanea presenza di decine di diverse mutazioni. Inoltre il fatto che il gene A sia mutato prima del gene B o viceversa, in diversi tumori, ha importanti conseguenze biologiche e funzionali. Questo significa che anche per la Medicina di Precisione ogni paziente è unico ! Non solo, ma la considerazione dell’unicità biologica e ontologica di ogni paziente è l’approccio più valido alla terapia medica, soprattutto in campo oncologico. Che questo sia vero è dimostrato da numerosi studi in cui le stessa terapia, somministrata a pazienti con la stessa diagnosi ha sortito effetti molto diversi, in virtù e a causa non della terapia utilizzata ma del diverso modo di organizzare la “cura”, l’approccio sistemico e l’assistenza globale al paziente con quella determinata malattia (REF 1-2). Quindi “Medicina Personalizzata” e Medicina della Persona” non sono termini antitetici, anzi si complementano e sinergizzano a vicenda. Ció che toglie e taglia, sia all’una come all’altra, è l’invasione burocratico-aziendale 86


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che pervade ogni singolo atto medico. L’estrema e sempre in aumento quantità di moduli, consensi, autorizzazioni e simili riduce sempre di più il tempo a disposizione del medico o dell’infermiere per coltivare quello che rappresenta il cuore della relazione “medico-paziente”, che è inoltre danneggiata dalla scarsa attenzione che viene rivolta dalle “aziende ospedaliere” a variabili quali il tempo disponibile per l’esame clinico ed il colloquio col paziente. Molti dei cosiddetti “consensi informati” non hanno più nulla a che vedere con la protezione del paziente bensì sono dettati dalla ricerca, spesso esasperata, di protezione legale da parte dello sponsor di studi clinici (per lo più una ditta farmaceutica) o dell’azienda ospedaliera stessa. Inoltre ogni volta che una nuova procedura amministrativa aziendale viene implementata, non si calcola il costo di essa, né in termini economici, né in quelli di tempo “rubato” al rapporto medico-paziente. Referenze Gambacorti-Passerini C, Piazza R. Imatinib--A New Tyrosine Kinase Inhibitor for First-Line Treatment of Chronic Myeloid Leukemia in 2015. JAMA Oncol. 2015 May; 1 (2): 143-4. doi: 10.1001/jamaoncol.2015.50. Gambacorti-Passerini C, Piazza R. How I treat newly diagnosed chronic myeloid leukemia in 2015. Am J Hematol. 2015 Feb; 90 (2): 156-61. doi: 10.1002/ajh.23887. Epub 2014 Nov 24. IF 3.477

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LINFOMA DI HODGKIN: LUCI E OMBRE Cinzia Pellegrini Introduzione Il linfoma di Hodgkin (LH) fa parte dei disordini linfoproliferativi e deve il suo nome a Sir. Thomas Hodgkin che lo descrisse per la prima volta nel 1832 (Hodgkin T, 1832). Il linfoma di Hodgkin rappresenta circa l’11 % di tutti i linfomi dei paesi occidentali, con una incidenza mondiale di 67.887 casi nel 2008 (Banerjee D, 2011). Segue una distribuzione d’età bimodale con un primo picco nei giovani adulti e un secondo picco attorno ai 59 anni di età (Banerjee D, 2011; Mani H. et al., 2009), ma la massima frequenza si ha tra i 15 e i 30 anni. I maschi sono leggermente più colpiti delle femmine, in un rapporto di circa 1,5 a 1. Caratteristiche generali L’eziologia del LH non è nota. Osservazioni epidemiologiche e di biologia molecolare hanno dimostrato l’integrazione del genoma del virus di Epstein Barr (EBV) nelle cellule neoplastiche (Sleckman BG. et al., 1998), dato che porta ad ipotizzare una correlazione patogenetica tra infezione virale ed insorgenza di LH. È tuttavia probabile che l’infezione da sola non sia sufficiente a produrre l’evento trasformante ma richieda il concomitare o il susseguirsi di altri fattori, tra cui l’espressione della proteina blc-2 e/o attivazione del meccanismo cellulare mediato dall’NF-kB (che proteggono le cellule dall’apoptosi) (Liu YJ et al., 1991), o l’espressione della p53 (che influisce sull’attività proliferativa). Tutto ciò porta a un vantaggio del clone aberrante rispetto alle cellule normali. Dal punto di visita clinico più del 50% dei pazienti si presenta all’osservazione senza sintomi, presentando unicamente la comparsa di una tumefazione linfonodale superficiale, più spesso sovraclaveare o laterocervicale (Mauch P et al., 1993). 88


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Nei restanti casi il paziente si reca dal medico riferendo la presenza di uno o più dei seguenti sintomi: febbricola o febbre serotina, sudorazioni profuse prevalentemente notturne, calo ponderale, prurito sine materia con associate lesioni da grattamento. La presenza di questi sintomi configura la varietà B del LH; se invece il linfoma esordisce in assenza di sintomi clinici si parlerà di varietà A. Dal punto di vista dell’esame obiettivo, il LH può esordire con linfoadenomegalie singole o multiple, a distribuzione prevalentemente asimmetrica. La sede più frequentemente interessata è quella sovraclaveare sinistra, spesso associata a interessamento mediastinico e/o lomboaortico. L’interessamento dei linfonodi mediastinici può causare tosse secca e dispnea e solo eccezionalmente una sindrome mediastinica da ostruzione cavale inferiore caratterizzata da edema “a mantellina”, turgore delle giugulari e mammario, circolo venoso superficiale prominente. Il coinvolgimento linfoghiandolare mediastinico dà luogo ad una massa definita bulky se presenta radiologicamente un diametro ≥ 7 cm. Piuttosto rari sono il versamento pleurico e pleuro-pericardico all’esordio della malattia. Nella maggior parte dei casi il LH sembra avere un’origine unifocale, per poi diffondere per contiguità attraverso la via linfatica con interessamento di stazioni linfonodali successive lungo il decorso dei vasi linfatici che drenano il linfonodo colpito, e solo tardivamente per via ematica con coinvolgimento degli organi extra-linfatici. Nel 1971 ad Ann Arbor è stata proposta una classificazione tuttora valida che suddivide in quattro stadi il LH, tale classificazione è stata poi perfezionata nel 1989 (classificazione di Cotswold) aggiungendo degli ulteriori accorgimenti riguardanti la malattia bulky e le localizzazioni extranodali, importanti ai fini prognostici (Lister TA et al., 1989): Stadio I: coinvolgimento di una singola stazione linfonodale o di una sola struttura linfatica (milza, timo, anello del Waldeyer). 89


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Stadio II: coinvolgimento di due o più stazioni linfonodali poste tutte o sopra o sotto il diaframma. Stadio III: coinvolgimento di stazioni linfonodali o strutture linfatiche sia sopra che sotto il diaframma. Stadio IV: coinvolgimento diffuso di uno o più organi extralinfatici con o senza interessamento nodale. Ogni interessamento del fegato o del midollo osseo. Gli stadi I e II denotano l’early-stage mentre gli stadi III e IV l’advanced-stage, suddivisione utile per la scelta della durata del trattamento. Per la determinazione dello stadio, oltre all’esame obiettivo, fondamentale è l’impiego di indagini radiologiche, bioptiche e medico-nucleari, ovvero la TAC, la biopsia osteomidollare e la PET che valutano rispettivamente la dimensione delle adenomegalie, le sedi a maggior attività metabolica e l’infiltrazione midollare da parte di un clone cellulare neoplastico. La PET presenta una sensibilità superiore rispetto alla TAC ed è indispensabile nella rivalutazione di malattia post-chemioterapia, permettendo di discriminare, nell’ambito di un residuo TAC, tra persistenza di malattia linfomatosa e una situazione di necrosi/fibrosi risultato della terapia somministrata. Il dato ottenuto confrontando la PET basale con quelle successive è assolutamente indispensabile per definire il risultato terapeutico raggiunto. Tra i reperti laboratoristici, quelli di più frequente riscontro sono: un aumento della VES (velocità di eritrosedimentazione), che generalmente è aumentata nei pazienti con varietà clinica B, e dell’LDH (lattatodeidrogenasi), la cui elevazione può essere ascritta a rilascio tumorale e riflette la quantità di malattia; l’emogramma è solitamente entro i valori di normalità. La diagnosi di LH non può prescindere dalla biopsia linfonodale. I criteri diagnostici del LH, tuttora in uso, furono posti nel 1966 in occasione della conferenza di Rye (Lukes RJ et al., 1966). Essi prevedono il riconoscimento di due fondamentali tipi di cellule: le prime, dette di Reed-Sternberg, possiedono grandi dimensioni, citoplasma ampio, acidofilo e due o più nuclei con cromatina 90


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finemente dispersa e voluminosi nucleoli; le seconde, dette di Hodgkin, sono invece mononucleate. Nel 1994 Kuppers, attraverso l’utilizzo della PCR, ha rivelato come le cellule tumorali originino dal centro germinativo e presentino delle mutazioni somatiche nel gene delle immunoglobuline (Kuppers et al., 2009). Questa popolazione rappresenta solo l’1-4% della massa tumorale e per essere diagnostica deve essere accompagnata da un “pabulum” citologico ben preciso, composto da differenti tipi di cellule, incluse le cellule T, cellule B, macrofagi, neutrofili, eosinofili, plasmacellule, mastociti e fibroblasti. Tra le cellule tumorali e il microambiente vi è interazione: le cellule di R-S liberano chemochine e citochine che attraggono i linfociti T, i quali si legano ai recettori espressi sulle cellule di R-S, come CD40, con conseguente attivazione del segnale che porta alla proliferazione e alla sopravvivenza delle cellule di R-S stesse (Steidl C et al., 2011). Inoltre, tali cellule producono la Galectina, un inibitore dell’attività citotossica linfocitica, che impedisce la loro uccisione a opera dei linfociti. La caratterizzazione del microambiente assume un ruolo prognostico ai fini del comportamento clinico della malattia e della sua risposta alla chemioterapia; ad esempio, l’espressione di CD68 è associata ad una prognosi peggiore (Steidl C et al., 2010). In base alla composizione cellulare, il LH può essere suddiviso in quattro varietà (Mani H et al., 2009): - Sclerosi nodulare: la più frequente nel nostro paese, predilige soggetti giovani e di sesso femminile, interessa spesso il mediastino anteriore con massa bulky e nel 2530% dei casi presenta l’integrazione di EBV. Elemento morfologico caratteristico è la presenza di bande fibrose che circoscrivono noduli neoplastici. Si distinguono un tipo I e un tipo II, a peggiore prognosi, a seconda che la quota neoplastica sia maggiore o minore al 25% del totale della popolazione cellulare osservata. - Prevalenza linfocitaria: si caratterizza per il reperto occasionale di cellule di Reed-Sternberg, di rare cellule di 91


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Hodgkin e di varianti cellulari, indicate come cellule linfo-istiocitiche o cellule a “pop-corn”. Nel 20% dei casi presenta un pattern diffuso, e nel restante 80% un pattern nodulare che ha decorso indolente, ricadute tardive e occasionale evoluzione in LGCBD (linfoma a grandi cellule B diffuso); inoltre, pur in presenza di malattia limitata ad una singola sede nodale o extranodale, all’esordio può esserci interessamento midollare. Studi citogenetici ed immunofenotipici hanno dimostrato che la popolazione neoplastica deriva da elementi del centro germinativo. - Cellularità mista: si caratterizza per la crescita di tipo diffuso, gli abbondanti elementi diagnostici e la ricca componente reattiva di accompagnamento, che può contenere anche elementi di tipo epitelioide. - Deplezione linfocitaria: si divide nel tipo fibroso e nel tipo sarcomatoso; quest’ultimo più spesso considerato come linfoma ad alto grado di aggressività, tipo LGCA (linfoma a grandi cellule anaplastico). Recentemente il LH si classifica in due forme istologiche principali (Harris NL et al., 1994): il Linfoma di Hodgkin a varietà classica (95%), comprendente sclerosi nodulare, cellularità mista, deplezione linfocitaria e ricca in linfociti, e il Linfoma di Hodgkin a prevalenza linfocitaria (5%). Queste forme sono differenti biologicamente dal punto di vista delle alterazioni genomiche, del gene-expression patterns, delle citochine coinvolte, del comportamento clinico (Devilard E et al., 2002), della presentazione clinica, e della prognosi (MacLennan KA et al., 1989): la variante classica presenta un profilo immunofenotipico caratterizzato da positività per gli antigeni CD15 e CD30, espressi sulle cellule di R-S, e la negatività per quelli B e T-associati; la forma a prevalenza linfocitaria esprime l’antigene linfocitario comune CD45, antigeni B-associati, catene J, RNA messaggero clonale delle catene leggere, proteine del gene bcl-6 (correlate con il normale sviluppo delle cellule B dei centri germinativi) e 92


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molecole di attivazione, come CD40 e CD86, coinvolte nell’interazione tra cellule B e T (Brune V et al., 2008). Decorso e prognosi La migliore conoscenza dei fenomeni biologici, della modalità di insorgenza e di diffusione del linfoma, l’introduzione dello staging e l’impiego della polichemioterapia, hanno radicalmente modificato la prognosi del LH: possiamo affermare che circa l’80-85% dei pazienti guarisce con la prima linea di chemioterapia, ovvero è libero da malattia a cinque anni dal termine della terapia; il restante 15-20% dei pazienti con early-stage (stadio I e II) e il 35-40% dei pazienti con advanced-stage (stadio III e IV) ricade o è refrattario alla prima linea di terapia (Diehl V et al., 2003). Questo risultato incoraggiante, anche se non ancora completamente soddisfacente, è stato raggiunto con l’applicazione di precisi protocolli terapeutici diversificati in base alla presenza di fattori prognostici positivi o negativi presenti all’esordio; la terapia erogata deve infatti essere più intensa e più lunga se coesistono molti fattori di rischio, più breve e meno aggressiva se il LH presenta caratteristiche prognostiche favorevoli. Cenni storici di terapia La conoscenza sempre più approfondita del linfoma di Hodgkin ha permesso di elaborare diversi modelli di terapia. Il punto di partenza è stato la caratterizzazione istologica e immunofenotipica delle cellule ritenute responsabili della neoplasia. Proprio queste si sono dimostrate essere sensibili a differenti tipi di farmaci e radiazioni, e ciò ha posto le basi per lo sviluppo e l’impiego della radioterapia in primis, e della chemioterapia negli anni successivi. La base per il successo della radioterapia nel LH è stata posta da Gilbert nel 1920-1930 (Gilbert R et al., 1931) e dallo sforzo pioneristico di Peter a Toronto nel 1950 (Peters MV, 1950). Loro hanno chiarito che la diffusione della malattia avviene per contiguità attraverso i vasi linfatici e che quindi, il linfoma di Hodgkin è una neoplasia sistemica e come tale deve essere trattata. Il gruppo di Stanford, guidato da Kaplan e Rosenberg, ha 93


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dimostrato come la radioterapia fosse una terapia curativa e ha enfatizzato il ruolo del trattamento a campi estesi e ad alte dosi. Questo tipo di trattamento è stato poi perfezionato e migliorato grazie all’impiego dell’acceleratore (Kaplan HS et al., 1966) lineare che ha permesso di agire a diversi livelli di profondità tissutale attraverso una variazione di dose; ha consentito anche una miglior delimitazione della regione da irradiare e la possibilità di irradiare un’area estesa con minime modifiche di dose. La radioterapia ha rappresentato il primo trattamento del linfoma di Hodgkin e grazie all’introduzione della tecnica a campi estesi e dell’irradiazione totale, l’80% dei pazienti è divenuta lungo-sopravvivente. Nella popolazione lungo-sopravvivente è stato evidenziato che il 20-40% dei pazienti ricadevano (Mauch PM et al., 1999; Card P et al., 1988; Specht L et al., 1998) e che c’era un maggior rischio di secondi tumori solidi e di tossicità cardiovascolare (Boivin JF et al., 1995; van Leeuwen FE et al., 2000; Ng AK et al., 2002; Specht L et al., 2003; Franklin J et al., 2006). Nel 1964 si è sviluppata la linea chemioterapica MOPP (mecloretamina, vincristina, procarbazina, prednisone) grazie agli studi di DeVita et al., che è diventata il primo modello chemioterapico capace di guarire i pazienti con LH in stadio avanzato e che ha posto le basi per la nascita dell’Oncologia Medica (DeVita VT et al., 1970; DeVita VT et al., 1980). Successivamente è stata introdotta da Rosenberg e Kaplan la possibilità di combinare la radioterapia con lo schema chemioterapico MOPP (Rosenberg SA et al., 1975). La terapia combinata ha ridotto la necessità dell’impiego della laparotomia nella stadiazione del tumore. Nel 1975 è nato il regime polichemioterapico ABVD (adriamicina, bleomicina, vinblastina e dacarbazina) grazie al lavoro del gruppo di Milano. L’ABVD è divenuta il capostipite del trattamento del linfoma di Hodgkin sia in stadio precoce che avanzato, meno tossico rispetto al MOPP e con uguale percentuale di pazienti guariti nel lungo-termine (Bonadonna G et al., 1975). Terapie innovative 94


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La chemioterapia è la terapia più efficace che consenta la guarigione del linfoma ma allo stesso tempo è molto tossica. Tra gli eventi avversi ricordiamo la tossicità ematologica che porta con sé il rischio di infezioni polmonari, di necessità di trasfusioni e di somministrazione del fattore di crescita granulocitario; la cardiotossicità con il rischio di scompenso cardiaco, valvulopatie e aritmie; i secondi tumori nel lungo termine. Per tale motivo, i pazienti non responsivi alle prime linee di terapia devono essere indirizzati a un diverso tipo di trattamento. La ricerca sta focalizzando gli studi proprio su questo fronte, chiarendo in modo sempre più dettagliato quali siano i meccanismi intracellulari e le interazioni cellula-cellula coinvolte nella crescita neoplastica. Su di esse si vuole agire in modo da creare agenti terapeutici dotati di selettività, con risparmio della popolazione cellulare sana. Questo concetto è alla base dell’immunoterapia. Esistono diversi anticorpi monoclonali e i loro bersagli. Alcuni di questi sono ancora in via di sperimentazione, altri sono stati descritti solo in via teorica. Grazie alle loro caratteristiche essi permettono trattamenti prolungati con un livello di tossicità controllabile. Tra i diversi farmaci attualmente in uso nel trattamento dei linfomi ricaduti/refrattari, il brentuximab vedotin è il farmaco più efficace. Gli studi di fase I e II sono stati condotti nei pazienti con malattia ricaduta e refrattaria dopo trapianto autologo. Nello specifico il Brentuximab vedotin (BV) è un antibody-drug conjugate, il cui utilizzo è stato approvato nel 2011 dalla US Food and Drug Administration per il trattamento del LH classico ricaduto dopo trapianto autologo di cellule staminali (ASCT) o ricaduto/refrattario dopo due linee di chemioterapia in pazienti non eleggibili ad ASCT, e per il trattamento del linfoma anaplastico a grandi cellule (ALCL) non rispondente all’ultima linea di terapia. Il BV è costituito dall’antitubulin agent monomethyl auristatin E (MMAE) legato all’anticorpo monoclonale anti CD30. Immunofenotipicamente, infatti, le cellulle di Reed-Sternberg esprimono il CD30, un recettore glicoproteico transmembrana, membro della superfamiglia dei fattori di necrosi tumorale (TNF) (Falini B et al., 1995). La via trasdotta dal CD30 sembra svolgere un 95


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ruolo in diversi pathways biologici, inclusi quelli che interessano lo sviluppo e la differenziazione dei linfociti, così come quelli che portano alla proliferazione e all’apoptosi cellulare (Falini B et al., 1995; Aizawa S et al., 1997). Il CD30 presenta una espressione molto bassa nei tessuti normali, essendo presente sulle cellule B attivate, sulle cellule T e NK. Per queste ragioni il CD30 è un eccellente target nel linfoma di Hodgkin classico (Falini B et al., 1995). Per quanto concerne il meccanismo d’azione del farmaco, il BV va a legarsi alle cellule esprimenti il CD30, con successiva internalizzazione; una volta entrato nella cellula il peptide linker viene trasportato ai lisosomi e qua degradato, mentre il MMAE, dopo essere stato rilasciato nel citoplasma, va a legarsi alla tubulina arrestando il ciclo cellulare in fase G2/M e inviando la cellula all’apoptosi. In vitro, il farmaco è efficace e selettivo nei confronti delle linee cellulari neoplastiche CD30 positive e la sua attività è stata studiata in modelli di linfoma di Hodgkin e ALCL di topi con immunodeficienza combinata severa (Sun MM et al., 2005; McDonagh CF et al., 2006; Oflazoglu E et al., 2008). Sono stati dimostrati i dati di sicurezza ed efficacia in numeri studi di Fase I e fase II. Lo studio più importante che ha portato all’approvazione del farmaco nel 2011 dalla US Food and Drug Administration (Yones A et al., 2012) è stato condotto su 102 pazienti affetti da linfoma di Hodgkin refrattari. Tutti erano stati sottoposti ad ASCT. Il tempo mediano di ricaduta dopo trapianto autologo era di 6,7 mesi; la maggioranza dei pazienti era ricaduta entro un anno. Il BV è stato somministrato per via endovenosa a un dosaggio di 1,8mg/kg ogni 21 giorni, per un massimo di 16 cicli. L’ORR era del 75% con il 34% di remissioni complete. La durata mediana di risposta era di 20.5 mesi nei pazienti in remissione completa, mentre la PFS mediana di 21.7 mesi. Gli effetti collaterali documentabili includevano neuropatia periferica sensitiva e motoria, nausea, vomito, diarrea, febbre, neutropenia, mialgia, astenia, artralgia, prurito, alopecia. Nel 50% dei pazienti la tossicità è stata di grado 3 o maggiore. Data l’efficacia del farmaco nella popolazione dei pazienti ricaduti/refrat96

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tari ci sono diversi studi in corso che associano l’anticorpo alla chemioterapia convenzionale di I linea o alla terapia di salvataggio dei II linea al fine di valutarne la capacità di potenziare l’efficacia della chemioterapia.
Una nuova categoria di farmaci promettente è quella degli agenti immunomodulanti e interagenti con il microambiente tumorale. Gli anti-PD1 sono
 anticorpi monoclonali umanizzati in grado di legare PD-1, espresso sulle cellule T e B attivate, le cellule B e le cellule mieloidi. Il PD-1 inibisce l’attivazione delle cellule T quando si lega al suo ligando, il PD-L1 o il PD- L2, presente sulle cellule tumorali e stromali. La molecola farmacologica blocca la via PD-1/PD-L1, permettendo alle cellule T citotossiche di colpire le cellule neoplastiche (Blank C et al., 2005). In studi sperimentali di fase I e II, questa categoria di farmaci si è dimostrata sicura e ben tollerata in pazienti affetti da neoplasie ematologiche in stadio avanzato, con tassi di risposta superiori all’80% nell’ambito del linfoma di Hodgkin ricaduto/refrattario (Ansell S. et al., 2015). Note Bibliografiche Hodgkin T. On some morbid experiences of the absorbent glands and spleen. Medico-chirurgical trans 1832; 17: 68-97. Banerjee D. Recent advances in the pathobiology of Hodgkin’s lymphoma: potential impact on diagnostic, predictive, and therapeutic strategies. Adv Hematol 2011; 439-456 Mani H, Jaffe ES. Hodgkin lymphoma: an update on its biology with new insights into classification. Clin Lymphoma Myeloma. 2009; 9:206–216. Sleckmann BG et al. Epstein-Barr virus in Hodgkin’s disease: correlation of risk factors and disease characteristics with molecular evidence of viral infection. Cancer Epidemiol Biomarkers Prev 1998; 7: 1117-1121 Mauch P et al. Pattern of presentation of Hodgkin’s disease Cancer 1993; 71; 6:2062-2071. Lister TA et al. Report of a committee convened to discuss the evaluation and staging of patients with Hodgkin’s disease: Cotswolds Meeting. J Clin Oncol 1989; 7:1630. 97


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IL “PASSAPORTO DEL LUNGO-SOPRAVVIVENTE” UNO STRUMENTO UTILE PER LA TRANSIZIONE DALL’ETÀ PEDIATRICA A QUELLA ADULTA DEI SOGGETTI CURATI PER TUMORE IN ETÀ PEDIATRICA Riccardo Haupt, Silvia Caruso, Vera Morsellino, Sara Pessano, Francesca Bagnasco* Davide Saraceno, Roberta Amato, Maurizio Ortali, Chiara Dellacasa **

Premessa Negli ultimi decenni si sono ottenuti importanti successi nel campo dell’oncologia pediatrica passando da un’aspettativa di “guarigione” inferiore al 30% per i bambini ammalatisi negli anni ‘60 ad una stima attorno al 75-80% per i bambini curati negli anni 2000 (Gatta G, 2014). Questo importante successo ha fatto si che aumentasse sempre più la popolazione dei cosiddetti “lungo-sopravviventi”, termine con cui sono definite internazionalmente tutte le persone che superano la soglia dei 5 anni dopo la diagnosi di tumore. Molti di questi soggetti stanno per entrare o sono già entrati nell’età adulta e si stima che nei paesi occidentali una persona su 1000 giovani adulti sia un soggetto lungo-sopravvivente da tumore pediatrico. Recenti stime pongono tra 25 e 30.000 il numero dei lungo-sopravviventi residenti in Italia e tra 300 e 500.000 quello dei residenti in Europa (AIRTUM, 2013, Winter JF, 2015). La loro età anagrafica varia tra i 5 e 65 anni con una mediana di circa 25 anni. Si deve inoltre ricordare che ogni anno a questa popolazione si aggiunge il circa 75% delle nuove diagnosi attese (in Italia 1100 nuovi “lungo-sopravviventi” dei circa 1500 bambini che mediamente ogni anno si ammalano di tumore in Italia - AIRTUM, 2013). Questo indiscutibile successo ha peraltro “un rovescio della medaglia” rappresentato dalle possibili conseguenze, anche a lungo termine, dei trattamenti somministrati per curare il tumore. Infatti i trattamenti antitumorali, specialmente se somministrati nel delicato periodo 101


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della crescita possono determinare degli effetti su vari organi od apparati che possono manifestarsi anche a distanza di anni dall’avvenuta esposizione al trattamento. I dati della letteratura (Oeffinger K, 2006, Geenen 2007, Armstrong GT, 2009, Hudson MM, 2013, Haupt R, 2013) confermano infatti che in confronto ai loro coetanei di pari sesso, i lungo-sopravviventi hanno una maggior probabilità di soffrire di patologie croniche. Secondo alcune stime, ad un’età media di 25 anni, oltre il 35% dei soggetti lamenta una o più patologie croniche di grado moderato o grave tali da necessitare di trattamento medico, alcune purtroppo con esito comunque letale. Inoltre, oltre il 20% di questi soggetti riferisce che queste patologie croniche hanno un impatto alto o molto alto sulla loro attività di vita quotidiana (Geenen, 2007). Gli organi od apparati più frequentemente colpiti sono quello endocrino, cardiaco, respiratorio, e ortopedico oltre a quello neuro-cognitivo e psicologico. Pochi dati sono ancora disponibili per quanto riguarda l’eventuale aumento del rischio di patologia cronica nelle età (>40 anni) che fisiologicamente sono caratterizzate da un aumento della stessa anche nella popolazione normale (Robison LL, 2014). Non sappiamo infatti ancora se tra i lungo-sopravviventi tali patologie avverranno con una frequenza maggiore e/o ad un età più anticipata rispetto a quanto atteso tra i loro pari età nella popolazione generale. Comunque, molte di queste patologie croniche possono essere prevenute e/o diagnosticate per tempo quando ancora in uno stadio precoce, in modo da permettere un trattamento precoce che possa evitare o contrastare la loro progressione e quindi l’instaurarsi di quadri clinici più complessi che possono influire negativamente sulla qualità e spettanza di vita dei soggetti. Sarebbe quindi opportuno che per ogni lungo-sopravvivente da tumore pediatrico fosse pianificato un programma di follow-up a distanza, personalizzato in base ai suoi specifici fattori di rischio. Da quanto detto si evince che il problema dei lungosopravviventi da tumore pediatrico non può più essere considerato di sola pertinenza pediatrica, ma che è indi102


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spensabile che anche i medici dell’adulto divengano via via consapevoli delle problematiche caratteristiche di questa popolazione. Peraltro, l’esperienza personale dei lungo-sopravviventi è estremamente variabile con differenze importanti tra diversi paesi così come all’interno dello stesso paese. In Italia, ad esempio non tutti i centri oncologici pediatrici sono organizzati per i follow-up a lungo termine né esistono procedure standard per garantire una transizione adeguata tra il mondo pediatrico e quello dei medici dell’adulto (Mulder RL, 2015, Brown MC, 2014). Anche tra i lungo-sopravviventi stessi non c’è omogeneità: non tutti sono a conoscenza o sono adeguatamente informati sui possibili effetti a distanza dei trattamenti subiti, altri non hanno informazioni adeguate su quali esami di screening siano indicati, oltre che e con che frequenza questi debbano essere fatti. Molte di queste criticità si fanno più evidenti nel il momento di transizione in cui i soggetti si avviano verso l’età adulta e perdono il contatto con il centro pediatrico che li ha seguiti durante la malattia. I lungo-sopravviventi percepiscono una qual certa minor esperienza tra i medici dell’adulto su quelle che possono essere le complicazioni a lungo termine dei trattamenti oncologici ricevuti in età pediatrica e spesso si trovano in un mondo poco conosciuto, senza una figura di riferimento. Il passaporto del lungo-sopravvivente Sulla base di queste premesse la Commissione Europea, sotto lo stimolo congiunto degli oncologi pediatri e delle associazioni dei genitori e/o dei lungo-sopravviventi ha finanziato un progetto per la creazione del “Passaporto del lungo-sopravvivente”. Secondo questo progetto (sviluppato all’interno del finanziamento dell’ European Network for research on Cancer in Children and Adolescents – ENCCA) il passaporto è un documento in formato cartaceo ed elettronico da dare ad ogni paziente, dopo la conclusione del piano terapeutico per lui/lei previsto. In tale documento viene riassunta in maniera semplice la storia della malattia, comprendente il tipo e le dosi dei trattamenti ricevuti e sono riportate le raccomandazioni personalizzate per gli eventuali screening da 103


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effettuare in futuro. Il passaporto deve poter essere traducibile in tutte le lingue europee. La struttura del Passaporto del lungo-sopravvivente La struttura del Passaporto prevede: i) un data-base ben strutturato; ii) delle linee guida condivise a livello nazionale ed internazionale, iii) un sistema web protetto e sicuro (figura 1). Il data-base: L’elenco delle informazioni ritenute indispensabili e/o necessarie è stato concordato in seguito ad un primo screening e una successiva votazione tra un gruppo internazionale di oncologi pediatri ed esperti nel campo. Oltre ai dati anagrafici del soggetto, la struttura generale del passaporto prevede la descrizione del tumore seguita dai dettagli sul trattamento oncologico per la cura del tumore, in linea con informazioni su eventuali modifiche dello stesso, dovute a recidiva o progressione del tumore durante le terapie. Complessivamente sono state identificate circa 200 informazioni ritenute necessarie per le quali si è utilizzato il più possibile un sistema di codifica internazionalmente approvato (ad esempio: i codici della classificazione internazionale dei tumori dell’organizzazione mondiale della sanità – ICD-O-3; i codici dei farmaci secondo ATC - Anatomical Therapeutic Chemical classification). Per situazioni in cui un codice internazionale non era disponibile (ad esempio, campi di radioterapia) si è provveduto a crearne uno apposito. Le linee guida: Sulla base dei trattamenti ricevuti dal singolo paziente il passaporto suggerisce automaticamente quali sono le raccomandazioni appropriate per i follow-up. Tali raccomandazioni sono basate su linee guida sviluppate ed approvate a livello internazionale. La creazione di linee guida specifiche per i lungo-sopravviventi è molto importante poiché, come detto precedentemente, questa popolazione è relativamente giovane e ancora numericamente non sufficientemente importante da permettere che i medici di famiglia acquisiscano una competenza specifica su questo argomento. Infatti, se si stima che ci sia mediamente un lungo sopravvivente 104


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ogni 1000 persone, si desume che un medico di famiglia avrà al massimo 2 o 3 soggetti tra i suoi assistiti). E’ opinione condivisa che un follow-up a lungo termine di qualità ottimale debba essere basato su raccomandazioni derivate da linee guida che riassumano l’evidenza clinica e che trasferiscano questa evidenza in linee guida per una ottimale pratica clinica. Linee guida che raccomandino interventi provati ed efficaci e scoraggino quelli inefficaci, possono ridurre la morbidità e mortalità legata agli effetti tardivi, migliorare la qualità di vita dei lungo-sopravviventi e contribuire ad un utilizzo più appropriato delle risorse del sistema sanitario nazionale. La selezione e lo sviluppo delle linee guida Le linee guida vengono solitamente sviluppate da un gruppo di esperti e sono basate su un complesso lavoro (Kremer LC, 2013). Inizialmente si identificano gli argomenti per i quali linee guida per lo screening sembrano più utili. Questo primo passo è sviluppato utilizzando un’indagine di tipo Delphi per identificare gli argomenti che abbiano una rilevanza clinica e per i quali ci sia la possibilità che una diagnosi precoce permetta un intervento in grado di modificare favorevolmente il decorso della malattia. Successivamente vengono poste le domande rilevanti alle quali le linee guida devono dare una risposta: in generale si può dire che si vuole identificare: i) chi è a rischio della complicazione in studio, ii) qual è l’esame di screening più indicato per identificare, in una fase precoce, la possibile alterazione, iii) quanto tempo dopo la fine del trattamento deve essere iniziato lo screening, iv) con che frequenza e per quanti anni deve essere eseguito; infine v) che fare se qualche anomalia viene identificata. A questo punto si analizzano le varie linee guida già sviluppate separatamente da vari gruppi cooperativi e si analizzano eventuali concordanze e discordanze tra le stesse. Se già esiste piena concordanza tra tutte le linee guida analizzate, la raccomandazione pertinente viene automaticamente accettata senza ulteriore lavoro. In caso di dati non concordanti, in una terza fase viene ef105


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fettuata una revisione sistematica della letteratura scientifica per identificare gli articoli scientifici che sono considerati sufficientemente rilevanti (per numero di casi studiati, tipo di analisi e di pazienti in studio). Una volta identificati i lavori considerati importanti, vengono preparate delle “tabelle di evidenza” dove per ogni lavoro vengono individuati i punti di forza e/o di debolezza del lavoro stesso. Per ogni punto viene quindi definita: i) la forza con cui viene fatta la raccomandazione e ii) il livello di evidenza scientifica che supporta tale raccomandazione. Sono stai identificati 4 livelli di “forza della raccomandazione” a cui è stato dato un codice cromatico chiamato “del semaforo” dove il colore verde indica una forte raccomandazione (“deve essere fatto”), il colore giallo, una raccomandazione più debole (“è ragionevole fare”), il colore arancione, una raccomandazione ulteriormente meno forte (“potrebbe essere preso in considerazione di fare”) e il colore rosso che indica una forte raccomandazione a non fare (“più danno che beneficio”). Per quanto riguarda invece il livello dell’evidenza scientifica, sono previsti 3 livelli identificati con le lettere A, B, e C. “A” equivale a un alto livello di evidenza in quanto basata su studi di alta qualità o su revisioni sistematiche della letteratura; “B” indica un livello moderato o basso di evidenza basato sempre su studi importanti ma con qualche limitazione importante; infine il livello “C” indica un’evidenza basata su studi con alcuni punti deboli o addirittura su “opinione di esperti” - ma non basta - su studi clinici documentati. I gruppi cooperativi per lo sviluppo delle linee guida PanCareSurFup (PanCare Childhood and Adolescents Cancer Survivor Care and Follow-up Studies) è l’acronimo di un gruppo di studio europeo all’interno del quale si stanno sviluppando le linee guida internazionali per il follow-up dei lungo-sopravviventi da tumore pediatrico (Hjorth L, 2015). Queste linee guida hanno una valenza addirittura trans-continentale in quanto PanCareSurFup collabora con l’IGHG (International Guidelines Harmonization Group) cui contribuiscono ricercatori 106


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dal Nord America, Australia, e Giappone (Kremer LC, 2013). Sulla base dell’indagine Delphi precedentemente effettuata è stata quindi creata una lista prioritaria delle linee guida da produrre (figura 2). Le linee guida per lo screening della cardiomiopatia e del tumore al seno secondario sono già state concluse e pubblicate su importanti riviste scientifiche (Mulder R, 2013, Armenian S, 2015). Le linee guida per lo screening per l’insufficienza ovarica precoce e per la sterilità maschile sono state completate e già sottoposte alle critiche dei revisori di altre riviste scientifiche, inoltre ad oggi sono in fase di quasi completa preparazione le linee guida per lo screening e diagnosi precoce del tumore secondario alla tiroide, dei tumori cerebrali secondari, dell’insufficienza tiroidea, della disfunzione ipofisaria, e del metabolismo dell’osso. Si prevede che entro la fine del 2017 tutte le raccomandazioni per il follow-up degli organi od appartai più a rischio saranno completate. Ovviamente, la lingua internazionale per lo sviluppo del passaporto e delle linee guida è l’inglese. Peraltro ed in parallelo con lo sviluppo del passaporto e delle linee guida si sta procedendo alla traduzione nelle varie lingue europee sia delle variabili che costituiscono il passaporto che delle raccomandazioni ad esso collegate. Per ogni raccomandazione è stata prodotta una piccola brochure in formato pieghevole ove vengono date indicazioni generali sull’organo o sistema interessato (ad esempio: il cuore e sistema circolatorio, le ovaie e l’apparato genitale femminile) e, in formato di domanda e risposta, su quali siano le raccomandazioni specifiche per lo screening mirante alla diagnosi precoce della malattia in questione. Nella figura 3 sono riportati alcuni esempi della brochure per la cardiomiopatia e il tumore al seno secondario tradotte oltre che in inglese, anche in Italiano e tedesco. Il sistema informatico Il sistema informatico per la creazione del Passaporto del lungo-sopravvivente è stato realizzato utilizzando una piattaforma informatica sviluppata da Cineca – Consorzio Interuniversitario e configurata ad hoc per rispon107


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dere alle esigenze del progetto. Il sistema è completamente basato su tecnologie web-based e rispetta i requisiti di affidabilità, sicurezza e privacy richiesti per la gestione delle informazioni di carattere clinico, tramite l’utilizzo delle più recenti tecnologie in ambito internet e all’aderenza a standard di qualità tecnologici aderenti a linee guida di riferimento internazionali (es. certificazione a ISO 27001 relativa alla qualità e alla sicurezza delle informazioni). L’acquisizione delle informazioni necessarie per la generazione del passaporto può essere effettuata in due diversi modi: 1) Inserendo le informazioni del paziente direttamente nel sistema, tramite un’interfaccia utente che permette la compilazione di schede elettroniche con inserimento manuale dei dati. Si è stimato che la procedura di estrazione dei dati direttamente dalle cartelle cliniche può essere anche molto complessa con un tempo medio stimato (dal caso più semplice fino a quello più complesso) di circa 2,5 ore per ogni soggetto che conclude il suo programma terapeutico. 2) Importando i dati del paziente in modo automatico, tramite interoperabilità con i sistemi ospedalieri esistenti, utilizzando i dati precedentemente raccolti elettronicamente durante l’iter terapeutico (es. dati del trial clinico in cui il paziente è stato arruolato, o dati estratti dalla cartella clinica informatica, se disponibile, nella singola istituzione).Questa seconda opzione richiede ovviamente un lavoro preliminare relativo alla standardizzazione delle informazioni, ma consentirebbe un risparmio notevole di tempo da parte del clinico per la generazione del Passaporto. Sulla base della storia clinica del paziente e dei trattamenti effettuati il sistema elabora la linea guida da suggerire al paziente utilizzando complessi algoritmi calcolati in funzione delle indicazioni fornite dal panel di esperti internazionali. E’ comunque responsabilità del medico validare la linea guida proposta dal sistema, o suggerirne altre prima della generazione del Passaporto che può essere così disponibile sia in formato cartaceo (PDF) che elettronico, per eventuali condivisione online 108


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da parte del paziente con personale clinico. Il passaporto cartaceo (su uno o più fogli A4) sarà quindi la firmato dal medico e consegnato, assieme alle brochures pertinenti, all’interno di una cartelletta personalizzata (vedi figura 4). Il Passaporto individuale è inoltre corredato anche di un codice QR che consente di accedere facilmente via web alle informazioni inserite ed alle linee guida, esiste inoltre un codice a barre per verificare la validità (ultima versione) del passaporto stesso. Il sistema è particolarmente innovativo in quanto gestisce automaticamente la traduzione delle informazioni in varie lingue, consentendo pertanto la consultazione di un Passaporto nelle diverse lingue previste dal sistema (italiano, inglese, tedesco,..). L’applicazione è pensata per poter essere accessibile e utilizzabile tramite dispositivi mobili (tablet o smartphone). Generazione del passaporto e assegnazione raccomandazioni per il follow-up La procedura prevede che al momento della fine delle cure o qualche tempo dopo, a seconda delle decisioni del centro curante verrà offerta ad ogni singolo paziente o ai suoi genitori, la possibilità di essere munito del passaporto. Se tale opportunità viene accettata, dopo firma di un consenso informato alla conservazione ed utilizzo dei dati, il sistema informatico provvederà a generare il passaporto che verrà quindi consegnato all’interessato. Il passaporto, potrà quindi seguire il lungo-sopravvivente e si potranno via via inserire (non ancora implementato nel sistema) i dati riguardanti gli esiti degli esami di controllo via via eseguiti. Nello sfortunato caso di una recidiva del tumore primitivo o della comparsa di un secondo tumore, il passaporto verrà temporaneamente “sospeso” fino alla nuova sospensione delle cure quando verrà consegnato un nuovo passaporto contenete anche le informazioni sui nuovi trattamenti ricevuti (figura 5). Conclusioni Il passaporto del lungo-sopravvivente risponde ad un'esigenza sempre più evidente da parte dei soggetti guariti 109


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da tumore pediatrico. Questo fatto era stato a suo tempo evidenziato e sottolineato nella cosiddetta “dichiarazione di Erice” (Haupt R, 2007) fatta da un gruppo di pediatri oncologi, epidemiologi, infermiere, guariti e le loro famiglie. La dichiarazione è costituita da un decalogo sul concetto di cura e prendersi cura dei tumori pediatrici. Come preambolo, la dichiarazione afferma che “l’obiettivo a lungo termine del trattamento e dell’assistenza ad un bambino con tumore è che possa diventare un soggetto adulto, resiliente, in buone condizioni generali, autonomo e con una qualità di vita riguardo alla salute ottimale, accolto nella società nella stessa misura dei suoi pari per sesso ed età”. Al punto 3 si dichiara inoltre: “Una volta raggiunta la sospensione delle cure, è responsabilità del centro oncologico pediatrico fornire al paziente e ai suoi genitori una relazione riportante le caratteristiche della malattia, delle cure ricevute, e delle eventuali complicazioni avvenute durante i trattamenti. La relazione deve essere accompagnata da suggerimenti sulla frequenza e sul tipo di esami di da eseguire per controllare l’andamento del tumore originale, così come i potenziali effetti a distanza della malattia o dei trattamenti utilizzati per la sua cura. Quando il “lungo-sopravvivente” entra nell’età adulta, dovrebbe essere indirizzato ad un centro specialistico adeguato che possa organizzare il follow-up a lungo termine…”. Riteniamo che lo sviluppo del Passaporto del lungosopravvivente abbia risposto all’esigenza indicata dalla dichiarazione di Erice e che esso abbia un duplice aspetto: sia assistenziale che di ricerca clinica. Sotto l’aspetto assistenziale il Passaporto può essere uno strumento prezioso per i lungo-sopravviventi fornendo loro un documento che riassuma la loro storia clinica e dia delle indicazioni basate su dati della letteratura, a supporto dell’esigenza o meno di determinati esami di screening. Questo permetterà una più responsabile presa in cura di se stessi oltre che un rapporto più paritetico con i medici curanti. A questo proposito, il passaporto inoltre agevolerà il momento delicato della transizione dall’età pediatrica a quella dell’adulto, rendendole linee guida disponibili anche per il medico di 110


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famiglia. Infine, si presume che il passaporto permetterà un miglior utilizzo delle risorse del sistema sanitario. Ricordiamo infatti che se è vero che lo screening ha un costo, la malattia cronica in fase avanzata ha un costo molto maggiore. Non bisogna scordare anche altri importanti possibili usi del passaporto per progredire nella ricerca scientifica. Un attento monitoraggio standardizzato dei pazienti lungo-sopravviventi potrà aiutare nell’identificare precocemente eventuali nuove “epidemie” di effetti a distanza, ad oggi non ancora conosciute, poiché i lungosopravviventi di oggi non hanno ancora raggiunto in un numero quantitativamente rilevante le età della vita (>40 anni) in cui la patologia cronica inizia ad aumentare anche nella popolazione normale. Sarà possibile quindi anche individuare eventuali nuovi fattori di rischio. Questi dati saranno trasmessi a chi è principalmente interessato al disegno delle moderne strategie terapeutiche. Sarà quindi probabilmente passare dal paradigma della “guarigione ad ogni costo” a quello della “guarigione al minor costo possibile”. Bibliografia AIRTUM Working Group; CCM; AIEOP Working Group. Italian cancer figures, report 2012: Cancer in children and adolescents. Epidemiol Prev. 2013 Jan-Feb;37(1 Suppl 1):1-225. Armenian SH, Hudson MM, Mulder RL, Chen MH, Constine LS, Dwyer M, Nathan PC, Tissing WJ, Shankar S, Sieswerda E, Skinner R, Steinberger J, van Dalen EC, van der Pal H, Wallace WH, Levitt G, Kremer LC; International Late Effects of Childhood Cancer Guideline Harmonization Group. Recommendations for cardiomyopathy surveillance for survivors of childhood cancer: a report from the International Late Effects of Childhood Cancer Guideline Harmonization Group. Lancet Oncol. 2015 Mar;16(3):e123-36. Armstrong, GT, Liu Q, Yasui Y, Neglia JP, Leisenring W, Robison LL, Mertens AC. Late mortality among 5-year survivors of childhood cancer: a summary from the Childhood Cancer Survivor Study. J Clin Oncol. 2009 May 10;27(14):2328-38. 111


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CONSAPEVOLMENTE - Capitolo I

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CONSAPEVOLMENTE - Capitolo I

F, Haupt R, Skinner R, Madanat-Harjuoja LM, Tryggvadottir L, Wesenberg F, Reulen RC, Grabow D, Ronckers CM, van Dulmen-den Broeder E, van den Heuvel-Eibrink MM, Schindler M, Berbis J, Holmqvist AS, Gudmun-

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dsdottir T, de Fine Licht S, Bonnesen TG, Asdahl PH, Bautz A, Kristoffersen AK, Himmerslev L, Hasle H, Olsen JH, Hawkins MM. Childhood cancer survivor cohorts in Europe. Acta Oncol. 2015 May;54(5):655-68.

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ADOLESCENTI IN TERAPIA E FUORI TERAPIA: GESTIONE NELLA RETE DI ONCOEMATOLOGIA PEDIATRICA PIEMONTE E VALLE D’AOSTA Eleonora Biasin, Franca Fagioli Le reti assistenziali sono programmi di attività integrate, su base territoriale, finalizzati alla soddisfazione di un insieme di bisogni sanitari. Il principale obiettivo delle reti è quello di assicurare un’adeguata, omogenea ed efficiente qualità dell’assistenza per tutta la popolazione bersaglio. Le malattie neoplastiche hanno una peculiarità che impone l’adozione di complesse soluzioni organizzative che vengono genericamente definite “Reti Oncologiche”. La “Rete” quindi non è un modello gerarchico, ma un modello organizzativo dove l’integrazione è qualcosa di più della semplice relazione fra strutture erogatrici, che nel loro insieme costituiscono un sistema e una squadra. Il coordinamento di tutte le azioni che riguardano l’assistenza al paziente neoplastico è un punto irrinunciabile se si vogliono raggiungere standard di qualità elevati dell’assistenza oncologica e rappresenta un requisito fondamentale per consentire un uguale accesso alle cure in tutto il territorio nazionale. Il Piano Oncologico Nazionale 2011-2013 ha previsto pertanto l’attuazione di Reti Oncologiche Regionali (ROR) di cui molti esempi operativi sono stati attivati. In particolare, la Rete Oncologica Piemontese è stata la prima ad essere istituita in Italia con D.G.R. n° 5071391 del 2000 che ne ha attuata la sperimentazione; ed è attualmente attiva dal 2003 (figura 1).

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Figura 1. Piano Oncologico Nazionale 2011-2013

La Rete di Oncologia e Oncoematologia pediatrica di Piemonte e Valle d’Aosta, approvata con il D.G.R. n°30/14272 del 6.12.2004, ha l’obiettivo di fornire risposte immediate e adeguate alle esigenze della popolazione e di garantire le cure appropriate per le patologie oncologiche del bambino, in accordo con quanto previsto dalle specifiche linee guida nazionali (G.U. n. 236 del 07.10.1999). Compito della Rete è il coordinamento delle attività assistenziali: presa in carico diagnostico-terapeutica con approccio multidisciplinare, assistenza psico118


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logica, riabilitazione psicologica, fisica e sociale, collaborazione con il Territorio (Pediatri di Libera Scelta, medici di Medicina Generale, medici dei Presidi Ospedalieri e delle Strutture di Oncoematologia per adulti) e con le associazioni di volontariato, terapia del dolore e cure palliative, monitoraggio a lungo termine dei soggetti guariti. Inoltre la Rete partecipa alla programmazione di studi collaborativi epidemiologici, biologici, clinici e psicologici. La Rete di Oncologia e Oncoematologia Pediatrica di Piemonte e Valle d’Aosta (secondo lo schema di riorganizzazione approvato con il DRG n° 41-5670 del 13 Aprile 2013) è attualmente composta da un Centro di Riferimento Regionale (HUB) (responsabile: dr.ssa Franca Fagioli, direttore S.C. Oncoematologia e Centro Trapianti), identificato nel Polo Oncologico di Torino, con sede presso la Città della Salute e della Scienza di Torino, presidio Ospedale Infantile Regina Margherita, e da nove Centri Spoke, di cui 6 di primo livello e 3 di secondo livello, dislocati su tutto il territorio del Piemonte e della Valle d’ Aosta (figure 2-4).

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Figura 4

L’attività dei Centri Spoke viene svolta in continua collaborazione con il Centro Hub secondo protocolli da questo stabiliti. Il personale medico-infermieristico e gli psicologi dei Centri Spoke vengono inoltre costantemente aggiornati tramite la partecipazione ai G.I.C. (Gruppo Interdisciplinare Cure) specifici per leucemie e linfomi, tumori solidi, tumori dell’osso, patologia neuro-oncologica, tossi121


CONSAPEVOLMENTE - Capitolo I

cità tardiva. A tali riunioni, che si svolgono con cadenza bimestrale, prendono parte tutti gli specialisti coinvolti nel percorso di diagnosi e cura dei pazienti. Il Centro di Riferimento organizza inoltre corsi di formazione ed aggiornamento dedicati, al fine di condividere e diffondere mediante il portale di rete i protocolli di diagnosi e di cura e le procedure operative standard in uso. Adolescenti e Rete di Oncologia e Oncoematologia pediatrica di Piemonte e Valle d’Aosta Nell’ambito della Rete di Oncologia e Oncoematologia pediatrica di Piemonte e Valle d’Aosta vengono seguiti pazienti con età compresa tra 0 e 18 anni, in modo da garantire un adeguato livello di assistenza anche ai pazienti adolescenti, in linea con la grande attenzione che, negli ultimi anni, viene dedicata a questo gruppo di pazienti. Gli adolescenti infatti corrono spesso il rischio di trovarsi in una zona di confine tra il mondo dell’oncologia pediatrica e il mondo dell’oncologia medica dell’adulto e, per tale motivo, a parità di condizione clinica (malattia e stadio), hanno minori probabilità di guarigione rispetto ai bambini, spesso semplicemente in relazione alla rapidità con cui si arriva alla diagnosi, alla qualità della cura, all’arruolamento nei Protocolli clinici. Questa tipologia di pazienti necessita infatti di Protocolli adeguati che, a volte, richiedono l’interazione degli oncologi pediatri con gli oncologi e/o ematologi dell’adulto. Inoltre, adolescenti e giovani adulti hanno bisogni complessi e peculiari, legati all’insorgenza della malattia in un momento particolarmente delicato del processo di crescita. Curare gli adolescenti vuol dire riconoscerne la complessità nella gestione e la necessità di una presa in carico globale del paziente – e della sua famiglia – attraverso un’equipe multi-disciplinare. Curare gli adolescenti vuol dire anche essere in grado di offrire infrastrutture e servizi adeguati; avere cioè staff, spazi e progetti dedicati, un reparto che non abbia vincoli di età che limitino l’accesso di pazienti a cavallo tra l’età pediatrica e quella adulta, servizi indi122


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spensabili come quello della preservazione della fertilità, equipe in grado di affrontare problemi scolastici e di orientamento professionale. Infatti, è importante ricordare come in Italia, nel periodo 2003-2008, i tumori degli adolescenti (15-19 anni) abbiano rappresentato lo 0.2% di tutti i tumori (Figura 5).

Seppur rari, negli adolescenti i tumori rappresentano la seconda causa di decesso dopo le morti per cause violente e incidenti. La patologia tumorale in questa fascia di età presenta caratteristiche biologiche e cliniche diverse dai tumori dell’adulto, per questo motivo si è deciso di trattarli presso i centri pediatrici ed in particolar modo nell’ambito della Rete di Oncologia e Oncoematologia pediatrica di Piemonte e Valle d’Aosta vengono assistiti pazienti fino ai 18 anni di età. Ma presso i nostri Centri non afferiscono solamente i pazienti di età adolescenziale al momento della diagnosi; c’è infatti una popolazione di pazienti che raggiunge l’età adolescenziale dopo il termine del trattamento, durante il follow up per la malattia di base e per 123


CONSAPEVOLMENTE - Capitolo I

gli eventuali effetti tardivi correlati al trattamento effettuato (Figura 6). Figura 6. Proporzione di persone (uomini e donne, per milione di residenti) in vita dopo una diagnosi di tumore a 0-14 anni per età alla diagnosi. (I TUMORI IN ITALIA - RAPPORTO 2012 I tumori dei bambini e degli adolescenti. AIRTUM)

È ormai noto come negli ultimi decenni si stia assistendo da una parte ad un aumento dell’incidenza di patologie tumorali e dall’altra a una riduzione della relativa mortalità (Figura 7). 4

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La sopravvivenza globale a 5 anni per tumore in età pediatrica ha ormai raggiunto l’80%. Nell’anno 2000 si stimava che 1 su 900 giovani adulti di età compresa tra i 16 e i 34 anni sarebbe stato un “sopravvivente di tumore trattato in età pediatrica”, nel 2006 questa stima ha raggiunto 1 su 450 e attualmente si aggira intorno a 1 su 300. Gli operatori che lavorano in oncoematologia pediatrica devono quindi essere formati sulle peculiarità ed essere attenti alle esigenze degli adolescenti. Tra gli operatori vanno annoverate tutte le persone che vengono a contatto con i pazienti: in primis medici, infermieri, OSS, psicologi ma anche inseganti, assistenti sociali, mediatori culturali, personale amministrativo e volontari. Il primo contatto con l’adolescente avviene al momento della diagnosi, caratterizzato da accoglienza del ragazzo e comunicazione. In questa fase la comunicazione della diagnosi avviene in maniera congiunta al paziente e al genitore da parte del medico e dello psicologo del Centro HUB. Il paziente viene invitato a firmare un consenso per “minore maturo” e sollecitato ad effettuare eventuali colloqui in assenza dei genitori per poter esprimere più liberamente le proprie paure ed angosce. In questa fase si cerca inoltre di entrare in relazione con l’adolescente, mediante l’accoglienza di eventuali fidanzati/e ed amici, che risultano essere persone altrettanto importanti per i ragazzi in questa fascia di età. Durante la fase di trattamento il paziente adolescente afferisce al Centro di riferimento (Hub) e ai Centri Spoke. In tutti i casi è possibile proseguire la scuola tramite la scuola ospedaliera o domiciliare. Presso il Centro Hub esiste uno spazio adolescenti nella sala giochi e vengono organizzate riunioni di gruppo ed attività ludico-ricreative (es. cineforum settimanale). Dal momento in cui i pazienti concludono il trattamento (off therapy) vengono seguiti con visite di controllo regolari presso un ambulatorio dedicato con valutazioni in accordo ai protocolli di cura e ai protocolli di gestione degli effetti tossici delle terapie. Esistono quindi degli ambulatori specifici per patologie con problematiche peculiari (tumori cerebrali, tumori ossei) che richie125


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dono l’intervento di specialisti (neurochirurgo, fisioterapista, ortopedico). Inoltre, per garantire al meglio il follow up nell’età di giovane adulto, esiste un ambulatorio dedicato presso la Città della Salute e della Scienza di Torino, Presidio Ospedaliero Molinette (Unità di Transizione per Neoplasie curate in Età Pediatrica) a cui afferiscono tutti i pazienti che abbiano compiuto 18 anni e siano off therapy da almeno 5 anni; questo per garantire una “transizione” mirata in un ambiente specialistico dell’adulto. La gestione del paziente in età adolescenziale beneficia inoltre dell’intervento dei numerosi volontari e delle associazioni di volontariato che organizzano anche attività dedicate a questa fascia di età. Presso il nostro Centro un gruppo di ex pazienti, tutti giovani adulti, ha fondato un’associazione (Con volontà puoi) che dona sorrisi ai piccoli e grandi pazienti in ospedale. Consideriamo questo un grande traguardo che ci ricorda ogni giorno quanto la relazione con i pazienti abbia un ruolo fondamentale durante il percorso di cura e successivamente nel follow up.

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Giovanni Martinelli COSA POSSIAMO FARE PER FAVORIRE L’ACCESSO FACILITATO ALLA TARGET THERAPY NEGLI ADOLOSCENTI - YOUNG ADULTS. Nell’ultimo decennio la terapia oncoematologica si sta spostando sempre più verso l’utilizzo di farmaci biologici e tumoreali specifici. Essendo farmaci in via di sperimentazione, molti sono somministrati all’interno di protocolli di ricerca specifici per la popolazione pediatrica o per i soggetti anziani (oltre i 65 anni di età). Per gli adulti invece la sperimentazione è mirata soprattutto a quei soggetti resistenti/ricaduti già trattati con le chemioterapie convenzionali. Somministrare certi farmaci soltanto dopo aver provato già a ‘’sparare le normali cartucce’’ è sicuramente una strategia basata sulla necessità di esporre il paziente a minori rischi possibili ma che spesso porta noi clinici a poter utilizzare i farmaci più innovativi quando il paziente si trova già debilitato dalle precedenti cure o con una malattia in stadio di avanzamento, solitamente più resistente della malattia iniziale, a causa del processo di selezione clonale. Inoltre, recenti dati clinici e di laboratorio evidenziano come la popolazione 18-30 anni presenti caratteristiche di malattia diverse dagli adulti tra i 50 e i 65 anni. La leucemia dell’adolescente e del giovane adulto probabilmente origina da difetti per lo più congeniti, potenziati col passare del tempo da fattori ambientali predisponenti, mentre nella popolazione 50-65 anni spesso la malattia è dovuta ad eventi meramente stocastici o agenti ambientali. Pur avendo due basi biologiche differenti non esiste ad oggi uno studio che differenzi tali popolazioni di malati leucemici e che permetta lo studio di determinati farmaci nello specifico della popolazione definita “young adults” 1: Anche la fascia dei pazienti adolescenti, tra i 16 e i 18 anni, la cui malattia spesso presenta le caratteristiche della leucemia acuta dell’adulto piuttosto che le caratteristiche pediatriche, viene ad essere esclusa dai protocolli per adulti e spesso il clinico è costretto ad un approccio secondo protocolli pediatrici, che non sempre è il più appropriato. Per questi motivi si sente ogni giorno di più la ne127


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cessità di portare l’innovazione alla portata di tutti i pazienti oncoematologici, raccogliendo le basi scientifiche e di laboratorio che permettano un utilizzo sicuro e mirato delle nuove terapie e che forniscano ulteriori dati per lo sviluppo di farmaci sempre più specifici. A partire dal 2013 L’Università di Bologna ha avviato un progetto di ricerca europeo denominato “Next generation sequencing for target Personalized therapy in leukemia” il cui scopo è quello di sequenziare l’intero genoma dei pazienti a nuova diagnosi / ricaduta di leucemia acuta arruolati nel biennio 2013-2015. Al progetto hanno partecipato altri nove centri in tutta Europa, che comprendevano sia centri di ricerca universitari 1 che aziende implicate nel settore di ricerca genomica2: 1. Katholieke Universiteit Leuven (KU Leuven) Belgium; Fundacion De Investigacion Del Cancer De La Universidad De Salamanca (FICUS) Spain; University of Turin (UNITO) Italy; University of ULM (UULM) Germany; Masarykova Univerzita (MU) Czech Republic; 2. Personal Genomics SRL Italy; FASTERIS SA Switzerland; SINAPTICA IT SRLItaly; Muenchner LeukaemiaLabor GmbH (MLL) Germany; L’Università di Bologna è stato il centro coordinatore del progetto.

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CONSAPEVOLMENTE - Capitolo I

Gli obbiettivi di tale analisi, il cui elaborato è tutt’ora in corso vista la vasta mole di campioni ottenuti, sono quelli di: 1) Sviluppare un Network di lavoro europeo che permetta una collaborazione solida tra clinici e laboratoristi all’interno del settore ematologico Il lavoro ha permesso di costruire una piattaforma web dove i singoli centri possano inserire i risultati delle analisi genetiche, piuttosto che i dati clinici e laboratoristici dei pazienti arruolati così che le informazioni siano condivise/elaborate/discusse in tempo reale, con la collaborazione di tutti i partecipanti al progetto. 2) Scoprire e chiarire le basi dei meccanismi di leucemogenesi e sviluppare un modello genetico che possa definire accuratamente nuovi sottotipi di malattia basati sul profilo genetico del singolo paziente(2). Nel corso dell’arruolamento dei pazienti è stato prelevato materiale genetico a partire da campioni di saliva, contenenti le cellule sane dei pazienti, e una parte dei campioni di agoaspirato/biopsia osteomidollare richiesta per la normale routine alla diagnosi o alla ricaduta di malattia. In questo modo si possono andare a cercare le differenze all’interno del genoma dello stesso paziente confrontando le cellule somatiche sane con quelle tumorali, cercando così l’alterazione epigenetica/genetica o di trascrizione che abbia comportato l’origine della malattia. Questo metodo ci permette di scremare tutte quelle differenze genetiche alla base delle differenze naturali tra i singoli individui e le differenze patogenetiche invece avvenute col tempo all’interno delle stesse cellule di un individuo sano che hanno portato alla malattia (3)(4). 3)Sviluppare un modello statistico e informatico che permetta di associare i dati genomici con la clinica e la biologia molecolare dei pazienti sia in termini di terapia che di outcome (5). 3 Europian Medicines Agiency 4 Agenzia Italiana del Farmaco 5 Off-label: al di fuori della prescrizione per cui il farmaco è stato approvato dall’ AIFA. 129


CONSAPEVOLMENTE - Capitolo I

Dopo aver valutato le alterazioni comuni o proprie dei campioni analizzati seguendo la storia clinica dei pazienti sarà possibile fare un indagine statistica sul valore predittivo di tali alterazioni, andando a ricercare una corrispondenza tra determinati pathway genetici e i tassi di risposta alla terapia piuttosto che la sopravvivenza media dei pazienti che li presentano. Tale approccio è già alla base dell’odierna pratica clinica in oncoematologia, ma poter disporre dell’intero corredo genetico degli individui malati si spera possa apportare una notevole quantità di informazioni aggiuntive e complementari che possano aiutare ulteriormente i clinici nel svolgere al meglio il loro lavoro. Sapere già se un determinato sub clone di malattia leucemica presenti o meno determinate caratteristiche di aggressività/resistenza è infatti molto importante sia per permettere di partire con cure più aggressive nei confronti di quei pazienti che le necessitino(6), sia per evitare gli effetti collaterali di tali trattamenti in pazienti la cui malattia potrebbe rispondere anche ad approcci più moderati(7). 4)Sviluppare un pannello diagnostico per le leucemie in grado di permettere l’utilizzo di farmaci mirati per le specifiche alterazioni presentate dal clone tumorale del singolo paziente. Questo aspetto rappresenta il nocciolo del discorso. Infatti, se ad oggi la sperimentazione clinica non permette l’utilizzo di molti farmaci ‘alterazione-specifici’ nei pazienti young adults, poiché non rientrano nei criteri di selezione dei protocolli o nei criteri di prescrizione EMA3/AIFA4per l’utilizzo dei farmaci già approvati, sapere che un paziente così giovane e con una lunga aspettativa di vita alla guarigione presenti un’alterazione potenzialmente target di tali farmaci, permetterebbe ai medici di richiederne l’uso compassionevole od off-label5, introducendo questa categoria di molecole anche nella pratica clinica di pazienti che, come già esplicato, si ritrovano a volte "esclusi’’. Questo progetto costituisce la base con cui ottimizzare un metodo di lavoro e di indagine che senza dubbio rappresenterà il futuro dell’oncoematologia e della medi130


CONSAPEVOLMENTE - Capitolo I

cina in generale (8). La target therapy è infatti una frontiera che si sta sviluppando in quasi tutti i campi clinici basandosi sia su uno studio più mirato della malattia sia una messa in atto di terapie adeguate e sempre più efficaci (9)(10). Per qualsiasi informazione e approfondimento il progetto è on-line al link www.NGS-PTL.com References 1. Stock W. Adolescents and young adults with acute lymphoblastic leukemia. Hematology Am Soc Hematol Educ Program. 2010; 2. Villamor N. Next-generation sequencing in chronic lymphocytic leukemia. SeminHematol. 2013 Oct; 3. Luthra R. Next-generation sequencing-based multigene mutational screening for acute myeloid leukemia using MiSeq: applicability for diagnostics and disease monitoring. Haematologica. 2014 Mar; 4. Welch JS1, Genomics of AML: clinical applications of next-generation sequencing. Hematology Am Soc Hematol Educ Program. 2011; 5. Asad Muhammad Ilyas, Sultan Ahmad, Next Generation Sequencing of Acute MyeloidLeukemia: Influencing Prognosis 6. Mansouri L. Feasibility of targeted next-generation sequencing of the TP53 and ATM genes in chronic lymphocytic leukemia. Leukemia. 2014 Mar; 7. Shyr D1, Liu Q Next generation sequencing in cancer research and clinical application. Biol Proced Online. 2013 Feb 13; 8. Hyung Soon Park, Sun Min Lim. Pilot Study of a NextGeneration Sequencing-Based Targeted Anticancer Therapy in Refractory Solid Tumors at a Korean Institution, April 22, 2016; 9. Al-Mousa H1, Abouelhoda M. Unbiased targeted nextgeneration sequencing molecular approach for primary immunodeficiency diseases. J Allergy Clin Immunol., 2016; 131


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LA FORMAZIONE UNIVERSITARIA IN CURE PALLIATIVE. REALTÀ E PROSPETTIVE IN ITALIA Guido Biasco

Introduzione L’Accademia non ha tenuto nella dovuta considerazione l’area delle cure palliative (1). Anche in nazioni che potremmo definire come leading countries del settore, le cure palliative e, più in generale, le medical humanities, hanno avuto poco spazio nei programmi di insegnamento pre- e post-laurea. Un piano formativo basato sul concetto della guarigione a tutti i costi, accompagnata dalla evoluzione esponenziale delle tecniche chirurgiche e delle conoscenze mediche farmacologiche e tecnologiche ha messo in secondo piano il risvolto umanistico della medicina. Questo aspetto è invece parte essenziale della azione del medico che dovrebbe considerare la cura basata più sul paziente che sulla malattia (2). Il concetto della personalizzazione della cura sta portando però con sé anche quello del prendersi cura. In pratica la cura della persona sino all’ultimo momento della sua vita. In una condizione spesso cronica e degenerativa, questo significa essere in grado di offrire una competenza “palliativa”, intesa come provvedimento di fronte ai bisogni, fisici e psicologici, che accompagnano il percorso terminale di una condizione di malattia (3). La consapevolezza della formazione in un campo, quello della gestione assistenziale del fine vita, sta diventando richiesta sempre più pressante di una società in evoluzione e l'Università non può esimersi dal rispondere a tale richiesta intervenendo negli ambiti che istituzionalmente le competono e realizzando una macchina formativa che sincronizzi competenze funzionali a diversi settori di interesse (Fig.1). La formazione pre-laurea

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Un recente studio del gruppo di lavoro della European Association of Palliative Care (EAPC), ha messo in risalto come, al termine degli studi, il medico neolaureato abbia poca confidenza con le cure palliative (4). La ricerca è stata condotta in Italia, Francia, UK, Irlanda e Spagna con interviste a medici laureati da un anno. Circa la metà dei medici intervistati ha rivelato la scarsa confidenza con la comunicazione e il trattamento di pazienti con malattia cronica severa. Gli intervistati avevano un alto livello di tanatofobia, espressione di scarsa conoscenza dell’accompagnamento alla morte ed alla elaborazione del lutto. I medici italiani sono stai quelli con maggiori difficoltà, segno evidente di una carenza formativa più marcata rispetto agli altri Paesi. Da una ricognizione di alcuni anni fa in Italia, è emerso che nei corsi di Oncologia Medica c’erano ore dedicate alle cure palliative in meno di una Università su quattro (5). La stessa frequenza per ciò che riguarda la offerta di Corsi Elettivi inerenti il tema della palliazione o del fine vita. Nel 2013 un gruppo di lavoro istituito dalla Conferenza Permanente dei Coordinatori del Corsi di Laurea in Medicina e chirurgia ha proposto un percorso formativo con le caratteristiche di una dorsale palliativista (6). Un percorso che si sviluppa nell’arco dei dodici semestri affrontando il problema da un punto di vista teorico e cioè con un lavoro didattico frontale su tre livelli successivi di complessità: 1. Approccio molto precoce, di tipo valoriale e relazionale, in Medical Humanities o Introduzione alla Medicina su concetti generali legati alle Cure Palliative, quali, ad esempio, il problema del confronto del Medico con la morte, il fine vita nei suoi aspetti umani ed etici. 2. L’approccio palliativista alla Clinica attraverso una formazione fornita, nel Corso di Metodologia Clinica da docenti che sappiano fornire agli Studenti le basi del sapere in Cure Palliative, standardizzate sulla consuetudine consolidata alla pratica terapeutica (Oncologi degli adulti, Oncologi pediatri) (IV-V anno). 3. Le Cure Palliative Specialistiche (con riferimento specifico a nove ambiti clinici specialistici su nove ambiti 134


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specialistici messi in rilievo dalle direttive del SSN: Oncologia Medica, Geriatria, Radioterapia, Malattie Infettive, Ortopedia, Ematologia, Medicina Interna, Pediatria, Anestesia) (V-VI anno). Il progetto prevede anche una attività professionalizzante legata ai tre momenti didattici teorici sopra riportati. Legata al primo modulo, la frequenza di una struttura Hospice territoriale con lo scopo, molto generale, di approccio al problema di fine vita. Legata al secondo e al terzo modulo è la frequenza in Hospice o in strutture specialistiche relativamente ai nove settori disciplinari di cui sopra. Indispensabile, è il censimento delle diverse situazioni locali nazionali, per valutare la entità delle risorse a disposizione e la possibilità di stipulare convenzioni Università-Hospice per la frequenza degli Studenti. La valutazione dell’apprendimento è prevista nell’ambito dei Corsi Integrati nei quali è inserito l’insegnamento delle Cure palliative, con certificazione del voto specifico per la parte dell’esame dedicato aa tale materia. L'esperienza professionalizzante, specie quella svolta in relazione all’insegnamento in Medical Humanities, potrebbe entrare a far parte del portfolio dello Studente da esibire per una valutazione aggiuntiva, al termine del percorso di studi, ad esempio nell’esame finale di Clinica Medica. La formazione post-laurea La formazione post-laurea si articola in due progetti principali. Il primo, ancora sulla carta, è sulla stesura di piani formativi comuni a scuole di specializzazione di area medica che prevedono la cura di problemi clinici che implicano la opportunità di una preparazione in cure palliative (Oncologia Medica, Neurologia, Ortopedia, Pediatra, Anestesia e Rianimazione, Malattie Infettive). In questo modo sarebbe possibile formare, nelle diverse specialità, professionisti in grado di applicare cure palliative in settori specialistici non solo oncologici ma allar135


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gati ad altre problematiche cliniche che prevedono una evoluzione cronica degenerativa. Il limite di questo progetto è relativo alla impossibilità, in questo momento, di creare indirizzi sub-specialistici caratterizzanti all’interno di scuole di specializzazione. Inoltre il problema della specializzazione sarebbe limitato alla sola componente medica. Quello che è stato già realizzato in Italia sono invece master universitari di primo (per le professioni sanitarie) e di alta formazione o di secondo livello (per medici specialisti). I Master Universitari in Cure Palliative e in Terapia del Dolore sono stati presentati in marzo 2011, approvati dal Consiglio Universitario Nazionale il 21 aprile 2011 e poi dal Consiglio Superiore di Sanità il 13 dicembre dello stesso anno (Tav.I). Con decreti a firma dei Ministri della Salute e della Università, in data 4 aprile 2012 i master sono stati definitivamente indicati come un processo formativo postlaurea riconosciuto in risposta alle disposizioni della Legge 38 del 15 marzo 2010, che è la Legge che regolamenta la organizzazione e lo sviluppo delle cure palliative nel territorio nazionale (7). A distanza di quasi quattro anni, oggi, sono attivi sul territorio nazionale 29 master di cui 10 master di primo livello per infermieri dell’adulto, pediatrici e terapisti della riabilitazione, 7 master di alta formazione e qualificazione in cure palliative dell’adulto, 7 master di alta formazione e qualificazione in terapia del dolore, 2 master di alta formazione e qualificazione in cure palliative pediatriche, 3 master di secondo livello per psicologi in cure palliative. I criteri che regolano l'attivazione e il funzionamento di questi master sono esposti nei decreti e sono ben chiari: la individuazione delle caratteristiche delle Università che li propongono, la composizione del corpo docente, il profilo disciplinare dei direttori, le lauree di accesso, i piani didattici, la formazione professionalizzante, la durata dei corsi. Obiettivo dei legislatori è stato quello di offrire una formazione omogenea sul piano nazionale e rinforzare così un corpo di professionisti più 136


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solidi perché formati in maniera adeguata in un settore, quello delle cure palliative, che ancora ha qualche difficoltà di affermazione nella medicina. Il limite dei master ad oggi quello di non conferire una certificazione abilitante per cui, anche se esiste una disciplina concorsuale in Cure Palliative nel SSN nazionale ancora oggi non esiste una specializzazione o una certificazione che regoli l’accesso ai concorsi in tale settore. Conclusioni In Italia la formazione in cure palliative è al momento sviluppata nel post-laurea e si è realizzata con la creazione di master universitari dedicati a medici e ad infermieri, i cui piani formativi sono stabiliti da un decreto ministeriale. La struttura di questi master è molto simile a quanto avviene in molti paesi occidentali in cui la formazione, perlomeno dei medici, avviene attraverso corsi di sub-specializzazione, certificati e abilitanti (8,9). Solo in alcuni Paesi esiste una Scuola di Specializzazione in Cure Palliative. La formazione post-laurea in Europa è comunque eterogenea, sia per la durata che per i contenuti dei corsi e non sempre è obbligatoria per esercitare nell’area assistenziale in cure palliative (Fig.3). In Italia non si può sperare a breve in una certificazione abilitante dei master. I motivi sono diversi, dalla struttura a mercato di questi modelli didattici al rischio della apertura di una falla normativa che potrebbe essere incontrollabile e frutto di conflitti. Pertanto i master per fare valere un ruolo di unica e solida formula formativa nel settore della palliazione e della terapia del dolore devono garantire qualità e omogeneità nel rispetto della Legge e dei decreti che li hanno normati. Nello stesso tempo, le difficoltà incontrate nella loro applicazione devono essere rilevate e possibilmente corrette, ma sempre nell’ambito di provvedimenti ratificati a livello istituzionale. Pertanto, per raggiungere questi obiettivi si è recentemente costituita una Conferenza Permanente dei Direttori di Master in Cure Palliative e in Terapia del Dolore. Quindi i passi operativi di questa Conferenza dovrebbero essere finalizzati al consolidamento del ricono137


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scimento dei master come modelli formativi solidi e sicuri. Per questo la proposta è quella di partire con una ricognizione della struttura formale e operativa dei singoli master, la rilevazione delle criticità, proposte migliorative da presentare nelle sedi opportune, ma nel contempo realizzazione di piani di verifica della qualità della formazione come site visit anche internazionali o formule di accreditamento. La evoluzione di questo programma potrà essere anche la certificazione, ma se si assicura una conduzione seria e coerente di fatto i master diventeranno l’unica formula garantista una formazione affidabile ed accresceranno il peso del loro ruolo nelle fasi di selezione del personale per i ruoli del SSN di settore. Un' appendice, non piccola degli obiettivi della Conferenza, riguarda il pre-laurea. Entrare nelle Scuola di Medicina e di Infermieristica è un programma che la Conferenza non può trascurare. Il progetto è quello di interfacciarsi con la Conferenza dei coordinatori dei corsi di laurea delle Scuole Mediche e delle Professioni, e con la Conferenza dei Rettori, per fare massa critica a sostegno della richiesta di corsi pre-laurea dedicati. Bibliografia Moroni M, Bolognesi D, Muciarelli PA, Abernethy AP, Biasco G (2011) Investment of palliative medicine in bridging the gap with academia: a call fo action. Eur J Cancer 47: 491-495. Seely JF, Scott JF, Mount BM (1997) The need of specialized training programs in palliative medicine. CMAJ 157: 1395-1397. Quill TE, Abernethy AP. (2013). Generalist plus Specialist Palliative Care - Creating a More Sustainable Model, N Engl J Med 2013; 368:1173-1175. Mason S, Biasco G, Blumhuber H et al. (2013). International medical education in palliative care: research on undergraduates (IMEP). EAPC Symposium, Prague. Biasco G. (2013) Comunicazione personale. Scarone S, Biasco G, Cetto GL, De Marchi M,Di Virgilio F, Golino P, Mazzanti L. (2013). Le tematiche didat138


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tico-pedagogiche delle Cure Palliative. Quaderni delle Conferenze Permanenti delle Facoltà di Medicina e Chirurgia. 58: 2080-2081. Legge 15 marzo 2010, n°38. Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore. GU n°65. 19 marzo 2010. Elsner F, Centeno C, De Conno F et al (2014) Reccomendation of the European Association of Pallaitive Care for the development of post-graduate curricula leading to certificationin palliative medicine. Report of the EAPC. Task Force of medcial Education. Milan, Italy,EAPC 2007. Available at: http//www.eapcnet.eu, Accessed January 30. Centeno C, Bolognesi D, Biasco G (2015) Comparative analysis of specialization in palliative medicine processes within the World Health Organization European region. J. Pain Symptom Manage.40:861-70. Fig.1 I tre elementi principali delle formazione in Cure Palliative e gli ingranaggi della macchina formativa

Tab I: I master in cure palliative e in terapia del dolore in ItaliA

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CURARE E PRENDERSI CURA LA RISPOSTA DELLA MEDICINA PALLIATIVA Carla Faralli 1. Curare e prendersi cura «Curare e prendersi cura» rappresenta un binomio inscindibile nell’attività del medico: prendersi cura e alleviare la sofferenza del malato non è per il medico un dovere subordinato, è un dovere avente autonoma rilevanza, ed è, soprattutto, l’unico dovere da assolvere nei confronti di quei malati che non rispondono più a cure finalizzate alla guarigione. Ma ancora oggi, nella gran pare dei casi, la risposta della moderna medicina, incline a scorgere nel malato che muore la prova tangibile delle proprie sconfitte, continua ad essere o non far nulla o far troppo. In alcuni casi, infatti, il malato viene ostinatamente sottoposto, per lo più in un contesto ospedaliero, a trattamenti sovente assai invasivi, volti a prolungare, anche di poco, la sopravvivenza. All’opposto, in altri casi, lo scenario è quello del sostanziale abbandono del malato da parte di strutture assistenziali pensate e organizzate in vista dell’obiettivo della guarigione, non di una cura diretta a lenire la sofferenza non solo fisica, ma anche psicologica di chi non può guarire. Lo scenario è, quindi, nell’uno come nell’altro caso, quello di un malato abbandonato, non posto in grado di compiere consapevolmente nessuna scelta riguardo alle cure, e di un malato privato anche della possibilità di esprimere le sue emozioni, e, comunque, trascurato nelle sue esigenze affettive e psicologiche. L’attuazione di una medicina volta a sollevare i malati dal dolore, quando non li si può guarire, ha incontrato ostacoli sul piano di assunti, convinzioni, atteggiamenti radicati dall’etica medica tradizionale. Mi riferisco, innanzitutto, all’assunto che al medico e solo al medico (ispirato da scienza e coscienza) competano tutte le scelte e le decisioni circa gli interventi da porre in atto sul paziente; in secondo luogo, alla convinzione che il medico sia sempre in grado di operare le scelte e di prendere le decisioni idonee a realizzare il 140


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bene o il miglior interesse del paziente, dove il bene in questione è il mantenimento della vita, l’estensione della vita biologica, qualunque ne sia il costo. Rispetto all’idea che le scelte e le decisioni terapeutiche hanno una direzione obbligata, quella del prolungamento della sopravvivenza, la disponibilità di tecnologie funzionali a quel fine ha operato nella direzione del rafforzamento, diffondendo la convinzione che ciò che è possibile non può non essere fatto, o, addirittura, è dovuto. Nel caso dei malati che non rispondono più a cure finalizzate alla guarigione, come sono la maggior parte dei soggetti prossimi alla fine della loro vita, è assolutamente fuori di luogo individuare nel mantenimento della vita il fine categorico, il bene assoluto che orienta l’azione del medico e ne fa l’unico soggetto legittimato a compiere le scelte e ad assumere le decisioni. Il fondamentale concetto dì riferimento non può, in tale ambito, essere altro che quello di «qualità della vita». Ma la qualità della vita non può, a propria volta, essere determinata solo dall’esterno ed in termini oggettivi: ha un’ineliminabile connotazione soggettiva che giustifica, anzi rende imprescindibile, l’attribuzione al malato del ruolo di «protagonista delle cure», di soggetto al quale spetta scegliere, tra le diverse terapie messe a disposizione dalla conoscenza medica, quelle maggiormente idonee a soddisfare i suoi bisogni e a rispettare i suoi valori. La realizzazione di una medicina capace di prendersi cura in maniera globale del paziente appare, inoltre, legata all’opzione per un modello di assistenza incentrato sulla collaborazione di diverse figure professionali (medici, infermieri, psicologi ...) e non professionali (volontari, assistenti spirituali e innanzitutto familiari del malato stesso), la cui messa in campo si giustifica, nel caso del malato terminale, con la convinzione che la peculiare condizione di sofferenza renda necessario intervenire sulle manifestazioni fisiche dolorose della malattia, non meno che sulle gravi alterazioni, sul piano psicologico, relazionale e spirituale che ad essa si legano. Laddove non è più possibile la cura (cure) è fondamentale il prendersi cura (care): questo il valore che ispira la medicina palliativa. 141


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2. Etica della cura e medicina palliativa Da un punto di vista morale la medicina palliativa trova riscontro in quella particolare concezione filosofica che è rappresentata dall’etica della cura. Non a caso alle origini dell’etica della cura, come si dirà, c’è una donna, Carol Gilligan, e, fondatrice della medicina palliativa è riconosciuta Cecily Saunders che nel 1967 ha fondato in Inghilterra il St. Christopher Hospital, primo esempio di hospice per cure palliative. L’etica della cura è un’etica relazionale che richiama la nostra attenzione in primo luogo sul fatto che siamo individui in relazione con altri individui, con cui condividiamo impegni, speranze, affetti. Questo punto di partenza indica che la semplice raffigurazione delle persone come atomi possessori di diritti, libertà e obblighi , come avviene in altre prospettive etiche ,è una semplificazione che trascura completamente il lato della emotività e delle responsabilità. Nel suo pionieristico lavoro Carol Gilligan ha evidenziato che esistono due modelli distinti di scelta morale: l’uno, radicato nell’etica della giustizia, rinvia a principi astratti ed universali, l’altro, identificato nell’etica della cura e della responsabilità, implica una particolare attenzione alla persona e ai dettagli contestuali. La Gilligan ha dimostrato che, mentre gli uomini tendono ad adottare un’etica della giustizia, le donne più frequentemente, propendono per un’etica della cura, ma non ha mai sostenuto in modo definitivo che «la voce differente», cui fa riferimento il titolo della sua opera più famosa (titolo in maniera fuorviante tradotto in italiano con «voce di donna»), sia declinata secondo il genere, anzi in più luoghi ha ribadito che la differenza in questione riguarda il tema (theme) non il genere (gender). Come ha sottolineato Joan Tronto, tre caratteristiche fondamentali distinguono l’etica della cura dall’etica della giustizia. In primo luogo, l’etica della cura ruota intorno a concetti morali diversi rispetto a quelli intorno a cui ruota l’etica della giustizia: la responsabilità e la relazione al posto dei diritti e delle regole. In secondo luogo, l’etica della cura è legata a circostanze concrete invece di essere formale ed astratta. In terzo luogo, essa 142


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può essere meglio descritta come un’attività -l’attività di cura-, piuttosto che come un insieme di principi, nel senso che non è fondata su principi universali ed astratti, ma su esperienze quotidiane e su problemi che persone reali sperimentano nella vita di tutti i giorni. Nel dibattito più recente, l’etica della cura viene sempre più considerata non come contrapposta all’etica della giustizia, ma come ad essa complementare. Con particolare forza Joan Tronto ha sostenuto che l’etica della cura non deve essere relegata alla sfera privata, ma deve essere estesa alla sfera politica quale fondamento di una società democratica più giusta Con questa caratterizzazione all’etica della cura si richiede lo sforzo di mettere in discussione certe categorie tradizionali, di affermare l’esigenza di pensare la vita morale non come conflitto e risoluzione razionale, ma come cura e responsabilità verso gli altri, come riconoscimento del carattere sempre contestuale delle nostre decisioni morali, su cui influiscono l’appartenenza di genere, le storie personali, culturali e sociali; tutto ciò senza tuttavia proporre un definitivo superamento della riflessione sui diritti, sui doveri e sulle libertà Quindi bio eticisti e professionisti sanitari vi possono trovare una particolare pertinenza con le questioni della bioetica e dell’assistenza medica: la crucialità dei problemi sollevati dalle nuove biotecnologie rende infatti necessario che la riflessione contestuale sulla cura si rivolga non tanto a misurare la giustezza delle scelte, quanto le motivazioni che possono indurre a compiere una scelta invece che un’altra. In questo ambito l’etica della cura concentra l’attenzione su tutte quelle capacità che, pur non essendo direttamente riconducibili alla «ragione», sono tuttavia essenziali per la vita morale: fra tutte l’immaginazione, le emozioni e la fantasia, intese come facoltà che possono aiutarci a capire meglio i bisogni e le sofferenze dell’altro e ad orientare le nostre scelte. A proposito delle emozioni, ad esempio, scrive M. Nussbaum:

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Invece di vedere la moralità come un sistema di principi che può essere colto dal freddo intelletto e le emozioni come le motivazioni che favoriscono o sovvertono la nostra decisione di agire secondo i principi stessi, dovremmo considerarle come parte costitutiva del sistema del ragionamento etico ... Dobbiamo misurarci con il caotico materiale del dolore e dell’ansia, della rabbia e della paura, e con il ruolo che queste tumultuose esperienze giocano nel pensiero riguardo al bene e al giusto.

Questa impostazione costringe a ripensare radicalmente la natura e il ruolo delle emozioni nel nostro ragionamento pratico : esse non sono mere forze irrazionali da tenere a freno se si vuole condurre un’adeguata vita morale, ma costituiscono forme di giudizio cognitivo e valutativo, in quanto sono strettamente correlate agli impegni e ai valori cui aspira la persona che le prova. Soprattutto in situazioni tragiche – esperienze di malattia, morte, dolore che riguardano noi stessi o persone a noi vicine – le emozioni disvelano le cose a cui attribuiamo valore e che consideriamo essenziali perché le nostre vite siano completamente riuscite. 3. La normativa italiana sulle cure palliative Dal punto di vista giuridico un modello quale quello avanzato dalla medicina palliativa trova riscontro in importanti documenti internazionali e nazionali che si occupano della condizione del malato terminale, insistendo sull’imprescindibilità del rispetto della persona umana, della sua dignità e della sua volontà fino al termine della vita. Tra i documenti italiani appaiono particolarmente meritevoli di menzione il documento del 1995 del Comitato Nazionale per la Bioetica «Questioni etiche relative alla fine della vita umana»5, nel quale il riconoscimento dell’importanza della medicina palliativa occupa un posto di rilievo e soprattutto la legge n. 38 del 15 marzo 2010 «Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore», frutto di un lungo percorso cominciato alla fine degli anni ’90 con il Piano Sanitario Nazionale 1998-2000. In essa vengono fissati alcuni prin144


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cipi fondamentali quali: il diritto del cittadino ad accedere alle cure palliative; la specificità delle cure palliative, che è presa in carico globale della persona e della famiglia, opportunamente distinte dalla terapia del dolore; la tutela e la dignità e dell’autonomia della persona senza alcuna discriminazione; la tutela e la promozione della vita fino al suo termine; la necessità di una adeguata formazione del personale sanitario Questa legge testimonia, in presenza di un contrasto tra posizioni laiche e cattoliche sul tema in questione, un nucleo di posizioni condivise: - Una prima significativa convergenza di opinioni si è andata delineando nella riflessione riguardo al problema della sofferenza. Come è noto, in una prospettiva quale quella cristiana, che enfatizza la continuazione della vita oltre la morte, e che eleva la sofferenza e la morte di Cristo a modello della salvezza eterna, alla sofferenza sia fisica sia psicologica legata alla malattia è stata sovente attribuita la valenza di condizione positiva, o addirittura privilegiata, proprio in quanto salvifica, ma anche nella bioetica cattolica viene sempre più riconosciuto peso alla «qualità della vita» che figura tra i valori caratterizzanti e imprescindibili della «bioetica laica». Nella bioetica cattolica se, per un verso, permane la tesi del valore assoluto della vita umana, qualunque ne sia lo stadio di sviluppo e la condizione, per altro verso, si fa sempre maggior spazio la convinzione che il «rispetto della vita» non possa andare disgiunto dalla considerazione della qualità della vita che gli individui conducono. E tale apertura, pur non comportando l’abbandono, o il ridimensionamento, sul piano generale, del principio di sacralità della vita, supporta sia il favore per «l’uso di quei medicinali che siano atti a lenire o sopprimere il dolore, anche se ne possano derivare come effetti secondari torpore e minore lucidità», o addirittura l’accelerazione della morte (sempre, ovviamente, che questa sia l’effetto indiretto, prevedibile, ma non voluto ...), sia, più in generale, la valutazione positiva delle cure palliative, alle quali si guarda come alternativa all’eutanasia. Alla giustificazione dell’uso di farmaci in funzione antidolorifica, il cui effetto indiretto e non voluto può essere anche letale, si 145


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associa del resto nella prospettiva dell’etica cattolica la condanna degli interventi e trattamenti mediante i quali non si fa altro che ostacolare, prolungandone la durata, il processo del morire. «Nell’imminenza di una morte inevitabile nonostante i mezzi usati – si legge nella Dichiarazione sull’eutanasia della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede del 5 maggio 1980 – è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita ... Perciò il medico non ha motivo di angustiarsi, quasi che non avesse prestato assistenza ad una persona in pericolo». Si tratta degli interventi diagnostici e terapeutici di comprovata inutilità ai fini del miglioramento delle condizioni di un paziente – quelli da cui non ci si può fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della sua vita, la cui messa in atto dà luogo al cosiddetto accanimento terapeutico. - La condanna dell’accanimento terapeutico è un altro motivo di incontro tra posizioni cattoliche e laiche, anche se nei casi concreti non è facile definire i criteri in base ai quali distinguere gli interventi e i trattamenti appropriati dagli interventi e trattamenti eccessivi, che danno luogo all’accanimento. Infatti, mentre nella prospettiva cattolica si fa riferimento a requisiti di tipo oggettivo, quali l’inefficacia, la gravosità, l’eccezionalità o sproporzione, nella prospettiva laica, si sottolinea, con sempre maggior forza, l’imprescindibilità del riferimento alla valutazione espressa dal paziente stesso come criterio decisivo per individuare gli interventi che danno luogo ad accanimento. In ultima istanza i contrasti di opinione dipendono proprio da divergenti valutazioni circa il ruolo e il peso da riconoscere alla volontà degli individui, ossia al principio di autonomia. Se sul rifiuto delle cure garantito dall’art. 32 della Costituzione c’è un diffuso riconoscimento, diverse solo però le valutazioni circa l’estensione e i limiti del legittimo esercizio di tale diritto. La divergenza riguarda soprattutto la legittimità del rifiuto qualora ne possa derivare un diretto pericolo per la vita. Sempre più raramente, tuttavia, soprattutto negli ultimi tempi, coloro 146


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che ritengono in taluni casi superabile il rifiuto opposto dal paziente alle cure hanno chiamato in causa il valore assoluto della vita. Con maggiore frequenza è ricorso, invece, l’argomento che il rifiuto, lungi dall’essere espressione della genuina volontà del malato, sia piuttosto il chiaro indice della presenza nel malato di una volontà «inconsapevole» e quindi distorta. Tra i documenti più recenti particolarmente significative le Linee propositive per un diritto della relazione di cura e delle decisioni di fine vita, elaborate in una serie di incontri promossi dal Cortile dei Gentili, la Fondazione per il Dialogo tra Credenti e Non Credenti, guidata dal Cardinale Ravasi e presentate nel settembre 2005 al Senato. In esse si legge: le questioni relative al trattamento giuridico delle decisioni di fine vita possono essere risolte validamente solo nell’ambito di una disciplina d’insieme della relazione di cura che, sulla base dei principi di tutela della dignità, della libertà, della salute della persona, e in armonia con i dettami fondamentali della deontologia delle professioni sanitarie, stabilisca fini, criteri e limiti della terapia, prerogative del paziente e del medico, procedure capaci di assecondare e garantire la buona pratica clinica, assicurando a medici e pazienti un orizzonte di riferimento etico in una cornice di certezza del diritto. L’approccio prescelto riguardo alle decisioni di fine vita è esclusivamente quello del limite ai trattamenti e della rimodulazione di cure in senso palliativo; rimangono quindi estranee alla presente proposta opzioni etiche e giuridiche di tipo eutanasico.

Sulla base di questa premessa, il documento continua affermando che la relazione di cura non può perseguire altro fine che la salute del paziente, intesa come il migliore stato di benessere fisico, psichico, relazionale conseguibile dalla persona curata nelle condizioni date. Questo obiettivo non si definisce, nella situazione concreta, in ragione di soli criteri oggettivi suggeriti dalla medicina, ma necessariamente anche in ragione della specificità della persona curata e dunque, ove se ne abbia attendibile evidenza, della sua

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individualità fisica, psichica, morale, relazionale, di appartenenza e delle sue scelte consapevoli. Ciò si riassume nel principio secondo cui scopo della relazione terapeutica e diritto del paziente è una cura benefica commisurata alla persona, ossia una cura appropriata; tale è una cura che soddisfi non solo i parametri di validità scientifica e deontologica (appropriatezza in senso clinico e proporzionalità secondo criteri oggettivi e soggettivi di onerosità e beneficio) ma l’esigenza di sintonia con il sentire del paziente in merito al proprio bene, perseguita nella pratica della consensualità e nel rispetto dell’identità della persona. La consensualità della relazione e delle decisioni va costruita e praticata come un processo che accompagna e sostanzia la relazione medico-paziente dalla diagnosi fino alle decisioni terapeutiche e alla loro attuazione; esso va progettato e condotto in modo commisurato alle condizioni del paziente, alla sua capacità e disponibilità ad acquisire informazioni, a valutare il proprio stato, a progettare il proprio futuro e ad assumere responsabilità di decisione; l’esercizio di autodeterminazione va assecondato e sostenuto, senza contrastare la scelta del paziente che voglia affidarsi a persona di fiducia o direttamente al medico stesso. In questo senso particolare attenzione va rivolta alla condizione degli incapaci legali e delle persone non in grado o non pienamente in grado di concorrere alle decisioni, sia valorizzando le loro residue o parziali capacità, sia disciplinando il ruolo dei rappresentanti legali, del fiduciario e dei familiari nel tutelare il diritto del paziente ad una cura appropriata. Nel caso in cui il paziente, a causa delle sue condizioni fisiche e psichiche, e della fragilità che caratterizza le situazioni di acuta gravità e di fine vita, non sia in grado di prendere parte attiva alle decisioni terapeutiche né sia validamente rappresentato o tutelato, e ove le sue volontà o preferenze non risultino dalla pianificazione condivisa di cure o da dichiarazioni anticipate, il medico orienterà le scelte terapeutiche secondo i criteri di appropriatezza/proporzionalità della cura; la valutazione di appropriatezza sarà riconsiderata appena possibile anche in relazione al pieno rispetto della volontà e dell’identità della persona.

Particolare attenzione viene prestata nel documento agli strumenti giuridici, al di là del consenso informato, attraverso i quali il paziente può esprimere la sua volontà: 148


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La pianificazione condivisa di cure: individua situazioni probabili o possibili ed ipotesi di trattamento preferite o rifiutate; garantisce quindi una proiezione al futuro del consenso che si estende, se il paziente lo richiede, anche oltre una sua perdita di capacità. La nomina del fiduciario: il paziente affida la gestione della consensualità delle decisioni terapeutiche che lo riguardano, per la migliore tutela del proprio interesse, a persona di fiducia che lo affianchi sostenendolo nelle decisioni o, in caso di incapacità, lo rappresenti e lo tuteli nella relazione di cura. Le dichiarazioni anticipate di trattamento: nel 2003 il Comitato Nazionale di Bioetica le ha definite «documento con il quale una persona dotata di piena capacità esprime la sua volontà circa i trattamenti ai quali desidererebbe o non desidererebbe essere sottoposta nel caso in cui, nel decorso di una malattia o a causa di traumi improvvisi non fosse più in grado di esprimere il proprio consenso o il proprio dissenso informati», uno strumento volto quindi a realizzare nei limiti del possibile una eguaglianza di trattamento tra persone attualmente capaci e persone che non lo sono più. All’estero molti paesi riconoscono da tempo valore giuridico a tali disposizioni, in Italia manca invece una legge in proposito. Sono giacenti in Parlamento vari disegni di legge, tra i quali il più discusso è il DDL Calabrò «Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento» depositato nel 2009 sull’onda emotiva della vicenda Englaro. Per concludere un’ultima, fondamentale questione, quella del rapporto tra eutanasia e cure palliative. È proprio vero, come molti sostengono, che le seconde costituiscano un’alternativa alla prima? Riporto, come risposta, un breve passo tratto dall’audizione in Senato l’11 ottobre 2011 della Società Italiana di Cure Palliative (SICP): le cure palliative sono l’emblema del non abbandono e del rispetto della persona inguaribile che viene assistita garantendo la presa in carico globale, assicurando il sollievo dal dolore, la cura

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di tutte le fonti di sofferenza, fisica, psicologica, sociale, spirituale, e il supporto alla famiglia. Le cure palliative sostengono la vita e guardano al morire come a un processo naturale; aiutano il malato a vivere quanto più attivamente possibile fino alla morte e hanno come primo obiettivo la migliore qualità di vita possibile per la persona nella fase avanzata di malattia, alla luce del concetto di qualità di vita che ciascun malato ha in sé, assicurando la migliore terapia per quel malato, per quella malattia, in quel momento della sua vita, in quel contesto familiare.

Certamente la diffusione di una forma di assistenza volta al controllo del dolore fisico e della sofferenza psicologica e, in generale, al miglioramento della qualità della vita dei malati terminali, quale quella attuata dalla medicina palliativa, può incidere positivamente sulla riduzione delle cause sovente alla base della scelta suicida, così come della richiesta eutanasica. Ma è questa cosa ben diversa dal sostenere che le cure palliative siano l’alternativa al suicidio assistito e all’eutanasia sul piano dei principi. D’altra parte, molte indagini empiriche documentano le richieste eutanasiche pervenute da malati pur destinatari di un’appropriata assistenza palliativa, alla luce di un proprio concetto di qualità e di dignità di vita

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CONSAPEVOLMENTE - Capitolo II

Capitolo II LA VISIONE OLISTICA LA VISIONE OLISTICA DELLA CURA DEL PAZIENTE ONCOLOGICO M. Galli*, G.Pagliaro**

Evoluzione del modello di cura oncologico Come è noto i modelli attuali di cura oncologica, attraverso l’evoluzione della tecnologia sanitaria e dei farmaci che sono stati introdotti in questi ultimi anni, sono focalizzati sulla malattia. Di grande rilevanza è stata la crescita di attenzione nei confronti dei bisogni psicologici dei pazienti. All’interno di questa importante evoluzione sono da considerarsi centrali tre aspetti: gli interventi di prevenzione (screening), le terapie (chirurgiche, oncologiche, radioterapiche etc..) e le attività di supporto psicologico. Cercheremo ora di prenderli in considerazione uno alla volta. Va detto innanzitutto che con il termine screening si indica una ripetizione periodica di un esame semplice, finalizzato alla diagnosi precoce di una malattia ancora in fase asintomatica. Il cosiddetto “screening di popolazione” corrisponde ad un programma, organizzato dall’Azienda Sanitaria di riferimento, che invita l’intera fascia di popolazione asintomatica, ritenuta a rischio di contrarre una certa malattia, a partecipare in modo gratuito ad un test di primo livello, ad eventuali approfondimenti diagnostici o a trattamenti di secondo livello. Uno dei principali obiettivi della medicina moderna, infatti, è la diagnosi precoce, in quanto il fatto di riuscire a diagnosticare una malattia, prima che essa si manifesti 151


CONSAPEVOLMENTE - Capitolo II

clinicamente, può consentire di iniziare in modo tempestivo interventi terapeutici efficaci o di salvare la vita di una persona. In alcuni casi, ad esempio nella prevenzione del tumore del colon retto, già l’asportazione dei polipi per via endoscopica evita l’evoluzione neoplastica e riduce la percentuale di insorgenza della malattia. Le patologie oncologiche per le quali oggi vengono effettuati programmi di screening sono: il tumore della mammella, quello del colon retto ed il tumore della cervice uterina. Per altre tipologie di tumore, come quello all’ovaio o alla prostata, sono stati proposti programmi di screening ma al momento non esistono ancora evidenze scientifiche rispetto alla validità dei test proposti e non vi è dimostrazione di un adeguato rapporto tra i costi ed i benefici. Come ogni altro intervento a livello sanitario, però, anche i programmi di screening presentano dei limiti. Gli esami possono dare dei “falsi negativi”, producendo nel paziente un’erronea rassicurazione ed un ritardo diagnostico oppure possono dare dei “falsi positivi”, innescando nella persona un immotivato vissuto di disperazione. Diversi studi epidemiologici si stanno ponendo alcuni interrogativi rispetto all’utilità delle informazioni che tali esami possono produrre, domandandosi qual’ è la loro effettiva utilità diagnostica e se vi è realmente un nesso tra la rilevazione di un’anomalia ed il rischio di uno sviluppo tumorale. Si tratta, quindi, di ripensare ad una migliore offerta dello screening in quanto aderirne ai programmi è comunque molto importante poiché, come si è detto, nella grande maggioranza dei casi, permette di diagnosticare patologie importanti in una fase precoce del loro sviluppo. E’ dimostrato che, nei soggetti che partecipano in modo regolare ai programmi di screening, si riduce in modo significativo il tasso di mortalità per quella determinata malattia, proprio grazie alla velocità con cui viene fatta la diagnosi e quindi a quella con cui si procede con le cure. 152


CONSAPEVOLMENTE - Capitolo II

Una volta effettuata una buona diagnosi, diventa poi di primaria importanza la scelta delle terapie. Il trattamento efficace di un tumore richiederebbe l’eliminazione di tutte le cellule neoplastiche presenti, sia che la malattia sia limitata alla sede primaria sia che vi siano già metastasi in altre zone del corpo. Attualmente, le principali modalità di trattamento rimangono la chirurgia, la radioterapia e la chemioterapia e la terapia cosiddetta “multi-modale” che associa i vantaggi derivanti da ognuna di queste metodiche. Affinché si possa parlare di efficacia della cura deve essere ottenuta una “remissione” o una “risposta completa” e quindi una scomparsa totale della malattia clinicamente evidente. Nel caso di una “risposta parziale”, invece, si ha una palliazione o un prolungamento della sopravvivenza del paziente, in quanto la riattivazione del tumore può ripresentarsi dopo una temporanea inattività. I pazienti possono anche non presentare alcuna risposta alle cure. Cercheremo ora di riassumere brevemente le caratteristiche salienti delle principali tipologie di terapia farmacologica. La chirurgia costituisce l’opzione primaria nella maggior parte dei tumori solidi e rappresenta la terapia anti tumorale più antica ed efficace. Il trattamento chirurgico richiede che il tumore sia localizzato o che abbia una diffusione regionale abbastanza limitata, poiché ciò consente una resezione in blocco della massa tumorale. E’ questo il motivo per cui spesso si opta per tale tipo di terapia nel tumore alla vescica, alla mammella, alla cervice, al colon, all’endometrio, alla laringe, al rene, al polmone, all’ovaio e al testicolo. Nei casi in cui non possa essere eseguito un intervento chirurgico, solitamente, si utilizzano trattamenti multi-modali con chemioterapia o radioterapia al fine di ridurre in un primo momento le dimensioni del tumore e di poter procedere, successivamente, con l’operazione chirurgica. La seconda terapia più utilizzata è la radioterapia. La somministrazione della radioterapia può avvenire in differenti modi. Nella maggior parte dei casi si pro153


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cede con un’irradiazione esterna, attraverso un acceleratore lineare, che rilascia un’elevata percentuale di fotoni e quindi di radiazioni. Quando vi sono tumori che presentano un ristretto margine tissutale si utilizza più di frequente la radioterapia con fascio di neutroni. La radioterapia con fascio di elettroni, invece, è caratterizzata da una penetrazione nei tessuti piuttosto ridotta e quindi viene utilizzata soprattutto per le neoplasie più superficiali. Infine, la radioterapia con i protoni, benché sia poco fruibile, consente di raggiungere i tumori più piccoli e più profondi. In alcuni casi è possibile anche collocare una sorgente permanente di radiazioni all’interno o vicino alla zona da trattare ed in questo caso si parla di “brachiterapia” o di “radioterapia interna”. Quest’ultima tipologia di radioterapia può essere utilizzata sia come terapia unica che in integrazione con altre tipi di trattamento. Ad oggi la radioterapia è considerata curativa per molte neoplasie e la sua associazione con la chirurgia o con la chemioterapia si è dimostrata efficace nel migliorare le percentuali di guarigione, rispetto a quando queste terapie vengono sottoposte singolarmente. Come è noto, la chemioterapia utilizza, invece, farmaci chiamati citotossici ovvero tossici per le nostre cellule. Il loro effetto è quello di bloccare la divisione delle cellule in rapida replicazione ma questo ovviamente non consente di discernere le cellule sane da quelle malate producendo effetti collaterali su tutti i tessuti a rapido ricambio cellulare come le mucose, i capelli o il sangue. Nonostante ciò, la chemioterapia rimane uno dei trattamenti anti tumorali più utilizzati, poiché è in grado di fermare diversi tipi di carcinoma o anche di farli scomparire. Un’altra tipologia di terapia è quella ormonale. Quest’ultima va ad alterare l’equilibrio di determinati ormoni nell’organismo e quindi viene utilizzata per curare i tumori cosiddetti “ormono-sensibili”. Esistono, poi, anche i farmaci biologici. Questi ultimi, costituiti in genere da anticorpi in grado di ricono-

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scere la cellula tumorale, ne promuovono la distruzione da parte del sistema immunitario. Una variante ancora più recente di tali farmaci è data dagli inibitori della crescita tumorale, che vanno ad interferire con i messaggeri chimici che le cellule usano per svilupparsi e poi per dividersi. Rimane, infine, la “terapia multi-modale”. Come accennato poco sopra, con questa espressione si intende l’integrazione di differenti tipi di terapie. Per esempio, la chirurgia, se associata alla radioterapia, può aumentare l’intervallo libero da malattia e la percentuale di guarigione in diversi tumori. La chemioterapia cosiddetta adiuvante, infatti, sembra poter aumentare l’intervallo libero da malattia e la percentuale di remissione in una buona parte dei casi di tumore del colon, della mammella, dell’ovaio e della vescica. Poiché ognuna delle terapie sopra citate può scatenare diversi effetti collaterali, è molto importante che i pazienti, nel momento stesso in cui si affidano ad un medico per programmare il loro piano di trattamento, abbiano ben chiari quali possono essere e con quale intensità si possono manifestare. Questo permette ai pazienti di sviluppare, con minor probabilità, vissuti emotivi negativi ed anche di poter programmare al meglio la propria vita quotidiana durante tutto il periodo delle cure. Su tale problema, in questi anni, è stato fatto un grosso lavoro di sensibilizzazione sulla componente sanitaria e medica in particolare. Sono stati predisposti appositi moduli informativi ed è diventata consuetudine per il medico garantire tutte le informazioni sui pro e i contro delle terapie. Ciononostante questo aspetto ha una sua specifica rilevanza e a nostro parere dovrebbe prevedere dei momenti ancora più approfonditi di chiarimento, affinché non si tratti di un semplice passaggio di informazioni ma piuttosto di una vera e propria assunzione consapevole, in grado di aiutare il paziente ed i suoi familiari nel periodo di cura. Nel fare sì che questo avvenga con successo, l’attività degli psicologi e del personale sanitario può essere senza dubbio molto utile. 155


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Parlando di terapie oncologiche non si può poi trascurare l’aspetto relativo al futuro. La ricerca oncologica, negli ultimi dieci anni, ha attraversato una straordinaria fase di avanzamento e finalmente, ad oggi, i progressi fatti nella conoscenza dei meccanismi biologici dei tumori stanno iniziando a produrre nuovi scenari nel settore terapeutico. Dunque, anche la categoria dei farmaci chemioterapici anti tumorali sta sperimentando una fase di rapida evoluzione e negli anni più recenti si stanno sviluppando nuove classi di farmaci che, pur derivando ancora dalle molecole già note, presentano aspetti sempre più innovativi, come il fatto di essere a trasmissione orale o di avere un grado di tossicità notevolmente minore. La più grande sfida terapeutica consiste, comunque, nei cosiddetti “farmaci bersaglio” poiché questi ultimi sarebbero in grado di colpire in modo specifico solo quelle molecole che, funzionando in modo anomalo nelle cellule, ne stimolano la trasformazione in cellule maligne. E’ questo il motivo per cui tali farmaci vengono spesso chiamati anche “bombe intelligenti”, in quanto sarebbero in grado di colpire in modo selettivo solamente le cellule malate. Tutto ciò, soprattutto in ambito terapeutico, potrebbe costituire una svolta significativa poiché la selettività di azione dei nuovi farmaci consentirebbe di evitare i danni alle cellule sane e quindi limiterebbe anche gli effetti tossici delle terapie sull’organismo. Questi nuovi farmaci, però, non devono essere considerati come sostituti dei classici chemioterapici tanto è vero che per il momento sembra ancora che il massimo beneficio si ottenga proprio dalla loro integrazione con le terapie anti tumorali più convenzionali. In conclusione sembra di poter affermare che, nel prossimo futuro, farmaci nuovi e selettivi, di più semplice somministrazione e meno tossici, permetteranno di migliorare l’efficacia dei trattamenti anti tumorali andandosi ad integrare con le terapie tradizionali. Quando si parla di trattamenti oncologici, soprattutto quando sono intesi solamente come cura della malattia, va dedicato uno spazio anche alla comune ed er156


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rata concezione secondo cui alcuni carcinomi non sono suscettibili a nessun tipo di trattamento e pertanto non possono essere curati. Il messaggio che dovrà passare sempre di più in futuro, superando la focalizzazione dell’attenzione solo sulla malattia, è che, anche se la neoplasia viene considerata inguaribile dal punto di vista clinico, il nostro paziente può e deve comunque essere curato. Tutto questo segna un’altra importante svolta che inizia a far muovere i primi passi verso una personalizzazione delle cure, cominciando in tal modo anche a spostare l’attenzione degli oncologi e del personale infermieristico dalla cura della malattia verso un concreto prendersi cura della persona malata. Curare significherà, allora, qualcosa di più del semplice utilizzo della chirurgia, della radioterapia, della chemioterapia o di qualsiasi altro tipo di cura finalizzata esclusivamente al trattamento della malattia. Curare significherà prendersi cura in modo globale della persona che abbiamo di fronte. E’ molto importante che i pazienti sappiano che l’equipe terapeutica, da cui sono stati presi in carico, non li abbandonerà solamente perché per loro non esiste una terapia specifica o perché quella già utilizzata non è stata efficace. Pertanto, in particolare per i pazienti le cui neoplasie non rispondono a nessun tipo di trattamento, così come per tutti gli altri pazienti affetti da cancro, una terapia appropriata comprende non solo un efficace trattamento farmacologico ma anche un buon controllo del dolore, un trattamento di tipo palliativo quando necessario ed un supporto psicologico e sociale. Come accennato all’inizio, il supporto psicologico classico costituisce, appunto, il terzo aspetto fondante del tradizionale modello di cura oncologico. L’importanza degli interventi psicologici, nell’influenzare il decorso della malattia e nel promuovere nei pazienti atteggiamenti orientati alla cura ed alla guarigione, non può essere in alcun modo trascurata. In particolare in questi ultimi 40 anni la letteratura scientifica ha rilevato non solo l’importanza dell’assi157


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stenza psicologica, durante il percorso di cura, come migliore modalità di adesione da parte del paziente nei confronti delle terapie ma soprattutto come ulteriore intervento nel raggiungimento del successo terapeutico. E’ ormai noto che di fronte ad una malattia come il cancro, che rompe in modo così improvviso la continuità dell’esistenza del paziente, trattamenti psicologici, in grado di favorire un atteggiamento mentale più attivo nei confronti della malattia e delle cure, aiutano la persona a riorganizzare la propria esistenza, ad accettare i cambiamenti connessi all’immagine di sé e a migliorarne la qualità della sua vita. Spesso, proprio interventi psicologici in grado di stimolare nel paziente emozioni positive, di favorire l’espressione dei sentimenti e di fargli percepire la presenza di un valido sostegno affettivo, hanno un significato estremamente rilevante per la persona e per il suo sistema di appartenenza. Purtroppo è la maggior parte dei pazienti oncologici a presentare un livello di distress clinicamente significativo, di natura moderata o severa e pertanto è fondamentale che il disagio psicologico venga adeguatamente riconosciuto, monitorato e trattato durante tutte le fasi della malattia. Il distress, infatti, inteso come un’esperienza emotiva negativa multifattoriale che può interferire con le capacità del soggetto di affrontare in modo efficace la malattia, merita di essere considerato come un parametro vitale al pari di altri indici fisiologici. Esso va valutato nella fase iniziale, corrispondente al momento della diagnosi e poi ad intervalli regolari ed in particolare quando si modificano le condizioni di malattia e quindi in caso di remissione, progressione o recidiva. Gli interventi di supporto psicologico attualmente utilizzati nel modello di cura oncologico sono di varia natura. Ci sono interventi di tipo psico-farmacologico, di tipo psicoterapico o di tipo integrato e quindi comprensivi sia della somministrazione di farmaci che di una psicoterapia. 158


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Genericamente, per i pazienti con un livello di distress moderato, viene effettuato un invio per una consulenza psico-oncologica, ai fini di un approfondimento diagnostico. Condizioni psicopatologiche di grado severo (depressione maggiore, disturbi dell’umore, delirium, rischio suicidario), invece, sono solitamente trattate con interventi psichiatrici più strutturati. Sono svariati i tipi di psicoterapia, individuale o di gruppo, ad essere stati studiati e ad essersi mostrati efficaci nel trattamento dei pazienti oncologici. Nel tempo hanno trovato largo consenso la terapia cognitiva, la terapia supportiva, la terapia familiare o di coppia ed anche terapie come, per esempio, le terapie creative, la musicoterapia, la danza terapia o l’arte terapia. Inoltre, gruppi di tipo psico-educazionale si sono rivelati efficaci nel ridurre il disagio emozionale, nel migliorare il livello di adattamento e nel ridurre i costi sanitari. Anche gli studi scientifici, riguardanti l’efficacia degli interventi di tipo farmacologico, indicano l’utilità dei principi cardine, quali le benzodiazepine, gli anti depressivi o i farmaci psicotropi, nel trattamento di alcuni quadri psicopatologici significativi di pazienti affetti dal cancro. Quando si parla di supporto psicologico è doverosa una particolare attenzione anche al contesto familiare, sia perché il livello di distress del paziente, oltre ad essere influenzato dagli aspetti clinici, è influenzato dal clima intra familiare sia perché livelli significativi di stress sono identificabili anche nella maggior parte dei familiari dei pazienti oncologici. E’ ormai certo che questo tipo di malattia, più volte definita anche come “malattia sistemica” o “malattia della famiglia”, ha delle inevitabili ripercussioni su tutto il sistema. Uno dei primi passaggi da compiere, perciò, deve sempre essere la definizione delle modalità di risposta emotiva e delle capacità di adattamento alla situazione dell’intero sistema famiglia. Può essere utile, poi, aiutare i familiari a migliorare la comunicazione tra loro, cosicché vengano presi in considerazione e rispettati i bisogni di ogni singolo membro del sistema. Si possono rivelare utili anche “riunioni fa159


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miliari”, condotte dall’equipe sanitaria, al fine di sostenere la famiglia sia dal punto di vista educazionale (fornendo informazioni relative all’evoluzione della malattia, relative a come poter gestire i sintomi e gli effetti collaterali etc…) sia dal punto di vista del supporto psicologico. Nel modello di cura oncologico attuale, nonostante questi aspetti siano stati già ampiamente riconosciuti, gli interventi sui familiari e sui caregiver del paziente rimangono ancora raramente applicati. Va detto però che tale modello di cura, pur essendo fortemente ancorato solo al trattamento della patologia, ha alcuni meriti, in quanto da un lato ha contribuito allo sviluppo delle conoscenze in campo oncologico (eziopatogenesi, evoluzione della malattia, stadi azione della malattia, individuazione dei farmaci, etc…) e dall’altro ha aumentato l’appropriatezza e l’efficacia delle cure. Per quale motivo oggi è necessario integrare questo modello di cura con una visione olistica? Dunque, per quale motivo oggi è necessario integrare questo modello con una visione olistica? Per rispondere a questea domanda riteniamo necessario dedicare uno spazio al consistente cambio epistemologico che è avvenuto negli ultimi anni ed alle conseguenze che esso ha comportato. Partendo dalla premessa che con il termine epistemologia si intende uno studio critico della validità del sapere scientifico, in Occidente si possono riconoscere due epistemologie dominanti: quella empirista e quella della complessità. L’epistemologia empirista, ovvero quella basata sulla Fisica classica, ha condizionato, per oltre quattrocento anni, il pensiero occidentale, influenzando il modo di concepire l’essere umano, il concetto di vita, di salute e di cura. Determinismo, casualismo lineare e riduzionismo, infatti, si sono addensati in un unico modello, che ha concepito l’universo e tutte le unità che lo compongono 160


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come macchine. Tale modello ha generato nelle scienze umane una visione meccanicistica dell’uomo. Secondo l’epistemologia empirista esiste, al di fuori di noi, una realtà oggettiva che può essere osservata e studiata. L’osservatore, a partire da questa premessa, è collocato in una posizione di neutralità descrittiva che gli consente di studiare il funzionamento della realtà. Per fare questo, inoltre, è necessario che l’osservatore scomponga la realtà in tante parti semplici. Ecco allora che il meccanismo di semplificazione fa della frammentazione uno dei principi di base di questa epistemologia. Un altro fondamento dell’epistemologia empirista è costituito dal casualismo lineare, ovvero dall’idea che ogni effetto è provocato da una causa ben precisa e che questa causa è sempre individuabile, oggettivabile e misurabile. In ambito clinico tutto questo ha portato, inevitabilmente, ad un rafforzamento dell’idea di localizzazione della malattia esclusivamente nella parte malata ed anche alla riduzione della persona alla malattia. Di conseguenza, anche la cura riguarda solo ed esclusivamente quella parte del corpo che viene identificata con la malattia. Le teorie deterministiche in medicina, quindi, hanno portato a considerare l’individuo soltanto come un’entità biologica, riducendo il concetto di cura al trattamento della singola parte malata e generando un senso di parzialità nell’intervento sanitario. A partire dall’epistemologia empirista, infatti, si è sviluppata una visione dell’essere umano come biologicamente determinato, come entità oggettiva, localizzata sia a livello spaziale che a livello temporale e come un’entità materiale fatta di atomi, di cellule, di organi e di apparati che funzionano in modo meccanico. La salute, pertanto, viene rappresentata come assenza di malattia e come condizione di equilibrio psicofisico. Quest’ultimo concetto resta comunque piuttosto sfumato e nebuloso e ancora saldamente legato ad una visione prevalentemente biologica.

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Anche la mente e gli stati mentali vengono considerati, secondo questa epistemologia, solo in funzione dei meccanismi cerebrali. Recentemente, però, sono avvenuti alcuni importanti cambiamenti ed il vecchio paradigma sta lasciando sempre più spazio ad una differente rappresentazione dell’individuo e della realtà circostante. Per merito di una grossa evoluzione dei modelli scientifici, l’epistemologia empirista ed il modello meccanicistico, con il tempo, si sono arricchiti di tante altre teorie che hanno dimostrato che vi è qualcosa di più oltre ad una visione soltanto meccanica e biochimica del corpo. Il passaggio dall’iniziale modello bio-psichico al modello bio-psico-sociale e poi quello dal modello bio-psicosociale al modello sistemico, hanno messo in evidenza i limiti del meccanicismo e del riduzionismo evidenziando la necessità di integrarli all’interno una cornice teorica più ampia e completa. Infatti, se da un lato il modello meccanicistico ha avuto molti meriti, quali quello di permettere alla medicina una conoscenza più approfondita dei processi biologici dell’organismo umano, di comprenderne meglio il funzionamento e di intervenire in modo altamente specifico sulle malattie, dall’altro, però, ha favorito anche alcuni importanti limiti. Uno dei più consistenti è stato quello di non prendere in considerazione tutte le dimensioni dell’essere umano (come il ruolo della mente, i sistemi di credenze, le emozioni, le relazioni familiari, le interazioni sociali e l’ambiente) che si sono dimostrate, invece, essere importanti tanto quanto la dimensione biologica. Le critiche, quindi, non andrebbero mosse al modello meccanicistico in sé, quanto piuttosto all’uso che se ne è fatto, considerandolo come l’unico modo di spiegare il funzionamento dell’organismo e di curarlo. Pensare alla malattia solamente come ad una compromissione biologica localizzata rischia di essere un atteggiamento limitativo e parziale poiché innesca una risposta curativa di tipo ripartivo che, inevitabilmente, porta ad ignorare altri livelli di fondamentale impor162


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tanza, come quello psicologico, quello energetico e quello spirituale. Con il modello bio-psicosociale si sono inclusi alcuni elementi teorici innovativi, come la dimensione psicologica, sociale e sistemica dell’individuo, senza però andare a destrutturare realmente le concezioni più tradizionali, riguardanti la salute e la cura. Quindi, anche questo modello, pur arricchendo la precedente visione dell’essere umano, ha mantenuto molte premesse del vecchio paradigma. Sarà solo con le più ardite ricerche degli ultimi anni ’80, realizzate all’interno delle più prestigiose facoltà di Medicina o di Psicologia delle Università degli Stati Uniti d’America (Harvard Medical School, Massachusetts General Hospital etc...) , che si introdurranno veramente delle nuove premesse teoriche, come quelle della visione olistica della persona, in grado di considerare anche la dimensione spirituale delle cure. Questi nuovi studi, focalizzati sull’applicazione di principi quantistici, hanno creato le premesse per la nascita di una Medicina Quantistica e di una visione olistica della mente e delle capacità di contribuire al processo di guarigione. Ecco allora che, attraverso una nuova epistemologia, cosiddetta della complessità, basata sui più recenti principi della Fisica quantistica, la persona non viene più concepita come un individuo separato e separabile ma come qualcosa di molto più ampio e complesso, che pertanto include la dimensione trascendente e spirituale dell’uomo. Va detto innanzitutto che per i principi della Fisica quantistica, diversamente che per quelli della Fisica classica, non esiste una realtà esterna oggettiva, in quanto ogni dato osservato è costruito dall’osservatore. Le cose che percepiamo ci appaiono in un determinato modo perché sono modellate dalle teorie che utilizziamo, in quanto gli individui, attraverso la cultura, apprendono delle teorie che generano schemi mentali, finalizzati a rappresentare la realtà secondo i criteri socialmente condivisi. 163


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Gli individui diventano ora i veri costruttori della realtà. Inoltre, secondo questa nuova epistemologia, anche l’utilizzo della frammentazione* subisce alcune critiche. Segmentare un fenomeno nelle sue varie parti non ci permette di comprenderlo meglio ed anzi può essere un processo altamente dannoso. Più separiamo le parti dal tutto, più creiamo delle entità separate che non hanno nulla a che fare con ciò che erano nel momento originario. Poiché ogni cosa è interconnessa a tutte le altre, non vi è nulla che possa essere separato dal resto, senza che gli si faccia perdere la propria natura. * Con il termine frammentazione si intende, nel mondo dell’epistemologia empirista, la necessità di frammentare l’oggetto di studio allo scopo di comprendere meglio il funzionamento delle sue parti. Emblematico di tale processo è la frammentazione disciplinare, che porta all’organizzazione di specifici saperi relativi alle singole parti dell’oggetto studiato.

Con questa nuova concezione si sviluppa, quindi, sempre di più la necessità di spiegare la complessità dei fenomeni in termini di globalità, studiando l’interazione dinamica delle parti, attraverso un approccio metodologico che si contrappone allo schema classico, causale-deterministico, di spiegazione della realtà. All’interno di questa epistemologia anche la concezione della mente ha necessariamente subìto delle grosse modifiche. Essa, infatti, non viene più pensata come entità separata dal corpo ma viene considerata piuttosto come un potente elemento capace di influenzare la nostra salute. Tale posizione abbandona del tutto una visione causale-lineare per affermare, invece, l’idea di circolarità, dove la mente non deve più essere vista come un’espressione passiva dell’attività del cervello ma come una dimensione che, non potendo prescindere da esso, su di esso retroagisce modificandolo. La mente ora è vista come correlatrice di una fitta trama di rapporti che l’organismo intreccia con il macro contesto ambientale e sociale di cui fa parte. La si pensa come un elemento di contatto tra due mondi che, grazie ad essa, possono essere costantemente in comunicazione. 164


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E’ dentro a questo nuovo quadro teorico che si struttura anche il concetto di “mente discorsiva” (Harrè, Gillet, 1996) in cui la mente è vista come un processo sociale, contemporaneamente privata e pubblica. La mente individuale non è più localizzata fisicamente ma è collocata all’interno di un processo di ricorsività circolare. Allo stesso modo si assiste ad un riesame anche della concezione dell’individuo. Se prima era considerato un ricettore passivo delle informazioni provenienti dall’esterno, ora viene pensato come un osservatore che crea, che è attivo e costruttivo rispetto a ciò che lui stesso renderà reale. Dunque, ciò che ha pesantemente condizionato le discipline sanitarie è da sempre stato il dominio del modello deterministico e riduzionista ma finalmente sembra che si stia concretizzando un cambiamento importante che riguarderà tutte i settori che si occupano di salute. Sono alcuni i fattori che, negli ultimi anni, hanno contribuito ad alimentare questo interessante cambiamento e due in particolari si sono rivelati dominanti. Il primo è costituito da una critica sempre più forte alla cultura organizzativa delle Aziende Sanitarie che, nell’intento di riorganizzare le attività cliniche in modo efficace ed efficiente, ha finito per produrre iter terapeutici rigidi e standardizzati, coerenti con una visione protocollare ma distanti dalle necessità e dai bisogni espressi dai pazienti. Emblematico e paradossale è il fatto che la definizione degli iter terapeutici, che doveva evocare l’umanizzazione dell’intervento, finiva per disumanizzarlo, conferendo più importanza alle procedure che alla comunicazione e alla relazione con il paziente e con i suoi familiari. Il secondo corrisponde alla necessità di ricomporre il sapere sanitario, facendolo uscire dalla logica della frammentazione disciplinare iper- specialistica e dalla riparazione meccanica della parte malata. Come accennato sopra, questo cambiamento ha permesso un passaggio importante anche nella rappresentazione del concetto di salute e di malattia. Nella cultura occidentale, ancora dominata dal modello deterministico e riduzionista, la tendenza è quella 165


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di considerare la malattia come qualcosa di esterno all’essere umano, che fatalmente lo colpisce. Spesso, infatti, viene utilizzata la metafora bellica sia in riferimento all’assalto effettuato dalla malattia sul corpo, sia in riferimento all’idea di battaglia da combattere contro la malattia. Questo modo di vivere e di vedere la malattia, però, piuttosto che consentirci di percepirla come qualcosa che è anche legato alle abitudini o agli stili di vita e quindi come parte di un processo più ampio, aumenta soltanto il sentimento di timore verso di essa e ne impedisce la comprensione. A questo proposito C. Simonton sostiene che la nostra immagine del cancro è quella di un potente agente invasore che colpisce il corpo dall’esterno mentre in realtà la cellula tumorale non è una cellula potente, bensì è una cellula debole, poiché le cellule tumorali sono grosse ma pigre e confuse. Secondo il nuovo paradigma la malattia non viene più considerata, aprioristicamente, come qualcosa di male, ma come una situazione transitoria, come una reazione sana della persona ad un agente di disturbo. La malattia, in questa prospettiva, che può essere definita eco-sistemica, diviene un passaggio di comunicazione tra il nostro corpo e la nostra mente. La nuova visione, quindi, partendo da premesse ecosistemiche, consente sia di collocare il processo patologico entro una dimensione più ampia, che definiamo olistica, rispetto a quella altamente riduttiva, offerta da un’interpretazione meccanicistica, sia di considerare la malattia non più solo come una lesione o un’alterazione localizzata, quanto piuttosto come un processo che riguarda la persona nella sua unità Mente-Corpo. Conseguentemente, anche la salute assume il significato di condizione ideale di interconnessione tra il micro cosmo individuale ed il macro cosmo della realtà circostante, tale per cui la malattia viene vista come un effetto di forme di disfunzionalità all’interno di quell’interazione. Pertanto, ad oggi, determinismo e riduzionismo, sia in Medicina che in Psicologia, sono stati finalmente costretti a ridimensionarsi e a misurarsi con nuove teorie 166


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che si basano sui principi dell’interconnessione e che considerano il piano biologico in constante interscambio con l’ambiente circostante. L’individuo ora può essere visto in un modo diverso rispetto a prima e non è più riconducibile alla sola patologia organica o psichica, ma viene considerato come un soggetto attivo del processo di guarigione, in grado di contribuire, con il suo lavoro sugli atteggiamenti mentali e sulle emozioni, a mobilitare le proprie capacità di guarigione. Ecco perché anche la concezione di un programma efficace di cura ha subìto delle modificazioni, trasformandosi in un processo che deve sempre porsi come obiettivo primario quello di sollecitare ogni persona ad attivare le proprie risorse interne, a sviluppare una nuova forma di consapevolezza di sé e della cura, allo scopo di partecipare in modo efficace alla sua guarigione, operando cambiamenti consistenti nelle sue convinzioni e nei suoi sistemi di credenze. In questo senso far sentire il paziente protagonista della sua esistenza significa riconoscergli quel ruolo che ciascuno di noi può ricoprire nel fare tutto il possibile per mantenere il proprio stato di salute. Allora, come si possono tradurre tutti questi concetti teorici all’interno di una buona attività clinica, tesa a curare il tumore? Allora, come si possono tradurre tutti questi concetti teorici all’interno di una buona attività clinica tesa a curare il tumore? Secondo Gioacchino Pagliaro, il modello oncologico attuale può essere integrato in una visione olistica attraverso i seguenti aspetti: - la ricomposizione dei saperi, - l’umanizzazione degli interventi, - l’azione sugli stili di vita e la diffusione delle pratiche Mente-Corpo-Energia. Procederemo ora considerandoli, brevemente, uno alla volta. 167


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Come si è detto precedentemente, a proposito del determinismo e del riduzionismo, l’idea dominante per molti anni è stata che per conoscere un oggetto lo dobbiamo frammentare. Questo, da un lato, ha permesso di conoscere in modo estremamente dettagliato il funzionamento delle singole parti di ogni processo ma, dall’altro, ha prodotto saperi iper specialistici che non trovano un’adeguata ricomposizione all’interno di una visione più unitaria. Ricomporre i saperi significa, allora, introdurre quelle conoscenze all’interno di una visione Psico-neuroendocrinoimmunologia e delle Scienze Mente-Corpo*, poiché esse considerano l’organismo umano come costituito da un’unica unità Mente-Corpo-Energia, in cui ogni cambiamento nello stato emotivo o mentale è accompagnato da un cambiamento nella condizione fisiologica. Il corpo e la mente sono concepiti come due aspetti dell’energia, in quanto il corpo ne costituisce la sua manifestazione più grossolana, mentre invece la mente ne costituisce la sua manifestazione più sottile. Il Modello Mente-Corpo, essendo un’espressione del paradigma olistico, rappresenta la realtà in termini di interazioni, interscambi, interdipendenze, totalità e concepisce la mente individuale come un micro processo che fa parte di una più grande interconnessione mentale, che coinvolge tutti gli esseri animati e le entità inanimate. Il grande merito del modello Mente-Corpo e della nuova visione olistica, perciò, è quello di non parlare più di una distinzione tra la mente ed il corpo e di definire il concetto di salute come un equilibrio dinamico collocabile sia all’interno dell’individuo che tra l’individuo ed il più vasto macrocosmo di cui egli è parte. Questa visione sempre più complessa dell’essere umano è ben riassunta nel testo “Psicosomatica” di Trombini e Baldoni. I due autori scrivono: “L’organismo umano non è solo un sistema costituito da cellule ed organi, a loro volta costituiti da atomi e molecole, ma è anche un sistema individuale inserito all’interno di un sistema sociale, a propria volta facente parte di un ecosistema naturale inserito nel sistema solare. 168


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L’universo stesso, quindi, può essere concepito come una stupefacente architettura di sistemi (…) ad esempio, un cambiamento interpersonale può influenzare le relazioni sociali, lo stato psicologico, le funzioni cerebrali, il sistema immunitario e la vulnerabilità verso le malattie” (G. Trombini, F.Baldoni, Psicosomatica, Il Mulino; Bologna 1999, p.44). *Si intende una visione olistica della vita, degli esseri viventi e dell’uomo, basata su alcuni principi ecosistemici e dell’Entanglement che confermano l’importanza di una visione trascendente dell’uomo e della dimensione spirituale.

Tab. 1; La Visione Olistica VISIONE OLISTICA Uomo > Unità Mente-Corpo-Energia, interconnessa con la realtà circostante Salute > Equilibrio tra il sistema energetico individuale e quello di cui è parte Cura > Integrazione delle più moderne ed efficaci terapie mediche con attivazioni energetiche generate da pratiche di consapevolezza, in cui la mente svolge un ruolo attivo

Tab. 2 Modello Mente-Corpo

Corpo

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Mente


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Tab.3 Teoria Mente-Corpo-Energia

Teorie Mente-Corpo-Energia Si sviluppa uno schema molto più complesso rispetto al precedente La Mente e il Corpo e l’Energia costituiscono un’unica unità

La Mente non è generata dal cervello ma, coerentemente con alcuni principi della Fisica Quantistica, oltre a caratteristiche biografiche individuali, ha una dimensione non locale.

Ciò che accade nel Corpo accade anche nella Mente e viceversa, producendo effetti importanti sugli altri e nella realtà circostante. L’Unità Mente-Corpo-Energia è interconnessa con la realtà circostante

Questa nuova visione ha aperto nel tempo scenari sempre più stimolanti per favorire l’integrazione, in campo psicologico ed in campo medico, tra i rispettivi sistemi di cura e di promozione della salute ed anche per favorire nuovi ambiti di ricerca scientifica. Il modello Mente-Corpo-Energia, infatti, ha trovato successivamente un riscontro anche negli studi della Psiconeuroendocrinoimmunologia (PNEI), un importante settore di ricerca e di applicazione clinica sviluppatosi intorno agli anni ’60 del secolo scorso e che oggi, grazie ai suoi più recenti sviluppi, inizia ad influenzare anche l’organizzazione sanitaria. La PNEI ha fornito un contributo molto importante nel passaggio ad una visione olistica in ambito sanitario. 170


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La PNEI nasce dalla moderna visione della biologia ed è un ambito di ricerca che sorge a partire dagli studi sullo stress condotti, in chiave biologica, dallo psicologo H. Selye e dalle grandi intuizioni di W.Cannon e si caratterizza come un nuovo modello teorico che trae origine dalla biologia e che studia le relazioni tra il sistema nervoso, quello endocrino, quello immunitario e gli stati mentali. Questo ambito di ricerca si propone, quindi, come un superamento della frammentazione del sapere scientifico, in quanto guarda all’individuo nella sua interezza, ponendolo in relazione con l’ambiente di cui è parte. La PNEI ha rivoluzionato, infatti, l’antica idea di separatezza tra gli apparati che compongono l’organismo umano, in favore di una nuova prospettiva che li considera, invece, in stretta connessione ed interdipendenza ed ha inoltre contribuito ad una visione dell’uomo in chiave olistica, secondo cui tutto ciò che accade attorno all’individuo si riflette sul piano biologico, attraverso precisi processi biochimici. Secondo i principi della PNEI l’intero corpo “pensa”, ogni cellula “sente e prova emozioni”, riceve informazioni psicofisiche e le trasmette a sua volta all’intero organismo, attraverso una fittissima rete di interconnessioni di grande varietà comunicativa. Ecco che in questo senso anche le emozioni, la nostra mente e le nostre convinzioni mentali contribuiscono ad influenzare il nostro stato di salute e di malattia. Dunque, grazie agli studi della PNEI, si è dimostrato non solo che esistono delle relazioni continue di scambio tra il sistema nervoso, quello endocrino e quello immunitario ma anche che le nostre emozioni ed i nostri atteggiamenti mentali hanno un ruolo centrale nel mantenimento della salute e nello sviluppo delle patologie. Numerose ricerche, infatti, hanno dimostrato, per esempio, che le emozioni negative (quali la rabbia, l’aggressività, la tristezza, l’egoismo o il lavorio mentale) possono essere connesse all’insorgenza di patologie quali l’asma, la cefalea, l’ulcera gastrica o l’ipertensione ed allo stesso modo hanno dimostrato che emozioni positive (come la calma, la fiducia e l’altruismo) rafforzano l’atti171


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vità del sistema immunitario e contribuiscono al processo di guarigione. La PNEI, quindi, ha contribuito allo sviluppo di una Medicina Integrata che prevede l’integrazione delle migliori cure farmacologiche e mediche con le metodiche derivanti dalle Medicine Non Convenzionali. Attualmente, il modello più innovativo di PNEI, a cui stanno lavorando da oltre vent’anni numerosi ricercatori e clinici, è quello che solitamente viene definito come “PNEI Quantistica”. Quest’ultima prevede, oltre all’integrazione del modello biomedico con le Medicine Non Convenzionali, anche l’integrazione con i processi quantistici della mente* e della realtà di cui siamo parte. * Per processi quantistici della mente si intendono quei processi mentali che avvengono nella dimensione non locale, al di fuori della dimensione spaziotemporale e che però sono in grado di influire sulla realtà macroscopica. Esempi di processi quantistici della mente possono essere rappresentati dalle capacità della mente di influenzare il corpo attraverso un particolare lavoro finalizzato a creare processi di coerenza e di risonanza negli organi su cui si intende svolgere un’azione di cura, con l’attivazione di specifici campi vibrazionali. Un altro esempio di processo quantistico della mente, oggi studiato con molta attenzione da neuro scienziati, psicologi e biologi, è l’intenzionalità creatrice. Con questo termine, A.Goswami, un prestigioso fisico statunitense, intende la capacità della mente di influenzare la realtà attraverso lo sviluppo di una forma profonda di consapevolezza, finalizzata a far accadere, a livello quantistico, uno specifico evento.

In tal modo si può creare un sapere che sia trasversale a tutte le professioni senza che questo significhi perdere i singoli ruoli professionali quanto piuttosto far si che ogni professionista sia capace, entro i limiti possibili, di utilizzare le conoscenze di base anche dei suoi colleghi. Ricomporre i saperi, dunque, vuol dire anche ricollocare quelle conoscenze iper specialistiche all’interno delle Medicine Non Convenzionali. Altri due aspetti citati da Pagliaro riguardano l’umanizzazione delle cure e gli interventi sugli stili di vita. La diagnosi di tumore e ciò che ne consegue hanno spesso, sulla vita dei malati e della loro famiglia, un impatto fortemente negativo che va ben aldilà dei sintomi fisici su cui di solito si concentra tutta l’attenzione.

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Accade di frequente che l’intero sistema familiare venga colto da vissuti negativi quali paura, ansia, sgomento o depressione e che la presenza di questi stessi disturbi possa limitare l’individuo ed i suoi familiari nella gestione delle attività e della vita quotidiana, innescando alle volte anche problemi di natura sociale ed economica. Nonostante l’importanza di questi aspetti e le evidenze scientifiche a riguardo, presenti in letteratura ormai da vari anni, succede ancora molto frequentemente che i bisogni psicologici dei pazienti e delle loro famiglie vengono considerati non così come sarebbe opportuno fare. Anche nei casi in cui in ospedale siano presenti servizi di assistenza psicologica, infatti, può succedere che i malati ne ignorano l’esistenza e le modalità di accesso. E’ quindi necessaria una crescente sensibilità ed attenzione, da parte dei professionisti sanitari, rispetto al danno potenziale che una mancata attenzione verso gli aspetti psicologici delle cure può avere sul processo di guarigione dalla malattia e più in generale sulla qualità della vita dei pazienti. In tal senso sono emblematiche le ricerche, condotte in ambito oncologico, che evidenziano come l’assistenza psicologica ha contribuito a ridurre i tempi del percorso di cura o addirittura ha inciso in modo significativo sul prolungamento della vita. L’obiettivo principale della umanizzazione delle cure, allora, diventa quello di riconoscere e di prendere in considerazione tutti gli effetti che la diagnosi psicologica ed il trattamento dei tumori hanno sullo stato mentale e sul benessere emotivo del paziente e dei suoi familiari o care giver. E’ ormai ampiamente noto che, oltre a migliorare il benessere emotivo e la salute mentale delle persone, l’umanizzazione degli interventi e quindi l’ampliamento del concetto di cura agli aspetti più psicologici, consente una migliore gestione sia di tutti i sintomi connessi allo stato di malattia che degli effetti collaterali derivanti dai trattamenti terapeutici. 173


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Altre dimensioni molto importanti nell’umanizzazione delle cure, poi, sono quelle relative alla relazione terapeutica, alla trasmissione delle informazioni, alla comunicazione medico-paziente ed all’utilizzazione delle pratiche di consapevolezza Mente-Corpo. Sarebbe auspicabile che tutti i pazienti oncologici potessero usufruire di Unità Operative Complesse di PsicologiaOspedaliera, collocate all’interno dell’ospedale, in cui possano essere assistiti psicologicamente ed allo stesso tempo che tutti i professionisti sanitari del settore avessero occasioni di aggiornamento sia sulla loro capacità comunicativa-relazionale sia sulla tutela e sul mantenimento del loro benessere. Buone capacità comunicative sono alla base dell’assistenza oncologica, poiché aumentano il grado di soddisfazione dei pazienti, ne stimolano il coinvolgimento e ne riducono la sintomatologia ed il livello di distress psicologico. Saper accogliere il disagio della persona, saperla rassicurare, aver sviluppato una buona empatia e saper comunicare e discutere con lei anche le notizie più negative rappresentano elementi di centrale importanza. All’interno di una prospettiva di umanizzazione delle cure vi sono quindi due aspetti nodali. Da un lato vi è la presenza di una relazione terapeutica forte tra medici, professionisti sanitari e pazienti, in quanto la possibilità per i pazienti di essere accompagnati durante la malattia e di sentirsi sempre accolti e mai abbandonati costituisce un elemento importante nel processo di guarigione. Dall’altro vi sono, come si accennava poco sopra, gli aspetti più strettamente relativi proprio alla comunicazione. Per esempio, la mancata aderenza alle terapie nei pazienti oncologici è un fenomeno molto più diffuso di quanto generalmente si creda. Nel momento della comunicazione della diagnosi o della discussione del piano di trattamento, accade spesso che le figure professionali sovrastimino il livello di conoscenze o il livello culturale dei loro pazienti e che utilizzino una terminologia altamente specialistica difficile da comprendere per le persone. 174


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Allora, se i pazienti non vengono adeguatamente istruiti ed educati e se non hanno ben chiaro il loro percorso terapeutico, possono aumentare i loro livelli di stress e di tensione, assumere i farmaci in modo inadeguato o scorretto e questo può, di conseguenza, causare una riduzione della loro qualità di vita, un aumento della frequenza delle visite mediche in urgenza o addirittura costringerli a delle ri-ospedalizzazioni ( Ruddy, Mayer e Patridge, 2009). In questo senso l’educazione del paziente e di chi si occupa di lui, intesa come una comunicazione di informazioni da parte dei sanitari il più completa ed esaustiva possibile, rappresenta un aspetto davvero molto importante. E’ fondamentale che i professionisti raccontino ai loro pazienti che cosa gli sta accadendo, in quanto la loro conoscenza rappresenta uno strumento potente all’interno del processo terapeutico di guarigione. Diventa quindi fondamentale che i professionisti sanitari: - si esprimano in modo chiaro, controllando più volte che il paziente abbia compreso che cosa gli è stato detto; - diano buoni consigli in grado di rassicurare e tranquillizzare il paziente che si trova in una situazione di grande difficoltà; - evitino termini troppo tecnici che spesso non fanno altro che confondere il paziente ed alimentare in lui un senso di confusione e di spaesamento; - organizzino le informazioni più complesse in strutture facilmente memorizzabili utilizzando anche disegni o grafici, nei casi in cui ve ne sia la necessità; - lascino al paziente il tempo necessario per poter porre tutte le domande di chiarimento che gli sembrano necessarie; - utilizzino parallelamente diversi canali di comunicazione, come quello uditivo e quello visivo, in modo che l’informazione possa arrivare in modo ancora più chiaro; - coinvolgano, in modo attivo e partecipativo, anche i familiari o chi si occupa in prima persona del paziente e della sua salute; - educhino il paziente a corrette abitudini alimentari e corretti stili di vita. 175


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Proprio perché fornire informazioni corrette e complete, ai pazienti e ai loro familiari o caregiver, rappresenta uno degli elementi più importanti del trattamento oncologico, anche gli interventi sui corretti stili di vita non devono passare in secondo piano. Prima che una persona riesca a modificare un comportamento è necessario che sappia bene che cosa deve fare per cambiarlo, che senta la necessità di agire quel cambiamento ed anche che siano attivati in lei tutti gli strumenti per poterlo raggiungere e mantenere nel tempo. Intervenire sugli stili di vita dei pazienti significa, come si diceva poco fa, iniziare ad integrare la cura della malattia con il prendersi cura della persona in un modo più coerente con le nuove teorie scientifiche. Quando si parla di interventi sugli stili di vita, infatti, si fa riferimento al fatto di fornire informazioni ai pazienti anche riguardo l’importanza dell’alimentazione e dell’attività motoria. Sono numerosissime le ricerche in letteratura che ad oggi dimostrano, per esempio, che un’attività motoria giornaliera, costante e moderata, è in grado di diminuire i rischi di recidiva in pazienti affette dal tumore alla mammella ( World Cancer Research Fund International and American Institute for Cancer Research, 2007). La stessa letteratura scientifica ci dimostra che se da una parte un’informazione chiara, corretta e completa è in grado di migliorare la qualità della vita delle pazienti, dall’altra, invece, un’informazione scorretta, parziale o ambigua, può avere effetti negativi sui pazienti ed addirittura indurli ad assumere comportamenti svantaggiosi per la loro salute. Una buona informazione ed interventi di educazione alla salute risultano essere utili sin dal momento della diagnosi per aiutare le persone malate, ma anche i familiari ed i caregiver, ad orientarsi meglio all’interno dei reparti, ad introdursi in modo più attivo nelle procedure cliniche, a conoscere i servizi di supporto interni ed esterni e quindi, più in generale, a prendere parte nel processo di cura. 176


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Ecco allora che anche il processo informativo-educativo, rispetto agli stili di vita, assume un enorme rilievo. In quest’ottica andrebbe valorizzata, da parte dei professionisti del settore, anche l’informazione relativa alla presenza delle Associazioni attive nel territorio. Le Associazioni, infatti, rappresentano dei sistemi di fondamentale importanza, in quanto permettono di focalizzare l’attenzione sui reali problemi dei pazienti e forniscono un prezioso contributo nella definizione delle priorità di intervento. Esse sono sistemi estremamente importanti perché, oltre ad essere uno straordinario patrimonio di conoscenze e di informazioni utili, spesso, sono costituite da persone che sono già guarite e che quindi possono costituire un punto di riferimento positivo per le pazienti che stanno ancora affrontando la malattia. Inoltre, è proprio grazie alle Associazioni che si realizza la possibilità di creare degli spazi e delle opportunità psico-educazionali per i pazienti. Un esempio eccellente del ruolo che le Associazioni possono svolgere è rappresentato dal “Progetto G-LAB”. Grazie a questo progetto, pensato dall’Associazione “Grande Giù Onlus”, e sviluppato in seno all'Istituto di enatologia L. & A. Seràgnoli, si è datovita ad un laboratorio per i giovani, tra i 18 e 35 anni, che sono ricoverati nei reparti dell’Istituto del Policlinico Sant’Orsola a causa di malattie onco-ematologiche. Si tratta di un programma che prevede la creazione di una Web Community e di un laboratorio di attività ricreative (G-LAB), volte a fornire un supporto psicologico, spirituale e relazionale allo scopo di migliorare il benessere psicofisico di questi giovani adulti. Il progetto ha il grande merito di associare il concetto di cura (cure) al prendersi cura (care), attraverso l’umanizzazione dell’intervento umano, psicologico e sociale dei pazienti. Il progetto è perfettamente allineato con quanto suggerito da Pagliaro, per integrare il modello oncologico in una visione olistica, consiste nel favorire l’utilizzo delle pratiche Mente-Corpo, da parte di tutte le figure sanitarie coinvolte nel processo di cura. 177


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E’ sempre maggiore, infatti, la necessità di disegnare nuovi orizzonti, a sostegno del modello olistico, incoraggiando all’apertura delle pratiche più convenzionali verso altre tipologie di cura proprie del Modello MenteCorpo come, per esempio, la Meditazione, il Qi-gong, il Thai qi, lo Yoga o le pratiche bioenergetiche. Quelle appena citate sono solo alcune delle più note pratiche Mente-Corpo, ovvero di quelle pratiche finalizzate a ristabilire e poi a mantenere nel tempo il benessere globale della persona, costituita dalle sue tre dimensioni: Mente-Corpo-Energia. Alcune di queste pratiche, pur mantenendo intatta la loro struttura di fondo, sono state adattate alla cultura occidentale, affinché potessero essere messe poi a disposizione di un pubblico più vasto (vedi i lavori fatti da H.Benson e da C.Simonton). Negli ultimi decenni in Occidente si sta assistendo ad una sempre più rapida espansione delle pratiche MenteCorpo in quanto, oltre ad essere divenute un importante oggetto di studio scientifico, sono state lentamente introdotte in differenti ambiti clinici, essendosi dimostrate integrabili con diversi approcci terapeutici. All’interno di questo capitolo ci soffermeremo su una pratica in particolare, ovvero la Meditazione. Quando si parla di Meditazione va detto, innanzitutto, che può avere molteplici definizioni, non sempre coincidenti tra loro. Questo dipende dal fatto che essa assume connotazioni e sfumature differenti in base alle tradizioni culturali e filosofiche a cui si fa riferimento. Ciò, però, non implica che non ci sia un significato comune e genericamente condiviso. La definizione di Meditazione attualmente più riconosciuta in ambito clinico è la seguente: “Con il termine Meditazione si intende un addestramento alla presenza mentale che, attraverso l’acquietamento della mente ed un più profondo livello di consapevolezza, agisce contemporaneamente sul piano mentale, spirituale, energetico e fisico” (Pagliaro, 2004). La Meditazione consiste, quindi, in una pratica mentale finalizzata ad interrompere l’incessante lavorio della 178


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nostra mente, così da poter attivare una risposta benefica di riequilibrio psicofisico. Quando si medita l’attività del pensiero viene, infatti, lasciata fluire liberamente, accettando quello che accade senza che gli venga attribuito nessun giudizio o valore. La Meditazione è una pratica accessibile a tutti, per la quale non ci sono limiti di età, di ordine culturale o di tipo religioso. Si può meditare senza dover modificare la propria fede, senza doversi avvicinare ad una qualche religione e senza dover modificare la propria cultura di appartenenza. Questa pratica deriva dalle discipline spirituali orientali e oggi, riadattata alla nostra cultura e viste le sue enormi potenzialità terapeutiche, viene utilizzata anche in Occidente nell’ambito della cura e della salute. Nonostante la Meditazione rappresenti una delle discipline mentali più antiche ha suscitato vero interesse ed ha iniziato a diffondersi in ambito clinico, come pratica terapeutica del benessere, solo negli ultimi anni. Non va scordato che la Meditazione nelle Medicine Orientali, in particolare in quella Ayurvedica, nella Medicina Cinese, nella Medicina Tibetana e nella Medicina Taoista, è considerata un’importante pratica di cura finalizzata al ristabilimento della salute, attraverso l’azione che svolge sul sistema energetico della persona malata. In Occidente lo scienziato che per primo ha studiato gli effetti della Meditazione, nel trattamento di alcune patologie organiche, è stato Herbert Benson, cardiologo e Direttore del Mind-Body Institute della Harvard Medical School. (H. Benson, The Relaxation Response; William Morrow, New York, 1974). Già grazie alle sue prime ricerche, il Dottor H. Benson è riuscito a dimostrare che la Meditazione è in grado di: Diminuire la tensione muscolare; Ridurre l’attività metabolica; Regolarizzare la pressione sanguigna; Diminuire la frequenza respiratoria;

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Allungare il respiro; Sviluppare uno stato mentale più sereno. Gli studi del Dott. Benson, poi, sono riusciti a dimostrare l’efficacia della Meditazione anche nel trattamento dei disturbi digestivi, delle patologie cardiovascolari, delle patologie del colon irritabile, delle cefalee e dell’insonnia. Anche Miller, Fletcher e Kabat-Zinn, studiosi del Dipartimento di Psichiatria del Massachussets, hanno portato a termine tantissimi studi sulla Meditazione, analizzandone l’efficacia nel trattamento di alcuni disturbi psicopatologici. I tre ricercatori, infatti, hanno effettuato un follow-up, dopo 3 anni, su 22 pazienti sottoposti ad un programma di Meditazione per disturbi di ansia ed attacchi di panico, dimostrando ottimi risultati di efficacia della pratica di Meditazione per la cura di queste patologie. PRINCIPALI EFFETTI FISIOLOGICI DELLE PRATICHE MEDITATIVE RILEVATI DALLE RICERCHE MEDICHE CONDOTTE NEGLI ULTIMI 15 ANNI Tab. 4 (G. Pagliaro, E. Martino 2003)

A livello corticale: si registra un generale stato di quiete; sono presenti onde cerebrali tipiche del rilassamento (di tipo alfa, delta e theta), simili a quelle del sonno profondo; il soggetto resta però in uno stato molto ricettivo agli stimoli esterni; le onde cerebrali rilassanti persistono per un certo periodo dopo la fine della seduta di meditazione.

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A livello cutaneo: la resistenza della pelle aumenta. Questo è un indicatore di rilassamento, laddove per contro la resistenza cutanea sotto stress diminuisce notevolmente.


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A livello cardiovascolare: diminuzione del ritmo cardiaco, come conseguenza della riduzione dell’attività nervosa, cerebrale e simpatica; aumento del flusso sanguigno nei muscoli (fino al 300%), specialmente negli arti inferiori e superiori per la riduzione delle resistenze vascolari periferiche; abbassamento della pressione.

A livello della chimica del sangue: regolazione degli ormoni adrenalinici; regolazione dei globuli rossi; regolazione dei globuli bianchi; diminuzione del colesterolo.

A livello metabolico: il consumo di ossigeno da parte dell’organismo diminuisce mediamente del 20% con conseguente riduzione del metabolismo e dei suoi prodotti finali.

A livello muscolare: diminuzione della tensione muscolare; modificazione della temperatura corporea e conseguente miglioramento nella circolazione del flusso sanguigno.

A livello respiratorio: la frequenza del ritmo respiratorio è all’incirca dimezzata rispetto a quella di un soggetto a riposo; parallelamente diminuisce anche la resistenza delle vie bronchiali al flusso dell’aria.

A livello del sistema immunitario: rafforzamento del sistema immunitario (laddove per contro lo stress favorisce un indebolimento della risposta immunitaria).

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I benefici evidenziati dall’applicazione della Meditazione nel potenziamento della carica vitale*, nel rafforzamento del sistema immunitario e nel miglioramento della risposta agli interventi chirurgici o farmacologici, spinsero via via anche altri ricercatori a studiare gli effetti che una pratica meditativa costante può avere su pazienti con una patologia neoplastica. * Nelle Medicine Orientali si intende il riequilibrio e il potenziamento delle energie che compongono il sistema energetico di ogni soggetto. La Meditazione viene utilizzata per potenziare questa carica vitale.

In ambito oncologico sono stati in particolare gli studi di C. Simonton a dimostrare l’efficacia della Meditazione, unita ad una corretta informazione, alle ristrutturazioni cognitive e all’associazione con le più tradizionali cure mediche (C.Simonton, S.Simonton, J.Creighton; Getting well again, 1980, p.57). C. Simonton sosteneva che quando nella nostra mente creiamo un’immagine è come se, nello stesso momento, stessimo già creando anche le condizioni per realizzare ciò che stiamo immaginando. Ecco perché egli ha utilizzato le visualizzazioni, partendo dall’idea che esse dovessero includere sempre alcuni aspetti, quali: coinvolgere la parte in cui vi era la malattia, considerare le cellule cancerose come deboli e distruggibili, immaginare i globuli bianchi come numericamente superiori e forti, immaginare di eliminare le cellule morte (Simonton, Matthews, Creighton 1980). Alla fine degli anni ’70, C. Simonton iniziò una fervida attività di ricerca, utilizzando l’applicazione del suo metodo su 159 pazienti considerati incurabili dal punto di vista medico. Fu con questa sperimentazione che riuscì a dimostrare che era aumentata la sopravvivenza da 3 a 4 volte in ben 63 di quei pazienti, favorendo in loro anche un netto miglioramento della qualità della vita. (C. Simonton, 1980). Ad oggi il Metodo Simonton è uno dei metodi più noti di trattamento del tumore con l’utilizzo di pratiche di visualizzazione, di Meditazione e di terapia cognitiva ed è attualmente praticato non solo in America ma anche 182


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in Europa ed in Italia. Negli USA, dopo i trattamenti chirurgici, le cure farmacologiche e la radioterapia, è addirittura considerato la quarta forma di cura del tumore. I risultati delle ricerche compiute da Simonton sono stati confermati anche da altri studi realizzati in ambito oncologico. Diverse ricerche (Ott et al. 2006; Carlson e Bultz, 2008; Armstrong e Gilbert, 2008; Liu et al., 2008), infatti, hanno evidenziato che in seguito all’applicazione di pratiche meditative su pazienti oncologici si potevano osservare i seguenti benefici: - un miglioramento delle risposte psicologiche allo stato di malattia ed in particolare una diminuzione dello stato di ansia e delle reazioni di tipo depressivo; - una riduzione dello stress; - un miglioramento della qualità della vita; - una migliore capacità di affrontare le situazioni anche in fase avanzata di malattia; - una riduzione della nausea e del dolore, legati al cancro e alle chemioterapie; - una riduzione nella durata delle terapie. Anche una ricerca, svolta su donne con recente diagnosi di cancro al seno, ha mostrato un effetto della Meditazione sull’autoefficacia percepita e sulle abilità di coping ed anche una netta inferiorità dei livelli di cortisolo plasmatico rispetto al gruppo di controllo (WitekJanusek et al., 2008). In Italia, uno degli esempi di applicazione della Meditazione, basato sullo sviluppo di questi principi, è rappresentato dal Metodo “ArmoniosaMente”. Il nome ha volutamente una “M” maiuscola per definire la centralità della Mente in questo metodo che, raccogliendo i principi teorici della visione olistica, intende contribuire a creare una condizione di armonia nel sistema energetico della persona malata. Nel Dipartimento Oncologico dell’AUSL di Bologna, Pagliaro ha condotto dal 2003 un’esperienza che è rivolta alle pazienti con tumore alla mammella e che coniuga l’utilizzo della Meditazione con un’azione di educazione 183


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sanitaria, con trattamenti di tipo cognitivo e con attività di supporto psicologico. Questo progetto si basa su tre pilastri: - Informazione sanitaria; - Informazione sui corretti stili di vita; - Apprendimento della Meditazione e ristrutturazione in chiave cognitiva dell’esperienza di malattia. Il metodo si articola in due fasi. La prima, condotta da diversi medici specialisti, prevede otto incontri a cadenza settimanale ed ha l’obiettivo di: - offrire una corretta informazione sul tumore alla mammella; - sviluppare nelle pazienti un atteggiamento mentale fiducioso nei confronti delle terapie, per mobilitare le risorse interne del paziente; - consentire ai medici di potenziare la dimensione relazionale della cura. All’interno di questa prima fase, dunque, le pazienti hanno la possibilità di incontrare tutti i medici specialisti che si prenderanno cura di loro durante l’iter terapeutico e quindi più nello specifico : il senologo, l’anatomo patologo, il chirurgo, l’angiologo, l’oncologo, il radioterapista, il dietologo ed il medico dello sport. I risultati di questi primi incontri, solitamente, consistono in una aumentata fiducia nei confronti delle terapie, in un aumentato senso di controllo verso l’esperienza di malattia ed in un accrescimento del sentimento di speranza rispetto alle possibilità di guarigione. La seconda fase prevede cinque incontri, sempre a cadenza settimanale ed è tenuta dallo psicologo di riferimento, esperto in pratiche meditative, con l’obiettivo principale di insegnare alle pazienti una pratica di Meditazione derivante dalla Medicina Tibetana. L’apprendimento di tale pratica è finalizzata ad: - aiutare le pazienti a gestire meglio stati emotivi negativi, quali ansia, tensione, stress, depressione; - migliorare il rapporto delle pazienti con il proprio corpo malato; - generare un atteggiamento più funzionale nei confronti della malattia; 184


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- rafforzare il sistema immunitario; - operare ristrutturazioni cognitive rispetto ad alcune convinzioni disfunzionali. All’interno di questa seconda fase è prevista anche la somministrazione di un Test (Profile Of Mood States; POMS) al fine di effettuare un’indagine psicodiagnostica. Dopo un mese dall’ultimo incontro ogni gruppo viene riconvocato per una valutazione delle condizioni psicologiche e dello stato di apprendimento della pratica per poi continuare ad incontrarsi, a cadenza mensile, per i tre mesi successivi, così da consentire un senso di continuità alle pazienti. Dunque, grazie a questo protocollo, le pazienti vengono aiutate a dare un nuovo senso alla loro esistenza, a riprendere pieno controllo sull’esperienza di malattia, conferendole un nuovo significato e soprattutto a risvegliare il loro potenziale interno di guarigione, facendole sentire partecipanti attive all’interno del loro processo di cura. Per concludere, Armoniosamente rappresenta, quindi, un ottimo esempio dell’integrazione del modello oncologico con una visione olistica, della ricomposizione dei saperi, dell’umanizzazione delle cure, degli interventi sugli stili di vita e dell’utilizzo delle pratiche Mente-Corpo. Rappresenta, infatti, una pratica terapeutica originale, innovativa e pluralista, basata sull’approccio PNEI e sul Modello Mente-Corpo, con lo scopo di occuparsi dell’essere umano nella sua multidimensionalità: mentale, corporea, energetica e spirituale. Attualmente Armoniosamente viene utilizzato in diverse realtà italiane, da medici e psicologi, opportunamente formati all’interno di un apposito percorso formativo. Bibliografia Armstrong T.S., Gilbert M.R., (2008), Use of complementary and alternative medical therapy by patients with primary brain tumors. Curr Neurol Neurosci Rep; 8(3):264-8. 185


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L’OLISMO SCIENTIFICO IN ONCOLOGIA. UNA NUOVA VISIONE DELLA SALUTE, DELLA MALATTIA, DELLA CURA. Francesca Sireci Fin dagli esordi della pratica medica e di cura, si sono poste delle riflessioni in merito ai processi biologici. Per gli antichi Greci il Caso aveva un ruolo fondante nella realtà di tutti i giorni, così la malattia e la morte erano portate dalla casualità, come fenomeno che irrompeva senza possibilità di interazione nelle vite degli uomini, generando angoscia e terrore. Nel corso dei secoli, nella mitologia Greca emerse come antagonista del Caso, una nuova divinità, Ananche. Tale forza divina rappresentava la Necessità ed aveva il massimo potere di interferenza con la realtà, tanto da essere superiore al volere stesso degli Dei. La Necessità poteva placare le angosce causate dal Caso, concedendo agli uomini di dare un Senso ed una Ragionevolezza a ciò che accadeva, comprese le malattie più infauste. Il paradigma alla base del rapporto medico - paziente - stato di salute/malattia - era basato su una visione magica e soprannaturale, per cui la malattia originava in modo inspiegabile; la cura consisteva nel fare emergere le cause legate al mondo del soprannaturale e nel cercare di porvi rimedio. In questo scenario la figura del medico era simile a quella di uno stregone, la cui bravura veniva misurata in base alle sue capacità di guarigione. La Medicina nasce come Scienza, sulla base della riproducibilità dei risultati di un processo conoscitivo. Grazie alla riproducibilità, in Grecia la Medicina può organizzarsi in scuole ed i medici si differenziano dagli stregoni grazie alle loro modalità tipicamente empiriche, ma soprattutto grazie alla possibilità di tramandarsi il sapere oralmente da insegnante a discente. Ippocrate (460370 A.C.) fu un personaggio cardine di quel periodo storico. La Medicina ippocratica era basata sulla certezza che ogni individuo potesse fare affidamento sulla forza di 188


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auto guarigione tipica di ogni equilibrio psico-fisico. Ippocrate parlava di Phisis Vitale, come l’energia della natura che consentiva ad ogni singolo individuo di mantenere l’equilibrio biologico e psicologico il più a lungo possibile nel tempo. I due pilastri fondamentali del rapporto medico-paziente secondo la Medicina Ippocratica erano la Philia (l’amore per il sapere, ma anche l’amore per l’uomo -filantropia-) e l’ Agapè (l’amore incondizionato verso il paziente). Il paradigma ippocratico era quindi profondamente antropocentrico, tuttavia nel corso dei secoli avvennero dei cambiamenti sia sul piano sociale, culturale, religioso che, di conseguenza, dal punto di vista paradigmatico. Nel Medioevo quando si parlava di malattia, si utilizzava spesso il termine “infirmitas”, che poteva assumere un duplice significato: da un lato la malattia ed il dolore rappresentavano la corruzione del corpo e quindi anche un modo per rivelare le colpe di cui il corpo si faceva espressione; d’altro lato il dolore del corpo era un modo per avvicinarsi alla figura del Cristo sofferente e quindi anche un modo per percorrere attraverso la sofferenza la via per la guarigione dell’anima. In quest’ultimo senso, anche il medico assumeva un ruolo duplice, quello di curatore del corpo, ma anche di salvatore dell’anima. Il medico occupandosi delle sofferenze umane, si posizionava egli stesso nel ruolo di colui che sceglieva di lavorare con il dolore per aiutare l’uomo nella redenzione dell’anima. La Morte era invece vista come un evento capace di introdurre gli uomini ad una nuova vita, quella vera, libera dalle sofferenze e nella piena gloria di Dio. Dopo l’anno Mille e con l’introduzione dei testi di Aristotele, la Medicina iniziò ad usare prudentemente la logica razionale e a distaccarsi sempre più dagli insegnamenti tramandati dagli antichi. Tuttavia si deve attendere fino al Rinascimento per osservare una vera rottura con le posizioni del passato. Fu solo nel Seicento, con l’avvento della scienza sperimentale che si iniziò a profilare un nuovo ruolo medico all’interno di un paradigma di tipo Fisiopatologico. Secondo tale paradigma la malattia è un’alterazione della normale fisiologia del corpo; la terapia si basa sul riconoscimento di queste alterazioni e 189


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su adeguate misure per contrastarle; in tale visione il medico è responsabile sia della guarigione che della morte. Il paradigma illuministico-razionale si sostituisce nel XVIII secolo al precedente Paradigma. Secondo quest’ultima visione, la malattia è dovuta a fattori naturali riconoscibili, mentre la terapia si basa sul riconoscimento di tali fenomeni e su processi di cura legati alle cause ed agli effetti patogeni. I precedenti passaggi, che nel corso della storia hanno rappresentato l’espressione di profondi cambiamenti culturali e sociali, hanno portato al definirsi del paradigma biomedico come lo conosciamo ancora oggi. Come abbiamo visto, durante il periodo ippocratico, gli elementi religiosi (riconducibili al culto di Asclepio) si affiancavano a un atteggiamento scientifico e sperimentale in cui il medico ricercava le cause naturali del male con uno spirito di scoperta. E’ questo secondo atteggiamento che è sopravvissuto ai cambiamenti paradigmatici, rinforzandosi e trasformando man mano la medicina in una vera e propria scienza della guarigione. Fu con l’avvento del paradigma illuministico-razionale e con il via libera alla dissezione dei cadaveri che si sancì il ritorno ad una dimensione squisitamente organicista ed esperienziale. Ulteriori progressi all’interno di tale paradigma si ebbero con la filosofia Cartesiana, secondo la cui visione, l’Uomo doveva essere visto come una dualità costituita da due diverse componenti: la Res Extensa (il corpo) e la Res Cogitans (lo spirito). L’evolversi della scienza positivista insieme ai contributi della fisica meccanica di Newton, hanno decretato l’idea che il corpo funzioni in modo meccanico e causalistico. Il paradigma biomedico, come abbiamo visto, si evolve come espressione ultima di una serie di cambiamenti culturali che si estendono dal campo della Filosofia, a quello della Biologia, della Fisica, della Religione e di conseguenza a tutte le varie scienze applicate che ne sono espressione. La Fisica ha avuto un ruolo fondamentale nella definizione di tale paradigma, forse più della Filosofia stessa. 190


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La Fisica Meccanica Decartes spiegava come l’Universo materiale fosse una macchina dove non si poteva individuare ne’ intenzionalità, ne’ spiritualità. Si pensava dunque che la materia potesse essere spiegata mediante la sua posizione nello spazio ed il movimento delle sue parti. Questa immagine della realtà divenne il paradigma dominante del secolo XVII XVIII e XIX, fino a che nel XX secolo non si introdusse un cambiamento radicale, ma fino a quel momento ogni ambito scientifico e culturale subì le influenze di tale ragionamento. Descartes diede quindi al pensiero scientifico un sistema di riferimento generale centrato su: - Una visione della “natura” come macchina perfetta governata da leggi matematiche esatte. - Un processo conoscitivo fondato sull’osservazione dei frammenti che costituiscono l’intero. Il corpo umano veniva considerato alla stregua di un orologio da indagare in ogni sua singola parte (ingranaggio), isolandola dal sistema di riferimento. L’immagine con cui Descartes rappresentava l’individuo malato era un orologio costruito male. - La metodologia di studio prediletta era quindi quella empirica, che portava l’ossevatore – scienziato ad osservare l’oggetto estrapolato dal suo contesto. Cercando quindi un approccio ontologico che desse una spiegazione e definizione ultima alla realtà in questione. - L’unico modo in cui si potevano spiegare i fenomeni della natura era il casualismo lineare. L’uomo che realizzò il sogno Cartesiano, completando la sua rivoluzione scientifica fu Isaac Newton. Questo scienziato sviluppò una completa formulazione matematica della visione meccanicistica della natura, compiendo una grande sintesi delle opere di Keplero, Copernico, Bacone, Galileo e Descartes. Nella macchina Newtoniana tutti i fenomeni fisici si riducono al moto di particelle materiali, causato dalla forza di gravità. In questo modo la visione meccanicistica della natura è connessa ad un determinismo causale rigoroso. Tutto ciò che accadeva aveva una causa ben precisa e dava adito ad un effetto ben definito. 191


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La Filosofia di Cartesio non è stata importante solo per lo sviluppo della Fisica classica, ma ha fornito un importante contributo per il modo di pensare Occidentale fino ai giorni nostri. La famosa frase di Cartesio “Cogito Ergo Sum” ha condotto l’uomo ad identificarsi con la propria mente anziché con l’intero organismo. Da tali riflessioni, emerge un uomo che si percepisce isolato non solo dal contesto in cui si trova, ma anche dal corpo in cui “alberga”, come se ci fosse una netta separazione Mente-Corpo. La separazione coinvolge anche le attività dell’uomo, le sue capacità e le emozioni. Tale frammentazione conduce quindi l’uomo a vedere il mondo costituito da oggetti e da eventi separati, predisponendolo ad una visione ontologizzante dei fenomeni. Tale visione si estende poi anche alla società, che viene divisa in differenti nazioni, razze, religioni e posizioni politiche. Tutto ciò ha inequivocabilmente delle conseguenze che si estendono dal funzionamento dell’individuo, alle dinamiche della società, della politica, dell’economia globale e della gestione del più condivisibile fra i problemi globali, l’ecologia. La separazione operata da Cartesio ha condotto quindi allo stesso tempo a benefici e a danni, se da un lato ha contribuito all’avanzata tecnologica del secolo scorso, dall’altro ci sono state conseguenze nocive per la nostra civiltà. La Fisica Moderna ovvero la Fisica dei Quanti L’avvento nella scienza della moderna fisica ha influito su tutti gli aspetti della nostra società, diventando la base della scienza della natura e quindi della scienza applicata, ha mutato sostanzialmente le condizioni di vita sulla Terra. Dal punto di vista meramente industriale, è oramai di uso comune la fisica atomica ed è necessario considerare anche le ripercussioni che tali applicazioni hanno avuto a livello di politica internazionale (si pensi agli armamenti nucleari). Tuttavia sarebbe riduttivo considerare solo le applicazioni tecnologiche della fisica atomica. Le influenze della fisica moderna si estendono alla filosofia, alla psicologia 192


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e più in generale al processo conoscitivo dell’uomo, determinando il modo in cui l’uomo si pensa all’interno dell’Universo e come si relaziona rispetto a quest’ultimo. Nel corso del Novecento, l’esplorazione del mondo atomico e subatomico ha reso necessaria una revisione di alcuni concetti fondamentali, quale il concetto di materia (il concetto espresso dalla fisica subatomica è completamente diverso da quello espresso dalla fisica classica), la stessa cosa vale per i concetti di spazio, tempo , causalità. Questi concetti non sono cari solo alla fisica , ma sono fondamentali per tutta l’umanità, per l’immagine che l’uomo si costruisce della realtà circostante e per come può configurare il suo ruolo all’interno di quest’ultima. Tali cambiamenti sono stati discussi da fisici e teorici durante gli ultimi decenni e la concezione del mondo che pare emerga è filosoficamente molto vicina a quella espressa nelle filosofie dell’Estremo Oriente. “Per trovare qualcosa che corrisponda alla lezione offertaci dalla teoria atomica, dobbiamo rivolgerci a quel tipo di problemi epistemologici che già pensatori come Buddha e Lao Tzu hanno affrontato nel tentativo di armonizzare la nostra posizione di spettatori e attori a un tempo del grande dramma dell’esistenza” afferma N. Bohr I concetti alla base della fisica moderna sono quelli di sincronicità dei fenomeni e di non separabilità fra l’individuo e l’universo di cui è parte, a cui si correla il principio di interdipendenza e di inter-relazionarietà. L’osservatore acquisisce un ruolo fondamentale non solo nell’esperienza del reale, ma nella costruzione stessa della realtà. Colui che osserva è allo stesso tempo attore, pubblico e regista del medesimo fenomeno. Alla luce di tali principi mutano completamente i sistemi di intervento sulla realtà, quindi le metodologie, i processi conoscitivi e gli oggetti stessi di attenzione. Consideriamo il concetto di osservatore. Dal momento in cui non si può più separare il ruolo di colui che osserva “oggettivamente”, da colui che co-struisce la realtà, cade di conseguenza anche il principio di oggettività dei fenomeni e quindi di verità ultima. La verità ultima rappresenta un concetto illusorio, dal momento in cui la 193


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verità, altro non è se non il risultato di un’ osservazione, in quanto tale soggettiva e relativa al punto di vista, alla posizione epistemologica ed al contesto culturale di riferimento. “Si è condotti a una nuova concezione della totalità ininterrotta che nega l’idea classica della possibilità di analizzare il mondo in parti esistenti in modo separato e indipendente… Abbiamo rovesciato la consueta concezione classica secondo cui le “parti elementari” indipendenti del mondo sono la realtà fondamentale e l’inseparabile connessione quantistica di tutto l’universo e che le parti che hanno un comportamento relativamente indipendente sono solo forme particolari e contingenti dentro a questo tutto.” affermano D. Bohm e B. Hiley. “…L’oggetto materiale diventa qualcosa di diverso da ciò che attualmente vediamo, non più un oggetto separato sullo sfondo o nell’ambito del resto della Natura, bensì una parte invisibile e , in modo sottile, persino una espressione della unità di tutto ciò che vediamo…” sostiene S. Aurobindo. “Il mondo appare così come un complicato tessuto di eventi, in cui diverse specie di connessioni si alternano, si sovrappongono e si combinano, determinando la struttura del tutto.” e, infine, secondo Heisenberg. Modelli a confronto Le diverse posizioni epistemologiche prodotte dalla Fisica classica o dalla Fisica moderna, producono a loro volta modelli diversi nei vari ambiti del sapere, compreso l’ ambito della medicina e delle discipline di cura. Potremmo semplificando dire che mentre il Modello BioMedico è figlio della Fisica meccanica (con tutto quello che comporta relativamente ai concetti e agli strumenti); il Modello Olistico è figlio della Fisica Quantistica. Il Corpo per il Modello Olistico è un organismo in continuo divenire, un’ Unità imprescindibile dai singoli sistemi ed organi di cui è parte. Il Corpo è considerato un tutt’uno con la Mente, laddove ciò che accade nell’uno avviene sincronicamente anche nell’altra. L’antica separazione Cartesiana (ancora in auge secondo il modello Bio-Medico) vede invece il Corpo come una macchina che si costruisce meccanicamente e che può anche incepparsi, rompersi, bloccarsi. Una visione Olistica del Corpo 194


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predilige una modalità di Cura integrata che coinvolge l’organismo nella sua interezza Mente-Corpo-Ambiente, tenendo quindi presenti sincronicamente tutte le dimensioni espressive dell’uomo. Nel Processo Conoscitivo, ovvero come si dà senso ai fenomeni che avvengono, la modalità utilizzata dal Modello Bio-Medico è quella del Causalismo Lineare ovvero del principio deterministico secondo cui ad ogni singola causa corrisponde un unico possibile effetto. Tale visione porta con sé un atteggiamento teorizzante ed interpretativo. Ovvero chi si arroga il diritto di spiegare un fenomeno sulla base di un principio lineare lo fa a prescindere dal contesto in cui è inserito. Manca quindi completamente il ruolo dell’osservatore, sostituito da una figura che interpreta e nomina la realtà sulla base di principi teorici già noti. Nel Modello Olistico il casualismo lineare è sostituito dal Causalismo Circolare, ovvero non vi è più una concezione deterministica in cui c’è un inizio o una fine, ma solo un sistema interdipendente di reciproca influenza fra i fattori in gioco. Da tale visione è importante considerare che ogni variabile si esprime in funzione delle altre variabili e del contesto situazionale. La Salute così come la Malattia vengono lette come due stati dal Modello Bio - Medico, laddove con «stato» si intende una risposta statica ad un determinato fenomeno o insieme di essi. Al contrario per il modello olistico la Salute è definibile come una risposta creativa e soggettiva dell’organismo alle sfide dell’ambiente, più che di due stati separati (salute vs malattia) si parla di un continuum fra le due all’interno del quale l’individuo si muove in una dimensione di continuo cambiamento e di continua ricerca di un equilibrio mai statico o rigido. Il Modello Olistico si basa quindi sull’ Unità e la relazione interdipendente fra tutte le cose, sul principio di non separabilità. Motivo per cui l’atteggiamento di osservazione è quello del complessificare anziché del ridurre, ovvero osservare con uno sguardo prospettico il più ampio possibile, al fine di contestualizzare e considerare l’ interrelazione dei fenomeni. Oggi uno dei maggiori contributi alla costituzione di un Olismo Scientifico in medicina che sia coerente con il 195


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contesto occidentale, proviene dalla PNEI (Psico-neuroendocrinoimmunologia). Le origini di tale disciplina vanno ricercate negli esperimenti di Seyle sulla risposta endocrina e nervosa agli stimoli stressori. Da allora vari studi sperimentali hanno preso in considerazione situazioni psicologicamente stressanti di vari tipo, dallo stress generato dalla vita reale (stress accademici, professionali, familiari) allo stress generato in laboratorio (ossia situazioni appositamente create per generarlo). Le ricerche hanno dimostrato che a tali stimoli corrispondono sempre risposte a più livelli: vi è un attivazione endocrina (asse ipotalamo-ipofisi-surrene) e vegetativa (sistema simpatico), ma anche del sistema immunitario, laddove si presenta una risposta infiammatoria, ed infine del sistema nervoso centrale, con apoptosi delle cellule neuronali dell’ippocampo. Secondo Pnei non ha più senso palare di Psiche e Soma come due elementi separati, visto che la Mente non è localizzabili ma i suoi processi hanno influenze sul piano biologico e viceversa può retroagire sui sistemi biologici, biochimici, neurologici, modificandoli. Gregory Bateson, il più celebre epistemologo scrisse che “All’interno della medicina c’è una conoscenza straordinariamente scarsa del corpo visto come un sistema auto-correttivo organizzato in modo cibernetico e sistemico. Le sue interdipendenze interne sono pochissimo comprese. Cannon ha scritto un libro sulla Saggezza del Corpo, ma nessuno ha scritto un libro sulla saggezza della medicina, poiché è proprio la Saggezza che le fa difetto. Per saggezza intendo la conoscenza del più vasto sistema interattivo”. (Bateson, 1972, trad.it 1976, p.473) Il punto di svolta Abbiamo attraversato epoche, luoghi, vite e abbiamo visto come nel corso nella storia la scienza sia cambiata, poggiandosi su principi teorici derivanti anche da terreni apparentemente lontani. Ci troviamo oggi ad attraversare un punto di svolta, l’ennesimo. Le idee cambiano nell’intera umanità e si traducono in campo scientifico, sociale, economico e culturale. La storia è costellata di Crisi più o meno gravi, più o meno pervasive ed ogni 196


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Crisi ha portato sempre ad un cambiamento, solo il tempo fa la differenza. Tempi lunghi significano anche difficoltà nell’esprimere una soluzione spesso già a portata di mano, quanto meno teoricamente, ma significano anche “empasse” di profonda incoerenza fra le idee e le opinioni divergenti che vorrebbero trascinare verso l’una o l’altra scelta. L’etimologia della parola Crisi ci conduce a comprenderne meglio il significato. Dal latino crisis e dal greco krisis, il significato è: scelta, decisione. La crisi conduce spesso a un bivio in cui è necessario fare una scelta che per senso comune si crede debba essere quella giusta, quella vera. Il punto è che la scelta è sempre vera alla luce di un sistema di credenze di riferimento, sistema di credenze che per definizione è culturalmente e contestualmente situato. Non esiste quindi una scelta universalmente giusta, o giusta per sempre. Questa riflessione ci aiuta a confrontarci con il nuovo, sia esso un cambiamento teorico, di modello o paradigmatico. Un paradigma nuovo non dovrebbe nascere dalle macerie del vecchio sostituendovisi, ma si dovrebbe costruire integrando i diversi sistemi di riferimento in una prospettiva sempre più ampia. Quello che ci troviamo ad affrontare in questa fase storica è un “cambiamento paradigmatico”, nozione introdotta da Thomas Khun nel suo più celebre lavoro “The structure of scientific revolutions” pubblicato nel 1962 e dedicato a come cambiano i problemi nella scienza e ai diversi modi di concepire e risolvere i problemi conoscitivi che gli scienziati si trovano di fronte. I cambiamenti secondo Khun avvengono a partire da profonde fratture epistemologiche che nel corso della storia attraversano la scienza così come la filosofia. Il cambiamento difficilmente si afferma attraverso un processo pacifico, ma genera spesso resistenze e conflittualità anche all’interno del medesimo ambito disciplinare. Come scrisse anche Gaston Bachelard nel suo “Le nouvel esprit scientifique”, pubblicato nel 1934 a Parigi: “lo scienziato, adottando un metodo, respinge gli altri metodi e saperi che non si uniformano alle proprie convinzioni, rendendosi indisponibile ad altri modi di pensare e condan197


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nando ciò che non conosce o che non accetta come non rilevante o erroneo”. Il più grande ostacolo a questo naturale processo di cambiamento e resistenze reciproche è rappresentato dal fatto che solitamente chi occupa una posizione istituzionale più rilevante si arroga il diritto di sancire quale sia la vera scienza (sulla base dei propri criteri normativi), eliminando così qualsiasi tipo di diverso sapere. I tempi di una rivoluzione scientifica possono essere anche molto lunghi, ma quando essa avviene è come se si entrasse in un nuovo mondo , Khun stesso affermava che “quando mutano i paradigmi, il mondo stesso cambia con essi”. Il paradigma rappresenta la prospettiva concettuale, di conseguenza è il mondo stesso ad apparire mutato nella sua interezza. Il passaggio da un paradigma all’altro rappresenta quindi un modo completamente diverso di vedere le cose. Ogni teoria va quindi sempre contestualizzata all’interno di un paradigma di riferimento, in caso contrario rischia di essere mal interpretata o letta con sistemi normativi diversi da quelli a cui fa riferimento. Oltre alle teorie, ogni paradigma porta in sé anche metodi suoi, strumenti suoi, ma soprattutto un suo linguaggio di riferimento. La creazione di un nuovo linguaggio (e di conseguenza di nuovi strumenti comunicativi più complessi) è un processo estremamente delicato, in quanto è il mezzo che si fa portavoce dei nuovi contenuti e deve quindi essere capace di trasmettere significati completamente nuovi. In problema sta nel fatto che i significanti che dovrebbero veicolare i nuovi significati non è detto che siano capaci di rappresentare il nuovo sapere, o meglio rischiano di trarre in inganno riconducendo l”ignoto al già noto”. Consideriamo l’esempio del linguaggio semantico e dell’uso che facciamo delle parole, queste ultime altro non sono se non veicoli di significati, laddove il significante è un contenitore convenzionalmente e culturalmente attribuito al significato stesso. La parola F-A-RF-A-L-L-A non racchiude in sé una “farfallosità intrinseca”; nonostante ciò culturalmente sappiamo che la parola evoca il pensiero dell’ insetto che tutti conosciamo. 198


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Ma se volessimo evocare l’immagine di un esserino alato con caratteristiche simili, ma un po’ diverse dalla farfalla, dovremmo forse coniare un altro termine. E se dovessimo evocare un pensiero simile a quello della farfalla, ma che non è accessibile attraverso il medesimo processo conoscitivo mediante cui entriamo in contatto con la farfalla? Questo rompicapo ci condurrebbe forse alla necessità di creare una nuova parola, oppure una nuova categoria semantica, oppure ancora un nuovo linguaggio. Se quando cambiano i paradigmi cambia anche il mondo, è forse necessario cambiare anche il linguaggio e quindi i mezzi di interazione. Tale riflessione ci riporta ad oggi e alla necessità di creare nuove modalità di conoscenza, nuovi strumenti di interazione e nuovi linguaggi. Nuovi linguaggi nell'era digitale L’ era digitale in cui siamo immersi e che contribuiamo a costruire ad una velocità inesorabilmente sempre più elevata esige di essere letta attraverso una nuova prospettiva, che si basa su una nuova concezione del tempo, dello spazio, della relazione, dell’identità stessa. È l’era degli smart-phone, dei social network, delle chat, dei motori di ricerca in tasca, degli account che registrano ogni nostra preferenza, posizione o semplice click. Siamo costretti a cambiare lenti e ad osservare il cambiamento di sostanza della realtà, che da solida e ontologicamente data, si sta trasformando in liquida. Chi non cambia lenti (ovvero chi osserva il presente con il paradigma del passato) si autocondanna alla nostalgia, o peggio ancora all’ inaccessibilità ai nuovi significati. I social network rappresentano una nuova modalità comunicativa che sovverte i basilari principi della comunicazione. Come abbiamo precedentemente scritto, a partire dal concetto di tempo e di spazio. Considerato che non è questo il contesto per approfondire le teorie relative alla psicologia dei nuovi media, si rimanda per un approfondimento di quest’ultima alla teoria dell’ “inter-azione situata” applicata ai nuovi media in particolare allo studio di Giuseppe Riva “Psicologia dei nuovi media. Azione, presenza, identità, relazioni”. 199


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I social network possono rappresentare quindi una nuova risorsa comunicativa in cui una qualsiasi azione è come se si svolgesse in un continuo presente, diminuendo quindi i tempi di attesa di risposta, dal momento in cui il feedback è subito visibile. Allo stesso tempo il social network è un modo per costruire relazioni in uno spazio “altro” ed è un modo per percepire la continuità dell’interconnessione. Notevoli sono state le critiche relative in particolar modo a quest’ultimo punto e riguardanti il fatto che spesso le relazioni nel cyberspazio sostituiscono quelle “reali”, con il rischio di alienare gli individui dal contesto sociale. Questa critica partirebbe dal presupposto che le relazioni virtuali possano sostituirne altre; quando d’altro canto possiamo prendere in considerazione il fatto che ci possa essere una coesistenza di dimensioni parallele e contemporanee (le relazioni nel cyber spazio e quelle nello spazio tangibile). Alcune teorie ipotizzano che i nuovi media siano delle forme di adattamento dell’uomo al nuovo ambiente, tali teorie condividono un approccio antropologico ed ecologico. Il mezzo di comunicazione viene visto come un “artefatto simbolico”, ovvero come un’ estensione sensoriale dell’uomo che media la percezione dell’uomo, ma soprattutto che trasforma la società stessa per mezzo non tanto dei contenuti di cui si fa portavoce, ma per mezzo della sua stessa esistenza. Citiamo di seguito le due scuole più influenti che hanno prodotto teorie e modelli per comprendere i nuovi media attraverso un’ ottica ecologica ed antropologica: La Scuola di Toronto e la Scuola di Palo Alto. Secondo la Scuola di Toronto (Herbert Marshall Mc Luhan, Walter Ong, Arold Innis) il sistema mediatico crea un ambiente ed un linguaggio nuovo sempre diverso nella storia dell’umanità. Le tecnologie della comunicazione che si sono succedute nel tempo, a partire dall’antichità, avrebbero conformato l’ambiente umano e psico-sociale che ha fatto da sfondo all’ evoluzione storica e condizionato la percezione dello spazio-tempo. I media vengono quindi visti come estensioni, o meglio amplificazioni del sistema sensoriale umano; in tale visione qualsiasi cambiamento tecnologico produce inevi200


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tabilmente mutamenti anche a livello antropologico. A questo propositivo McLuahn pone l’esempio dell’avvento della stampa, affermando che il passaggio dalla comunicazione orale a quella scritta ha ridotto la comunicazione all’utilizzo del canale sensoriale visivo. Il passaggio dalla cultura orale a quella alfabetica si pone in un periodo storico dominato dallo sviluppo industriale, dal pensiero lineare e meccanicistico. In tale contesto il passaggio delle informazioni mediante parola scritta, riflette a livello cognitivo il medesimo meccanicismo imposto dal paradigma imperante. Nel più celebre testo di Mc Luahn “Gli strumenti del comunicare”, egli afferma che il ruolo principale dei media non è quello di trasmettere contenuti, ma piuttosto organizzare e strutturare la comunicazione, influenzando quindi sul lungo periodo il funzionamento cognitivo dei fruitori. “Il medium è il messaggio” è un’espressione che sintetizza il potere plasmante del processo conoscitivo e del mezzo di comunicazione, aldilà del contenuto veicolato. Altro importante contributo per una lettura ecologica dei nuovi media arriva dalle teorizzazioni della Scuola di Palo Alto, di cui citiamo i due massimi esponenti: Gregory Bateson e Paul Watzlawick. Secondo i due studiosi la comunicazione è retta da una causalità circolare e non lineare. E’ circolare una spiegazione causale in cui l’evento B è causato da un evento antecedente A, che a sua volta è un effetto ancora precedente di B. Sia A che B sono quindi sia causa che effetto. Questa circolarità si spiega con il concetto di feedback o retroazione ch ha un ruolo strategico nei processi della comunicazione. Tali visioni teoriche ci aiutano a comprendere quanto la costruzione dei nuovi mezzi di comunicazione (siano essi social network, chat, …) rappresentano nella pratica un passaggio culturale di cui non sono ne’ la causa ne’ l’effetto, ma entrambi. I nuovi media come artefatti simbolici esprimono una nuova visione del mondo e di sé nel mondo, contribuendo all’unisono alla continua costruzione di quest’ultimo. Una visione dei media come azioni culturalmente situate ci aiuta a considerarne le risorse anche a livello psicologico, sociale, antropologico. 201


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Dalla teoria alla pratica della comunicazione: il GWEB Come abbiamo detto i nuovi media ed in particolar modo i social network rappresentano un nuovo luogo, un nuovo tempo in cui costruire nuove relazioni ed in cui è possibile co-costruire identità liquide. Tale piazza di comunicazione può rappresentare una risorsa senza sostituirsi alla piazza tangibile, dando la possibilità a chi partecipa di costruire nuovi significati e simboli. Trasformare la potenziale criticità (isolamento dal contesto tangibile di appartenenza) in risorsa costruttiva è uno degli obiettivi del GWEB, uno strumento in via di costruzione a Bologna, presso l’Istituto Seràgnoli (Policlinico Sant’Orsola Malpighi). Il GWEB si propone come una piattaforma virtuale, con funzione di social network che dia la possibilità ai giovani adulti con diagnosi di neoplasia ematologica, di costruire una comunità virtuale. Comunità costituita da persone che stanno condividendo la medesima condizione di salute, persone che si trovano nel range AYAs (Adolescent and Young Adults). Perché la scelta di arruolare AYAs? La sigla AYAs sta per adolescenti e giovani adulti che vanno da un’età di 18 fino ai 30 anni. Generalmente la tendenza medica e psicosociale è quella di rispondere ai bisogni dei bambini e a quelli degli adulti, ma scarsa attenzione viene posta ai bisogni di chi si trova nella terra di mezzo. Terra di mezzo in cui i bisogni sono assolutamente distinti, sia dal punto di vista biologico, che sociale ed esistenziale. Un giovane adulto che riceve una diagnosi di neoplasia spesso viene colto in una fase della vita in cui ha da poco avviato un percorso di autonomia dal nucleo familiare di origine, sia dal punto di vista professionale che affettivo-relazionale. Le cure che è necessario affrontare conducono il giovane (sia per motivi di tipo logistico che di risorse psicologiche e di energia fisica) ad interrompre o allentare tale processo di costruzione dell’autonomia, costringendolo spesso ad una condizione di isolamento dalla rete sociale di riferimento. GWeb si pone quindi l’obiettivo di creare una rete utilizzando quelle modalità di comunicazione più familiari alla generazione dei giovani adulti di oggi, in una dimensione in cui costruire nuovi rapporti è facilitato 202


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oltre che dalla condivisione di simili vissuti, anche dalla modalità comunicativa, che è quella “liquida” (parafrasando Bateson), in un intreccio irreversibile tra cura e prendersi cura.

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L’IMPERATIVO DEL COSTRUIRE IDENTITÀ Francesca Bomben I fatti non sono mai tutta la verità, e al di là dei fatti c’è ancora qualcosa, come un altro livello di realtà… T. Terzani, Un altro giro di giostra Il lavoro dello psicologo in un servizio oncologico per adolescenti è un operare peculiare, fine, preciso e competente. Esso richiede un’alta attenzione all’intima umanità, all’energia vitale e alle spinte motivazionali insite nella persona. Presuppone scambio, reciprocità, puntualità, messa in gioco costante di ciascuna parte coinvolta, sia della persona che dello psicologo stesso. Non necessita di scrivania, di setting, di appuntamenti. Rifugge interviste strutturate, proposte dicotomiche e sovrascritture. È luogo di repentini cambiamenti, temporanee autenticità, intermittenti introspezioni; si fa spazio elettivo per la generazione, la costruzione e la riconfigurazione continua di se stessi, del mondo, delle relazioni, della malattia e della salute. In questo contributo intendo entrare nel merito di quanto appena sintetizzato, cercando di descrivere e narrare l’esperienza clinica che dipana ogni elemento tratteggiato, con l’obiettivo di introdurre il lettore a obiettivi, prassi, metodi e strumenti di un intervento psicologico volto al benessere di adolescenti e giovani-adulti affetti da una patologia oncologica. Quanto in questa sede si propone scaturisce non solo dalle capacità e competenze di chi scrive, ma anche dalla pratica operativa quotidiana, dal costante e continuativo confronto con i ragazzi protagonisti della malattia e della cura, e dal dialogo e interscambio giornaliero di un’equipe multidisciplinare a cui essi sono affidati. Identità del servizio Area Giovani CRO è un’espressione territorialmente ormai diffusa in ambito medico e sociale, che denomina 204


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uno spazio multidisciplinare e multidimensionale, atto alla cura di adolescenti e giovani-adulti malati di tumore. Proprio del Centro di Riferimento Oncologico di Aviano (PN) – un IRRCS concepito prevalentemente per un’utenza di età adulta – tale spazio accoglie circa 60 nuovi pazienti l’anno tra i 13 e i 29 anni: di questi, circa due terzi ricevono in questa sede tutte le tipologie di trattamento previste dal protocollo clinico-scientifico a cui sono assegnati, e quasi la metà sono ospitati in degenze ciclicamente ripetute e/o prolungate. L’Area Giovani non è, quindi, un Reparto in senso letterale, un mero luogo fisico o un insieme di professionisti che si esaurisce al suo interno, consiste piuttosto in un insieme di risorse strutturali, terapeutiche, cliniche, assistenziali, psicologiche e sociali, intra ed extra ospedaliere, individuate, cercate e costruite ad hoc per le necessità di un giovane che intraprende e attraversa un’esperienza oncologica in prima persona. In Area Giovani si distinguono quindi ambienti dedicati e riservati, alcuni distintamente ideati e progettati per la degenza e per i trattamenti antineoplastici, altri per lo studio e/o lo svago. Al suo interno si pianificano e implementano, quindi, anche progetti di supporto alla sfera psicoemozionale e allo sviluppo della socializzazione, della progettualità di vita e della creatività individuale. Addentrandoci ulteriormente nell’ambito dell’assistenza psicologica, ci volgiamo ora a descrivere riferimenti teorici, obiettivi e prassi che orientano il lavoro dello psicologo presso l’Area Giovani del Centro di Riferimento Oncologico di Aviano (PN). Riferimenti teorico-paradigmatici del lavoro Il modello di intervento psicologico che qui si realizza si fonda su un paradigma sociocostruttivista (Gergen, 1985; 1991; 2001; 2009), che considera l’esperire umano non come effetto predeterminato di eventi causali, ma come generato dall’individuo, a partire dalle categorie conoscitive ad esso disponibili in un determinato contesto. Coerentemente, le teorie di riferimento adottate muovono da tale paradigma, e fondano la conoscenza che da lì si sviluppa sulla base del costrutto di identità personale 205


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(Salvini, 2004; Fasola, 2005; Pagliaro, 2003), assetto distintivo di ciascun individuo, che si costruisce e si configura sotto forma di processo dialogico e diacronico, mediante costruzioni narrative, azioni e resoconti, realizzati in prima o terza persona all’interno di assetti interattivi (Salvini, 2004; 2011; Turchi, 2007; Faccio, 2007). Presupposti come quelli appena definiti consentono al professionista psicologo di approcciarsi al mondo dell’oncologia giovanile considerando prioritaria l’attenzione al sistema identitario di coloro che da protagonisti vi si affacciano, volgendo lo sguardo più accorto non tanto alla diagnosi di malattia e alle sequele pragmatiche dei trattamenti previsti, quanto alle configurazioni di realtà che ogni individuo porta e condivide. La cura, infatti, si rivolge inderogabilmente alla persona, non al suo corpo e nemmeno alla sua psiche, ma a quel tutt’uno che attraverso la condivisione di discorsi, agiti, omissioni e desideri offre al proprio interlocutore un’idea ben tracciata di se stesso. Sulle premesse conoscitive sopra descritte, lo psicologo è parte dell’equipe multidisciplinare per offrire completezza al perseguimento della salute della persona (OMS, 1948; 1986), allo scopo cioè di fornire a ogni giovane la possibilità di trovare un assetto di rappresentazione della realtà in cui è immerso che gli consenta percezioni di auto-padronanza, controllo, spazio di parola e d’azione. Lo psicologo da principio osserva, ascolta e attende, per pianificare le modalità del proprio inserimento nel percorso assistenziale del singolo individuo e costruire con lui un accompagnamento professionale che può mutare e ri-configurarsi nello scorrere degli eventi, a seconda delle specificità del momento, delle richieste, delle aspettative e delle necessità della persona, siano esse espresse o trapelate dai giochi di ruolo in quella circostanza agiti. Intervento psicologico in uno specifico contesto Nell’intraprendere una specifica mansione lavorativa, soprattutto all’interno di un peculiare e complesso ambito clinico, è buona norma per uno psicologo avviare il proprio operare partendo da una riflessione circa l’og206


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getto del proprio intervento, ovvero la tipologia di utenza a cui si rivolge, nonché riguardo alle caratteristiche del contesto, alle necessità anticipabili, alle risorse disponibili e alle operazioni che si dimostrerebbero per la persona potenzialmente sfavorenti. Tale riflessione non va considerata una speculazione dotta e occasionale, ma si ritiene doverosa al fine di scegliere e mettere in atto un modus operandi che sia realisticamente rispondente alle esigenze degli interlocutori e della Struttura e, di conseguenza, efficace in termini di salute, qualità di vita, compliance, adesione e aderenza (Majani G., 2001). Prerogativa di ogni azione professionale è, pertanto, l’osservazione del contesto, la conoscenza delle procedure in esso presenti, le peculiarità psicologiche e sociali della tipologia di individui coinvolti. Quanto emerge dalla suddetta riflessione consentirà allo psicologo di porre attenzione a un ulteriore elemento imprescindibile del suo intervento, ovvero l’intento che con esso persegue, composto di un obiettivo generale e comune, appropriato per tutti coloro che incontra, e altri esclusivi e specifici, generati su e per il singolo. Caratteristiche dell’ambito L’oncologia dell’adolescente rappresenta per lo psicologo un territorio nel territorio, ossia un ambito che presenta un incrocio di caratteristiche, esigenze e competenze scaturente dall’incontro tra la psicologia clinica, la psicologia oncologica e la psicologia dell’età giovanile. Tra gli aspetti sommariamente elencati, ci si sofferma sul secondo e sul terzo, ritenendo il primo sufficientemente noto ai più. Per quanto concerne la psicologia oncologica, è oggi conoscenza divulgata quanto sviluppato da differenti professionisti nell’ambito specifico, allo scopo di comprendere e saper gestire le problematiche psicoemozionali e sociali che spesso derivano dalla malattia tumorale e dalle sequele delle procedure terapeutiche per essa indicate: associazioni italiane e internazionali da decenni offrono il loro contributo per la cognizione di vissuti e bisogni di pazienti oncologici e la realizzazione di linee 207


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guida multidisciplinari (SIPO, AIEOP) che di ciò tengano conto. Sulla base di numerosi lavori siffatti nel corso degli ultimi decenni (cfr. siponazionale.it; aiom.it; ipos-society.org; apos-society.org; aieop.org etc.), attualmente ogni spazio sanitario deputato al trattamento di forme patologiche cancerose deve avvalersi di personale competente e adeguatamente formato che precisamente si occupi della presa in carico degli aspetti emozionali, psicologici, relazionali e sociali della persona, spostando così l’obiettivo dell’assistenza verso le trame della salute globale, e affermando pertanto il concetto di prendersi cura. L’oncologia dell’adolescente si presenta all’interno di questo scenario quale terreno circoscritto e di elevata particolarizzazione, che richiede accortezze e cautele ancor più distintive, per ragioni legate alle caratteristiche psicologiche di quello specifico momento di vita, e per quanto concerne l’epidemiologia corrispondente. Ammalarsi di cancro in giovane età comporta una serie di trasformazioni inattese e respinte, rappresenta un’esperienza di cui nessun ragazzo tiene conto e, nel momento in cui vi si trova immerso, gli fa prendere atto – da propri approfondimenti e dai compagni di stanza con cui condivide ampi spazi di quotidianità – di quanto sia temibile e spesso, per molti, feroce. Nel repertorio dei mass media si ascrivono oggi numerose proposte relative a giovani che si ammalano di cancro, sia in ambito nazionale che internazionale, attraverso telefilm, fiction e lungometraggi, a cui ha fatto seguito l’espandersi di dibattiti e discussioni sull’argomento. Ciò ha consentito e consente di sfatare molti tabù, rendendo avvicinabile una realtà dapprima sentita come impossibile e innominabile. D’altro canto, pare non sempre riesca a rendere giustizia alle storie di chi effettivamente attraversa un simile percorso, generando in qualche paziente neofita delle attese non completamente corrispondenti all’esperienza di cui poi sarà protagonista.

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P come paziente, P come persona Nell’approcciarsi a un individuo cui viene diagnosticata una patologia tumorale, è opportuno per il professionista della salute avere chiare le necessità di identificazione e riconoscimento che questi porta implicitamente con sé. A prescindere dalle priorità che un medico, un infermiere o uno psicologo si pongono come obiettivo del proprio incontro con un paziente, l’interlocutore dell’interazione giunge di fronte all’operatore guidato da aspettative, conoscenze pregresse, sistemi di categorizzazione e di significato che gli sono propri, sia dal punto di vista familiare e socioculturale che sotto il profilo situazionale: le circostanze dell’evento malattia generano, infatti, un pattern di emozioni, cognizioni e volontà che si intersecano con il senso di identità che l’individuo fino ad allora ha costruito, e che si propone di difendere, custodire e mantenere. L’utente di un servizio oncologico per adolescenti è e si presenta come un ragazzo, un giovane, una persona. Si dichiara, si afferma e si ostenta come tale. Porta con sé le caratteristiche del proprio mondo, le chiavi di lettura che gli sono confacenti, i sistemi di categorizzazione che meglio rispondono alle domande che in lui sorgono: chi ho di fronte, cosa vuole da me, in che misura mi posso fidare, cosa posso compromettere, quanto a lungo durerà la frequentazione, quale atteggiamento voglio riservargli. Questa configurazione, netta e distinguibile, fatica a cedere il passo all’identità di paziente e, quando lo fa, è a ragione di un passaggio autorappresentazionale ben preciso, nel quale appare la consapevolezza di dipendere in qualche misura, dal mondo medico, all’interno del quale coglie di dover consegnare una porzione di sé. Da qui è opportuno sottolineare il ruolo di ciascun membro dell’equipe a far sì che tale consegna rimanga parziale e circoscritta all’ambito sanitario, clinico e assistenziale, lasciando ampio spazio agli scenari in cui la persona abita, gioca e ottiene ruoli differenti. È così facendo che va posto in essere un intervento multidisciplinare che orienta le proprie azioni verso la promozione della salute globale dell’individuo, proprio a partire dalle 209


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modalità interattive, dai discorsi e dalle proposte messe in campo durante i ricoveri ospedalieri. Adolesco, adolescis, adolevi, adultum, adolescêre Costruire un intervento psicologico per l’utenza di cui trattiamo necessita di un approfondimento circa le prerogative che caratterizzano questa particolare fascia d’età, in termini di sviluppo psicobiologico, cognitivo, sociale ed ermeneutico. Tra i cosiddetti scienziati della psiche, il primo che ha affrontato in modo organico lo studio dell’adolescenza fu Stanley Hall (1904), pubblicando un’opera che costituisce la prima rassegna di lavori inerenti questo tema, nella quale si propone la prima interpretazione generale del significato che questo periodo ha nella vita dell’individuo. Di seguito e fino ai giorni nostri, sono stati numerosi gli autori che si sono interessati all’argomento e hanno offerto per esso teorizzazioni differenti e complementari allo scopo di spiegare il comportamento giovanile. Piaget, Lewin, Mead, Petter sono solo alcuni tra questi. Di fatto, il termine adolescenza denomina un costrutto psicologico e sociale per il quale non esiste un correlato fattuale di carattere ontologico: esso deriva dall’intento di porre una definizione condivisibile di una peculiare fase evolutiva, il cui unico elemento distintivo è rappresentato dal costituire un passaggio dall’infanzia all’età adulta, nel quale avvengono per/sul/nell’individuo molteplici e importanti trasformazioni che coinvolgono l’intero assetto della propria realtà bio-psico-sociale. Dal punto di vista organico, è noto che attorno ai dodici anni si inneschino nuovi processi biologici attraverso cui avviene un mutamento strutturale e funzionale, dettato appunto da una specifica produzione ormonale, un addizionale sviluppo di alcune aree cerebrali, una peculiare attività metabolica e una maturazione dei caratteri sessuali primari e secondari. Passando su un piano di natura cognitiva, si possono parallelamente apprezzare il pensiero ipotetico-deduttivo e quello formale, l’abilità di organizzazione logica, le capacità analitiche, l’introspezione, i processi decisionali 210


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complessi e le emozioni secondarie. Il sorgere di simili assetti e potenzialità consente all’individuo un affacciarsi al mondo più raffinato ed esigente, a tal punto da favorire situazioni interattive di dialogo, scambio e confronto, nelle quali avvengono i processi ermeneutici più articolati, che danno genesi – come vedremo – alla configurazione della realtà e dell’assetto identitario che ciascuno costruisce e riconosce per se stesso. Nella dimensione sociale emergono e si esprimono i sistemi di ruolo: posto in interazione dialogica e linguistica con l’altro-da-sé, l’individuo definisce la propria posizione e quella altrui chiarendo con esse i pattern di azione e rappresentazione corrispondenti (Mead G.H., 1934, Goffman, 1969; Salvini, 2004; Salvini, Dondoni, 2011). Ogni condotta appare così ancor più delineata e riconoscibile, tale da poter essere descritta come più o meno congruente e appropriata. Nel delineare azioni, ruoli e posizionamenti, gli individui innescano e si immergono in processi di tipizzazione (Salvini, 2004) che gli consentono di attribuire agli altri caratteristiche personologiche attraverso cui orientarsi, riportare l’ignoto al noto, tentare una sorta di previsione comportamentale. La capacità di definire in tal modo persone, situazioni e credenze fa da matrice a un’addizionale proprietà che si affaccia come autonoma proprio nell’età giovanile, ovvero la costruzione e l’attaccamento a sistemi di valori, riferimenti etici e coscienza morale. In sintesi, è possibile affermare che l’adolescenza, come l’età giovanile, è una fase del ciclo di vita dell’individuo, che si descrive attraverso uno status identitario e socio-relazionale caratteristici di un processo di transizione dall’infanzia all’adultità. Già nella sua etimologia, il termine fondativo che denomina tale fase – adolescêre – ne suggerisce l’obiettivo e la prerogativa: ragazzi e giovani sono impegnati a “crescere, prendere vigore” e prepararsi alla condizione di adulto, presente peraltro come prospettiva fin dal paradigma dello stesso verbo, nella forma del suo participio passato adultum (ovvero, “cresciuto”). Non essendo di esclusiva determinazione biologica, la durata dell’adolescenza dipende da differenti fattori 211


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da contemplare come moltiplicativi, che vanno dalle caratteristiche personali, a quelle familiari, culturali, storiche, economiche e circostanziali. In senso generale e imprescindibile, la persona va quindi considerata come un’unità mente-corpo-società, ovvero una realtà unitaria e allo stesso tempo molteplice e polisemica, coerente e situazionale, generata nel tempo e nei contesti, nelle storie narrate e in quelle ascoltate. Affermativi, interrogativi, imperativi Quanto appena posto costituisce la descrizione del terreno in cui si innestano le caratteristiche distintive dell’età adolescenziale, tratti che ogni persona è in condizione di denotare e narrare. I giovani, pazienti e non, offrono al confronto transgenerazionale dinamismo e desiderio di emancipazione, che dichiarano a chi li circonda in maniera implicita ed esplicita. L’universo interattivo che costruiscono è spesso denso di relazioni orizzontali, sviluppate in contesti quali la scuola, le società sportive, i gruppi di quartiere, fans club o simili, relazioni che s’intersecano e si “complessificano” nel tempo, fino a costituirsi nucleo inderogabile del loro essere, della loro quotidianità e del loro definire se stessi dinanzi al mondo. L’identità di ciascun individuo è resa leggibile dall’appartenenza al proprio gruppo di pari, nel quale si riconosce e con il quale condivide le modalità d’approccio a quanto lo circonda: i processi di inserimento e consonanza all’interno della compagnia amicale richiedono impegno e dedizione da parte del singolo, verosimilmente proporzionati all’interesse che questi ha ad inserirsi, farvi parte e cooperare con esso. L’età adolescenziale è il periodo di vita in cui maggiormente affiora la necessità di dotarsi di punti di riferimento differenti e talvolta contrapposti alle figure familiari o genitoriali in genere. A motivo di ciò, i ragazzi ricercano, internamente agli scenari che hanno a disposizione, personaggi celebri o di più modesta portata che possano rappresentare al meglio le proprie concezioni e ideologie, la propria configurazione del reale, il modus vivendi che considerano ottimale. 212


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La sicurezza con cui palesano le ragioni di simili scelte, come di altre, rafforza il proprio punto di vista, portandoli ad assumere un senso di onniscienza, onnipotenza e indipendenza soprattutto nei confronti delle generazioni precedenti, tale da generare dissensi e opposizioni che sfociano spesso in situazioni di incomprensione e attrito. Le produzioni linguistiche che normalmente si sentono praticare da e tra adolescenti sono farcite di repertori discorsivi denominati “di mantenimento” (Turchi et al, 2011), ovvero modalità in cui pervade l’indicativo, l’affermativo, e in cui compaiono espressioni quali sempre, mai, tutto, niente, nessuno: la visione del reale e le attribuzioni sono poste in forma dicotomica e assolutistica, e fanno intravvedere narratori che esprimono volontà, previsioni per il futuro, giudizi di valore nei termini dell’assoluto e dell’immodificabile. La fase adolescenziale si permea più di altre di un interrogativo fondamentale, al quale l’individuo necessita di rispondere senza attendere: chi sono io? La ricerca di un’identità personale che definisca, giustifichi e renda merito al suo esistere nel presente e in proiezione futura rappresenta il fil rouge sulla base del quale ciascuno costruisce la propria quotidianità, si raffronta con gli altri, assume ruoli, compiti, posizionamenti sociorelazionali. Senza un’identità, la persona è indistinguibile, anonima, inutile: anche nei gruppi in cui vige il più radicato conformismo, laddove all’occhio inesperto tutti appaiono “uguali”, ogni elemento ben si distingue dagli altri, si dota di attributi singolari e di mansioni specifiche, ben distinguibili e apprezzabili talvolta soltanto dai membri interni alla propria cerchia. Tale risultato di processo è talmente necessario che all’individuo, paradossalmente, spesso non importa la valenza delle caratteristiche identitarie che indossa (e.g. tipiche del “secchione” piuttosto che del “bullo” o del “tonto”), purché gli appartengano e siano anche solo implicitamente definite, riconosciute e in qualche modo restituite. La risposta all’interrogativo per i giovani va formulata attraverso retoriche imperative, che ciascuno pone a 213


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se stesso: forgiare un’identità, porsi degli obiettivi, scegliere un posto nel mondo, costruire qualcosa che abbia carattere di unicità. Identità Quando in questa sede parliamo di identità, non usiamo tale termine con l’accezione generica propria del senso comune, bensì intendiamo un costrutto psicologico ben definito, che nella psicologia postmoderna (Mecacci, 2007) smuove quelli di personalità e temperamento (Galimberti, 1999). Secondo le più recenti teorizzazioni, l’identità personale si configura come “articolato sistema di rappresentazioni unificate di sé e mediate da un ruolo, risultante di differenti processi psicologici, intrapersonali e interpersonali, che confluiscono in una struttura organizzatrice della conoscenza individuale relativa a se stessi” (Salvini, Dondoni, 2011). Essa, dunque, assume peculiari configurazioni sulla base di significati sociali culturalmente disponibili, prassi educative, modelli di comportamento, attese altrui, prescrizioni di ruolo. Tale processo avviene e si consolida mediante il linguaggio, medium caratteristico della specie umana attraverso il quale le persone attribuiscono senso e significato al reale, ovvero a sé, al mondo esterno, agli eventi. Esse costruiscono, infatti, la loro identità come “espressione di rapporti intersoggettivi, in un processo dialogico tra voci narranti individuali, interpersonali e di contesto” (Turchi, 2007): il resoconto che ciascuno offre riguardo a se stesso si interseca con le narrazioni su di sé che egli ascolta prodotte da altri, significativi e non, e si colloca all’interno della matrice collettiva, spazio di tutti i discorsi e i significati presenti all’interno di un determinato contesto socioculturale. A ragione di questo, è importante sottolineare la pregnanza e le ripercussioni di ogni affermazione che in ambito sanitario si produce su e con un giovane paziente, nella consapevolezza che quanto si dice troverà una collocazione presso la sua organizzazione identitaria. In particolare, si sottolinea che un ruolo medico o paramedico, in una condizione che già abbiamo descritto di parziale “dipendenza” pragmatica ed emozionale, com214


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porta una rilevante attribuzione a quanto si dice, che si tratti di argomentazioni di ambito clinico-sanitario che di dominio diversionale, estetico, scolastico, sociale. La costruzione dell’identità così definita è un processo che non si esaurisce all’interno di un dato riferimento temporale, delimitato all’interno del ciclo di vita, ma va visualizzato come in continuo divenire, in costante trasformazione, rielaborazione, monitoraggio, riconfigurazione, ristrutturazione, coerentemente con le circostanze situazionali in cui la persona al momento è immersa, dalla nascita alla morte. Esso si permea degli eventi in cui l’individuo incappa, assumendo peculiarità che rimandano ai significati che la persona conferisce a ciò che sperimenta: ciò che si incontra nel percorso di vita non ha sull’equilibrio psicologico effetti predeterminati e a priori definibili, ma dipende dalle attribuzioni di senso che ciascuno mette in atto come proprie, spesso figlie della cultura di riferimento. Il processo di costruzione dell’identità avviene, quindi, per mezzo del linguaggio, ovvero si pone in essere principalmente mediante auto- ed etero-attribuzioni, resoconti e narrazioni, e può rinforzarsi e affermarsi sotto forma di gesti, espressioni del volto, azioni e omissioni, da cui desumere sottese specifiche scelte, preferenze e decisioni. E, quindi, mi dissero che… L’avvento della malattia Nella vita di un giovane, l’affacciarsi inaspettato di una diagnosi oncologica è un evento che genera a cascata una serie di precipitati pragmatici, esperienziali e psico-emozionali tali da necessitare la riorganizzazione di sé in differenti ambiti, coinvolgendo non solo l’integrità fisica, ma anche abitudini e frequentazioni, influendo sull’assetto interattivo e identitario della persona. Ciò che un adolescente percepisce come prerogativa del proprio tempo può al momento venire rovesciato e compromesso: l’emancipazione cede il passo alla necessità di avere un genitore a fianco, la riservatezza muta in riconfigurazione del pudore e degli spazi personali, il dinamismo non trova energie per essere incarnato. Ai più, sem215


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bra non esser concesso esprimersi affermando ciò che si vuole e ciò che con certezza per sé si prevede. Si tratta di un processo complesso e variegato che assume le caratteristiche di colui che vive in prima persona l’esperienza e, sebbene possano trarsi statisticamente pattern d’adattamento ripetuti, ogni adolescente costruisce e ricerca il suo, nel quale poter inserire e riconoscere parti di se stesso. Ogni individuo configura implicitamente una sorta di propria relazione con la malattia, mai univocamente definita: ognuno percepisce il suo ospite in maniera diversa e personale e, ciò dato, attribuisce a tale entità caratteristiche e facoltà distinte. Per alcuni, il cancro è una mera questione di corpo, nella quale la neoplasia è percepita come un’entità che temporaneamente si possiede, presente nell’organismo come ospite esterno, un altroda-sé indesiderato, sconosciuto e temuto. Per altri è una questione di mente, rappresenta cioè una parte di sé sulla quale tuttavia non si ha dominio: “avere una malattia”, in questo senso, genera un senso di reciproca e profonda appartenenza che si inserisce nelle trame narrative identitarie in maniera più solida e pervasiva attraverso espressioni simili a “sono malato”, generative di assetti emozionali critici e talvolta sfavorevoli. Situazione ancor più complessa è l’evoluzione di questo secondo scenario, che si ha quando il tumore è sperimentato come caratteristica dell’essere, proprietà personale sulla base della quale descriversi, comportarsi, rapportarsi al mondo. Alla luce di quanto appena tratteggiato, lo psicologo di settore ha il dovere e la necessità di vegliare su questo aspetto per trovare in esso il punto nevralgico su cui agire e da cui dispiegare il proprio intervento con l’obiettivo clinico di cooperare alla costruzione di configurazioni identitarie il più ampie e multivariate possibili, riposizionando la malattia e promuovendo la salute (OMS, 1948 e segg.). Lo psicologo: una presenza dall’inizio del percorso Nell’esperienza concreta dell’Area Giovani del CRO di Aviano, il supporto psicologico a pazienti e familiari è garantito dal primo all’ultimo accesso in Struttura, così 216


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come raccomandato dalle linee guida nazionali e internazionali, ma si plasma e attiene a procedure, forme e prassi che consuetudinariamente vengono attuate nello specifico ambito ospedaliero. Al primo ingresso in un Istituto come il nostro, un ragazzo ivi approdato attende la parola dell’esperto circa una condizione che ai suoi occhi può essere ancora sconosciuta, nebulosa o semplicemente priva di indicazioni sul da farsi. Egli si trova dunque a interfacciarsi con un Medico cui è attribuito un sapere superiore a quello di altri già incontrati, che gli fornirà una chiave interpretativa da accettare e su cui fondare il proprio stato d’animo. In prossimità di tale incontro, avrà anche modo di parlare con un’infermiera che indicherà a lui e ai familiari che l’accompagnano alcune pratiche da espletare nelle circostanze della visita specialistica. In luogo dell’interazione medico-paziente-familiari, viene offerta a ciascuna parte l’opportunità di questionare e descrivere le argomentazioni poste, sebbene le spesso sconvolgenti notizie non consentano all’utenza di produrre subito pensieri, ragionamenti e punti di vista opportunamente completi. Capita spesso si tratti di giovani che approdano a questa realtà da territori geograficamente non immediatamente limitrofi, nei quali già hanno carpito alcune informazioni circa le proprie condizioni di salute, nonché rispetto ai motivi della notorietà diffusa del Centro. Il primo impatto con l’Istituto è già terreno nel quale individuare i primi indicatori circa i bisogni della singola persona poiché consente precise anticipazioni sullo scenario interiore di un ragazzo. Gli elementi a cui occorre dare un significato da subito sono: mi trovo in un Centro Oncologico, ho un tumore, mi dicono che non basta affidarsi all’Ospedale di Provincia, i miei sono molto agitati, gli esami diagnostici che faccio paiono molto seri, tutto questo mi ricorda la storia di quel parente/conoscente, etc.. Proprio qui ha inizio la costruzione di una rappresentazione di eventi ed esperienze che si innesta con fare impetuoso nella biografia della persona, apportando successivamente in escalation una serie di cambiamenti massicci e non sempre controllabili, seguiti da ripercussioni sulla percezione del proprio benessere, della 217


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propria vita sociale e delle proprie prospettive che offrono spazi dissimili da quelli precedentemente conquistati e fatti propri. La reazione emotiva e la lettura razionale di ciò che accade assume tratti di molteplicità e si differenzia sulla base delle caratteristiche dell’individuo, del momento di vita, della rete sociofamiliare a cui può attingere e di molto altro. In un’ottica di presuntuosa onnipotenza, un adolescente inserisce quanto della malattia e delle terapie gli si prospetta come una momentanea interruzione di ciò che in quel tempo stava portando avanti, sicuro della buona riuscita del protocollo e della resistente integrità del proprio assetto fisico. Aver conoscenza di altre esperienze oncologiche dagli esiti infausti non è, infatti, condizione sufficiente per reificare un pericolo di vita ma, per alcuni, può anche essere la scintilla che accende ansie generalizzate, paure incontrollate, bisogni mai sperimentati, così da generare condizioni di ingente dipendenza da family e professional caregivers. All’interno di rappresentazioni polisemiche come quelle appena citate – da considerare come posizionamenti estremi nel continuum di tutte le prime reazioni possibili – lo psicologo cerca lo spazio per presentare se stesso e il suo agire, ponendosi dinanzi ai suoi interlocutori come una risorsa a cui attingere nell’immediato e durante tutto il percorso, nella maniera, negli spazi e nei tempi che essi sceglieranno di volta in volta. Il punto generativo delle fattezze del percorso che si andrà a costruire è proprio questo: il primo incontro con un ragazzo è luogo di accoglienza e ascolto rispettosi, ove si consentono ammissioni e dinieghi, aperture e silenzi, promozioni e critiche, in una cornice di totale accettazione nella quale è negata ogni forma/misura di ostentata expertise, di supposta precomprensione, previsione e categorizzazione. Lo psicologo si porge come figura presente all’interno dell’equipe che, pur non esigendo definiti appuntamenti, non attende la chiamata formale per essere partecipe, ma passa in stanza o in ambulatorio ogni volta che la persona viene in ospedale (indipendentemente dal motivo per cui vi giunge), allo scopo di salutare e raccogliere informazioni a esclusivo riguardo della qualità del trattamento riservato da parte del personale 218


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medico e paramedico. Così facendo, un saluto concede un incontro, un incontro uno scambio, uno scambio un confronto, un confronto una richiesta d’aiuto: in questo modo prende corpo un processo interattivo in continuo divenire, che congiuntamente si costruisce nelle caratteristiche della dimensione supportiva e terapeutica in senso stretto. Modalità, strumenti, strategie L’intervento che in questa sede si descrive non raffigura un’utenza che ricerca e raggiunge lo studio del professionista, ma prevede che sia quest’ultimo a raggiungere il suo interlocutore nel luogo in cui determinati processi discorsivi si generano e si scoprono, ovvero in corsia, in sala d’attesa, nelle stanze di reparto, laddove il trattamento medico e paramedico impone al “paziente” di stare. Noto che i ragazzi non sempre cercano, ma raccolgono tra quello che gli si pone dinanzi ciò che a loro serve; lo psicologo cerca di cogliere sul campo gli elementi distintivi della persona che ha di fronte, congiuntamente a quelli di discrasia su cui poi concentrerà la propria azione. Il metodo principe che orienta le trame dell’intervento muove la propria costruzione dai presupposti teorici già citati e si calza in questo preciso ambito clinico mediante riflessioni, osservazioni ed esplorazioni sulla base delle quali costruire stratagemmi appropriati all’età giovanile e alle problematiche oncologiche, risultando così per esse opportune ed efficaci. In senso generale, si può affermare che il professionista affianca la persona nel processo d’indagine di paure, criticità, risorse, obiettivi, settori d’interesse e progetti, supporta ricerca, ideazione, pianificazione e concretizzazione di azioni poste in essere dall’individuo stesso a misura della propria condizione clinica contingente. Nel rango delle mansioni affidategli, allo psicologo spetta un compito psicoeducazionale e/o psicoterapeutico (cfr. linee guida SIOP, SIP, SIPO e AIEOP) a seconda delle circostanze e delle esigenze delineate, affinché egli si faccia supporto e accompagnamento per gli utenti 219


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della Struttura e per le loro famiglie. Ciò pervade differenti momenti e problematiche potenzialmente presenti nel corso dell’esperienza oncologica, e si concretizza solitamente attraverso: l’accertamento della comprensione delle informazioni fornite dal Medico, l’offerta di attività diversionali, il sostegno al reinserimento scolastico ed extrascolastico, fino alla presa in carico della persona dal punto di vista terapeutico. Indipendentemente dal motivo per cui le singole azioni dell’esperto sono poste, ciascuna di esse deve obbligatoriamente essere mossa da un preciso obiettivo, definito e costruito a partire dalle osservazioni effettuate e da quanto desunto dai colloqui con l’individuo, nonché a posteriori valutata alla luce di questo e in termini di efficacia. Nulla è affidato al caso, pena la messa in campo di proposte improduttive, che potrebbero anche comportare nella persona un senso di frustrazione personale e di rifiuto per la figura professionale specifica. In ambito adolescenziale, e in particolare all’interno di un contesto ospedaliero, la definizione di setting necessita di opportune revisioni: è luogo adatto alla confidenza e al dialogo qualsiasi situazione spazio-temporale che richiami immediatezza di relazione e sguardo su di sé. I ragazzi, spesso, non cercano l’insonorizzazione ma ricercano attorno a due sedute elementi che evochino normalità, assenza di psicodiagnostica, disponibilità all’ascolto esclusivo anche nella confusione. La stanza di degenza, e in particolare il letto in cui ci si corica per la terapia, è talvolta spazio di riservatezza assoluta, dal quale poter offrire allo psicologo gli stati emozionali più complessi e indefiniti che, guarda caso, emergono nelle circostanze in cui il fisico è maggiormente provato. Qualora ci si senta in forze, si preferisce invece, il più delle volte, dialogare in corridoio, in sala da pranzo, di fronte al bar, in attesa di essere chiamati per la seduta o per la visita. Lo studio dello psicologo, che nell’immaginario è dotato di divanetto, scrivania e porta chiusa, impressiona già dal preconcetto la maggior parte degli adolescenti che in oncologia si incontrano, forse perché rimanda a scenari tipici di altri contesti, costruiti per venire incontro a problematiche di altro dominio. 220


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Di seguito a ciò, si sottolinea come anche la definizione accademica di colloquio clinico non sempre corrisponde a quanto avviene nei luoghi nosocomiali, ragione per cui chi scrive denomina con questa espressione le situazioni in cui tra utente e professionista si genera uno scambio dialogico prolungato tale da fornire informazioni sulla persona, riconfigurare insieme alcuni aspetti critici, proporre per essi strategie funzionali al fine di produrre un cambiamento in direzione del benessere. Sotto il profilo della psicopatologia cancro-correlata, la quantificazione precisa dei livelli di ansia e depressione lascia spazio alla ricerca puntuale e accurata delle modalità discorsive attraverso cui tali costrutti sono configurati dalla persona che li riporta, li teme o li indaga su se stessa, con l’obiettivo di verificarne l’impatto sulla vita quotidiana del soggetto e modificarne l’assetto con strumenti terapeutici che gli sono propri. Le modalità che più trasversalmente sono messe in atto passano attraverso un’imprescindibile presenza, l’ascolto attivo e la partecipazione emotiva e discorsiva alla realtà della persona, intra- ed extra-ospedaliera. Quanto allo psicologo viene offerto deve essere da questi accolto nell’eventualità d’esser confermato o riorganizzato, per poi essere gestito, restituito, riformulato a quattro mani e proiettato altrove, oltre il contesto medico. Il colloquio clinico, sebbene qui definito con originalità e sulla base di specificità circostanziali, si fa elemento prioritario ed elettivo per raccogliere, descrivere e innescare i processi che in quel momento sono messi in atto o si intendono perseguire. Nella stessa linea d’importanza, si collocano tutte quelle azioni volte a orientare l’individuo nella direzione di pensieri, proposte, scelte e condotte che pongano in essere i presupposti per la realizzazione di sé. Dal primo incontro alla relazione terapeutica Una volta avviato il percorso antineoplastico, gli accessi ospedalieri del “paziente” si intensificano per frequenza, durata e procedure, concedendo allo psicologo variegate e differenti occasioni per incontrare il suo interlocutore. Attese di emocromo, infusioni continue di chemioterapici, degenze e day hospital ripetuti rappresentano per 221


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l’operatore opportune circostanze di dialogo, conoscenza ed esplorazione di chi ha di fronte mediante le auto-descrizioni, i punti di vista e le storie che questi è invogliato a narrare tra manovre infermieristiche e visite mediche. Nel dipanarsi dei resoconti che allo psicologo in tal modo si offrono, è fondamentale e necessario che la persona percepisca un atteggiamento di apertura e accoglienza, assenza di giudizio e manifesto interesse rispetto a ciò di cui si parla, indipendentemente dal fatto che l’argomento in oggetto sia annesso al contesto in cui ci si trova o meno. Agli occhi e agli orecchi del ragazzo deve essere chiaro e indiscutibile che qualsiasi cosa su cui egli desideri o necessiti dialogare sia considerato “pertinente” poiché, qualora su questo ci fossero dubbi, considererebbe che la presenza che gli si porge abbia gli intenti che egli rifugge, ossia quelli di tipo indagatorio, valutativo e diagnostico. Il proposito dello psicologo, in questa fase, consiste invece nell’innescare un processo volto alla conoscenza che altro non cerca se non quanto l’individuo intende mettere a disposizione, al fine di porre i presupposti della fiducia, della confidenza e dell’affidamento che in oncologia dell’adolescente stanno alla base di un supporto psicologico propriamente detto. Nell’ambito delle infinite configurazioni identitarie di cui la specie umana dispone, ci sono persone che consentono di ridurre la fase appena descritta in termini temporali e narrativi, altri che, al contrario, richiedono momenti e opportunità maggiormente dilatati. Quando la prima fase si consolida e raggiunge lo scopo di una relazione interpersonale assodata ed esclusiva, si avanza reciprocamente nell’incontro dialogico, fino ad ammettere nel dibattito temi e modalità narrative che riguardano le circostanze in cui la persona è immersa. Ciò rappresenta lo spazio nel quale è possibile innestare promozione del benessere e qualità di vita: al paziente il compito di porre i temi, allo psicologo quello di suggerire e suggestionare le modalità con cui questi possono essere posti. Quanto concerne malattia, trattamenti, effetti collaterali, isolamento sociale, paure, insofferenza, disgusto, urgenze progettuali e bisogni impel222


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lenti sono argomenti che non tardano a essere presentati, e concedono la messa in campo dell’azione terapeutica vera e propria, posta su quanto delineato in precedenza ed elaborata su ciò che segue. Eventi che trasformano, processi che performano: costruire insieme Fatte salde le premesse più sopra esposte circa l’identità personale e le caratteristiche/esigenze dell’età adolescenziale, obiettivo dell’intervento psicologico è garantire continuità a buona parte delle auto-rappresentazioni normalmente in atto, impedendo che i precipitati pragmatici del percorso di cura pervadano l’intero campo d’azione della persona. Supportare chi affronta una malattia oncologica significa, pertanto, ristrutturare le circostanze di vita in cui il tumore ha generato impedimenti secondari e non tassativi, per favorire quelle significazioni e quegli assetti identitari che offrono trame in cui la salute trova spazio, sostenendo l’individuo nell’esecuzione di un ruolo attivo per i propri scopi, per se stesso e agli occhi di coloro che gli stanno accanto. Desideri, emancipazioni, riservatezze e progetti per il futuro non vanno in questo senso accantonati ed eliminati ma necessitano di riconfigurazioni che tengano conto del qui ed ora, di modo in cui, passo passo, l’esperienza che si costruisce non sia caratterizzata da inquietudine e impotenza, ma si permei della maggiore realizzazione possibile, contingente e meritoria. Il punto di partenza della più consistente azione professionale nasce relativamente all’urgenza che i ragazzi manifestano rispetto al desiderio di controllo su tutto ciò che in loro e attorno a loro sta cambiando. Nell’ampio ventaglio delle ripercussioni possibili, si annoverano trasformazioni dell’assetto domestico, della famiglia, del gruppo di amici, degli impegni quotidiani. Diviene spesso inevitabile sovvertire i progetti a breve e/o lungo termine e si finisce col costruire un inconsueto universo simbolico (Berger, Luckmann, 1966) in cui se stessi, gli altri e il mondo vengono diversamente definiti, in un’ottica che si erige su concezioni di “vita”, “morte” e “do223


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lore” appena riconfigurate e poste a fondamento del proprio sentire, pensare e agire. Vigore fisico, relazioni interpersonali, prospettive future ed equilibri globali perdono man mano l’assetto di partenza e mettono a disposizione un focus di attenzione esclusivamente fissato su “ciò che adesso manca o impedisce”: si rileva la necessità di metamorfosi concettuali nella direzione di “ciò che ancora c’è e si può fare”, metamorfosi che si reifichino poi mediante scelte, dichiarazioni e azioni che l’individuo stesso propone. Il supporto che lo psicologo offre si mette qui in atto sotto forma di sostegno e accompagnamento nei nuovi processi di costruzione. L’approccio diviene in qualche misura educativo, con l’intento insito nel significato di questo termine (dal latino, ex ducere, che vuol dire “condurre fuori”), ovvero mirato a costruire un’azione condivisa che porti a formulare decisioni e obiettivi soggettivi che appartengono alla persona. Una volta denominati, tali obiettivi saranno collocati a guida di un agire concreto, mosso puntualmente a partire da una nuova pianificazione generatrice di successi ancora e nonostante tutto perseguibili. In questo modo, ogni ragazzo si riappropria del ruolo di protagonista della propria vita, primo autore delle configurazioni di senso e significato attraverso cui leggere la realtà, e fautore della propria identità. Le corrispondenze che si realizzano esigono la messa all’opera della persona, impegnata così nell’eseguire ciò che occorre per raggiungere gli scopi prefissati. Poiché fare è essere, ogni passo agito in questo senso restituirà una nuova sfaccettatura all’identità, colorando l’intero sistema di aspetti che tra le fatiche della malattia erano talvolta dismessi e dimenticati, oppure mai conosciuti prima. I campi d’azione di cui parliamo, esemplificandoli, si ascrivono tra mansioni scolastiche, attività diversionali, stesure autobiografiche, organizzazione di eventi in cui mostrare abilità e competenze, incontri con persone opportunamente selezionate tra conoscenti o celebrità, visite in luoghi emblematici. Il discernimento sulla base del quale fare scelte ad hoc dipende dalla concezione di 224


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sé, della salute e della qualità di vita che il singolo individuo detiene e desidera mantenere per se stesso: avere uno spazio d’espressione, realizzare qualcosa, non percepire dolore, ottenere il diploma di maturità, sposarsi, esporre le proprie opere artistiche, essere persona di riferimento per il proprio gruppo di amici, partecipare a un concorso letterario, frequentare un corso di formazione, studiare uno strumento musicale, andare al mare, dire qualcosa di mai rivelato a qualcuno di importante rappresentano per il professionista della cura gli elementi di contenuto propri del ragazzo, sui quali a volte è opportuno provare una negoziazione ma da cui è essenziale partire per attivare il cambiamento sul processo di costruzione che ampiamente si è già ivi descritto. La buona performance che l’individuo ottiene in virtù di sforzi e impegni personali sarà sigillo della più funzionale configurazione dell’identità e della realtà circostante. Il ruolo dell’equipe multidisciplinare Ogni figura professionale implicata nel percorso di cura rappresenta un interlocutore con cui il giovane individuo interagisce, dialoga e si confronta, dal quale riceve ascolto, indicazioni, prescrizioni, domande, commenti. Medici, infermieri, psicologi, educatori, ricercatori, insegnanti, volontari e operatori di ogni genere sono pertanto voci narranti dei processi discorsivi polifonici che generano realtà, tali da divenire – proporzionalmente con il livello di significatività attribuito dal singolo ragazzo – co-costruttori di quanto al momento egli si propone di realizzare. Ciò che loro considerano importante e degno di impegno, sarà considerato allo stesso modo anche dal soggetto. All’interno dell’equipe multidisciplinare è opportuno, pertanto, che si condividano linguaggi, metodi, tempistiche e strumenti per cooperare al perseguimento dell’obiettivo della persona, senza perseguire quelli che ipotizzano essere i migliori dal punto di vista degli opera-

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tori, offrendo ciascuno quanto, tra le proprie possibilità e capacità, può favorire tale processo. Insieme con la famiglia e le persone che a contorno rappresentano un riferimento per l’individuo, ciascuna figura professionale intreccia le proprie narrazioni con quelle del soggetto, rinforzando la motivazione al cambiamento e la promozione di scenari favorevoli. Verso l’epilogo Alcune correnti operative differenziano le prassi d’intervento in funzione della fase del percorso di malattia in cui la persona è al momento immersa. Ciò è posto ragionando nei termini di una progettualità e di una costruzione identitaria che si considerano realizzabili soltanto in determinate circostanze clinico-fisiche, in peculiari assetti organizzativi e sistemi familiari. Quanto in questa trattazione si propone offre un ampliamento a tale prospettiva, delineando i processi di cui si parla come privi di limite temporale, ovvero in una continua costruzione che necessita soltanto di ristrutturazioni per adattarsi a contingenze più faticose e disagevoli. L’obiettivo generale di un intervento psicologico non dipende dalla prognosi o dalle indicazioni mediche prescritte ma, pur rimanendo il medesimo, cala la definizione dei propri sotto-obiettivi sulla base di quanto la persona in quel momento è in grado di proferire e agire. Nelle fasi più critiche, allo psicologo è demandato il compito di trovare un punto di negoziazione tra le richieste a lui riportate, le risorse personali disponibili e le opportunità che si presentano, in modo tale da offrire all’individuo gli scenari possibili in cui esercitare parti di sé. Per giungere a ciò, è opportuno procedere in questi termini non senza aver esplorato le anticipazioni, le prospettive e i punti di vista della persona rispetto a se stessa, alla malattia e alle possibilità che le si pongono dinanzi: la presa di coscienza di un’eventuale condizione di terminalità è un processo complesso e multi-sfaccettato, che detiene forti legami con le paure, il senso di incompiutezza, la spiritualità, la concezione della vita e quella della morte,

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la rete relazionale disponibile, i desideri, la gestione del dolore e delle capacità respiratorie. Accompagnare alla consapevolezza circa le proprie condizioni non significa informare la persona in merito a ciò, bensì porre nell’interazione dialogica pretesti discorsivi in grado di innescare un’auto-riflessione che, con dovuto tempo, porti la persona a definire le circostanze nei termini dell’irreversibilità. Non si tratta, quindi, di fornire una spiegazione dei fatti o una riformulazione delle parole del Medico, bensì di porsi nel ruolo di mediatore tra la parte di sé che richiede con insistenza un’ulteriore linea di trattamento e quella che conosce la misura dell’estensione della malattia, la sua pervasività e ciò che questo comporta. L’accordo tra le parti controverse è rappresentato non da una sensazione che lo psicologo ha a riguardo, ma si realizza nel momento in cui è la persona stessa a dichiarare l’impraticabilità di cure volte alla guarigione. Negli adolescenti, e nei pazienti oncologici in genere, non sempre tale percorso giunge all’esito appena descritto, poiché il senso dell’assurdità di quanto accade rimane forte e condiviso da coloro che gli stanno attorno. Spesso però accade che, nel momento in cui si è riusciti a definire l’irrinunciabile e l’effimero, ci si conceda e si richieda l’occasione di formulare nuovi obiettivi, definiti ora secondo i criteri di fattibilità, cautela e priorità. Quando ciò si realizza, è assai frequente che sia il prodotto di un’elaborazione compiuta sia dalla persona che dalla famiglia, in modo congiunto o parallelo. Ponendosi in questi termini e coerentemente con il modello di intervento proposto, anche la fase terminale ritrova la formulazione dei propri obiettivi, poiché considerata spazio vitale alla stregua di qualsiasi altro stadio di malattia. Anche a fine vita, c’è qualcuno da dover incontrare e/o qualcosa che si può realizzare o progettare, fosse soltanto la riconfigurazione di una relazione significativa, di un modo di concepire l’esistenza, di un bagaglio che si desidera lasciare.

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P come Psicologo, P come Persona Lavorare in un servizio oncologico per adolescenti significa, a parere di chi scrive, occupare uno spazio elettivo da cui poter osservare le potenzialità insite nell’età giovanile. La messa in campo di risorse, desideri, coraggio e determinazione da parte dei protagonisti della cura rendono l’esperienza di accompagnamento ricca di suggestioni e incentivi ad ampliare e migliorare le proprie capacità relazionali e professionali. Per svolgere le azioni necessarie all’intervento psicologico, l’esperto pone a disposizione del proprio interlocutore non solo le abilità acquisite nel corso della propria formazione specialistica ma offre le caratteristiche che gli appartengono come persona, quelle specificità umane che egli compone, consolida e nutre come costitutive del proprio sistema di identità, anch’esso in continua costruzione. Ogni incontro genera nuove prospettive, nuove accortezze e nuovi strumenti da fornire agli incontri che verranno. Il lavoro che in virtù di questo si propone non annovera prassi definite, tecniche rigidamente confezionate o protocolli entro i quali necessariamente collocarsi. Esso, al contrario, consiste di strumenti, stratagemmi e competenze da attivare sulla base delle circostanze e partendo dalla solidità clinica dell’esperto. Ciò che rimane un punto fermo dell’intervento psicologico è l’obiettivo generale da cui si dipana ogni scelta operativa professionale, ovvero rendere attuabile l’imperativo che caratterizza l’età giovanile e costruire, quindi, l’identità della persona con la persona, direzionando tale processo verso configurazioni rappresentative di salute, qualità di vita, auto-efficacia e progettualità. Come si è detto nelle prime righe della presente stesura, il contributo che qui si propone è il prodotto dell’esperienza lavorativa agita e riflettuta, mossa sì da competenze e nozioni accademiche, ma soprattutto composta e rielaborata alla luce delle tracce che ogni singola relazione terapeutica ha lasciato nell’identità professionale e personale di chi scrive.

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Un grazie speciale al Servizio di Psicologia Oncologica, all’equipe multidisciplinare dell’Area Giovani e a tutti i ragazzi incontrati nel corso degli anni. Bibliografia Aa.Vv, I tumori in Italia – 2012. I tumori dei bambini e degli adolescenti, Epidemiologia & Prevenzione 2013; 37 (1) Suppl, 1: 1-296. Berger P., Luckmann T., La realtà come costruzione sociale, Bologna, Il Mulino, 1969 Colaianni L., Ciardiello P. (a cura di), Cambiamo discorso. Diagnosi e counselling nell’intervento sociale secondo il paradigma narrativistico, Milano, Franco Angeli, 2008 Faccio E., Le identità corporee. Quando l’immagine di sé fa star male, Milano, Giunti, 2007 Fasola C., L’identità. L’altro come coscienza di sé, Torino, UTET, 2005 Gadamer H-G. (1960), Verità e metodo, Grado (GO), Bompiani, 2001 Galimberti U., Enciclopedia di Psicologia, Milano, Garzanti, 1999 Gergen K., in E. Davis, The social construction of the person, Springer-Verlag, New York, 1985 Gergen K., The saturated self. Dilemmas of identity in contemporary life, Books, New York, 1991 Gergen K., Social construction in context, Sage, London, 2001 Gergen K., An Invitation to Social Construction, SAGE, 19 feb 2009 Goffman E., Stigma. Notes on the management of spoiled identity, Simon & Schuster, 1963 Goffman E., L’interazione strategica, Bologna, Il Mulino, 1988 Hall S., Adolescence: Its Psychology and Its Relation to Physiology, Anthropology, Sociology, Sex, Crime, Religion and Education, New York, D. Appleton and Company, 1904 Lewin K. (1935), Teoria dinamica della personalità, Milano, Giunti, 2011

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AREA GIOVANI: QUANDO IL BUONGIORNO TE LO AUGURA IL PAZIENTE Maurizio Mascarin, Caterina Elia, Elisa Coassin Il “buon paziente” non è solo quello con una elevata compliance, tantomeno si potrebbe definire un “buon medico” colui che ha una valida preparazione tecnica e null’altro. Una “buona relazione” terapeutica richiede molto di più. La scuola istruisce ma è la vita che educa. Ho incontrato tanti ragazzi con malattie gravi, molte volte in bilico tra la vita e la morte. Questi ragazzi mi hanno cambiato, mi hanno insegnato cosa significa “combattere per la vita” e cosa significa apprendere. Quando la malattia sopraggiunge, soprattutto in giovane età, sconvolge progetti, sogni, attese e convinzioni, minando fortemente l’integrità fisica e morale. I nostri ragazzi si ritrovano a calpestare un terreno non più edificabile da alcun progetto di vita. E mentre il cancro si prefigge come soluzione la morte, i ragazzi continuano a nutrirsi di speranza di vita, trasformando le loro fragilità in risorse. Ho iniziato, dopo la laurea, a lavorare in un modo. Credevo che in medicina “combattere per la vita” significasse scoprire e controllare i meccanismi più reconditi delle nostre cellule. Credevo che prima bisognasse curare la malattia e poi programmare la vita. Credevo che sgarrare una prescrizione o un esame fosse un peccato mortale di fronte alla scienza medica. Credevo che tra salute e scuola si dovesse indubbiamente scegliere la prima. Credevo che apprendere significasse conoscere le risposte corrette. Solo dopo, ho capito che l’intelletto non sempre ha bisogno di risposte giuste, a volte vanno bene anche le risposte sbagliate e, certe volte, anche di non conoscere le risposte. Lavorando con i giovani malati oncologici ti rendi conto di come le attese evolvano in scoperte. Certamente non mi riferisco a scoperte scientifiche anche perché non arrivano dal bancone di un laboratorio bensì dal confronto diretto con i giovani pazienti. La prima sco231


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perta riguarda l’ascolto. Noi abbiamo imparato a dare ascolto ai nostri ragazzi che non sempre si esprimono con le parole, anzi, la maggior parte delle volte comunicano con lo sguardo, con i gesti. Un’altra scoperta riguarda la necessità di fermarsi, di prendere tempo. Il ritmo frenetico con il quale viviamo la nostra vita ci permette di guardare senza vedere. E a noi i dettagli non possono sfuggire. Con i ragazzi, ogni particolare può essere utile per creare un rapporto di fiducia reciproca. Le nostre scoperte potremmo quasi definirle delle ri-scoperte o meglio delle scoperte emotive. Proprio come quando si sfoglia un vecchio album di foto o un diario. La sensazione è di entrare in contatto con qualcosa di nuovo, pur essendo l’accaduto realmente esistito, l’abbiamo vissuto ma poi dimenticato, lo abbiamo accompagnato fuori dalla mente per permettere a qualcos’altro di entrare. Valeria Pini su Repubblica (20-11-2014) scrive: L’opinione di molte persone nei confronti della medicina e dei medici non è positiva ormai da molto tempo. Ma è possibile intervenire per ricostruire la fiducia fra camice bianco e assistito? Oggi il medico può apparire come un acrobata, intento a eseguire, sulla corda, i suoi esercizi di tecnologia applicata: gli acrobati non sono interessati a conoscere l’identità degli spettatori, lavorano per un applauso collettivo e non per la felicità dei singoli. Ma una via d’uscita potrebbe essere quella che suggerisce al medico di dar voce ad alcune delle sue piccole virtù che certamente possiede come la pazienza, la prudenza, la capacità di ascolto, il rispetto per la volontà del malato, la comprensione dell’importanza dell’aggiornamento, la consapevolezza delle proprie responsabilità, l’umiltà. Si tratta in fondo di un modo semplice e alla portata di tutti di interpretare l’etica della cura. Molto più spesso di quanto crediamo, ci ritroviamo avvolti da una nebbia forse anche solo per vedere i problemi attraverso un velo che li smorza. Questo velo, però, che apparentemente ci tutela, allo stesso tempo ci impoverisce nell’animo e nel cuore. Privati del velo, ci siamo posti delle domande. E le risposte, non tutte ovviamente, erano di fronte a noi. Ci siamo fermati per coglierle. Ci siamo presi del tempo per vedere, osservare e ascoltare. 232


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Cosa si affida allora ad un medico? La nostra vita con le nostre speranze o semplicemente i nostri problemi, oppure entrambi o nessuno dei due? I nostri ragazzi, ammalati di tumore, in questi ultimi mesi ci hanno chiesto questo... Pamela, una ragazza gravemente malata, ha espresso al medico il desiderio di sposarsi prima di morire. Attoniti, abbiamo pensato a quanti preparativi o richieste gli sposini d’oggi mettono in conto prima del fatidico “si”. Non lei. Lei chiedeva semplicemente di “stare fuori dall’ospedale” e di “non essere troppo pallida”, perché altrimenti le foto non sarebbero venute bene. Romeo invece in una stanza in cui era presente il medico, la giovane tirocinante e l’infermiera, chiedeva al medico, con una naturalezza sconvolgente, di potersi fare qualche canna durante la chemio. “Come può fare una domanda del genere ad un medico?”. L’infermiera sorrideva, come anche, ma più velatamente, la giovane tirocinante che aspettava di vedere come avrebbe risposto il suo tutor. Il medico era al centro di un triangolo, dove, a farsi spazio, c’era una spontanea provocazione, imbarazzo e molte aspettative. Il medico si è fermato, si è semplicemente preso del tempo per rispondere e proprio quel tempo è servito a sentire nell’aria della stanza, che di solito sa d’ospedale... che la canna, Romeo, se l’era già fatta. A quel punto è arrivato non un assenso e neppure un dissenso, bensì un silenzio. Quel silenzio ha creato un forte legame tra il medico e Romeo. E poi Alberto che chiede al medico di rinviare di una settimana la chemioterapia per poter fare un esame al primo anno di università. “La scuola è altrettanto importante quanto le terapie. Se ci proviamo insieme, possiamo farle andare avanti entrambe”. Queste tre richieste riassumono ciò che accade nel nostro lavoro. Questa è la nostra quotidianità. Non c’è un medico che si limita a prescrivere esami o terapie, e ancor meno un medico che uscendo dalla sala operatoria dice “le ho salvato la vita... ”. E’ un medico che, col passare degli anni e il maturare dell’esperienza, vede aumentare e moltiplicarsi le possibili prospettive della sua professione sanitaria soprattutto quando si ha a che fare con 233


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ragazzi ammalati, sicuramente arrabbiati ma soprattutto desiderosi di riproporsi alla vita. Per ogni singolo caso, ogni volta, emerge forte il dualismo tra ragione ed emozioni. Nel modello occidentale, la ragione, divenuta una conquista culturale, si colloca a un livello superiore nei confronti delle emozioni. Si ritiene, infatti, che la ragione abbia un compito di controllo e di freno sulle emozioni. E mentre il simbolo della ragione è l’adulto affermato, istruito, socialmente importante, generalmente maschile, le emozioni sono ben rappresentate dal bambino, dalla persona di scarsa cultura, socialmente in secondo piano, generalmente di sesso femminile. Inoltre, la ragione ha prodotto il linguaggio, la scienza, la tecnica, il progresso: in sostanza, tanto più l’umanità diventerà adulta, tanto più diventerà progredita, evoluta... e razionale. Le professioni sanitarie si situano solo apparentemente sul versante della ragione. Non a caso il concetto di “arte medica” appare desueto. La relazione di cura che unisce curante e curato occupa uno spazio comune, dinamico e continuamente variabile: permea sia la sfera della ragione sia quella delle emozioni. E l’intreccio tra questi elementi è talmente inestricabile che non è possibile (né utile) scindere l’una dalle altre. Accompagnare l’altro, come dice Janine Pillot, psicologa, «non è morire con lui, ma accettare di non rimare identici, ampliando la propria esperienza personale, imparando che la sofferenza è inevitabile ma costruttiva». Nell’agosto 1995, Dacia Maraini sul Corriere della Sera così scriveva: Un malato, anche solo un secolo fa, moriva tra i parenti, con i figli e i nipoti accanto. Parlava fino all’ultimo, rispettato e ascoltato: diceva pubblicamente le sue volontà. Veniva confortato da mani amiche e moriva, spesso, nello stesso letto in cui era nato. Mia sorella Yuki, dopo essere stata operata, chiedeva insistentemente di tornare a casa. Oggi mi sembra orribile che non le abbiamo dato retta. Ma noi ragionavamo, noi pensavamo che senza le macchine di un ospedale non ce l’avrebbe fatta. La vicinanza del reparto di rianimazione per un cuore stanco e malato, la bombola dell’ossigeno, l’ago dell’ipodermoclisi ci sembravano necessarie alla sua sopravvivenza. E invece no, se n’è andata lo 234


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stesso. Probabilmente lei sentiva che non ce l’avrebbe fatta e chiedeva di morire a casa, tra persone conosciute e affettuose. Mi sembra terribile non averla accontentata. Le chiedo perdono per non averlo capito. In un ambiente come l’ospedale, in cui l’aziendalizzazione ha prodotto l’espulsione di quelle dimensioni che sfuggono alla calcolabilità, l’orientamento di ciascuno di noi è diretto al risparmio emotivo, all’incasellamento delle informazioni e alla loro monetizzazione. Ci sono valori come la libertà, la forza interiore, il coraggio, l’ascolto che per loro stessa natura non sono monetizzabili. Uno sguardo che ascolta e uno sguardo che parla sono altra cosa di uno sguardo che osserva (Galimberti U, 1992). La formazione professionale diventa una necessità. Avvicinare colui che porta addosso il peso di una malattia potenzialmente mortale è sovente fonte di paura e di angoscia per il curante. Non possiamo accompagnare l’altro se non ci siamo dati i tempi e i modi per noi stessi e per le nostre riflessioni sul senso e sulla finitezza della vita. Ci ritroviamo in una sorta di guerra della Scienza Medica contro il tumore. «Un attimo. Fermi tutti!!!», dice l’attrice Chiara Stoppa (Stoppa C, 2014). Al centro del campo di battaglia però c’è una persona, una persona in carne/ossa e, soprattutto, ci sono le sue emozioni. Cerchiamo allora di ascoltare i nostri ragazzi. Enrica B., una ragazza dell’altopiano di Asiago, un giorno guardandoci uno per uno, senza distogliere i suoi occhi dai nostri, ci ha detto: «Che nome avete dato alla mia malattia. Soltanto a nominarla fa venire i brividi. Se provo a dividerla in due sillabe: TU... MORE, nel mio vocabolario significa TU MORIRAI. Fai proprio pena». Incontrando questi ragazzi, passandoci del tempo assieme, dedicando loro le mie attenzioni, le mie conoscenze, non solo scientifiche, ho cambiato quelle che erano le mie prospettive iniziali, le mie “certezze”. Ho avuto quasi un senso di repulsione per i tanti mesi passati a studiare all’università su libri noiosi e con professori che non avevano alcun interesse ad insegnare. 235


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Ho rivalutato quei tanti insegnanti dal pensiero aperto, appassionati nell’insegnare non solo il loro sapere, ma anche i loro limiti. Gli insegnamenti di questi ultimi, forse inizialmente “incompiuti”, sono riemersi, rinvigoriti e rinnovati quando ho iniziato a lavorare in questo ospedale con i miei ragazzi. Con loro e per loro, è nato un progetto che ha fatto crescere tutti e che condivido sempre più con i miei colleghi, specie quelli più giovani. Insieme, fin dall’inizio, abbiamo colto un pressante e diffuso bisogno che ci ha messo in moto e condotto verso lo sviluppo di quello che inizialmente era un concetto e poi si è concretizzato: l’Area Giovani del Centro di Riferimento Oncologico di Aviano. Era il gennaio 2007. La scelta del nome non è stata lasciata al caso. L’Area è nata come “laboratorio”, “crocevia multidisciplinare”, dove i pazienti hanno la possibilità di beneficiare di un nuovo progetto assistenziale. Il nuovo modo di operare trova espressione e realizzazione attraverso una collaborazione trasversale dei professionisti, fondata sulla sintesi dei problemi del paziente e non sulla singola specialità. L’Area Giovani è sintesi. Il termine Area conduce l’immaginazione di tutti verso uno spazio aperto non solo ai professionisti della sanità, ma anche alla società ed agli eventi che la caratterizzano. Si tratta di un’Area all’interno dell’ospedale dedicata alla cura degli adolescenti e dei giovani con tumore volta verso l’esterno, al di là delle sue stesse mura. A chi si rivolge concretamente l’Area Giovani? Con il Progetto Area Giovani, abbiamo cercato di ideare un’attività “mirata”, utile a colmare un diffuso vuoto assistenziale e organizzativo, ma anche scientifico, che penalizza gli adolescenti affetti da tumore. L’Area Giovani è un Progetto che, col suo divenire, ripercorre i mutamenti e i continui assestamenti legati alla gioventù. Il Progetto Area Giovani può essere paragonato ad un albero. E’ nato come un piccolo fuscello, ma con solide radici, e progressivamente sta cambiando: i nostri pazienti partecipano attivamente al suo sviluppo, con suggerimenti e idee lasciate nei diari così come sui muri del reparto. Lisa, una giovane paziente, aveva mani236


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festato il suo rifiuto nei confronti dei corridoi lunghi e grigi dell’ospedale. Ascoltandola, abbiamo capito che nel grigiore e nella profondità dei corridoi, lei, così come tanti altri ragazzi, identificava la propria malattia. E l’identificazione negativa rendeva questi ragazzi dei quadri senza ombre, privi delle proprie figure. La tendenza all’annichilimento spazzava via ogni voglia, anche quella di lottare contro la malattia (da Non chiedermi come sto, ma dimmi cosa c’è fuori, 2008). Applicare correttamente un protocollo clinico, negli adolescenti, è molto difficile. Mentre adulti e bambini si affidano alle cure oncologiche, i primi per scelta propria e i secondi perché le loro scelte sono mediate prevalentemente dai genitori, i ragazzi non riescono ad affidarsi volentieri alla classe medica. Si ribellano, reagiscono con rabbia e disappunto. Chiunque abbia avuto a che fare con gli adolescenti si sarà accorto di quanto, a volte, sia difficile parlare con loro, riconoscere le loro emozioni, ottenere la loro fiducia, capire le loro priorità, e non di meno, responsabilizzarli di fronte ad un problema grave come la malattia oncologica. Per andare incontro a tutte le loro esigenze, nel corso degli anni, mi sono sempre più allontanato da una medicina intesa come scienza esatta. Nonostante io continui ad inseguirla, mi rendo conto che più la cerco, più sento emergere in me una “medicina basata sulle emozioni”, sulla qualità della vita. E in questo modo sono riuscito ad ascoltare i miei ragazzi, pur nel loro silenzio. Ed è da loro che sono ripartito. Ho capito che il buongiorno, quello vero, è in grado di augurartelo un paziente. Cristina Dini, ragazza di 26 anni, dal letto di una stanza dell’Area Giovani del CRO, ha mandato questo buon giorno a tutti coloro che pur stando fuori dall’ospedale non sanno accogliere il nuovo giorno con un sorriso. In questa lotta per la vita, mentre la gente comune si annoia nella sua povera vita ci siamo noi che vaghiamo in stanze colorate di ospedale ed incontriamo persone che condividono l’amore per quegli sprazzi di vita che gli sono rimasti, sorridono e gli occhi brillano con una luce unica di chi sa cosa vuol 237


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dire rischiare di perdere tutto per un destino beffardo e bastardo. L’importante è essere felice oggi, perciò riempi il cuore di gioia e fanne la scorta per quando le giornate saranno più grigie. A te che ti svegli la mattina col broncio e senza un sorriso, a te che ti lamenti per gli impegni della giornata, per te donna che ti lamenti se non hai trovato il capo che cercavi, a voi lavoratori che la mattina sbuffate per andare a lavoro, per te che come hai due soldi devi assolutamente soddisfare ogni tuo desiderio spendendo ogni centesimo per poi lamentarti che non ci sono soldi... A voi io auguro un buon giorno! Siete i ben accetti nel mio mondo dove la follia diviene quotidianità, dove la mattina ci si sveglia col sorriso si fanno i conti di ciò che ti fa male e si sorride al mondo, dove non si può lavorare perché il nostro lavoro ora è affrontare gli ostacoli, dove ogni mattina timbriamo il cartellino in ospedale per fare il mestiere più duro... il paziente. Dove vivere diviene la priorità, dove si fa amicizia con qualcuno che casualmente è inciampato nello stesso percorso e si comprende come la vita è fatta di cose povere e umili, dove si trova sempre un assoluto equilibrio, un senso di pace e di gratitudine verso una condizione che meno lo meriterebbe. (Dini C, 8 settembre 2015) Bibliografia 1. Pini V., «Quando il rapporto fra medico e paziente rende più efficace la terapia» in Repubblica, novembre 2014. 2. Pillot J., Guerrin J., L’Accompagnement Du Mourant. L’Esprit du temps. Psychologie, cancers et société, 1995, pp. 215-216 3. Maraini D., «Ospedali lager, orrori: gli italiani dicono basta» in Corriere della Sera, 31 agosto 1995. 4. Galimberti U., Idee: il catalogo è questo, Feltrinelli, 1992, p. 134. 5. Stoppa C., Il Ritratto della Salute, Mondadori, 2014. 6. Centro Riferimento Oncologico Aviano - Area giovani, Non Chiedermi Come Sto Ma dimmi Cosa c’è Fuori, Mondadori, 2008. 7. Dini C., 8 settembre 2015, https://www.facebook. com/cristina.dini.54?fref=ts

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Capitolo III SPIRITUALITA’ E ASPETTI ANTROPOLOGICI: LA DIMENSIONE DEL DOLORE SPAZIO AL TEMPO: VALORIZZIAMO LA IV DIMENSIONE DELL’ADOLESCENZA Maurizio Mascarin Gli adolescenti sono i principali attori di quella che viene definita “identità fluida”. La distinzione tra vita reale e vita virtuale si fa sempre più tenue. E la tendenza a mimetizzarsi sul piano anagrafico, sociale, affettivo per accedere ai social network è sempre più accentuata. Molto spesso riteniamo che basti modificare il proprio profilo per cautelarsi dai rischi o per “pulire” la propria immagine. Siamo tutti attaccati ai telefonini, probabilmente perché non siamo mai dove vorremmo essere. Di concreto c’è che il rapporto reale tra due persone, i contatti, quelli fisici, le parole, quelle pronunciate, e gli sguardi, quelli velati, non esistono più. E’ cambiato anche il rapporto tra medico e paziente. Medici e pazienti si parlano, ma non si guardano più negli occhi, “non si annusano”. Nell’aria si sente solo l’odore uniforme dell’ospedale, delle sofisticate macchine per la diagnostica, dei documenti stampati da un pc. Papa Francesco, in una sua omelia con i porporati, dopo un anno di pontificato, così predicava: «Vi avevo esortato ad essere pastori con l’odore delle pecore, non gestori o intermediari» (Papa Francesco, 2013). Dobbiamo riscoprire l’odore della vita, in particolare se ci troviamo ad operare con quella fase della nostra esistenza che è esplosione di vita, cioè l’adolescenza. Da alcune migliaia di anni, prima lentissimamente, poi più rapidamente l’uomo si è sviluppato ed è cresciuto in potere, sapere, ma anche amore, paura e compassione. Il grande motore dello sviluppo umano, quella cosa straordinaria che ha reso l’HOMO – UOMO, è stata

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la cultura, destinata a non dimenticarsi mai di se stessa, ad allargarsi, a crescere e a procedere. Se tentiamo di disegnare lo sviluppo umano mediante una curva, ci insegna F. Panizon, essa non può essere che una curva logaritmica, lentissima nella prima parte, sempre più veloce in arrivo. Potremmo immaginare due curve distinte, una del progresso umano, espressione della maturazione dello spirito dell’uomo e delle sue emozioni, e una del progresso tecnologico, della ragione dell’uomo, dei suoi risultati, dei propri prodotti materiali, degli strumenti che l’uomo ha preparato per salire il suo prossimo gradino. Fino all’inizio di questo secolo una delle due curve sovrastava l’altra come se il pensiero guidasse l’ascesa e la tecnica venisse dopo. Ma, dalla fine dello scorso secolo, la curva della tecnologia sembra assumere una sua indipendenza, impenna, incrocia la prima, risale verticalmente. Delinea una pendenza pericolosa. Come se l’uomo cambiasse la sua natura, come se fosse la tecnologia a guidarlo. Oggi le due curve si sono separate brutalmente, troppo brutalmente, e sembra che una non possa più sopportare l’altra (Panizon F., 2013). «Il tempo che passa é la dimensione della vita e della coscienza di vivere. Guida lo svolgimento dell’esperienza in questo mondo e la divide in fasi, in età» (Andreoli V., 2014). La sua rappresentazione grafica più comune é una curva che sale per poi scendere: dal nulla all’essere e dall’essere al nulla. Seneca affronta in modo frequente ma non organico il tema del tempo nei suoi scritti, in particola nel dialogo De brevitate vitae (Sulla brevità della vita) e nelle Epistulae morales ad Lucilium. Egli afferma che «esiste un tempo della vita misurabile, e un tempo dell’universo di cui l’uomo ignora la durata: nell’uno e nell’altro caso proprio la misura del tempo è fonte di angoscia per l’uomo poiché lo pone di fronte alla propria condizione di “finitudine” e dunque alla paura della morte» (Del Giovane B., 2012). Affrontare una riflessione sul tempo significa dunque per il filosofo, sottrarlo dalla dimensione puramente fisica e portarlo ad una dimensione esistenziale. 240


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La vita perderebbe di significato se non fosse relazionata al tempo. Tutta l’avventura umana é imprescindibile dal tempo. Spesso ciò che conta é solo il tempo vissuto che ha un procedere piuttosto irregolare: accelera o decelera a seconda dei sentimenti, della salute, dell’età. Chi si occupa di malattie neurologiche degenerative come l’Alzheimer sa che un uomo può definirsi sano, se sa raccontare da dove viene ma anche dove va, ovvero se sa immaginare il futuro, ossia quel tempo non ancora vissuto se non con la mente. I ragazzi con tumore vivono, a loro volta, il tempo che oscilla dal passato al presente senza spingersi al futuro. Lo spazio ospedaliero incarcera, senza possibilità di replica, lo spirito libero degli adolescenti. Molti di loro dimorano in una sorta di stasi emotiva, senza tempo, ed inducono i loro sensi a ridurre le informazioni trasmesse al cervello. Dentro l’ospedale, le relazioni diventano stanche, minori, lontane, avvolte da una nebbia perenne. E tutto predispone al regresso, al ritorno alla condizione di feto: si ritrovano avvolti non più dall’acqua ma da una fitta nebbia. Il ragazzo con tumore si guarda attorno e si chiede: «Io sulla linea dove sono?» Una linea tracciata da un tempo che rischia di essere senza futuro. Ma il tempo che i ragazzi ammalati si ritrovano a vivere solo tramite le percezioni, per questo invisibile agli occhi, esiste davvero. I giorni sono il volto del tempo. Le altre misure sono solo convenzioni. In ospedale, quasi come nei villaggi africani, l’unica cosa che scandisce il tempo è il ciclo del sole, il giorno che nasce e poi si consuma. I minuti, le ore, le settimane, i mesi sono solo delle unità di misura che risultano prive di senso per chi è malato. I giorni invece esistono davvero: si tratta di giorni scanditi dalle emozioni che i ragazzi riescono a vivere e dai sogni che riescono o non riescono a realizzare. Parlare di mesi o anni di sopravvivenza da un punto di vista prettamente clinico non ha senso, se questa sopravvivenza viene svuotata dei suoi contenuti, delle piccole gioie che la vita riserva loro ogni giorno. E’ un “dolore quotidiano” il loro, non tanto legato all’evento specifico quanto al «legame tra tempo e gioie perse» (Ferro 241


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T, 2008). Accade così che i tasselli più importanti si raggruppino tra di loro sfuggendo alla forza di gravità del tempo e vengano restituiti alla complessità di noi stessi, vissuta nel qui ed ora. Quando diciamo che gli adolescenti mancano del senso della morte, pronunciamo una sentenza superficiale. Gli adolescenti non parlano della morte, poiché vivono, più o meno consapevolmente, la finitezza del tempo. La loro «percezione del tempo futuro è “miope”, non supera il tempo della percezione temporale concreta. Il periodo adolescenziale, nella nostra epoca in particolare, manca della percezione del futuro. Tutto si consuma come se potesse finire in un attimo, come se fossimo sulla soglia di una scena apocalittica» (Andreoli V., 2014). C’è un tempo esistenziale, quello degli orologi “tic tac”, legato ai bisogni quotidiani, ai mutamenti del corpo, alla malattia, alla morte e c’è un tempo affettivo legato alle persone care, al nostro passato e soprattutto al nostro futuro. Quest’ultimo è il tempo delle parole, dette, scritte o solo sussurrate. Andreoli sostiene che «il passato è un tempo che per definizione non c’è più, per questo lo affidiamo alla memoria; il presente esiste ma solo come convenzione perché nel momento stesso in cui lo si descrive si consuma e muore; il futuro potrà avvenire ma senza alcuna certezza, e quindi tutto potrebbe essere illusorio» (Andreoli V., 2014). Allora, il tempo si misura davvero con la lancetta degli orologi? Per insegnarci che il tempo è malleabile basta un piccolissimo dolore, una piccola gioia. Certe emozioni accelerano il tempo, altre lo rallentano. Ogni tanto il tempo sembra sparire, quasi dissolversi. Il tempo, sempre, porta con sé emozioni nuove o rinnovate. Queste emozioni devono essere però condivise per far parte della nostra storia. La testimonianza degli altri le avvalora e dà certezza di ciò che si è o si è stati. Potremmo anche aver documentato accuratamente ogni cosa in forma di immagini, suoni o parole, per poi all’improvviso scoprire di aver sbagliato modalità di regi242


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strazione dei fatti. Ci troviamo senza la memoria del tempo che avevamo riposto solo in un telefonino e non nel cuore di chi lo ha vissuto. «Esiste quindi un tempo oggettivo, scandito dall’orologio, ma esiste anche un tempo soggettivo, quello che batte “sull’interno polso, proprio accanto alle pulsazioni cardiache”: il tempo delle emozioni e dei ricordi» (Barnes J., 2012). E’ un tempo che sa accelerare, ma contemporaneamente innestare, se serve, anche la retromarcia. Noi adulti stiamo lasciando a questi ragazzi un’eredità scomoda. Oggi, sempre più spesso, gli adolescenti non fanno progetti, e la società nella quale vivono non compie alcuno sforzo per spingerli a guardare lontano. Ma è possibile educarli se non si ha idea del futuro? Non esiste educazione al presente. «L’educazione ha senso solo se si ammette una crescita, una maturazione, la possibilità di plasmare un essere in crescita» (Andreoli V., 2014). C’è la tendenza ad essere tutti uguali: si parla di emulazione, un atteggiamento molto diffuso tra gli adolescenti. La società nel suo insieme ha addirittura ammazzato il futuro. I giovani sono spesso disinteressati e si rifiutano di imparare un lavoro, forse per l’incertezza a comprendere e a delineare il futuro. Stiamo vivendo un momento di crisi globale anche perché, negli ultimi 30 anni, abbiamo cambiato il senso di alcune parole, e abbiamo dato una connotazione fortemente negativa a termini come “normale”, “mediocre”, “accontentarsi”. Nessun ragazzo può più permettersi di dire “vivo una vita normale”. Ma perché questo? Cosa c’è di male e cosa c’è di più bello che condurre una vita normale. Frequentando i ragazzi ammalati, ho capito cosa significa e quanto importante sia condurre una “vita normale”. «[…] Mi piace comparare la mia storia alla scelta fatta da un atleta per coronare il sogno di vincere le Olimpiadi. Duri allenamenti per raggiungere la forma perfetta. Io non ho mai scelto di gareggiare alle Olimpiadi ma qualcuno ha deciso che dovevo fare l’atleta» (Chiara C. in “Non chiedermi come sto, ma dimmi cosa c’è fuori”, 2008).

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Io e tante persone che lavorano nel mio gruppo, ci siamo fermati ad ascoltare le “urla bisbigliate” di questi ragazzi che cercavano di ritrovare una vita normale. Per sentirli, però, abbiamo dovuto non solo fermarci ma anche spogliarci del nostro ruolo, scendere dal piedistallo e attendere perché non si sa quando queste urla arriveranno. Se siamo in tanti sentiamo meglio, il nostro sentire si amplifica e diventa il sentire di tutti, soprattutto fuori dall’ospedale. «Abbiamo solo 21 lettere, ha detto il maestro. Con quelle dovremo fare tutto: ridere, piangere, consolare, amare, contraddirci. Dire quando siamo felici, non far capire quando non lo siamo più, ingoiare una parola che potrebbe ferire, tenercene una tra le mani come una cosa fragilissima e preziosa» (Baiani A., 2014). Guardare fuori dall’ospedale significa anche trasmettere un segnale importante agli altri giovani, quelli “non malati”, che «a colpi di rimozioni percettive rimuovono tutto quello che riguarda la malattia, la sofferenza, il disagio, l’handicap, amputando progressivamente la sensibilità al punto da rendere il loro cuore un “povero cuore”» (Galimberti U., 2007). Mi rendo conto di essere ben lontano dagli anni dell’adolescenza e non voglio mescolarmi con loro, tantomeno essere “uno di loro”. Voglio che gli adolescenti capiscano che mi sento inadeguato tra loro, ma che desidero condividere la mia esperienza con loro. E’ un po’ come con i figli: vorresti essere il loro esempio, ma contemporaneamente devi riconoscere la loro unicità, dobbiamo lasciarli andare... Non puoi condurli, puoi solo trasmettere la tua esperienza. Esperienza è un termine importante, che suscita rispetto, ma allo stesso tempo è un concetto morente perché finisce e si consuma con chi la trasmette, per poi rinascere in un’altra persona. Per trasmettere la nostra esperienza dobbiamo però imparare a fermarci, che non vuol dire arrendersi, ma accettare e permettere a qualcun altro di sorpassarci, di prendere il nostro testimone, accettare che chi ci sta accanto possa crescere. 244


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Vivendo quotidianamente con molti giovani malati di tumore, parlando con loro e leggendo i loro scritti, mi sono spesso fermato e ho avuto molte volte la sensazione, la bella sensazione, di essere stato sorpassato. Bibliografia Papa Francesco, Messa Crismale in San Pietro, ottobre 2013, http://www.news.va/it/news/messa-crismale-papa-francesco-i-sacerdoti-siano-pa Panizon F., Lo sviluppo Umano, Medico & Bambino, 2013. Andreoli V., L’educazione impossibile. Orientarsi in una società senza padri, Rizzoli, 2014. Del Giovane B., La lezione di Seneca: la “dimensione qualitativa” del Tempo, marzo 2012, http://www.altd. it/2012/03/19/la-lezione-di-seneca-la-dimensione-qualitativa-del-tempo/ Ferro T., Il tempo stesso, 2008. Barnes J., Il senso di una fine, Einaudi 2012. Centro Riferimento Oncologico Aviano - Area giovani, Non Chiedermi Come Sto Ma dimmi Cosa c’è Fuori, Mondadori, 2008. Baiani A., La vita non è in ordine alfabetico, Einaudi, 2014. Galimberti U., L’ospite inquietante, 2007.

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CURA E SIGNIFICATO: DALLA COMPETENZA ALLA CONSAPEVOLEZZA CULTURALE. Ivo Quaranta 1. I presupposti della competenza culturale Nel 2014, sulla base del lavoro biennale di un gruppo internazionale di studiosi, il Lancet ha pubblicato un report su “Cultura e salute”, giungendo all’iconica conclusione che la sistematica disattenzione nei confronti della cultura rappresenti la singola barriera più significativa alla piena promozione del diritto alla salute a livello planetario (Napier et al., 2014: 1610). A partire dalla fine degli anni settanta del Novecento il concetto di competenza culturale ha guadagnato crescente centralità nei dibattiti accademici e nelle strategie istituzionali concernenti la rilevanza clinica delle dinamiche culturali (Betancourt et al., 2002; Brach & Fraser, 2000; Campinha-Bacote, 1999, 2002; Leininger, 1978, 1985; Purnell, 2000; Purnell & Paulanka, 2008; Sue, 2006). Tuttavia, come argomenteremo in queste pagine, spesso i presupposti su cui tali dibattiti si sono fondati hanno minato le migliore intenzioni dietro le strategie di inclusione delle variabili socio-culturale nei contesti di cura. Pensiamo alla definizione che Madeleine Leininger (1985) offrì del concetto di cultura nei termini di un insieme, acquisito e condiviso, di valori, credenze, norme e pratiche che agiscono come un modello per orientare il pensiero, le decisioni e le azioni dei membri di un determinato gruppo. Questa definizione ha costituito per lungo periodo il fondamento delle strategie attraverso cui si è cercato di adeguare i servizi sanitari alle sfide poste da un utenza sempre più caratterizzata da pluralismo culturale, come si evince dal celebre lavoro di Cross e colleghi: [La competenza culturale] rappresenta un insieme coerente di comportamenti, atteggiamenti e politiche che mettono in condizione un sistema, un’agenzia o un insieme di professionisti di lavorare efficacemente in situa246


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zioni trans-culturali…[al fine di] riconoscere e incorporare – a tutti i livelli – l’importanza della cultura, la valutazione delle relazioni interculturali, la vigilanza sulle dinamiche emergenti dalle differenze culturali, l’espansione delle conoscenze culturali e l’adeguamento dei servizi a favore di bisogni culturalmente specifici” ( Cross et al., 1989).

Su queste tematiche anche l’antropologia medica ha dato il suo contributo, producendo evidenze relative alla natura squisitamente culturale sia dell’esperienza di malattia, sia dei saperi e delle pratiche mediche (Good, B., 1994; Eisenberg L. & A. Kleinman, 1981; Hahn, R. & A. Gaines, 1985; Kleinman, A.,1980; Lock M. & D. Gordon 1988; Quaranta, 2006). È, tuttavia, un fatto che tanto nella letteratura quanto nelle strategie organizzative ci si sia soffermati assai più sulle sfide poste dalle differenti elaborazioni culturali dell’esperienza di malattia, con particolare – se non esclusivo – riferimento ai pazienti migranti, di quanto non si sia prestata attenzione alla natura squisitamente culturale dei servizi erogati; in altre parole, il concetto di cultura è stato utilizzato come dispositivo attraverso cui rendere conto dell’alterità e del suo perché. Questo atteggiamento, facilmente comprensibile, ha alimentato l’opposizione fra scienza e cultura, come se quest’ultima fosse un ostacolo da arginare o rimuovere al fine di promuovere una corretta ed efficace pratica del sapere scientifico. Nei dibattiti sulla competenza culturale, la cultura è stata, infatti, spesso rappresentata come attributo esclusivo dell’altro, come se i saperi e le pratiche della biomedicina si fossero evoluti oltre il regno del condizionamento culturale. È l’altro ad avere (o a rappresentare) il problema. Alla luce di tali presupposti, la competenza culturale viene vista come quella conoscenza che permette agli attori sanitari di interagire in modo efficace con la differenza incarnata dall’altro, al fine di non vanificare l’efficacia del proprio operato tecnico-scientifico. L’altro viene così eletto a oggetto di una conoscenza da 247


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acquisire al fine di essere competenti (Manderson & Reid, 1994). Ci troviamo di fronte a una vera e propria visione del mondo in cui il concetto di cultura emerge come una barriera (Kumas-Tan et al., 2007) da ridurre ogni qual volta i “portatori” di una cultura “diversa” entrano in contatto con i servizi sanitari, la cui capacità di rispondere efficacemente dipende dalle conoscenze sulla cultura di riferimento dell’utente: maggiore la conoscenza, migliore la competenza (Harrison & Turner, 2010). 2. Oltre il mosaico culturale Al cuore di questo atteggiamento giace la visione della cultura come un sistema di simboli, di conoscenze, di credenze, di significati che le persone hanno in quanto membri di un gruppo. A cascata questa visione produce l’idea di un mosaico di mondi culturali differenti e incommensurabili (Epstein, 2009; Hannerz, 2001). Un mondo del genere non può che richiedere una conoscenza enciclopedica dei diversi contesti culturali che lo compongono. La competenza così definita è concepita come una sorta di atlante culturale dei diversi gruppi umani. Questa visione del concetto di cultura chiaramente celebra le differenze fra i gruppi sociali, a discapito delle connessioni, delle congiunture, delle ibridazioni, dei prestiti, delle trasformazioni, da un lato, e delle differenze entro i contesti (di carattere generazionale, religioso, socio-economico, di genere, di status giuridico, ecc.) dall’altro (Appadurai, 2001). A questa visione del concetto di cultura è stato, negli ultimi decenni, attribuito l’aggettivo di essenzialista: la cultura sarebbe una sostanza che i membri di un gruppo sociale condividono fra loro, differenziandosi così da altri gruppi sociali (Remotti, 2011). Molti studiosi hanno parimenti messo in luce come tale immagine risenta pesantemente dell’esperienza storica dello stato nazionale come modalità culturale di immaginare l’identità di un gruppo accomunato, appunto, da: un comune territorio, di cui si condivide la storia, la lingua e dunque la cultura. Del resto non è una novità 248


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che in epoca coloniale gli europei abbiano proiettato le proprie categorie concettuali per pensare l’altro, immaginando il modello storicamente emerso in Europa come naturale parametro per pensare l’identità e dunque le differenze (Amselle, 1990). Un ulteriore corollario di questa visione del concetto di cultura e della competenza culturale è quello di ridurre alla relazione fra utente e servizi (più o meno “competenti”) la responsabilità di eventuali forme di discriminazione e di etnocentrismo, senza problematizzare il ruolo che più ampi fattori sociali possono giocare nel promuovere forme di esclusione e di limitazione dei diritti. Definire il miglior interesse nei pazienti (stranieri?) attraverso la competenza culturale rischia in altre parole di distrarre l’attenzione dal ruolo eziopatogenetico dei determinanti sociali di salute, con il rischio di biasimare la vittima per le sue condizioni di salute (Farmer, 2003; Papps & Ramsden, 1996; Kleinman & Benson, 2006; Marmot & Wilkinson, 2005). Nuovamente il report del Lancet è in proposito illuminante: Cultural competence training at its worst creates an idea of culture as a thing “made synonymous with ethnicity, nationality and language” (Kleinman and Benson, 2006), and that can be taught as though it can be satisfied using a checklist—do this, not that. Under such conditions, doctors who have been trained in cultural competence can often misattribute cultural reasons to patient issues, rather than recognise that patient difficulties can be equally economic, logistic, circumstantial, or related to social inequality. Those studying health care need to appreciate what is as yet unknown and the processes by which new knowledge can be obtained. To teach culture as a fixed perspective on illness and clinical behaviour risks the promotion not only of mediocre care, but also of poor strategies to address difficulties that emerge in socially complex treatment environments (Napier et al., 2014: 1616).

Non si tratta dunque di una questione ideologica, ma della constatazione di quanto una siffatta visione del con249


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cetto di cultura non ci consenta di interrogare la complessità che caratterizza la nostra realtà sociale. 3. Superdiversità e intersezionalità S. Vertovec in tempi recenti ha proposto il concetto di super-diversità con l’obiettivo di mettere in luce la crescente diversificazione delle differenze a seguito della mutata natura dei processi di migrazione su scala globale. Nella prospettiva dell’autore non si tratta tanto di sottolineare quanto il crescente movimento di persone produca la presenza di maggiori “etnie”, “linguaggi” o “culture” in un dato contesto sociale. Piuttosto si tratta di prestare attenzione alla moltiplicazione delle diversità che possono caratterizzare dove, come e con chi le persone vivono. In altre parole, pensare la diversità solo in termini culturali, quando si ha a che fare con pazienti stranieri, ad esempio, elide la possibilità di dare pari rilevanza ad altre dimensione del loro mondo vissuto. Basti pensare allo status giuridico, alle condizioni lavorative e abitative, alle molteplici configurazioni cui le differenze religiose, sessuali, di genere possono dare vita, le forme di (mal-) accoglienza e di inclusione/esclusione, stigma, stereotipi, discriminazioni, ecc. (Phillmore, 2010). È alla dinamica interazione di queste variabili che Vertovec pensa nel proporre il concetto di super-diversità, intesa come una mutevole trasformazione della diversità stessa (Vertovec, 2007). La grande fortuna del concetto di super diversità (Vertovec 2014) testimonia la crescente esigenza di evitare semplicistiche riduzioni della complessità che caratterizzano le dinamiche e le configurazioni sociali in cui tessiamo le trame delle nostre vite. A tal riguardo il concetto di inter-sezionalità (Crenshaw, 1989, Hankivsky, 2012) ci aiuta nel mettere in luce quanto l’appartenenza culturale sia solo una delle dimensioni attraverso cui il gioco delle differenze caratterizza l’esperienza sociale di ognuno di noi. Ognuno di noi, appunto. Eppure, curiosamente, il concetto di competenza culturale viene generalmente invocato solo quando si ha a che fare con chi decidiamo di classificare 250


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come “altro”, con gli stranieri, con gli immigrati, nei contesti della cooperazione nel sud del mondo, ecc.. È in questo senso che Cattacin e colleghi (2006) preferiscono invocare il concetto di sensibilità per le differenze, piuttosto che quello di competenza calibrata sui modelli culturali di riferimento dei pazienti, come strategia per adeguare i servizi socio-sanitari alla complessità dei bisogni degli utenti. Sulla stessa linea si muovono anche altri autori (Engebretson et al., 2008) nel ribadire l’impossibilità pratica, oltre che concettuale, di una competenza basata sulla conoscenza delle “culture” di riferimento degli utenti, nella misura in cui non fornirebbe indicazioni su quali aspetti di un ipotetico modello culturale emergono come rilevanti e pertinenti nel fare fronte ai bisogni di uno specifico paziente. Johnson & Munch (2009) scoperchiano in modo ancor più evidente le contraddizioni del concetto di competenza culturale nel mettere in luce come essa contraddica il mandato stesso degli operatori che devono avere come obiettivo proprio quello di privilegiare la narrazione del paziente. 4. Ripensare la competenza culturale Ad emergere in modo sempre più sistematico è dunque un atteggiamento volto a ridefinire il concetto di competenza non già come ritagliato sulla conoscenza di specifiche pratiche culturali compatibili con un modello simbolico di riferimento. Domenig (2007, in Chiarenza, 2012) ben sintetizza questa posizione segnalando come il mondo vissuto dei soggetti (migranti o meno) non può essere colto riferendosi a modelli essenzializzati di cultura come l’approccio della Leininger suggeriva. Le analisi antropologiche volte a mettere in discussione l’idea stessa di diverse culture come mondi chiusi e autosufficienti inizia negli ultimi anni a divenire finalmente terreno comune nei dibattiti sulla competenza culturale parallelamente alla sfida di considerare non solo le differenze entro i gruppi come variabile significativa, ma la necessaria multidimensionalità della vita e dunque dei bisogni dei soggetti individuali, difficilmente 251


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rappresentabili solo attraverso l’asse della differenza culturale (Kleinman & Benson, 2006). Come suggerisce Antonio Chiarenza: «there are no ‘culturally unique needs’, (con buona pace di Cross e colleghi, 1989) as people’s needs are constituted at the intersection of many identities. The more multidimensional the care provider tries to make this picture, the lower the chance of being able to know the client’s culture in advance» (2012: 75). Sulla stessa linea Harrison e Turner (2010) riportano i risultati di uno studio dedicato al significato che gli operatori attribuiscono all’erogazione di servizi culturalmente competenti. Interessante il fatto che, sebbene gli intervistati concordino sul fatto che il concetto di cultura fornisca la cornice attraverso cui le persone interpretano il mondo, essi sottolineano anche il fatto che la cultura con possa essere vista come un sistema statico e deterministico. Piuttosto che acquisire conoscenze sui singoli mondi culturali, gli operatori intervistati sostengono che la competenza va di pari passo con lo sviluppo di un atteggiamento di apertura, di riflessione e di rispetto nei confronti delle molteplici differenze che segnano le vicende biografiche di un individuo. È in questa forma di competenza che intravedono il terreno per l’acquisizione di un sapere critico sull’altro (sia esso straniero o meno). Un siffatto atteggiamento, definito come critico e rispettoso al tempo stesso, di molteplici fattori che concorrono nel plasmare il significato delle vicende personali è ben tradotto dal concetto di umiltà culturale (Tervalon & Murray-Garcia, 1998). Tale concetto è radicato nella constatazione che siamo tutti diversi e dunque anche gli operatori non possono prescindere da una considerazione critica del proprio sapere e delle proprie pratiche come connotate culturalmente. Se uno dei più grandi limiti dei dibattiti sulla competenza culturale è stato rappresentato dalla distorta percezione che la cultura non informi anche le nostre vite e parimenti le “nostre” esperienze e i “nostri” saperi, ivi inclusi quelli della biomedicina, con il concetto di umiltà culturale si realizza uno slittamento significativo nella direzione opposta. 252


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Allo stesso modo, l’altro aspetto particolarmente critico della competenza culturale (il concetto di cultura come modello di riferimento simbolico per i membri di un gruppo) inizia a cedere il passo alla consapevolezza che la conoscenza dell’altro possa essere prodotta solo attraverso la relazione di cura, da intendersi come momento di co-produzione di una reciproca comprensione. Come Ben-Ari e Stirer (2010) mettono in luce, infatti, gli operatori sanitari dovrebbero investire nella relazione con il paziente (straniero o meno) attraverso un atteggiamento conoscitivo volto a far emergere il loro mondo morale locale (Kleinman, 2006), ovvero cosa emerge come pertinente e rilevante nel plasmare e dare significato alle loro esperienze di vita e di malattia. Tale apertura non può che essere radicata in un atteggiamento di valorizzazione della prospettiva dei pazienti, a sua volta radicata nel superamento della contrapposizione fra conoscenza scientifica e conoscenza popolare, scienza e credenza, natura e cultura. Le nuove parole chiave per sostanziare la competenza culturale sembrano essere quelle di auto-riflessività (personale e istituzionale) e di umiltà culturale, organicamente correlate alla constatazione che la relazione di cura debba essere intesa come momento di co-produzione dei significati che qualificano l’esperienza di malattia al fine di rispondere adeguatamente ai bisogni dei pazienti. 5. La consapevolezza culturale per una nuova competenza medica Il mancato riconoscimento della natura culturale del proprio sapere e del proprio operato è forse, oggi, il più grande limite negli approcci alla competenza culturale, nella misura in cui previene quell’atteggiamento auto-riflessivo necessario a promuovere un reale ripensamento delle pratiche di cura in termini culturali. Tale riconoscimento non è solo il prerequisito fondamentale per dare dignità alle prospettive dei pazienti, ma rappresenta il fondamento stesso per un allargamento del concetto di efficacia in senso alla stesse pratiche biomediche. Come ribadisce il report del Lancet, infatti: 253


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Health-care providers should also acknowledge their own cultural values and consider them as such, and organisations should invest in understanding how their practices and values are cultural. Culture is not something that irrationally limits science, but is the very basis for value systems on which the effectiveness of science depends (Napier et al., 2014: 1630).

Riconoscere la natura culturale del lavoro clinico non significa certo de-legittimarlo. Al contrario, significa divenire consapevoli dei processi che agiscono nel vivere il proprio agire culturale come naturale. A qualificare il ragionamento antropologico è il presupposto che ogni forma di conoscenza, ivi inclusa quella scientifica e medica, non possa che essere un prodotto storico-culturale che, in quanto tale, prende forma attraverso specifici assunti circa la natura dell’essere umano, della malattia e, in ultima analisi, della realtà (si veda per una sintesi: Quaranta, 2006). A caratterizzare culturalmente la biomedicina è, infatti, una specifica visione della malattia nei termini di un’alterazione nella struttura e/o nel funzionamento dell’organismo bio-psichico individuale. Questa visione della malattia, emersa attraverso dinamiche storico-culturali che possono essere rintracciate nel corso degli ultimi ventiquattro secoli, ha certamente permesso alla biomedicina di produrre elevatissimi livelli di efficacia. È proprio in virtù del suo concentrarsi principalmente sulle dimensioni anatomico-fisiologiche dell’organismo individuale, pensato in termini bio-psichici, che la biomedicina ha potuto elaborare tecniche di intervento terapeutico capaci di produrre significative trasformazioni su tali livelli di realtà, a discapito però di altre dimensioni che pure partecipano della realtà della salute e della malattia. Si tratta in altri termini di un processo di selezione di quali aspetti debbano essere presi in considerazione. Nel considerare le dimensioni anatomico-fisiologiche dell’organismo bio-psichico come unico ambito in cui si manifesta la realtà della malattia, si corre però il rischio di non cogliere come rilevanti altre dimensioni di quella complessa realtà umana che difficilmente possiamo ridurre a 254


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mera patologia. Il primo aspetto che rischia di essere fortemente messo tra parentesi dal riduzionismo biomedico è il significato che i pazienti attribuisco alle loro esperienze di malattia (ma non solo: Quaranta & Ricca, 2012). Riconoscere la natura culturale del proprio sapere medico fonda una pratica del riconoscimento in cui la prospettiva stessa dei pazienti emerge come una modalità di plasmazione simbolica della realtà della malattia. Sarebbe imperdonabile parlare di due modelli culturali, quello del medico e quello del paziente, nei termini di due universi simbolici distinti e incommensurabili: equivarrebbe a spostare sul piano della relazione di cura le storture dei modelli essenzialisti di cultura, precedentemente discussi. Sul piano della relazione di cura, una visione essenzialista non solo rischia di precludere la comprensione degli specifici rapporti sociali e di senso che informano l’esperienza dei pazienti, ma li priva anche del loro ruolo di attori culturali, schiacciandoli sul modello culturale ascritto. Questa forse è la conseguenza più problematica ai fini del nostro ragionamento dei modelli teorici che hanno finora orientato i dibattiti sulla competenza culturale. Questa reificazione della cultura oscura la natura processuale della produzione e della negoziazione dei significati radicati nell’esperienza vissuta degli attori sociali (Kaufert 1990). Al fine di tradurre in termini operativi una visione processuale della cultura in ambito clinico può essere utile considerarla non solo come qualcosa che le persone hanno in quanto membri di un gruppo, ma anche come qualcosa che essi fanno nel contesto delle loro relazioni e interazioni sociali. Considerare con Marylin Strathern (2000) la «cultura nel suo farsi» non implica mettere tra parentesi le dimensioni collettive, storicamente profonde, delle dinamiche culturali, quanto piuttosto segnalare la necessità di cogliere anche le dimensioni attraverso cui i soggetti culturali si appropriano creativamente dei repertori collettivi di saperi e pratiche, segnalando la natura intrinse255


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camente aperta e dinamica della produzione culturale (Ortner, 2006). Come suggerisce Arjun Appadurai (2004), la cultura va intesa come un dialogo fra aspirazioni e tradizioni sedimentate, consapevoli che ignorare uno dei due poli di tale dialettica implica inevitabilmente forme di riduzionismo. Considerare il solo “peso della storia” confinerebbe i soggetti culturali alla loro meccanica e deterministica appartenenza a un gruppo sociale (gli italiani credono che…); parimenti, celebrare il loro unico ruolo di attori rischia di privilegiare un individualismo incapace di cogliere le implicite logiche culturali che orientano le esperienze e il loro valore morale. Queste considerazioni assumono una veste eminentemente pratica proprio quando ci si sofferma sull’esperienza di malattia. Molti studi hanno messo in luce come a caratterizzare l’esperienza di malattia spesso sia proprio la difficoltà degli afflitti di collocarsi all’interno di uno scenario di senso, rendendo particolarmente frustrante il lavoro anche di chi, animato dalle migliori intenzioni, si trova a scontrarsi con l’assenza di una prospettiva di cui tenere conto (Garro, 1992; Good, 1994; Leder, 1990; Scarry, 1990; Toombs, 2001). La malattia, infatti, non avviene esclusivamente al livello dell’organismo che abbiamo, ma anche del corpo che siamo (Csordas, 2002; Good, 1994). L’idea che il corpo sia esclusivamente un meraviglioso organismo biopsichico su cui intervenire a livello tecnico ha prodotto l’elisione del corpo come terreno esistenziale del sé e della cultura. Non solo siamo corpi, ma il corpo è anche il soggetto attivo dell’esperienza, ovvero partecipa attivamente nella produzione di quei significati attraverso cui interpretiamo la realtà e qualifichiamo la nostra esperienza di essa (Csordas, 1990). In ottica antropologica l’uomo è considerato come biologicamente incompleto, in virtù del fatto che le informazioni trasmesse a livello bio-genetico non sono sufficienti a garantire la nostra sopravvivenza. È solo all’interno di un gruppo sociale che ci accoglie che apprendiamo quelle tecniche e quegli strumenti concettuali che 256


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ci consentiranno di orientarci attivamente nel mondo. Come sottolinea Francesco Remotti (2011), ci troviamo di fronte ad una seconda nascita sociale che si configura nei termini di un processo di completamento culturale dell’essere umano. In questo senso la natura umana viene ad essere intesa come costitutivamente culturale. È evidente a questo punto come ad essere universalmente umana è proprio la nostra dipendenza da specifici processi di costruzione culturale che vedono nella differenza un elemento irriducibile dell’umanità (Comaroff, 1981). A caratterizzare tuttavia le nostre forme di esperienza è una profonda elisione delle dimensioni collettive e storico-culturali della natura umana. Tale elisione è radicata nella natura stessa dei processi di plasmazione culturale dell’essere umano: essi infatti sono processi che si realizzano in modo informale, nella pratica esposizione ad un mondo sociale di cui incorporiamo i valori e le forme simboliche attraverso cui si realizza simultaneamente la nostra plasmazione e di conseguenza i nostri atteggiamenti nei confronti della realtà. Possiamo così parlare di una complicità ontologica fra soggetto e mondo, in virtù del fatto che interpretiamo la realtà attraverso i processi culturali della nostra plasmazione. Detto altrimenti, ci rapportiamo al mondo attraverso i processi della nostra plasmazione culturale. Il corpo non è un “elemento” marginale in tale processo di costruzione della realtà e di occultamento del nostro ruolo generativo. Da un lato, infatti, è attraverso le loro iscrizioni sui corpi che il sapere e l’ordine sociale vengono naturalizzati: nel penetrare l’esperienza vissuta, la loro storicità e contingenza recedono dalla sfera della consapevolezza. È attraverso questo processo di incorporazione che l’ordine sociale assume le vesti della naturalezza e della necessità, e che i processi socio-politici che lo sostengono vengono ad essere opacizzati nell’immediatezza dell’esperienza vissuta. Dall’altro lato è in quanto corpi culturalmente informati che percepiamo il mondo, interpretandolo percettivamente prima ancora di renderlo oggetto di una riflessione linguistica e cognitiva esplicita. Come suggeriscono le prospettive fenomenologiche, percependo il mondo lo intenzioniamo prima an257


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cora di categorizzarlo. In virtù del fatto che tale processo è pre-categoriale, pre-oggettivo, pre-concettuale, percettivo appunto (ma non pre-culturale!), gli esseri umani sono artefici della costruzione culturale della realtà senza necessariamente esserne consapevoli (Csordas, 1990). Va da sé che la crisi del corpo produca una crisi nel nostro stesso esserci nel mondo, andando a minare le radici corporee della significazione. Certamente non possiamo ridurre la natura dei processi culturali alle sole dimensioni dell’esperienza soggettiva: dobbiamo piuttosto guardare all’esperienza nei termini della dimensione vissuta dei processi culturali. La malattia, andando a minare le dimensioni esperienziali della significazione – le sue radici corporee – produce una vera e propria crisi in quel silente, ancorché costitutivo, processo di produzione di significati attraverso cui abitiamo la realtà come se questa fosse dotata di una sua autonomia di senso. È in questa ottica che l’esperienza di malattia genera un processo di dissoluzione del mondo vissuto, ovvero di quella rete di rapporti inter-soggettivi su cui poggia implicitamente la nostra abituale esperienza del/nel mondo (Good, 1994; Scarry, 1990). Se a caratterizzare l’esperienza di malattia - ma Ernesto De Martino (1995) ci insegna che molteplici sono le esperienze umane caratterizzate da tale processo, in cui la nostra presenza nel mondo può entrare in crisi – è precisamente una crisi del nostro ruolo di attori culturali, difficilmente si potrà procedere a una mera estrapolazione della prospettiva del paziente. Essa piuttosto andrà prodotta, compatibilmente con quella visione della cultura nei termini di un processo intersoggettivo di produzione di significati attraverso cui interpretiamo la realtà e qualifichiamo la nostra esperienza di essa. Se la cultura è un processo inter-soggettivo, la relazione fra medico e paziente viene ad essere ripensata nei termini di un contesto in cui si pone mano alla co-costruzione di significati: essa emerge dunque come una pratica culturale. È rispetto a questo aspetto che possiamo provare a ripensare la competenza culturale. Se la malattia mina gli assunti su cui riposa la nostra esistenza quoti258


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diana, imponendoci di rinegoziarne di nuovi, è evidente come si tratti di un processo che trascende il corpo e l’individuo, per intaccare quella trama di rapporti intersoggettivi al cui interno l’esperienza personale viene processualmente a definirsi. Il miglior interesse del paziente dunque non può essere tutelato solo attraverso il coinvolgimento del paziente nei processi decisionali attraverso la mediazione linguistico-culturale e il consenso informato, nella misura in cui ad essere messo in discussione è proprio quell’orizzonte inter-soggettivo di significati alla cui luce poter definire in cosa costi il proprio bene e poter operare una scelta in tal senso (Quaranta, Ricca, 2012). A caratterizzare la visione biomedica dei processi decisionali è il presupposto che l’informazione sia il terre- no a partire dal quale operare le proprie scelte. Secondariamente si ritiene che il passaggio dell’informazione garantisca quell’autonomia di giudizio che trasforma il paziente in cittadino e artefice delle decisioni che lo riguardano (Corrigan, 2003). Al cuore di questi presupposti c’è l’immagine della persona concepita come un individuo in grado di auto-determinare se stesso, che va dunque normativamente protetto da eterodeterminazioni. Ma le cose stanno realmente così? Le procedure del consenso informato rappresentano uno dei tanti ambiti in cui cogliamo quel crescente processo di standardizzazione delle procedure che, necessariamente, si basano su modelli idealtipici, se non addirittura astratti. In pratica, i medici e i pazienti si comportano realmente come prevedono le linee guida dei protocolli? Non sono piuttosto i protocolli stessi a emergere come pratiche che pongono in essere una determinata cornice per la relazione e dunque corrispondenti forme di decisione? (Berg, Mol, 1998; Dixon-Woods, Williams, Jackson et al., 2006). Detto altrimenti: non è questo uno dei tanti contesti in cui ci rendiamo conto di quanto le procedure biomediche siano, e non possano che essere, pratiche culturali che pongono in essere un certo di tipo di realtà? L’autonomia è davvero una dimensione intrinsecamente connaturata all’uomo o è tema radicato in una specifica vi259


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sione culturale della persona (Geertz, 1984), tipica di un idiomatico orizzonte storico o, meglio ancora, di alcuni ambiti di un determinato orizzonte storico? E le procedure del consenso informato non possono essere a loro volta viste come modalità attraverso cui particolari presupposti culturali vengono messi in scena – dall’autonomia del soggetto decisionale al presupposto che l’informazione sia garanzia del suo miglior interesse ecc.? Se così fosse, quali conseguenze ne deriverebbero? Senza andare a vedere quel che accade in angoli di mondo remoti, l’individuo è realmente autonomo a casa nostra? Ognuno di noi, nell’operare delle scelte, non tiene forse conto di una molteplicità di fattori, non ultimi quelli che lo vedono emotivamente, costitutivamente intrecciato con una fitta trama di relazioni intersoggettive? Le ricerche antropologiche mettono chiaramente in luce che i modelli idealtipici, a fondamento dei processi decisionali, difficilmente riescono a tenere conto della pragmatica razionalità che guida invece gli attori sociali nell’operare le proprie scelte (Hoeyer, Lynöe, 2006; Mattingly, 1998a). Come è emerso, ad esempio, nel contesto delle scelte terapeutiche di ne vita, le persone spesso si comportano in modo apparentemente contraddittorio, nella misura in cui scelgono quella che ritengono possa essere l’opzione migliore per i loro familiari, e non per se stessi, anche se sono i primi ad affermare che suggerirebbero ai loro cari di fare diversamente (Frank et al., 1998). Tutto questo è comprensibile: di fronte a diagnosi terminali, spesso i pazienti sono maggiormente angosciati dal destino di chi gli sopravvivrà. Giunti ad accettare la morte, difficilmente riescono a sopportare l’idea del dolore di chi si lasceranno alle spalle. Le persone vivono le proprie esistenze in un contesto di relazioni e di significati che danno letteralmente corpo alle loro scelte, in termini che spesso possono non essere allineati alla razionalità clinica. In questo senso gli studi sociali delle scienze e delle tecnologie parlano di “epistemologie civiche” (Jasanoff, 2005) e gli antropologi di “molteplici razionalità” (Garro, 1998a, 1998b; Rossi, 2003).

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Nuovamente, ragionare in termini meramente individuali su questi temi proietta un cono d’ombra sul fatto che alcuni atteggiamenti trovano una ragion d’essere nel più ampio contesto sociale e nelle dinamiche relazionali in cui le persone vivono la loro esistenza. Dal momento che questi fattori entrano prepotentemente nella relazione fra medico e paziente, si impone una riflessione su quali strategie possano essere in grado di tenerne debitamente conto. In questa direzione, nel contesto italiano spesso si ritiene che il miglior modo di prendersi cura dei pazienti stranieri si realizzi attraverso il ricorso alla mediazione linguistico-culturale. Tuttavia, in assenza di un adeguato riconoscimento riflessivo circa la portata culturale del proprio operato, l’uso della mediazione si riduce in molti casi alla sola funzione dell’interpretariato, gestita al ne di assicurarsi che i pazienti abbiano correttamente inteso le informazioni dei medici, ricadendo all’interno del paradigma dell’informazione come chiave di volta dell’autonomia di scelta (nella migliore delle ipotesi) o dell’adesione alle indicazioni prescritte (come accade di norma). Qualora si decida di andare oltre, si ricade spesso nelle trappole dell’essenzialismo culturale, nel senso che si cerca di ricondurre l’esperienza dei pazienti a un qualche modello simbolico di riferimento: che cosa significa parlare di vermi per i nigeriani? Come pensano la disabilità i ghanesi? Lo sconforto di molti è legato proprio alla convinzione, erroneamente fondata sulla visione essenzialistica e discontinuista dei mondi culturali, che una sanità capace di affrontare le sfide di una società caratterizzata da pluralismo culturale dovrebbe farsi carico di una competenza enciclopedica delle differenze culturali, che metterebbe letteralmente in ginocchio il sistema di formazione e di erogazione dei servizi. Se le premesse sono errate, inevitabilmente il ragionamento che ne scaturisce è viziato. Agire nel miglior interesse del paziente, allora, significa impegnarsi nel comune processo di co-costruzione di un significato per l’esperienza di malattia, alla cui luce poter operare una possibile scelta. A questo proposito 261


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Sally Gadow (1980) parla di existential advocacy ovvero della necessità di un’etica relazionale in cui gli operatori sanitari insieme ai pazienti e ai soggetti per loro significativi, si impegnano in tale processo di ricostruzione di un mondo significativo, al fine di garantire il diritto al significato dei pazienti, necessario per prendere qualsivoglia decisione alla luce del valore attribuito alla situazione. Gli approcci narrativi in antropologia medica sono emersi precisamente con questo duplice obiettivo: da un lato, quello di favorire l’analisi dei processi di dissoluzione del mondo vissuto alla cui luce arrivare a comprendere che cosa significhi, per i soggetti coinvolti, una particolare esperienza di afflizione; dall’altro lato, quello di promuovere la partecipazione attiva dei pazienti nella produzione del significato attraverso cui arrivare a dare senso ad una inedita forma di esperienza del/nel mondo (Mattingly, 1998; Mattingly e Garro, 2000). Operativamente tutto questo si traduce nel programmatico e sistematico tentativo di mettere il paziente in condizione di esplorare le proprie “concezioni”, di far emergere una sua prospettiva. La prospettiva del paziente non è dunque assunta come espressione di un qualche modello culturale, ma come un prodotto da realizzare inter-soggettivamente. Le narrazioni sono dunque da intendersi come uno strumento volto a promuovere nel paziente la sua agentività nel processo di produzione di senso, alla cui luce qualificare l’esperienza di malattia, giungendo ad esempio ad accettare l’inevitabilità di una diagnosi e operare delle scelte coerenti rispetto ai nuovi imperativi posti in essere dall’afflizione. Attraverso questi studi si è prodotta la possibilità di ripensare radicalmente il terreno dell’efficacia terapeutica nei termini dell’elaborazione di un significato capace di radicare una rinnovata presenza in un mondo inedito (anche perché quell’esperienza di trasformazione, che culturalmente definiamo guarigione, non potrebbe mai essere un ritorno a una situazione esistenziale di partenza). Generalmente, in ambito medico, definiamo l’efficacia rispetto all’esito prodotto da un determinato intervento terapeutico, ignorando il fatto che altre dimen262


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sioni concorrono nella definizione dell’efficacia stessa (Csordas & Kleinman, 1990). Perché, ad esempio, non si mette in discussione l’efficacia della biomedicina, anche se questa non può produrre un esito di guarigione (come spesso avviene tanto nel caso delle malattie cronico-degenerative quanto in quelle terminali), mentre la si pone in discussione se questa non è in grado di elaborare una diagnosi? Proprio perché la diagnosi è essa stessa un processo di elaborazione di significato per l’esperienza di malattia. Questa considerazione ci porta a prendere consapevolezza di quanto la dimensione del senso sia centrale e fondante quando si ha a che fare con la malattia, anche se il sistema medico la espelle dalla sua ideologia esplicita (Moerman, 2002). L’incapacità di dare senso alle proprie esperienze problematiche emerge dunque come la fonte stessa della crisi, andando a minare la nostra stessa capacità di azione: in che direzione muoversi, cosa fare, se non sappiamo la natura del problema, se questo non ha un significato? È evidente come le dimensioni simboliche dell’efficacia non vadano viste in alternativa all’efficacia della biomedicina, in virtù del fatto che esse sono in realtà sempre presenti, anche in quegli ambiti marcati culturalmente in termini tecnici. Se queste dimensioni simboliche sono sempre presenti, ed informano anche le pratiche biomediche più riduzioniste, diventarne consapevoli apre uno spazio di operatività altrimenti precluso. Volenti o nolenti l’azione medica partecipa di processi di produzione simbolica che gli approcci narrativi cercano di ricondurre in seno ad una consapevole azione, volta precisamente a coinvolgere i pazienti nel processo di produzione di un senso alla cui luce operare delle scelte. Si tratta di espandere la portata del concetto di efficacia terapeutica includendovi non solo le possibili trasformazioni che le tecniche di intervento terapeutico possono produrre a livello anatomico-fisiologico, ma anche le trasformazioni legate ai rapporti di senso che vanno rinegoziati a seguito di quei processi di dissoluzione delle certezze generate dalla crisi del corpo nel mondo. Compatibilmente con quanto detto sinora, è evidente come la questione centrale sia legata al rapporto 263


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costitutivo fra esperienza e produzione di significato (Csordas, 2002). A produrre una trasformazione dell’esperienza non è il significato in sé, trasmesso ad esempio nella comunicazione di una diagnosi, ma la produzione stessa del significato (Quaranta, 2012). Per questo è fondamentale il coinvolgimento del paziente, favorendo le condizioni affinché possa fare chiarezza a se stesso su quali siano le questioni centrali in ballo nelle proprie vicende di malattia. A questo livello l’antropologia medica può emergere come un partner dialogico forte della biomedicina. Se quest’ultima, attraverso le sue tecniche di intervento, può generare trasformazioni significative sul piano dell’organismo bio-psichico, l’antropologia ha da offrire strumenti per promuovere le dimensioni simboliche della trasformazione del sé, attraverso cui rinegoziare i termini della propria esistenza. Se il diritto al significato emerge come una dimensione fondamentale nella relazione fra medico e paziente, esso gioca un ruolo capitale anche nel confronto con altri saperi terapeutici. Il riduzionismo biomedico infatti non rischia solamente di elidere la pertinenza della prospettiva del paziente, ma anche di delegittimare visioni differenti della realtà clinica. Questa tematica emerge come centrale in termini operativi quando ci si trova a dover promuovere la produzione del significato dell’esperienza di malattia con pazienti stranieri che invocano orizzonti di senso culturalmente lontani dai nostri abituali riferimenti simbolici. È opportuno ribadire anche uno degli equivoci già segnalati, secondo cui le dimensioni simboliche della cura non sono pertinenti solo quando si ha a che fare con pazienti stranieri o con problemi di salute mentale. Piuttosto a caratterizzare la relazione terapeutica con pazienti stranieri è la necessità di riflettere esplicitamente su dinamiche che sono sempre in atto, ma che avvengono in modo inconsapevole quando si ha a che fare con pazienti con i quali c’è una forte condivisione implicita di quegli assunti silenti su cui poggia il nostro incorporato modo di esserci nel mondo. 264


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A qualificare dunque l’incontro con pazienti stranieri è la necessità di riflettere esplicitamente su quelle dimensioni simboliche che sono sempre e comunque presenti nella relazione. Il rischio è che, forti dell’ideologia scientista della biomedicina, gli operatori traducano la differenza culturale come errore, andando così a minare precisamente quelle dinamiche inter-soggettive di co-costruzione del significato dell’esperienza di cui abbiamo già discusso. Nuovamente, in modo implicito, una serie di dicotomie arrivano a plasmare i nostri atteggiamenti pratici: noi/altri, scienza/credenza, verità/errore. La possibilità a questo punto di riconoscere il diritto al significato non può che passare da un previo riconoscimento auto-riflessivo della natura parimenti culturale delle nostre forme mediche, nuovamente non volto alla loro delegittimazione, ma al riconoscimento della loro selettività culturale. Solo allora ci si potrà seriamente interrogare sul significato veicolato da linguaggi terapeutici ed esperienze di sofferenza, più o meno differenti rispetto alle nostre abituali categorie. La consapevolezza auto-riflessiva della natura culturale del proprio sapere e delle proprie pratiche mediche emerge a questo punto come prerequisito per ripensare la relazione di cura come momento di co-produzione culturale. La cultura dunque viene ripensata come quel processo attraverso cui si producono inter-soggettivamente i significati che qualificano l’esperienza. Se al riduzionismo biomedico viene imputata la trasformazione di una relazione umana in un atto tecnico (secondo una logica che attribuisce la professionalità e la razionalità dell’agire alla capacità di mantenersi personalmente distaccati, e dunque emotivamente non coinvolti), sarebbe imperdonabile cercare di rimediarvi in termini parimenti tecnici, attraverso la meccanica invocazione di un qualche modello culturale sotto cui sussumere l’esperienza del paziente. La consapevolezza della nostra dipendenza da significati culturali e insieme alla consapevolezza che tali significati emergono dalle pratiche inter-soggettive ci impone la necessità di ritornare alla dimensione della relazione inter-personale come terreno esistenziale della 265


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produzione del significato e dunque del valore dell’esperienza stessa. Sally Gadow (1980, 1989) mette in luce, attraverso le sue esperienze di ricerca, come spesso i medici resistano a questo approccio, sostenendo che, aprendosi alle dimensioni personale della sofferenza, oltre al burn-out rischierebbero anche un coinvolgimento che potrebbe minare la propria capacità di giudizio professionale. La studiosa mostra come sia piuttosto vero il contrario: attraverso il duplice processo di personalizzazione del professionale e di professionalizzazione del personale non solo aumenta il livello di soddisfazione dei pazienti, ma anche quello dei medici. A produrre l’esperienza di burn-out, in questo caso, non sarebbe tanto il coinvolgimento personale, ma il disagio vissuto rispetto alla violenza iscritta nell’astrazione della malattia come mera patologia. Detto in altre parole: se ci si apre alle dimensioni personali senza sapere come valorizzarle, allora si vivrà un profondo disagio circa la loro elisione attraverso un atteggiamento riduzionista e universalizzante. Se, di contro, ci si impegna nel promuovere il coinvolgimento del paziente nel processo di chiarificazione di cosa debba essere rilevante nella propria vicenda di malattia, non solo non si vive la frustrazione del dover ridurre il vissuto a meri processi organici, ma si vive la profonda soddisfazione di aver espletato al meglio il proprio mandato. Un’altra obiezione a quanto detto sinora potrebbe riferirsi al fatto che la tempistica del lavoro medico difficilmente consente un investimento nella relazione con il paziente tale da favorire tale processo di elaborazione dell’esperienza. Nuovamente abbiamo bisogno di riconfigurare i termini della questione: se infatti guardiamo all’intero processo terapeutico, quello che la ricerca in ambito medico-antropologico indica è piuttosto il contrario (Csordas & Kleinman, 1990). Investire sulla relazione produce complessivamente una maggiore efficienza del sistema medico. Detto in altri termini: investire sul fronte dell’efficacia simbolica riduce i tempi complessivi del processo terapeutico, configurandosi nei termini di una virtuosa sinergia fra efficacia ed efficienza. Evidentemente per realizzare una tale sinergia bisogna interve266


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nire tanto sul fronte della formazione quanto su quello della riorganizzazione dei servizi, in termini compatibili con la possibilità di espletamento pratico di tali principi (Quaranta, Ricca, 2012). In conclusione, l’invito è quello di portare al livello della consapevolezza metodologica la nostra inevitabile natura culturale, al fine di ampliare lo spazio dell’agire terapeutico, rendendolo capace di includere operativamente la dimensione morale, del significato e del valore dell’esperienza di malattia. Quest’ultima, come abbiamo visto, acquista valore alla luce dei significati attraverso cui la viviamo inter.soggettivamente. Spogliarla di tali qualificazioni simboliche significa privarci di una dimensione fondamentale dell’efficacia terapeutica e, in ultima istanza, della nostra umanità. Bibliografia Amselle, J.L, Logiche meticce. Antropologia dell’identità in Africa e altrove, Bollati Boringhieri, Torino, 1999. Appadurai, A., Modernità in polvere, Roma, Meltemi, 2001. Appadurai, A., The Capacity to Aspire: Culture and the Terms of Recognition, in Vijayendra Rao, and Michael Walton, Culture and Public Action, Stanford: Stanford University Press, 2004: 59-82. Ben-Ari, A. & Strier, R., Rethinking cultural competence: what can we learn from Levinas. British Journal of Social Work, 40, 2010: 2155-2167. Berg, M., Mol A., Differences in Medicine. Unraveling Practices, Techniques, and Bodies, Durham: Duke University Press, 1998 Dixon-Woods, M.et al., Why do women consent to surgery, even when they do not want to? An interactionist and Bourdieusian analysis, Social Science and Medicine, 62, 11, 2006: 2742-53. Betancourt, J., Green, A. & Carrillo, E., Cultural competence in health care: emerging frameworks and practical approaches. New York: Commonwealth Fund, 2002.

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LE DIMENSIONI DELLA SPIRITUALITA’ NELLA MALATTIA Padre Alberto Maggi Conversazione con: Gioacchino Pagliaro, Giuliana Gemelli, Omar Bortolazzi, Gabriele Galli, Don Erio Castellucci. (18 aprile 2015) Esaminiamo questa tematica dal punto di vista della mia competenza – che è molto limitata – ed è quella dei vangeli. Inizio rifacendomi alla mia esperienza: la scoperta improvvisa di una malattia grave. Normalmente all’inizio c’è l’incredulità, il rifiuto poi si passa una fase in cui ci si sente vittime di una ingiustizia, si comincia a dire: “Perché proprio a me”. Infine, quella che tratto io, è quella del castigo: “Che cosa ho fatto per meritarmi questo?!” Anche persone spiritualmente mature quando si trovano di fronte alla malattia sentono un senso di colpa, intendendo la malattia come un castigo per qualche colpa commessa nella propria vita. Allora vediamo questa mattina un breve escursus sintetizzato della storia di questo senso di colpa che non ci aiuta a vivere bene il momento della malattia. Ci rifacciamo alle origini: fin dall’antichità gli uomini hanno avuto problemi col male. Perché il male? Nel mondo primitivo c’era una spiegazione molto logica e accettabile: c’erano due divinità, una buona ed era autore della vita e del benessere e poi c’era un rivale, un dio nemico, un dio del male che invece era autore delle malattie, delle disgrazie e della morte. Quindi con questi due aspetti si dava la risposta al perché del male: era colpa del dio malevolo. Possiamo dire che la religione nasce proprio come risposta al problema del male.

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Si sono create queste due divinità: una positiva e una negativa e si sono iniziati dei riti per ingraziarsi la divinità positiva e per proteggersi dalla divinità negativa. Tutto questo è durato finché in Israele, in una maniera lenta ma progressiva, si arrivò alla comprensione di un unico Dio. Israele è arrivata a un punto dell’umanità in cui ha proclamato che esiste un solo Dio. Non esiste un Dio del bene e un Dio del male ma un Dio solo. Rimaneva però il problema del male. Da dove proviene? Il Dio Yahwe è autore sia del bene che del male. Troviamo tanti brani della scrittura che lo affermano. Per esempio il profeta Isaia afferma: “Io sono Yahwe e formo la luce e creo le tenebre”, in contrapposizione alla divinità pagane dove c’era il Dio della luce e il Dio delle tenebre; o addirittura questo Dio che dice: “Faccio il benessere e provoco la sciagura.” Quindi il bene e il male vengono da un unico Signore. Nella scrittura si legge: “Bene e male, vita e morte tutto proviene dal Signore.” Si voleva convincere le persone che ancora adoravano altre divinità minori, dell’esistenza di un unico Dio. Attraverso il profeta Amos addirittura Dio dice: “Avviene nelle città una sventura che non sia causata dai Re?” Quindi siamo partiti dalla credenza dell’esistenza di un Dio buono e uno cattivo e successivamente in Israele dove Dio era autore del bene e del male. Ma la crescita progressiva nella conoscenza di questo unico Dio ha fatto si che pian piano l’aspetto negativo venisse oscurato e poi eliminato. Così si arrivò a un Dio completamente buono. Ma se Dio era solo buono rimaneva il problema del perché del male e per questo si sono create due figure teologiche che tanto hanno influito negativamente nella spiritualità e nella vita dei credenti, le cui conseguenze le portiamo ancora noi oggi. Queste due figure teologiche sono: la figura del peccato e la figura del satana e sono in relazione l’uno con l’altro. Il peccato, in che senso? Non si credeva ancora e non era stata elaborata una dottrina sulla vita eterna, sull’al274


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dilà, allora si credeva che il bene e il male venissero remunerate in questa esistenza. Per cui chi si comportava bene aveva una vita lunga, una moglie feconda e la ricchezza. Chi si comportava male era castigato per il suo comportamento, con una vita breve, la moglie sterile e la povertà. Quindi pian piano si ebbe uno spostamento, le cui gravi conseguenze portiamo ancora noi oggi, che per discolpare Dio del male si cominciò a incolpare l’uomo. Perché esiste il male? E’ il castigo di Dio per le colpe degli uomini. Quindi per assolvere Dio – questo Dio che Israele andava comprendendo, come unico buono e non poteva avere nulla di negativo – l’autore del male divenne l’uomo. Si incominciò a incolpare l’uomo, si incominciò a inculcare il senso di colpa. Nel libro del Siracide è formulato in maniera chiara: “Chi pecca contro il proprio Creatore cade nelle mani del nemico.” Perché hai una malattia? Perché hai peccato! Il peccato viene inteso come trasgressione alla legge che è stata appositamente creata in modo da non poter essere osservata completamente; in modo che per quanto tu ti sforzi, ti trovi sempre in colpa, in quanto si veniva considerati in peccato, impuri anche per aspetti fisiologici della vita. Nel libro dei Numeri, nel Deuteronomio si arriva a una formulazione che non lascia scampo ed era inutile protestare e dichiararsi innocente, di non aver commesso peccato. L’autore scrive: “Yahwe è lento all’ira e grande in bontà perdona le colpe e la ribellione ma non lascia senza punizione. Castiga la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione”. Questa è una risposta molto chiara al perché succede il male. - Perché mi capita questa malattia? Perché hai peccato! - Ma ti assicuro, non ho commesso nulla di male! E’ stato tuo padre! - Babbo era un sant’uomo! E’ stato tuo nonno! - Di nonno tutti ne parlano bene! E’ stato il tuo trisavolo! Qualcosa si trova! 275


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Questa teologia molto primitiva venne contestata da uno dei grandi profeti: Ezechiele. Egli elaborò una teoria nella quale si diceva che non è vero che i figli scontano le colpe dei padri ma ognuno è responsabile della propria colpa. Nel libro del profeta Ezechiele il Signore dice: “Chi pecca, morirà. Il figlio non sconterà l’iniquità del padre, ne’ il padre l’iniquità del figlio.” Quindi da una teologia dove si scontava le colpe dei propri genitori dei nonni e bisnonni si arriva a una evoluzione. Sembrava una risposta soddisfacente ma anche questa creava dal punto di vista pratico, un po’ di problemi, perché l’esperienza faceva vedere che a persone brave, sante, pie e buone capitavano tutte le disgrazie del mondo; dei malvagi prepotenti e arroganti stavano benissimo. Qualcosa non va. Ecco allora che subentra un’altra figura teologica che è stata creata proprio per rispondere al perché del male, che è la figura del satana. Satana, come sapete è un termine ebraico; la sua traduzione greca è diavolo. Il diavolo entra in scena e un autore – che è rimasto sconosciuto ma indubbiamente è un grande letterato dell’epoca – compone quella che è un’opera teatrale conosciuta come “Il libro di Giobbe”. Chi è Giobbe? L’autore lo presenta come un benestante, un uomo ricco d’Oriente, aveva 10 figli, un numero sterminato di bestiame e di campi e, per comprendere questo brano, occorre tener presente che per tre secoli Israele è stata sotto la dominazione persiana ed ha assunto molto dei modi e della cultura del regno di Persia. L’autore infatti rappresenta la corte divina modellata sulla corte del re di Persia che una volta a settimana riceveva i suoi dignitari. Qui Dio riceve i suoi figli e scrive: “Un giorno i figli di Dio andarono a presentarsi al Signore e anche il satana andò in mezzo a loro”. Il satana è con l’articolo quindi non è un nome ma è una funzione. Chi è? Nell’impero persiano c’era un personaggio che godeva grande importanza a corte, era una specie di ispettore generale delle provincie che era chia276


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mato “L’occhio del re”. Qual’era il suo compito? Girava nelle varie provincie, vedeva il comportamento dei governatori e dei sudditi e poi ne riferiva all’imperatore, per premiarli, ma il più delle volte per rimuoverli e castigarli e spesso eliminarli. Ebbene, in questo brano il satana non è un rivale, un nemico di Dio ma il suo principale collaboratore. Tant’è vero che quando il satana si trova a corte, Dio si rivolge a lui in modo cordiale. Il Signore chiede al satana: “Da dove vieni?” Quindi non c’è ostilità tra i due e satana risponde: “Ho girato la terra” Allora Dio si vanta: “Hai visto Giobbe? Non c’è ne’ uno bravo sulla terra come lui” E il satana, che fa gli interessi del suo padrone dice: “Ci credo che è bravo, gli va tutto bene. Quando va tutto bene è facile essere bravi, buoni e pii. Prova a togliergli quello che ha”. Dio glielo permette. In un attimo a Giobbe accadono una serie di disgrazie e così perde tutto: i campi, gli animali e infine nel crollo della casa periscono tutti i suoi 10 figli. Di fronte a questa notizia ecco la risposta di Giobbe: “Il Signore ha dato, il Signore ha tolto” Quindi tutto quello che c’è di bene – e aveva tanto – e ciò che c’è di male proviene dal Signore. “Sia benedetto il nome del Signore”. Si ritrovano di nuovo a corte, si presenta il satana e Dio gli dice: “Hai visto che avevo ragione! Gli hai tolto tutto eppure Giobbe ha continuato a benedirmi” E il satana che intende fare gli interessi del suo padrone gli dice: “Si, gli hai tolto quello che aveva. Togli quello che è. Colpiscilo nella sua carne.” Il Signore accetta anche questa sfida e come sappiamo il povero Giobbe viene colpito da una malattia tremenda. In questa malattia il problema di Giobbe sono stati sia la moglie che gli amici pii che andavano a consolarlo. La moglie che brontola continuamente: “Rimani ancora saldo nella tua integrità? Maledici Dio e muori”. Ma egli le rispose: “Tu parli come parlerebbe una stolta. Se da Dio accettiamo il bene perché non dovremmo accettare il male?!” Quindi di nuovo Dio promotore del bene e del male. E alla cerchia degli amici, Giobbe dice quello che dovremmo sempre ricordare quando andiamo a trovare una persona malata. Giobbe dice: “Anche io sarei 277


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capace di parlare come voi se foste nel mio posto. Siete tutti consolatori molesti.” “Ho avuto tante disgrazie ma nessuna è grande come la vostra che venite qui a consolarmi.” Quindi abbiamo visto che l’autore di Giobbe contesta la teologia di Ezechiele, che pure era un passo avanti (aveva detto che ognuno era responsabile del proprio male). L’autore di Giobbe presenta una persona che non ha compiuto il male ma al quale capitano tutte le disgrazie di questo mondo, causate dal satana. Quindi il problema rimane insoluto. Qual è stata la risposta della religione? Dopo passeremo a vedere Gesù. Quella dei nostri giorni è erede di questa mentalità che ci ha inculcato il senso di colpa, del peccato, del castigo. Un senso di colpa che è come una tossina veramente malefica; viene inoculata nelle persone, entra nel DNA e si trasmette di generazione in generazione. Pensate soltanto a quanto è stato nefasto nel tempo quella forma, che per fortuna dal 1964 la Chiesa l’ha mandata in pensione – anche se alcuni preti non se ne sono accorti – questo “Atto di dolore”. Nell’Atto di dolore si recita: “Perché peccando ho meritato il tuo castigo…” Questo è terribile e lo si insegna ai bambini in tenera età! Quindi quello che mi capita è un castigo che mi viene da Dio. Oppure, pensate, nella celebrazione eucaristica quando si adopera quell’invito penitenziale dove la gente è costretta a dire: “Perché ho molto peccato in pensieri, opere …” e battendosi il petto si dice: “Per mia colpa, mia grandissima colpa.” C’è gente anziana che va a messa tutti i giorni e tutti i giorni confessa di aver molto peccato e io che sono tanto curioso vorrei sapere che cosa hanno combinato …. (risata del pubblico). Guardate che è drammatico perché la religione ha inculcato il senso di colpa, per cui, come dicevo all’inizio, anche persone che sono mature quando sopraggiunge la malattia subito subentra il senso di colpa. La risposta della religione è stata una deformazione del messaggio evangelico e una deturpazione della buona notizia di Gesù, per cui quelli che erano dei mes278


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saggi positivi sono stati tradotti e trasformati in messaggi negativi. Non c’è persona che di fronte alla malattia, anche grave, irreversibile, nella quale ha provato tutte le maniere scientifiche o meno – voi sapete che quando uno è nella disperazione poi cade in balia di tutti quelli che gli profetano una qualunque forma di guarigione – quando poi ci si trova con le spalle al muro e si vede che non si è riusciti a far niente, si dice con un sospiro: “Sia fatta la volontà di Dio” e lo dicono le persone che gli stanno accanto. Per cui la volontà di Dio, purtroppo, è associata agli eventi tristi, alle malattie inguaribili, alla morte, alle disgrazie della propria esistenza. Ma è possibile che questa volontà di Dio sia sempre e solo associata al male? Devo ancora sentire una persona che vincendo al lotto, dice: “E sia fatta la volontà del Signore!” Ebbene, la volontà di Dio è una sola, non ci sono altre volontà. La volontà di Dio è che noi diventiamo suoi figli attraverso la pratica dell’amore simile al suo. Questa è la volontà di Dio! Questo fatalismo – che tutto quello che capita è volontà di Dio – ha formulato uno dei detti, dei proverbi più osceni e blasfemi che ci possono essere ed è “Non cade foglia che Dio non voglia”. Tutto quello che avviene è volontà di Dio. Questo proverbio nasce da una errata traduzione di un brano del vangelo di Matteo dove Gesù vuol dire tutto il contrario. Gesù in questo brano dice. “Non vi preoccupate di nulla, perché Dio non viene incontro ai vostri bisogni, ma Dio li precede. E lui li conosce come voi mai nella vostra esistenza riuscirete a conoscervi.” Gesù porta l’esempio conosciuto: “Perché Dio sa quanti capelli avete in testa” Una cosa che noi non potremo mai sapere. Avete mai provato a contare i capelli? Gesù dice: “Dio vi conosce meglio di come vi conoscete quindi di che cosa vi preoccupate?” e dice: “Due passeri … ” perché? All’epoca era l’animale più insignificante e inutile. Nel Talmud si benedicono alcuni animali, ma non compaiono i passeri. ... non si vendono forse per 279


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1 soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra…” – e il testo greco dice: – “senza il Padre vostro.” Purtroppo nelle traduzioni che abbiamo ci aggiungono “ senza che il Padre vostro lo voglia”. Ma non si tratta di volontà, si tratta di conoscenza, di sapere. Tant’è vero, nel brano parallelo del vangelo di Luca, Gesù dice: “Cinque passeri non si vendono forse per 2 soldi? Eppure neppure uno di essi è dimenticato davanti a Dio” La bibbia di Gerusalemme traduce: “all’insaputa del vostro Padre” intendendo non per decisione del vostro Padre ma all’insaputa. Tutto quello che capita nella vostra vita, il Padre lo sa. L’altra tematica che viene associata alla malattia è una avvertenza. In caso di malattie mettere fuori dalla stanza un cartello con scritto: “Vietato entrare alle persone pie e religiose” I danni che possono fare le persone pie… e non se ne accorgono! Sono persone che sanno tutto di Dio e di ciò che capita! La frase più ricorrente che si sente dire: “E’ la croce che il Signore ti da” e un’altra espressione blasfema è “Perché ognuno ha la sua croce.” E poi, un’altra azione terroristica: “Non tentare di togliere questa croce perché ce n’è già pronta un’altra!”. Ultimamente ho sentito un prete – e tanta stupidità in un prete solo non ne ho mai sentita – che diceva: “Non tentare di accorciare neanche di 1 cm la croce. Perché sapete cosa serve? Alla fine della vita, dopo aver portato questa croce vi troverete difronte a un burrone. Ebbene, mettete la croce ed è la distanza giusta per passare dall’altra parte” Questo è terrorismo religioso! Il cConcilio Vaticano II ha detto che tutta la predicazione deve essere basata sulla sacra scrittura e non sulle devozioni o sulle deformazioni. Nei vangeli, l’invito alla croce appare 5 volte e, sempre rivolto ai discepoli di Gesù o alla folla, come condizione per seguirlo. Mai la croce è stata associata alla malattia, alla sofferenza, al dolore. La croce era il trattamento riservato alla feccia della società e Gesù, ai discepoli che lo seguono per ambizione perché pensano che sia il messia vincitore, dice: “Se non accettate di caricarvi su di voi la croce, non pensate di 280


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venirmi dietro”. Oggi potremo tradurre in una maniera comprensibile per noi con: “se non accettate di perdere la vostra reputazione... “ perché di questo si tratta, la perdita della reputazione. Infatti agiamo sempre in maniera non autentica ma condizionati da quello che gli altri possono pensare o possono giudicare. Crediamo che se gli altri sapessero chi sono io veramente mi eviterebbero. Quindi c’è sempre una maschera. Gesù invece ha bisogno di persone libere. Quando si perde la propria reputazione si è finalmente liberi. Quindi questo termine “la croce”non va associato con la malattia. L’altro termine della spiritualità che coi malati si usa è la “potatura”. Nel vangelo di Giovanni Gesù dice: “Ogni tralcio che porta frutto il Padre lo pota”. Io ho sentito a volte dire a genitori che avevano perduto un figlio da preti o religiosi: “E’ il Signore che ti ha potato”, a voler dire che nella vita, al tralcio che porta frutto il Padre , che ti vuole bene con una espressione del suo amor, zac ti toglie il figlio: è la potatura! Ma anche qui Giovanni non si sogna di scrivere queste cose, non adopera infatti il verbo “potare” ma il verbo “purificare”. Vedete come è stato travisato il messaggio di Gesù. Il tralcio che porta frutto, il Padre gli elimina tutte quelle impurità che gli impediscono di portare ancora più frutto. Quindi una immagine completamente positiva è diventata negativa. Infine un’altra immagine che è quella della prova: “E’ il Signore che ti prova”. Un Dio sadico, un Dio che fa soffrire i suoi figli per vedere se continuano a volergli bene. Oggi nel progresso della società un padre che per vedere se il figlio gli vuole bene, lo torturasse, lo facesse soffrire, gli verrebbe immediatamente tolta la paternità. Allora noi togliamoci questa paternità di un Dio sadico, che non è in alcun modo il Padre di Gesù. Dio non prova! La nostra spiritualità si basa sui vangeli ma se questi sono tradotti male e interpretati peggio, quali danni si possono avere? L’invito di Gesù: “Se non vi convertite non entrate nel Regno dei cieli” e la conversione significa “un cambio 281


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di pensiero che incide nel mio comportamento, non vivere più per me ma vivere per gli altri”. Purtroppo e fin dagli inizi quando il vangelo venne tradotto in latino fu scritto: “se non fate penitenza non entrate nel Regno dei cieli”. Ecco perché se leggiamo la vita dei santi fino al secolo scorso vediamo che si sono auto inflitti delle penitenze - che sono cose da trattato di patologia psichiatrica - credendo che chi più fa penitenza meglio avanza nel Regno dei cieli. Mai Gesù si è sognato di invitare le persone a fare penitenza, mai nei vangeli la parola penitenza è presente e posta in bocca a Gesù. Mai Gesù ha invitato a fare sacrifici, anzi ha detto il contrario: “Imparate cosa significa misericordia voglio e non sacrifici”. Mai Gesù ha invitato le persone a mortificarsi. Quindi questi tre elementi negativi: la penitenza, il sacrificio e la mortificazione sono completamente assenti dal messaggio di Gesù. Tutto questo ha formulato ed è confluita in una spiritualità listata a lutto che è talmente radicata nella spiritualità cristiana che non c’è il coraggio di tralasciarla eppure bisogna farlo - ma sono forme talmente radicate nelle persone, che pur vedendo il lato negativo, il lato nocivo, non c’è il coraggio, nella comunità cristiana, di dire basta. Dicevo, tutto questo si è concentrato in quello che era l’esperienza dell’anno 1000. Nacque un bambino deforme, che non riusciva neanche a stare in piedi e la famiglia all’età di 7 anni lo mise in un monastero. Divenne monaco. E’ un certo Hermann der Lahme. Il nome non ci dice niente ma se vi dico cosa ha composto, subito lo ricordiamo. Era l’anno 1000 lui con questa situazione dolorosa di deforme ha pensato una preghiera che è un concentrato di negatività assolutamente distante anni luce dal messaggio di Gesù. Gesù infatti ha detto: “Vi dico queste cose perché la mia gioia sia con voi e la vostra gioia sia completa” quel Gesù, che quando si manifesta ai suoi dona la pace, la felicità. Ebbene questo Hermann compose in tempo di pestilenza e di guerre, una preghiera alla madonna: “La Salve 282


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Regina”. Una preghiera nefasta nella quale c’è una formula che ci vuole il coraggio a prenderne le distanze. Scrive: “A te ricorriamo esuli figli di Eva...” Noi siamo fieri di essere figli di Dio e non di Eva. “A te sospiriamo gementi e piangenti in questa valle di lacrime” e questa è la preghiera personale delle persone pie che sguazzano felicemente nella loro piscina personale di lacrime (risata generale). Ma come si fa a dire cose del genere?! Possiamo capire il povero Hermann nella sua condizione... Ci sono le lacrime nel mondo anche ora ma è compito della comunità cristiana, non sospirando, ma impegnandosi ad asciugare le lacrime, ad eliminare le cause della sofferenza. Allora vediamo ora la figura di Gesù. Anche qui c’è una sorpresa che ci fa rimanere un po’ male perché abbiamo visto che il male è un problema insoluto. Eravamo rimasti al senso di colpa, ecc. e da Gesù ci si aspetta una risposta a questo problema. Gesù non dà nessuna risposta! Vedremo cosa fa Gesù. Qual’è la situazione al tempo di Gesù? Governava una spiritualità farisaica dei meriti e dei castighi; la malattia era vista come una punizione divina e si era risolto anche il problema del perché della malattia degli innocenti, dei bambini; Per l’età adulta, nel libro sacro di Israele si legge: “Quando in una generazione vi sono dei giusti, i giusti sono puniti per i peccati di quella generazione. Se non vi sono giusti, allora i bambini soffrono per il male dell’epoca”. Quindi, perché c’è il male nei bambini? Perché il Signore non ha trovato nessun giusto a cui poter scaricare questo male e così si scatena sui bambini. Che l’ammalato sia un castigato da Dio è talmente normale che era abitudine, nel mondo ebraico, quando si incontrava un malato rivolgere a Dio questa benedizione: “Chi vede un mutilato, un cieco, un lebbroso uno zoppo dica: Benedetto il giudice giusto”. Conosciamo tutti l’episodio nel vangelo di Giovanni quando i discepoli vedono un cieco dalla nascita chiedono a Gesù: “Ha peccato lui o i suoi genitori?” 283


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Che la cecità fosse la conseguenza del peccato non c’era alcun dubbio. Solo le scuole rabbiniche discutevano se in caso di un bambino che nasceva già malato avessero peccato i suoi genitori oppure il bambino, già nell’utero poteva aver peccato. Gesù risponde in maniera tassativa eliminando definitivamente ogni relazione tra la malattia e il peccato. Gesù dice: “ Ne’ lui ha peccato, ne’ i suoi genitori ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio”. Quindi con Gesù - ripeto, lui non tratta il problema del male - ma agisce concretamente nei confronti del malato e per prima cosa elimina qualunque relazione tra il male e il peccato. Poi, l’altra azione che fa Gesù è eliminare il satana. Abbiamo visto qual’è il ruolo del satana. Il satana - e a quel tempo non era il diavolo che poi i cristiani inventeranno - ma era il funzionario della corte divina che dai cieli scendeva sulla terra, controllava il comportamento degli uomini, andava a riferire a Dio per poi poterli castigare. Ebbene, Gesù, nel vangelo di Luca, dopo che ha mandato i suoi discepoli ad annunciare la novità della buona notizia, dice: “Vedevo satana cadere dal cielo come una folgore” quindi il satana è stato spodestato dalla corte divina. Come mai questo? Ma è chiaro! E’ inutile che ora il satana vada a riferire a Dio per poi castigare, perché il Padre di Gesù è un Dio completamente diverso, un Dio che non premia i buoni e neanche castiga i malvagi: è un Dio che a tutti indistintamente comunica il suo amore. Nel libro dell’Apocalisse questo fatto viene così formulato: “Ora si è compiuta la salvezza, la forza e il Regno del nostro Dio e la potenza del suo Cristo perché è stato precipitato l’accusatore dei nostri fratelli, colui che li accusava davanti al nostro Dio giorno e notte”. Quindi il satana come colui che accusava gli uomini per le loro colpe e poi li castigava, Gesù lo elimina nel momento in cui ha presentato un Dio completamente diverso. Non un Dio buono ma un Dio esclusivamente buono. Elimina il concetto del castigo. 284


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Conosciamo l’episodio quando Gesù arriva con i suoi discepoli in un villaggio che non li vuole ricevere, allora Giacomo e Giovanni subito, con questa mentalità che era tipica del castigo di Dio, dicono: “Non ci hanno ricevuto, non ci vogliono, vuoi che mandi un fuoco dal cielo che li bruci tutti quanti?” Era la teologia dell’epoca. Basta pensare il profeta Elia, che sarà stato un sant’uomo (in genere le persone pie sono pericolose e dalle quali è meglio prenderne le distanze) che ha fatto una sfida a 450 sacerdoti di una divinità diversa; l’ha vinta ma non gli è bastata la soddisfazione morale; personalmente li ha presi e li ha scannati tutti. Nel vangelo di Luca, Gesù formula l’espressione “Dio è benevolo verso i malvagi e gli ingrati”. Questa è stata una rivoluzione incredibile perché Dio in ogni religione, premiava i buoni ma castigava i malvagi. Gesù cambia radicalmente il concetto di peccato. Con Gesù Dio si è fatto uomo e con Gesù il peccato non è più un’offesa che riguarda Dio ma è un’offesa che riguarda l’uomo. Quello che permette la nuova comunione con Dio non è la relazione che si ha con la divinità ma è il comportamento che si ha con gli altri. Gesù nei vangeli tutto questo lo descrive molto bene. Mentre nella spiritualità dell’epoca il peccato era andare contro la Legge, per Gesù il peccato è andare contro l’uomo. Ecco perché se il peccato è andare contro la legge, Gesù è un peccatore. Quando Gesù guarisce il cieco nato, cosa dicono i farisei? “Quest’uomo è un peccatore perché non ha osservato la legge divina. Gesù replica: Siete voi i peccatori perché andate contro l’uomo” Quando Gesù fa un elenco di ciò che è peccato, quello che rende impure le persone, in questo elenco non c’è nulla che riguarda il comportamento nei confronti di Dio. Nel vangelo di Marco Gesù elenca una serie di atteggiamenti che possono rendere impuri e sono: l’impurità, i furti, gli omicidi, gli adulteri, l’avidità le malvagità, l’inganno, la dissolutezza, l’invidia, la calunnia, la superbia, la stoltezza. Nessuno di questi riguarda il rapporto con Dio ma tutti il rapporto con gli altri. 285


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Quindi Gesù non diminuisce il senso del peccato ma lo porta nel suo vero ambito. Il peccato non è quello che offende Dio ma è quello che offende l’uomo. Gesù non parla del concetto del male, ma agisce e si prende cura degli ammalati. L’atteggiamento di Gesù con i malati è completamente diverso da quello della spiritualità, della religione del suo tempo. Innanzi tutto Gesù non chiede agli infermi di accettare le loro malattie. C’è una espressione che oggi si dice per alleviare le sofferenze dei malati, in buona fede - io non giudico - si inculca sia nell’ammalato sia nella persona che lo va ad aiutare di “offrire le sofferenze a Dio”. E’ un modo di sublimare, per dare un senso alla sofferenza. Quante volte si sente dire dalle persone religiose, all’ammalato: “offri le tue sofferenze a Dio per la salvezza dei peccatori, per la conversione, ecc...” Quando sono stato ammalato, ogni tanto si infiltrava qualche persona pia che diceva: “Offri! Offri!” Gli ho risposto: “No! Che cosa ci fa il Signore delle mie sofferenze? Io nella mia malattia sento che è il Signore che si offre a me. Lui non assorbe le mie energie ma mi comunica le sue e mi aiuta a dare un senso e a vivere questa malattia. Eventualmente anche a venirne fuori.” Quindi Gesù quando si trova con gli ammalati non indica di accettare la loro malattia come espressione della volontà divina o ad offrire a Dio le proprie sofferenze. No! Lui semplicemente guarisce. Tutto il suo atteggiamento e l’insegnamento che dà ai suoi discepoli è: “Guarire i malati”. Gesù quando invia i discepoli non li manda a convertire i peccatori ma in tutti i vangeli dà il mandato della guarigione e la cura dei malati. Qual’è l’atteggiamento, allora, che dobbiamo tenere nei confronti della malattia vedendo l’insegnamento di Gesù? Quando, nei Vangeli, per due volte, i discepoli in occasione di pericolo lo invocano dicendogli: “Salvaci”. Gesù non apprezza questa richiesta ma li rimprovera per la mancanza di fede. Gesù dice: “Perché avete paura, uomini di poca fede?” L’esperienza vera, autentica viene dall’accoglienza del messaggio di Gesù e dalla sua pra286


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tica. Questo purtroppo è un aspetto doloroso che ancora, a distanza di 2000 anni, nella spiritualità non è entrata perché ancora crediamo al Dio del mondo ebraico e non al Padre di Gesù. Nel mondo ebraico, Dio era lontano, distante dagli uomini. C’erano 7 cieli e Dio stava sopra. I rabbini dicevano che tra un cielo e l’altro c’erano 500 anni; per cui la distanza tra l’uomo e Dio era di 3500 anni. Una distanza impercorribile, quindi un Dio lontano. Ebbene, Gesù cambia tutto questo. Con Gesù - e questo è molto importante per comprendere la spiritualità del malato e della malattia e può veramente cambiare la vita delle persone - con Gesù, Dio non è qualcosa di esterno all’uomo, qualcosa da invocare, qualcosa da supplicare o da chiedere. Non solo il Dio di Gesù è vicino all’uomo ma - e ancora questo nella nostra spiritualità non è ancora emerso - il Dio di Gesù è intimo all’uomo. Gesù lo dice chiaramente nel vangelo di Giovanni al cap. 14 vers. 23: “A chi mi ama, il Padre mio ed io verremo a lui e prenderemo dimora in lui.” Quando si comprende questo, la vita cambia. Quando si comprende che Dio non è esterno a noi ma è intimo, dentro di noi e che manifesta la sua presenza non quando noi alziamo le mani al cielo ma quando le abbassiamo per servire gli altri. Lì Dio manifesta la sua presenza, dilata la nostra capacità di amore e così cambia l’atteggiamento verso la vita e sopratutto verso la malattia. Non ci si sente più soli ma si sente che si è protagonisti di un unico straordinario progetto di amore per cui tutto quello che capita nella vita aiuta la costruzione di questo progetto. Quando si comprende questo, tutto cambia, non solo negli avvenimenti positivi ma in quelli negativi. Se noi pensiamo alla esuberanza della vita, da quando esiste l’uomo sulla terra mai ancora si è ripetuto un uomo identico all’altro! Con tanti milioni, miliardi di esseri umani, non ce ne’ uno identico all’altro! Ognuno è nuovo! Perché? La vita ancora si manifesta in forma nuova, originale, creativa. Allora, questo ci deve dare alla testa! Sapere che io sono unico! Nella storia dell’umanità, prima di me non c’è stato mai nessuno uguale a me e per 287


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quanto durerà la storia dell’umanità dopo di me, non ci sarà nessuno uguale a me! Questo dà i brividi! Pensate a quanto siamo importanti! La vita ha bisogno di noi per manifestarsi in una forma nuova, originale, creativa. Allora, sapendo questo si arriva alla comprensione attraverso la pratica, non soltanto col messaggio di Gesù - che ognuno di noi è frutto di un unico, straordinario progetto d’amore. Qualunque cosa capiti nella vita, anche quando non lo comprendiamo, dobbiamo pensare che ciò che ci accade serve a costruire questo progetto di Dio, che è la nostra vita. Possiamo così comprendere bene quando Gesù nel vangelo dice: “Ma chi di voi al figlio che ha fame gli dà una pietra al posto del pane?” Ci sono eventi della nostra esistenza - che può essere la malattia, anche grave o la morte - che possono essere viste come una pietra che schiaccia la nostra vita. Ma se vogliamo, grazie a quel Dio che tutto trasforma in bene, questa pietra che può schiacciare la nostra vita può essere pane che lo alimenta; Ma sta a noi! Ci possiamo far schiacciare da questo avvenimento, da questa malattia oppure può essere il trampolino per una crescita ancora maggiore! Abbiamo detto che Gesù non risponde al problema del male. Abbiamo visto che, il male, in una interpretazione teologica, era una conseguenza della colpa degli uomini. Conosciamo tutti il libro della Genesi: Dio ha creato un mondo perfetto. Ha creato l’uomo, ha creato la donna; erano immortali, avevano tutto, ma, colpa della donna, il peccato e tutto si è rovinato! E’ subentrata la morte, le malattie, il lavoro, ecc. Quindi era una visione negativa dell’esistenza. Ebbene, con Gesù tutto questo cambia. C’è un particolare nel vangelo di Luca che è illuminante. Nel Libro della Genesi cosa fa Dio all’uomo peccatore? Lo caccia dal paradiso. Con Gesù il primo individuo che entra nel paradiso con lui chi è? E’ un peccatore! 288


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Mai Gesù ha usato la parola “paradiso”. Il termine “paradiso” era un termine che veniva dal mondo persiano; Gesù parlerà sempre di vita che continua, di vita eterna. Ma perché in questo vangelo, in questa unica volta, Gesù parla di paradiso? Perché all’individuo crocifisso vicino a lui, che gli aveva chiesto “Ricordati di me quando sarai nel tuo Regno”, Gesù fa molto di più e dice: “ Ti assicuro, oggi sarai con me in paradiso.” In una visione negativa della storia della salvezza, Dio cacciava dal paradiso l’uomo peccatore. Con Gesù l’uomo peccatore entra in paradiso! Allora nei vangeli, Gesù ci aiuta a interpretare meglio i primi capitoli del libro della Genesi e quelli della creazione e lo fa in un episodio: non osserva il sabato. Ma il sabato era il comandamento più importante! Era l’unico che anche Dio osservava e quando gli rimproverano questo, Gesù risponde con una indicazione molto chiara e dice: “ Il Padre mio lavora e anche io lavoro.” Cosa vuol dire questo? Per Gesù la creazione non è terminata. Non è come veniva interpretata, che Dio aveva “confezionato” questo mondo perfetto e poi l’uomo lo ha rovinato. Il racconto del libro della Genesi, per Gesù, non è il rimpianto per un paradiso irrimediabilmente perduto ma la profezia per un mondo da costruire. Allora, perché il male? Perché le malattie? Perché c’è questa continua creazione, questa evoluzione nella quale ognuno di noi è coinvolto per respingere sempre di più l’ambito del male e l’ambito delle malattie. San Paolo, nelle sue lettere lo dice molto chiaramente. Nella lettera ai romani c’è un testo stupendo. Scrive: “Ritengo infatti che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi. La creazione stessa attende con impazienza... - quindi c’è una creazione che attende -... la rivelazione dei figli di Dio”. San Paolo ci dice: “ Sveglia gente, realizzate la vostra esistenza di figli di Dio perché la creazione lo sta attendendo!” 289


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E continua Paolo: “ La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta, nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione.” Quindi, per Gesù il mondo non è stato creato o confezionato ma il mondo è in creazione. Lui continua a collaborare col Padre e chiede a ognuno di noi la collaborazione in questa attività. Ecco perché allora il mandato di Gesù, continuo, costante in tutti gli evangelisti, sarà l’andare a guarire gli ammalati. Nel vangelo di Matteo troviamo scritto: “Guarendo ogni sorte di malattie” “Guarite gli infermi” “Imponete le mani ai malati e questi guariranno” “Li mandò ad annunciare il Regno di Dio e a guarire gli infermi” “Regno di Dio” e “guarigione degli infermi” sono le stesse cose. Non è come ci saremmo aspettati: “Regno di Dio e “la conversione dei peccatori”; Gesù non manda i discepoli a convertire i peccatori ma a guarire gli ammalati. “Quando entrate in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto...” Permettetemi una piccola parentesi: oggi ci sono un po’ di manie alimentari, delle fobie, delle mode... Sembra che Gesù ci anticipi: “Mangiate quello che vi sarà messo davanti!” Non cominciare a dire sono vegano, sono vegetariano ecc. “Mangiate ciò che vi viene dato e poi... guarite i malati che vi si trovano e dite loro: E’ vicino il Regno di Dio”. Quindi il compito che ci dà Gesù è di curare gli ammalati e far sentire che il Regno di Dio è vicino a loro, cioè “Dio si occupa di loro.” Infine termino con una immagine di Maria, la madre di Gesù. Quello che emerge in tutto questo è di fidarsi completamente di Dio, qualunque situazione capiti nella nostra vita perché lui è quel Padre che nel suo amore tutto trasforma in bene. Ma fidarsi di Dio non significa che tutto andrà liscio nella vita. Se c’è una persona che si è fidata di Dio è stata Maria e a lei è andato tutto storto. Non credo che lei si sia mai 290


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pentita, sarebbe stato legittimo che avesse detto: “Ma chi me l’ha fatto fare?” Maria si fida! Eppure da quel momento le va tutto storto! Viene ritenuta un’adultera dal marito ed ha rischiato di essere lapidata. Appena Gesù nasce deve scappare in terra straniera, andare in Egitto perché Erode cerca di ammazzarlo. Le difficoltà poi col figlio: Maria e Giuseppe non trovano il figlio e quando lo trovano lui li rimprovera dicendogli: “Perché mi cercavate? Non sapete che devo occuparmi delle cose del Padre mio.” Ancora: il tentativo di rapimento di Gesù da parte di tutto il clan familiare perché pensano che Gesù è matto e lui ha quella risposta tremenda: “Chi è mia madre? Chi sono i miei fratelli?” Fino alla crocifissione: momento drammatico della vita di Maria. Gesù è stato condannato a morte in “nome di Dio” come nemico di Dio. Lei deve fare una scelta: o continua a credere al sommo sacerdote o continua a credere in quel delinquente appeso al patibolo. Ebbene, Maria, in tutto questo, non ha fatto altro che crescere nella fede e, i vangeli, ci lasciano una immagine molto bella, molto positiva che ci aiuta e ci dovremmo spesso porre. Perché Maria che è presente fino alla morte del figlio sulla croce- e non tanto come una madre che è andata lì a consolare il figlio (questo sarà la devozione che lo dirà) ma come la discepola disposta a fare la stessa fine del maestro. Ricordo che il mandato di cattura era per tutti - come mai Maria poi scompare? Non c’è la deposizione del cadavere. Sono gli artisti che ci fanno delle bellissime immagini della Pietà con Maria con il cadavere del figlio, ma nei vangeli non ce ne’ traccia. Come mai Maria non va con le altre donne al sepolcro del figlio? Perché lei, già grande nella fede, non piange un morto ma continua a seguire “il vivente.” Ecco allora credo che in una spiritualità fondata secondo i Vangeli - ed è una spiritualità a disposizione di tutti quanti - possiamo vivere una piena fiducia della pre291


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senza del Padre nella nostra vita e, ripeto, sapere che siamo protagonisti di un unico, straordinario progetto di amore e questo, in me è una cosa nuova. Tre anni fa, quando ero ricoverato da circa 1 mese, mi muore mia madre. E’ stato un colpo temendo. Avevo celebrato il funerale di ben 6 sorelle di mamma che era la più piccola; muore mia madre e io non ho la possibilità di darle un’ultima carezza e celebrarne il funerale. E’ stato veramente un colpo tremendo in quanto io già stavo male. Ma lì mi è nata questa formulazione che adesso è una delle rocce della mia vita. In quel momento ho capito che non avevo domande da fare perché non c’erano risposte. Allora ho capito che siamo all’interno di un unico, straordinario progetto d’amore e tutto quello che capita non è una pietra che ti schiaccia, ma pane che ti alimenta. Tutto quello che capita nella nostra esistenza - il male, la malattia, la sofferenza - non fa altro che farci crescere e realizzare in noi il progetto di Dio.

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Don Erio Castellucci UNA LUCE SUL MISTERO DEL DOLORE? LA SOFFERENZA NELLA SCRITTURA La sofferenza si inquadra nel più ampio argomento del mistero del male. La Scrittura, Antico e Nuovo Testamento, getta alcune luci su questo mistero, che nella sua intima natura rimane oscuro. Antico Testamento Le Scritture ebraiche fissano alcune convinzioni: Il male non ha origine da Dio, ma dall’uomo influenzato dal demonio; certe forme di sofferenza possono avere un valore educativo; una spiegazione razionale comunque non esiste e il nucleo del mistero della sofferenza è consegnato al mistero di Dio Il male non ha la sua origine in Dio. La creazione è uscita dalle mani di Dio come “buona” e l’essere umano come cosa “molto buona” (cf. Gen 1-2). Il migliore commento alla bontà della creazione è in Sap 1,13-15: “Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutto per l’esistenza; le creature del mondo sono sane, in esse non c’è veleno di morte, né gli inferi regnano sulla terra, perché la giustizia è immortale”. La stessa prospettiva si trova in Sap 2,23: “Dio ha creato l’uomo per l’immortalità; lo fece a immagine della propria natura” (cf. anche Sap 11,24-25). Nella creazione così come è voluta da Dio sono quindi assenti il male morale e il male fisico: l’uomo così come è uscito dalle mani di Dio non conosceva il peccato ed era immagine e somiglianza di Dio, cioè aveva la capacità di: - entrare in dialogo con Dio (anima), conoscere se stesso e usare creativamente del suo intelletto (coscienza, ragione, libertà, sentimenti, istinti), entrare in comunione con gli altri uomini (famiglia, società); dominare in modo ordinato la natura. Naturalmente però l’uomo non era “tutto il bene” possibile, perché lo è solo Dio. La distanza tra il Bene assoluto che è Dio e il bene relativo che è l’uomo verrà poi chiamata male metafisico, lo spa293


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zio che Dio lascia alla libertà umana, perché vuole creare un essere cosciente, capace di responsabilità e di dialogo. Il male è entrato nel mondo a causa della scelta umana influenzata dal demonio. Il peccato originale è una scelta libera che provoca una corruzione nelle quattro dimensioni dell’immagine di Dio: nel dialogo con Dio, nell’autodominio, nella comunione con il prossimo, nel rapporto con la natura. Questa è nell’Antico Testamento la prima spiegazione del perché il male morale e fisico (cf. Gen 3). Il serpente di Gen 3 è interpretato da Sap come il diavolo (“la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo”: 2,24); e Ap 12,9, che raduna varie terminologie, afferma: “il grande drago, il serpente antico, colui che chiamiamo il diavolo e satana e che seduce tutta la terra”... Anche il prologo e l’epilogo di Gb percorrono questa spiegazione: è Satana che interviene presso Dio a danneggiare l’uomo giusto. Il male però può avere in alcuni casi nei confronti del popolo un valore educativo: anche nell’Antico Testamento, come nella tradizione greca, si nota che ci sono sofferenze che hanno un valore pedagogico. 2 Mac 6,12 infatti afferma: “questi castighi non vengono per la distruzione, ma per la correzione del nostro popolo”; in alcuni casi la sofferenza serve alla conversione. Una spiegazione completa, comunque, quaggiù non esiste: l’Antico Testamento si mostra gradualmente consapevole che, per dare una ragione alla sofferenza, è necessaria una prospettiva ultraterrena. Lo si vede bene nella crisi dell’idea della retribuzione individuale intraterrena, secondo la quale Dio ripaga il comportamento buono con il premio e quello cattivo con il castigo: - L’antica teoria della retribuzione individuale, diffusa tra gli ebrei per molti secoli ed anche al tempo di Gesù, riteneva che Dio premia e castiga quaggiù. Gli amici di Giobbe ritengono che la sofferenza può avere esclusivamente un senso come pena per il peccato e cercano di convincerlo che, perciò, egli deve aver commesso una qualche colpa grave. - Questa teoria va poi in crisi: il libro di Giobbe descrive proprio questa crisi. Giovanni Paolo II scrive in Salvifici Doloris 11: “Giobbe contesta la verità del princi294


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pio, che identifica la sofferenza con la punizione del peccato. E lo fa in base alla propria opinione. Infatti, egli è consapevole di non aver meritato una tale punizione, anzi espone il bene che ha fatto nella sua vita”. Perciò dal libro di Giobbe – conclude Giovanni Paolo II – risulta che “non è vero che ogni sofferenza sia conseguenza della colpa e abbia carattere di punizione”. La risposta che compare alla fine del libro di Giobbe (cf. capp. 38-39) è che l’uomo è troppo piccolo per capire: egli vede solo alcuni particolari, ma gli manca lo sguardo d’insieme; non conosce l’origine della realtà e non ne sa nulla. È una risposta che va nella direzione della totale fiducia nell’azione divina. L’unica risposta di Giobbe davanti alla requisitoria divina è questa: “Ecco, sono ben meschino: che ti posso rispondere? Mi metto la mano sulla bocca. Ho parlato una volta, ma non replicherò, ho parlato due volte, ma non continuerò” (Gb 40,4-5). Si sviluppano poi parallelamente altri tentativi di motivare il mistero del dolore; spiegazioni che qui possiamo solo elencare, ma che vanno tutte nella direzione di un’attesa futura di un grande intervento di Dio; per l’uomo il dolore è un mistero troppo grande per poter pensare di chiarirlo da solo. Si aprono dunque tra gli ebrei varie attese: la fine del mondo, il Messia liberatore, la risurrezione finale dai morti e l’immortalità dell’anima. Sono temi che verranno poi ripresi nel Nuovo Testamento. Nuovo Testamento Come per l’Antico, anche per il Nuovo Testamento il banco di prova più significativo della fede e della ragione è la sofferenza, inquadrata nel mistero del male. Quello che ancora nell’Antico Testamento rimaneva però genericamente racchiuso nella categoria di male (morale, fisico, spirituale...) nel Nuovo viene rapportato alla croce, entro la quale riceve una nuova luce. La croce di Cristo, considerata a partire dalla risurrezione, convoglia infatti le diverse realtà di male e sofferenza, aprendo possibilità di senso. 295


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Gesù si innesta nella tradizione dell’Antico Testamento, abolendo definitivamente, sulla scia di Giob, il collegamento diretto tra peccato personale/familiare e retribuzione intraterrena. Nell’episodio della guarigione del cieco nat esclude che l’uomo sia cieco a motivo di un peccato suo o dei suoi genitori (cf. Gv 9,1-3); e in occasione di due fatti di cronaca nera, esclude che le persone uccise siano più peccatrici delle altre (cf. Lc 13,1-5). Ma è soprattutto la sua personale vicenda, di innocente colpito e ucciso, a dimostrare che la sofferenza non è la punizione del peccato. Gesù non offre una nuova “spiegazione”, ma assume il male su di sé e vincendolo con la risurrezione. In primo luogo Gesù prende il male su di sé nella croce, manifestando un volto inatteso della Provvidenza. Qual è il male che viene convogliato nella croce di Cristo? È prima di tutto il peccato, o male morale, con le sue conseguenze: male in sé, perché disumanizza, è spesso all’origine di sofferenze fisiche e psicologiche (es. omidici, fame, ingiustizia, violenza, e così via.). La croce di Gesù raccoglie questo aspetto del male, perché egli, pur non avendo assunto il peccato (cf. Ebr 4,15), “Dio lo trattò da peccato in nostro favore” (2 Cor 5,21) e così è diventato “lui stesso maledizione per noi” (Gal 3,13). b) In secondo luogo, la croce simboleggia tutte quelle scelte che impongono rinunce e sacrifici (quindi “sofferenze”) in vista di uno scopo ritenuto migliore. È il cosiddetto male pedagogico, che può essere liberamente scelto, come le sofferenze e le rinunce messe in atto per raggiungere traguardi nei diversi settori. La croce di Cristo raccoglie anche questa dimensione del dolore, poiché egli vive la sofferenza nella sua dimensione pedagogica, in quanto gradualmente si immerge nella condizione umana, imparando l’obbedienza dalle cose che patisce (cf. Ebr 5,8). c) Esistono sofferenze che provengono dalla scelta di amare: le sofferenze che devono venire preventivate quando si ama. Si possono definire il mal d’amore. Chi si avvia sulla strada dell’amore, sa che inevitabilmente i dolori della persona amata si ripercuoteranno su di lui: il male qui è condivisione. Nel Nuovo Testamento è la croce del discepolo, che proprio per il 296


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fatto di essere discepolo deve prepararsi a condividere la sorte del maestro, cioè alle “persecuzioni” (interne ed esterne): ma il cui lato glorioso è racchiuso nella logica del centuplo (cf. Mc 10,28-30). La croce di Cristo convoglia anche questa dimensione del dolore, in quanto egli la sceglie per rimanere fedele alla logica dell’amore, della condivisione, accettandone le conseguenze fino al culmine (cf. Gv 13,1) dell’offerta totale di sé agli uomini e al Padre. d) Il male per antonomasia però, quello più temuto e meno facile da capire è la sofferenza che piomba addosso senza preavviso e senza alcun nesso causale evidente con libere scelte umane precedenti. È il male insensato, all’interno del quale rientrano fenomeni come malattie incurabili, handicap gravi, catastrofi naturali... Il fatto di rilevarne l’origine nella relativa autonomia della natura – dai virus ai movimenti geologici – non rappresenta una spiegazione sufficiente per la ragione, che cerca sempre la causa proporzionata in una libera scelta umana. Anch’esse possono poi diventare pedagogiche, ma spesso stordiscono e tolgono le forze. L’enigma diventa immenso davanti alla sofferenza degli innocenti, che pone in maniera angosciante la domanda perché?, in quanto non sembra rientrare in nessuna delle categorie precedenti. La croce di Gesù raccoglie anche questa dimensione del male; la croce non si spiega solo con la sua decisione di amare fino in fondo, con la necessità di imparare l’obbedienza, con il peccato degli uomini... sono in gioco anche l’azione del diavolo e la silenziosa volontà del Padre: il grido “perché mi hai abbandonato?” indica che un aspetto della croce è rimasto oscuro anche per lui. È il residuo misterioso e insensato del male più difficile da accettare. Gesù non si ferma però alla croce, ma vince il male con la risurrezione. Senza la risurrezione i conti non tornano. La morte in croce da sola, senza la luce della risurrezione, non avrebbe alcun senso: sarebbe stato solo il fallimento di un uomo. Il grido “perché mi hai abbandonato?” si inoltra infatti nel mistero di un Dio che sul momento tace. Il grido rimane come sospeso tra cielo e terra, davanti al pesante silenzio divino. Silenzio che resi297


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ste però poche ore, quando risuona la grande “risposta” della risurrezione. È risposta tra virgolette, perché non spiega tutto, ma è la luce più grande che la fede getta sul mistero del dolore: significa che è già avvenuta la vittoria della vita sulla morte. Solo che le poche ore tra il venerdì e la domenica per noi diventano anche anni e anni di attesa: il “perché” umano rimane sospeso più a lungo, finché non vedremo Dio faccia a faccia. Solo la fede nell’eternità che può sostenere un’esperienza pesante di croce. Le risposte umane falliscono tutte. Se l’ateismo sfocia nel buio, la fede non è però chiarezza solare. Non esiste filosofia, ideologia e nemmeno teologia che possa vedere perfettamente chiaro nella croce. L’alternativa è piuttosto tra il buio totale della negazione di Dio e una piccola luce, con la quale sappiamo che un senso esiste ma spesso non sappiamo quale sia. La fede accende la luce del che, ma non può spiegare tutti i perché; ha una spiegazione globale ma non può comprendere i casi particolari. Senza alcun trionfalismo, prima di tentare spiegazioni del male il Nuovo Testamento invita a passare attraverso la sua umana tragicità. Solo allora si potrà riconoscere che il volto cristiano di Dio apre uno spiraglio nel buio del dolore: il mistero pasquale.

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Capitolo IV RAPPRESENTAZIONI TEATRALI, ICONOGRAFICHE MUSICALI E FICTION Chiara Stoppa CHARLIE. ANIMA E CORPO DI UNA GUARIGIONE Testimonianza di Chiara Stoppa, guarita da Linfoma di Hodgkin Provo a riassumere velocemente le tappe fondamentali del percorso della mia malattia e della mia guarigione Dicembre 05: collasso del polmone dx, massa mediastinica di 12x13x19 cm. Diagnosi : linfoma di Hodgkin Gennaio 06: comincio con la chemioterapia Marzo 06: una polmonite bilaterale mi blocca in ospedale per un mese Maggio 06: riprendo la chemio con dosi ridotte al 50% (perchè si sono accorti che forse era troppo devastante) Giugno 06: durante i controlli alla fine del ciclo di chemio mi dicono che il tumore è ancora attivo, quindi... Luglio 06: nuova chemioterapia Agosto 06 controlli: il tumore è ancora attivo, terza chemioterapia Settembre 06: auto trapianto di cellule staminali Novembre 06: radioterapia Dicembre 200: il tumore si è fermato; prima che riparta...i medici vogliono farmi un trapianto di midollo aplo identico con donatore parzialmente compatibile Gennaio 07: mi informo, cerco di capire cosa voglio veramente fare e infine mi rifiuto di fare il trapianto; i medici decidono che se non seguirò il loro protocollo, non mi potranno aiutare in altro modo; me ne vado dall’ospedale Marzo 07: il tumore cresce e si forma una nuova massa; mi danno sei mesi di vita; inizio la psicoterapia

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CONSAPEVOLMENTE - Capitolo IV

Maggio 07: mi sottopongo ad un intervento-sotto consiglio di un amico medico- per recuperare più materia possibile per analizzarla nel dettaglio Giugno 07: i medici sono confusi; non riescono a confermare con certezza la diagnosi di linfoma di Hodgkin Settembre 07: il tumore cresce Novembre 07: decido di collaborare con un nuovo staff di un altro ospedale (quello del mio amico); mi dicono di fare il trapianto ma di fronte al mio ennesimo rifiuto mi consigliano di provare una quarta chemio ( anche se secondo loro non darà grandi effetti perchè ormai sono chemiorefrattaria e rispetto a quelle che ho già fatto questa è “acqua di rose”...) Novembre 07 - Luglio 08: faccio la chemio ma alle mie condizioni, con i miei tempi e con i miei pensieri; i medici disapprovano perchè se non rispetto il protocollo la chemio non fa l’effetto che dovrebbe fare Maggio 08: un controllo di routine mostra che il tumore è fermo Luglio 08: saluto e vado in vacanza Luglio 08 - Maggio10: faccio controlli continui ( sempre con i miei tempi...con solita disapprovazione da parte dei medici...ma loro non capiscono che è meglio stare nell’acqua del mare piuttosto che nella macchina della TAC...) Dicembre 13: passo finalmente il turno e andiamo a un controllo all’anno. Wow! Ciao...che avventura che stai vivendo anche tu. Posso solo dirti che ti capisco. So cos’è quel dolore, quella tristezza, quel domandarsi, quel resistere. È una storia complicata la nostra. Purtroppo io non ho nessuna formula magica. Non conosco l’elisir di lunga e felice vita. Ma posso raccontarti un pochino meglio la mia storia. Sono stata in cura all’Humanitas di Rozzano (Milano) per un anno. Ho fatto la chemio. Ho rischiato la vita con una polmonite bi-laterale. 300


CONSAPEVOLMENTE - Capitolo IV

Dopo 6 mesi non aveva funzionato. Ho fatto un’altra chemio. Dopo due mesi, niente. Provo una terza chemio. Niente. Mi fanno l’auto trapianto di cellule staminali ( la cosa peggiore che abbia mai fatto in vita mia, un dolore infinito, morfina...sete...sete...sete...non riuscivo a bere... per 20 giorni...). Parziale remissione, ma niente di che. Radioterapia. E qui succede una cosa. Incontro una persona che mi parla del dott. Hamer. Della sua storia. Di quello che gli è successo nella sua vita. (Te la riassumo velocemente, magari cercala su qualche sito ufficiale.) Il dott. Hamer perde un figlio in un incidente tragico. Lui e la moglie si ammalano di tumore .Il padre sogna il figlio. Il figlio gli parla. Il dott. Hamer inizia a studiare, a pensare. Capisce che forse non c’è nessuna cellula impazzita ma che la malattia è una semplice reazione biologica ad un avvenimento che l’ha preso in “contropiede”. Lui e la moglie guariscono. Il dott. Hamer continua a studiare. Ricerca. Parla con gli ammalati. Capisce che ogni organo del corpo è collegato al nostro cervello e di conseguenza ad un “pensiero”. Collega corpo-psiche-cervello. (Interessante). Tutto quello che in ospedale non fanno. Vedono solo la malattia ma non quello che c’è dietro: una persona con la sua storia personale e unica. Inizio a studiare anch’io. A pensare. Intanto i medici spingono con insistenza per fare un trapianto aploidentico con mia sorella. Giro l’Italia. Chiedo consiglio a medici, amici, gente per strada. Faccio di tutto. Penso. Mi si contorce il cervello. Cerco una risposta che non trovo. Ognuno ha la sua. Come si fa? Allora intuisco. Capisco. Finalmente. Devo scegliere. Io devo fare una scelta. Cosa voglio fare? Sento che il trapianto è la mia soluzione? NO. PUNTO. I medici sono strabiliati. Mi tormentano anche chiamandomi al telefono. Per loro, devo fare il trapianto! Sono pazza?! NO. 301


CONSAPEVOLMENTE - Capitolo IV

Perché io ho scelto. Ho scelto che il midollo di mia sorella non ne sapeva niente del mio problema. Non che io avessi qualcosa contro il midollo di mia sorella. Ne sarei stata onorata. Ma non c’entra niente con il mio corpo, con la mia storia. Tutto qua. Molto semplicemente questo. Ho iniziato a fare un lungo percorso di psicoterapia ( metodo EMDR ). Non ho lottato. Non c’è niente da lottare. Contro chi? Contro me stessa? Contro le mie cellule? Ma dai... l’unica cosa da fare è ascoltare, aspettare, mettere in moto altre e nuove energie. L’unico consiglio che ti posso dare è quello di fare della psicoterapia. Quella sì. È un viaggio bellissimo nel passato, presente e futuro. Wow! Durante le terapie facevo fatica. Saltavo degli incontri. Ma fa niente. Intanto si inizia. Quando poi, secondo i medici, mi rimaneva una settimana di vita, ho deciso di rifare un po’ di chemio (cambiando ospedale e andando al Policlinico di Milano) ma alle mie condizioni. Loro mi davano per spacciata: se tutte le altre chemio non avevano funzionato perché doveva funzionare questa?Perchè ero io diversa, non tanto la chemio. Il mio pensiero era diverso. Non avevo più paura. Il dott. Hamer mi ha insegnato a non aver paura della malattia perché semplice processo biologico. Parte della natura. Parte di noi. E se fossi morta...sarei morta con la pace nel cuore perché io avevo scelto. Avevo fatto la mia scelta. Ed è una cosa incredibile. Scegliere. Ti dona la forza e la pace. Perché... “Bisogna essere duri senza perdere la tenerezza.” (Ernesto Che Guevara) P.S. Il dott. Hamer sostiene che le metastasi non “esistono”. Ogni organo è a sé. Le metastasi sono la nostra paura, paura di morire, paura profonda. Mi dirai, ma io non ho paura?! E io ci credo...veramente...ma non basta, i medici ci mettono paura, la chemio ci mette paura, gli altri di fronte alla malattia ci mettono paura... 302


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Ora, dopo questo, penserai che sono pazza o invasata di qualche setta. Tranquillo, non è così. Se ti va leggi qualcosa e se ti riconoscerai nelle parole scritte da Hamer, prendile per buone. Se non sarà così, va bene comunque. Questo è solo un passaparola. Ciao con il mio cuore Questo è il percorso della mia storia. Ho incontrato molte persone. Ognuno aveva la sua storia da raccontare. E io cosa dovevo fare? Ho raccolto pazientemente quello che trovavo lungo la strada. Poi ho pensato e infine ho scelto. Ho scelto quello che secondo me poteva farmi stare meglio, guarire, affrontare questa malattia, capire i miei perché e molte altre domande che mi frullavano nel cervello. Tra le varie cose che io ho scelto, c’è anche la psicoterapia. Nel marzo del 2006, mentre ero rinchiusa in isolamento in ospedale per quasi un mese, mia madre disse ai medici che forse avevo bisogno di un aiuto psicologico. Mi mandarono in camera una psicologa dell’ospedale. Questa uscì soddisfatta e sorridente, dicendo: “ Non preoccupatevi. Chiara è forte. È di ottimo umore. Nessun problema.” Che sciocca, mi verrebbe da dire. Solo perché non mollavo il mio sorriso, solo perchè non cedevo alla tentazione di far ridere sempre e comunque, questo non vuol dire che io non avessi bisogno di un aiuto. Che sciocca. Ma ero anch’io che non volevo accettare di averne bisogno. Ho dovuto capire molte cose.Ho capito soprattutto che il farsi aiutare non è un gesto di debolezza, ma di grande forza, di fiducia negli altri, di intelligenza nel saper raccogliere e mettere in moto nuove energie. Questo ho fatto. Ho messo in circolo nella mia testa e nel mio sangue nuove energie. Ho dato una rinfrescata ai miei pensieri, scoprendone anche di nuovi. Cambi di prospettiva. Adoro questo gioco. 303


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La mia vera fortuna è stata di incontrare delle persone meravigliose. Perchè la vita è fatta di incontri. Ho incontrato molte persone. Ho parlato con loro. Ai tavolini di un bar. Per strada. Al parco…Parlavo. Raccontavo. Di me. Con la difficoltà di ripetere ogni volta la mia storia. Ma intravvedendo negli occhi degli altri la luce della speranza. Si sentivano capiti, protetti, ascoltati. E così ogni volta che mi cercavano, ripetevo, parlavo, raccontavo. Ma non è poi questo il mio lavoro? Faccio l’attrice. Racconto e faccio vivere ogni volta una storia. Questa volta è semplicemente la mia storia. Incontrare le persone. Tramite il teatro, che è il tempio dell’incontro. “Il ritratto della salute”, il mio spettacolo. Nessun elisir di lunga vita, nessuna formula magica. Solo una ragazza di 25 anni che affronta una malattia. E quando le dicono che sta per morire decide di affrontare se stessa. La malattia come passaggio. Come un viaggio in una terra lontana. Un viaggio dal quale a volte si torna indietro. Almeno per me è stato così e, come scrive Carver in una sua poesia: “...è che te ne sono grata, capisci? e te lo volevo dire.” Vorrei prendervi per mano. Raccontarmi e raccontarvi. Vorrei farvi ridere. Anche nel pianto. Perchè mi dissero che quando mi fossi ritrovata a ridere della malattia, allora, solo allora sarei stata sulla strada giusta per la guarigione. Lo ricordo, quel giorno… nel letto, iniziai a ridere perchè stavo per morire. E risi così tanto che quando finii le lacrime stavo meglio. E allora potei riniziare. A vivere. Dedicato a chi non c’è più su questa terra. Dedicato a chi non ha paura. Dedicato ai medici che cercano una domanda e non una soluzione. 304


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Dedicato a mia madre che mi ha dato questa vita. Dedicato a chi, come me, passando le notti in ospedale, si chiedeva se fuori c’era qualcuno che pensava ai ragazzi distesi in un letto d’ospedale. Dedicato a tutti quelli che mi hanno regalato un po’ della loro energia. Dedicato a chi ascolta. Dedicato a voi.

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Roberto Scarpa CHE STORIA VUOI DIVENTARE DA GRANDE? A tutti noi da bambini è stata fatta una domanda insidiosa: che lavoro ti piacerebbe fare da grande? Sicuramente lo chiedevano anche a Robert Louis Stevenson. Del resto Robert era nato a Edimburgo nel 1850 da una famiglia di ingegneri specializzati nella costruzione di fari; questo era stato il mestiere del nonno e del padre e avrebbe dunque dovuto essere anche il suo: aiutare i naviganti ad evitare i naufragi. Forse gli sarebbe piaciuto farlo. Purtroppo era gracile ed ebbe sempre una salute provvisoria. Aveva una terribile malattia, la tubercolosi, e da bambino fu spesso costretto a passare lunghe giornate a letto. Gli stava vicino senza chiudere occhio, Cummy, l'amatissima bambinaia; fu lei a leggergli le prime fiabe, a stupirlo con i suoi fantasiosi racconti e la voce dolce e incantatrice. Le cose più o meno andavano così... quando la giornata si avviava alla fine, il bambino veniva fatto svestire e accompagnato a letto. Proprio davanti casa, però, visibile anche da questa postazione notturna, c’era un lampione, perciò il piccolo Stevenson poteva tutte le notti veder arrivare un uomo, che di nome faceva Leerie, e di professione faceva il lampionaio. Ogni sera - recita una poesia di Stevenson: quando il sole cala arriva Leerie con lanterna e scala arriva nel buio e illumina la strada. Tommy vorrebbe fare il macchinista e Mary andare al mare e mio padre è un capitalista ricco da invidiare. Ma io, quando sarò cresciuto e potrò scegliere ciò che voglio fare O Leerie, andrò in giro la notte e accenderò i lampioni insieme a te!... Ebbe inizio tutto così, del resto Stevenson non avrebbe mai potuto fare il costruttore di fari. Era un mestiere duro quello, per il quale era richiesta una salute di ferro. I fari in Scozia non si costruivano comodamente sulla terraferma ma su degli scogli in mezzo al mare, esposti alle intemperie. E le tecnologie non erano certo 306


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quelle di oggi. Fatto sta che la combinazione fra la seduzione del lampionaio Leerie e la malattia aiutarono quel bambino ad immaginare diversamente il suo futuro, ad immaginarlo in modo autonomo e originale. Originale, che per qualcuno significa bizzarro, estroso, ma che per lui significava rispettoso, al tempo stesso, delle proprie radici e della propria indole non addomesticabile. L’indole del giovane Stevenson era infatti già chiara: da grande avrebbe acceso luci che aiutassero gli altri, ma lo avrebbe fatto in un senso più vasto rispetto al padre e al nonno. Per comprendere che tipo di luci quel bambino avrebbe acceso bisogna sapere che subito dopo la magica comparsa di Leerie, iniziavano per lui delle straordinarie avventure: non appena si coricava nel buio il suo letto infatti si trasformava in una nave: Robert salutava gli amici rimasti sul molo, chiudeva gli occhi e mollava gli ormeggi. Il mattino seguente, dopo aver navigato tutta la notte come in un volo, si risvegliava salvo nella sua stanza e attraccava di nuovo al molo il suo veliero. Nel corso di questi viaggi, che si ripetevano ogni notte e duravano tutta la notte, Robert vedeva, chiaramente come fosse stato giorno, marciare interi eserciti, re, imperatori. Il bambino marciava con loro e infine, assieme a questi fantasmi, entrava trionfalmente nella incantata città del Sonno. In questa seconda vita notturna Robert era come dice lui stesso - completamente solo, nessuno poteva dirgli che fare. Faceva eccezione, invisibile, un compagno che soltanto lui poteva udire e avrebbe vegliato sempre su di lui. Robert non sarebbe mai stato solo: la sua anima avrebbe fatto luce raccontandogli storie per tutta la vita. Per farla breve, le luci che guidavano Robert e il suo letto-nave nelloceano dei sogni erano quelle delle infinite costellazioni delle storie. Chissà se glielo chiesero davvero da bambino quale lavoro avrebbe voluto fare da grande. Robert probabilmente, come del resto qualsiasi bambino giudizioso, non avrebbe saputo rispondere. Se però quella stessa domanda gli fosse stata rivolta una decina di anni dopo, immagino avrebbe risposto, sorridendo, che gli sembrava una domanda mal posta. Poi avrebbe dato la sua versione 307


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di come quella domanda avrebbe dovuto essere correttamente formulata. Non “che lavoro voglio fare”, dovete chiedermi, dovreste domandarmi piuttosto: “che storia vuoi diventare da grande?”. Questa è la domanda che davvero mi interessa, signore, e fin da bambino. Credo che proprio questo sia il significato della risposta che dette il famoso neurologo Oliver Sacks quando gli venne domandato: Quand’è, secondo lei, che si può dire di un uomo che è sano? Dopo un attimo di esitazione Sacks (pensando alle esperienze avute con i malati di encefalite letargica che aveva per primo curato, provocando i famosi “risvegli”), rispose così: un uomo sano è quello che è capace di raccontare la sua storia personale: che sa da dove viene, dove è, e crede di sapere dove va compresi i suoi progetti e infine la morte. Quell’uomo si sente dentro un racconto, è una storia e può raccontarla. Non appena, per qualche ragione, queste storie vengono a mancare – e spesso è la malattia a determinare questa condizione –, le persone non sanno più né chi sono né che cosa debbano fare e sono alla deriva. In fondo Sacks rispose con le parole dei suoi pazienti che più volte gli avevano rivolto questa preghiera: «Racconti la nostra storia, per favore, altrimenti nessuno la saprà mai». Quando conobbi questa risposta non potei evitare di chiedermi se io ero capace di tanto. No, non ne ero capace. Conoscevo il mio passato in modo sbadato, su dove ero mi venivano raccontate un sacco di frottole, quanto poi a immaginarmi il futuro, per quanto guardassi vedevo soltanto pochi metri davanti a me e poi tanta nebbia. Ero forse normale, ma non sano. La normalità stabilisce il nostro corrispondere a degli standard ma niente può dirci del nostro essere unici. Per essere sano dovevo recuperare la mia unicità, e in un certo senso accettare – come Stevenson – la mia anormalità. Dovevo recuperare la mia storia. 308


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Secondo Oliver Sacks... lo studio della malattia non può essere disgiunto da quello dell’identità. Le anamnesi infatti, non ci dicono nulla sull’individuo e sulla sua storia; non comunicano nulla della persona e della sua esperienza, di come essa affronta la malattia e la lotta per sopravvivere..., accennano al soggetto con formule sbrigative - «albino, femmina, trisomico di 21 anni» - che potrebbero riferirsi a un essere umano come a un ratto. Per riportare il soggetto umano che soffre, si avvilisce, lotta, al centro del quadro, dobbiamo approfondire la storia di un caso sino a farne una vera storia, un racconto: solo allora avremo un «chi» oltre a un «che cosa», avremo una persona reale in relazione alla malattia. Per questo, Oltre all’approccio oggettivo dello scienziato... occorre anche un approccio intersoggettivo, che ci aiuti a vedere il mondo patologico con gli stessi occhi del paziente. Non si può - prosegue Sacks - studiare minuziosamente e per tanti anni un qualsiasi gruppo di pazienti senza giungere ad amarli... amandoli si arriva a capirli... Dopo aver passato quindici anni della mia vita a stretto contatto con questi pazienti, li vedo come le persone più colpite e tuttavia più nobili che abbia mai conosciuto... le loro vite sono state per sempre infrante, irreparabilmente spezzate. Ma in tutti gli anni che li ho conosciuti ho trovato in essi ben poca amarezza o rancore; ho trovato invece, e in definitiva non so darne spiegazione, un’immensa forza di affermazione. Vi è in questi pazienti un coraggio estremo, prossimo all’eroismo, poiché, essendo stati messi alla prova oltre ogni immaginazione, sono riusciti a sopravvivere. E non come storpi, con la mentalità di storpi, ma come figure rese grandi dalla strenua sopportazione della loro afflizione, dal loro coraggio senza lamenti, dalla loro impavidità, e infine dal loro sorriso; invece di soccombere al nichilismo e alla disperazione, hanno conservato una inesplicabile affermazione della vita... Ero solito pensare all’Inferno come a un luogo dal quale nessuno ritorna. I miei pazienti mi hanno insegnato altrimenti. Coloro che ne ritornano sono segnati per sempre da quella esperienza; hanno conosciuto, e non possono dimenticare, gli abissi più 309


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profondi. E tuttavia l’effetto di tale esperienza li ha resi non solo più capaci di immensa comprensione ma, alla fine, innocenti e gai come fanciulli. Proprio come era, a detta di coloro che lo conobbero, Stevenson: gaio, innocente, gentile, nobile, come un fanciullo. In virtù della sua “malattia” – “grazie alla sua malattia” - Stevenson non aveva potuto mai, neanche per un giorno, dimenticarsi del suo corpo come avviene per noi “sani” che davanti alla malattia ci fermiamo stupiti e perfino indignati, come per il tradimento di una persona amata. Stevenson, che del proprio corpo fu sempre consapevole, sapeva al tempo stesso di non essere tutto contenuto in quel piccolo recipiente spesso inutilizzabile. C’era qualche altra cosa, e ignorava cosa fosse, che lo spingeva, perfino nella febbre, a salpare nonostante tutto lo sconsigliasse. Qualcosa che determinava un perpetuo conflitto fra la forza di gravità che lo costringeva a letto e l’energia inestinguibile di immaginazione che lo faceva volare attorno al mondo. Quel bambino, che era stato straordinariamente affezionato ai suoi giocattoli (e in particolare ai suoi soldatini di piombo), crebbe, divenne uomo, divenne un narratore, e parlò di tutto questo in mille storie che ancora ci illuminano la via. Di che cosa parlano le storie che ci raccontò? Parlano del “male”, della realtà umana e soltanto umana del male, ma parlano anche di un irrefrenabile desiderio di libertà e di felicità. Animato da un impaziente desiderio di salute e da un salutare scetticismo riguardo allo scetticismo, aveva compreso che non c’è proprio niente da fare con il nulla: dal nulla non si ricava niente. Dunque decise di fuggire dalle due prigioni, custodite dal padre e dalla società inglese, che si chiamavano “puritanesimo” e “pessimismo”. Quelle due prigioni gli avrebbero impedito di proseguire nella sua generosa opera di illuminazione: perciò decise di evadere e recarsi lontano, molto lontano, nelle isole dei mari del sud. Lì diventò Tusitala che in samoano significa l’uomo che racconta storie . 310


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Fuggì – e non gli fu mai perdonato per realizzare la storia che voleva essere, per diventare la storia che aveva sognato nel suo letto di bambino, e soprattutto per trovare il suo tesoro: la felicità. Tutta la sua opera, compresa la sua vita secondo Chesterton è una risposta a una sola domanda: «Può un uomo essere felice?». La sua risposta fu: «Sì!». Non c’è dovere che sottovalutiamo di più - scrisse una volta - del dovere di essere felici. Quando siamo felici seminiamo anonimi doni nel mondo, che restano sconosciuti anche a noi stessi o, se rivelati, sorprendono il benefattore più di chiunque altro. L’altro giorno un monello cencioso e scalzo correva per la strada dietro a una biglia, e aveva un’aria così allegra da mettere di buon umore chiunque lo vedesse... io approvo chi incoraggia i bambini sorridenti piuttosto che quelli piagnucolosi... È meglio incontrare un uomo o una donna felice piuttosto che una banconota da cinque sterline. Lui o lei sono fuochi che irradiano benessere; il loro ingresso in una stanza sembra accendere una candela in più... dimostrano nella pratica il grande Teorema della Vivibilità della Vita... Quel «bambino malato che trascorse la vita a cercare di guarire», Tusitala, morì a soli 44 anni, improvvisamente, come colpito da una freccia, mentre mescolava un’insalata. Quindici anni prima, previdente, aveva scritto il proprio epitaffio, che ancora oggi si può leggere sulla sua tomba a Vailima. Volle che fosse leggero e allegro come le ali aperte di un uccello: Under the wide and starry sky, Dig the grave and let me lie. Glad i lived and gladly die, And i laid me down with a will. This be the verse you grave for me: Here he lies where he longed to be; Home is the sailor, home from the sea, And the hunter home from the hill. Sotto questo cielo grande e stellato, scavate la mia tomba e lasciatemi giacere, Felice ho vissuto e felicemente muoio e mi abbandono alla morte con una volontà. Questi sono i versi che voglio incidiate per me. Qui Giace dove desiderava stare; a casa è il marinaio, a casa dal mare, E il cacciatore a casa dalla collina. 311


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Viviamo totalmente immersi, talvolta in noi stessi, altre volte in una città, con le sue mille strade e luci, altre volte in un bosco o in un cielo stellato. Ad ogni modo, dovunque ci troviamo, soli o in compagnia, ciò che ci accompagna, ci aiuta e ci sostiene nel nostro cammino è sempre una storia, cioè: l’idea di una meta accompagnata dal rinfrescante ricordo di un’origine. Un uomo sano - come sostiene Sacks, come dimostra Stevenson - è una storia, è in una storia e sa raccontarla. Dobbiamo impedire, come riuscì a Stevenson, che la malattia - la nostra, quella della società in cui viviamo - interrompa o distorca la nostra storia. Proprio la malattia - come per i malati di Sacks e per Stevenson può diventare il motivo per ricostruire la nostra storia e raccontarla prima di tutto a noi stessi con un significato più commovente e pieno. Possiamo essere felici, le storie ci sostengono nella nostra ricerca di questo tesoro. Purtroppo sottovalutiamo spesso il miracoloso potere delle storie. Siamo magari disponibili ad ammettere che parole e storie hanno la capacità di procurare dolore ma guardiamo con sufficienza chi ci dice che possono accompagnare il processo di guarigione. Eppure sappiamo che sono tutt’altro che innocue, che un rifiuto, un’umiliazione, una parola sbadata, un giudizio negativo possono ferire, talvolta mortalmente. Se possono fare male, le parole possono quindi sicuramente anche fare bene: e infatti una parola di nostra madre era sufficiente a farci raggiungere il paradiso, e la parola di un dottore, che osserva il foglio che contiene i numeri che siamo diventati, puòrenderci felici. Questo potere delle parole ha del miracoloso e i miracoli non si possono spiegare, possiamo peròfare qualche ipotesi: per esempio che il dolore non sia un fenomeno soltanto fisico. Il miracolo le parole lo potrebbero realizzare perché sono composte di una sostanza simile a quella delle anime, le quali, affamate non meno dei corpi, passerebbero tutto il loro tempo a cercare il proprio cibo e lo troverebbero 312


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proprio nelle storie e nel canto. Purtroppo, proprio come i nostri palati, non sempre le anime sono capaci di distinguere il cibo sano da quello avvelenato. Ecco perchéle parole possono fare sia bene che male ed ecco quindi perchéègiusto dedicare loro attenzione. Per esempio chiedendo loro di aiutarci a comprendere che cosa sia ciòche chiamiamo anima. Perché soltanto loro possono aiutarci in imprese assurde come questa. Ascoltiamo una poetessa: L’anima la si ha ogni tanto. Nessuno la ha di continuo e per sempre. Giorno dopo giorno, anno dopo anno possono passare senza di lei. A volte nidifica un po’ più a lungo sole in estasi e paure dell’infanzia. A volte solo nello stupore dell’esser vecchi. Di rado ci dà una mano in occupazioni faticose, come spostare mobili, portare valigie o percorrere le strade con scarpe strette. Quando si compilano moduli e si trita la carne di regola ha il suo giorno libero. Su mille nostre conversazioni partecipa a una, e anche questo non necessariamente, poiché preferisce il silenzio. Quando il corpo comincia a dolerci e dolerci, smonta di turno alla chetichella. È schifiltosa: non le piace vederci nella folla, il nostro lottare per un vantaggio qualunque e lo strepito degli affari la disgustano. Gioia e tristezza non sono per lei due sentimenti diversi. È presente accanto a noi solo quando essi sono uniti. Possiamo contare su di lei quando non siamo sicuri di niente e curiosi di tutto. Tra gli oggetti materiali le piacciono gli orologi a pendolo e gli specchi, che lavorano con zelo anche quando nessuno guarda. Non dice da dove viene e quando sparirà di nuovo, ma aspetta chiaramente simili domande. Si direbbe che così come lei a noi, anche noi siamo necessari a lei per qualcosa. 313


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Wislawa Szymborska ci ricorda una voce che mancava al nostro inventario: fegato, cuore, milza, polmoni, dati, tabelle, diagrammi, cortisolo, betaendorfine...ma dove abbiamo messo l’anima? Una volta, in Africa, un esploratore bianco ansioso di affrettare il suo viaggio pagò i portatori per una serie di marce forzate. Ma costoro, poco prima di giungere a destinazione, posarono i loro fagotti e non vollero più muoversi. Nulla valse a convincerli, nemmeno la promessa di un raddoppio della paga: dissero che dovevano fermarsi per farsi raggiungere dalle loro anime. Fermiamoci anche noi allora, e facciamoci raggiungere. Perché, e questo è l’augurio con cui chiudo, si possa proseguire nella nostra avventura assieme alle nostre anime. r. s. 22 / 02 / 2015

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Emanuele Ferrari IL CANTO DEL DOLORE. FOCOLARE DOMESTICO E DIMENSIONE ABISSALE NELL’IMPROVVISO D 935 n. 3 di Schubert 1. TEMA Modestia artistica L’Improvviso D 935 n. 3 comincia con un tema semplice e accattivante. Se questo accade in molti pezzi di Schubert, caratteristico qui è il modo, cioè l’atteggiamento espressivo, con cui esso viene introdotto. Gli incipit di Mozart, per esempio, danno spesso l’idea che il tema sia un personaggio che entra in scena e dà avvio allo spettacolo, mentre Beethoven a volte carica le prime note delle sue composizioni con un’enfasi oracolare: «Silenzio, lo spirito detta!». E Schubert? La sensazione che ci danno alcuni suoi temi, e questo in particolare, è che siano senza pretese. Non parlo della qualità musicale del pezzo, ma di un atteggiamento comunicativo che chiamerei di modestia artistica. Il tema è pregevole, la scrittura pianistica è perfetta, il pezzo a cui dà avvio è ricco e interessante, ma l’autore sembra volercelo presentare all’insegna di una dimessa semplicità. Per come Schubert ce la porge, la melodia sembra quasi l’annotazione, il ricordo estemporaneo di qualcosa di udito da qualche parte. E’ un tema cantabile, ma non invoglia ad inventare delle parole. Più che a cantarlo, ci invita a canticchiarlo, a mezza voce e con quel tanto di abbozzato e approssimativo, ma anche di confidente e bonariamente disteso, che l’alterazione del verbo comporta. Un cantare informale e fra sé che fa a meno delle parole: la, la la la, la… Un’espressione che sta tra il parlato e il cantato, con un che di popolare e il tocco naif di una filastrocca risaputa. Abitare il tempo 315


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E’ sufficiente ascoltare la prima metà del Tema (mis. 1-8), per rendersi conto che questo gioco artistico e comunicativo regge solo in presenza di una relazione originale tra tempo, sonorità e divenire musicale. Pochi, a ben vedere, sono i fatti, gli avvenimenti musicali di questo primo periodo, composto da due frasi regolari: se assumiamo l’orizzonte di attesa di un pezzo di Beethoven o di Mozart, concluderemo con impazienza che non succede quasi niente. Le cose non vanno meglio nella seconda metà del Tema: andamento uniforme, una modulazione (in realtà un giro semi modulante) che prima di cominciare ad allontanarsi è già rientrata, di nuovo due frasi simmetriche e una brevissima coda in eco. Roba da poco, sembra dire Schubert nel dare avvio al pezzo, ma l’incanto che si sprigiona lo smentisce. La concezione classica del tempo come contenitore di fatti qui è ribaltata. Non c’è bisogno di avvenimenti che lo riempiano per renderne l’esperienza interessante. Il suono del pianoforte è come in espansione, è leggero ma profondo, tridimensionale. E’ un suono «spugnoso», nel senso che ha più volume (in senso spaziale) che massa o peso. Un suono che sembra generare il tempo anziché riempirlo. Ne deriva una concezione non drammatica del tempo, in cui non sono i fatti e i conflitti ad attirare la nostra attenzione. E’ come se ogni accordo, ogni cambio di armonia, ogni piccola inflessione melodica svelassero una primitiva e originaria forza emozionale. Ascoltando Schubert non si ha la sensazione di muoversi nel tempo, come accade nelle fasi di sviluppo di molti pezzi classici, ma di abitarlo. Non c’è bisogno di forze contrarie, di opposizioni, di rotture violente dell’equilibrio perché tutto abbia un senso. E’ un modo di concepire il tempo che a tratti affiora anche in Beethoven, a testimonianza di quanto variegato e plurale sia l’orizzonte delle logiche musicali da lui esplorate, ma che trova in Schubert una realizzazione piena, coerente ed omogenea. La prima parte del Momento musicale D 780 n. 2, per citare un altro pezzo, è un esempio chimicamente puro: ascoltata in attesa di «avvenimenti», non può che condurci all’impaziente attesa che qualcosa succeda, salvo dover constatare che nel corso del pezzo 316


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Schubert la ripete ben tre volte come il refrain di un rondò, e dunque si tratta di una colonna portante del pezzo, che sarebbe paradossale percepire come «un male necessario». Nel nostro Improvviso le cose vanno un poco meglio, ma non abbastanza: l’entità degli avvenimenti musicali presentati nel Tema rimane minima, se non si cambia prospettiva. E’ noto il giudizio critico con cui Schumann liquidava il pezzo come poco significativo: «Si tratta di una serie di Variazioni poco o addirittura per niente interessanti su un tema dello stesso valore», per poi concludere invitando i pianisti a suonare i primi due pezzi della raccolta (il nostro Improvviso è il terzo di quattro) e saltare al quarto. L’omissione del terzo avrebbe consentito agli amanti di Schubert di… «avere un altro bel ricordo di lui»! (Schumann, 1991, p. 602). Un’analisi espressiva del pezzo che cerchi di rendergli giustizia dovrà quindi confrontarsi con un orizzonte temporale in cui vi è una significatività diffusa che non deriva dalla promessa di contrapposizioni e sviluppi avvincenti; non nell’addensarsi di avvenimenti musicali degni di nota risiede il valore del pezzo, ma altrove. Regolarità esibita Il punto da cui partire è la regolarità fraseologica e armonica. Due periodo da otto misure, formati da frasi di quattro, da semifrasi di due e da incisi di una. Unica deviazione: l’aggiunta di due misure di coda in eco alla fine. E’ un raro esempio in cui l’analisi del periodo che si insegna agli studenti in Conservatorio dà qualche soddisfazione. Non è un caso unico, ma a livello di grande musica d’arte la regolarità assoluta non è molto frequente. Di Mozart, ad esempio, Pestelli afferma che «lascia una lingua musicale incomparabilmente arricchita, non tanto in neologismi, quanto nella sintassi, nelle violazioni a quella regolarità strofica che è il sedimento pernicioso del Settecento» (Pestelli, 1979, p. 173). Quello che dà a pensare è che nel Tema questa regolarità non solo non viene evitata, ma è esplicitamente messa in mostra. La si sente nell’alternanza delle cadenze, una sospesa alla fine della prima frase (come da 317


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manuale: il discorso continua), l’altra perfetta alla fine della seconda (per chiudere); di nuovo sospesa alla fine della terza, e ancora perfetta alla fine della quarta (come sopra). Per di più, tra le prime due frasi c’è un raccordo che dice all’ascoltatore, con didascalica chiarezza, «ecco, ricominciamo», e si ripete, identico, tra la terza e la quarta frase. Ce n’è abbastanza per incuriosirsi. Resta un altro punto da controllare: l’inizio della seconda parte, cioè la terza frase (la struttura del Tema rispetto alle frasi, come si diceva, è 2 + 2, cioè due frasi nella prima parte del Tema e altre due nella seconda), là dove, secondo una retorica ben nota a Schubert, dovrebbero addensarsi gli eventi più significativi (modulazioni, accordi dissonanti, cambi di andamento, ecc.) destinati ad essere riassorbiti e riequilibrati nella quarta e ultima frase. Questa è forse la sorpresa più grande: non c’è nessun cambio di andamento, e soprattutto nessuna vera modulazione; soltanto un giro armonico con due dominanti secondarie, del VI e del II grado, che prima ancora di uscire dal tracciato cominciano a rientrare. Anomalie narrative Per fare il punto della situazione, vale la pena di tradurla in termini narrativi e spaziali. La prima anomalia è che Schubert si priva volontariamente di un formidabile motore narrativo, un vero cardine della cultura Occidentale: lo schema origine – allontanamento – ritorno. Manca la fase dell’allontanamento, della peripezia, col risultato che è come se il tema rimanesse sempre presso l’origine. Per valutare l’importanza di questa rinuncia, possiamo pensare ai romanzi o ai film che conosciamo, e chiederci quanti di essi facciano a meno di difficoltà, allontanamenti, opposizioni; insomma, peripezie. La risposta, con ogni probabilità, sarà: nessuno. Lo schema dell’Odissea, declinato in mille modi, sembra insostituibile. Tutte le famiglie felici sono simili fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo (Tolstòj, 1985, p. 5).

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L’avete mai visto, uno come me? Sono l’uomo che mette in imbarazzo l’Onnipotente. Ci sono ventimila nobili, trenta arcivescovi, quindici re, un papa e un antipapa, ma ditemi dove c’è un altro Goetz. A volte mi figuro l’Inferno come un deserto messo lì ad aspettare me solo (Sartre, 1963, p. 34). E’ singolare che, da prospettive così diverse, sia Tolstoj che Goetz, l’antieroe di Sarte, sottolineino il marchio di unicità del male, la sua funzione di principio di individuazione per differentiam delle situazioni e, nel secondo caso, addirittura di un singolo personaggio. Il proverbio «non tutto il male vien per nuocere» nell’arte occidentale è dunque vero alla lettera, e anche in musica, nella maggior parte dei casi, Lucifero è una benedizione. Il male, da tempo immemorabile, funziona come motore narrativo. Non così, però, all’inizio del nostro Improvviso, il cui Tema sembra volutamente fare a meno di questa formidabile spinta. La seconda anomalia è che Schubert, non pago di aver rifiutato il male come alleato artistico, sembra per soprammercato scegliersene un altro che i grandi compositori fuggono di solito come la peste: la prevedibilità. Abbiamo già osservato la totale regolarità delle frasi, la distribuzione standard delle cadenze (come dire, un po’ alla grossa, dei segni di punteggiatura), l’evidenza didascalica dei raccordi alla fine della prima e della terza frase e la mancanza di cambi significativi nell’andamento e persino nella melodia. Non basta: la successione che apre la terza frase, (dove ci si aspetterebbe la «peripezia») allinea i pochi accordi «lontani» (in realtà nulla più che le dominanti secondarie del VI e del V grado) con un tale senso di consequenzialità logica per l’orecchio da trasformare il possibile, già cautissimo allontanamento dalla tonalità principale, in un vero e proprio conto alla rovescia verso il ritorno, che l’ascoltatore digiuno di armonia avverte con la stessa rassicurante evidenza del musicista. Tutto questo rende il Tema insolitamente prevedibile: una «qualità», questa, assai difficile da maneggiare nella musica d’arte, quasi sempre attentissima ad evitarla. Gli esempi sono infiniti. Una delle pochissime eccezioni 319


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è, The little shepherd, quinto pezzo di Children’s Corner di Debussy, che gioca con la prevedibilità trasfigurandola come elemento di un’estetizzante sospensione del tempo. E’ un caso limite, e il brano è brevissimo. Non sapremmo indicare molti altri esempi del genere. La poetica del focolare Qual è dunque il gioco di Schubert? La risposta sta nel clima di sommessa e radiosa letizia che si sprigiona fin dalle prime note, uno stato d’animo che, come osserva Borgna, tende a persistere nel tempo e a trasformare quest’ultimo «nel fluire di un presente» (Borgna, 2007, p. 20); una descrizione che ben si accorda con l’idea di un tempo non drammatico, da cui siamo partiti. E’ questo nucleo espressivo che, per essere preservato, fa sì che gli apparenti difetti divengano funzionali e strategici. Perché allontanarsi, infatti, da uno stato d’animo che ha «la luce e lo splendore» – ancora Borgna – come elementi costitutivi? Splendore, qui, non va inteso come termine epico legato alla gloria, ma come luminosità interna del suono, realizzata con una scrittura pianistica tanto calibrata quanto apparentemente semplice. Anche la letizia richiede un’ulteriore specificazione: se in alcune arie di Bach la letizia è il presentimento dell’ imminenza del regno, qui essa è priva di ogni sfumatura trascendente, e si declina piuttosto in relazione a quello che chiamerei il culto del focolare domestico, un nucleo di primaria importanza nell’universo espressivo di Schubert. Schubert è il Wanderer, certo, ma la complessa poetica del Viandante si sviluppa e si articola in relazione al punto di inizio, al locativo del domi, al calore originario di cui il vento gelido dell’inverno si incaricherà di cancellare la traccia (Lo Presti, 1995, pp. 158-159). «Quante volte non ricorrono nel canzoniere Schubertiano le espressioni: Haus, häuslich; Heim, heimweg; zu Haus, nach Haus; sogni di fuochi domestici, sospiri a quelle mura da cui è necessario partirsi? » (Bortolotto, 2001, p. 85). Nell’universo di Schubert il focolare domestico è una figura del mito. Ecco il senso del mosaico che abbiamo cercato di comporre fin qui: non di separazioni, 320


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opposizioni e allontanamenti si alimenta questo tema, ma di un rimanere presso; non del tempo del dramma ma del tempo del mito, non di avvincenti peripezie ma della luce soffusa dell’origine. Anche la ripetizione cambia senso e funzione, divenendo ritorno. Le tre ripetizioni, più o meno letterali, della prima frase (vorremmo considerare tale anche la terza frase del Tema, visto che le analogie sovrastano le differenze) hanno il senso e il sapore di un ritrovare ciò che non si è mai perso, di un tornare là da dove non ce ne siamo mai andati. I due ostentati raccordi dopo la prima e la terza frase consentono di assaporare voluttuosamente ogni volta questo evento: il loro senso poetico è di essere segnali dell’imminente ritorno. E’ questo, ci sembra, il senso di quella dimensione domestica che colpisce gli studiosi e gli ascoltatori di Schubert, del suo non condurre mai troppo lontano dal punto centrale, e riportarsi sempre ad esso, come già notava Schumann, (Di Benedetto, 1982, p. 70), ma anche del suo eloquio sublime ma colloquiale, e della dimensione cameristica (termine qui da intendere anche alla lettera) di tanta sua musica. Origine, focolare domestico, tempo del mito, letizia, permanenza nei pressi, ripetizioni come ritorni e ritorni come eventi che perpetuano la vicinanza all’origine. Questo è il perimetro in cui si muove il Tema dell’Improvviso D 935, che sembra vincere l’ardua sfida del circoscrivere interamente un pezzo di musica alla dimensione del domi. Le circostanze storiche, in questo caso, forniscono un riscontro all’analisi espressiva. Abbiamo osservato che il tema, nel modo di offrirsi all’ascolto, ha una leggera sfumatura di déjà vu, quasi fosse una melodia accennata che riaffiora distrattamente alla memoria. Ebbene, Schubert lo aveva effettivamente già usato, in una versione non uguale ma strettamente imparentata, anni prima, come musica di scena per il dramma Rosamunde, principessa di Cipro di Helmina von Chézy, andato in scena con un secco insuccesso nel 1823, e nel Quartetto per archi D 804, dell’anno dopo. Saltando quest’ultimo e risalendo alla fonte scopriamo qualche circostanza significativa. Il tema compare nell’ intermezzo orchestrale tra il 321


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terzo e l’ultimo atto, in cui «la morte del tiranno e lo sposalizio dei giovani compiono il lieto fine» (Fertonani 2005, p. 146). Nel terzo atto Rosamunde, liberata dalla prigione in cui l’aveva gettata il tiranno Fulgenzio, ritorna alla casa della madre adottiva, disgustata dagli intrighi di corte, cercando conforto nell’idillio della campagna. Il tema principale dell’intermezzo rappresenta il viaggio, il ritorno di Rosamunde dagli intrighi e dai pericoli della corte nei luoghi della sua infanzia, una terra favolosa dove regnano pace e armonia; il ritorno dalla realtà al mondo della memoria e del sogno, al mondo dell’utopia; ed è significativo che il ritmo dattilico e una certa somiglianza melodica del tema dell’intermezzo siano echeggiati, nella stessa tonalità di si bemolle maggiore, nel successivo, gioioso coro di pastori […] che di quel mondo è l’espressione sonora (Ivi, p. 148). I romantici iniziarono a privilegiare temi simili a quelli del Lied e che pertanto si potevano cogliere appieno al primo ascolto, ottenendo così un impatto immediato grazie al fatto che ritraevano il loro oggetto iconicamente, indicalmente e simbolicamente (Tarasti, 2010, p. 42). Questa memoria del canto, per dirla ancora con Fertonani, giunge al nostro Improvviso come l’eco di un mondo originario non ancora pervaso dal dolore. 2. VARIAZIONE I Domus e parrocchia A differenza di altri cicli, in cui la prima variazione dà l’impressione di uno scatto in avanti che segna l’avvio di un percorso, qui la sensazione è, al contrario, di fare un passo indietro. Questa variazione sembra per certi versi stare… alle spalle del Tema, quasi a monte. Vi è meno figura – se è facile cantare la melodia del Tema, farlo con la prima variazione non lo è – e meno volume di suono. 322


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La chiarezza fraseologica del Tema sembra diluirsi; al posto delle frasi vi sono dei cicli di espansione e contrazione, tensione e rilassamento, quasi un regredire a un respiro originario della musica che precede le sue forme definite. L’articolata melodia del Tema si scioglie, in questa variazione, passando dalla memoria del canto a quel fluire continuo «simile a una lallazione» che Georgiades considera la marca distintiva della musica strumentale (Georgiades, 2012, p. 206). Anche il pianissimo e la scrittura quanto mai trasparente cooperano, creando un effetto, dopo la presenza a noi del Tema, di lontananza nello spazio. C’è una dimensione di pienezza soffusa, una sorta di eco del paradiso, l’evocazione di un’aetas aurea, ma da lontano. La vicinanza all’origine si conferma come nucleo fondante del pezzo, almeno fin qui. Le frasi all’interno del Tema, lo abbiamo visto, non tracciano un percorso di allontanamento; questa legge di prossimità, che vale all’interno del Tema, è replicata nel passaggio alla prima variazione. Entrambi si muovono, dal punto di vista espressivo, nell’ambito poetico della vicinanza all’origine. Uno stesso criterio espressivo sembra quindi regolare la microforma (cioè i rapporti all’interno del Tema) e la macroforma (cioè i rapporti fra il Tema e le Variazioni successive). Si conferma l’intenzione di Schubert di procedere, a suo rischio e pericolo, entro il circoscritto perimetro di una dimensione domestica – nel senso visto di vicinanza alla domus come nucleo originario – o, giocando con le parole, parrocchiale; non perché abbondino le inflessioni religiose o ecclesiastiche, ma perché la parrocchia è, etimologicamente, vicina alle case. Lo stesso vale per il tempo, che meno che mai si rivela, nel passaggio dal Tema alla prima variazione, un tempo del dramma. E’ invece il tempo di un sentimento «capace di dar voce a un’anima ma non a personaggi messi in condizione di agire» (Piccardi, 2011, p. 534). O, forse, in questo caso, un tempo del mito, in cui la successione degli 323


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eventi non segue la logica cronologicamente lineare di un dramma basato su premesse e sviluppi. Aetas aurea La scrittura solo apparentemente «informale» della prima variazione è tipica degli Improvvisi, ma anche dei Lieder che parlano di acque: una scrittura spesso usata da Schubert, nell’accompagnamento pianistico, per evocare lo scorrere dei torrenti e il mormorio dei ruscelli. Così come in generale nella cultura occidentale, anche in Schubert l’acqua è un simbolo iridescente che può avere molti significati. Uno di essi è quello di eco del paradiso. Ecco allora che in questo incessante movimento la letizia del Tema diviene una stato ricorrente e diffuso e diventa beatitudine: la superficie mormorante dell’acqua diviene eco dell’età dell’oro. Regnava un’eterna primavera: i placidi Zefiri dal soffio tiepido accarezzavano i fiori sbocciati spontaneamente; e subito dopo la terra produceva le messi senza essere stata arata; i campi, senza bisogno di riposarsi, biondeggiavano di spighe colme; scorrevano fiumi di latte e di nettare; biondo miele stillava dal verde leccio (Ovidio, Le metamorfosi, Vol. I, p. 54). La cosa decisamente interessante è che anche in Ovidio la condizione di beatitudine è messa in relazione con il mantenersi presso, con uno stato di permanenza vicino all’origine: I pini non erano stati ancora recisi dai loro monti e trascinati sulle onde del mare per andare alla scoperta di terre straniere: gli uomini non conoscevano altri lidi oltre i propri. (Ivi, p. 51). Stringente è l’identificazione poetica fra il destino degli uomini e quello degli alberi, entrambi destinati allo sradicamento: l’aetas aurea di Ovidio, come quella di Schubert, precede il tempo delle esplorazioni e dei viaggi. 324


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Il bosco sacro La frase che apre la seconda parte e che corrisponde, nel Tema, alla «piccola peripezia», introduce un’inedita sfumatura espressiva (mis. 27-28). Il giro delle dominanti Re, Sol, Do è messo a frutto da Schubert per creare un’ atmosfera di movimento irrequieto, di ricerca insoddisfatta: sul pezzo si stende l’ombra fugace del Wanderer. Questa evocazione ha già la mobilità inquieta di Schumann – le armonie qui non solo cambiano, ma sono cangianti –, la sacralità arcana di certi passaggi di Brahms (il VI grado di do minore di volta a mis. 27 sprigiona mistero e lontananze remote), e un tono suggestivamente narrativo che sarà caro ad entrambi. Un brano come il primo dei Märchenbilder per viola e pianoforte di Schumann è espressivamente vicinissimo: lì come qui, il paesaggio evocato è il bosco sacro come luogo dell’anima. Schubert osa dunque un allontanarsi un poco, rispetto alle corrispondenti misure del Tema (mis. 9-10). Ma è una condizione momentanea, e nelle due battute successive il senso di dolce inevitabilità del rientro, e l’impressione di muoversi lungo un percorso già segnato, sono più che mai pronunciati. L’ultima sezione è caratterizzata dalla presenza, discreta ma penetrante, di sonorità evocatrici dei corni nella mano sinistra (mis. 33-36). Le figure e gli intervalli sono quelli tipicamente usati in orchestra, ma nella regione centrale del pianoforte suonano quasi come campane. Il risultato, questa volta, è idealmente vicino a Wagner. I corni ci accompagnano in porto con i loro bicordi sommessi e radiosi; la loro funzione è emettere segnali di rientro; il loro ruolo, simbolico, è quello di custodi della sacralità della gioia. 3. VAR. II Lusinghiero Quello che non avviene nel passaggio dal Tema alla prima variazione, accade con la seconda: c’è uno scatto, un passo in avanti, un piglio che comincia a profilarsi. Dopo il tempo del mito e l’estasi assorta della prima variazione, qui compaiono movenze e gesti decisamente 325


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più terreni. Si accenna pudicamente al canto e alla danza, e l’atteggiamento diventa ammiccante o, come scrive Beethoven in un quartetto, lusighiero. Nel passaggio all’ottava alta all’inizio della seconda frase la musica comunica nota dopo nota un senso crescente di piacere nel muoversi e cantare, che perde progressivamente ogni timidezza e si fa più estroverso e contagioso (mis. 41-44). Quando Schubert suonava, del resto, «i tasti sotto le sue dita si trasformavano in voci cantanti» (Toffolo 2000, p. 109). Lo spostarsi verso il registro sovracuto aggiunge luminosità a questo processo, e persino una sfumatura di euforia, appena accennata. I segnali di rientro sono ancora più sottolineati che in precedenza: alla fine della prima frase (mis. 40) c’è un addensamento ritmico e armonico della mano sinistra e un’elaborata figurazione discendente della mano destra che sfoggia diminuzione ritmica (le undici note del punto corrispondente nel Tema qui diventano sedici), polifonia implicita (pur suonando una nota alla volta, col suo disegno melodico la destra simula due voci, come fa spesso Bach), cromatismi ornamentali e un gamma insolitamente ampia di intervalli. Insomma: non solo Schubert non si sforza di occultare questi segnali, che come abbiamo già notato sono l’elemento più prevedibile di un percorso già in sé prevedibile, ma gioca a conferire loro un’importanza sempre maggiore. Il quadrato magico Il punto cruciale, quello da tenere d’occhio come ormai sappiamo, è l’inizio della terza frase, quella che apre la seconda metà della Variazione. Questa volta la «piccola peripezia» del Tema, già divenuta bosco sacro nella prima variazione, viene drammatizzata con massicci accordi sincopati della destra (che ricordano da vicino la ventesima delle 32 Variazioni in do minore di Beethoven) e una rutilante figurazione di ottave spezzate nella sinistra, con il primo forte dall’inizio del pezzo. Data la parsimonia dei mezzi impiegati fin qui, l’effetto è dirompente. Schubert altera dunque il carattere del passo – dando per la prima volta all’ascoltatore il senso di un evento altro e imprevisto (mis. 45-46) e quindi del possi326


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bile nucleo di vero allontanamento o peripezia – ma non ne aumenta lunghezza. La piega drammatica è momentanea, ed è rapidamente riassorbita nell’ennesimo segnale di rientro (47-48) che ha l’evidenza di un conto alla rovescia e riporta il tracciato al punto di partenza. A questo punto si capisce meglio il gioco di Schubert: nel quadro di una condizione espressiva di perdurante vicinanza all’origine, anche i cauti e brevi allontanamenti hanno in sé la propria molla di richiamo. La prevedibilità del percorso non è violata né occultata, ma assunta esplicitamente come elemento poetico fondante del pezzo. Ecco il senso e l’efficacia degli incessanti segnali di rientro, che in un quadro diverso potrebbero risultare ridondanti e stucchevoli: ci fanno continuamente toccare con mano che siamo in un ambiente circolare. Il pezzo, fin qui, è una sorta di quadrato magico che ci tiene amabilmente prigionieri lungo un percorso prefissato, e l’abbondanza di segnali di ritorno disseminati ovunque non è che l’esplicitazione di questa struttura e di questo nucleo espressivo. Il culmine di questa tendenza è alla fine della Variazione. Schubert fonde le tre cadenze finali del Tema in un unico arco di rientro che, nelle ridotte dimensioni del brano, suona come un monumento al ritorno, sprofondando gradualmente verso un registro grave che fin qui si è connotato non come oscuro, ma come il grembo caldo e accogliente che custodisce la saggezza delle cose (mis. 52-54). 4. VAR. III Al centro del pezzo Una singola nota in levare avvia la terza variazione, e con l’accordo successivo tutto cambia. Sovvertendo l’impostazione delineata fin qui, Schubert erige al centro del pezzo un monumento al dolore. «Centro», in questo caso, è un concetto sufficientemente preciso, poiché non indica solo l’importanza di questa variazione, ma anche la sua collocazione. Tema, Variazioni I-II, terza variazione, Variazioni IIIIV, Tema. Questo è il disegno generale. E’ evidente che la 327


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terza variazione è il centro di simmetria del pezzo, con l’importanza che ciò le conferisce in termini di «peso» nell’economia complessiva. La sottolineatura degli snodi chiave sembra quindi una tendenza ricorrente: l’avevamo notata con i segnali di rientro, sempre evidenziati ed esplicitati al massimo, e la ritroviamo qui, dove l’irrompere di un nuovo carattere espressivo è enfatizzato e incorniciato dalla sua posizione di centro geometrico. Cosa ne è, dunque, della dimensione domestica e del culto del focolare? Abbiamo visto quanto lo scrivere una musica senza il male sia un’ardua sfida, stupendoci di come Schubert riesca a protrarre questo gioco senza ombra di noia, banalità o toni melensi, riuscendo anzi ad incantarci con la costruzione di un vero e proprio sistema espressivo di segno opposto. E’ ora evidente, però, che il progetto complessivo del pezzo è ancora più ricco, e contempla, proprio nella zona centrale, l’irruzione di quella dimensione del dolore che fin qui è stata accuratamente evitata. Questo suscita qualche domanda su come ciò avvenga, su quale sia il modo di darsi di un simile dolore. L’esperienza del tragico Nel libro L’esperienza del dolore, Salvatore Natoli traccia un ampio affresco che mette a confronto due grandi elaborazioni culturali del dolore nella tradizione occidentale: da un lato l’esperienza del tragico di origine greca, dall’altro la teologia del patto fra Dio e il suo popolo, propria della tradizione ebraico-cristiana. E’ la prima che qui ci interessa, visto che alcune formulazioni sono sorprendentemente chiarificatrici e valide per il nostro Improvviso. «Questa è la constatazione elementare dei greci: l’esistenza è intrisa di dolore» (Natoli 2002, p. 180). Elementare ma gravida di conseguenze, prima fra tutte la circostanza che «la felicità per gli uomini non è separabile dalla consuetudine alla sofferenza» (Ivi, p. 152). Consuetudine alla sofferenza: un’ espressione perfetta a per la musica di Schubert. Se è così, quella messa in atto fin qui, in un pezzo irradiato da un’intima letizia, non è un’operazione di rimozione del dolore, ma un’ attua328


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zione artisticamente coerente del suo modo di darsi: «Il dolore è inevitabile, improvviso, atteso» (Ivi, p.68). Inevitabile, perché il dolore «giunge al mortale con la sua stessa vita» (Ivi, p. 170). Atteso, perché è l’esperienza stessa ad insegnarci, con Pindaro, che «scevro d’affanni / uomo non v’è, né vi sarà» (Ivi, p. 72). Improvviso infine (provvidenziale è l’involontaria identità del termine col titolo del nostro pezzo) in ben due sensi: imprevedibile quanto al giorno e all’ora in cui si manifesterà (dunque la contraddizione con atteso è solo apparente), e istantaneo nel modo di colpirci. «Questa accezione del dolore è perfettamente espressa dalla parola greca páthos che, nella sua forma originaria, denota semplicemente l’esser colpito dall’esterno […]» (Ivi, p. 24). In questo quadro in cui caso e necessità coincidono nel segno di una comune indifferenza al volere umano, «il caso piomba, allora, sull’uomo come tremenda necessità» (Ivi, p. 70). Ecco delineato l’orizzonte espressivo della terza variazione. Non c’è preparazione, non ci sono avvisaglie per questo piombare nel dolore. Semplicemente, vi ci troviamo immersi. In un istante la scena cambia radicalmente, e in un sol colpo ci troviamo alle prese con l’unica variazione in modo minore, l’unica di andamento non fluido, l’unica dominata dal registro grave. E’ un mutamento improvviso e imprevedibile, ma più ci si addentra nel pezzo più cresce in noi una sorta di coscienza retrospettiva che lo rende non solo credibile, ma addirittura necessario: quasi come l’uomo greco immerso nella coscienza del tragico, sentiamo in una morsa stringente e con un nodo alla gola che… avremmo dovuto aspettarcelo. Il canto del dolore Schubert come pochi altri ha la capacità, in corrispondenza di radicali mutamenti espressivi, di fare piazza pulita di ciò che precedeva. Del paesaggio spirituale irradiato dalla luce soffusa che ha dominato fin qui, si perde ogni traccia. Questa dimensione totalizzante e radicale è parte integrante dell’efficacia espressiva dello stile dell’autore. Non si fa semplicemente esperienza dell’o329


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scurità, come in molti altri compositori: con Schubert si cammina «nel buio, perso il ricordo del mattino» (Montale, Ossi di Seppia, «Noi non sappiamo quale sortiremo»). Eppure, anche in questo contesto così radicalmente diverso, un elemento permane: la chiarezza della scrittura e l’evidenza della distribuzione dei ruoli tra i vari elementi in gioco. Ecco allora che la musica è organizzata su tre fasce sonore: i bassi, il registro centro-grave e quello centro-acuto. Ogni fascia ha una funzione espressiva nettamente delineata e percepibile. Le note profonde dei bassi, che risuonano a distanza regolare l’una dell’altra, sono come rintocchi di una processione arcana e fatale, che scandiscono l’inesorabile incalzare del tempo: è il senso del dolore come destino tragico e inevitabile. Il cupo mormorio nel registro centro-grave suggerisce invece fatica, attrito, sofferenza nel procedere: è quasi l’incarnazione sonora dell’amaro rovello di polvere e sale, recato dal Viandante all’incerto cammino. Nell’insieme, queste due fasce producono un formidabile supporto per la terza, quella centro-acuta, che è al tempo stesso una perorazione, una narrazione, uno sfogo e, sopra ogni cosa, un canto, il canto del dolore. Si direbbe quasi del dolore e dei suoi gesti, tanta è l’evidenza plastica della melodia, la sua forza espressiva. Le tre fasce, insieme, producono un effetto oscuro, massiccio e pesante come un monumento funebre, ma la finezza di Schubert è in agguato, e frustra la naturale tendenza di un simile materiale ad esprimersi forte. Piano, scrive invece l’autore, stroncando sul nascere ogni tentazione melodrammatica dell’interprete, e aggiungendo al quadro già ricchissimo l’ulteriore sfumatura dell’ inespresso: è un dolore che non ha neppure lo sfogo del gridare. E’ un dolore senza conforto, sotto il segno dell’amarezza, nel solco dei paesaggi desolati dello spirito ampiamente esplorati da Beethoven. Eppure, il miracolo avviene: da questo quadro tragico e rigoroso si sprigiona una voluttà del canto che è paradossalmente il vero sfogo di questo dolore; non il gridare, dunque, ma il cantare. Il dolore in sé non ha senso, ma ne riceve uno se viene detto, narrato, cantato, 330


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messo in musica. «L’arte in tanto ci consola perché è capace di metterci in una diversa relazione col dolore permettendoci di guardarlo» (Natoli 2002, p. 171). Nella seconda frase il canto e l’accompagnamento sono trasposti un’ottava sopra; in termini visivi, la massa oscura si schiarisce un poco. Ma questo effetto non crea sollievo o alleggerimento: al contrario, rende ancora più nitidi i lineamenti del dolore, più affilati i contorni. La ginestra La seconda parte della Variazione (terza frase, secondo lo schema impostato nel tema e fedelmente rispettato anche qui) si apre con gesti che hanno la grandeur di una valse noble, ma nulla fa pensare davvero alla danza. C’è una luce apocalittica che rende questo passaggio formidabile nel senso originario di temibile, spaventoso, come ci ricorda l’inizio della leopardiana Ginestra: «Qui su l’arida schiena / del formidabil monte / sterminator Vesevo». Siamo vicini al sublime di Kant, come contemplazione di ciò che minaccia l’annientamento. La fine di questa terza frase (mis. 73-73) è uno di quei miracoli che accadono solo in Schubert: per qualche istante, affiora a sorpresa quel po’ di paradiso che ci può essere in un inferno. Il senso schubertiano dell’attimo fuggente si respira al massimo dell’intensità, sia perché mai ce lo saremmo aspettati, sia perché siamo certi, mentre assaporiamo avidamente il passo nota per nota, che durerà pochissimo. Infatti, alla fine della terza frase (mis.74), quello che nel Tema e nelle prime due variazioni era stato un segnale di richiamo ricompare, ma rovesciato dal fondo nel suo senso e trasformato in un richiamo all’inevitabile, al dolore come destino ineluttabile: il tragico riprende il sopravvento. L’ultimo momento mirabile di questa stupefacente variazione è la fine, corrispondente nel Tema ai due prolungamenti in eco dell’ultima cadenza (mis. 79-80, corrispondenti alle ultime due del Tema). Sulle aride rovine della speranza sorge un ultimo, flebile e intenso frammento di melodia, proposto due volte a coronamento di tutto, che si presenta a noi come la sopravvivenza del 331


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canto. E’ un effetto che ricorda da vicino, di nuovo, la ginestra «contenta de’ deserti», e in particolare l’inizio dell’ultima strofa dove, dopo l’ affresco sulla cosmica stoltezza dell’uomo e la vanità della storia, Leopardi restringe fulmineamente la visuale con un inatteso primo piano sul punto iniziale del percorso, facendo risorgere davanti ai nostri occhi l’esile protagonista in tutta la sua straziante e poetica vulnerabilità: «E tu, lenta ginestra, »… 5. VAR. IV Squilli di corno La terza variazione si erge al centro del ciclo come uno scabro monolito, non preceduto da segnali di avvicinamento. Di colpo si impone all’ascolto, annullando il paesaggio precedente. E’ chiaro però che Schubert non può applicare lo stesso procedimento anche a ciò che segue, ovvero ripristinare il clima iniziale come se nulla fosse. Troppo profondo è il solco lasciato per poterlo ignorare. Ecco allora che la variazione successiva si incarica di ripristinare gradualmente il clima, creando le condizioni per poi concludere, con la quinta, in linea con il tracciato iniziale. (La stessa tonalità della quarta variazione chiarisce il suo status di transizione e raccordo: sol bemolle maggiore, che è il sesto grado, naturale o abbassato, della precedente e della successiva, e si presta dunque a ritornare con naturalezza a si bemolle maggiore con la quinta e ultima variazione). Schubert riparte affidando la rinascita a due elementi diversi: una figurazione liederistica alla mano destra, che sembra evocare il mormorio dell’acqua, e un richiamo alpestre alla mano sinistra. Quest’ultimo è singolare, e imprime alla variazione il suo marchio caratteristico. Rosen (1997) ha sottolineato la diffusa presenza nei Lieder di Schubert di squilli di corno: «Il suono del corno nel fondo dei boschi è uno dei pochi elementi dell’iconografia romantica a trovare un solido aggancio nella musica» (Ivi, p. 149).

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Qui ad essere evocati, con i caratteristici salti di sesta e settima ascendente, non sono i corni da caccia, ma quelli delle Alpi, con i loro richiami ancestrali imparentati col repertorio vocale dello Yodel. Con un procedimento usato anche altrove, Schubert dà al piano iniziale una doppia connotazione. Da un lato il tono sommesso dà l’idea che il pezzo, dopo la struggente e lapidaria conclusione della terza variazione, ricominci in punta di piedi, all’insegna di un doveroso ed appropriato pudore espressivo. Dall’altro, suggerisce l’idea della distanza fisica: udiamo i richiami da lontano, come se si avvicinassero gradualmente. L’effetto di questo approssimarsi è spettacolare. La prima frase (mis. 81-84) sembra quasi dilatarsi in un intenso processo di avvicinamento al forte della seconda frase, avvicinamento pervaso da un crescente e incontenibile senso di imminenza della gioia. La scelta di motivi alpestri legati allo Jodel non è casuale: Solo dall’inizio del XIX secolo infatti il verbo Jodeln sostituì il più antico Jolen, che appare in relazione col verbo Jauchzen (o Juchzen) che significa «giubilare». A Muotatal, valle nel cantone di Schwyz, nella Svizzera centrale, quest’ultima parola è conosciuta sotto la forma dialettale Juuzä (o nel diminutivo Jüüzli) che designa […] l’emettere grida di gioia […] (Gherzi 2000, pp. 1415). Questo senso crescente di imminenza è sia fisico che emozionale, e culmina nella vera e propria esplosione di gioia nella seconda frase, dove la musica assume i toni grandiosi e amabilmente sopra le righe di molti passi della Fantasia «Wanderer» (mis. 85-88). Metamorfosi L’inizio della terza frase (la «piccola peripezia») non è drammatizzato, ma si stempera nella momentanea adozione di un registro brillante (mis. 89-90). Le ottave staccate della sinistra sono degne di un pezzo di carattere da salotto. I successivi segnali di rientro (mis. 91-92) e la quarta frase che fa seguito (mis. 93-96) riprendono il 333


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tono un poco spiritato e grandioso della seconda frase, questa volta accentuando l’ ammiccante sfumatura di amabilità discorsiva: dopo la Wanderer, qui siamo vicino al Quintetto «La trota». Il percorso sembra concludersi con l’usuale prolungamento in eco delle due cadenze finali, sul modello del Tema (mis. 97-98), ma a sorpresa vi sono tre battute in più, di transizione verso la quinta variazione. (La tonalità di sol bemolle maggiore viene qui messa a frutto sfruttando l’equivalenza enarmonica tra la sua dominante del quarto grado e la sesta eccedente «tedesca» di si bemolle maggiore, tonalità della variazione successiva). C’è un momento straordinario di stupore estatico. A misura 99-100, dopo la conclusione regolare della Variazione, la mano destra aggiunge sei note (ma, se non si contano le ripetizioni, sono solo tre: sol bemolle, fa, mi bequadro), accompagnate dalla sinistra con la stessa formula usata fin qui. Quasi niente, si direbbe, eppure molto accade. Vi sono momenti nella musica di Schubert in cui l’autore sembra aver trovato una pura lingua dei trapassi emotivi, giungendo per così dire alla sostanza stessa di un linguaggio musicale inteso come lingua d’elezione del sentimento. Cosa accade qui? Ancora e più di prima, non ci sono fatti, ma un passaggio di stato che ci riempie di stupore per quanto sembra essere colmo di significato. E’ un esempio di metamorfosi, un procedimento praticato nella musica romantica in modi diversi secondo gli autori. Per limitarci a due esempi, nel Notturno op. 27 n. 2, alla fine della prima parte (mis. 22-25) Chopin inserisce una stupefacente transizione in cui sia il canto che l’accompagnamento scivolano cromaticamente verso il basso, ma lo fanno con gradualità quasi impercettibile. L’effetto per l’ascoltatore è di assistere al mutamento della forma in presa diretta, nel suo farsi davanti ai nostri occhi, seguendo passo dopo passo la continuità della trasformazione, «l’armonia torbida e instabile che fa l’incanto dell’ora» (Sartre 2002, p. 91). Vorremmo chiamarla metamorfosi prodigiosa, quasi un prodotto di remota matrice alchemica. 334


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In Schumann, invece, troviamo spesso l’opposto. Un ciclo come Papillons op. 2 è dominato da sbalzi, discontinuità e cambiamenti di cui la musica non solo non spiega il perché, ma neppure mostra il come. A più riprese si ha la sensazione di ascoltare forme diverse di una stessa matrice, come se le cose si mostrassero a noi solo per flash, folgorazioni discontinue che gettano luce su stati diversi di una stessa figura, ma non sul processo che ha portato dall’uno all’altro. Quel crogiuolo delle forme che nel Notturno di Chopin per un poco ci è dato seguire, in Papillons resta fuori dal campo visivo. Ne deriva una sensazione straziante di violenza, di deformazione forzata dei lineamenti, di artistica innaturalezza e artificiosità. Quella di Schumann è una metamorfosi dolorosa, non meno stupefacente e intensa, ma per nulla rassicurante. E Schubert? Nel passo da cui siamo partiti c’è un tipico esempio delle metamorfosi a lui care. A differenza di Chopin e Schumann, l’accento qui non è sul processo, ma sul risultato, che è l’improvvisa sensazione di un’ora cruciale per l’anima, di un trapasso inatteso che ci prende alle spalle riportandoci a casa per magia, riattivando l’originario perimetro del domi e il quadrato magico del ritorno perenne: è una metamorfosi estatica. 6. VAR. V Improvviso Dopo la scrittura a maglie strette di quanto precede, la quinta ed ultima variazione si incarica di diluirne la densità e stemperare la tensione, in vista della chiusura. In effetti, è l’unica variazione che ha davvero la scrittura un poco libera, decontratta e fantasiosa che ci si aspetterebbe da un Improvviso, fin dall’incipit che richiama quello dell’ Improvviso op. 90 n. 2. Questa osservazione ci porta a chiederci perché un pezzo dalla struttura così serrata si intitoli Improvviso. Ecco alcune ragioni possibili. Tema. Ripensando al tono colloquiale e sublime del Tema, tipico di Schubert, osserviamo che un elemento chiave di quel tono è la grande naturalezza discorsiva, l’impressione di un libero fluire delle idee. 335


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Variazione I. Abbiamo osservato che la chiarezza fraseologica del Tema, nella prima variazione, è sostituita da cicli di espansione e contrazione, di tensione e rilassamento. Questo passaggio richiede all’esecutore una inapparente ma sofisticata libertà nel tempo. L’esecuzione metronomica, cui la scrittura da preludio bachiano sembra erroneamente invitare, non coglie la sottile poesia del brano. Variazione II. Nella seconda variazione, più si procede e più la musica comunica un piacere contagioso di muoversi, cantare e trillare, con ammiccamenti persino al canto degli uccelli (mis. 50). Questo processo richiede al pianista un’attitudine esecutiva adeguata, come se le idee gli nascessero sotto le dita sorprendendolo piacevolmente con il loro farsi. Quarta ragione: Variazione III. Nella seconda parte della terza variazione abbiamo sottolineato il miracoloso apparire di quel po’ di paradiso che può esserci in un inferno. Non è l’unico momento magico nel pezzo che ha lo struggimento dell’attimo unico e irripetibile. Ciò richiede all’interprete un senso dell’estemporaneità che sa cogliere e valorizzare la poesia dell’istante. Variazione IV. Dopo l’abisso della terza variazione, il ritorno alla vita è graduale. Graduale, ma non prevedibile: l’avvio del cullante mormorare dell’acqua e dei segnali alpestri è quanto di più lontano fosse dato aspettarsi. La struttura serrata non esclude dunque accostamenti sorprendenti e imprevedibili tra le Variazioni. Variazione V. L’ultima variazione è l’unica in cui sia presente l’improvvisazione simulata, ossia una scrittura che richiama illusionisticamente i modi estemporanei, le forme fluide e la libertà dei contorni di una vera improvvisazione. Notiamo però che, a fronte di queste maglie apparentemente allentate, Schubert stringe i fili meno visibili che tengono in piedi l’edificio. Mentre le precedenti variazioni derivano direttamente dal Tema, questa è un prodotto di secondo grado, poiché discende dalla seconda, di cui è a sua volta una variazione. E’ un procedimento di… variazione della variazione, sofisticato ma 336


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tutt’altro che insolito, con illustri precedenti nei cicli di Bach, Mozart e Beethoven. Il giardino di casa Il quadro tracciato per la seconda variazione vale quindi anche per la quinta, con la differenza che la velocità e il dinamismo sono più accentuati. Questo aspetto rafforza le coordinate del pezzo e le rende ancora più evidenti. Ogni inciso della mano destra, ascendente o discendente, sembra voler dare inizio a un moto perpetuo che porta lontano. Ma subito, o quasi subito, arriva una frenata e uno stop, graziosamente sottolineato da appoggiature discendenti, in corrispondenza del perimetro già tracciato nel Tema, riducendo anche queste promesse di rapido allontanamento a corse nel giardino di casa. Non solo le fermate, ma anche i segnali di rientro sono più che mai espliciti ed evidenti: il quadrato magico della seconda variazione è perfettamente operante anche nella quinta. L’unica vera novità è all’inizio della terza frase (mis. 110-111), in cui la «piccola peripezia» si trasforma in un episodio breve, ma drammaticamente virtuosistico che sembra spalancare nuovi scenari, salvo poi esibire, in coerenza col resto, una sorprendente «velocità di rientro» (mis. 113). La Variazione si chiude con una sospensione, alla fine di un (relativamente) lungo moto perpetuo in cui le circonvoluzioni della mano destra si spostano via via verso il basso, trascolorando (mis. 116-119). Il timbro si scurisce man mano, il movimento rallenta e si ferma sulla penultima nota che l’orecchio si aspetta, evitando accuratamente quella finale. Con questo artificio Schubert ottiene contemporaneamente due risultati: creare un senso di attesa stupita, data dall’interruzione della sequenza un passo prima di quello che ci si aspettava, e uno stato energetico prossimo allo zero, grazie al progressivo esaurirsi del movimento.

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7. TEMA Energia zero Se è vero che «le variazioni di Schubert si concludono spesso con una ricomparsa del tema» (Fertonani 2005, p. 171), è anche vero che raramente questa ricomparsa ha la profondità e l’efficacia che assume qui. La forza espressiva di questa vera e propria seconda versione del Tema, ben diversa dalla prima, è strettamente dipendente dalla condizione di energia zero che si crea alla fine della quinta variazione. In generale, la costruzione romantica del pathos e dei passi cantabili con profondità riflessiva, emozionale e introspettiva è legata a filo doppio a una gestione dell’energia che, nell’organizzazione complessiva del pezzo, non è meno importante dell’impalcatura formale. Mentre i fenomeni più appariscenti di questa gestione, cioè i climax o punti culminanti sono relativamente studiati (ad esempio in Mancini 1998), altri fenomeni non meno importanti, ci sembra, non sono ugualmente presenti alla coscienza dei musicisti e del pubblico. Parliamo proprio delle situazioni ad energia zero, che, ad esempio in Schumann, giocano un ruolo straordinario nella creazione dei ben noti momenti di trasognato lirismo serale. Nella concreta prassi didattica, chi scrive ha sentito domandare esplicitamente agli allievi «qual è il punto di energia minima in questo pezzo?» soltanto dall’oboista Omar Zoboli. Non mancano lavori specialistici che tengono in considerazione l’energia e i fenomeni di omeostasi in musica, come il monumentale studio di Paolo Rosato The Organic Priciple in Music Analysis (2013). Nel complesso, però, ci sembra che l’importanza della gestione dell’energia nella musica tonale, e specialmente romantica, sia un campo meritevole di ulteriori indagini, soprattutto per quel che riguarda le sue fasi di minimo all’interno dei singoli pezzi. Dalle fondamenta Energia zero, tempo lento (esplicitamente indicato), movimento azzerato. Persino la terza variazione è più fluida (si fa per dire): il movimento lì è faticoso, trascinato, 338


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pieno di attrito se si vuole, ma è pur sempre un movimento. Il Tema finale, invece, ha il tempo «fermo» di un Largo di Beethoven. Del Tema iniziale c’è la prima frase, armonizzata con qualche variante (mis. 120-123), e soprattutto terminata con una cadenza, perfetta anziché sospesa, che sostituisce il tono aperto e pronto a ricominciare con un punto fermo e conclusivo. Ma quel che conta ancora di più è quel che è stato tolto. Via il movimento e la fluidità, ma anche la luce del registro da mezzo soprano in cui il tema era «cantato». Via l’andamento pendolare e cullante, il leggero rollio prodotto dall’alternanza regolare tra basso e registro centrale nella sinistra. Via anche il tono bonariamente discorsivo e amabilmente colloquiale che invitava l’ascoltatore a sedersi e ad ascoltare. Insomma: c’è sì il tema, ma è spogliato. E’ come se ne fosse rimasto solo l’essenziale. Questo è vero sia per la materia – Schubert del tema conserva solo la struttura portante armonica – che per lo spirito: l’impressione è quella di una francescana povertà, tanto più efficace perché senza orpelli. Qui «la depurazione formale restituisce un significato catartico: la profondità del “sentire” nasce dalla rinuncia a ogni sovrastruttura […]». (Sablich 2002, p. 137). Compattato in accordi massicci ma non pesanti (pianissimo, un problema non facile per l’interprete), il tema è trasposto nel registro grave e centrale, assumendo la gravitas di un corale e l’intensità di un inno. E’ una situazione che si trova spesso anche in Beethoven: ogni nota è piena di significato, ogni accordo scava nel senso delle cose. L’impressione, straordinaria, è che Schubert ci mostri alla fine la forma originaria del Tema, e che quello che viene per primo nell’ordine del pezzo sia in realtà una forma seconda, elaborata e derivata. Anche questo procedimento si trova nelle Sonate di Beethoven, in cui a volte, come osserva Rosen, «è come se la forma che compare per ultima fosse quella originaria, e la prima fosse quella riscritta» (Rosen 2008, p. 140). L’idea è suggestiva: l’essenziale è semplice, ma, diremmo con Schubert, la semplicità è un punto d’arrivo. Ci si arriva quando le cose sono compiute, quando tutto è stato detto. 339


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Liturgia della luce La seconda frase del Tema finale ( mis. 124-125) non segue quella omologa del Tema iniziale. Riprende invece la seconda metà della prima frase (quella che qui è conclusiva anziché sospesa, mis. 122-123), trasportandola una ottava sopra, dunque dal registro centrale e grave a quello centro-acuto. L’effetto è straordinario: è come se nelle strette e severe maglie degli accordi, fin qui rigorosamente di timbro scuro, si infiltrasse la luce. A sua volta, l’ultima cellula di questa ripetizione (mis. 125) è poi replicata ulteriormente, trasportata di un’altra ottava, dunque nel registro acuto (mis. 126). L’impressione è che gli accordi trascolorino, passando dall’oscurità ad una luce sempre più bianca che li rischiara dall’interno. Due accordi nel registro centrale (mis. 127-128), in perfetto e sospeso equilibrio tra l’acuto e il grave, riecheggiano per l’ultima volta in forma essenziale e condensata il primo intervallo discendente del tema, chiudendo questa pagina finale che raccoglie le sfumature espressive del congedo e quelle di morale della storia, preghiera, amen e benedizione. Note bibliografiche Borgna E., L’arcipelago delle emozioni, Milano, Feltrinelli, 20077. Bortolotto, M., Introduzione al Lied romantico, Milano, Adelphi, 20012. Di Benedetto R., L’Ottocento I, Torino, EDT, 1982. Fertonani C., La memoria del canto. Rielaborazioni liederistiche nella musica strumentale di Schubert, Milano, LED, 2005. Georgiades Th. G., Schubert. Musica e lirica. Il Lied e la struttura della musica di Schubert, Roma, Astrolabio Ubaldini, 2012 (ed. or. 1967). Gherzi A., La musica delle montagne, Torino, CDA, 2000. Lo Presti C., Franz Schubert. Il viandante e gli Inferi. Trasformazioni del mito nel Lied schubertiano, Torino, Casa Ed. Le Lettere, 1995. Mancini E., La misteriosa apoteosi. Psicologia del punto culminante in musica, Milano, Franco Angeli, 1998. 340


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Montale E., Ossi di seppia, Milano, Mondadori, 1948 (ed. or. 1925). Natoli S., L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale, Milano, Feltrinelli, 2002 (ed. or. 1986). Ovidio, Le metamorfosi, Milano, BUR, 2006. Pestelli G., L’età di Mozart e di Beethoven, Torino, EDT, 1979. Piccardi C., Maestri viennesi. Haydn, Mozart, Beethoven, Schubert. Verso e oltre, Milano, Ricordi LIM, 2011. Rosato P., The Organic Principle in Music Analysis. A Semiotic Approach, Helsinki, Semiotic Society of Finland / Imatra, International Semiotic Institut. Acta Semiotica Fennica XLII, Approaches to Musical Semiotics 16, 2013. Rosen Ch., La generazione romantica, Milano, Adelphi, 1997 (ed. or. 1995). Rosen Ch., Le sonate per pianoforte di Beethoven, Roma, Astrolabio, 2008 (ed. or. 2002). Sablich S., L’altro Schubert, Torino, EDT, 2002. Sartre J-P., L’essere e il nulla, Milano, Net, 2002 (ed. or. 1943). Sartre J-P., Il diavolo e il buon dio, in Il dramma, n. 316, gennaio 1963 (ed. or. 1951). Schumann R., Gli scritti critici, Milano, Ricordi LIM, 1991, vol. I. Tarasti E., I segni della musica. Che cosa ci dicono i suoni, Milano, ricordi LIM, 2010 (ed. or. 2002). Toffolo S., Schubert e Goethe. Tra classicismo e romanticismo, Padova, Ed. Armellin Musica, 2000. Tolstòj L.N., Anna Karènina, Milano, Garzanti, 19859.

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Silvia Bettini Il cielo in una stanza. L’importanza di progettare un ambiente “Evidentemente lei, Dottore, non è mai stato una ragazzina di tredici anni” ( Il giardino delle vergini suicide, regia di Sofia Coppola)

Il ranocchio sul battiscopa Era il 2009 quando mi ritrovai a far parte di un team di progettazione che aveva lo scopo di decorare il nuovo reparto di ortopedia e traumatologia pediatrica dell’Istituto Rizzoli di Bologna. Decorare: sottolineo questa parola, perché più avanti ci tornerò sopra. Il team di progettazione, composto da progettisti, pedagogisti, artisti, grafici, tecnici, lavorò in stretta collaborazione con la direzione sanitaria e il personale medico. Era la prima volta che prendevo parte a un progetto del genere e ammetto che ero emozionata. Stavo facendo qualcosa di nuovo per me fu molto importante: non stavo solo facendo delle illustrazioni per rendere il reparto più gradevole, ma in qualche modo la mia professionalità sarebbe servita ad aiutare dei bambini ospedalizzati. La struttura ospedaliera avrebbe avuto un aspetto meno austero e ostile, e i piccoli pazienti si sarebbero sentiti un po’ più rassicurati. Il reparto fu rinnovato non solo nelle attrezzature tecniche ma anche negli arredi e negli allestimenti. Progettammo le stanze di degenza in modo che ognuna fosse caratterizzata con uno scenario particolare, con ambientazioni fantastiche e animali mascotte. Ogni minimo dettaglio è stato curato: dai decori murali, agli arredi, dalle tinteggiature delle pareti alle targhe segnaletiche. Gli animali che caratterizzavano una determinata stanza di degenza non si trovavano soltanto nella scena principale, ma erano nascosti anche in zone meno visibili della stanza, accessibili ad altezze dove a un adulto non verrebbe mai in mente di guardare. Ecco che allora un bambino, intento ad esplorare la stanza, poteva incon-

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trare una libellula accanto al comodino o un ranocchio appoggiato sul battiscopa. Come nasce un progetto A volte mi è stato chiesto: «Come ti è venuta l’idea per quel progetto?». Progettare un ambiente è un lavoro complesso, che oltre a necessitare di molte professionalità diverse, è frutto di differenti fasi di lavorazione. Poniamo che ad esempio il tema dell’ambientazione sia la musica: questo non viene mai stabilito in un momento di illuminazione o di ispirazione, ma solo in seguito a un lungo percorso di ragionamenti e un’opera di mediazione con il personale sanitario. L’aspetto più creativo è soltanto una parte dell’intero processo progettuale. Lavoro da anni nel campo del design e dell’illustrazione e normalmente l’iter progettuale è sempre più o meno lo stesso: una fase di raccolta delle informazioni, la definizione degli obiettivi, la presentazione di una o più soluzioni creative, la progettazione esecutiva, la messa in produzione, l’individuazione delle tecniche e dei materiali, la realizzazione. Ogni fase viene discussa con il committente e vengono apportate le modifiche necessarie. Tutto questo è piuttosto semplice se l’oggetto del progettare è, ad esempio, una cartolina illustrata. Le cose si complicano un po’ se la superficie è tridimensionale (pensate ad esempio alla confezione di un barattolo di pomodori oppure a un libro pop-up). In questi esempi la progettazione viene fatta pensando alle due dimensioni, che con l’aiuto di un esperto di cartotecnica possono diventare tridimensionali. Il passaggio logico è dalle due alle tre dimensioni. Se abbiamo a che fare con una stanza, invece, la questione è più complicata. Un ambiente è molto più complesso da decorare. Non più una superficie, ma uno spazio all’interno del quale l’essere umano si muove, compie delle azioni, interagisce con altri esseri umani. Occorre inoltre tener conto non soltanto del corpo fisico e delle questioni più pratiche di logistica e mobilità, ma anche degli aspetti percettivi ed emozionali. Ecco dunque che entrano in scena, oltre alle esigenze degli operatori medico sanitari, anche e soprat343


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tutto le esigenze dei pazienti (costretti a trascorrere un periodo della loro vita in una struttura ospedaliera per essere curati): la loro malattia, le terapie di guarigione, il dolore e la paura. L’ambiente ospedaliero, come qualsiasi altro ambiente di una certa complessità, è fatto di zone comuni, spazi dedicati ai pazienti, altri riservati ai medici e agli infermieri, eccetera. Alcuni spazi sono fatti per accogliere, altri per incontrare e socializzare, altri per accompagnare, altri ancora per creare intimità, altri hanno esigenze di riservatezza e sono destinati alle cure, e così via. In tutti questi ambienti coesistono materiali e colori diversi, illuminazioni diverse eccetera. Tutti questi elementi influenzano il nostro modo di percepire l’ambiente, senza che ce ne rendiamo conto. Anche il punto di vista del paziente è un aspetto da non sottovalutare. Provate a immaginarvi quale possa essere il campo visivo di un bambino che gattona, o di uno che ha appena iniziato a camminare. O ancora, di qualcuno che è costretto a letto per problemi di deambulazione. Nei primi due casi dovremmo dare grande importanza al pavimento e alle pareti (senza superare il metro di altezza). Nel terzo caso dovremmo dare grande attenzione al soffitto. Perché si parla di caratterizzazione dell’ambiente Il termine decorare, che ho utilizzato fin qui per semplicità, è estremamente riduttivo. Non si dovrebbe parlare di decorare un reparto ospedaliero con disegni e grafiche, perché lo scopo principale dell’intervento non è quello di rendere il reparto elegante o grazioso. Uno degli obiettivi che occorre porsi è quello di eliminare quel tipico senso di asetticità degli ospedali. Occorre scaldare, personalizzare, coinvolgere, rendere più umano. Progettare un ambiente ospedaliero significa, innanzi tutto, evocare una storia o un immaginario. Quando le pareti di un ambiente ricreano un mondo – facendo uso di un tema, un’ambientazione e una serie di personaggi – si innesca immediatamente nell’osservatore un processo di appartenenza e 344


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di identificazione. E il bello di progettare un ambiente è che non abbiamo a disposizione soltanto le pareti per ricreare una narrazione, ma abbiamo anche i pavimenti, gli arredi e i complementi d’arredo, le finestre, le segnaletiche, eccetera. Quando l’ambiente racconta una storia, ci accompagna attraverso luoghi della fantasia, ricrea un’atmosfera, ci incuriosisce ed emoziona, diminuendo il senso di straniazione e facendoci sentire, di conseguenza, più a nostro agio. Non si parla quindi di decorazione, ma di umanizzazione o di caratterizzazione dell’ambiente. Ma torniamo al destinatario principale di questo tipo di interventi: i pazienti. Se il paziente percepisce, a livello più o meno conscio, questo senso di partecipazione ed appartenenza, non proverà un senso di ostilità nei confronti dell’ospedale ed accoglierà più volentieri le terapie di guarigione. Ecco perché l’ambientazione è sempre più riconosciuta come una valida alleata delle terapie mediche. Una storia Si è detto che il segreto di un buon progetto di caratterizzazione è quello di raccontare una storia. È dunque giunto il momento, anche per me, di raccontare una storia. Ellie è una ragazza con la passione per la lettura, le passeggiate in montagna e gli uccelli. Ha un diario al quale confida tutti i suoi segreti. Trascorre molto tempo con il suo amico Tobi, un ragazzo un po’ strambo che si veste in modo vistoso, parla con gli animali (anche con gli insetti) e sogna di diventare un equilibrista del circo. Un giorno Tobi scompare misteriosamente. Da quel giorno Ellie comincia a cercare il suo amico ovunque: a scuola, in città, nei boschi, al circo, perfino in fondo al mare. Ma Tobi non c’è. Allora Ellie chede a un gufo a condurla su in alto nel cielo, fino alla cima di un’altissima montagna. Lassù Tobi si sta allenando a diventare l’equilibrista più bravo del mondo, camminando in punta di piedi su un filo trasparente teso tra le cime di due montagne appuntite. 345


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Questa breve storia è stata inventata da un gruppo di quattro giovani di età compresa tra i dieci e i dodici anni, a cui sono state mostrate alcune immagini: una ragazzina dall’aria sognatrice, un gufo e la cima di un’alta montagna. Questi pochi elementi sono stati sufficienti a costruire una breve racconto, che manca di un vero finale, e che forse proprio per questo potrebbe essere lo spunto iniziale di molte avventure per i due protagonisti. Possono bastare pochi elementi per dare spazio alla fantasia. Una storia può nascere anche solo da un binomio fantastico, come spiega Gianni Rodari *. Due immagini, abbinate in modo singolare o insolito, possono essere la scintilla sufficiente a far volare la fantasia. E’ un gioco interessante che può essere fatto sia individualmente che in gruppo. Le storie ci possono consolare, guidare, provocare, far riflettere, far sognare. E anche farci guarire. * Gianni Rodari, Grammatica della Fantasia, ed. Einaudi, 1973

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Valentina Cappi Condividere l’essenziale: la malattia e la cura di adolescenti e giovani adulti nella fiction televisiva Dr. Wilson: Ricorda che sono un oncologo. E so queste cose. Dr. House: Se le sapessi, non saremmo seduti qui. (House M.D., The C Word, stagione 8, episodio 19)

Ogni uomo che ha passato i trent’anni deve essere il medico di se stesso. (Motto dell’imperatore romano Tiberio)

The C Word: dal cancro alla cura Si intitola The C Word l’episodio numero diciannove dell’ottava stagione della famosa serie televisiva House M.D.. La parola che inizia con la “c”, però, resta silente solo nel titolo, perché subito dopo la sigla e il prologo, la prima immagine di fronte alla quale ci troviamo come spettatori è quella di una radiografia, al cui centro spicca una grossa massa fluorescente. Controcampo. Il dottor Wilson, alter ego sensibile ed empatico del più burbero e sociopatico House, nonché oncologo del fittizio Princeton Plainsboro Teaching Hospital, sta osservando il proprio tumore. Nemmeno il tempo di riflettere, e il collega House fa irruzione nella stanza precisando di non essersi recato lì in qualità di medico, ma come «pilastro di rinforzo». La puntata, da un certo punto di vista, è infatti tutta giocata sul doppio ruolo che medici e pazienti si trovano ad assumere di fronte alla malattia. Wilson, oncologo, è ora anche un malato di tumore. House, il più acuto medico dell’ospedale, si mette in ferie per assistere l’amico da amico, non – o non solo – da medico. In parallelo, The C Word segue lo staff clinico di House alle prese con una difficile diagnosi su una bambina di 6 anni che presenta sintomi precoci dell’atassia tele angectasica, una malattia genetica. La madre, che è una genetista dello sviluppo, si presenta in ospedale chiedendo di parteci-

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pare, in quanto «esperta della malattia della bambina», alla ricerca delle cause del malessere della figlia. Notiamo subito un conflitto fra i due ruoli. Elizabeth Lawson viene presentata al team di House come una ricercatrice, colei che «ne sa più di tutti sulla malattia genetica della figlia». La donna insiste nel puntualizzare di trovarsi lì in veste di medico eppure, dopo essersi rivolta alla figlia chiamandola «la paziente», quando si tratta di decidere quale terapia intraprendere, non esita a far notare agli altri medici: «non voglio far valere la mia autorità, comunque io sono la madre». «Lei aveva detto di essere qui come medico», le viene fatto notare. «E come medico mi serve il consenso dei genitori». Come se non bastasse, la dottoressa Lawson è in continuo conflitto con il padre della bambina, che a suo dire non è in grado di occuparsi della salute della figlia, trasportata in ospedale dopo essere caduta da una giostra sulla quale lui l’aveva accompagnata: «Tu le hai dato due minuti di svago, io ho tentato di salvarle la vita», sentenzia la madre. «Come si chiama la sua migliore amica? E la sua insegnante preferita? Perché odia il peluche che le hai regalato?», ribatte il padre. «Che gruppo sanguigno ha? Fattore RH? Tu sai qual è la sua glicemia?», continua la madre. «Non mi interessa. Quelli sono solo lettere e numeri», osserva l’uomo. «E la variazione nella regione inter-genica E14 dell’ATM? È questo che sta uccidendo nostra figlia. A meno che io non trovi un modo per guarirla», conclude la donna. Alla fine della puntata si scopre che la piccola Emily ha un tumore, un mixoma atriale benigno, che i medici le asporteranno senza complicazioni. Le situazioni appena descritte, messe in scena nel medical drama House M.D., richiamano l’attenzione su alcuni elementi fondamentali di ogni relazione di cura e non da ultimo introducono la delicata questione dei pazienti pediatrici affetti da tumori o da gravi malattie. La prima informazione che possiamo dedurre, come spettatori, è che ad ammalarsi di tumore non sono solo gli adulti. Notiamo però che in questa puntata il tumore è rappresentato in un adulto e in una bambina, non in 348


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un adolescente né in un giovane adulto. E questa è una costante nei medical dramas che in qualche modo restituisce il quadro statistico reale dell’interesse che la ricerca sino a non molto tempo fa ha riservato agli AYA. La seconda informazione che possiamo trarre è che adulti e bambini vengono curati e si prendono cura della propria malattia in modi diversi. Wilson, non solo perché è adulto ma anche perché è un oncologo, decide, dopo aver ascoltato il parere di diversi medici, di curarsi da solo, di scegliere da sé ciò che crede possa essere la migliore terapia. Emily, che ha sei anni, si trova invece in balia delle azioni di cura dei propri genitori. Da una parte, una madre iperprotettiva che è disposta a tutto pur di trovare una spiegazione scientifica e un rimedio alla malattia della figlia; dall’altra, un padre affettuoso che, considerata l’età e le esigenze della bambina, se ne prende cura rendendola quanto più possibile partecipe alle attività di svago dei coetanei. Attraverso questa estremizzazione (l’opposizione dei modi attraverso cui i genitori cercano di fare il bene della bambina), lo spettatore è posto di fronte ad una considerazione cardinale della relazione medico-paziente, tanto più urgente quando la situazione di malattia è destinata a non trovare una soluzione positiva: c’è cura e cura. C’è terapia, cura e nel caso della bambina anche guarigione, ma i tre aspetti non sono sovrapponibili. Nella puntata in questione, la madre di Emily, che è un medico, incarna perfettamente quell’impostazione biomedica che, nell’intento di giungere all’evidenza scientifica, «imprime alla comunicazione con il paziente una modalità interattiva di tipo direttivo, orientando il colloquio clinico a raccogliere il massimo di informazioni e dati da utilizzare a scopi diagnostici e terapeutici». È questo, infatti, il fine della cura intesa nell’accezione inglese di cure, tecnica terapeutica, azione razionale finalizzata alla riparazione del corpo, intervento di una medicina che «ha concepito se stessa come una scienza, ma una scienza applicativa, pratica, professionale: un “sapere che fare” di fronte alla patologia, allo squilibrio, alla disabilità». La cura intesa come care, dimensione relazionale 349


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che ha a che vedere con la capacità di prendersi cura, cioè di «dare risposte non necessariamente e non solo di natura tecnica», è qui rintracciabile nelle azioni messe in atto dal padre della bambina. Questo tipo di cura, solitamente identificata come “palliativa”, nei contesti ospedalieri è in genere limitata ai percorsi di fine vita, benché vi sia consenso – almeno in linea teorica – attorno alla convinzione che «palliative care is appropriate at any age and at any stage in a serious illness, and can be provided together with curative treatment». La cura nel senso più ampio del termine, in quanto «pratica mossa dall’intenzione di procurare beneficio all’altro», evidenzia, in un recente volume, Luigina Mortari, si declina secondo alcune posture dell’esserci: «l’assunzione di responsabilità verso l’essere dell’altro, che è orientata da premura per l’altro, il sentire reverenza per l’altro, il nutrire la disposizione a condividere l’essenziale e il coraggio nell’intraprendere iniziative». La ricerca di una comunicazione più orizzontale e la necessità di stare al fianco della persona sofferente senza altre distrazioni, di dedicare il giusto tempo e il giusto modo alla compassione è, tornando all’episodio precedentemente analizzato, il motivo che ha spinto House a prendersi alcuni giorni di ferie per stare accanto all’amico Wilson. Per prendersi cura di lui, non solo per curarlo come avrebbe comunque potuto fare in ospedale senza sospendere la sua occupazione. A dimostrazione del fatto che «l’attenzione come gesto di cura non è un semplice guardare, ma un’intensa concentrazione sull’altro». Le due linee narrative sopra descritte introducono infine un tema centrale per questo volume, confermando e allo stesso tempo smentendo l’evocativo aforisma riportato in esergo e attribuito all’imperatore romano Tiberio: «Ogni uomo che ha passato i trent’anni deve essere il medico di se stesso». Da una parte, ciò significa che chi non ha passato i trent’anni non può o è legittimato a non essere il medico di se stesso, e dunque deve avere accanto qualcuno che si prenda cura di lui o di lei. Dall’altra, l’episodio di House M.D. ci insegna che anche Wilson, 350


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che è de facto e in tutti i sensi il medico di se stesso e che in quanto oncologo ritiene di sapere a cosa va incontro una persona quando si ammala di tumore, si renderà ben presto conto che chi ha passato i trent’anni è comunque troppo fragile e troppo solo di fronte al dolore totale che la malattia oncologica porta con sé e dunque non può che trarre grande beneficio dal supporto di un amico, di un curante o chi per esso. Di fronte allo strazio che House descrive a Wilson per prepararlo ad un’imminente e massiccia dose di chemioterapia, si capisce che la malattia, benché affrontata in maniera ogni volta diversa dagli esseri umani anche a seconda della loro età, accomuna nella sofferenza adulti, bambini, medici e persone comuni. The C Word non nasconde la malattia oncologica dietro ad un’immagine o alla rappresentazione plastica della sofferenza, ma ne fa parola concreta – cancro, chemioterapia – scritta bianco su nero, pronunciata con rabbia e durezza dal dottor House: hai dolori muscolari, hai gli spasmi, hai le articolazioni che ti sembra vengano strappate e sostituite da schegge di vetro. Il tuo stomaco si riempie di bile e quando vomiti ti sembra che qualcuno ti ficchi un martello incandescente nell’esofago. Il sangue scorre nella gola strozzandoti e hai conati di vomito con il sapore del rame delle monetine bruciate. […] i globuli bianchi sono andati, lasciando l’organismo esposto agli attacchi. La febbre schizza alle stelle e ti sembra che la pelle vada a fuoco e un attimo dopo ti senti gelare. Ogni sensore del dolore brucia contemporaneamente, finché l’agonia non sarà più una parola o un concetto, ma la tua unica realtà. Hai le allucinazioni e sogni la morte. E poi inizia la sfida: il tuo corpo riuscirà a recuperare prima che organismi e parassiti ostili ti colpiscano definitivamente? Se vinci vivi, se perdi muori.

Il medical drama e la rappresentazione degli AYA Who is this patient? Is he an adult or a child? He is old and does not want to be called a child, but he is young and does not want to be called an old man. This is the “adolescent and young adult oncology” (AYA) patient. (Vivek Subbiah)

L’ospedale è, sin dai suoi esordi sul piccolo schermo, una delle arene privilegiate della narrativa seriale per la televisione, assieme ai tribunali e ai commissariati. 351


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La fiction di ambientazione ospedaliera, il medical drama, talvolta denominato anche hospital drama, si presenta in un formato abbastanza riconoscibile: nell’arco di episodi che durano da mezz’ora a un’ora e mezza ciascuno, vengono messe in scena le vite professionali e private di un gruppo di medici al lavoro in un ospedale, una clinica o un’ambulanza. Legate al lavoro dei professionisti sono ovviamente le vicende delle loro famiglie e dei pazienti. Presenza fissa nei palinsesti nazionali e internazionali da alcuni decenni, il medical drama condensa ed estremizza alcuni aspetti salienti dell’epoca contemporanea, ponendosi dunque come un potente «laboratorio di assorbimento e diffrazione di un immaginario» sulla salute e sulla malattia, a lungo riservato ai professionisti della sanità. Non – o non solo – “mero intrattenimento”, la fiction è per le sue caratteristiche un precipitato del sapere comune, che allo stesso tempo contribuisce a plasmare, in un’ottica di scambio circolare. Infine, la presenza, all’interno della fiction, di un universo di comportamenti, valori e norme sociali in cui convivono istanze diverse risponde a una fondamentale esigenza dei suoi fruitori reali, ossia «la richiesta di una rappresentazione verosimile – non vera e non falsa – della realtà: una rappresentazione con la quale sia possibile confrontare la propria esperienza individuale e sociale per scoprire, di volta in volta, quanto se ne discosta». All’interno della recente serialità televisiva a tema medico, da ER – Medici in prima linea a Grey’s Anatomy, da House M.D. all’italiano Medicina Generale, non manca la narrazione della malattia oncologica. Ho scelto di iniziare questo capitolo andando direttamente al cuore della questione, attraverso un episodio che non lascia immaginare la violenza della malattia ma la verbalizza, oltre che mostrarla. Analizzarne alcuni passaggi ha permesso in prima battuta di precisare che la sofferenza accomuna e pone sullo stesso livello tutti coloro che la sperimentano, indifferentemente dall’età o dalle circostanze della vita. Resta un fatto degno di nota, però, che gli sceneggiatori della fortunata serie House M.D. non 352


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abbiano deciso di mettere al centro di un episodio dedicato al cancro l’esperienza di malattia propria di quella fascia d’età per la quale il tumore è la più frequente causa di morte dopo le cause accidentali: i cosiddetti AYA – Adolescents and Young Adults. E nonostante tutti noi ricordiamo di avere visto almeno un episodio di qualche serie televisiva dedicata a loro, facendo una rapida ricerca tra le serie più popolari in Italia, il dato che emerge è che i protagonisti di quelle storie di malattia non erano in realtà compresi nella fascia anagrafica che individua gli AYA. È pur vero che, sfogliando la letteratura sull’argomento, non vi è accordo su quale sia la fascia d’età esatta alla quale appartengono gli AYA. Se secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità un giovane adulto ha un’età compresa fra i 15 e i 24 anni, alcune ricerche adottano un range che va dai 15 ai 39 (Ferreira et al., 2013) o dai 15 ai 29 anni di età (Bleyer A W, 2007). Non è mia intenzione affrontare le questioni più tecniche legate alla ricerca in questo settore, tuttavia la rappresentazione televisiva sembra in qualche modo rispecchiare questa «zona d’ombra» riguardante gli AYA, rispetto ai quali «i progressi sono stati scarsi e i bisogni terapeutici ed assistenziali sono in gran parte ancora insoddisfatti». I giovani adulti si trovano quindi esclusi dai trials e dagli investimenti per la ricerca indirizzati prevalentemente a pazienti oncologici in età pediatrica e in età adulta. Per loro, a seconda della tipologia di malattia oncologica riscontrata, si adottano protocolli pediatrici o, all’occorrenza, quelli destinati agli adulti. Scrivono Ferreira, de Melo e Nogueira-Rodrigues: Over the past decades no significant improvement has been seen in the treatment of AYA and the main reasons are differences in disease biology, lack of consistency in treatment, intolerance or poor compliance with therapy, delays in diagnosis, physician’s lack of familiarity with cancer in the AYA and the low rate of participation in clinical trials.

Una popolazione vulnerabile, come non manca di ricordare Giuliana Gemelli richiamando l’espressione del National Cancer Institute, da molti punti di vista, per353


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ché il corpo è in trasformazione, la risposta alle terapie e l’assimilazione dei farmaci è diversa da quella delle fasce d’età immediatamente inferiori o superiori, e perché durante l’adolescenza solitamente si affrontano situazioni cruciali per la socializzazione, l’identità individuale, la capacità di trovare un proprio posto nel mondo e nelle relazioni. La zona d’ombra in cui si trovano adolescenti e giovani adulti si ripercuote in qualche modo nella narrazione televisiva seriale, che mette in scena per lo più adulti o bambini affetti da malattie onco-ematologiche. È il caso, per esempio, della seconda puntata della seconda stagione di House M.D., intitolata Autopsy (nella versione italiana, Il coraggio di morire), che si apre ritraendo la routine mattutina di una bambina di nove anni malata di tumore, che prima di andare a scuola con grande caparbietà si sistema la parrucca per coprire la testa ormai senza capelli e si preoccupa in autonomia di assumere le giuste medicine. O, ancora, dell’episodio numero dieci della sesta stagione di ER, Family Matters, in cui i medici del pronto soccorso del County General Hospital di Chicago diagnosticano un tumore in stadio avanzato ad un ragazzo di undici anni, reduce solo due anni prima da un linfoma, per il quale aveva dovuto sottoporsi a una pesante chemioterapia. Né la madre né i medici del pronto soccorso sanno quali parole adottare per dare la notizia al ragazzo e decidono di far gestire la situazione all’oncologo dell’ospedale, confidando che egli possa trovare parole appropriate. Agli spettatori, però, non è dato sapere quali siano queste parole. Un altro degli apparenti motivi per cui la categoria degli AYA è sotto-rappresentata nella fiction ospedaliera è che spesso l’adolescente viene ricoverato in ospedale e curato per altri disturbi e solo al termine di una lunga diagnosi, per tentativi ed errori, si arriva a scoprire che è malato di tumore; in questi casi, la cura e i trattamenti che il malato dovrà affrontare non vengono esaminati perché la puntata sta per volgere al termine. Questa tipologia di decorso ospedaliero, che nelle serie tv fa sì che lo spettatore, salvo rari casi, non arrivi mai a seguire per intero la storia di malattia di un adolescente, è triste354


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mente vicina alla realtà di molte situazioni in cui una diagnosi tempestiva stenta ad arrivare a causa delle difficoltà che non solo i medici ma in primis gli adolescenti stessi hanno nell’individuare precocemente i sintomi del male che li affligge. Nell’episodio 22 della seconda stagione di Grey’s Anatomy, The Name of the Game, viene messa per esempio in evidenza l’incredulità dei medici di fronte al caso di un ragazzo di 12 anni che deve essere operato per un tumore al cervello. In sala operatoria fa il suo ingresso, come assistente del neurochirurgo, la dott. ssa Bailey. Dopo essere stata avvisata che «il cranio è pulito, il paziente è sedato», lo guarda in faccia e tanto sorpresa quanto incredula afferma: «ma è un ragazzo! Non credevo fosse un ragazzo… un tumore di quelle dimensioni!». L’episodio però si concentra sulla buona riuscita di una nuova tecnica di operazione al cervello sul paziente da sveglio e non dice nulla sull’esperienza di malattia vissuta dal ragazzo. Di maggior rilevanza sono invece gli ultimi due episodi della seconda stagione di Grey’s Anatomy, Deterioration of the Fight or Flight Response e Losing My Religion. In questi episodi, che di fatto sono uno la prosecuzione dell’altro, una delle linee narrative principali riguarda il ricovero presso il Seattle Grace Hospital di Camille Trevis, nipote del primario di chirurgia dell’ospedale, alle soglie del diciottesimo compleanno. Camille arriva in ospedale interrompendo bruscamente la festa del ballo di fine anno, assieme al fidanzato e a due amiche: ha perso conoscenza durante il suo primo rapporto sessuale. Tre anni prima le era stato diagnosticato un tumore alle ovaie e, precisa la zia accorsa in ospedale, «ne è stata rimossa solo una per salvaguardare la sua fertilità». Il dato è realistico: la fiction non manca di informare lo spettatore del fatto che gli AYA sopravvissuti a una malattia onco-ematologica (anche se Camille non può pienamente dirsi tale perché non ha ancora superato il quinto anno dal primo intervento) hanno un rischio di otto volte superiore a quello dei loro coetanei di contrarre nuovamente una neoplasia o di incorrere in severi disturbi collaterali (Nathan et al., 2013 e Schwartz et al., 2012). 355


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La dottoressa Shepherd, visitandola, le chiede se ha avuto qualche sintomo, dolori addominali o nausea. Rispondono le amiche, dicendo che è sempre stata bene. Ma Camille abbassa lo sguardo e ammette di non sentirsi bene da almeno un mese: «volevo andare al ballo, non volevo tornare ad essere la ragazza malata di cancro». Il tempo è avaro e la diagnosi terminale. Le amiche non si perdono d’animo e per fare sentire Camille viva fino all’ultimo, appagata e circondata dall’affetto dei suoi coetanei, decidono di organizzare un grande ballo in suo onore nell’ospedale. Quando il primario vede la sala d’attesa affollarsi di ragazzini, chiede spazientito cosa stia succedendo. «Io ho chiamato Gillian, e io ho chiamato Tessa, e io ho chiamato Simon e Bianca. È il suo ballo, se lei non può esserci noi portiamo il ballo qui». «Mi dispiace, ma non posso avere degli adolescenti che corrono per i corridoi. Qui c’è gente malata, c’è gente che muore», puntualizza il primario. «Che muore, lo sappiamo», ribattono le amiche di Camille, sottolineando il fatto che l’essere adolescente non impedirà alla loro amica di morire. Di fronte a questa constatazione, il primario non può che accordare il nulla osta all’organizzazione dell’evento. Il ballo è un escamotage semplice, quasi scontato per i telespettatori, per ribadire la necessità che può avere un’adolescente malata di tumore di continuare a partecipare alla vita di tutti i giorni, alle attività e agli svaghi prediletti dai propri coetanei: «Regular school attendance is vital to foster normal development and to prevent isolation from peers and social regression. […] It also helps re-establish normal life patterns and a renewed sense of control and stability». L’episodio è inoltre significativamente legato alla prima esperienza sessuale della giovane e, fra le poche informazioni mediche che dona in merito all’operazione subita alle ovaie, annovera l’importanza di aver preservato la fertilità della ragazza. I tumori degli apparati genitali femminili e maschili, infatti, sono fra i più frequenti nella fascia d’età che va dai 15 ai 29 anni (Bleyer et al., 2006). La sfera della sessualità è quindi citata come cruciale nella maggior parte degli studi scientifici relativi 356


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agli AYA, dal momento che «the effects of chemotherapy, surgery, or radiotherapy will affect identity and selfesteem, which, combined with effects on fertility, may also influence the young person’s sexual confidence. Peer contact will decrease at a time when peer group acceptance is crucial». L’organizzazione del ballo è un tangibile esempio di cura che le amiche rivolgono a Camille. La mancanza di contatto con i coetanei è, in effetti, il problema maggiormente menzionato negli studi volti a valutare i bisogni psicosociali dei giovani adulti affetti da malattia neoplastica (David C L et al., 2001): viene espressa anche la necessità di incontrare coetanei “sani”, prevalentemente amici, per mantenere viva l’aspettativa di una vita normale. A questo si collega l’esigenza, menzionata al secondo posto come frequenza, che è quella correlata al desiderio di una maggiore autonomia, anche nei processi decisionali del programma terapeutico. Una maggiore autonomia significa anche acquisire e preservare una precisa identità individuale anche nel periodo della malattia, e quindi il mantenimento delle attività collaterali “caratterizzanti” e degli hobbies che erano svolti prima della diagnosi.

Braccialetti rossi: una comunità che cura Restami pure vicino, che forse non piango nemmeno. (Braccialetti rossi)

Una riflessione a parte, relativa alla rappresentazione della cura e degli AYA, merita di essere dedicata alla serie italiana Braccialetti rossi. Diretta da Giacomo Campiotti e prodotta da Palomar, Rai Fiction e Apulia Film Commission, la serie ha al suo attivo due stagioni (e sta per varare la terza): la prima, composta da 6 episodi, è andata in onda su Rai 1 dal 26 gennaio al 2 marzo 2014. La seconda, composta da 5 episodi, è stata trasmessa dal 15 febbraio al 15 marzo 2015. Medical drama anomalo, ispirato al libro autobiografico Polseres Vermelles dello spagnolo Albert Espinosa (dal quale è stata tratta l’omonima serie catalana nel 2011) narra le storie di vita, di malattia 357


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e di cura di un gruppo di ragazzi ricoverati in ospedale. E ottiene un successo di pubblico che arriva, in alcune serate, a sfiorare i 6 milioni e mezzo di telespettatori. Leo, 17 anni, è ricoverato in ospedale a causa di un tumore alla tibia che ha comportato l’amputazione di una gamba. Quando iniziano a fare il loro ingresso nella stessa struttura altri suoi coetanei decide di fondare un gruppo, regalando a ciascuno degli amici un braccialetto di colore rosso, ricevuto come identificativo in occasione dei suoi interventi chirurgici. Sin dai primissimi minuti del primo episodio capiamo che l’atteggiamento e lo sguardo che questa serie rivolge all’esperienza di malattia sono completamente diversi da quelli ai quali tutte le altre serie, e la realtà dei nostri ospedali, ci hanno abituati. Nell’immaginario collettivo l’ospedale rappresenta sostanzialmente «uno spazio abitato ma non abitabile: punto di riferimento primario per la cura e l’intervento medico-sanitario, ma allo stesso tempo luogo fondamentale di malessere e di transito, da frequentare per il tempo più breve possibile». Non è esattamente ciò che pensa Rocco, voce narrante della serie, che ha undici anni ed è in coma da 8 mesi: C’era una volta il mondo, e dentro il mondo il mare, con poche onde e molti uccelli che volavano verso casa. Un mare limpido, trasparente. Alla fine del mare, un tratto di costa con torri incantate, immerso nel verde degli ulivi. E laggiù, oltre gli ulivi c’era… un ospedale. Un ospedale diverso da tutti gli altri, con un campo di basket sul tetto e il profumo del mare. Pieno di vita, di storie da raccontare. Proprio come nelle favole, proprio come nella vita. In questo ospedale vivo io. Eccomi, sono quello che dorme. Beh, veramente dormo da 8 mesi.

Si noterà poi, nel corso dell’episodio, che le stanze nelle quali sono ricoverati i ragazzi – nelle quali abitano, si potrebbe dire – sono state personalizzate con fotografie, disegni e oggetti personali. Persino l’ascensore (in questo caso, sineddoche dell’intero ospedale), nel quale rimangono bloccati Leo e Davide, può diventare, come nota Rocco, uno di quei «posti che sanno di chiuso, che si trasformano in luoghi di amicizia e fiducia». Una considerazione malinconica accompagna però le parole del bambino, che poco prima aveva ammesso: 358


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«qua dentro mi sento spesso solo perché ho pochi amici». La solitudine è ritratta anche in questa serie come uno dei mali che si aggiungono al male per il quale si è in ospedale. Lo confermerà Leo poco più avanti nel corso della puntata: «bisogna che stiamo attenti noi che abbiamo queste malattie del cavolo, perché se non moriamo di cancro va a finire che qui moriamo di noia». Ma alcuni piccoli gesti fanno capire che basta poco per alleviare noia e solitudine: Leo, che ogni volta che passa in carrozzella davanti alla stanza di Rocco lo saluta, la mamma del piccolo, che «è perfino diventata la pagliaccia dell’ospedale per poter venire qui in ogni momento e per vedere se è ancora capace di farlo sorridere». Nella stanza di Rocco viene collocato anche Davide, 14 anni, che ha avuto un malore mentre giocava a calcio nel campetto della scuola. A lui la madre di Rocco chiede di parlare al proprio figlio. «Forse tu non hai capito che io fra un po’ me ne vado», ribatte Davide, che è bullo e scontroso. «Una ragione in più, pensa che lui deve stare qui», conclude la donna. E infatti anche Davide, poco dopo, si ritrova solo in ospedale, visto che il padre deve correre al lavoro, iniziando a sperimentare la solitudine. Rocco, fermo nel suo letto da mesi, ha affinato la capacità non solo di sentire, ma di sentire il sentire dell’altro. Curiosa è l’affinità tra la condizione di Rocco, che è corpo passivo all’interno della stanza, corpo esposto, incapace di esprimersi, e la sensibilità per come essa viene intesa dal filosofo Lévinas: esposizione all’altro. «Lo stare esposti indica una condizione di passività, e anche di vulnerabilità. La sensibilità è lasciarsi mettere in causa dall’alterità dell’altro. […] Se non ci si lascia toccare dall’altro allora la sollecitudine non si declina nella forma del prendersi a cuore, che rappresenta la condizione in cui si realizza la forma intensiva dell’aver cura», precisa Luigina Mortari. È così che Rocco, nella serie, esprime – attraverso i suoi pensieri – l’empatia nei confronti del compagno di stanza: La conosco quella sensazione, che si prova la prima volta che rimani solo in ospedale. Le mamme e i papà se ne vanno e tu sei lì, solo, con un dolore che non è proprio un dolore, è una specie di malinconia.

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Ti viene da piangere ma non piangi. In quel momento mi sarebbe piaciuto tanto potermi svegliare, andare lì e fargli un po’ di compagnia.

È questo un esempio di quella forma autentica di cura che «appare realizzabile solo a condizione che colui che cura sia in grado, in primo luogo, di condividere lo spaesamento di chi è curato». Se vogliamo, il principio di Braccialetti rossi è proprio questo, nella sua elementarità: credere nel potere della condivisione delle esperienze di malattia. Quando Leo propone agli amici di formare un gruppo, gli viene ribattuto che «non è mica facile creare un gruppo dal nulla». Ma prontamente il futuro leader osserva «Innanzitutto bisogna avere delle cose in comune. La testa calva ce l’ho solo io? In ospedale ci sono solo io? E la carrozzella ce l’ho solo io?». Gli esempi di questa condivisione, nel corso della serie, non mancheranno. Nel secondo episodio, infatti, Leo riceve i risultati della tac e scopre che deve iniziare un nuovo ciclo di chemioterapia. È arrabbiato, triste e demotivato. Gli amici gli dicono «Dividila con noi la tua paura. Ogni giorno uno di noi verrà con te [a fare la chemio]». Leo si sente oppresso non solo dalla malattia che incombe, ma anche dalle pareti di quell’ospedale in cui sta passando molto tempo, pareti, quelle del reparto di oncologia, «così squallide che mi fanno vomitare». Con un escamotage speculare a quello del ballo nell’episodio di Grey’s Anatomy descritto poco più sopra, i braccialetti decidono di fare una sorpresa all’amico, dipingendo, durante la notte, sulla parete del reparto di oncologia, un grande leone, tenace, fiero, impavido. Un modo ancora una volta semplice per ripensare quell’ambiente repressivo che il più delle volte è l’ospedale, così ben descritto da Fabio Dovigo: Non basta che il malato e chi lo circonda vengano bruscamente ricondotti dall’esperienza della malattia e della sofferenza nel cerchio stretto del corpo, dei suoi limiti e delle sue esigenze fisiologiche. Il messaggio che lo spazio in genere spoglio e disadorno dell’ambiente ospedaliero comunica ai suoi visitatori è l’assenza di messaggio, il depotenziamento di ciò che non è strettamente funzionale al dispositivo

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di cura del soma, la riduzione al minimo di ogni ridondanza semantica, di ogni artefatto che confermi il paziente nella sua identità: stanze ridotte all’essenziale, in cui il pensiero si rifrange costantemente tra pochi, anonimi oggetti, letto, sedia, comodino, bicchier d’acqua. Una camera predisposta per essere personalizzata in misura ridottissima, secondo l’implicito e paradossale assunto per cui un maggiore comfort spingerebbe il paziente a restare di più, allungando la degenza. Per gli esterni che assistono o visitano il malato lo spazio è poi generalmente nullo, nella stanza si è subito troppi, non si sa dove collocarsi perché la stanza non lo prevede, l’unico corpo ammesso è quello del malato, gli altri diventano immediatamente troppo ingombranti.

Braccialetti rossi rimette in gioco l’immagine statica dell’ospedale come «struttura chiusa, luogo di assenza accidentale o definitiva rispetto alla normalità, monade collocata al di fuori della vita attiva, non solo dal punto di vista spaziale ma anche da quello simbolico». Con i suoi luoghi di confine – le grandi vetrate delle stanze da letto, la cucina, l’ascensore, il cortile antistante l’ospedale, il campo da basket sul tetto – la serie ci fa immaginare un modo diverso di vivere uno stesso ambiente, un modo che rompe l’isolamento della monade ospedaliera e che sottolinea quanto anche le strutture dell’ospedale siano determinanti nella definizione della qualità della cura. Braccialetti rossi mette in scena un ospedale ideale, non troppo dissimile da quello che emerge come desiderabile dalle ricerche effettuate in questo settore sui bisogni degli AYA: Young people want to have treatment directed by professionals expert in their disease, preferably in a specialized center that caters specifically for their age group. To know that they are not the only young persons with cancer can have a very positive impact on their journey, and many strong bonds are formed in the process. […] Wherever possible, young people want to be provided with their own space, so that they can mix with their own peer group in an age-appropriate environment and have experienced professionals who can guide them expertly in order to help them with their individual needs.

La malattia, si sarà capito, è in Braccialetti rossi innanzitutto un rito di passaggio, che si sovrappone ai riti di passaggio dall’infanzia all’adolescenza o dall’adolescenza all’età adulta. La comunità dei pari (gli altri com361


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pagni, anch’essi malati o da poco guariti) accompagna i giovani protagonisti attraverso questo periodo della vita in cui gli eventi quotidiani assumono toni differenti, irti di difficoltà. Chi ci è già passato si offre come accompagnatore, guida, spalla utile alla trasformazione che i ragazzi dovranno affrontare. I medici e gli infermieri sono persone umane e compassionevoli, disposti ad acconsentire alle richieste dei loro pazienti, ma non hanno in questa serie che un ruolo secondario. I veri protagonisti per una volta sono i pazienti e la comunità di cura che essi costituiscono. È così che i ragazzi alla sera si ritrovano uno nella stanza dell’altro e si rassicurano a vicenda prima di andare a dormire. Con grande naturalezza perseverano nel tentativo di rendere chiunque, anche il più sofferente o incosciente, parte del gruppo, parte della vita. Nell’ultimo episodio della seconda stagione, Rocco, che nel frattempo si è risvegliato, passa le giornate in stanza di Bea, a sua volta in coma, raccontandole le avventure dei compagni e incitandola a imboccare la stessa strada (o meglio, la stessa acqua) che l’aveva condotto alla guarigione. Anch’egli, una volta in coma, ricorda di aver sognato, appena prima di svegliarsi, una piscina, nella quale, preso il coraggio di buttarsi, è tornato alla vita. Il racconto che Rocco condivide con Bea è significativo perché «quando la relazione viene riconosciuta come cura, intrinsecamente dotata di valore terapeutico, diventa farmaco speciale i cui principi attivi stimolano non tanto la “spiegazione” dei processi fisiopatologici, ma la “comprensione” della persona che non ha altro mezzo, se non la propria storia, per farsi conoscere». Bea riuscirà a farlo solo quando Chicco, un altro paziente dell’ospedale, le chiederà perdono per averle involontariamente causato l’incidente che l’ha costretta in ospedale. Le dimostrazioni di cura sono innumerevoli e passano dalla condivisione delle paure e delle difficoltà di tutti i giorni a piccoli gesti di attenzione, come quello che compie Chicco nei confronti di Flaminia, noleggiando un pianoforte che la piccola ha sempre desiderato suonare nonostante la sua cecità. Diversamente da altri medical dramas, Braccialetti rossi non è tanto interessato a 362


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mostrare come agisce la malattia ma come i ragazzi reagiscono ad essa. La serie, infatti, suggerisce che le persone malate sono persone malate ma continuano ad essere anche molte altre cose contemporaneamente: il ragazzo che si innamora, quello che ha difficoltà con lo studio, e via dicendo, motivi che nella fascia di età degli AYA diventano fondamentali forze motrici di vita. La lotta contro la malattia, complice, nella rappresentazione, la palestra per la riabilitazione di cui dispone l’ospedale, assume allora i toni di un allenamento alla vita. Forse è anche per questo motivo (oltre al target della serie, che annovera spettatori molto giovani) che, nonostante le sofferenze attraversate e le teste senza più capelli, i corpi dei ragazzi sono rappresentati come pieni di vita. La fiction come strumento di educazione sanitaria e palestra di competenze narrative The linguistic and visual representations of medicine, illness, disease and the body in elite and popular culture and medico-scientific text are influential in the construction of both lay and medical knowledges and experiences of this phenomena. (Deborah Lupton)

Mi sono occupata in altra sede di indagare in che modo le rappresentazioni mediatiche della salute e della malattia vengono negoziate dagli spettatori e riutilizzate in circuiti esterni a quello strettamente mediale, per andare ad intersecare aspetti concreti della loro esistenza, non ultima la relazione medico-paziente. Tuttora poco studiata, la relazione fra la popolarità di alcune serie televisive e la loro capacità di penetrare non solo l’immaginario ma anche la vita quotidiana degli spettatori era stata messa bene in evidenza da Stuart Hall, interpellato riguardo alla serie Dallas: At a certain moment the programme achieved a kind of popularity other than merely in terms of numbers of viewers. It had repercussions on the whole culture, the involvement of the viewers became of a different order. At a certain moment you could no longer avoid

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talking about the popularity of Dallas when people started using categories from it to help interpret their experiences».

A seguito di una ricerca di campo condotta costruendo questionari e interviste con spettatori di serie televisive a tema medico e medici di Centro e Nord Italia, ho motivo di sostenere che il medical drama ottemperi alla funzione di ricomposizione di un senso comune sulla malattia, attraverso la narrazione di storie. La familiarizzazione di un universo straniero, quello della medicina, è infatti il principale effetto sortito da queste serie. Come testimoniano gli intervistati, ciò permette da una parte di dissipare alcune paure legate alla scarsa conoscenza dell’universo ospedaliero e allo stupore di ritrovarsi là e dall’altra di attenuare il timore legato alla difficoltà di capire il linguaggio della biomedicina. Emergono, dai racconti degli intervistati, tracce di un apprendimento sociale, di cui il prodotto audiovisivo risulta essere un catalizzatore. Per questo motivo, la fruizione di medical dramas può in alcuni casi assumere i connotati di un primo tentativo di autocura, per come essa viene definita da Giovanni Pizza. La consapevolezza che quanto trasmesso sugli schermi televisivi viene incorporato e talvolta riutilizzato dagli spettatori ha spinto le case di produzione di alcuni medical dramas, nonché gli studiosi di scienze sociali (Gerbner et al., 1981; Pfau et al., 1995; Van Den Bulck, 2002; Davin, 2007; Hether et al., 2008) a interrogarsi da una parte sul potenziale benefico di messaggi volti alla prevenzione e all’educazione sanitaria all’interno delle serie tv e dall’altra sul potenziale educativo per gli studenti di medicina. Una telespettatrice intervistata, studentessa di 25 anni, mi ha per esempio riferito che ancora oggi, a distanza di più di dieci anni rispetto al momento della fruizione di ER, le è rimasto impresso un aspetto relativo alla prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili: Mi ricordo che c’era qualche puntata in cui si parlava di prevenzione, sia di prevenzione che di contraccezione e in effetti lì io ero molto interessata. Ovviamente se avessero detto una castroneria assurda ri-

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spetto a quelle che erano già le mie informazioni, avrei detto: «aspetta che provo ad informarmi meglio, magari prendo un terzo… chiedo a qualcun altro o mi informo in modo diverso». Però no, direi che l’ho presa per vera. E secondo me era dovuto anche a come mi hanno venduto l’informazione, a come me l’hanno impacchettata. Mi pare che fosse un personaggio che mi piaceva particolarmente che dava un consiglio ad una ragazzina riguardo a come proteggersi, forse l’infermiera… Carol! Che aveva aperto quella specie di ambulatorio… e lei lì aveva spesso ragazzine che chiedevano questo genere di consigli. Comunque ero una ragazzina e quell’argomento per me era abbastanza interessante. […] Però in effetti quel messaggio lì mi è particolarmente rimasto e qualche informazione proprio – devo dire – l’ho presa per vera.

Ho deciso di riportare le parole di Ilaria per cercare di rendere l’idea di quanto le modalità di narrazione proprie della fiction, forse poco “scientifiche”, ma di certo memorabili, siano capaci di colpire lo spettatore, specie se giovane. Gran parte della ricerca sul ruolo dei mass media nell’educazione sanitaria ha sottostimato l’uso che le persone fanno dei media per provare esperienze piacevoli piuttosto che per ricevere messaggi gravi. È questa una lacuna, dovuta al pregiudizio che alcuni prodotti dell’industria culturale contribuiscano al mero intrattenimento, che ha portato ad ignorare il fatto che prodotti come la fiction trasmettono, a vari livelli, messaggi impliciti o espliciti sulla malattia e che, per converso, le campagne mediali di informazione sanitaria, mirate a diffondere istruzioni comportamentali o a cambiare credenze sedimentate, sono risultate spesso inefficaci. Basandosi sull’assunto che il piacere, nell’assistere ad un determinato programma, è condizione necessaria per riuscire a trattenere alcune informazioni, i networks televisivi e i professionisti della sanità, negli Stati Uniti, hanno iniziato a lavorare insieme alle sceneggiature delle serie televisive al fine di fornire un’educazione sanitaria di base al proprio pubblico. Questo discorso appare pertinente allorché uno dei più esaustivi report sullo stato della ricerca riguardante gli AYA si serve proprio di una serie televisiva per introdurre un tema cruciale, quello dell’informazione/conoscenza della malattia onco-ematologica, dei suoi modi di presentarsi, di evolversi, di essere curata e quando possibile prevenuta. La diagnosi 365


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precoce, infatti, è un elemento tanto decisivo quanto difficoltoso nel caso degli AYA. La sezione Information and Resources for Young Adults and Adolescents with Cancer del numero speciale di Pediatric Oncology dedicato a Cancer in Adolescents and Young Adults esordisce così: In the 1970s and 1980s, the popular American educational television series called “School House Rock!” inspired children and teens with its slogan, “Knowledge is Power”. For today’s young adult cancer patients and survivors, that aphorism remains as true now as it was when many of them first discovered the value of learning through the program’s catchy songs. […] Because information represents knowledge acquired in any manner, knowledge is indeed power in the realm of cancer survivorship.

E ancora: There are several effective methods for delivering information to cancer patients. Face-to-face verbal contact between patient and healthcare team is widely agreed to be the cornerstone and the “gold standard” for information sharing. […] At the same time, research indicates that verbal communication is enhanced if supplemented appropriately with effective materials. These may include written materials (booklets, pamphlets, brochures, books, monographs, and photocopied articles), audio-visual aids (video or audio tapes, DVDs), and computer-based approaches (interactive learning modules and utilization of the World-Wide Web, or Internet).

Porsi il problema dell’utilità della fiction in questo settore non è superfluo, se si considera il potenziale informativo e formativo che questi prodotti possono avere sui pubblici più giovani, quelli cioè che sono più suscettibili di modificare il proprio comportamento e la cui formazione di opinioni è ancora largamente in evoluzione. Negli Stati Uniti, House M.D. e Grey’s Anatomy sono state le serie più apprezzate dal pubblico di età compresa fra i 18 e i 25 anni, durante la stagione televisiva 20082009. In Italia, House M.D. registra i dati di ascolto più alti fra i telespettatori di età compresa tra i 20 e i 24 anni ed è lecito pensare che anche Grey’s Anatomy conquisti grossomodo la stessa platea.

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Alle soglie del Duemila, uno studio sui telespettatori di ER dimostrò che il medical drama si era rivelato un mezzo appropriato per far passare alcune informazioni rispetto alla contraccezione di emergenza ma che, per essere trattenuto, il messaggio sanitario doveva essere reiterato più volte (da più personaggi o in puntate diverse). Il rischio di disinformazione è presente, benché sia altresì dimostrato che gli spettatori non accettano ciecamente le informazioni che vengono presentate, specie se queste sono in contraddizione con la loro esperienza diretta del problema. Una delle strategie testate per superare questi limiti è stata quella di disseminare messaggi sanitari simili fra loro in più medical dramas per amplificarne l’effetto e il potere di memorizzazione. Interessante, al riguardo, è uno studio, pubblicato nel 2008, volto a valutare l’impatto di due linee narrative riguardanti i rischi che un risultato positivo al test sulla mutazione del gene BRCA1 evidenzia per lo sviluppo di un tumore al seno. Entrambe le storie mostravano la scelta della protagonista di sottoporsi a una mastectomia preventiva per ridurre il rischio di sviluppare il cancro e sottolineavano le implicazioni di una storia familiare di tumori al seno, l’utilità di avere un secondo parere medico riguardo alla terapia consigliata e l’importanza di sottoporsi a screening mammografici preventivi. A distanza di tre settimane, nel 2005, furono dunque mandati in onda due episodi sullo stesso tema, uno in ER e l’altro in Grey’s Anatomy. I risultati di un’indagine su 599 donne evidenziarono che mentre la singola linea narrativa aveva avuto un impatto modesto sui comportamenti e le conoscenze delle spettatrici, l’esposizione combinata aveva invece sortito degli effetti: non solo esse dimostravano di avere sviluppato una maggiore conoscenza dei rischi insiti nella mutazione al gene BRCA1, ma anche di aver maturato una disposizione positiva verso la possibilità di una mastectomia preventiva, di aver colto l’importanza di ricevere un secondo consulto medico e di avere intenzione di pianificare, se non di aver già pianificato, una mammografia come risultato dell’aver visto gli episodi in questione. La ricerca, a detta degli stessi autori, presenta dei limiti statistici, tuttavia fornisce un primo 367


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tassello per la comprensione del ruolo delle esperienze mediate nella vita di tutti i giorni e riporta all’attenzione la necessità di incoraggiare l’accuratezza della informazioni diffuse dai media, ai fini di fornire, anche attraverso di essi, alcune conoscenze alla portata di tutti. Nei Paesi anglosassoni si sta infine diffondendo una fiorente letteratura su come utilizzare film e medical dramas nella formazione dei professionisti della sanità. Un altro elemento saliente per quanto riguarda gli AYA, e ancora disatteso in gran parte del mondo, è, infatti, la formazione di uno staff specializzato nelle malattie oncologiche di adolescenti e giovani adulti. Non solo uno staff che possieda conoscenze biomediche specifiche, ma che sappia affinare le proprie capacità relazionali e comunicative per andare incontro alle esigenze psicosociali di questa popolazione. L’incontro fra medico e paziente non è limitato all’intervento di manipolazione del corpo, ma implica sempre un’interazione comunicativa che precede, segue o accompagna l’atto più tecnico. È in questi momenti – sempre meno frequenti – che curante e curato possono intensificare la conoscenza dei propri punti di vista e dedicarsi all’ascolto reciproco, fino a co-costruire un significato per la situazione di malattia. Come evidenzia Maria Paola Zamagni «appare pieno di incognite il tentativo di armonizzare il linguaggio delle evidenze scientifiche con le storie dei pazienti: non per scetticismo ma per mancanza di “scuola”, cioè di formazione specifica, mancando nel core curriculum accademico l’opportunità di confrontarsi con il vissuto del malato, specie se inguaribile». Come si diceva all’inizio, la comprensione – più che la spiegazione – della sofferenza è, in se stessa, una pratica di cura. Il malato che racconta le sue ansie e preoccupazioni sta inviando un segnale di aiuto: «non ascoltare significa negare valore al suo vissuto e quindi gravare la sua condizione di un altro tipo di sofferenza, quella che si genera dal non sentirsi adeguatamente considerati». Luigina Mortari esamina a fondo le implicazioni dell’ascolto come pratica che cura: L’ascoltare implica che l’altro prenda la parola e l’ascolto diventa azione di cura quando sa restituire all’altro la considerazione per

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quanto sta dicendo a noi. Ascoltare viene dal greco “ἀκούω” che significa non solo “odo” e “percepisco”, ma anche “imparo” e “obbedisco”. Ascoltando l’altro s’impara, s’impara dalla sua esperienza; quindi il tempo dato all’ascolto alla fine è un tempo carico di senso anche per sé, perché l’ascolto dell’altro provoca la postura della presenza riflessiva sui propri vissuti. L’obbedire, invece, interpretato dentro la relazione di cura, può essere inteso come il tener conto di quanto l’altro dice, il non limitarsi ad accogliere il senso ma assumere quanto il senso indica, appunto prendersi cura del senso dell’altro.

A cosa può essere utile, dunque, proporre ad un medico in formazione la visione di un medical drama? Martin Willis mette in luce come questi prodotti audiovisivi siano essi stessi un particolare esempio di medicina narrativa. I medical dramas sono oggi, a tutti gli effetti, parte di un continuum di pratiche di narrazione, che includono racconti riflessivi sulla formazione e sulla pratica medica, annotazioni cliniche, storie di malattia, racconti di fiction, non-fiction e serie televisive popolari. Ciò che rende questi prodotti dell’industria culturale particolarmente adatti alla formazione è il fatto che essi stimolano «emotional engagement, cognitive development, and moral imagination allowing for a more ethically sensitive student in training». Entrare in contatto con le esperienze di medici, pazienti, familiari e comunità attraverso una narrazione per immagini offrirebbe, secondo alcuni autori, l’opportunità di alimentare la capacità di leggere, ascoltare e comprendere le storie e le narrazioni che i pazienti producono nella realtà concreta dell’incontro medico-paziente. In sintesi, il medical drama favorirebbe quella che Rita Charon per prima ha definito «competenza narrativa», che gli esseri umani utilizzano per assimilare, interpretare e reagire alle narrazioni. I motivi per cui questo particolare tipo di narrazione potrebbe ottemperare allo scopo sono molteplici: prima di tutto, un racconto romanzato, proprio perché non è la nostra vita, ci pone in una posizione morale favorevole alla comprensione e ci mostra come sarebbe assumere quella posizione nella vita; ci invita a valutare un’intera serie di possibilità e a selezionarne una rilevante per il caso specifico, senza le pressioni, la scarsa lucidità e l’emotività che complicano le decisioni nella vita reale. 369


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L’elemento finzionale permette inoltre «a free exercise of moral imagination and the discussants to view things from different perspectives, to weigh the pros and cons of different alternatives knowing that no one’s life is at stake at this particular instant». Così gli studenti di medicina – che si avvicinano al momento in cui dovranno consigliare i pazienti in merito a una terapia piuttosto che ad un’altra – attraverso i medical dramas possono essere esposti ad una gamma di scenari in cui si trovano quotidianamente i pazienti. È chiaro che stiamo considerando una dimensione simulatoria del reale, un allenamento asettico e virtuale alla relazione con i pazienti, che comporta necessariamente una schematizzazione della complessità, dell’ambiguità e dell’incertezza che contraddistingue la pratica medica reale. Inoltre, l’impostazione drammatica di queste serie tv spinge a rappresentare situazioni ai limiti delle considerazioni etiche, quindi a sensazionalizzare problemi e focalizzare l’attenzione su questioni in voga nel discorso pubblico (ottemperando alla cosiddetta funzione di “agenda setting” dei media) lontane dai problemi più comuni in cui ci si può imbattere tutti i giorni in un contesto di cura. La natura e la tipologia di apprendimento maturabili dall’esperienza reale di un contesto clinico e dall’esperienza mediata sono per forza di cose di diverso ordine: l’essere presenti ad una situazione fa tutta la differenza, così come l’essere presenti col proprio corpo a contatto con altri corpi. Ritengo, per questo motivo, che il medical drama possa costituire solo un primo filtro, un accesso iniziale e schermato al racconto dell’altro, alla sua storia incarnata di sofferenza. Se è vero che agli esseri umani non è dato di «sopportare troppa realtà», l’unica parola che chi cura può scegliere per comunicare, in certi casi, è «una parola porosa, leggera, che non pretende di dire tutto della cosa su cui verte il dialogo, ma sa tenersi discreta, capace di lasciare fessure di senso». Riferimenti bibliografici Alexander M et al. (a cura di), Cinemeducation: a Comprehensive Guide to Using Film in Medical Education, Abingdon, Radcliffe Publishing, 2005. 370


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Intervista a Giacomo Campiotti UNA VITA TRA CINEMA E TELEVISIONE PER RACCONTARE PERSONAGGI ALLA RICERCA DELLA CONSAPEVOLEZZA Roberto Farnè (F) intervista Giacomo Campiotti (C) (Trascrizione di Giovanna Andreini) Presentazione Si parte da un breve filmato di “Braccialetti Rossi”. F: Quello che abbiamo visto è un piccolo filmato di Braccialetti Rossi che è il successo più recente di Giacomo Campiotti per la RAI, una serie che continuerà. Partiamo dall’ultima cosa per andare indietro nel tempo. Essendo questo il luogo, l’ambito della scuola di psicologia, di scienze della formazione, partiamo proprio dalla formazione. La tua formazione è stata una formazione nell’ambito delle scienze dell’educazione. Hai conseguito una laurea in pedagogia, e una formazione nel cinema. Come sei riuscito a mettere insieme queste due cose: la pedagogia, l’educazione e il cinema, cosa ne hai fatto in sostanza? C: Grazie a Roberto Farne’, buongiorno a tutti, sinceramente sono molto contento di tornare a Bologna, mi emoziona sempre tornare nella vostra città. Io in realtà volevo fare il medico, il dottore, fino a diciassette anni. Avevo letto i libri di Cronin, “Le stelle stanno a guardare” e mi ero appassionato alle storie dei dottori che potevano salvare il mondo, poi però, arrivato a diciassette anni, ero contento di andare via di casa, abitavo in un piccolo paese, Casciago, in provincia di Varese e ho capito che se avessi continuato a studiare medicina, per sei o sette anni, sarei rimasto nella sfera della famiglia e quindi ho scelto la libertà. Con piacere, non essendo quindi una scelta di “serie B”, e considerando che già in quegli anni lavoravo durante l’estate come educatore, facendo in quelli che allora si chiamavano “Parchi Robinson” e nei doposcuola, i primi esperi374


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menti di inserimento di ragazzi portatori di handicap, ho scelto in modo molto naturale la pedagogia e la scienza dell’educazione. Sono venuto a Bologna e, venendo da Casciano, mi sembrava una metropoli impazzita come New York, l’unica differenza era che, al posto dei taxi, c’erano le biciclette. Qui ho avuto la fortuna di avere dei grandi professori, penso e spero di essere stato segnato dagli studi che ho fatto. Ricordo con piacere Andrea Canevaro che è professore di pedagogia speciale e che ci faceva vedere i film. Io non ero un cinefilo all’epoca, non ancora, ho iniziato a vedere e ho visto qualche film insieme ai miei professori e forse lì ho scoperto le potenzialità che ci sono dietro al raccontare una storia. Ricordo Piero Camporesi, Ermanno Cavazzoni e tanti altri professori. F: un bel gruppo di maestri C: si, la parola giusta è questa: maestri. F: il ricordo che voglio portare è quello di quando, poco prima della tua laurea, è arrivato il primo film “ corsa di primavera” e i colleghi ed io ti invitammo a presentarlo nella nostra università in una delle aule che ricordo affollatissima. C: si, era il mio primo film che andò a Venezia. I protagonisti erano solo bambini di otto anni e la cosa bella era che io non ero ancora laureato, avevo fatto tutti gli esami, poi ero partito per Roma dopo aver conosciuto un gruppo di documentaristi e li ero rimasto tre mesi. Mi ero appassionato, ero rimasto affascinato e mi trovai sul set cinematografico di un film di Monicelli e rimasi folgorato. Capii che volevo fare questo: non mi sembrava nemmeno un lavoro, mi sembrava che le persone continuassero a divertirsi, a giocare, raccontare storie, truccarsi, vestirsi, rappresentare persone diverse da quello che sei, inventare dei mondi....mi è sembrata una cosa fantastica, per cui ho pensato che mi sarebbe piaciuto lavorare lì. F: quindi diciamo che da un certo punto di vista l’università ti ha guidato, ti ha indirizzato alle conoscenze in quell’ambito dell’educazione che tu già frequentavi. Hai parlato di esperienza come educatore, del lavoro con bambini handicappati ecc., poi il cinema è diventato 375


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quello in cui tu hai cercato di portare anche questa dimensione. Sei stato assistente alla regia di Mario Monicelli in alcuni suoi film importanti come “Speriamo che sia femmina”, “I Picari” e hai anche lavorato con Ermanno Olmi. C: si, ho avuto questa fortuna. Con Monicelli ho lavorato quasi dieci anni, prima come assistente alla regia, ho fatto la gavetta. Del primo film in cui ho lavorato praticamente non ho visto neanche il set: stavo tutto il giorno a fermare il traffico, oppure stavo tutto il giorno con un sacchetto di gettoni. I telefonini non esistevano e io dovevo chiamare gli attori che erano in ritardo. Se un attore non arrivava tu andavi nel panico, non sapevi cosa era successo, non so chi si ricorda quando non c’erano i telefonini,smembra un secolo fa. Io avevo questi sacchetti di gettoni, portavo il, caffè e facevo qualsiasi cosa, poi piano piano.......ho lavorato anche nel film “ Il marchese del Grillo”, sono molto fiero che nei titoli di coda di questo film ci sia anche il mio nome. Sono sempre però stato affascinato dal cinema inteso un po’ come lavoro artigianale, come nel cinema di Ermanno Olmi. Sapevo che c’era questo regista che lavorava sempre da solo, si auto produceva i film, li montava lui, faceva lui la fotografia ed ero molto affascinato. F: una versione più artigianale quindi, un fare cinema nel senso vero C: si, la ricerca dell’essenziale e cercare di mantenere la “macchina cinema” all’essenziale, in modo che non appaia più cornice che quadro. Ho avuto la fortuna di incontrarlo e lui ha prodotto i miei primi lavori: cortometraggi e documentari che hanno avuto un certo successo e che mi hanno dato la possibilità poi di passare ai film veri e propri. F: quindi possiamo dire che Monicelli prima e Olmi poi sono stati il corrispettivo nel cinema dei maestri che tu hai avuto nell’università. C: si, aggiungo Lucio Dalla perché in quegli anni ho avuto la fortuna di diventare suo amico. Siamo rimasti amici per tutta la vita è ritengo che anche lui sia stato un grande maestro, sicuramente fuori dagli schemi ma sempre molto molto stimolante. 376


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F: Molto appassionato di cinema tra l’altro. Proseguiremo adesso alternando alle chiacchierate, la visione dei video che Campiotti ci ha portato. Avendo visto forse non tutti i tuoi film ma la maggior parte della tua produzione, introdurrei il tema che trovo sia un filo conduttore che caratterizza i tuoi lavori: Sono due le tematiche: da una parte l’educazione e la formazione: formazione dell’infanzia e della crescita con le difficoltà e la fatica di crescere, di diventare grandi e dall’altra la sofferenza della malattia, del,cosa vuol dire lottare. La lotta caratterizza tutti e due questi temi: la lotta nell’educazione, nel crescere e la lotta nei confronti della malattia e della sofferenza. Credo che questo sia l’ambito in cui tu hai costruito un po’ tutta la tua produzione, è così? C: non me l’aveva mai detto nessuno però mi sembra molto azzeccato. Io direi “le prove”. Il mio amore per l’adolescenza nasce anche dal fatto che io vivo di rendita dalla mia adolescenza ed è il periodo della vita in cui vivi le emozioni in maniera molto profonda, non esiste il tiepido, tutto è bellissimo o bruttissimo, o stai benissimo o stai malissimo, sei molto aperto alla vita. Non sei più un bambino ma non sei ancora un grande, per cui non hai ancora le difese, le chiusure o i preconcetti dei grandi ma non sei ancora un grande e hai ancora la meraviglia del bambino. Inizi a fare i conti con quello che sei tu e quello che è il mondo fuori. Io ricordo che a quel l’età pensavo che i miei genitori e tutti gli adulti, compresi i maestri e i professori sapessero tutto e mi ricordo che per me è stato uno chock rendermi conto che invece i grandi non sanno tutto, anche quando fanno finta di sapere tutto, non è vero. L’adolescenza è un periodo molto bello, molto fertile da raccontare ed io lo sento molto vivo in me; non so se è perché sono ancora un eterno adolescente.... F: probabilmente per fare cinema serve quella dimensione del gioco a cui tu facevi riferimento. Passiamo adesso ad un film che hai fatto su Moscati, uno dei tuoi più grandi successi C: questo è un film che ha vinto il festiva di Roma come migliore fiction internazionale ma soprattutto ha 377


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dato voce a questo grande personaggio, questo medico che io non conoscevo quando mi fu proposto.Poi iniziai a leggere la sua storia per scrivere la sceneggiatura e ho scoperto che è un grande scienziato italiano, uno dei primi ad aver usato la penicillina, un uomo e un medico di una modernità incredibile, che parlava del dolore, della sofferenza e del corpo umano in modo molto moderno, in un modo che ancora oggi è di grande importanza. Trattava le persone non solo come un pezzo di carne ma come corpo e anima per cui sentiamo quello che dice lui: Noi non dobbiamo considerare il dolore come una contrazione fisica ma come il grido di aiuto di un nostro fratello che noi dobbiamo aiutare con tutto il nostro amore. Oltre a questo scoprirete che spesso potrete alleviare il dolore con un gesto, con il giusto consiglio, con le giuste parole, con un abbraccio e non solo con la fredda ricetta di un medico. Provate a sentire l'energia divina che passa dentro di noi, questo vi aiuterà a capire il battito di un cuore, un respiro affannato. Se ritroviamo questo flusso, miglioreremo le nostre intuizioni, anche per la diagnosi delle matattie. - nelle immagini del film il dott. Moscati decide di far trasportare i letti dei malati nel cortile dell’ospedale per far prendere loro “una boccata di sole” tra lo stupore e la meraviglia dei malati, degli infermieri. I medici anziani sono molto contrariati e non condividono la follia di Moscati.F: grande successo quello di “Moscati”. Tu ti muovi tra televisione e cinema senza differenze, con una grande disinvoltura, sembra che tu non faccia preferenze C: infatti, mi fa piacere questa tua osservazione perché sono fiero di essere uno dei primi registi di cinema che è passato a fare la televisione, cosa che adesso tutti vorrebbero fare. La TV era sempre guardata come un prodotto di serie B mentre io ho un grande rispetto per le persone e ritengo un grandissimo privilegio poter entrare, nelle cucine, nei salotti, nelle casa delle gente. Con la TV raggiungi un pubblico che con il cinema non raggiungi neanche con i film di maggior successo 378


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F: allora ti faccio un complimento: le cose che tu stai dicendo erano le stesse cose che negli anni Settanta diceva Roberto Rossellini quando decise di fare la sua produzione, l’ultima parte del suo lavoro, che fu il cinema didattico. Lo fece per la televisione e venne trattato malissimo dal mondo del cinema. Lavorò in Francia per fare i suoi film didattici per la TV. C: la dimensione e la possibilità pedagogica della televisione che si chiama servizio pubblico, è immensa. Io scelgo i miei progetti per i contenuti, è come uno scrittore che una volta scrive una poesia e poi un’altra volta un racconto, un romanzo. Cambia il mezzo ma l’importante secondo me è quello che dici, non dove lo dici e come lo fai. F: un film recente di questi ultimissimi anni che mi piace citare, tra i tanti film di Giacomo Campiotti, perché è un film che io ho visto un po' come cerniera fra le tue tematiche, quella della formazione, della crescita, dell’adolescenza e quella della sofferenza e della malattia, è “Bianca come il latte, rossa come il sangue”. Tratto da un romanzo di successo, è un film in cui le due dimensioni si legano insieme e ritornano poi allo stesso modo su “braccialetti rossi”. C: esattamente, quando ho fatto quel film non sapevo nemmeno che esistesse il mondo dei Braccialetti Rossi, non conoscevo il libro di Albert Espinoza e non conoscevo lui. Poi è stato incredibile passare da uno all’altro perché sembra quasi che il film sia il prequel dei braccialetti Rossi ma anche lì mi interessava un punto di vista della storia. Il film, riscritto in parte, presenta molte differenze rispetto al libro. È la storia di un ragazzo adolescente che si trova per la prima volta nel mondo in cui ti senti un supereroe, sei convinto che tutto sia bello o perlomeno che non esistano dei problemi insormontabili. Si trova invece davanti alla malattia e poi alla morte di una sua amica. È’ un tema che io avevo già trattato in un film che avevo fatto che si chiama “mai più come prima” Nel filmato mostrato l’amico della ragazza malata, scrive le seguenti parole: 379


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Cara Beatrice, non so cosa si debba dire in questi casi, se devo fare finta che stai bene... F: l’altro aspetto che mi pare ti interessi molto, lo abbiamo già visto nel personaggio di Moscati, che è stato un grandissimo maestro, sono proprio le figure di maestri e così torniamo a questo tema che ha caratterizzato anche la tua formazione: la ricerca di maestri e credo che ancora oggi i bambini e ragazzi, cerchino nella scuola queste figure, che spesso non trovano. Ritroviamo anche nella fiction dedicata ad Alberto Manzi, il tema degli adulti di riferimento, delle persone che riescono a farti vedere oltre quello che tu vedi normalmente, coloro che ti aprono degli orizzonti. Questa fiction è stata molto importante perché qui a Bologna c’è il centro Alberto Manzi, dov’è conservato l’intero archivio che la famiglia ci ha donato, relativo al suo lavoro, che gli studenti possono consultare. Sono state presentate tesi di laurea su di lui, pubblicazioni e libri. Diciamo che l’attenzione su Alberto Manzi credo che qui a Bologna sia dovuta in parte anche al lavoro che la regione e l’università hanno fatto a che la RAI ha poi accolto attraverso la mostra che abbiamo fatto su di,lui affidandoti la regia di questa fiction. C: si, ho curato infatti la regia e la sceneggiatura, lavorando con l’aiuto di Roberto Farne’ e del centro. Tutto è nato da una mostra che voi avete fatto. Il grande produttore Angelo Barbagallo che è anche produttore dei film più belli di Nanni Moretti, fu stimolato da questa bellissima mostra. Ci tengo a dire che è stato un lavoro bloccato e censurato dalla vecchia RAI che non lo voleva realizzare, dicendo che non erano assolutamente interessati, poi fortunatamente anni fa è cambiata la dirigenza e abbiamo subito riproposto questo progetto che, a nostro parere aveva una grande potenzialità, non solo per dare giustizia e voce a alla memoria di una persona, ma anche per l’attualità delle cose che dice. Il film ha avuto infatti un grande successo tra i giovani. F: mi è stato infatti riferito del grande successo che ha riscosso tra i giovani, sicuramente anche per l’interpretazione dell’attore, diretto benissimo ma soprattutto 380


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per il tema che riguarda il bisogno di maestri, il bisogno di avere dei maestri. C: credo che questo sia un tema fondamentale, oggi c’è un grandissimo vuoto. Oggi è difficile anche essere maestri, è difficile avere certezze, anche noi adulti siamo in balia di grandi cambiamenti che spesso non riusciamo a spiegarci, però trovo che i ragazzi siano al centro di un vuoto cosmico. F: i maestri sono portatori di cambiamenti, l’abbiamo visto con Moscati. Il maestro, così come lo intendiamo sul piano pedagogico, è una persona in grado di aprire degli orizzonti, che non ti impone delle scelte ma ti fa vedere oltre e quindi ti da delle possibilità. Ti fa capire che la realtà non è solo quella che è ma è anche quella che potrebbe essere. Ci vuole del coraggio. C: si, ci vuole molto coraggio e molto spesso queste sono personaggi di rottura. Manzi è stato almeno otto volte sotto consiglio disciplinare, è stato sospeso dalla scuola molte volte. Personalmente credo che ci vogliano persone che abbiano il coraggio di prendere posizioni forti, pensieri forti da portare avanti non solo con le parole. Il grande maestro non è solo colui che parla ma è quello che da l’esempio che è quello che al di là delle parole comunica di più. Manzi è uno che in tutta la sua vita ha pagato di persona e ha rappresentato lui per primo le idee. Lo stesso Moscati è morto a cinquant’anni di fatica perché lavorava giorno e notte. Non gli bastava più l’ospedale: ha aperto la sua casa ai poveri, a tutti e la sua casa è diventata una specie di ospedale da campo, lui ha donato tutto se stesso. Oggi c’è il pensiero debole, la paura, l’incertezza di dire le cose, siamo spersi noi e sono spersi i ragazzi. Penso che ci sia bisogno di pensieri forti e molto volentieri ho dato voce ad una persona che crede negli ideali e lotta per quello. F: Alberto Manzi nel video presentato dimostra di avere la capacità di portare i ragazzi a capire l’importanza di imparare, nel caso del video si parla di leggere e scrivere, attraverso le emozioni e le esperienze concrete.

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Questo è proprio quello che ha sempre caratterizzato il lavoro di Alberto Manzi. Credo che ci sia anche questo aspetto della rottura, del rompere gli schemi. Lo abbiamo visto prima nel personaggio di Moscati che propone un’altra medicina. Troviamo la stessa cosa in Manzi che si scontra con il direttore del carcere ed entrerà in conflitto anche con la scuola, con il suo apparato burocratico, portatore di una pedagogia ben diversa dalla sua. C: vediamo anche che le idee forti e belle sono contagiose. Vedendo le clip così ravvicinate, cosa che non avevo mai fatto, mi rendo conto che così come Moscati riesce a portare dalla sua parte gli assistenti e a contagiare con la sua forza e con le sue idee innovative tante persone, Manzi motiva il direttore del carcere. Possiamo dire quindi che il bene è contagioso. Noi ci lamentiamo molto spesso dei massimi sistemi, delle cose che non funzionano. Magari sono giuste lamentele, può anche essere giusto protestare ma quando ognuno di noi, anche solo nel suo piccolo ambito, inizia a cambiare qualcosa, contribuisce alla messa in moto di un cambiamento che a catena produce degli effetti che possono diventare anche grandissimi. Tutti questi personaggi hanno iniziato da cose piccolissime. Manzi per esempio arriva ad insegnare in un riformatorio quasi per caso, perché nessuno ci voleva andare, tutti volevano insegnare nella scuola normale e oggi, dopo sessant’anni noi ci troviamo qui a parlare di lui. F: questo tuo bisogno, voglia, capacità di raccontare storie di formazione, di educazione, di cambiamento, passa anche attraverso il fatto che tu per primo ti appassioni a queste figure, cioè diventano importanti anche per te che le devi mettere in scena? C: sicuramente si, il lavoro mio e dei miei colleghi è sicuramente un lavoro molto bello ma faticoso, chiede molti sacrifici. Li chiede a me, li chiede alla mia famiglia. Sono comunque arrivato, già da diversi anni, ad una fase della vita in cui ho deciso di fare solo film che valga la pena fare. Da spettatore sono un grande fruitore anche dell’intrattenimento, non ho nulla contro l’intrattenimento; lo fanno molte persone, fanno benissimo ma io 382


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cerco di raccontare le storie che altri non racconterebbero. Trovo un privilegio mettere il mio lavoro a servizio delle idee di personaggi spesso dimenticati che vale la pena raccontare. F: un tratto che ho sempre trovato interessante nel tuo modo di fare cinema è il fatto che tratti temi difficili, duri, dove il rischio è quello di cadere da una parte nel patetico, o dall’altra nel didascalico. Tu riesci invece a trovare, mi piacerebbe sapere se attraverso una tua ricerca intenzionale, la vena della leggerezza. Si possono trattare temi complessi e difficili come quelli che abbiamo trattato: la formazione, il dolore, la speranza, la sofferenza, l’educazione, anche attraverso l’ironia? C: assolutamente si, il segreto di “Braccialetti Rossi” è proprio quello. Intanto perché penso che sia importante arrivare ad un pubblico più vasto possibile, ma poi perché penso che l’ironia è un po’ di leggerezza siano fondamentali anche nella nostra vita. Anche negli ospedali. i risultati migliori si ottengono proprio quando si riesce ad affrontare le cose con una certa distanza. F: così credo che possiamo arrivare a “Braccialetti Rossi” che abbiamo tenuto per ultimo, non perché sia la cosa meno importante, tutt’altro. Si tratta del lavoro che hai già fatto è che stai continuando a fare C: si, non avrei mai detto nella mia vita che avrei fatto una serie. E ‘ molto tosto come lavoro, si gira in pochissime settimane e c’è molto stress. Quando mi fu proposto “Braccialetti Rossi” sapevo che era un progetto rischiosissimo. La RAI era molto indecisa se farlo o non farlo. Raccontare una storia di bambini dove poi uno dei protagonisti muore....non si era mai visto in televisione. Io amo il rischio e tutta questa storia nasceva dall’esperienza di una persona che poi ho avuto la fortuna di conoscere, siamo diventati amici: Albert Espinosa. Lui mi disse: “il cancro mi ha preso una gamba, un polmone, mezzo fegato ma mi ha dato molto più di quello che mi ha preso.” Possono sembrare le parole di un folle, di un religioso, di qualcuno che non ha mai vissuto un’esperienza di malattia. Si tratta invece di una persona che ha trascorso dieci anni della sua vita in ospedale e dice che siano stati i dieci anni più belli della sua vita. Negli ultimi due anni, in cui 383


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ho dedicato molto del mio tempo a “Braccialetti Rossi”, ho incontrato migliaia di persone, malati che mi scrivono, che scrivono ai braccialetti rossi. Abbiamo più di trecentomila fans su Facebook è tutto questo rappresenta un’operazione educativa grandissima è potentissima. Si è creata una grande comunicazione, si sono creati gruppi, alleanze, si sono rotti dei tabù enormi nel nostro paese come quelli dell’handicap. Per esempio, i bambini che non volevano andare a scuola durante le cure chemioterapiche o quando erano senza capelli, adesso si presentano a scuola sereni e fieri; vengono trattati come eroi. Tanti ospedali ci dicono che dopo Baccialetti Rossi i visitatori sono aumentati di numero. Questo fa capire che quando la televisione fa servizio pubblico, ha una forza enorme, ha una possibilità di cambiare le cose. F: diciamo infatti che noi abbiamo bisogno di una televisione di servizio pubblico C: certo, posso dire che ho molte idee, che mi sono stati proposti molti lavori, anche di cinema ma sono contento di fare la terza serie, di mettere il mio lavoro al servizio di una cosa forte. Quando il lavoro e la vita vanno nella stessa direzione è una cosa bellissima e io sono fiero di fare qualcosa di buono. - viene mostrato un video di Braccialetti Rossi. Nel video Campiotti racconta: I giovani spettatori hanno amato i personaggi della serie perché hanno riconosciuto in loro quelle qualità che i nostri protagonisti hanno nella storia, c’è la solidarietà, la voglia di verità, l’anticonformismo. Quelle qualità e quelle caratteristiche che oggi mancano molto nella nostra vita, nella nostra realtà. La voglia che i giovani del pubblico hanno di assomigliare ai personaggi appare come un grido di speranza. È’ sempre un gran privilegio poter lavorare ancora per braccialetti rossi e realizzare questa storia. Ci sono momenti della tua vita in cui il tuo lavoro e la vita coincidono. Fare un film che racconta delle storie che possono arrivare a produrre del bene e una cosa che da una grande soddisfazione. F: probabilmente alcuni dei presenti hanno visto almeno una puntata della serie e conoscono Braccialetti Rossi. Si tratta di una fiction continuamente giocata sul 384


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l’equilibrio difficile di un gruppo di ragazzini che con tutto l’entusiasmo, la forza, la voglia e la spinta della loro età cercano di lottare e uscire da certi schemi vivendo però una situazione di sofferenza. Trovano però delle alleanze, fanno gruppo, creano la banda; una cosa tipica dell’età ed il braccialetto rosso che indossano ne è l’emblema. La cosa interessante è che questa fiction può essere spezzettata, ritagliata in tanti episodi che sono di per se dei piccoli esempi di relazioni. Una della cose più belle che ho visto nella serie, è l’episodio in cui un ragazzo riesce a far percepire ad una piccola bambina non vedente i colori. Al termine di questa esperienza si realizza il gioco inverso e la piccola non vedente spiega al ragazzo come lei percepisce le cose. Ho trovato questa cosa davvero molto bella. Credo che cose di questo genere abbiano un alto valore didattico, anche fuori dalla fiction. Sarebbe interessante mostrarle agli studenti per fargli capire cosa significa lavorare per l’integrazione, per la relazione. Hai lavorato molto su questi aspetti ? C: certo, considerando che non ho mai pensato nè voluto fare un film sull’ospedale, quelle serie di genere ospedaliero e devo dire che la forza di braccialetti sta nel fatto che pur trattando il tema di ragazzi che di fatto stanno in ospedale, era mia intenzione farli apparire come residenti di un campo estivo, ragazzi di una scuola, perché i ragazzi sono sempre gli stessi, siamo noi grandi che davanti alla persona o al ragazzo malato lo connotiamo solo come malato. Si il ragazzo è malato ma è tante altre cose: può essere uno studente e molto spesso purtroppo negli ospedali non ci sono le scuole, è uno che si innamora, che litiga, che ha voglia di vivere, e mille altre cose. È molto importante come ci poniamo. Essere adolescenti e malati rende tutte le relazioni più forti, specialmente in una condizione di di vita a rischio. Per me era come raccontare degli episodi di adolescenti utilizzando una lente di ingrandimento, per raccontare delle storie che arrivano nel profondo visto che parliamo di ragazzi che sono anche in pericolo di vita. La cosa incredibile è come il pubblico, soprattutto di ragazzini, provi quasi un senso di invidia per i protagonisti malati. Chiaramente 385


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non invidiano la malattia ma questi ragazzi che non sono nascosti dietro dei social network ma che sono visibili, non che litigano, che fanno gruppo, che hanno il coraggio di dirsi le cose in faccia senza usare gli sms e che vivono di rapporti reali. Abbiamo una quantità incredibile di materiale, si potrebbe perfino pensare ad una pubblicazione di tutto ciò che è nato: gruppi di ragazzi che comunicano. Addirittura Twitter per almeno un paio di volte è stato il più attivo a livello europeo durante le trasmissioni. F: stai dicendo che tutto questo ha una sua verità sul piano psicologico e pedagogico. Il fatto che le situazioni di difficoltà e di trauma in realtà mettono in gioco delle risorse. Questo dovrebbe farci riflettere, non perché noi creiamo dei trauma ai bambini, ma forse perché li proteggiamo troppo. Le difficoltà e le normali sofferenze della vita quotidiana, una caduta, un piccolo incidente, sono esperienze che comunque attivano delle risorse. Questo credo che sia un messaggio molto importante. C: certo, anche nel film vediamo che spesso i ragazzi sono più maturi di loro genitori. Ormai, purtroppo o per fortuna, ho una grande esperienza di ospedali veri e i bambini spesso, so che dico qualcosa di molto forte, sanno che stanno morendo e sono più pronti e sereni dei loro genitori. La preoccupazione più grande è di chi gli sta intorno. Chiaramente non mi permetto di dare alcun giudizio, mi sento dalla parte dei genitori ma spesso sono gli adulti che rendono più difficili i momenti estremi. Come dicevi tu li proteggiamo troppo nelle piccole cose, anche a scuola quando hanno degli scontri con gli insegnanti. Oggi i bambini comandano in molte case, gli adulti hanno smesso di fare gli adulti, i maestri hanno smesso di fare i maestri ed è tutto molto difficile. Sicuramente il mondo sta cambiando ma troppa protezione è anti pedagogica e impedisce ai bambini di imparare e di crescere. L’altro aspetto di cui parlavamo prima sono le risorse: quante volte mi sono trovato in compagnia di persone, anche di successo, in condizioni economiche più che soddisfacenti che parlando ricordano i momenti più duri della vita come i più belli e li senti pronunciare frasi 386


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di questo tipo: ti ricordi che bello quando non avevamo una lira, quando vivevamo tutti insieme in quella casa piccolissima, quando abbiamo fatto quella vacanza senza un soldo e ci siamo persi, quando facevamo l’autostop e non ci caricava nessuno....questo perché il problema, l’emergenza tira fuori la parte migliore di noi e la gente, specialmente quella che esce dall’ospedale e che guarisce, riferisce che quella sia stata l’esperienza più forte della vita. Oggi siamo bombardati e rincoglioniti da messaggi falsi, soprattutto i nostri figli che sono ancora indifesi. Davanti alla malattia, in cinque minuti spesso si ristabilisce il criterio giusto delle cose a cui dare valore, le cose importanti della vita. Da qui capiamo che chi sta in ospedale capisce prima e in breve tempo l’importanza dei rapporti personali e di quanto veramente valgono. Io ho grandi colleghi, con grandi capacità di raccontare la realtà è di denunciare la realtà. Penso che nel cinema si possa anche immaginare una realtà diversa. Molte persone mi fanno presente che l’ospedale come quello di braccialetti non esiste. Perché no, rispondo io. In molti ospedali, grazie a Braccialetti Rossi si sta mettendo in discussione ciò che accade, il comportamento del personale. Perché un ospedale nuovo non potrebbe essere costruito in un parco, perché i ragazzi devono essere rinchiusi quando, nella grandissima maggioranza potrebbero uscire e stare in un parco, in un giardino a caricarsi di energia positiva, come racconta Moscati. Perché l’ospedale non deve essere colorato e accogliente, chiediamoci perché. Questo mondo si può cambiare, basta iniziare. F: a volte infatti anche una fiction TV può innescare processi come questi. La domanda finale che vorrei porre, poi lascerò la parola al pubblico, riguarda il fatto che tu lavori con in bambini, con gli adolescenti e sicuramente non è come lavorare con gli adulti, con gli attori professionisti. Io sono stato con te sul set di “Non è mai troppo tardi” e ho quasi immaginato che per te il set cinematografico, quando lavori con i bambini, sia quasi un settimo pedagogico ed educativo. È’ così? Lo vivi così? 387


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C: si, abbastanza, me lo dicono i loro genitori, nel senso che poi lavorare con i bambini e con gli adolescenti e un grande privilegio ma anche una grande responsabilità. In qualche modo li chiami fuori da quella che è la loro realtà, per Braccialetti Rossi nessuno immaginava il successo che ha avuto fin dall’inizio io ho detto ai ragazzi che indipendentemente da come sarebbe andata noi dovevamo fare un’esperienza che fosse positiva per noi. La prima cosa che abbiamo fatto è stata creare un gruppo tra di noi, ci siamo presi molto tempo, ci siamo conosciuti, abbiamo stabilito le regole del gioco, avevamo i nostri riti come ad esempio fare un fuoco ogni settimana alla sera, seguendo il modello Manzi. Intorno al fuoco parlavamo delle cose belle, di quelle brutte e dei problemi. Ognuno poi andava nel bosco a cercare il proprio pezzo di legna da bruciare o scriveva le cose brutte su fogli che poi venivano bruciati. Abbiamo creato dei riti che nei giovani sono molto importanti facendo tutto con la massima serietà. I ragazzi sono stati preparati in modo specifico. Un esempio su tutti: la ragazzina non vedente in realtà vede benissimo ma è stata preparata da un amico e da una signora non vedente. Hanno trascorso con lei alcuni giorni e poi sono tornati durante le riprese. Tutti si sono meravigliati perché la ragazzina sembra veramente non vedente e dietro c’è questo grande lavoro che è stato per lei e per tutti gli altri un momento esperienzale. Pensate che il primo anno avevamo il set chiuso, cioè riservato solamente agli attori. Quello dell’anno scorso e di quest’anno lo abbiamo aperto anche ai ragazzi malati. I nostri ragazzi, sul set, erano sempre circondati da ragazzi in carrozzella e a volte da malati molto gravi, tanto che qualche ragazzo che è stato con noi sul set non c’è più. I nostri attori hanno avuto un grande successo con bagni di folla e tutto quello che ne consegue ma sempre con loro abbiamo continuato ad andare negli ospedali e gli attori hanno tenuto ben presente per chi facevamo questo film. Il successo quindi lo definiamo un effetto collaterale di quello che abbiamo fatto.

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Viene mostrato un video in cui l’attrice che interpreta la ragazzina non vedente, viene istruita dagli amici non vedenti di Campiotti. C: L’esperienza formativa non riguarda solamente i ragazzi ma anche gli adulti. Abbiamo girato in una casa a Bari, nella casa di una signora che viveva da sola e che inizialmente era molto spaventata da noi. Su questo set sono venuti a trovarci alcuni ragazzi con handicap e lei all’inizio si opponeva a queste visite. Pensate che dopo due giorni la situazione è cambiata completamente e lei è diventata molto amica di queste persone che venivano in visita sul set e anche di altri bambini ammalati che vivevano nelle vicinanze e che tuttora frequenta. È stato bello vedere nascere questa solidarietà e vedere come possono cambiare le cose. Domanda dal pubblico: Lei ha pensato e sperato fin dall’inizio che il pubblico riuscisse ad immedesimarsi nei personaggi e nelle storie raccontate? Da regista come ritiene di essersi preso cura del suo pubblico poiché ha detto di essere cosciente del fatto di entrare “nelle case” di chi guarda la fiction. C: come ho detto prima io cerco di fare sempre al meglio il mio lavoro sicuramente non pensavamo al successo e non ci aspettavamo un successo così grande. Quando racconto una storia io ce la metto tutta fin dalla fase di scrittura e mi ispiro ai miei figli, a mia moglie, racconto le cose come se dovessi raccontarle a loro, cerco di essere sincero, di non raccontare delle balle e di raccontare cose interessanti tenendo alta l’attenzione. Non disdegno assolutamente l’uso della musica, soprattutto quando si parla ai giovani. Cerchiamo e troviamo delle collaborazioni interessanti con artisti e musicisti importanti. Mi impegno molto nel fare qualcosa facendolo bene ma mi fermo lì ; poi con piacere constato che accade che il pubblico si identifichi nei personaggi e nella storia determinando il successo del lavoro fatto. 389


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Domanda dal pubblico: Sono mamma di una ragazza adolescente ed entrambe siamo rimaste affascinate dalla serie. La ringrazio per aver trattato questo tema usando parole meravigliose, sia come maestro che come regista. Intendo fare una domanda di rottura: lei è un uomo di fede? C: certamente si, la ringrazio per quello che ha detto. Approfitto delle sue parole per comunicarvi alcuni dati relativi alla televisione che per alcuni aspetti fa molta paura ma ha una capacità di analizzare gli ascolti che io non conoscevo. Mi riferisco ai rapporti di ascolto televisivo che indicano perfino l’età del pubblico e la cosa grandiosa è che questa serie ha riportato molto pubblico in RAI. Oggi i ragazzi guardano poca televisione e se mai fanno loro internet, ma in questo caso la media dei telespettatori si è abbassata di dodici anni e genitori e figli hanno guardato la stessa cosa insieme. Sono tanti i figli a portare gli adulti davanti alla TV. Nella vita di oggi purtroppo quasi in ogni famiglia si vive l’esperienza di una malattia, di un tumore e i ragazzi sono molto più aperti dei genitori nel trattare questi argomenti, gli adulti sono poco favorevoli ad affrontare temi come quello della sofferenza e della malattia. I ragazzi affrontano con interesse il tema della malattia, della sofferenza e della morte. Mi è stato riferito da molti maestri di scuola elementare e professori di scuola media che il lunedì mattina, considerando che Braccialetti Rossi andava in onda la domenica sera, erano costretti ad iniziare la giornata aprendo delle discussioni sui temi forti della vita che venivano trattati nella puntata in onda la sera prima. Anche i ragazzi a scuola sono costretti a vivere l’improvvisa assenza di un compagno che si ammala o addirittura muore e i bambini si trovano soli a vivere questo dramma. Per quanto riguarda il mio privato posso affermare di avere la fortuna di avere la fede. È una lotta, nulla di facile e sicuramente ho trattato le storie di molti santi, come ad esempio Giuseppe Moscati che è diventato santo ma ritengo che anche Manzi, pur non essendo diventato santo, abbia fatto cose eccezionali. Ritengo inoltre che sia più importante ciò che si fa rispetto a ciò che 390


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si dice e ci sono tante storie che raccontano di persone che hanno fatto cose meravigliose. Intervento dal pubblico della Vice Presidente della Scuola di Psicologia in Scienze della Formazione: Sono molto orgogliosa di essere qui e di averla ascoltata. La nostra ex facoltà, oggi scuola, può essere molto orgogliosa di aver in qualche modo contribuito alla sua formazione. Lei ha citato dei maestri che sono molto importanti anche per noi come Andrea Canevaro e tutti gli altri ed io sono molto felice per la ricaduta estremamente positiva di grande sensibilità che lei dimostra rispetto ai temi che noi trattiamo dentro le nostre aule perché credo che tutto quello che oggi è stato detto possa valere, a volte molto più, delle nostre lezioni universitarie. L’impatto di cui lei parla si è effettivamente verificato e penso in particolare alle aule delle scuole secondarie superiori all’interno delle quali nessun docente e nessun insegnate riesce a trattare il tema, quando succede che qualche compagno scompaia per incidenti, mentre trovo che con la delicatezza con cui lei ha affrontato questo tema, arrivi in messaggio positivo di grande cura da parte degli adulti nei confronti delle giovani generazioni. Grazie molte. C: grazie, grazie a lei. Pensate che i nostri ragazzi vedono alla TV anche due o trecento uccisioni al giorno facendo zapping. Si tratta di morti finte nel senso che i funerali non esistono più, in TV si sparano e poi non c’è più nulla, arriva la pubblicità. Nella nostra società chi sta male viene accantonato, quasi nascosto, dimenticato, ci si vergogna di che è malato. Io ho raccontato è rappresentato la morte ma dopo ho fatto una puntata intera, tra l’altro quella con gli ascolti maggiori, nella quale racconto il lutto, la morte e cosa significa. Si tratta di una cosa enorme che va raccontata e spiegata. Nella fiction, dopo la morte di Davide, i ragazzi si ritrovano, lo ricordano, fanno un rito e si dividono i suoi desideri, la sua vita, decidono di portare avanti loro la vita di Davide e questa non è una cosa che ho inventato io ma una cosa che ci ha raccontato Albert Espinosa che si definisce un 391


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sopravvissuto (autore del libro autobiografico “braccialetti Rossi”). Molti dei ragazzi che erano ricoverati nell’ospedale dove si trovava anche lui morivano e il gruppo dei ragazzi ricoverati insieme a lui inventò questa cosa per cui alla morte di ogni ragazzo chi rimaneva “divideva” la vita che il loro compagno non era riuscito a vivere raccogliendo l’eredità di vita e i desideri di chi moriva. Espinosa afferma di non avere una gamba, un polmone e mezzo fegato ma di vivere tre vite e un quarto. La sua e le altre lasciate dagli amici scoparsi dell’ospedale. F: questo è un tema molto forte ed io voglio fare un riferimento: la rivista “infanzia” che è una rivista del dipartimento di scienze dell’educazione e che in questi anni dirigo, nell’ultimo numero uscito adesso, ha curato un focus sulla religiosità e l’infanzia, attraverso un’intervista fatta a due insegnanti di religione della scuola dell’infanzia, chiedendo cosa fanno, di cosa si occupano e quali sono i temi trattati nelle ore di religione con bambini di quattro o cinque anni. Mi è stato risposto che praticamente sono delegate a parlare con i bambini di tutte le cose di cui gli altri insegnanti non vogliono parlare e mi riferisco appunto ai temi di cui abbiamo parlato oggi: il dolore, la malattia, la morte. Ecco che il fatto che questi temi siano affrontati e proposti come hai fatto tu sia in Braccialetti Rossi che in altri film, ha un grande merito pedagogico. Mi permetto di dire che rende leggeri, in senso aperto, disponibile a tutti, un tema e tanti temi legati a questo, che sono temi difficili che però hanno bisogno di essere tirati fuori e messi davanti a tutti con una modalità, con uno stile comunicativo e con una retorica che in qualche modo li renda accessibili e ci faccia capire che tutti noi dobbiamo avere meno paura di parlare di queste cose. Vedo quindi un aspetto pedagogico nel senso migliore del termine in tutto il lavoro che stai facendo con Braccialetti Rossi e negli altri tuoi lavori e film che hai fatto. C: per concludere vorrei mostrare un video nel quale si vede come lavoriamo con i ragazzi. La spiritualità passa anche dall’energia. Le idee circolano, ci vengono forse dall’alto e vengono condivise. Spesso mi chiedono come faccio a lavorare tante ore, ad avere sempre tanto entusia392


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smo. Penso di non avere nulla di speciale, che questa energia non sia tutta mia ma che sia a disposizione di tutti. Con i ragazzi della serie, fin dal primo anno abbiamo lavorato molto sull’energia, prima tutti i giorni poi piÚ di rado, trovandoci la mattina o la sera per lavorare sulla concentrazione e gli esercizi svolti servivano per prepararli ed aiutarli. Viene mostrato un video che mostra il gruppo al lavoro fuori dal set. F:  tutto questo conferma come il lavoro duro di Giacomo Campiotti sia al tempo stesso quello di regista e di educatore.

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Capitolo V I PERCORSI INNOVATIVI DELL’EPIGENETICA Patrizia Gentilini e Ruggero Ridolfi No Country for Children. Non è un Paese per Bimbi “The tumour starts to reveal its own secrets of its origins” “Il tumore inizia a svelare i suoi segreti delle sue stesse origini” (Christopher Wild Direttore IARC Lione "il nostro ecosistema è ormai un esperimento chimico-biologico su larga scala, in cui siamo contemporaneamente coloro che sperimentano e coloro che lo subiscono, speriamo che tutto vada a buon fine, ma solo il tempo lo dirà” (J. W. Harper A degrading solution to pollution Nature 446 29 (2007)

Introduzione E’ ormai sotto gli occhi di tutti che i tempi in cui stiamo vivendo sono segnati da una crisi ecologica che mai prima d’ora il genere umano si era trovato ad affrontare: interi ecosistemi sono ormai contaminati da agenti tossici persistenti e bio-accumulabili ed il genere umano sta consumando molte più risorse di quanto il nostro pianeta sia in grado di rigenerare. L’overshoot day, ovvero la data in cui sono state consumate tutte le risorse rinnovabili del pianeta, è coinciso nel corrente anno col 13 agosto e sono ormai ben 45 anni che il bilancio è in “rosso”, visto che solo nel 1971 questo giorno era coinciso col 31 dicembre (1). Nel volgere di pochissime generazioni si è avuta l’immissione massiva nell’ambiente di sostanze pericolose estratte in gran quantita’ dai loro reservoirs naturali, come i metalli e l’amianto, a cui si sono aggiunte e si aggiungono ogni giorno sostanze chimiche di sintesi, in grado di interferire non solo con i delicati e complessi equilibri della biosfera, ma anche sui programmi genetici e sugli apparati metabolici, neuroendocrini e immunologici degli organismi superiori, danneggiando le più complesse funzioni di tutti i viventi. Aria, acqua, terra, i “Beni Comuni” che hanno permesso 395


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la nascita ed il mantenimento della vita fino ad ora sul nostro pianeta, sono ormai gravemente compromessi e la vita stessa di moltissime specie è a rischio. Uno studio, condotto da oltre 1.700 esperti di 130 paesi del mondo e presentato nel 2008 a Barcellona al World Conservation Congress dell’Unione Mondiale per la Conservazione della Natura (IUCN) ha evidenziato che addirittura un mammifero su quattro è a rischio estinzione (2). Questa ricerca è avvenuta nell’arco di cinque anni ed ha permesso di raccogliere dati su tutte le 5.487 specie di mammiferi classificate a partire dal Cinquecento. Le specie a rischio di estinzione sono 1.141, il 25% di quelle su cui ci sono dati sufficienti a disposizione, ma solamente il 2% è a rischio di estinzione per cause ”naturali”. L’uomo, con le sue attività e manipolazioni, è, dunque, il primo colpevole e sembra non voler capire che distruggendo l’ambiente distrugge se stesso, così come il grande antropologo e scienziato del secolo scorso, Gregory Bateson, aveva già lucidamente affermato: “una specie che distrugge il proprio ambiente è destinata ad estinguersi”. In questo articolo si intende focalizzare l’attenzione sul problema dell’inquinamento e del degrado ambientale che colpisce gravemente la nostra salute ed ancor più pesantemente quella di nascituri, bambini ed adolescenti. E’ sotto gli occhi di tutti il drammatico aumento di patologie quali: diminuzione della fertilità, disfunzioni ormonali (specie alla tiroide), disturbi autoimmuni, aumentato rischio di malformazioni-specie criptorchidismo e ipospadia; ma anche aumento di diabete, obesità, asma, malattie autoimmuni, patologie neurologiche dell’anziano quali Alzheimer e Parkinson, aumento deficit cognitivi e disturbi comportamentali e di tumori. Tutto questo è stato definito come “ Il paradosso del progresso” perché di fatto è l’assurdo prezzo che paghiamo ad uno “sviluppo” che non ha tenuto conto delle conseguenze a lungo termine delle nostre azioni. Già l’OMS ha stimato che, globalmente, la percentuale di patologie dovute a fattori di rischio evitabili è negli adulti del 25%, mentre nei bambini sotto i 5 anni tale percentuale sale ad oltre il 33% (3). I bambini, infatti, sono molto più sensibili degli adulti alle sostanze inquinanti per numerosi motivi: 396


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a parità di peso introducono maggior quantità di aria, acqua, cibo rispetto ad un adulto, i loro meccanismi di detossificazione non sono ancora del tutto funzionanti, molti organi ed apparati non sono ancora completamente formati (ad es. i polmoni raggiungono la completa maturità sui 20 anni) ed infine il loro comportamento ( gattonare, portare tutto alla bocca, giocare per terra etc) li pone a maggior contatto con i tossici ambientali. Ancora più cruciale per il futuro destino di salute o malattia è l’esposizione a sostanze estranee, tossiche e inquinanti che avviene già in utero o addirittura dei gameti in fase preconcezionale (4). Una mole crescente di dati conferma infatti, senza più ombra di dubbi, che non è tanto “la dose che fa il veleno”, come affermava Paracelso, ma il momento in cui la sostanza agisce che ne determina gli effetti. Addirittura per alcune sostanze si è ormai dimostrato che gli effetti variano a seconda della dose e che - paradossalmente- a dosi più basse possono corrispondere effetti ancor più gravi che non a dosi maggiori (5, 6). In questo panorama certamente fosco, L’Italia detiene alcuni record davvero negativi riguardo alla salute infantile e più che mai, proprio per il nostro Paese, sembrano appropriate le parole di un grande Pediatra, B.P. Lanphear (7): ““…a dispetto del grande affetto che noi abbiamo per i bambini e della grande retorica della nostra società sul valore dell’infanzia, la società è riluttante a sviluppare quanto necessario per proteggere i bambini dai rischi ambientali…” . Che percezione c'è di questi problemi? “Avete scoperto la cura del cancro?” è la domanda che gli Oncologi si sentono rivolgere più spesso, come se la massimo richiesta da porre alla Scienza fosse di quella poter guarire da una malattia che si considera ineluttabile. Non sarebbe più logico chiedere “avete scoperto come evitare il cancro?” E questo vale ovviamente anche per tante altre patologie cronico-degenerative che sempre più ci affliggono e che spesso compaiono in età sempre più precoci ed alle quali già si è accennato. La nostra società tutta rivolta all’economia ed al mercato sta condizionando non solo i nostri desideri materiali ma anche 397


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quelli più nobili come l’aspirazione al benessere dell’anima ed alla buona salute del corpo. Valutando sempre per prima cosa l’interesse economico non ci si preoccupa più di capire quali siano le cause del continuo aumento delle malattie degenerative ed in particolare di quelle tumorali: studi costosi e lunghi che potrebbero portare a decisioni antieconomiche, almeno nell’immediato. In effetti, la prevenzione antitumorale, che il mondo oncologico persegue da circa 20 anni, si concentra pressoché esclusivamente sui cambiamenti dello stile di vita di cui il singolo individuo è responsabile: smettere di fumare, mantenere un’alimentazione equilibrata, fare attenzione ai raggi ultravioletti, etc. quasi a voler scaricare sul singolo le cause della sua eventuale malattia. Molto raramente, per non dire mai, ci viene invece ricordato che siamo circondati da un inquinamento globale e che, attraverso l’aria, l’acqua, il cibo, sono ormai centinaia le sostanze inquinanti, tossiche e cancerogene che entrano e permangono nei nostri corpi e che sono in grado di passare dalla madre al feto durante la vita intrauterina, interferendo con le fasi più critiche e delicate dello sviluppo. L’argomento è indubbiamente “spinoso” e prenderne compiutamente coscienza non è cosa semplice anche perché vorrebbe dire mettere al primo posto la difesa della salute - diritto pertanto sancito dall’art.32 della Costituzione (“L’iniziativa economica è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.“ ) e non l’interesse economico, fra l’altro sempre più concentrato nelle mani di pochi. Se si escludono poche voci “fuori dal coro”, generalmente Amministratori e decisori politici mostrano, nei fatti, una scarsa propensione a promuovere leggi e normative per eliminare - o quanto meno diminuire - l’ esposizione a sostanze, prodotti o attività in qualche modo nocivi per la salute. La storia del nostro tempo è purtroppo contrassegnata da numerosissimi esempi di agenti la cui pericolosità era nota da tempo, ma per le quali solo con grande ritardo o solo parzialmente si sono prese precauzioni, facendo quindi lievitare a dismisura il numero dei malati e dei morti. Basti pensare all’amianto. Molti Oncologi, da 398


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parte loro, continuano ancora a mostrare i vecchi dati di Doll e Peto, pubblicati nel 1981 che attribuivano solo il 2% delle cause per cancro negli Stati Uniti all’inquinamento ed il 4% alle esposizioni professionali (8). Questo report, senz’altro il più citato al mondo, è ormai vecchio di oltre 30 anni, riguarda dati del periodo 1950-1977, ha preso in considerazione la mortalità dei soli maschi bianchi di età inferiore ai 65 anni, non ha considerato né incidenza né prevalenza, non ha minimamente preso in considerazione l’infanzia e deve essere ormai lasciato nel dimenticatoio. Oltre tutto, dopo la morte di Sir Doll nel primi anni 2000 si è scoperto che il famoso Epidemiologo era al soldo di grandi Companies e non era quindi esente da pesanti conflitti di interesse(9). Anche per questi motivi il Cancer Panel istituito dal Presidente Bush degli Stati Uniti e conclusosi nel 2010 sotto la Presidenza di Obama, ha tenuto a dichiarare: “il vero carico del cancro indotto da fattori ambientali è stato grossolanamente sottovalutato!” affermando fra l’altro: ”il popolo americano, ancor prima di nascere, è bombardato continuamente da una miriade di combinazioni di esposizioni tossiche. Il Panel La esorta [Presidente Obama] ad esercitare con forza tutto il potere della Sua carica per rimuovere le sostanze cancerogene e gli altri agenti tossici dal nostro cibo, dall’acqua e dall’aria, perché tutto ciò aumenta a dismisura i costi per la sanità, danneggia la produttività della nostra Nazione e devasta la vita degli Americani” (10). Contestualmente l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha, poi, reso una stima che appare più realistica: almeno il 19% dei tumori del mondo, per un totale di 1,3 milioni di decessi ogni anno, sono attribuiti a fattori ambientali e occupazionali. Prima di passare in rassegna alcuni inquinanti e fattori di rischio di particolare rilievo per la salute infantile quali pesticidi, diossine, metalli pesanti , cattiva qualità dell’aria e inceneritori si accennerà brevemente ai concetti di “Epigenetica” e di “Interferenti Endocrini”. Seguirà, poi, un breve resoconto di alcune evidenze epidemiologiche specifiche per il nostro Paese, derivanti dallo studio SENTIERI e dall’andamento dell’incidenza dei tumori infantili ed adolescenziali. Per problemi di brevità 399


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non si affronteranno altri temi di particolare rilievo per la salute dell’infanzia nel nostro paese - che desideriamo comunque menzionare- quali la Terra dei Fuochi e lo sversamento illecito dei rifiuti in generale, il superamento per decenni dei limiti per l’arsenico nelle acque potabili per una cospicua parte della popolazione del centro Italia, i problemi dovuti alle centrali a carbone di Vado Ligure e Civitavecchia o a grandi impianti quali quello dell’acciaieria di Taranto o dei tanti insediamenti (cementifici, petrolchimici etc) presenti sul territorio nazionale. Cenni di epigenetica Le modificazioni di tipo epigenetico sono espressioni di adattamento all’ambiente esterno che influenzano la trascrizione e la funzionalità del nostro codice genetico, senza alterarne necessariamente la struttura (11). Tali “piccole” modifiche capaci di alterare l’espressione dei nostri geni condizionano in vari modi la funzionalità delle nostre cellule, ma nei periodi più critici della crescita possono incidere sullo sviluppo fisiologico del corpo e, se trasmesse dai genitori, potranno influenzare anche quello delle generazioni successive (12). Possono crearsi, così, anche condizioni che comporteranno disfunzioni e malattie talora evidenti già alla nascita o che si svilupperanno nell’infanzia o anche più tardi nella vita adulta. Le variazioni epigenetiche sono l’espressione di un continuo scambio di informazioni e di adattamento della vita cellulare nei confronti delle modificazioni ambientali in un rapporto dinamico e, nel tempo, anche reversibile (13). Tali adattamenti sono la prova evidente di come esista uno stretto rapporto tra ambiente ed stato di salute e di come,nel caso dell’inquinamento ambientale, il legame sia con disfunzioni e con l’insorgenza di malattie croniche degenerative (14). Uno degli aspetti più eclatanti del legame fra ambiente e salute è l’aumento dell’incidenza tumorale nelle aree più inquinate. Tale incremento purtroppo interessa anche le età più giovani: bambini, adolescenti e giovani adulti, e , come vedremo, comporta l’aumento di tante altre patologie che si manifestano in età sempre più precoce (15). 400


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Gli "interferenti endocrini" E’ nota da tempo la pericolosità di agenti anche molto diversi fra loro quali metalli pesanti, Policlorobifenili (PCB), diossine, ftalati, pesticidi, erbicidi ecc. che hanno però in comune una azione di “endocrin disruptors”, (EDC) ovvero “interferenti endocrini”(16). Si tratta quindi di molecole in grado di interferire, anche a dosi infinitesimali, con i nostri recettori cellulari ed alterare funzioni delicatissime quali quelle riproduttive, ormonali, metaboliche, neuropsichiche (17). Gli interferenti endocrini possono non solo esplicare effetti negativi sull’individuo esposto, ma, agire sulle stesse cellule germinali sia maschili che femminili, determinando alterazioni che si trasmettono alle generazioni successive attraverso modificazioni di tipo epigenetico (18). PRINCIPALI PATOLOGIE CORRELATE AGLI INTERFERENTI ENDOCRINI

- disfunzioni ormonali (specie alla tiroide) e metaboliche - sviluppo puberale precoce - diminuzione fertilità - abortività spontanea, endometriosi, gravidanza extrauterina, parto pre termine - disturbi autoimmuni - aumentato rischio di criptorchidismo e ipospadia - diabete/ alcune forme di obesità - elevato rischio di tumori - deficit cognitivi e disturbi comportamentali - patologie neurodegenerative - danni transgenerazionali Questa ultima azione è ben rappresentata dalla Tab 1, tratta da un articolo di F. Pereira (19) che illustra come queste sostanze agiscano fino alla 3° generazione Tab 1. Le condizioni ambientali influiscono sulla salute della madre, ma anche su quella del feto e colpendo le gonadi del feto anche sulla generazione successiva (19).

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Tutto ciò apre ovviamente scenari ancor più preoccupanti per la possibilità di una amplificazione del danno e della sua trasmissibilità attraverso le generazioni. Inquinanti di particolare rilievo per la salute infantile Le diossine Quando parliamo di diossina il pensiero va subito alla “diossina di Seveso” (o TCDD) sostanza tristemente famosa in seguito all’incidente occorso ad un reattore di una multinazionale svizzera, la Roche, a Seveso il 6 maggio nel 1976. L’incidente determinòla fuoriuscita di una nube tossica di tale sostanza con contaminazione del territorio e danni alla salute per le persone esposte sia di tipo acuto che a lungo termine. Tali danni si protraggono nel tempo: è stato pubblicato di recente che i bambini nati da madri coinvolte nell’infanzia nell’incidente di Seveso presentano alla nascita alterazioni della funzione tiroidea in modo statisticamente significativo, dunque le conseguenze dell’esposizione materna si riscontrano nella prole a distanza di oltre 30 anni dall’incidente (20). Le “diossine” sono in realtà una serie di inquinanti con caratteristiche simili, sono un gruppo di 210 composti chimici indicati col termine “congeneri”. Si tratta di molecole particolarmente stabili e persistenti nell’ambiente, con tempi di dimezzamento ( ovvero il tempo necessario perché la dose si dimezzi) di circa 100 anni nel sottosuolo, ma soprattutto di 7 - 10 anni nel corpo umano (21). Le diossine sono sottoprodotti involontari dei processi di combustione che si formano in particolari condizioni di temperatura ed in presenza di Cloro, diossine si formano anche durante processi chimici, in particolare nella sintesi di pesticidi. Rientrano fra i 12 Inquinanti Organici Persistenti riconosciuti a livello internazionale e messi al bando dalla Convenzione di Stoccolma sottoscritta nel 2001 da 120 paesi, fra cui l’Italia; purtroppo il nostro paese è l’unico in Europa che a tutt’oggi non ha ratificata questa Convenzione! (22) I Policlorobifenili (PCB) sono stati invece prodotti deliberatamente dall’uomo tramite processi industriali. La loro produzione è iniziata negli anni 30 ed è proseguita per oltre 50 anni, fino al 1985, quando sono stati ufficialmente banditi stante la loro pericolosità. Sono stati utilizzati sia in 402


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sistemi chiusi (trasformatori) che come additivi per ritardanti di fiamma, antiparassitari, addirittura aggiunti in passato anche alle gomme da masticare! Questi sono composti molto stabili, anche ad alte temperature e si decompongono solo oltre i 1000 gradi. Dei PCB si conoscono 209 congeneri, denominati “dioxin like” e rientrano a pieno titolo fra le diossine. Nel 2013 la Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC) ha classificato anche tutti i PCB a livello 1, ovvero cancerogeni certi per l’uomo (23). Le diossine sono insolubili in acqua e hanno viceversa una elevata affinità per i grassi, sono soggette a bioaccumulo ovvero si concentrano negli organismi viventi in misura nettamente maggiore rispetto all’ambiente circostante; nell’uomo la loro assunzione avviene non tanto attraverso la respirazione, ma attraverso il cibo: ben oltre il 90% delle diossine è infatti assunto attraverso latte, carne, uova, formaggi ecc. Per i PCB è importante anche l’assorbimento attraverso la cute. Di fatto le diossine prodotte da processi di combustione per attività industriali o di produzione di energia o sintesi di pesticidi contaminano ad es. prati o foraggio; gli animali che si nutrono di erba o foraggio contaminato assorbono tali inquinanti che giorno dopo giorno si vanno ad accumulare soprattutto nel loro tessuto grasso (24). Noi, che ogni giorno ci nutriamo di carne, latte, uova, formaggio accumuliamo nel nostro corpo queste sostanze e per le donne esiste un modalità davvero sgradevole di liberarsene: le diossine vengono trasmesse dalla mamma al proprio bambino già durante la vita fetale ed ancor più attraverso l’allattamento (25). Effetti sulla salute di diossine e PCB La diossina è stata riconosciuta come cancerogeno certo per l’uomo ad azione multiorgano ed è la sostanza più tossica mai conosciuta, misurata per l’uomo in picogrammi, ovvero miliardesimo di milligrammo. Ha un’elevatissima affinità per il recettore AhR ( Aryl Hydrocarbon Receptor), un recettore presente ampiamente nelle cellule umane ed ampiamente conservato nel corso dell’evoluzione, che sembra avere un ruolo chiave per il nor403


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male sviluppo del sistema immunitario, vascolare, emopoietico, endocrino, ed è coinvolto nelle più disparate funzioni cellulari: proliferazione, differenziazione, morte cellulare programmata (26). Diossine e PCB sono anche degli inferenti o endocrini ed oltre a favorire lo sviluppo di tumori (linfomi, sarcomi, tumori a fegato, mammella, polmone, colon) causano anche disturbi riproduttivi, endometriosi, anomalie dello sviluppo cerebrale, endo-crinopatie (in particolare diabete e tiroide), disturbi polmonari, danni metabolici con innalzamento di colesterolo e trigliceridi, danni cardiovascolari, epatici, cutanei, deficit del sistema immunitario (27). Come per tante altre sostanze inquinanti l’esposizione a diossine e PCB è particolarmente pericolosa durante le prime fasi della vita, quindi feti, embrioni, neonati, devono essere in particolar modo protetti (28). I limiti per l’assunzione di diossine attraverso il cibo individuati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e fatti propri dall’ unione Europea sono di 2 pg/ kg di peso corporeo al dì, per cui un individuo adulto di 70 Kg dovrebbe assumere al massimo140 pg di tali sostanze al dì. L’Agenzia di Protezione Ambientale degli U.S.A. ha invece recentemente identificato come limite un valore nettamente inferiore: 0.7 pg/kg di peso corporeo al dì (29). Tali limiti possono essere ampiamente superati in diete che privilegiano carne e latticini a scapito di verdure e cereali e vengono purtroppo ampiamente superati nei bambini, specie per i neonati allattati al seno. Il latte materno, specie se di mamme residenti in aree industrializzate, presenta infatti valori assolutamente non trascurabili di tali inquinanti e, ad esempio, un bimbo di 5 kg (che dovrebbe quindi assumere come dose massima 10 pg di diossina al giorno), ne arriva ad assumere da 10 a 100 volte in più! E’ ovvio che l’allattamento materno ha indiscutibili vantaggi e l’OMS lo raccomanda comunque per almeno 6 mesi, ma è ovvio che ogni mamma vorrebbe dare al proprio bambino un alimento assolutamente sicuro e privo il più possibile di pericolosi veleni (30). 404


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Metalli Pesanti L’inquinamento da metalli pesanti è in gran parte correlato con le attività industriali di una regione; ad esempio, dallo studio MONITER condotto in prossimità degli inceneritori dell’Emilia Romagna, è emerso che la maggior varietà di metalli è presente in prossimità del sito del Frullo, sede dell’inceneritore di Bologna. Nella tabella viene riportato l’indice di arricchimento (EF) calcolato per il prelievo effettuato nell’aprile Aprile 2010 per i muschi e suolo. E’ evidente come il sito Frullo Est si distingua da tutti gli altri siti e sia caratterizzato da livelli di inquinamento che vanno da moderato (As, Ba, Cr) a fortemente inquinato (Cu, Mn, Ni, Zn), fino a estremamente inquinato per Cadmio e Piombo. Non possono inoltre non destare sconcerto i livelli di Piombo che si sono riscontrati nei Giardini Margherita, i più famosi giardini pubblici di Bologna, ovviamente frequentati da bambini (Tab 2). (31) Tab 2. Monitoraggio relativo al contenuto in metalli pesanti nel sistema acqua-suolo-pianta nell’ambito dello studio Moniter in Emilia-Romagna (31). Cadmio, Piombo e Mercurio depositandosi e accumulandosi nel suolo possono poi entrare nella catena alimentare. Ne conseguono effetti dannosi sulla salute, in particolare a livello renale e osseo, disordini dello sviluppo e maggiore propensione a sviluppare malattie neoplastiche. In particolare piombo e mercurio costituiscono un grave rischio per la salute infantile: Piombo Le principali sorgenti antropogeniche sono rappresentate da combustione di carburanti fossili, traffico veicolare, produzione di metalli non ferrosi, ferro, acciaio, cemento e smaltimento di rifiuti. Il piombo si trova legato al particolato atmosferico, soprattutto a particelle di dimensioni di 0.2-1μm, e come il cadmio, può essere trasportato a grandi distanze (centinaia o migliaia di km). L’esposizione per l’uomo può avvenire per via inalatoria e digestiva e diviene impor405


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tante nelle aree ad alti livelli di piombo quali aree urbane ad alta densità di traffico e zone industriali. E’ inoltre possibile l’assorbimento di questo metallo attraverso la cute, in particolare con l’uso di cosmetici; la contaminazione delle mani può contribuire aumentando l’apporto orale. I gruppi di popolazione a rischio sono i lattanti, i bambini, le donne in età fertile, gli individui con carenze di ferro e calcio (che presentano aumentato assorbimento gastrointestinale di piombo), pazienti con disturbi d’organo, ipertensione, nefropatie, anemia, patologie neurologiche e diabete. L’esposizione a piombo provoca effetti neurologici, cardiovascolari e renali. L’esposizione prenatale può compromettere lo sviluppo neurologico con conseguenti deficit di attenzione e di controllo degli impulsi e riduzione della performance scolastica (32, 33). Per il Piombo si è calcolato che nel 1997 il costo negli U.S.A. per i danni sui bambini sia ammontato a ben 43.4 miliardi di dollari . Mercurio Il mercurio viene emesso nell’atmosfera in forma inorganica da sorgenti naturali e antropogeniche. Il mercurio inorganico è convertito in metil-mercurio nel suolo e nell’acqua ed entra nell’organismo umano attraverso la dieta. L’esposizione per l’uomo avviene quasi esclusivamente attraverso l’ingestione di pesce contaminato. Sono particolarmente a rischio le popolazioni di Paesi a largo consumo di prodotti ittici, come Scandinavia, Nord America e Francia. Il metil-mercurio è un potente composto neurotossico. Per questo motivo i feti sono il gruppo di popolazione più suscettibile, avvenendo l’esposizione fetale soprattutto in seguito ad ingestione di pesce da parte della madre. Essendo il metil-mercurio escreto nel latte materno, un altro gruppo di popolazione a rischio è quello dei lattanti. Si calcola che ogni anno nascano negli U.S.A. da 316.000 a 637.000 bambini con un livello di mercurio nel sangue ombelicale superiore a 5,8 µg/litro, livello che determina diminuzione significativa del Quoziente Intellettivo (Q.I.); la perdita di produttività negli U.S.A. conseguente all’aumento di popolazione con minor Q.I. è calcolato in 8,7 miliardi di $ (34). Un ana406


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logo studio è stato condotto di recente in Europa ed ha stimato che ogni anno nascano in Europa (specie nel Sud Europa) 1.8 milioni di bambini esposti durante la gravidanza a livelli di mercurio (misurato nei capelli della madre) che eccedono il limite di 0.58 μg/g, considerato privo di rischi dall’OMS e circa 200.000 bambini nascono da madri con livelli di mercurio nei capelli oltre i 2.5 μg/g. E’ stato stimato che questo comporti una perdita ogni anno di ben 600.000 punti di Quoziente intellettivo (QI) e prevenire questa perdita di QI comporterebbe un beneficio economico per la comunità stimato in 8.000-9.000 milioni di Euro ogni anno (35). Pesticidi, Erbicidi, ecc.. (detti anche Fitofarmaci) Secondo la definizione che ne dà l’ISPRA i pesticidi sono “molecole di sintesi selezionate per combattere organismi nocivi e per questo generalmente pericolose per tutti gli organismi viventi” . Con questo termine intendiamo tutte quelle le sostanze che interferiscono, ostacolano o distruggono organismi viventi quali insetticidi, erbicidi, fungicidi, repellenti per insetti, nematocidi, molluschicidi, alghicidi, erbicidi, defolianti, battericidi etc. danneggiando fortemente anche le cellule di organismi superiori uomo compreso. In realtà già negli anni 50’ una biologa americana, Rachel Carson, aveva intuito tutta la pericolosità di queste molecole e nel 1962 scrisse uno dei libri più profetici (e più denigrati) del nostro tempo: Silent Spring (Primavera Silenziosa). Il libro era dedicato ad Albert Schweitzer, che aveva scritto “L’uomo ha perduto la capacità di prevenire e prevedere. Andrà a finire che distruggerà la Terra” ed il titolo, fortemente evocativo, alludeva al silenzio che caratterizzava, già allora, i territori trattati con insetticidi e pesticidi, che avevano decimato gli uccelli canori. Purtroppo le previsioni della Carson si sono dimostrate tragicamente vere ed oggi le evidenze scientifiche che correlano tali sostanze a impatti deleteri non solo sugli ecosistemi viventi e sulle proprietà fisiche e chimiche dei suoli, ma anche per la salute dell’uomo ed in particolare dell’infanzia sono numerosissime. I pesticidi sono oltre 800 sostanze chimiche diverse, presenti in migliaia di formulazioni commerciali e 407


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sottoposte ad una legislazione complessa e spesso contraddittoria: si pensi che anche se dichiarate fuori legge perché pericolose possono godere di deroghe: nel 2014 in Italia son state concesse ben 598 deroghe, spesso rinnovate di anno in anno. L’ Italia è il maggior consumatore europeo di questi prodotti per unità di suolo agricolo (SAU): nel 2012 sono state distribuite sui suoli agricoli 134.242 tonnellate (36). Queste sostanze sono in genere persistenti, bioaccumulabili e soggette a biomagnificazione ( si accumulano nelle catene alimentari) e sono ormai ampiamente diffuse anche nelle acque superficiali e profonde. L’ultimo “Rapporto Nazionale Pesticidi nelle acque” ISPRA 2014 evidenzia una “ampia diffusione della contaminazione”: rinvenuti complessivamente 175 pesticidi e presenti fino a 36 sostanze diverse in solo campione (37). Qui interessa affrontare l’esposizione a dosi piccole ma prolungate nel tempo, problema complesso e di difficile quantificazione che inizia molto spesso prima della nascita e riguarda le stesse cellule germinali, influenzato da fattori come età, sesso, stato nutrizionale, abitudini personali, variabilità genetica individuale. Queste sostanze possono entrare in contatto con l’organismo sia per assorbimento cutaneo, grazie alla loro liposolubilità (organofosfati, carbammati, organoclorurati, DDT, lindano, aldrin e clordano) che per inalazione od ingestione (piretroidi, erbicidi, clorofenoli). Le principali modalità con cui può avvenire l’esposizione nell’infanzia sono: - attività lavorativa dei genitori, in particolare se non vengono adottate tutte le norme di protezione individuale. esposizione ambientale/residenziale: è ampiamente documentato che vivere vicino ai luoghi in cui i pesticidi vengono utilizzati, fabbricati o smaltiti può aumentare in modo significativo l’esposizione per inalazione e contatto con aria, acqua e suolo. Importanti sono anche i rischi connessi con l’utilizzo domestico di tali sostanze, ad es. le “bombole per le pulci” o l’utilizzo per piante da appartamento, giardinaggio, o per disinfestazione di animali. - esposizione attraverso la dieta per presenza di residui negli alimenti o nell’acqua: questa modalità sta assu408


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mendo sempre più rilievo perchè riguarda potenzialmente tutti i consumatori, ma soprattutto i bambini in cui l’introduzione di acqua e cibo, in proporzione al peso corporeo, è molto maggiore rispetto all’adulto. Residui di pesticidi si ritrovano poi in frutta e vegetali, ma anche in carni, pesce e prodotti lattiero-caseari, grazie al loro bioaccumulo e biomagnificazione nella catena alimentare. L’ultimo Rapporto dell’EFSA, l’Autorità Europea per la sicurezza alimentare, ha riscontrato su 80 di 967 campioni di un’ampia varietà di prodotti alimentari, analizzati per rilevare la presenza di 685 pesticidi che solo il 54,6% era privo di residui rilevabili, e che residui di più di un pesticida (residui multipli) erano presenti nel 27,3% dei campioni (38). Va ricordato che i limiti di legge non sono sempre garanzia di rispetto della salute, in particolare dei più piccoli e che i test tossicologici vengono di norma eseguiti per singola sostanza e non sul cocktail di molecole cui siamo invece stabilmente esposti e la cui azione complessiva non è ovviamente semplicemente la somma delle singole azioni, ma in genere estremamente più complessa. Principali meccanismi d’azione dell’esposizione cronica a pesticidi Stante le centinaia di principi attivi presenti sul mercato e l’immissione sul mercato di sempre nuove molecole, la conoscenza dettagliata della loro azione tossica sull’uomo, specie se a dosi minimali e prolungata nel tempo, è indubbiamente complessa e difficilmente esaustiva. Esiste ormai una corposa letteratura scientifica che correla l’esposizione a pesticidi alle seguenti patologie umane: cancro, diabete, Parkinson, Alzheimer, sclerosi laterale amiotrofica (SLA), deficit cognitivi e neurocomportamentali nell’infanzia, difetti di nascita, disordini riproduttivi, asma, broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO), malattie cardiovascolari, nefropatie croniche, lupus eritematoso sistemico, artrite reumatoide, sindrome da stanchezza cronica, invecchiamento (39). 409


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In particolare , per quanto riguarda l’infanzia, nel 2012 un intero numero di Pediatrics (l’organo ufficiale della Società americana di Pediatria) è stato dedicato a questo argomento e le principali patologie correlate sono risultati i tumori ed i disturbi cognitivo/comportamentali (40). Pesticidi e tumori infantili Nella lista delle sostanze chimiche potenzialmente cancerogene redatta da EPA e pubblicata nel 2010 oltre 70 pesticidi sono considerati probabili o possibili cancerogeni (42) si rammenta che nel marzo 2015 la IARC ha dichiarato malation, diazionon e glifosate come cancerogeni probabili (2A) e tetraclorvinfos e paration come cancerogeni possibili (2B) (43). Il glifosate è l’erbicida più utilizzato al mondo anche per scopi non agricoli e si ritrova massivamente nelle acque superficiali e profonde è stato creato per la coltivazione di mais, soia etc. geneticamente modificate proprio per essere resistenti a tale sostanza; tali colture, in cui quindi viene massivamente impiegato l’erbicida sono utilizzate, anche nel nostro paese, per l’alimentazione animale per cui si è dimostrato che il glifosate finisce per concentrarsi nelle loro carni o prodotti quali latte, formaggi etc finendo per arrivare sulle nostre tavole ed accumularsi anche nei nostri tessuti (44). Per quanto riguarda gli studi epidemiologici che hanno indagato il rischio di cancro nell’infanzia nella grande coorte dei figli degli agricoltori americani da 0 a 19 anni è emerso che il numero di tumori osservati è stato maggiore dell’atteso: 50 invece di 37 (Tab 3) (45). Tab 3. Tipi di tumori diagnosticati in età fra 0- 19 anni su 17.357 bambini nello studi sui Lavoratori in Agricoltura in Iowa (USA) fra il 1975n ed il 1998. Viene riportato il numero di casi attesi e la valutazione del Rischio (45). Tumori maggiormente correlati a bambini ed adolescenti

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I tumori maggiormente correlati nell’infanzia sono risultati i tumori del sangue (in particolare le leucemie) ed i tumori cerebrali. Leucemie Già nel 1998 fu pubblicata una revisione di 18 studi 13 dei quali mostravano un incremento del rischio di leucemie nei bambini esposti, statisticamente significativo in 6 di essi (46). Nel 2007 fu pubblicato un ulteriore aggiornamento che prese in esame altri 6 studi nel frattempo condotti, 5 dei quali confermarono un incremento statisticamente significativo di leucemia. In particolare fu anche indagato il momento dell’esposizione materna: pre-concezionale, durante la gravidanza e dopo la nascita. Nello studio più numeroso furono presi in esame 491 casi di leucemia ed altrettanti controlli ed il rischio – statisticamente significativo- per esposizione prenatale fu rispettivamente del +84% per uso di erbicidi, del +97% per insetticidi per piante, del + 70% per insetticidi per alberi. Per esposizione dopo la nascita il rischio risultò inferiore e rispettivamente del +41 per erbicidi, +82%insetticidi per piante, + 41%insetticidi per alberi (47). Una ulteriore metanalisi del 2011 comprendenti 13 studi ha valutato che complessivamente l’esposizione a pesticidi incrementa in modo statisticamente significativo del 74%il rischio di leucemia infantile e che se l’esposizione è prenatale il rischio aumenta del 120% (48). Tumori cerebrali Sono numerosi gli studi che hanno indagato l’esposizione a pesticidi ed il rischio di tumori cerebrali nell’infanzia. Anche in questo caso è emerso il rischio particolarmente importante per esposizioni prenatali, in particolare se l’esposizione aveva riguardato entrambi i genitori. Una delle più recenti revisioni pubblicata nel 2013 ha preso in esame 20 ricerche condotte fra il 1974 ed il 2010 condotte per la maggior parte su famiglie di agricoltori. Dal complesso degli studi caso-controllo è emerso un incremento statisticamente significativo di tumori cerebrali del 30% e dagli studi di coorte l’incremento del rischio è risultato del 53%. L’incremento del rischio è 411


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risultato particolarmente importante per esposizione in fasi cruciali dello sviluppo e per l’esposizione di entrambi i genitori in epoca pre-concezionale (49). Pesticidi e cervello in via di sviluppo La neurotossicità è uno dei più importanti effetti della esposizione a pesticidi: per esposizioni acute ad organofosfati, ad esempio, non solo si riscontrano nell’immediato sintomi a carico del sistema nervoso centrale sia di tipo sensoriale che motorio, ma anche sequele neuropsichiatriche a lungo termine quali deficit nel rilevamento di stimoli e nell’elaborazione delle informazioni, carenze nell’attenzione e nella memoria e maggiore incidenza di depressione. Allo stesso modo anche l’esposizione cronica a questi agenti è risultata associata con anomalie neuro-comportamentali tra cui ansia, depressione, sintomi psicotici, sintomi extrapiramidali, deficit nella memoria a breve termine, nell’ apprendimento, nell’attenzione e nell’elaborazione. Nell’adulto le principali patologie neuro-degenerative correlate a pesticidi sono: Morbo di Parkinson, SLA e Alzheimer per esposizioni a lungo termine e a basse dosi. Ovviamente ancor più pericolosa è l’esposizione, anche a dosi minimali, durante la vita embrio-fetale, quando il cervello è in via di sviluppo, in particolare emerge il ruolo dell’esposizione precoce in utero per la comparsa di malattie neurodegenerative che si manifesteranno nell’età adulta (50). Va ricordato che già da oltre 10 anni si segnala il dilagare nell’infanzia di una “pandemia silenziosa” (51). Con questo termine si indica l’insieme di defict neuropsichici e comportamentali, spesso subdoli e di diversa gravità, che sempre più si verificano nell’infanzia e che vanno dai disturbi dello spettro autistico, ai deficit di attenzione ed iperattività, alla dislessia e a deficit cognitivi fino alla riduzione del Quoziente Intellettivo (QI). Si sospetta che molte sostanze già prese in esame, quali metalli pesanti, solventi, diossine, PCB, pesticidi etc siano responsabili di questo ed in particolare vengono ritenute pericolose le sostanze lipofile: durante la vita fetale infatti il cervello è l’unico organo in cui è presente tessuto adiposo e diventa un vero e proprio organo bersa412


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glio per questi agenti. Del tutto recentemente gli stessi Autori hanno ripreso l’argomento sottolineando come in particolare il clorpirifos sia implicato in questo tipo di rischi e come sia indispensabile una politica di prevenzione globale per arginare questa vera e propria epidemia (52). Nello specifico si è dimostrato che i bambini con livelli più alti di tracce di metaboliti di insetticidi quali i derivati degli organofosfati presentano un rischio quasi doppio di sviluppare deficit di attenzione ed iperattività rispetto a quelli con livelli di “normale” contaminazione. In seguito altri studi condotti indipendentemente presso l’Università di Berkeley, il Mt. Sinai Medical Center e la Columbia University hanno dimostrato con accurate valutazioni di bio-monitoraggio (misurazioni dei metaboliti sulle urine o alla nascita sul cordone ombelicale) che le donne esposte durante la gravidanza ai pesticidi, hanno maggiori probabilità di dare alla luce figli meno intelligenti della media. Più precisamente, un’esposizione prenatale dieci volte superiore alla norma corrisponde ad un calo di 5,5 punti nei test sul QI (53). Una revisione del 2013 ha preso in esame gli effetti dei pesticidi sul neuro sviluppo ed è emerso che 26 su 27 studi evidenziano effetti neuro comportamentali (54). Un’ulteriore sistematica revisione che ha preso in esame 134 studi ha confermato che è proprio l’esposizione prenatale in utero quella che comporta i maggiori rischi . Uno studio del 2015 condotto da un panel di esperti che ha preso in esame il carico di patologie attribuibili in Europa agli interferenti endocrini ha valutato con forte probabilità (70-100%) che ogni anno in Europa vadano persi 13.000.000 di punti di Quoziente Intellettivo per esposizione prenatale ad organofosfati e che vi siano 59.300 casi aggiuntivi di disabilità intellettuale( 55). Pesticidi ed altre patologie nell'infanzia/vita riproduttiva In relazione all’esposizione a pesticidi, in particolare per esposizione a DDT, aldrin, chlordane, dieldrin, endosulfan, atrazina, vinclozolin sono stati descritti incremento dell’abortività spontanea, alterato rapporto maschi/femmine, effetti anti-androgeni con de-mascolinizzazione e 413


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cambiamenti nello sviluppo puberale (56) . Importanti correlazioni fra esposizione a pesticidi (in particolari erbicidi) si registrano anche con le malformazioni, la morte intrauterina, il basso peso alla nascita, ritardi di crescita. Tali risultati sono emersi sia da studi sperimentali che da studi epidemiologici di sorveglianza sui veterani americani del Vietnam, coorte in cui è stata documentato un aumentato rischio di spina bifida ed anencefalia. Un più alto rischio di ipospadia è emerso per esposizione prenatale sia materna che paterna (57): è interessante notare che da un recente studio è emerso che una alimentazione di tipo biologico in gravidanza si è dimostrata protettiva nei confronti dell’ipospadia (58). Bambini e qualità dell'aria Un articolo del 2014 su Nature riportava il caso della più giovane paziente con cancro al polmone: una bambina di 8 anni in Cina e titolava l’articolo “aria di pericolo” (59). L’aria che respiriamo assomiglia sempre più infatti a una miscela tossica in cui si ritrovano: • particolato - grossolano (PM10), fine (PM2.5) e ultrafine ( inferiore al 1 micron) – • ossidi di azoto e zolfo, • ozono, • Idrocarburi Policiclici Aromatici (IPA), benzoapirene, benzene, • metalli pesanti ( in particolare piombo, mercurio, cadmio) e diossine. Particolato Nell’ottobre del 2013 la IARC ( International Agency for Research on Cancer) ha dichiarato il Particulate Matter come cancerogeno certo per l’uomo, al pari della polluzione aerea ( out air pollution) per il rischio di cancro al polmone ed alla vescica (60). Oltre al rischio di cancro a lungo termine sono ormai ben noti e quantificati i rischi a breve termine di eventi avversi a carico del sistema cardiaco e respiratorio. Per esposizione a lungo termine per ogni incremento di 10 µg/m3 di PM 2.5 si calcola, nella popolazione totale, un incremento del 6% del rischio di morte per ogni causa, del 12% per le malattie 414


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cardiovascolari e del 14% per cancro del polmone (61,62). L’ultimo Rapporto dell’UE sulla qualità dell’aria in Europa ha stimato che nel nostro paese vi siano ogni anno ben 65.000 morti premature per esposizione a PM2.5. L’Italia è al 2° posto dopo la Germania per numero di morti premature per PM2.5 ed in soli tre paesi: Germania, Italia e Polonia si registra bel il 39% di tutte le morti per questo inquinante che si registrano nell’intero continente europeo (63). Uno studio effettuato sulla popolazione di otto tra le maggiori città italiane e coordinato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha messo in evidenza che l’inquinamento dell’aria è responsabile di 30.000 attacchi d’asma l’anno nei soggetti di età inferiore ai 15 anni. Stanno emergendo dati ancora più inquietanti per la presenza di sostanze ad azione neurotossica nell’aria e si ipotizza che anche a questo fattore possa essere correlato l’incremento dei disturbi dello spettro autistico (64). Si pensi che la prevalenza di autismo negli Stati Uniti è cresciuta negli ultimi 12 anni del 289.5% e se nel 2000 vi era negli U.S.A un bambino ogni 150 con diagnosi di autismo, nel 2010 ne è colpito un bambino ogni 68! Un recentissimo studio caso-controllo condotto sulla grande coorte delle infermiere americane (116.430 soggetti) ha messo in luce il potenziale fattore di rischio rappresentato dalla esposizione durante la gravidanza a PM2.5. Lo studio ha identificato 245 bambini nati fra il 1990 e 2002 a cui sono stati diagnosticati disturbi dello spettro autistico (ASD) e 1522 controlli sani e si è risaliti sia per i casi che per i controlli ai livelli di PM2.5 cui era stata esposta la madre in gravidanza. E’ emerso un rischio statisticamente significativo di oltre il 40% per i più elevati livelli di PM2.5 inalati dalla madre nel terzo trimestre di gravidanza (OR = 1.42 IC 1.091.86) (65). Purtroppo nel nostro paese mancano dati attendibili circa i disturbi dello spettro autistico ed altre patologie neuro- comportamentali nei bambini, ma dati i livelli di scadente qualità dell’aria che si registrano nel nostro paese, non è azzardato ipotizzare che le conseguenze sulla salute infantile siano molto pesanti. Monossido di Carbonio (CO) 415


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E’ emesso principalmente dai processi di combustione, a causa di una combustione incompleta. Gli effetti negativi del monossido di carbonio sulla salute umana sono legati alla capacità del CO di unirsi all’emoglobina del sangue formando la (COHb). In questo modo il CO occupa il posto normalmente occupato dall’ossigeno, così da ridurre la capacità del sangue di trasporto dell’ossigeno e di conseguenza la quantità di ossigeno che il sangue lascia nei tessuti. La concentrazione di COHb presente nel sangue è naturalmente legata alla concentrazione di CO presente nell’aria che viene respirata. I danni arrecati dal COHb alla salute umana sono legati essenzialmente agli effetti sul sistema cardiovascolare e sul sistema nervoso e sulla crescita fetale. Il limite massimo previsto per legge in Italia è di 10 mg/m³ in una media di 8 ore (D.M. 02-04-2002). Sopra i 500 mg/m³ può essere letale. Un recente studio ha evidenziato come il CO possa passare attraverso il sangue placentare e danneggiare il fisiologico sviluppo del cervello fetale. Dal momento che i limiti sono stabiliti tenendo conto dei rischi di tipo cardiovascolare in adulti gli autori auspicano che questi limiti vengano rivisti tenendo conto di questa nuova azione come “neurotossina” del CO (66). Ozono L’ozono è un gas incolore ed inodore, fortemente instabile, dotato di un elevato potere ossidante e composto da tre atomi di ossigeno. Nella stratosfera si compone a partire dalla reazione dell’ossigeno con l’ossigeno nascente (O), prodotto dalla scissione della molecola di ossigeno ad opera delle radiazioni ultraviolette (O2 + UV -> O + O; O + O2 -> O3) ed esercita un’azione filtrante nei confronti di tali radiazioni; nella troposfera si forma a partire da composti organici volatili (COV) e ossidi di azoto (NOx) in presenza di forte irradiazione solare. In quest’ultimo caso, quindi, l’ozono costituisce un inquinante secondario e rappresenta uno dei principali componenti dello smog fotochimico. A causa del suo meccanismo di formazione nella bassa atmosfera, è condizionato tanto dalla presenza dei suoi precursori (NOx e COV), tipici indicatori dell’inquinamento da traffico ed 416


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attività produttive quanto dalle condizioni di insolazione, particolarmente elevate nel nostro paese nelle ore diurne e nei mesi estivi. Trattandosi poi di un inquinante secondario, può formarsi anche a distanza di tempo e lontano dalle fonti inquinanti primarie e può a sua volta subire fenomeni di trasporto anche notevoli. È un inquinante molto tossico per l’uomo ed in particolare per i bambini, è un irritante per tutte le membrane mucose e una esposizione critica e prolungata può causare tosse, mal di testa, accessi asma e perfino edema polmonare. L’ultimo rapporto dell’UE sulla qualità dell’aria in Europa evidenzia che l’Italia è al primo posto per morti premature da Ozono rispetto agli altri paesi europei con 3.400 morti premature ogni anno (63). Idrocarburi Policiclici Aromatici (IPA) Gli IPA si formano durante la combustione incompleta o la pirolisi di materiale organico contenente carbonio, come carbone, legno, prodotti petroliferi e rifiuti. Gli IPA sono chimicamente piuttosto stabili, sebbene in seguito a fotodecomposizione in presenza d’aria e luce diano luogo a molti prodotti d’ossidazione, soprattutto chinoni ed endoperossidi. Studi sperimentali hanno evidenziato la capacità degli IPA di reagire anche con ossidi d’azoto e acido nitrico per formare nitroderivati, nonché con ossidi di zolfo e acido solforico per formare i relativi acidi solfinici e solfonici. Gli IPA sono emessi da numerosi fonti antropiche, in particolare: emissione veicolare; lavorazioni del carbone e del petrolio; impianti di generazione d’energia elettrica; inceneritori; riscaldamento domestico. A causa di queste numerose fonti, gli IPA sono ubiquitari e si diffondono in tutti i comparti ambientali. Durante ogni processo di formazione, gli IPA sono sempre presenti come classe (mai come composti singoli) in miscele complesse contenenti anche altre sostanze e classi chimiche. Per lo stesso motivo, si ritrovano come classe nei vari comparti ambientali e matrici (aria, acqua, suolo e alimenti) alle quali è comunemente esposta la popolazione. Diversi IPA sono stati classificati dalla come “probabili” o “possibili cancerogeni per l’uomo” ed il benzo(a)pirene è stato recentemente riclassificato nel 417


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gruppo 1 come “cancerogeno per l’uomo” (67). Proprio a proposito del benzo(a) pirene presente massivamente nel sito di Taranto in relazione all’attività dell’acciaieria ILVA, si segnala che con il Decreto di Legge n. 155 del 13/8/2010, il Governo aveva posticipato al 31 dicembre 2012 il divieto di superamento del livello di 1 nanogr. a metro cubo per il benzo(a)pirene (agente cancerogeno e genotossico), specificando tuttavia che: “l’obiettivo di qualità di 1 nanogr. al metro cubo, anche dopo la data indicata, dovrà essere osservato purché ciò non comporti costi sproporzionati per l’industria”. E’ difficile per noi non rimanere quanto meno sconcertati davanti a tali affermazioni specie se si pensa alle ricadute che ciò può avere sulla salute infantile. Del tutto recentemente anche per gli IPA, come per il PM2.5, è emersa una gravissima azione neuro-tossica sul cervello in via di sviluppo. Lo studio, pubblicato su Jama Pschiatry (68) è stato condotto su una coorte di bambini nati fra il 1998 ed il 2006 in cui era stato monitorato il livello di IPA cui era stata esposta la madre in gravidanza. L’indagine ha permesso di stabilire che esiste una relazione dose-risposta fra esposizione prenatale ad IPA – specie nel 3° trimestre di gravidanza- e riduzione in età infantile della sostanza bianca dell’emisfero cerebrale sinistro che si associa a ritardo intellettivo, rallentamento dei processi cognitivi, problemi di comportamento, disturbi dell’attenzione ed iperattività. Incenerimento di rifiuti e bambini Gran parte degli inceneritori di rifiuti, che prima rientravano fra le industrie insalubri di classe I in base all’articolo 216 del testo unico delle Leggi sanitarie (G.U. n. 220 del 20/09/1994, s.o.n.129) sono stati di recente riclassificati secondo l’art.35 del Decreto “Sblocca Italia” come “impianti strategici ai fini della protezione della salute e dell’ambiente”, in quanto “l’energia prodotta dalla combustione dei rifiuti può essere utilizzata per produrre energia elettrica”. Il tema della gestione dei rifiuti solidi urbani e le perplessità che la loro combustione comporta in termini di rischi per la salute è stato esaustivamente affrontato in un Position Paper dell’Associazione dei Me418


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dici per l’Ambiente(69). Ciò che qui importa evidenziare è il fatto che qualunque processo di combustione (compreso quello delle “biomasse”) genera, indipendentemente dalla tecnologia adottata, la produzione e l’emissione di migliaia di sostanze inquinanti, di cui solo una piccola parte è conosciuta e sottoposta a monitoraggio. La formazione di tali inquinanti dipende, oltre che dai materiali combusti, dalla loro mescolanza del tutto casuale nei forni, dalle temperature di combustione e soprattutto dalle variazioni di temperatura nei diversi comparti degli impianti. Alcune forme di inquinamento, inoltre, si formano a valle dei camini (ad esempio il particolato secondario) per reazioni foto-chimiche di precursori emessi dall’impianto di incenerimento con inquinanti atmosferici derivanti da altre fonti (traffico veicolare, insediamenti industriali) e presenti nella stessa area. Fra le principali categorie di inquinanti emessi possiamo distinguere: - inquinanti gassosi: ossidi di azoto (NOx) e di zolfo (SOx), monossido di carbonio (CO), diossido di carbonio (CO2), ozono;- particolato di diverse dimensioni (inalabile PM10, fine PM2.5, <2.5μm, ultrafine < 0.1μm); - microinquinanti persistenti e accumulabili, composti di nuova generazione: metalli pesanti (Arsenico, Berillio, Cadmio, Cromo, Nichel, Piombo), diossine, Furani, Policlorobifenili (PCB), Idrocarburi Policiclici Aromatici (IPA), composti organici volatili, Benzene. Come già ampiamente spiegato in precedenza questi inquinanti s trasmettono per via trans-placentare e bambini, neonati, feti rappresentano le categorie maggiormente vulnerabili. Molti, inoltre, a causa della loro tossicità, persistenza e bio-accumulabilità, esplicano azione di “interferenti endocrini”, questi effetti sono particolarmente gravi in organismi in accrescimento anche per dosaggi di norma ritenuti “sicuri” o “legali” per gli adulti e, soprattutto, se l’esposizione avviene in determinate “finestre espositive” durante la vita intrauterina, in alcune delicate fasi dello sviluppo fetale. Numerosi studi epidemiologici, anche recenti, hanno dimostrato importanti rischi per la salute a carico delle popolazioni esposte all’inquinamento prodotto da impianti di incenerimento di rifiuti, qui si passe419


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ranno brevemente in rassegna gli studi che hanno indagato i rischi per la salute infantile (sia non tumorali che tumorali). Rischi non tumorali A differenza di quanto si registra nella popolazione adulta, in cui gli effetti di maggior rilievo per esposizione a lungo termine alle emissioni degli inceneritori sono riferiti al cancro, nell’infanzia sono stati maggiormente indagati i rischi non tumorali a breve e lungo termine, in particolare: – problemi respiratori – danni neuropsichici – danni ormonali o dello sviluppo sessuale – esiti infausti della gravidanza, nati pre-termine, nati di basso peso, abortività e malformazioni In un studio condotto in Giappone è stata indagata una coorte di 450,807 bambini da 6 a 12 anni della Prefettura di Osaka, dove sono attivi 37 inceneritori. I risultati dimostrano una associazione statisticamente significativa per cefalea, disturbi di stomaco e stanchezza in bambini che frequentavano scuole collocate in prossimità di inceneritori (70). Uno studio tedesco del 1998 condotto su 671 bambini di età compresa fra 7 e 10 anni in cui veniva comparata la funzionalità tiroidea negli esposti ad inceneritore di rifiuti tossici, rispetto a quelli provenienti da altre due aree di confronto. Il gruppo di bambini esposto all’inquinamento da inceneritore presentò nel 7,7% dei casi una riduzione statisticamente significativa (p < or = 0.05) di FT3 and FT4 rispetto ai due gruppi di controllo non esposti e la conclusione degli autori fu che l’esposizione ad emissioni di inceneritore di rifiuti tossici comporta più bassi livelli di tiroxina ed ormoni tiroidei (71). Un altro studio pubblicato nel 2001 su Lancet ha preso in esame la funzionalità renale e lo sviluppo sessuale in 200 adolescenti (120 ragazze) in relazione a specifiche fonti di inquinamento ambientale: un’area con due inceneritori di rifiuti, una con presenza di fonderia di piombo ed una di controllo. In particolare i 420


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giovani maschi provenienti dall’area ove si trovavano i due inceneritori presentavano ritardo nella maturità sessuale e ipotrofia testicolare (72). Relativamente più numerose sono poi le segnalazioni che riguardano malformazioni ed esiti infausti della gravidanza per esposizione ambientale della madre ad emissioni di inceneritori. Già dagli anni ’90 era stato segnalato un incremento di parti gemellari ed una inversione del rapporto maschi/femmine alla nascita (73,74). Successivamente sono stati segnalati rischi di malformazioni congenite (75) ed incremento di labbro leporino (76). Ulteriori studi condotti dal 2000 in poi hanno confermato la condizione di aumentato rischio sia per labbro leporino che per malformazioni d’organo, specie a livello renale e cardiaco (77, 78) Uno studio recente condotto in Francia dopo gli esiti di una indagine preliminare condotta dal medesimo gruppo, ha portato ulteriori interessanti segnalazioni. In questo ultimo studio caso-controllo sono state indagate solo le malformazioni urogenitali individuando 304 neonati con malformazioni del tratto urogenitale diagnosticati nella regione Rhône-Alpes nel periodo 2001-2003 (popolazione controllo: 226 neonati appaiati per sesso, anno di nascita e distretto alla nascita). L’esposizione dal 1°-4° mese prima del concepimento fino alla fine del 3° mese di gestazione veniva messa in relazione alle emissioni di diossine da parte di 21 inceneritori, secondo un modello matematico (ADMS3 software) di dispersione calcolato entro 10 km per ogni singolo impianto. L’indagine ha dimostrato un rischio statisticamente significativo quasi triplo ( OR = 2.95 , CI 1.47 - 5.92) per i soggetti esposti (79). Infine, lo studio Moniter (www.arpa.emr.it/moniter/) recentemente condotto dalla regione Emilia Romagna per indagare sugli effetti avversi sulla salute nella popolazione residente entro 4 km dagli 8 inceneritori regionali ha dimostrato un’aumentata frequenza di nati pre-termine (dato coerente con precedenti studi in vitro 421


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sull’esposizione a diossine) e di abortività spontanea ( + 30%) per le donne maggiormente esposte (80). Rischi tumorali La valutazione epidemiologica dei rischi tumorali nell’infanzia è metodologicamente complessa per i seguenti principali motivi: • patologia relativamente rara nell’infanzia • difficile valutazione della esposizione • importanza delle esposizioni genitoriali e degli stessi gameti • Importanza della cancerogenesi trans-placentare Il problema tuttavia è di estremo interesse sia per l’importanza della diagnosi, sia per l’elevata incidenza che si registra nel nostro paese. Nonostante le suddette difficoltà alcuni ricercatori hanno comunque affrontato il problema. EG Knox nel Regno Unito ha pubblicato numerosi studi dal 1992 al 2006 per indagare sul rischio di morte per cancro da 0 a 15 anni in relazione a rischi ambientali ed in particolare a fonti emissive. In particolare ha esaminato una coorte di 22,458 bambini morti per cancro nel Regno Unito ( leucemie e tumori solidi) fra il 1953 e il 1980, riscontrando cluster geografici in relazione alla località di nascita. Knox osservò che i cluster si presentavano più frequentemente attorno a siti industriali con combustioni su larga scala ed in presenza di composti organici volatili o di incenerimento di rifiuti. In un studio pubblicato nel 2005 Knox si è avvalso, per la valutazione delle esposizioni, delle mappe pubblicate dal National Atmospheric Emissions Inventory, relative alle emissioni di diversi inquinanti. Ciò gli permise di analizzare l’associazione tra il rischio di morte per tutti i tumori infantili (solidi e leucemie) e l’esposizione alla nascita a numerose sostanze chimiche emesse da sorgenti puntuali ad alta intensità (hotspot), tra cui gli inceneritori. Sono stati evidenziati RR (Rischi Relativi) statisticamente significativi per distanze alla nascita entro 1 km da sorgenti emissive di: monossido di carbonio, particolato PM10, Composti Organici Volatili, ossidi di azoto, ben422


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zene, ed inoltre 1-3 butadiene, diossine e benzo(a)pirene. I RR variano dal + 100% al +300% per i diversi inquinanti: per l’esattezza RR = 1.92 per il benzo(a)pirene; 2,21 per le diossine; 3.81 per l’1-3 butadiene. Le emissioni degli inceneritori sono caratterizzate dalla presenza di tutte quelle sostanze a cui questo studio ha associato RR >1 in modo statisticamente significativo (81). La principale e più importante osservazione di Knox riguarda il ruolo determinante dell’esposizione alla nascita o in utero rispetto ad esposizioni successive. Esaminando i bambini che hanno cambiato residenza fra l’indirizzo di nascita e quello di morte, Knox riscontrò che il rischio era più elevato per le migrazioni in allontanamento dalla fonte emissiva (indirizzo di nascita più vicino alla fonte emissiva rispetto all’indirizzo di morte) che viceversa. Questo suggeriva che il rischio maggiore è rappresentato da esposizioni precoci, e che la malattia inizia spesso prima della nascita. Questa ultima considerazione è del tutto coerente con la possibilità di passaggio di cancerogeni dalla madre al feto (cancerogenesi transplacentare) come già aveva intuito negli anni ’70 Lorenzo Tomatis (82). La possibilità che si abbia il passaggio di centinaia di molecole, in particolare metalli pesanti e composti organici persistenti (diossine e similari) è stato in seguito ampiamente confermato e nella letteratura scientifica più recente sta emergendo con sempre maggior evidenza l’importanza delle esposizioni che avvengono nelle prima fasi della vita, fasi che appaiono cruciali per determinare lo stato complessivo di salute non solo nell’infanzia, ma anche in età adulta e non solo per quanto riguarda la cancerogenesi (83). Tumori infantili ed adolescenziali in Italia In Italia il tasso di incidenza per tutti i tumori pediatrici (175,4 casi per milione/anno nei bambini, 270,3 casi negli adolescenti) è uno dei più elevati del mondo occidentale. Il nostro Paese ha registrato un aumento della incidenza del 2% annuo per tutti i tumori infantili (0-14 anni) nel quinquennio 1998-2002, mentre la media europea registrava nello stesso periodo un incremento dell’1,1% e quella degli USA dello 0.6%. L’incremento 423


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più consistente ha riguardato i bambini al di sotto di un anno di età (+3.2% annuo), seguiti da quelli di età compresa tra i 10 e i 14 anni (+2.4%) (84). Nella più recente pubblicazione AIRTUM (Associazione Italiana Registri Tumori) il tasso di incidenza dei tumori infantili in Italia nel periodo 2003-2008 appare stazionario, pur mantenendo i valori più elevati rispetto agli altri Paesi. Nello stesso periodo 2003-2008 anche l’incidenza dei tumori maligni negli adolescenti (15-19 anni) non è ulteriormente aumentata, ma guardando all’intero decennio 1998-2008 vi è un aumento annuo del 2%, attribuibile soprattutto all’aumento di linfomi di Hodgkin, di tumori della tiroide e di melanomi nel sesso femminile (85). Gli Autori del documento AIRTUM nelle considerazioni conclusive esprimono queste perplessità: “A tutt’oggi non si riesce a capire cosa abbia determinato dapprima l’incremento dei tassi e poi la loro stabilizzazione… Neppure vi è una spiegazione del fatto che i tassi italiani di incidenza dei tumori in età 0-14 anni continuino a essere tra i più alti del mondo”. Lo Studio Sentieri Lo studio SENTIERI (Epidemiological Study of Residents in Italian Contaminated Sites) condotto in Italia dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS) sembrerebbe offrire, almeno in parte, una spiegazione plausibile dei dati AIRTUM. Attraverso la Ricerca Finalizzata 2006, ex art. 12 DLgs 502/1992, il Ministero della Salute Italiano ha finanziato il Programma strategico nazionale «Ambiente e salute», coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità e nell’ambito di tale programma è iniziato nel 2007 il Progetto SENTIERI: Studio di mortalità dei residenti in siti inquinati italiani (SIN), che ha portato negli ultimi anni a diverse pubblicazioni di dati (86). Alcuni di essi riguardano anche la salute infantile: nei 44 siti italiani inquinati italiani (SIN), oggetto dello studio SENTIERI nel periodo 1995-2009, i bambini morti per ogni causa nel primo anno di vita sono stati 3.332 contro un numero atteso di 3.206 (+126) (87). Ma, soprattutto, a Taranto i cui dati di mortalità negli anni 2003 – 2008 sono stati analizzati nello studio SENTIERI, è stato registrato un 424


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aumento del +35% di decessi per tutte le cause nei bambini sotto un anno di età ed una mortalità perinatale aumentata del +71%, con un aumento complessivo dell’incidenza di tutti i tumori nell’intera popolazione del +30% (88). Sempre dallo studio SENTIERI emerge un altro dato impressionante che riguarda la popolazione di Brescia e per il quale il rapporto con l’inquinamento ambientale da sostanze chimiche appare lampante. Nel rapporto ISS-AIRTUM si legge: “In entrambi i generi si osservano eccessi (uomini +10%, donne + 14%) in tutti i tumori” e, sempre secondo i ricercatori, l’impronta dell’inquinamento si ricava con una incidenza da record soprattutto in tre tipi di tumori direttamente riconducibili a PCB e diossine: i melanomi cutanei (uomini +27%, donne +19%), i linfomi non-Hodgkin (uomini +14%, donne +25%) e i tumori della mammella (donne +25%) (89). Una recente rassegna della letteratura scientifica ha mostrato come i livelli ematici di tossicità equivalente relativi a diossine e altri composti diossino-simili, tra cui i PCB, riscontrati nella popolazione generale residente a Brescia, siano fra i più elevati osservati a livello internazionale (90) In definitiva nei 44 SIN studiati dal 1995 al 2009 l’incidenza tumorale, confrontata con le aree geografiche di riferimento, è risultata +9% nei Maschi e +7% nelle femmine e tenuto conto che i dati dei Registri Tumori consultati comprendo aree ben più vaste del singolo sito inquinato (SIN) si deve ritenere ragionevolmente che la quota di tumori che insorge per cause ambientali, indipendenti dagli stili di vita dei singoli, sia ben maggiore del 7-9% dello studio, anche perché le stesse aree geografiche di riferimento non sono certo esenti da inquinamento ambientale (91). Occorre anche considerare che, in accordo con dati presenti nella letteratura scientifica internazionale, gli stessi inquinanti responsabili dell’aumentata incidenza tumorale descritta nello studio SENTIERI, hanno rapporto di causalità con una serie di patologie non oncologiche quali: malattie endocrino-metaboliche in età pediatrica 425


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Ernesto Burgio PER UN NUOVO MODELLO DI CANCEROGENESI (AMBIENTALE) Dalla genetica all’epigenetica A new scientific truth does not triumph by convincing its opponents and making them see the light, but rather because its opponents eventually die, and a new generation grows up that is familiar with it.
 Max Planck (1858 - 1947)

Nell’ultimo decennio il ruolo dei fattori epigenetici nella modulazione dell’espressione genica e nel controllo dello sviluppo ontogenetico degli organismi e dei cloni/ tessuti neoplastici ha assunto notevole rilievo. Trasformazioni globali e locali dell’assetto epigenomico, legate tanto a variazioni reversibili, diffuse o localizzate (sequenze promoter di geni oncosoppressori) a carico della sequenza base del DNA, quanto a modifiche post-traduzionali degli istoni (histone code) e ai meccanismi di interferenza degli RNA minori, giocano un ruolo chiave in entrambi i processi. Ancora parzialmente oscuri sono i meccanismi che regolano, inducono e modulano le modifiche epigenetiche, in relazione alle trasformazione del (micro)ambiente. Tra i possibili fattori di regolazione potrebbero giocare un ruolo significativo ossigeno e radicali liberi, metalli pesanti e interferenti endocrini (o più in generale molecole mimetiche), che svolgerebbero un ruolo di morfògeni nello sviluppo ontogenetico e di modulatori/perturbatori delle pathways biochimiche di controllo nei processi di differenziazione, proliferazione, morte cellulare programmata. Particolare interesse rivestono le recenti teorie che si propongono di integrare i due ambiti, riconoscendo nei processi di cancerogenesi una manifestazione tardiva di un’alterata programmazione fetale dello sviluppo tissutale promossa da un successivo “stress (epi)genomico” indotto da fattori ambientali (paradigma neo-lamarkiano), piuttosto che la conseguenza di mutazioni casuali vantaggiose (per il clone neoplastico) promosse dalla selezione naturale (paradigma neo-darwiniano). 426


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Da oltre 20 anni il cancro è definito essenzialmente in termini di malattia genetica . Si intende così sottolineare che non esiste patologia neoplastica senza danno genetico o cromosomico: nelle cellule che costituiscono il clone neoplastico sono sempre presenti, infatti, mutazioni e/o aberrazioni cromosomiche, instabilità genomica e aneuploidia, seppur, di volta in volta, diversamente interpretate e collegate tra loro dai diversi ricercatori. Forse la prima formulazione scientifica del cancro come malattia genetica si deve a Novell, che nel 1976 scriveva: “Si propone che la maggior parte dei tumori derivi da una singola cellula e che la progressione tumorale sia il risultato di una instabilità genetica acquisita all’interno del clone originale che consente la selezione sequenziale delle linee cellulari più aggressive. Le popolazioni di cellule tumorali appaiono geneticamente più instabili rispetto a quelle normali, forse per attivazione di specifici loci genici.” Definizione e limiti della Teoria Mutazionale Somatica (SMT), “Just as Darwinian evolution depends upon random mutations giving rise to a selective advantage to individuals, it now seems clear that random mutations in the genes which control proliferation or apoptosis are responsible for cancer"

Nel 1991 Loeb sottolineò come nell’ambito di un qualsiasi tessuto neoplastico siano presenti migliaia di mutazioni e di anomalie cromosomiche e, rilanciando una tesi già proposta negli anni ’50 da Nordling sulla tendenza delle cellule in attiva proliferazione ad accumulare mutazioni, formulò la teoria del mutator phenotype, ipotizzando un’intrinseca tendenza del clone neoplastico ad accumulare alterazioni genetiche e cromosomiche. Nel 2000 Hanahan e Weinberg definirono, in uno dei papers più noti e citati in questo campo e rivisitato di recente, quelli che sarebbero i caratteri fondamentali 427


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conferiti a una cellula/clone neoplastico dal progressivo accumulo di mutazioni sequenziali: proliferazione indipendente da segnali di crescita, insensibilità ai segnali inibitori, resistenza all’apoptosi, riattivazione della telomerasi (e immortalizzazione), attivazione dell’angiogenesi, tendenza a metastatizzare, instabilità genomica (carattere facilitatore). Giunse così a perfetta definizione quello che è a tutt’oggi il modello cancerogenetico per eccellenza: la cosiddetta Teoria Mutazionale Somatica (SMT), secondo cui all’origine del cancro sarebbe l’insorgenza, in una o più cellule somatiche, di mutazioni stocastiche in alcuni geni-chiave, fisiologicamente deputati al controllo della proliferazione, della morte cellulare programmata (apoptosi) e dei meccanismi di riparazione del DNA stesso: proto-oncogéni e geni oncosoppressori . Non è difficile riconoscere in un tale modello la trasposizione in ambito cellulare del classico modello evoluzionistico neo-darwiniano: fra le miriadi di mutazioni che quotidianamente danneggiano il nostro DNA, finirebbero per prevalere e stabilizzarsi (nel giro di mesi/anni) le pochissime in grado di conferire a un dato clone cellulare un vantaggio selettivo. Su queste basi viene anche interpretato l’incremento dei casi di cancro che caratterizza le società post-industriali, notoriamente caratterizzate da un altrettanto significativo allungamento della vita media: è infatti noto che il DNA si va progressivamente destabilizzando con l’età, anche a causa di un accumulo “parafisiologico” di lesioni ossidative Negli ultimi anni le critiche al modello SMT sono state numerose e significative, anche se ancora insufficienti a costringere i suoi sostenitori a riconoscerne i limiti sostanziali. Comincerei col ricordare che numerosi autori hanno sottolineato: come in moltissimi casi il cancro sembri essere (il prodotto di) un processo complesso che concerne un intero tessuto o addirittura l’intero organismo e che non sembra avere origini nelle supposte/teorizzate mutazioni stocastiche; come, in particolare, il modello SMT non riconosca il ruolo-chiave svolto dal microam428


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biente (stroma, endoteliociti, macrofagi attivati ecc.) e dai tessuti circostanti e il percorso di sviluppo distorto a carico del tessuto in cui si è prodotta la degenerazione neoplastica; come non sempre sia possibile documentare l’esistenza di mutazioni specifiche che esitino in una ben definita forma neoplastica, né dimostrare una chiara relazione tra mutazioni e progressione tumorale (persino nel caso del modello-classico di Vogelstein, quello del carcinoma del colon, nessuna mutazione appare necessaria e sufficiente a determinare il passaggio tra uno stadio e l’altro della progressione neoplastica); come il modello SMT non sia in grado di chiarire adeguatamente l’azione degli agenti cancerogeni non-mutageni, né, tantomeno, di dare un’interpretazione accettabile dei complessi fenotipi tumorali e degli stessi processi cancerogenetici. Una delle posizioni critiche più note nei confronti della SMT è quella di Duesberg e Rasnick, i quali riconoscono nella frequente aneuploidia l’aberrazione carcinogenetica primaria e fondamentale alla quale farebbero seguito una instabilità genomica complessiva e progressiva e mutazioni e aberrazioni cromosomiche di vario genere e tipo, più o meno specifiche delle diverse forme tumorali. Questi e altri ricercatori hanno dimostrato il precoce manifestarsi di aneuploidia in cellule neoplastiche prive di mutazioni e l’alta frequenza di tumori in sindromi caratterizzate da anomalie cariotipiche (trisomie, disomie): basti pensare alla sindrome di Down caratterizzata non da un incremento di mutazioni aspecifiche, ma da forme neoplastiche peculiari per sede e forma, meglio interpretabili come il prodotto di un assetto genomico sbilanciato in quanto trisomico. Un dato particolarmente interessante, per quanto concerne la tesi di Duesberg, è che a parere del noto virologo e biologo molecolare è possibile mettere in parallelo il processo di oncogenesi e quello di speciazione, riconoscendo in un rimescolamento cromosomico la trasformazione genomica fondamentale all’origine dei due processi (il tempo di latenza tipico della gran parte di forme neoplastiche rifletterebbe l’improbabile composizione, in seguito ad alterazioni casuali del processo mitotico, di un assetto cariotipico vitale o addirittura 429


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vantaggioso per le cellule trasformate, come per le specie neoformate). E’ opportuno, tuttavia, sottolineare che la tesi “rivoluzionaria” di Duesberg (che, del resto, riprende una delle primissime ipotesi concernenti la carcinogenesi, formulata da Boveri quasi un secolo fa) è tale solo in parte: nel senso che Duesberg non rinuncia all’idea delle mutazioni stocastiche e sequenziali, ma si limita ad anteporre cronologicamente ad esse un meccanismo non meno aleatorio, consistente appunto nell’alterazione dell’assetto cromosomico in seguito a un’alterazione del processo mitotico. Le critiche suaccennate sollevano dubbi e pongono problemi di grande rilievo e potrebbero essere di per sé sufficienti a proporre una seria revisione critica del paradigma di cancerogenesi dominate. Ma dal nostro punto di vista esistono altre e ancor più valide ragioni per mettere in discussione il modello SMT. La prima di queste ragioni consiste nel fatto che un tale modello relega l’ambiente ad un ruolo tutto sommato secondario, essenzialmente “selettivo” nei confronti di trasformazioni genetiche, viste come essenzialmente casuali/stocastiche. Questo fa sì che nella valutazione della gran parte di epidemiologi e ricercatori in genere che si occupano della valutazione dei rischi di cancro legati ad una esposizione diretta o indiretta ai principali fattori cancerogeni, la percentuali dei tumori verosimilmente legati a tale esposizione oscillerebbe tra un trascurabile 3-6%, un già più accettabile 20% e un, dal nostro punto di vista più plausibile, 80%. All’origine di valutazioni tanto discordanti non possono che esserci modalità e criteri assai differenti: se si sceglie di prendere in considerazione soltanto situazioni in cui il nesso causa-effetto tra un agente cancerogeno e un certo tipo di cancro sia provato con assoluta certezza (amianto e mesotelioma), i numeri saranno di entità trascurabile; se si dà valore a tutte quelle situazioni in cui un nesso tra esposizione e insorgenza di patologie neoplastiche sia possibile o probabile, la situazione sarà già diversa. Ma le maggiori differenze di valutazione dipendono essenzialmente dai modelli di cancerogenesi utilizzati: se, 430


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ad esempio, si pensa (come abbiamo visto nel capitolo precedente) che soltanto esposizioni massive ad agenti fisici (radiazioni ionizzanti) o chimici (agenti mutageni) possano indurre danni genetici e che solo in questi casi un certo tipo di cancro possa essere riconosciuto come “prodotto da cause ambientali”, allora i numeri saranno trascurabili; se invece il cancro è visto come il prodotto di un processo di lungo periodo che si estrinseca tanto a livello tessutale, che cellulare, che molecolare (e in particolare genomico) come processo reattivo a una notevole quantità di agenti e stimoli differenti, di diversa natura (chimici, fisici..), di intensità anche minima, ma in grado di agire in modo persistente e sinergico (radiazioni ionizzanti, virus, microrganismi ed agenti chimici non mutageni, ma dotati di azione pro-flogistica e pro-cancerogena…) il discorso cambia radicalmente. E’ infatti possibile ipotizzare (sulla base di quanto abbiamo visto nei capitoli precedenti) che l’esposizione a una quantità crescente di agenti chimico-fisici “nuovi sul piano bio-evolutivo” e in particolare di molecole xenobiotiche, prodotte intenzionalmente o come scarti di processi antropici, e di radiazioni ionizzanti e non di varia frequenza e intensità, possa determinare una continua attivazione cellulare ed epigenetica e quindi una condizione di stress genomico che nel medio-lungo termine può bypassare e persino sovvertire i meccanismi compensatori (forniti ad esempio da alcune proteine dello stress) che il processo evolutivo ha messo a punto per far fronte alle trasformazioni ambientali. Come detto, infatti, è ormai ampiamente dimostrato come le informazioni e sollecitazioni provenienti dall’ambiente inducano continuamente la parte più dinamica del genoma, l’epigenoma, a modificarsi cambiando, di conseguenza, l’assetto tridimensionale della cromatina, regolando l’accesso al DNA dei fattori di trascrizione e degli altri complessi proteici deputati alla modulazione espressiva ed evolutiva del genoma e quindi del fenotipo cellulare e come siano proprio tali modifiche epigenetiche, in larga parte ereditabili da una generazione cellulare all’altra, a determinare tanto il fisiologico processo di differenziazione morfo-funzionale delle cellule dei di431


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versi tessuti, quanto le modificazioni patologiche (e in particolare neoplastiche). Verso un nuovo modello/paradigma Già da questi pochi accenni sui meccanismi epigenetici che la moderna biologia molecolare ha documentato negli ultimi anni, traspare l’esigenza e la concreta possibilità di definire un nuovo modello “cancerogenetico”, che potremmo, ancora una volta, definire, per semplicità, neo-lamarckiano, nel quale l’ambiente non si limiti a svolgere un ruolo “essenzialmente selettivo”, ma sia in grado di indurre e modulare le risposte e la trasformazione progressiva del genoma e del fenotipo, tanto in senso fisiologico che patologico, tanto in ambito ontogenetico (individuale), che filogenetico (di specie). Su tali basi il processo neoplastico si verrebbe a configurare come la fase finale di un processo evolutivo (reattivo/ adattativo) distorto, all’origine del quale sarebbero alterazioni dell’assetto epi-genetico a carico delle cellule staminali del tessuto colpito o delle cellule embrio-fetali in via di differenziazione nel corso dell’ontogenesi. Alla base di una simile modifica di paradigma è evidentemente la nuova concezione, radicalmente diversa da quella tuttora dominante, del genoma e dei meccanismi di danno genetico, che abbiamo proposto a partire dal capitolo introduttivo di questa monografia, e che siamo andati via, via definendo nei capitoli successivi: anziché come una molecola essenzialmente stabile (per milioni di anni), possibile sede di processi degenerativi essenzialmente stocastici, legati a una sorta di deperibilità intrinseca/parafisiologica e bersaglio passivo, di agenti chimici, fisici o biologici (mutageni o meno), il DNA, o per meglio dire il genoma, viene infatti a configurarsi (anche nell’ambito dei processi di cancerogenesi) come un network molecolare complesso, dinamico e interattivo al suo interno e con l’ambiente, le cui modifiche e trasformazioni (ivi comprese le “mutazioni” e le cosiddette “aberrazioni cromosomiche” che caratterizzano il processo neoplastico) rappresentano il prodotto di un processo attivo e reattivo di auto-ingegnerizzazione molecolare. 432


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In questo contesto trova, del resto, un senso più profondo anche il modello proposto da Duesberg, secondo cui il cancro sarebbe il prodotto di un rimescolamento cromosomico, piuttosto che di mutazioni stocastiche del DNA: si tratterebbe però di un processo di rimescolamento genomico attivo e reattivo a condizioni di stress molecolare. Un processo che secondo alcune ricerche recentissime potrebbe addirittura prodursi (almeno in alcuni casi) in modo “repentino e catastrofico”, configurandosi come una sorta di crisi dell’intero sistema genomico, piuttosto che come il prodotto di un lento e progressivo accumulo di mutazioni stocastiche, descritto nel modello SMT (il che consentirebbe, sia detto per inciso, di proporre un ulteriore parallelismo tra i nuovi modelli di cancerogenesi e i modelli evoluzionistici post(neo) darwiniani –la cui validità è ormai quasi universalmente riconosciuta - che vedono nel processo bio-evolutivo una sequenza di crisi biologiche anche drammatiche, piuttosto che un progressione graduale, continua e costante). Già sulla base di quanto detto fin qui dovrebbe essere evidente come, nell’ambito del “nuovo paradigma”, le mutazioni e aberrazioni cromosomiche procancerogene, abitualmente definite “stocastiche”, non siano tali. Accettare un modello di genoma-network molecolare unitario, dinamico e interattivo, composto di una parte relativamente stabile, la molecola base del DNA, che contiene essenzialmente la memoria di specie e che in condizioni naturali muta lentamente, nel corso di milioni di anni, e da un complesso assai più dinamico, interattivo con l’ambiente e continuamente mutevole, definito come epigenoma (per cui se il DNA può esser paragonato all’hardware, l’epigenoma rappresenta il software che dirige le operazioni), significa anche riconoscere le modifiche a carico del genoma come eventi molecolari attivi (reattivi, difensivi): in una parola adattivi a un ambiente in continua trasformazione e, in particolare, ad una esposizione sempre più massiva a molecole chimiche ed agenti fisici potenzialmente (epi)genotossici. Lo studio delle interazioni tra ambiente ed epigenoma e delle continue trasformazioni di questo ha mostrato in che modo ciò che mangiamo e respiriamo e 433


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persino ciò che ascoltiamo, percepiamo e pensiamo possa interferire con l’assetto epigenetico e, in alcuni casi, persino genetico di cellule e tessuti: come cioè ogni informazione che giunge dall’ambiente possa attivare o disattivare, aprire o chiudere tutta una serie di circuiti biochimici intercellulari e intracellulari e, in ultima analisi, indurre dapprima una trasformazione praticamente immediata e reversibile del software epigenetico, quindi, nel medio-lungo termine e in modo potenzialmente irreversibile, dello stesso hardware genetico (come di recente “modellizzato” in studi diversi: uno dei quali, tra i più interessanti, concerne proprio la cancerogenesi). Sappiamo, inoltre, che uno stress (epi)genetico protratto è destinato a produrre, nel medio-lungo termine, un’attivazione genomica sistemica, caratterizzata da una ipo-metilazione progressiva e globale del DNA e da una iper-metilazione distrettuale a carico delle isole CpG (normalmente ipo-metilate) della regione del promotore di geni oncosoppressori. L’ipometilazione globale del DNA produrrebbe tanto un’instabilità genomica -accentuando la mobilità delle sequenze trasponibili (possibilmente deputate a un lavoro di ingegnerizzazione dello stesso genoma) e, ad esempio, determinando una perdita di imprinting di alcuni geni-chiave- che cromosomica (destabilizzando i centromeri, favorendo quindi una condizione di aneuploidia e incrementando i tassi di ricombinazione: il che predispone a perdita di eterozigosi (LOH) e apre la strada a riarrangiamenti cromosomici). L’ipermetilazione selettiva delle isole CpG agisce invece bloccando l’azione di numerosi geni oncosoppressori che come p21, p14, p15, p16, p73, Rb controllano i programmi di proliferazione cellulare; come TMS-1, regolano l’apoptosi; come i componenti della BRCA pathway, regolano i meccanismi di riparazione del DNA. I meccanismi in atto in queste modifiche genomiche sono da tempo oggetto di studio, ma a tutt’oggi sono compresi solo in parte. Particolarmente interessanti sono le ricerche volte da un lato a collegare le trasformazioni ambientali e lo stress genomico, dall’altro a mettere a fuoco i modi in cui tale stress genomico favorisca la dege434


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nerazione in senso metaplastico/displastico e infine neoplastico di un tessuto. E in effetti negli ultimi anni numerosi studi hanno mostrato come cellule esposte a condizioni di “stress ambientale protratto” -che si traducono in una continua attivazione di segnali e circuiti proliferativivadano incontro ad una riprogrammazione epigenetica complessiva e, in particolare, alle suaccennate trasformazioni epigenetiche. E’ stato, in particolare, dimostrato come tanto l’ipometilazione globale del DNA, quanto la metilazione selettiva delle regioni promoter dei geni oncosoppressori, che l’ipometilazione di alcuni oncogéni siano peculiari delle lesioni pre/pro-cancerose e delle prime fasi della trasformazione neoplastica. Una complessa serie di modifiche a carico della cromatina si verifica in cellule sottoposte a condizioni di stress cronico - come nel corso di lesioni e infiammazioni croniche a carico di un dato tessuto - che potrebbero ‘fissare’ ben definite modifiche epigenetiche (ereditabili da una generazione cellulare all’altra), volte alla repressione trascrizionale di alcuni geni chiave o persino di intere reti geniche. Alcuni studi hanno dimostrato come, sebbene un simile condizionamento epigenetico (in specie a carico dei geni oncosoppressori) possa verificarsi in qualsiasi momento, esso si verifichi più frequentemente durante le prime fasi del processo neoplastico e nelle lesioni precancerose. Simili eventi precoci di silenziamento genico potrebbero indurre nelle cellule uno stato di “dipendenza” da alcuni circuiti onco-genetici e questo ‘condizionamento epigenetico’ potrebbe predisporre le cellule ad un accumulo di mutazioni genetiche in questi stessi circuiti, che potrebbero indurre e/o favorire la progressione tumorale. Né mancano prove cliniche di simili meccanismi: può essere utile, ad esempio, ricordare come il silenziamento del gene CDKN2A consenta alle cellule epiteliali mammarie di sfuggire ai programmi di senescenza, determinando instabilità genetica ed altre proprietà proneoplastiche e come l’inattivazione epigenetica dei geni SFPR (loss of the epigenetic gatekeeper) rappresenti un evento precoce in alcuni carcinomi del colon-retto contribuendo all’attivazione della pathway di segnalazione 435


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Wnt che è in genere riconosciuta come l’evento cancerogeno chiave di queste forme neoplastiche. A questo proposito possiamo ricordare come alcuni ricercatori impegnati nel campo dell’applicazione di modelli matematici ai sistemi biologici abbiano dimostrato come le cellule sottoposte a riprogrammazione epigenetica da stress vadano incontro a senescenza precoce e presentino un alto tasso di mutazioni genetiche non casuali, chiaramente connesse alla riprogrammazione epigenetica da stress (in quanto interessano le sequenze geniche “epigeneticamente marcate” e ne “consolidano” le specifiche trasformazioni funzionali). Si tratta di acquisizioni molto importanti, che dimostrerebbero come una condizione di stress ambientale protratto non si limiti a indurre nelle cellule una riprogrammazione epigenetica reattiva, ma favorisca, nel tempo, l’insorgenza di mutazioni “guidate” e successivamente “premiate dalla selezione naturale”. 
Quale esempio emblematico di mutazioni verosimilmente attive, reattive e adattative piuttosto che stocastiche, possiamo prendere brevemente in esame le traslocazioni. Generalmente definite come aberrazioni cromosomiche, cioè alterazioni puramente stocastiche del DNA prodotte dalla fortuita congiunzione di sequenze geniche situate su regioni del tutto distinte e distanti del genoma, le traslocazioni possono essere infatti interpretate come esempi emblematici di natural genetic engineering, cioè come prodotti di specifici meccanismi reattivi che il genoma può mettere in campo per difendersi o reagire a particolari condizioni di stress. Traslocazioni, inserzioni ed inversioni furono oggetto di studi approfonditi già negli anni 20-30. Errori di ricombinazione in corso di meiosi furono descritti da Sturtevant già nel 1925. I lavori di H. J. Muller (1927-8) ed Hanson (1928) sull’utilizzo di raggi X per indurre mutazioni in Drosophila, e quelli analoghi di Stadler sulle piante di orzo ebbero vasta eco tra i ricercatori. Una tra queste fu Barbara Mc Clintock che per prima seppe collegare alcune modifiche fenotipiche reattive a specifiche aberrazioni cromosomiche (inversioni e traslocazioni). 436


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E’ noto che traslocazioni cromosomiche specifiche si associano a numerose forme neoplastiche (essenzialmente oncoematologiche: leucemie, linfomi, mielomi), nelle quali svolgerebbero un ruolo di iniziazione tumorale. Una traslocazione è presente in circa la metà delle neoplasie ematologiche e in un discreto numero di tumori di origine mesenchimale: sarcoma di Ewing, rabdomiosarcoma etc. (è interessante notare che si tratta delle tipologie neoplastiche più frequenti nella prima infanzia). Recentemente si è scoperto che traslocazioni sono presenti anche in tumori solidi e che negli endoteli associati ad alcuni linfomi è possibile riconoscere le stesse traslocazioni della “neoplasia madre”, in modo non dissimile a quanto si verifica nelle cellule dello stroma del CA mammario, a ennesima riprova del fatto che una neoplasia è in genere qualcosa di più che un singolo clone di cellule degenerato. Le traslocazioni presenti nelle leucemie infantili hanno in genere origine prenatale (nell’ambito dell’ematopoiesi fetale); danno origine a geni chimerici e quindi a proteine di fusione che svolgono un ruolo chiave nella patogenesi della malattia (in genere determinando il blocco differenziativo del clone leucemico); rappresentano markers tumorali stabili e specifici dei singoli cloni leucemici e targets potenziali di nuove terapie molecolari. Generalmente si ammette che, pur svolgendo un ruolo fondamentale di “iniziazione” tumorale, le traslocazioni non sarebbero sufficienti a scatenare il processo neoplastico: perché questo si verifichi sarebbero necessari ulteriori eventi genetici, che, per quanto concerne le leucemie della prima infanzia, devono essere a loro volta precoci: intrauterini nelle leucemie linfoblastiche dei primi due anni, immediatamente post-natali nelle leucemie linfatiche e mieloblastiche della seconda infanzia (con periodo di latenza oscillante tra uno e 15 anni). Vedremo anche come traslocazioni funzionali e cloni cellulari potenzialmente pre-leucemici si formino con discreta frequenza in feti normali che non svilupperanno la malattia, a ulteriore riprova della necessità, per la leu437


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cemogenesi, di ulteriori modifiche genetiche, ma anche a sostegno dell’ipotesi secondo cui le traslocazioni (al pari di altre modifiche genetiche) non sarebbero mutazioni stocastiche, bensì specifiche modifiche reattive a condizioni di stress. A sostegno di questa ipotesi possiamo ricordare: - il ruolo svolto nella genesi delle traslocazioni dai processi di ri-arrangiamento tipici dei meccanismi di riparazione del DNA o di ricombinazione genica specifici della linea linfoide, - la possibilità di indurre traslocazioni specifiche in cellule staminali in coltura, - il fatto che la quasi totalità delle traslocazioni produce effetti vantaggiosi per il clone cellulare che le ospita, mediante 2 meccanismi fondamentali: la ricombinazione tra due specifici segmenti genici collocati su cromosomi distanti, anche se a volte posizionati su regioni cromosomiche contigue durante l’interfase, che dà origine a un gene di fusione e ad una proteina chimerica, dotata di alcune attività di uno o di entrambi i geni di partenza, ma notevolmente amplificate; il posizionamento di uno dei due geni a ridosso di sequenze promoter o enhancer particolarmente attive (es.: le sequenze enhancer del gene codificante per le catene pesanti delle Ig, tanto nella traslocazione t(8;14)(q24;q32) frequente nel linfoma di Burkitt, che nella t(14;18)(q32;q21) documentata in circa 65-80% dei casi di linfoma follicolare, che).. L’esempio forse più emblematico di traslocazione reattiva a una situazione di stress ambientale è dato proprio dalla suaccennata traslocazione t(14;18)(q32;q21), quella iniziale (e “iniziatrice”: cioè necessaria, ma non sufficiente) del linfoma follicolare, in genere seguita da ulteriori alterazioni genetiche o cromosomiche che emergono via, via nel corso della malattia). La scoperta della t(14;18) dimostrò come i geni coinvolti nelle traslocazioni possano essere implicati (e distorcere) numerose pathways cellulari. Il clonaggio della t(14;18) dimostrò il coinvolgimento del gene IGH (banda q32 del cromosoma 14) e di un protoncogéne fino ad 438


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allora sconosciuto, il BCL2 (banda q21 del cromosoma 18), che permise di capire vari aspetti del processo di apoptosi, in specie di quelli inerenti alla cancerogenesi. Ma soprattutto permise di comprendere che l’accresciuta espressione del gene anti-apoptotico BCL-2 (e la conseguente prolungata sopravvivenza del clone cellulare) sono la diretta conseguenza della sua traslocazione nel locus codificante per le catene pesanti delle IG, probabilmente mediata da una ricombinazione V(D)J illegittima e dalla diretta esposizione alle sequenze enhancer di tale gene. Ma quel che più ci interessa qui ricordare è che la traslocazione t(14;18)(q32;q21) è anche presente in individui sani, specie se esposti a inquinamento ambientale rilevante e persistente. Per quanto concerne la presenza di traslocazioni t(14;18) nel sangue di soggetti normali, si tratta di un dato acquisito da tempo. Studi più recenti ne hanno però chiarito il significato, fornendo nuovi dati, estremamente interessanti. A cominciare da quelli sulla prevalenza totale di t(14;18)(q32;q21) che in individui sani sarebbe del 42% e strettamente correlata all’età: praticamente nulla nel cordone ombelicale e nel sangue di bambini fino a 10 anni, cresce infatti lentamente fino a raggiungere il 66% dei soggetti intorno ai 50, per poi attestarsi su questi livelli. Si tratta evidentemente di un trend compatibile con un incremento “reattivo”: sembrerebbe trattarsi di un “riarrangiamento genico para-fisiologico” che prolunga la vita dei linfociti, piuttosto che un semplice accumulo progressivo di “aberrazioni cromosomiche” (come molti si ostinano a considerale). Tanto più che anche il numero dei cloni interessati nei singoli individui segue lo stesso trend di incremento progressivo, in relazione con l’età dei soggetti.. Sulla base di questi dati si può indurre che i precursori dei B-linfociti portatori della traslocazione siano generati, a partire da una certa età e in relazione al perdurare di un qualche “stimolo”, nel midollo di soggetti normali e/o affetti da patologie differenti da quelle linfopoietiche. E’ anche interessante ricordare come, registrati i dati suddetti, ci si interrogò sulla natura di tale “stimolo” e alcuni ricercatori proposero di adottare la 439


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traslocazione t(14;18)(q32;q21) quale bio-marker di esposizione a molecole cancerogene, a partire dal notevole incremento di linfomi Non Hodgkin, che tra i primi anni ’70 e gli anni ‘90 era stato del 3-4% annuo negli States (di poco inferiore a quelli del melanoma e del cancro al polmone tra le donne, che guidavano la triste classifica). E le conferme non tardarono, visto che successivi studi epidemiologici dimostrarono come l’esposizione occupazionale a pesticidi (già da tempo tra gli agenti più pesantemente indiziati nella genesi dei linfomi) induca nei contadini un incremento significativo di traslocazioni t(14-18) e di cloni portatori del riarrangiamento BCL2IGH, in specie nei periodi di maggior impiego di pesticidi. E un ampio studio francese ha recentemente ribadito l’associazione tra uso di pesticidi e incremento di patologie linfoproliferative, evidenziando un incremento significativo di casi di linfomi di Hodgkin, mielomi multipli e leucemie a cellule capellute, mentre un recente lavoro ha documentato, per la prima volta, tra i soggetti esposti a pesticidi, la diretta connessione tra frequenza di cloni portatori di traslocazione t(14;18) e progressione in senso maligno. Un altra importante conferma del valore della traslocazione t(14;18) quale marker di esposizione a molecole tossiche e potenzialmente cancerogene e, indirettamente, del suo significativo “reattivo” a sollecitazioni ambientali è venuta da Seveso. E’ a tutti noto come la TCDD (2,3,7,8-tetracloro-p-diossina), la più tossica fra tutte le diossine, sia stato l’agente tossico disperso in ambiente in occasione dell’incidente di Seveso e tuttora responsabile di danni alla salute nelle popolazioni esposte. Il possibile ruolo cancerogeno della “diossina di Seveso” era stato riconosciuto dalla IARC, già negli anni ’90; l’esposizione prolungata a TCDD era stata associata con linfoma non-Hodgkin (NHL) in numerosi studi epidemiologici, concernenti specialmente popolazioni esposte alle emissioni di inceneritori di rifiuti solidi urbani. Partendo da questi dati, uno dei gruppo “storici” di ricerca impegnato da decenni nello studio delle conseguenze dell’incidente di Seveso sulle popolazioni, ha potuto do440


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cumentare, in uno studio pubblicato nel 2006 su Carcinogenesis un incremento significativo e proporzionale ai livelli plasmatici di TCDD di linfociti circolanti con traslocazione t(14, 18) in soggetti sani. A questo punto le ragioni per cui i sostenitori del modello tradizionale, lineare del DNA e del modello carcinogenetico mutazionale-stocastico non possono facilmente accettare l’idea che due sequenze genomiche poste su cromosomi differenti si congiungano per ottenere l’espressione amplificata e persistente di una proteina (mediante la formazione di un gene di fusione o l’esposizione di un dato gene all’azione particolarmente vigorosa di un enhancer o promoter di un altro gene) dovrebbero essere già chiare. Va da sé, infatti, che una tale rappresentazione è compatibile soltanto con un modello di genoma fluido, concepito come network molecolare sistemico e unitario, composto da migliaia di sequenze geniche (codificanti) e non, interconnesse tra loro e in grado di rispondere alle informazioni e sollecitazioni provenienti dall’esterno (e dalla cellula stessa) in modo attivo e per di più coordinato e finalizzato a un preciso scopo (il mantenimento di un equilibrio dinamico della cellula, del tessuto e dell’intero organismo). Un ruolo importante nell’ambito della cancerogenesi è infine svolto dai network degli RNA minori, il cui funzionamento appare alterato in molte forme di cancro. Gli RNA minori o microRNA (miRNAs) sono una famiglia di RNA di piccole dimensioni (18-24 nucleotidi) altamente conservata nel corso dell’evoluzione (sono cioè presenti in una forma molecolare quasi inalterata in organismi alquanto distanti sul piano filogenetico). Gravitano, per così dire, attorno al genoma e agiscono epigeneticamente, essenzialmente a livello post-trascrizionale, monitorando (per complementarietà di sequenza) la stabilità e la correttezza del trascritto. In tal modo, sono coinvolti nella regolazione della proliferazione cellulare e della morte cellulare programmata: non c’è quindi da stupirsi se una loro espressione alterata è di riscontro frequente in varie forme e localizzazioni neoplastiche, leucemie, linfomi e tumori solidi, tra cui CA gastrico e polmonare. 441


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Il ruolo e le modalità d’azione dei network di microRNAs sono particolarmente complessi. In genere si afferma che i microRNAs possano agire tanto da oncosoppressori che da oncogéni. Per quanto concerne il ruolo da oncosoppressori, questo può esser svolto tanto direttamente sui prodotti degli oncogéni, che indirettamente. Il primo meccanismo è stato dedotto dal fatto che in molti casi di Leucemia linfatica cronica (CLL) si ha una delezione della regione 13q14.3, che ospita il cluster miR-15a/16-1, che ha tra i propri bersagli proprio l’oncoproteina antiapoptotica BCL-2 che, di conseguenza, risulta iper-espressa (con meccanismo diverso da quello suddescritto per il linfoma follicolare). Per quanto concerne la seconda modalità (regolazione indiretta), è stato dimostrato che alcuni membri della famiglia miR-29 interferiscono direttamente sulle metiltransferasi de novo (DNMT3A e DNMT3B) e indirettamente sulle metiltransferasi di mantenimento (DNMT1), responsabili dello stato di metilazione delle regioni promoter dei geni oncosoppressori. Per quanto concerne il loro ruolo da oncogéni, questo è stato invece ricavato dal fatto che taluni microRNAs (miR-155, miR-21 e il cluster miR-17-92) sono regolarmente iperespressi in diversi tumori. Il MIR-21, in particolare, sarebbe implicato nella genesi di moltissime forme neoplastiche: CA mammario, ovarico, della cervice uterina, leiomiomi uterini, tumori cerebrali , CA pancreatici , epatocarcinomi, CA del colon, LLC, mieloma multiplo. Bisogna però sottolineare che non solo non è possibile suddividere in modo netto i microRNA in oncogéni e oncosoppressori, ma non sarebbe neppure corretto dedurre un loro ruolo oncogénico in caso di espressione aumentata o oncosoppressore in caso di espressione ridotta. E’ stato infatti dimostrato che il cluster miR15a/16-1, la cui delezione abbiamo visto essere in causa in molti casi di CLL, esercita un ruolo di contollo su circa il 14% del genoma, agendo tanto su oncogèni come il BCL-2, che su geni oncosoppressori e che molti miRNAs 442


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mostrano una duplice potenzialità d’azione. Inoltre il fatto che alcuni microRNAs interferiscano, come detto, con l’azione delle metiltrasferasi fa sì che essi possano agire tanto sul genoma nel suo insieme, quanto su singole isole CpG . Tutto questo risulta, evidentemente, di difficile comprensione nell’ambito di un modello di DNA o di genoma tradizionale, nel quale si tende a pensare che un’alterazione della sequenza codificante o dell’espressione genica non possa che determinare uno specifico effetto. Al contrario, nell’ambito di un modello di “genoma fluido” è certamente più facile interpretare le suddette alterazioni come variazioni (reattive) delle normali funzioni di regolazione epigenetica svolte dagli RNA minori ad esempio nell’ambito della differenziazione cellulare ematopoietica. Alcune possibili alterazioni nel ruolo di controllo svolto dai microRNA in questo ambito, che potrebbero essere all’origine di linfomi, leucemie e sindromi mieloproferative sono già state descritte. Per quanto concerne lo specifico meccanismo su riportato, la delezione della regione 13q14.3 e il conseguente blocco dell’azione oncosppressiva di miR-15a/16-1 che sembrerebbe svolgere un ruolo patogenetico-chiave in numerosi casi di CLL, potrebbe anche essere interpretato come l’effetto negativo di un meccanismo potenzialmente difensivo, al pari di quanto abbiamo visto per la traslocazione t14-18 di Seveso: in entrambi i casi l’espressione amplificata del gene antiapoptotico BCL-2 (che potrebbe essere stata inizialmente utile o comunque reattiva a una sostanza tossica) sarebbe diventata dannosa nel lungo termine a causa dell’attivazione eccessivamente protratta del meccanismo reattivo/difensivo (come detto del tutto diverso nei due casi). E’ infine utile ricordare come anche l’azione dei microRNA, al pari degli altri meccanismi di controllo e regolazione epigenetica dell’espressione genica, eserciti un ruolo di tramite e modulazione delle interferenze ambientali sul genoma, in particolare nell’ambito dei processi cancerogenetici connessi all’infiammazione cronica di alcuni organi e tessuti. 443


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A conclusione di questo contributo dobbiamo sottolineare come anche i dati epidemici sembrino contraddire alla radice il paradigma SMT. E’ infatti noto come negli ultimi tre decenni l’aumento di neoplasie abbia interessato tutte le età (e non soltanto gli anziani), compresi i bambini e in particolare i più piccoli tra loro (al punto che i casi di tumore del primo anno di età sarebbero circa otto volte i “casi attesi”): una situazione inconcepibile sulla base del modello SMT (se le mutazioni fossero realmente stocastiche, non si spiegherebbe un incremento così rapido). Se è vero, infatti, che il 60% dei tumori colpisce l’anziano (con 3/4 dei casi > 60 anni) e che soltanto l’1% di tutti i casi si verifica in bambini, occorre però sottolineare che in cifre assolute questo significa, vista la grande frequenza della malattia nel mondo industrializzato, che oggi in un bambino su 500 ca. viene oggi diagnosticato un cancro; che oltre 13 mila bambini si ammalano ogni anno di cancro nei soli US; che l’incremento di tumori in età pediatrica è stato negli ultimi 20 anni costante; che nonostante i significativi miglioramenti prognostici degli ultimi decenni il cancro rappresenta ormai la prima causa di morte per malattia in età pediatrica. Ma il dato in assoluto più preoccupante, come detto e come meglio vedremo, è l’incremento delle neoplasie del primo anno di vita: in primis perché, in questo caso, non è possibile proporre quale causa prima l’incremento/accumulo nel tempo di lesioni ossidative a carico del DNA e/o il progressivo indebolimento dei meccanismi di riparazione del DNA e/o le trasformazioni parafisiologiche (ipometilazione diffusa e conseguente instabilità genomica) legate all’invecchiamento (ageing) dei tessuti; ma anche e soprattutto in quanto, come è ormai noto, la gran parte di queste neoplasie è il prodotto di un’esposizione diretta del feto o dei genitori e dei loro gameti. Una evidente conferma di quanto sostenuto per decenni da Lorenzo Tomatis, circa la possibile trasmissione transplacentare - da esposizione embrio-fetale diretta a fattori fisici (es. radiazioni ionizzanti), biologici (virus) o chimici (xenobiotici) - e/o trans-generazionale - da mo444


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difiche epigenetiche o genetiche a carico dei gameti, potenzialmente accumulabili e trasmissibili da una generazione all’altra - del cancro (il che impone di prendere in seria considerazione l’ipotesi di una possibile amplificazione trans-generazionale del danno).

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Pier Mario Biava IL SENSO E L’ORIGINE DELLA VITA Dallo studio delle malattie tumorali emerge una nuova visione della comunicazione in biologia, in cui la malattia viene considerata una patologia della comunicazione ed il Vivente un sistema cognitivo Introduzione Per comprendere come il Senso, ovvero un’informazione significante dia origine alla vita, partiro’ dalla descrizione delle malattie, in cui si verifica la piu’ grave alterazione del processo di interpretazione dell’informazione ed in cui si verificano i piu’ gravi errori nella comunicazione fra cellule: le malattie tumorali. Piu’ precisamente iniziero’ dalle ricerche, che da molti anni sto perseguendo: partendo dai dati della letteratura scientifica che dimostrano come le sostanze cancerogene, quando agiscono durante la gravidanza nel periodo in cui si differenziano e si formano i vari organi ed apparati (organogenesi), non inducano tumori nella prole, mentre questo avviene allorche’ tale periodo e’ terminato, avevo ipotizzato che durante l’organogenesi dovessero esistere delle sostanze regolatrici in grado correggere le alterazioni provocate dai cancerogeni nelle cellule embrionali, che sono cellule staminali in via di differenziazione, impedendone la loro trasformazione neoplastica. Cio’ mi aveva indotto a verificare se dette sostanze regolatrici, nel caso esistessero veramente, potessero correggere anche le alterazioni gia’ presenti nelle cellule tumorali, ovvero se le cellule tumorali fossero in qualche modo simili a cellule staminali alterate, che si formano in un individuo adulto quando va incontro ad un tumore. In questo caso l’organismo adulto, completamente differenziato, non avrebbe piu’ la capacita’, presente invece nell’embrione, di correggere le alterazioni, che possono dare origine al cancro, in quanto gli mancano tutti i fattori di regolazione e di differenziazione delle cellule staminali, che sono invece presenti nell’embrione. Le ricerche intraprese per verificare queste ipotesi hanno portato ad individuare specifici fattori di differenziazione, che hanno dimo446


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strato di essere in grado di rallentare bod iniire la crescita di diversi tipi di tumori umani in vitro. I fattori isolati negli stadi in cui negli embrioni di ovipari (è stato scelto l’embrione di zebrafish come modello di studio del differenziamento cellulare, il quale ha circa il 90% di proteine simili a quelle umane) si differenziano i diversi tipi di cellule staminali sono stati sperimentati su varie linee di tumori umani in vitro: in tutte le linee si e’ avuto una riduzione significativa della curva di crescita rispetto ai controlli. Sono stati studiati i meccanismi d’azione responsabili di tale rallentamento della crescita: si e’ scoperto che i fattori che differenziano le cellule staminali normali sono in grado di bloccare il ciclo cellulare delle cellule tumorali, attivando geni o proteine importanti per il controllo della moltiplicazione e differenziazione cellulare, come l’oncorepressore p53 o la proteina del retinoblastoma. A seguito del blocco del ciclo cellulare, nelle cellule tumorali si verifica poi una delle due seguenti condizioni: a) vengono attivati i geni in grado di riparare le alterazioni che sono all’origine della malignita’ e, se le alterazioni non sono troppo gravi e sono riparabili, di fatto vengono riparate e le cellule si ri-differenziano, oppure b) se le alterazioni sono troppo gravi e non riparabili, vengono attivati i geni della morte cellulare programmata e le cellule muoiono. A livello sperimentale di fatto si sono registrati, a seguito del trattamento delle cellule tumorali con i fattori di differenziazione, sia un aumento dei markers del differenziamento cellulare, sia un aumento dell’apoptosi (morte cellulare programmata): in entrambi i casi le cellule tumorali escono dal ciclo della moltiplicazione indefinita e rientrano nella normale fisiologia. A dette ricerche vanno aggiunte quelle effettuate a livello clinico: l’aver percorso da lungo tempo la via di ricerca basata sullo studio del rapporto fra cellule staminali e cancro ha permesso di concepire un iniziale trattamento, che è stato sperimentato in uno studio clinico controllato, randomizzato, durato 40 mesi (dal 1° gennaio 2001 al 31 Aprile 2004) su 179 casi di tumori primitivi del fegato in fase avanzata.

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La comunicazione del vivente La possibilita’ di regolare l’espressione di diversi geni delle cellule tumorali ha portato ad ipotizzare e quindi a sostenere che la comunicazione in biologia avviene attraverso la significazione dei messaggi. Il grande problema che le ricerche effettuate presso i nostri laboratori pongono è infatti quello relativo alla spiegazione del perché la modifica del codice genetico in senso differenziativo risulti indispensabile nel determinare un comportamento più benigno della cellula tumorale. Per dare una spiegazione a questo quesito occorre prendere in considerazione la possibilita’ che sia il codice genetico, sia il codice epigenetico funzionino come codici di significazione e cio’ non metaforicamente, ma in senso letterale. Di fatto sappiamo che la differenziazione cellulare, che porta la cellula staminale totipotente, quale e’ quella dell’uovo fecondato a differenziarsi in diversi tipi cellulari, quali le cellule del rene, fegato, polmome, cervello ecc. consiste in una serie complessa di eventi. Nel corso di detti eventi agisce un codice, definito epigenetico, costituito da un diffuso network molecolare, che, regolando selettivamente in ciascuna cellula che si differenzia, l’attivazione o lo spegnimento di specifici geni, determina quali di essi debbano rimanere funzionanti e quali no. Cosi’ alla fine del processo di differenziazione ogni cellula differenziata, in ogni specifico tessuto, risulta avere alla base il medesimo DNA di tutte le altre cellule dell’organismo, in cui pero’ la parte dei geni codificanti attivi, cioe’ dei geni che sono responsabili della sintesi di proteine, e’ diversa in ogni specifico tessuto, rappresentando solo una frazione dell’intero DNA che puo’ essere codificato. Alla fine del processo di differenziazione comunque ogni cellula differenziata dispone di un ottimo codice genetico che rimane sintonico con tutte le altre cellule dell’organismo e che funziona come codice di significazione. Dire che una cellula possiede un codice per dare un senso preciso ai messaggi, equivale a sostenere che le molecole e tutti i fattori del microambiente che la circondano portano delle informazioni, che vengono da essa elaborate, decodificate, integrate e comprese in ciò che non solo rappresenta la forma, ma anche il conte448


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nuto dei messaggi: questi ultimi evocano quindi delle risposte adeguate a comunicare a tutte le altre cellule vicine o lontane il contenuto dell’elaborazione ed eventuali altri messaggi che si vogliono trasmettere. Come si possono dimostrare affermazioni di tale rilevanza? Per dimostrare quanto sopra asserito si puo’ esemplificare cio’ che avviene nel nostro organismo a seguito dell’introduzione di una nuova molecola di sintesi mai presente prima nell’ambiente. Supponiamo che questa molecola, con la quale l’organismo non e’ mai venuto in contatto e rispetto alla quale quindi non sa come comportarsi e quali vie metaboliche scegliere, dia luogo ad effetti tossici. Il fegato, che di solito e’ l’organo deputato alla detossificazione, anche se in contatto per la prima volta con questa sostanza, e’ in grado, non solo di recepirne la forma, ma anche di capire il contenuto del messaggio. Infatti la cellula epatica, se la sostanza e’ tossica, mette in atto diversi sistemi di detossificazione, e, se necessario, modifica anche se stessa, nelle sue capacità di velocizzare i processi biotrasfomativi, che portano la sostanza all’innocuità. Come è possibile che questo avvenga? Ciò avviene perché la completa differenziazione cellulare coincide con la formazione di un nuovo essere, che funziona come un’unica rete cognitiva. E’ l’emergere dell’identità organismica, di un nuovo sistema complesso adattativo, che fa sì che i sottosistemi acquisiscano la capacità di significare i messaggi. Ciò avviene in tutte le specie animali, anche negli organismi unicellulari, laddove comunque si formi una nuova identità, un’unità che funzioni come un organismo, ovvero un sistema complesso adattativo in grado di interagire con il proprio ambiente circostante. In altre parole, allorché si forma un organismo con una propria individualità, si vengono a creare quelle caratteristiche che gli studiosi della complessità attribuiscono ai sistemi complessi adattativi. E’ questa capacità complessiva che distingue un organismo da un insieme di cellule. L’organismo e’ molto di più della somma delle singole parti, proprio in virtù di queste capacità acquisite con l’organizzazione a sistema e a rete cognitiva. Occorre a questo punto precisare, tornando all’esempio della cellula epatica, che, se decontestualizzata e posta per esem449


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pio in vitro, essa non sarebbe in grado di “capire” il “significato” di tossico, in quanto le mancherebbero i collegamenti con la rete, da cui derivano tutte le informazioni utili per la significazione. E’ infatti la rete organismica ad informare la cellula epatica, che la molecola è “tossica, cioe’ in grado di provocare danni a livello di organi diversi. Orbene i danni provocati comportano la produzione di varie molecole, che non si ritrovano in condizioni fisiologiche e che sono per l’appunto espressione del danno. Quando tali molecole arrivano alla cellula epatica, questa ne registra la presenza, integra i vari segnali e comprende che una sostanza estranea all’organismo sta provocando danni. Cosi’, seppur in contatto per la prima volta, la cellula epatica sa che deve indirizzare tale sostanza estranea a vie metaboliche che la portano a perdere la tossicita’. Invece se la cellula non fosse contestualizzata, le mancherebbero le informazioni che provengono dalla rete e, non sapendo quali scelte fare, verrebbe uccisa dalla presenza di un tossico. Ecco perché le cellule decontestualizzate muoiono facilmente, mentre quelle in rete, resistono agli attacchi esterni e sono resistenti. E l’organismo che rende la singola cellula, che fa parte del suo contesto, robusta, intelligente e capace di significare i messaggi. E’ dunque il contesto ad avere importanza: esso fa si’ che le varie reazioni chimiche o chimico-fisiche che in esso avvengono, non siano espressione di semplici eventi meccanici e di un determinismo cieco. E’ il contesto che indirizza l’informazione e fa si’ che una medesima molecola possa dar luogo in contesti diversi a comportamenti diversi. espressione di semplici eventi meccanici e di un determinismo cieco. A livello biologico, dunque, esistono diversi gradi di libertà di scelta: essi determinano i comportamenti intelligenti volti a mantenere la vita stessa. La vita e l’informazione sono inscindibilmente connesse: l’informazione ed i comportamenti intelligenti sono immanenti alla materia, a tutti i livelli della vita. In tale spazio di liberta’, a livello organismico le cellule, dunque, comunicano fra di loro in modo intelligente e ciascuna di esse si adegua alle esigenze delle altre. Questo avviene in quanto i codici genetico ed epigenetico, pur nella loro plasticità, usano lo 450


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stesso schema per decodificare ed interpretare i messaggi. Sono codici che sono stati modulati durante l’embriogenesi, che sono stati regolati in modo diverso in ciascuna cellula differenziata, ma che in ciascuna cellula sono rimasti sintonici e sin-significanti con tutte le altre. L’esempio di livello di comunicazione più elevato presente nella vita si ha proprio durante la gravidanza, quando due esseri collaborano a rinnovare la vita stessa. Da ulteriori studi effettuati nei nostri laboratori, oltre a quelli già menzionati, e’ risultato infatti che durante la gravidanza la madre coopera in modo decisivo allo sviluppo embrionario e che l’utero non e’ un contenitore meccanico, ma un organo di regolazione. In particolare e’ stata isolata dalla mucosa di utero gravido di diversi mammiferi una frazione a basso peso molecolare, inferiore a 10 kDaltons in grado di inibire la crescita di vari tipi di tumori in vitro, inducendo nelle cellule tumorali una via metabolica, che porta alla morte cellulare programmata. Tale frazione e’ già presente nella mucosa di utero gravido al momento dell’impianto dell’uovo fecondato, molto prima dunque che si formino i diversi organi ed apparati dell’embrione, compreso il cervello. Essa e’ inattiva sulle cellule normali, mentre sembra essere in grado di individuare e distruggere qualsiasi cellula, che devia dal normale sviluppo, sia questa una cellula tumorale, sia un linfocita attivato, che può mettere in pericolo la vita dell’embrione. Detta frazione e’ stata pertanto da noi chiamata “Life Protecting Factor” ad indicare un meraviglioso colloquio che avviene fra madre e bambino, in cui i significanti sono rappresentate dalle tracce di molecole, invece che di onde sonore, ma in cui i significati vengono chiaramente comunicati. Noi non siamo in grado di cogliere questa comunicazione che avviene a tutti i livelli dell’universo, perché abbiamo un limite intrinseco, rappresentato dalla nostra mente, che e’ in grado di cogliere certe realtà e non altre. Per detto motivo occorre comunque tenere presente che la realtà, che noi studiamo e siamo in grado di conoscere con i nostri metodi sperimentali di semplificazione, rappresenta solo una piccola parte della realtà che ci circonda, che e’ invece molto più ricca e complessa. Così quello che si pen451


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sava essere solo un gruppo di cellule staminali senza significato, in realtà, dopo studi piu’ approfonditi, risulta essere qualcosa di molto diverso: e’ una nuova “realtà emergente”, cioè un nuovo essere e la madre lo sa: come abbiamo visto, lo sa, non in senso metaforico, ma letterale del termine. Essa protegge questo nuovo essere, che lei vede come un altro individuo diverso da sé, da curare e preservare. Il dialogo che avviene in ogni momento fra madre ed embrione e’ indispensabile per organizzare la vita. Quando questo dialogo si interrompe, la vita e’ messa in pericolo. E’ ciò che avviene anche in una persona che si ammala di cancro. Nel paziente oncologico c’è un dialogo, che si e’ interrotto fra l’individuo ed un gruppo di cellule, facenti parte di un sottosistema, che si e’ sviluppato, in cui i codici di significazione sono cambiati rispetto a quelli con cui tutte le altre cellule differenziate dell’organismo comunicano. Si tratta di codici legati ad una delle possibili configurazioni presenti negli stadi indifferenziati embrionari, appartenenti ad un sistema complesso adattativo (l’embrione), in cui il messaggio significativo di fondo e’: “organizza la vita”. E così la cellula tumorale organizza la propria vita, anche se questo avviene a spese dell’intero organismo, di cui di fatto essa non fa più parte. Si tratta di un problema di semiotica, ovvero di incompatibilità fra codici. Ecco spiegato il motivo per cui le cellule differenziate cooperano ed hanno un comportamento solidale, mentre le cellule tumorali hanno un comportamento distruttivo e maligno nei confronti dell’organismo adulto, anche se esse questo non lo sanno, non facendo parte di quel sistema. Il comportamento della cellula tumorale, dunque, non e’ un problema che riguarda solo la cellula ed i suoi geni. Per questo una spiegazione basata esclusivamente sui meccanismi molecolari, che vedono il processo come dovuto all’attività di geni e fattori di crescita, che spingono la cellula neoplastica verso una continua moltiplicazione, non mi ha mai completamente soddisfatto e mi ha obbligato a vedere il problema in termini di complessità. Di fatto il cancro rappresenta un sistema complesso adattativo, che cerca di auto organizzarsi: la progressione, la formazione di nuovi vasi sanguigni, la metastatizzazione 452


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a distanza, rappresentano le tappe evolutive di un sistema complesso, che cerca di realizzare la vita in tutti i modi. Questa complessità non era però facile da cogliere e da evidenziare. Credo comunque sia stato utile riflettere sulle modalità, con cui avviene la comunicazione nei sistemi viventi, in quanto così e’ emerso ancora meglio ciò che il riduzionismo non sa cogliere a livello della biologia: le relazioni fra entità in un contesto, le modalità di comunicazione nei sistemi viventi, i problemi legati all’incompatibilità fra codici. Da detta incompatibilità deriva il comportamento della cellula tumorale: non facendo parte dell’organismo adulto, essa evolve come entità autonoma. Solo il contatto con il “suo” microambiente embrionario potrebbe ristabilire la comunicazione. A livello dell’embrione vanno ricercati i networks differenziativi, ovvero le “frasi significanti” che possono aprire il dialogo fra tumore ed individuo ammalato. Si tratta di trovare gli specifici networks differenziativi per ogni specifico ammalato. Questa via e’ stata aperta: si tratta ora di percorrerla in modo completo. Il cancro rappresenta la più grave patologia della comunicazione a livello del corpo ed e’ l’equivalente della psicosi a livello della mente: entrambe le patologie distruggono l’integrità del sistema adattativo mente-corpo, quale e’ un organismo. L’informazione che viene portata attraverso le molecole e’ pero’ solo una parte dell’informazione che arriva alle cellule di un organismo. Vi e’ infatti da aggiungere che altre informazioni arrivano ad esse attraverso onde elettromagnetiche ed onde sonore. Al riguardo occorre citare le ricerche di Carlo Ventura, Professore dell’Universita’ di Bologna, con cui collaboro sul tema del differenziamento delle cellule staminali, il quale ha dimostrato che campi elettromagnetici di bassa frequenza ( 50 Herz) e bassa intensita’ (0,6 milli Tesla) sono in grado di differenziare cellule staminali embrionali fino a cellule di specifici tessuti, come quello miocardico. Inoltre le cellule, nei diversi passaggi differenziativi, se poste in contatto con biomateriali, compiono una serie di movimenti che servono ad esse per decodificarne in modo intelligente la forma e dar luogo a tessuti che hanno le conformazioni che si desiderano. Infine lo 453


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stesso Professor Ventura e’ riuscito a registrare onde sonore emesse da cellule di lievito poste a diverse temperature e nel momento della loro degenerazione e morte cellulare. Orbene i lieviti emettono suoni puri a frequenze sempre piu’ elevate, ovvero suoni sempre piu’ acuti, quanto piu’ elevata e’ la temperatura a cui si trovano, mentre emettono rumori di fondo, ovvero suoni non puri, nel momento della loro degenerazione e morte. Inoltre occorre tenere presenti anche le ricerche del Professor Emilio Del Giudice sull’acqua informata e supercoerente delle strutture biologiche per comprendere in modo esaustivo come possa avvenire la comunicazione nei sistemi biologici. A questo punto abbiamo un quadro di riferimento completo che ci permette di concludere che le cellule comunicano fra di loro utilizzando informazioni trasportate da molecole, che agiscono nel breve raggio, oppure informazioni trasportate attraverso onde elettromagnetiche e suoni, che si trasmettono a distanza nel lungo raggio e che indirizzano le molecole esattamente sui target dove esse dovono andare. Tutte queste informazioni costituiscono un vero e proprio concerto che permette alla vita di avere origine e di mantenersi nel suo equilibrio: e’ questo un concerto, che probabilmente ha dato origine all’universo intero, compreso il nostro piccolo pianeta ed alla vita che in esso successivamente si e’ formata. Certamente la nascita e l’evoluzione dell’universo sono stati eventi densi di fascino: questi eventi e questi percorsi che alla fine hanno dato origine alla vita fino alla comparsa della coscienza sono stati in parte ricostruiti. All’inizio un suono fragoroso, il Big Bang, coincide con una grande esplosione in seguito alla quale nuvole di gas si espandono a grande velocita’. Questi gas, in un processo che dura miliardi di anni, danno poi origine ai primi nuclei di materia condensata, che costituiscono le stelle e da queste, attraverso un processo evolutivo di grande complessita’, emergono nuove realta’ e nuovi mondi qualitativamente diversi: dalla materia non vivente emerge la materia vivente che da’ luogo a forme di vita sempre piu’ complesse, comprese le forme coscienti ed autocoscienti. In questo lunghissimo processo evolutivo ogni volta che emerge una nuova re454


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alta’ emerge un nuovo mondo, che risulta essere qualcosa di diverso qualitativamente dal precedente e che rappresenta una realta’ che non puo’ essere considerata soltanto come la somma delle realta’ precedentemente espresse. L’evoluzione dunque porta con se’ al manifestarsi di potenzialita’ inespresse, che pero’ dovevano essere presenti, seppure in modo non ancora attualizzato, fin dall’origine dell’universo: un’informazione significante che da’ origine dapprima ai gas, poi alla materia inorganica, quindi a quella organica, organizzandola infine in strutture via via piu’ complesse fino ad arrivare ai sistemi complessi adattativi coscienti ed autocoscienti doveva esistere fin da tale origine. Questi concetti, che da un punto di vista scientifico possono apparire sconvolgenti, sono di fatto in contrasto stridente con quelli espressi dalle teorie di Darwin e dai neodarwinisti: l’evoluzione naturale, imperniata sui concetti di caso e necessita’, oggi non si ritiene piu’ adeguata a spiegare la storia del mondo, costellata da grandi discontinuita’. La formazione di novita’ evolutive con proprieta’ emergenti puo’ essere invece spiegata da processi di cooperazione costruttiva, basati su specifiche informazioni, condensabili anche in precise formule matematiche (la formazione di vari organi ed apparati dei sistemi viventi puo’ essere infatti descritta da precise formule matematiche: sono ormai ben conosciuti gli algoritmi che descrivono ad esempio la formazione dell’albero circolatorio, dell’albero bronchiale e della formazione dei diversi organi ed apparati sia nell’uomo, sia in altre specie animali), in cui due o piu’ entita’ interagiscono tra di loro, dando vita a nuove realta’ con proprieta’ qualitativamente molto diverse. Cosi’ la formazione di nuovi sistemi complessi adattativi puo’ essere interpretata come legata, da una parte alla materia, per quanto riguarda le forze e l’energia, ma, dall’altra come legata ad una informazione significante, ovvero al Senso, per quanto ne concerne la complessita’ organizzativa. La sorpresa e la meraviglia a questo punto sono grandi: la scienza, dopo tanti progressi e dopo tante affannose ricerche arriva a concepire un processo evolutivo che e’ consistente con quanto viene detto nella notte dei tempi: “All’inizio era il Verbo”. Il 455


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Verbo, il Suono, la Parola danno origine alla vita. La Parola, il “Senso” ovvero un’informazione significante, che si trasmette in modo estremamente coerente, ha permesso nella notte dei tempi e permette in ogni momento la formazione della vita. Un’informazione significante permette infatti che, a seguito del concepimento, l’embrione si sviluppi e dia origine ad una nuovo essere. L’antica sapienza ha compreso migliaia di anni prima della scienza, che ha sempre preteso di essere l’unica detentrice della verita’ nel decifrare la realta’ oggettiva, cio’ che si annida nella profondita’ della materia: un’informazione coerente, che in-forma di se’ ogni cosa, origina in ogni momento la vita. Infatti solo un’informazione estremamente coerente puo’ dar origine ad un nuovo essere, considerato che, nel suo formarsi, esso va incontro a processi che avvengono ad una velocità impressionante e che alla fine portano ad una complessita’ vertiginosa, dando origine ad un organismo costituito da un milione di miliardi di cellule, tutte connesse fra di loro in maniera precisa e flessibile e tutte cooperanti in maniera meravigliosa nel mantenere l’equilibrio vitale. Solo un’informazione complessa e coerente, che si trasmette in modo armonico attraverso onde elettromagnetiche, onde sonore e molecole significanti e non un semplice processo di interazioni meccaniche e lineari fra molecole e cellule, come fossero palle da biliardo, puo’ originare e mantenere la vita. I limiti del riduzionismo scientifico Il riduzionismo scientifico, che invece basa la conoscenza solo sullo studio dei meccanismi puntuali, non riesce a vedere questi aspetti della complessita’ del vivente e diventa, in questa fase storica di sviluppo scientifico, molto avanzato, da una parte, elemento di freno allo sviluppo scientifico stesso, dall’altro un elemento di rischio e di pericolo per le possibili conseguenze a livello delle ricadute tecnologiche. Infatti la presunzione scientifica che sia vero solo cio’ che e’ oggettivabile attraverso l’evidenza sperimentale basata sulla raccolta di elementi puntuali, che rappresentano un’aspetto infimo della realta’, senza portare a sintesi tutte le informazioni, rappresenta un 456


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atto di superbia intellettuale, che ormai fa parte di posizioni storicamente superate e che dunque dovrebbe essere a questo punto definitivamente abbandonata. In questa fase storica il pericolo maggiore, se non si abbandona questa visione limitata e parziale della realta’, risiede nella pretesa portata avanti dagli uomini rappresentanti dello scientismo riduzionista, di procedere ad applicazioni tecnologiche, come le manipolazioni genetiche, la clonazione, la modificazione delle reti biologiche, le cui conseguenze pratiche sono tuttora imprevedibili. Se la scienza infatti si fa guidare solo dalla possibilita’ tecnologica, ovvero dal puro potere tecnico amorale, puo’ condurci a situazioni catastrofiche. Questo e’ il vero problema legato alla supponenza del riduzionismo scientifico, dovuto solo alla sua posizione di potere dominante che fino ad ora ha ricoperto: chi non si ritrova a condividere quel punto di vista si trova emarginato, bollato come oscurantista, contrario alla ragione pura e luminosa della scienza e pertanto degno di essere messo al bando. In fondo la storia si ripete sempre uguale a se stessa: nel Seicento erano stati messi al bando proprio coloro che volevano uno sviluppo della scienza basato sulla razionalita’ e sull’evidenza sperimentale. Ora che i sostenitori del razionalismo scientifico sono in posizione dominante, nel momento in cui emergono a livello scientifico nuove realta’ sia a livello di fisica quantistica, sia di biologia e medicina della complessita’, questi stessi razionalisti, pretendono di fermare, da un lato, lo sviluppo della scienza e la formulazione di nuovi paradigmi scientifici e, dall’altro, di procedere verso applicazioni tecnologiche su basi di conoscenze molto parziali, le cui ricadute a livello dell’equilibrio della salute e della convivenza umana, cosi come a livello delle reti eco-sistemiche, sono largamente ignote. A differenza dei periodi precedenti in cui le conseguenze del potere dominante si riflettevano in modo pesantemente distruttivo a livello dei singoli individui, ovvero direttamente sugli uomini di scienza, oltre che naturalmente sul rallentamento della conoscenza scientifica, ora le ricadute di certe posizioni di riduzionismo cieco, rischiano di avere conseguenze pesanti su tutta la collettivita’. Cio’ non significa sminuire 457


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la portata storica degli eventi che hanno determinato il rallentamento del progresso scientifico e sofferenze e drammi umani terribili in epoche passate, ma sottolineare che oggi il problema rappresentato da una visione limitata e parziale della scienza, che vuole pero’ essere egemone e dettare le regole del progresso e dello sviluppo scientifico e tecnologico, senza avere le capacita di comporne e gestirne la complessita’, rischia di porsi su basi ancora piu’ drammatiche. Cio’ che va sanata a questo punto e’ la frattura fra scienze umane e scienze della natura e superare questa dicotomia di cui ancora oggi stiamo pagando il prezzo. Bisogna tornare indietro ai filosofi presocratici per ritrovare l’agognata ricerca di verita’ fondamentali per il pensiero umano rivolto alla natura ed all’individuazione di un principio primo ( arche’) che la in-forma. Solo cosi’, con un approccio transdisciplinare ed integrato nello studio della natura, sara’ possibile comprendere molti aspetti che ora ci sfuggono ed avere una visione di insieme che possa preservarci il piu’ possibile dal commettere errori irrimediabili. Solo cosi’ noi potremo capire che i sistemi biologici complessi sono anzitutto dei sistemi informativi coerenti, che mantengono il loro equilibrio dinamico solo quando il flusso informativo di materia ed energia rispetta questa coerenza. La malattia come patologia dell'informazione Quando questa informazione coerente, che mantiene l’equilibrio vitale, viene invece alterata in modo piu’ o meno grave, inizia la malattia. La malattia dunque rappresenta una patologia legata ad una alterazione dei meccanismi con cui l’informazione si origina, si trasmette oppure viene decodificata. Su queste basi e su questi concettti si potrebbero interpretare e ri-classificare in modo diverso rispetto alla Medicina tradizionale tutte le malattie. Queste non sarebbero altro che espressione di una patologia dell’informazione, ovvero delle modalita’ con cui essa: 1) si origina, 2) si trasmette, 3) viene recepita a livello della membrana cellulare, 4) viene trasmessa all’interno della cellula, 5) viene decodificata ed interpretata dai codici di significazione. Esempi di malattie in 458


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cui sono presenti alterazioni all’origine dell’informazione sono rappresentati dalle malattie genetiche, in cui si puo’ avere l’alterazione di un gene ( 2 per cento di tutte le malattie genetiche) o di piu’ geni ( il 98% delle altre malattie origininate da alterazioni geniche); esempi di malattie in cui sono presenti alterazioni dei meccanismi deputati alla trasmissione dell’informazione sono rappresentati dalla BSE o sindrome della mucca pazza, in cui una proteina essenziale per la salute del cervello, che e’ stata sintetizzata normalmente dal gene corrispondente non mutato, assume una configurazione anomala dopo che e’ stata sintetizzata: cosi’ non e’ piu’ in grado di proteggere le cellule cerebrali, le quali al contrario vengono danneggiate da essa; esempi di malattie in cui sono presenti patologie della ricezione dell’informazione sono rappresentati da tutte le alterazioni dei recettori della membrana cellulare, mentre esempi di malattie in cui l’informazione viene trasmessa in modo patologico all’interno della cellula, sono tutte quelle legate ad alterazioni dei pathways metabolici a livello intracellulare. Infine, esempi di malattie dovute alle alterazioni della decodificazione dell’infornazione all’interno della cellula sono quelle legate alle modificazioni dei codici genetico ed epigenetico, costituiti da un gran numero di malattie. Ovviamente ci sono malattie in cui tutti i tipi di alterazioni, sia quelli legati all’origine, sia alla trasmissione, sia alla ricezione, sia alla decodificazione dell’informazione possono essere contemporaneamente presenti. Una di queste patologie e’ rappresentata proprio dal cancro, in cui di solito sono presenti sia alterazioni che comportano anomalie a livello dell’origine (alterazioni genetiche ed epigenetiche), sia della trasmissione (presenza di proteine anomale), sia della ricezione (recettori di membrana), sia della trasmissione intracellulare (alterazioni dei pathways metabolici all’interno della cellula neoplastica), sia della decodificazione (alterazioni dei codici di significazione) dell’informazione. Nel paziente oncologico esiste una patologia dell’informazione cosi’ grave, che si arriva ad una vera e propria interruzione del dialogo fra l’individuo ammalato e le cellule tumorali. Queste ultime di fatto non fanno piu’ parte 459


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dell’organismo a carico del quale hanno provocato la malattia, ma costituiscono un sottosistema, in cui i codici di significazione sono cambiati rispetto a quelli con cui tutte le altre cellule differenziate dell’organismo comunicano. Si tratta di codici legati ad una delle possibili configurazioni presenti negli stadi indifferenziati embrionari, appartenenti ad un sistema complesso adattativo (l’embrione), in cui il messaggio significativo di fondo e’: “organizza la vita”. E così la cellula tumorale organizza la propria vita, anche se questo avviene a spese dell’intero organismo, di cui di fatto essa non fa piu’ parte. Ci si trova di fronte alla piu’ grave patologia dell’informazione dovuta all’incompatibilità fra codici: si tratta di un problema di semiotica, oggetto cioe’ della scienza che studia il modo in cui i segnali vengono recepiti e formano un senso. In questo contesto trova spiegazione il comportamento distruttivo e maligno delle cellule tumorali, molto diverso rispetto a quello delle cellule differenziate, che cooperano fra di loro ed hanno un comportamento solidale. Di fatto il cancro rappresenta un sistema complesso adattativo, che cerca di auto organizzarsi: la progressione, la formazione di nuovi vasi sanguigni, la metastatizzazione a distanza, rappresentano le tappe evolutive di un sistema complesso, che cerca di realizzare la vita in tutti i modi. Questa complessità non viene colta dal riduzionismo tuttora imperante, a cui sfuggono le relazioni fra entità di un contesto, le modalità di comunicazione nei sistemi viventi, i problemi legati all’incompatibilità fra codici. Da detta incompatibilità deriva il comportamento della cellula tumorale: non facendo piu’ parte dell’organismo adulto, essa evolve come entità autonoma. Solo il contatto con il “suo” microambiente embrionario, come si e’ gia’ detto, puo’ ristabilire la comunicazione. A livello dell’embrione vanno ricercati i networks differenziativi, ovvero le “frasi significanti” che possono aprire il dialogo fra tumore ed individuo ammalato. Questa e’ la via che apre la possibilita’ di riceca per l’individuazione di quelle che possono essere definite terapie informazionali: questo e’ il primo passo che puo’ permettere di arrivare a terapie efficaci non solo nei confronti delle malattie tumorali, che per altro risultano le 460


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piu’ difficili da curare essendo le alterazioni presenti in queste malattie piu’ gravi che in altre, ma anche nei confronti di tutte le altre malattie, dove le terapie informazionali sono senz’altro piu’ semplici e probabilmente piu’ efficaci, essendo le alterazioni nel processo di comunicazione fra cellule meno complesse rispetto a quelle presenti nelle malattie tumorali. Si tratta pero’ di cambiare il paradigma di approccio complessivo alle malattie a passare dal riduzionismo alla complessita’.

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Capitolo VI TESTIMONIANZE

Manuel Daniel Coral DANIEL IL GUERRIERO Mi chiamo Daniel Coral, classe ‘89, vivo insieme alla mia famiglia a Prata di Pordenone e sono un ragazzo come molti, con tanti sogni e progetti che vorrei realizzare. La natura mi ha sempre affascinato, così quando arrivò il momento di decidere in quale scuola superiore andare, scelsi l’Istituto Agrario Corazzin a Piavon di Oderzo. Stavo frequentando l’ultimo anno, quando la mia vita cambiò radicalmente. A causa di un gonfiore al collo, che inizialmente avevo scambiato per una botta ma che non dava alcun segnale di volersene andare, decisi di recarmi dal medico di famiglia, il quale mi mandò a fare le analisi del sangue, che risultarono perfette. Non avevo nulla, né infezioni, né mononucleosi. Ma nonostante ciò, il gonfiore persisteva e dovetti sottopormi a una serie di visite specialistiche, l’esito delle quali mi cambiò per sempre: avevo un linfoma di Hodgking. Fu un duro colpo. Ero da poco diventato maggiorenne e non ero pronto ad affrontare ciò che mi avrebbe atteso nei mesi a venire. A gennaio del 2008 la battaglia ebbe inizio. I primi cicli di chemioterapia furono infernali, ma sembrava avessero fatto il loro dovere perché la malattia se n’era andata. Per festeggiare la guarigione, a settembre dello stesso anno organizzai una festa con gli amici. La felicità che avevo provato per l’esito positivo non durò molto. A ottobre, durante i controlli ai quali mi sottoponevo con regolarità, la malattia ricomparve. 463


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Strinsi i denti e ricominciai la terapia in attesa del trapianto autologo che feci nell’aprile dell’anno seguente. Era il 2009. Quando rientrai a casa, dopo un periodo di clausura in ospedale che mi sembrò interminabile, potei tornare alla mia vita; iniziai ad uscire con gli amici e ripresi a lavorare. Mi sentivo bene perché finalmente potevo vivere come tanti ragazzi della mia età. Con l’arrivo dell’inverno, però, la malattia sopraggiunse nuovamente. Era novembre quando ricevetti l’esito della TAC che avevo fatto durante uno dei periodici controlli a cui ero abituato.
Le chemioterapie ricominciarono e con l’inizio del 2010, a febbraio, feci il trapianto da donatore, del quale non sapevo nulla, se non che aveva origini tedesche. Successivamente dovetti affrontare dei cicli di radioterapia ma la speranza che, a breve, sarei potuto tornare a casa, mi aiutò a superare quello che era diventato un calvario. Ripresi in mano la mia vita fino ai primi mesi del 2011 quando, ancora una volta dopo aver fatto una TAC di routine, la malattia fece capolino. A luglio dello stesso anno mi sottoposi a una terapia sperimentale in preparazione del terzo trapianto che feci a marzo del 2012. Questa volta le cellule che mi vennero trasfuse non appartenevano a un donatore sconosciuto, erano quelle di mio fratello Manuel, ma anche se erano compatibili con me solo al 50%, percentuale che avrebbe delineato un trapianto complesso, valeva la pena tentare. Ad agosto fui ricoverato per una polmonite e i medici non diedero molte speranze alla mia famiglia, ma non mi conoscevano e non sapevano che avrei lottato con tutte le forze per tenermi aggrappato alla vita, E così fu, perché con la mia voglia di vivere riuscii a recuperare e potei tornare a casa. Durante il ricovero per il primo trapianto la mia ragazza Alessandra mi aveva regalato un quaderno bianco per spronarmi a scrivere ciò che provavo e che mi passava per la testa. 464


Era anche un modo per impiegare il tempo, dal momento che ero costretto a stare in isolamento senza la possibilità di ricevere visite. Con il passare dei mesi e con le continue ricadute, il numero dei quaderni aumentò e solo nel 2013 cominciai a prendere in considerazione l’idea di realizzarne un libro, che avrei intitolato “Io vincerò”. La presentazione venne fissata per il 23 ottobre 2013, durante i festeggiamenti della Pro Loco di San Simone a Prata di Pordenone. Ero entusiasta all’idea di poter parlare di quello che stavo passando e di come lo stavo vivendo, ma all’inizio di ottobre venni ricoverato a Pordenone a causa di forti dolori alla testa, che si rivelarono essere meningite. Quando dall’ospedale di Pordenone mi trasferirono in quello di Udine, le prime parole che rivolsi al medico furono: “mi dia pure le medicine che servono e faccia tutto ciò che è necessario affinché io mi rimetta in fretta perché il 23 devo andare alla presentazione del mio libro.” Ricordo ancora lo stupore del dottore. La mia situazione, infatti, non era delle migliori ma anche questa volta riuscii a recuperare e venni dimesso la mattina stessa del debutto. Dopo aver fatto la presentazione del libro e dopo aver visto quante erano le persone che si erano interessate alla mia storia, decisi di aprire, insieme all’aiuto di mio fratello, un gruppo su Facebook che porta tuttora il titolo del libro. In “Io vincerò” iniziai a scrivere ciò che provavo, come mi sentivo o cosa pensavo. Era un modo per esternare ciò che avevo dentro e, al tempo stesso, per mantenere il contatto con tutti coloro che mi avevano fatto sentire la loro vicinanza e affetto. Ad oggi il gruppo ha oltre mille iscritti da tutta Italia e, per un numero inferiore, anche dall’estero. Nei quattro mesi successivi alla degenza di ottobre, venni ricoverato altre quattro volte e la causa era sempre la stessa, meningite e il parere dei medici il medesimo: ad ogni ricovero dubitavano di una mia ripresa, ma si dove-


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vano poi ricredere perché riuscivo a superare anche quell’ostacolo e finivo con l’essere rimandato a casa. Dai successivi controlli che feci la malattia si presentò ancora una volta. Cominciai un nuovo percorso di chemio, ma finito il secondo ciclo, nell’agosto del 2014, tornai in ospedale per un blocco della muscolatura intestinale. Durò diversi giorni ma quando l’intestino riprese a funzionare, la febbre salì per un’infezione che aveva colpito il port, un serbatoio in titanio, che funge da catetere e viene utilizzato al fine di garantire un accesso venoso centrale, sempre disponibile per chemioterapie infusionali. Viste le mie condizioni i dottori non credevano che fossi in grado di affrontare un’operazione per la sua rimozione, ma con l’approvazione della mia famiglia l’intervento si fece e andò bene, ma dovetti sospendere le terapie perché mi avevano causato il blocco. Il 29 aprile tornai in ospedale. Questa volta si trattava di un’infezione intramuscolare e gli antidolorifici non facevano effetto, così i medici mi dovettero sedare. Ma anche con i nuovi farmaci rimasi sempre cosciente, ero consapevole di ciò che mi stava accadendo e riuscivo a parlare, mangiare e bere. Diedi un accenno di ripresa, ma non fu abbastanza. Il 26 maggio sono diventato un angelo dai riccioli scuri. Mio fratello Manuel insieme alla mia fidanzata Alessandra e a un’amica di nome Elisa, sta raggruppando i miei appunti per realizzare il secondo libro. Daniel, con la sua essenza, il suo carattere e la sua persona ci ha insegnato ad accogliere la vita nelle sue sfumature e a viverla pienamente, ci ha insegnato ad apprezzarla e rispettarla e a cogliere il lato positivo che esiste in ogni situazione, anche in quella più buia e dura. Il primo libro terminava con questa frase “la battaglia va avanti e io non ho affatto intenzione di mollare. Continuerò a lottare perché voglio vincere.” Ebbene, nonostante tu non sia più qui a lottare, per tutti noi hai stravinto. 466


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Non è importante quanto duri la nostra esistenza, ciò che conta realmente è come essa viene vissuta e Daniel l’ha abbracciata e respirata fino in fondo, sempre con il sorriso. Grazie Guerriero per essere stato così speciale!

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Ilaria Rio IL CIELO HA ALTRI COLORI Ero semplicemente una ragazza di 25 anni con un’estate, davanti a me, da vivere senza pensieri, circondata dai miei amici e con i miei animali. Il tempo scorreva come sempre...sì, ero già stata operata, ma tutto era finito, eravamo tornati alla normalità: avevo ripreso a praticare l’equitazione e andava sempre meglio, sempre più affiatata col mio cavallo, sempre più combattivi. Con i miei amici pensavamo di andare in campeggio per qualche giorno, giusto per cambiare, per fare una vacanza diversa....insomma, proprio la vita che conduce una venticinquenne, senza pensieri e con tanta vitalità. Io studiavo biologia a Messina, quindi ero una studentessa fuori sede, vivevo lì e, anche se era fine giugno, stavo ancora a Messina per un ultimo esame della sessione estiva. Un giorno, mi ha telefonato mia mamma per farmi notare che erano passati alcuni mesi (in verità qualcosa di più) e non era ancora arrivato l’esame istologico del primo intervento (che era stato fatto a marzo). Io non mi sono allarmata perché pensavo che i tempi si prolungassero sempre quando gli esami erano totalmente negativi. Mia mamma, invece, non si era arresa e quindi decise di contattare il chirurgo che mi aveva operata e che le confermò che, effettivamente, questo silenzio era un po’ strano e che si sarebbe informato con l’anatomo-patologo per vedere cosa stesse succedendo. Passavano i giorni e io continuavo la mia vita di sempre, fin quando un giorno mia mamma mi ha chiamata per dirmi che l’anatomo-patologo non era convinto di ciò che vedeva dai vetrini esaminati e che avrebbe voluto approfondire, inviando tutto ad un centro altamente specializzato, ad Aviano. Ignara di tutto e sostanzialmente fiduciosa, io le risposi che per me non c’era alcun problema e che avevano il mio consenso. Nel frattempo la mia estate era appena iniziata: esame dato, le mie cagnoline stavano benissimo, con l’equitazione andava sempre meglio e con i miei amici ci divertivamo da matti. Sempre in giro: la mattina al mare, a pranzo qualcosa al volo, il pomerig468


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gio al maneggio e la sera con gli amici. Tutto questo fino all’arrivo del referto da Aviano: loro confermano ciò che aveva già detto il primo anatomo-patologo ovvero che avevano trovato delle cellule tumorali appartenenti ai sarcoma a livello tiroideo. E da qui inizia tutto ciò che una qualsiasi ragazza di 25 anni non si aspetta mai di dover vivere.... Devo dire che, pur avendo avuto quel referto, non ero ancora entrata nell’ottica di ciò che volevano veramente dirmi con quella diagnosi, quindi ho continuato la mia estate aspettando che qualcuno mi chiamasse per dirmi ciò che dovevo fare....e così avvenne. Era ormai settembre e qualche giorno prima del mio compleanno mi hanno chiamata da Aviano dicendomi che il 23 settembre sarei dovuta partire per fare degli accertamenti, ma per non allarmare nessuno, insieme alla mia famiglia, decidemmo di tenere tutti gli amici all’oscuro, fin quando non avessimo avuto chiara la situazione. Il 21 settembre era il giorno del mio compleanno e decisi di festeggiarlo insieme ai miei amici; inutile descrivere il mio stato d’animo, ma per quella sera avevo accantonato tutto, volevo godermi il mio momento. Dopo due giorni sono partita per Aviano e da lì ha avuto inizio il percorso ad ostacoli più difficile della mia vita. Appena arrivata la prima cosa che ho notato era il colore del cielo, era totalmente differente da quello che avevo lasciato a casa, nella mia amata Siracusa, era più cupo, pieno di nuvole e c’era una pioggerellina che faceva avvertire ancora di più il freddo al quale non ero abituata. Il primo giorno mi hanno fatto un’ecografia con ago aspirato, poi il giorno dopo una risonanza, insomma, mi stavano studiando. Finiti i primi esami siamo tornati a casa perché non c’era nient’altro da fare, se non aspettare. Dopo qualche giorno arrivò la fatidica chiamata che avrebbe potuto avere due possibili risposte: o ciò che si vedeva dall’ecografia era solo una cicatrice, o erano cellulare tumorali........purtroppo erano proprio cellule tumorali. Ricordo ancora quel giorno, ero a letto per un riposino pomeridiano. Mamma mi sveglia dicendomi che c’era il medico di Aviano che voleva parlarmi, prendo la cornetta e sento, dall’altra parte del telefono, 469


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una voce che mi dice che ciò che si vedeva dall’ecografia era un tumore di pochi millimetri. Quelli sono degli attimi durante i quali o si è invasi da disperazione o ci si rimbocca le maniche e si affronta tutto con determinazione e io, senza perdermi d’animo, mi sono seduta sul letto ed ho chiesto quale fosse l’iter da seguire da quel momento in poi. La telefonata fu piuttosto lunga: io facevo tutte le domande possibili e dall’altra parte, con estrema delicatezza e gentilezza, mi arrivavano sempre le risposte appropriate. In verità non si e’ mai abbastanza pronti per capire cosa ci si possa aspettare, ma io mi sentivo sicura di voler combattere e vincere. Così iniziammo a prepararci per tornare ad Aviano, ma questa volta per iniziare le cure. Appena arrivata, la prima cosa che ho fatto è stato alzare gli occhi al cielo, con la speranza che avesse un colore più splendente, ma questa volta era ancora peggio: nebbia e umidità dominavano incontrastate con un’intensità che non avevo mai percepito. Era metà ottobre. Una volta arrivati in ospedale ci diedero delle indicazioni per andare a fare il ricovero, quindi salimmo al secondo piano e mi dissero che ero stata ricoverata in “area giovani”. Beh...già a sentire quella parola mi sono rincuorata, perché voleva dire che probabilmente avrei avuto a che fare con gente più o meno della mia età. Percorsi insieme all’infermiera e a mio padre un lungo corridoio fino a che non arrivai davanti ad una porta colorata in cui c’era raffigurato un leone...entrai e la camera era tutta colorata di giallo e arancione. Per un attimo quei colori mi fecero sentire fuori dall’ospedale e, come avevo previsto, nel letto a fianco al mio c’era una ragazza. L’atmosfera che si respirava era abbastanza tranquilla e il clima non rispecchiava quello che c’era all’esterno, grigio e umido, no, il clima lì dentro era solare; una cosa che porterò sempre nei miei ricordi sono i sorrisi di tutte le persona che entravano in camera, dagli inservienti ai medici, passando per gli infermieri e gli psicologi. Tutti sorridevano, tutti avevano una battuta pronta per far in modo di farti trascorrere due minuti del tuo tempo non pensando alle cure o agli interventi o a ciò che sarebbe stato della tua vita da quel momento. Un calore e un’energia molto particolari, 470


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mi verrebbe da dire quasi come in famiglia, una famiglia allargata. I primi giorni sono stati i più brutti però, li chiamerei “giorni della realizzazione”, quelli in cui realizzi veramente che tutto sta accadendo ed che sta accadendo proprio a te. Il primo giorno iniziai a conoscere i componenti della mia equipe, prima fra tutti la psicologa che mi avrebbe seguita lungo il mio percorso: una persona molto discreta, entrò nella mia quotidianità, quasi in punta di piedi e fu una cosa che apprezzai e che mi fece da subito aprire al dialogo con lei. La prima volta che arrivò iniziammo col presentarci e io le raccontai immediatamente quali erano le mie sensazioni, le mie paure e cosa temevo di più, ovvero il diventare schiava della malattia: quel giorno fu la prima volta che piansi senza freni, ma mi servì tantissimo per iniziare ad approcciarmi alla malattia nel modo equilibrato, senza sottovalutarla né farla diventare padrona della mia vita. Il colloquio durò abbastanza da farmi capire che lei non mi avrebbe mai tradita o delusa, temevo che mi dicesse di non piangere e invece no, mi diceva che avevo tutte le ragioni per essere arrabbiata, per essere dispiaciuta e questo mi fece comprendere che lei veramente capiva cosa io le volessi dire. Subito dopo incontrai i medici, alcuni di loro li avevo già conosciuti durante il primo controllo; fin da subito capirono che ero una tipa tosta, non lasciavo nulla al caso, ma li riempivo sempre di domande e loro, qualche volta col sorriso e qualche volta stringendo i denti, mi informavano e rispondevano sempre a tutto. Mi accorgevo sempre di più della fortuna che avevo avuto di stare in area giovani, c’erano proprio le persone che speravo di trovare, “persone”, appunto, e non solo “personale ospedaliero” che, oltre ad avere una preparazione eccellente, avevano la capacità di trovare sempre le parole giuste, persone in grado di affrontare qualsiasi situazione, persone formate per stare accanto a noi ragazzi. Può sembrare una cosa banale, ma non lo è affatto: gli adolescenti o i giovani adulti non affrontano un tumore come potrebbe affrontarlo un adulto o un anziano, non che gli adulti siano preparati a questo genere di malattia, 471


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ma provate a parlare o a far pensare ad un adolescente che dovrà affrontare cure che modificheranno innanzitutto il suo aspetto fisico, oppure provate a dirgli che non potrà uscire, non potrà fare sport, che quando le sue difese immunitarie saranno troppo basse non potrà nemmeno ricevere a casa delle visite, o addirittura provate a fargli capire che tutto ciò sta mettendo a rischio la sua vita........è difficile da far accettare, ma è altrettanto difficile da dire...ed è proprio in questo che le “persone” dell’area giovani hanno fatto la differenza, non c’è mai stato un attimo in cui hanno sbagliato l’approccio o le parole da utilizzare. L’Area Giovani dà fiducia al ragazzo, dà valore all’adolescente, ascolta quali sono le sue esigenze e arriva sempre a dei compromessi; sì, esistono delle regole che bisogna assolutamente rispettare per il bene del paziente, ma possono esistere anche delle eccezioni. Inoltre, provate a stare chiusi in una stanza grigia, in un posto grigio dove il sole si vede solo per qualche giorno, dove tutto parla di malattia....non si potrebbe mai resistere; provate invece a stare dentro ad una stanza colorata, anche se fuori non c’è bel tempo, anche se si è malati, comunque c’è colore ed il colore porta allegria e l’allegria porta al benessere e il benessere porta alla produzione di energie positive e queste ti aiutano ad affrontare la malattia in modo sicuramente differente. E le camere dell’Area Giovani sono tutte colorate!!! La prima notte fu la più brutta e la più lunga in assoluto: ricordo perfettamente che iniziai a sentire uno sconforto profondo e mi addormentai tardissimo solo perché ero veramente stanca, ma dormii pochissimo; alle 6:00 del mattino ero già sveglia e per evitare di disturbare la mia compagna di stanza, andai nel grande salone comune che c’era nel mio reparto. Anche lì guardavo il cielo e vedevo solo nuvole grigie, senza nemmeno un raggio di sole e iniziai a piangere perché pensavo solo di voler tornare a casa; nello stesso salone c’era un’inserviente che aveva da poco iniziato le pulizie, si avvicinò a me per chiedermi cos’era che mi faceva piangere, se la paura o la voglia di tornare a casa e io le risposi che volevo solo tornare a casa e immediatamente lei mi disse che aveva visto tante ragazze come me e anche più dispe472


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rate, ma che poi, una volta stabiliti i percorsi, ci si abituava e si comprendeva che c’era anche qualcosa di magico e positivo nello stare in quel posto. Io la ringraziai tanto per quelle parole di conforto, mi calmai e mi ripetei che probabilmente le sue parole erano vere e che avevo solo bisogno di mettere tutto al posto giusto. Mi alzai dalla sedia in cui ero seduta e, asciugandomi le lacrime, mi avvicinai alla grande libreria che c’ era nella sala comune in cui mi trovavo. Stavo dando un’occhiata ai libri e i miei occhi caddero su uno di quelli che erano riposti nel cestino dei libri restituiti: non ricordo il titolo esatto del libro, ma diceva più o meno che quando si pensa che non ci sia più nulla da fare, non è così perché la fine non è ancora arrivata. Sorrisi, tirai un sospiro di sollievo e mi affidai a quelle parole: da quel momento cambiai atteggiamento; avevo scaricato tutta la tensione e iniziai a pensare sempre positivo e ad affrontare tutto a testa alta. Quelli seguenti furono i giorni più lunghi, quelli in cui impari a conoscere gli altri e in cui gli altri iniziano a conoscere te, sono i giorni in cui senti veramente la mancanza di casa, senti la mancanza degli amici e di tutte le cose che ami; c’è un però....e il però era proprio il reparto in cui mi trovavo. La prima volta che fui ricoverata fu per mettere il port (un catetere venoso sottocutaneo che serve per iniettare le terapie chemioterapiche). In quei giorni fu pianificata la mia terapia e, dopo qualche giorno, iniziammo le cure. Sì, è vero, tutto fa paura, fa paura l’incognito, però io mi sentivo bene, ero sempre di buon umore...beh, alcune volte anche io avevo i miei momenti negativi, però il posto aiutava sempre a risollevare l’umore. Adesso posso dirlo a gran voce: l’Area Giovani ha reso la mia permanenza e la mia malattia più serene. Inizialmente si era optato per fare dei viaggi da Siracusa, ma era troppo dispendioso, sia dal punto di vista economico sia in termini di dispendio di tempo e di energie. I miei genitori decisero, allora, di prendere in affitto un appartamento. Quello è stato un altro passaggio molto importante per me: ero di fronte alla mia paura, dovevo abbandonare per un periodo (che non si 473


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poteva definire) la mia casa, i miei cani, i miei cavalli, i miei affetti e i miei amici. I miei amici potevo sentirli, i miei familiari pure, ma i miei cani e i cavalli? Loro sapevano solo che non c’ero Chi sa quanto io tenga agli animali, può capire benissimo ciò che provavo. Si stabilì la mia cura che prevedeva un periodo di chemioterapia, poi un intervento, che dipendeva molto dagli esiti che avrebbe dato la chemioterapia, e dopo, un periodo di radioterapia. Dopo la prima seduta di chemioterapia ho iniziato a chiedere al medico che mi seguiva sa avevo il permesso di tornare a casa anche solo per qualche giorno, lui era un po’ contrario in verità, ma avendo visto che il mio corpo era una roccia ed avendo lui un cuore immenso, ha capito che potevo affrontare il viaggio a patto che prima che le mie difese immunitarie potessero abbassarsi, dovevo tornare ad Aviano. E così fu fatto. La mia gioia era indescrivibile....finalmente potevo riabbracciare tutti, potevo ritornare a sentire i profumi della mia terra, di casa mia; mi sembrava di sognare, mi sembrava di essermi liberata di un peso enorme. Il viaggio andò bene...finalmente stavo per arrivare a casa dove, oltre ai miei cari, c’erano le mie due bassottine. Appena arrivata la loro festa fu immensa...nei giorni successivi non mi lasciarono nemmeno per un secondo. Il giorno dopo c’era un altro importante incontro che mi attendeva: i cavalli; in particolare il cavallo che monto da qualche anno: Red. Ero veramente emozionata, pensavo che non mi riconoscesse e invece appena gli ho fischiato, com’era mio solito fare, lui, dal suo box, ha iniziato a nitrire. Quella è stata la conferma che, pur essendo lontana, non era cambiato nulla .. Tutto ciò che mi apparteneva era lì ad aspettarmi e a tifare per me. In quei giorni mi accorsi di quanto speciale fosse la mia vita, in fondo era tutto al proprio posto, ma ero io a guardare con occhi diversi, ero io che iniziavo ad apprezzare tutto di più; alzai gli occhi al cielo e riconobbi il mio cielo, pieno di sfumature di azzurro, con i raggi del sole che accarezzavano il mio volto producendo un calore che riconoscevo come familiare, ma che avevo sempre dato per scontato. Tutto era più bello, tutto più prezioso, anche il 474


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profumo di casa mia era più avvolgente. I miei amici mi hanno accompagnata ovunque, senza farmi mai sentire sola o diversa. I giorni passavano e, purtroppo, non avevo ancora finito la mia lotta quindi siamo nuovamente ritornati ad Aviano dove ad attendermi c’erano sempre quei volti sorridenti che, al contrario di ciò che può sembrare, non mi facevano sentire distante da casa....sì, un pezzo del mio cuore lo avevo lasciato giù, ma in quell’ospedale, sentivo di stare sempre meglio e non solo dal punto di vista della salute, ma anche dal punto di vista emotivo. Ho trovato delle persone che mi hanno accompagnata durante tutto il mio percorso; mi è stato offerto un tutor per continuare i miei studi e mi è stata data l’opportunità di visitare anche il laboratorio di anatomo-patologia, considerando il fatto che ero studentessa di biologia. Ho iniziato la seconda seduta di chemioterapia, ho rasato i capelli perché pian piano iniziavano a cadere e dopo qualche settimana mi hanno ridato il permesso di scendere a casa, ma questa volta, capito quando mi si abbassavano le difese immunitarie, ho concentrato tutte le mie avventure di tenerezza e di affetto nei primi cinque giorni. Quando arrivai a casa, i capelli erano ormai caduti tutti ma è stato un aspetto a cui non ho mai badato: innanzitutto i capelli ricrescono e poi, in fin dei conti, sono solo un accessorio che siamo sempre abituati a portare. Anche i miei amici sono stati grandiosi, nessuno ha dato molto peso al mio cambiamento fisico, ci abbiamo sempre scherzato su. Con le mie amiche ci eravamo ripromesse di fare una foto alla mia testa pelata piena di baci dati da loro con il rossetto...che ridere; alla fine non c’è stato un momento per farla perché eravamo troppo prese dal divertimento e a goderci quel tempo per stare insieme. Non era proprio cambiato nulla. Ho ricominciato ad uscire con i miei amici, ho ricominciato a portare fuori le miei cucciolotte e sono finalmente risalita a cavallo.... finalmente il senso di libertà assoluta, tutto con molta cautela e sotto la supervisione dei miei genitori e delle mie amiche, ormai diventate super apprensive nei miei confronti. 475


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I giorni di quiete passavano e dovevo tornare ad Aviano per ricominciare la terza seduta di chemioterapia, ma, una volta lì, facendo tutti i controlli di routine, si optò per l’intervento chirurgico...non vi ho ancora detto che c’era qualcosa a rendermi speciale ed era la collocazione del mio tumore: finora non si era mai visto un sarcoma a livello della tiroide. Il protocollo che stavano usando stava procedendo abbastanza bene, ma non con la velocità che si aspettavano. L’intervento è andato benissimo, tutto è stato asportato e si era così conclusa la prima tappa. Subito dopo l’intervento mi hanno portata in terapia semi intensiva per precauzione. Lì il tempo sembrava veramente non passare mai, ma per fortuna anche lì ho trovato infermieri super divertenti. Il giorno dopo mi portarono nel reparto di chirurgia dove le regole erano un po’ meno flessibili rispetto a quelle che c’erano in area giovani. Il pomeriggio che ero in reparto, in area giovani stavano facendo una festa: c’erano i calciatori del Pordenone. Tutto a un tratto vedo spuntare nella mia stanza la mia psicologa e la mia dottoressa seguite da quattro dei calciatori: erano saliti per farmi una sorpresa. Che felicità! Finalmente anche in quel piano c’era un po’ di gioia, ma che durò poco perché, come dicevo, essendoci delle regole ben precise, non sono potuti rimanere a lungo. Io mi ero per un attimo rassegnata, ma poi...mi sentivo abbastanza bene e quindi chiesi a mia mamma di portarmi giù dove c’era la festa. Inizialmente le infermiere non volevano, ma poi, vedendo la mia insistenza e la mia testardaggine, mi diedero quindici minuti di “libera uscita”. Seduta sulla sedia a rotelle scesi giù e appena mi videro spuntare iniziarono ad applaudire. Ci fu un boato di felicità, di congratulazione che riecheggia ancora dentro di me. Gli occhi meravigliati ed entusiasti di tutti che non si aspettavano il mio arrivo. Io mi sentivo benissimo, mi sentivo energica. La settimana dopo l’intervento sono finalmente tornata a casa, anche se ormai mi stavo abituando alla vita avianese, a parte il freddo, avevamo trovato degli amici dentro e fuori dall’ospedale, ma era Natale e, com’è giusto che sia, ognuno doveva festeggiare con la propria fa476


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miglia e quindi, il 23 dicembre eccomi ritornata a casa. Tutto era proprio come lo avevamo lasciato: questa volta ero un po’ più pacata perché non potevo rischiare dato l’intervento fatto da pochi giorni, ma questo non mi ha di certo privata di vivere anche le piccole cose con tutta me stessa. I giorni passavano e tutto procedeva bene. L’appuntamento per tornare in ospedale per iniziare la radioterapia era fissato per il 30 gennaio, ma stava per realizzarsi un altro dei miei sogni nel cassetto: poter partecipare ad uno stage di dressage con uno degli istruttori più illustri, il padre della campionessa olimpica italiana Valentina Truppa. Vedevo già svanire il mio sogno appena ho scoperto che le date dello stage coincidevano con la mia partenza, ma anche in questo la mia equipe è stata fantastica, hanno posticipato di qualche giorno l’inizio della radioterapia e questo voleva dire che potevo partecipare (seppur non a cavallo) allo stage. In quei giorni mi sentivo talmente immersa nel mio mondo che tutto era tornato alla normalità...non temevo più nulla. Agli inizi di febbraio sono tornata ad Aviano con mia mamma e ho iniziato la radioterapia. I giorni passavano in modo veloce...andavo la mattina presto a fare la seduta di radioterapia e, la maggior parte delle volte, mi fermavo nella biblioteca dell’ospedale per poter studiare. È un posto molto accogliente, non sembra nemmeno di essere in ospedale. Durante quelle settimane mi fu proposto di partecipare ad un convegno in cui il tema principale eravamo noi adolescenti malati oncologici in rapporto con le strutture ospedaliere: finalmente qualcuno si occupava di noi e di come abbiamo bisogno di vivere all’interno degli ospedali; noi che siamo delle mine vaganti, noi che siamo sognatori, noi che siamo delle persone alle quasi sta accadendo qualcosa che non avremmo mai messo in conto nella nostra vita, per questo abbiamo bisogno di strutture nelle quali noi siamo i protagonisti e l’area giovani rappresenta proprio questo. L’Area Giovani, oltre ad essere un posto accogliente, è rappresentata in primis da persone che hanno veramente capito qual è la chiave giusta per poter aprire il cuore degli adolescenti e dei piccoli adulti, hanno capito come rivolgersi al loro “pubblico”... 477


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hanno fatto centro! Ero felice di poter raccontare la mia esperienza, di poter essere d’esempio a tante altre persone. I giorni passavano e la mia permanenza ad Aviano stava per finire. Il giorno della mia partenza era scandito da tante emozioni: non vedevo l’ora di poter tornare a casa definitivamente, ma sapevo di lasciare un pezzetto del mio cuore ad Aviano...mi sono emozionata nel salutare gli amici e nel salutare e ringraziare la mia equipe. Avevamo trovato dei veri amici che, in un momento così delicato, ci hanno aperto la loro casa, aiutandoci sia emotivamente che praticamente, facendoci adattare a quel cambiamento. Ma le notizie non finivano...quello stesso giorno mia mamma mi ha rivelato un segreto che teneva ormai per sé da quando eravamo salite per iniziare la radioterapia: una delle mie due bassottine (quella più grande), due giorni dopo la mia partenza, aveva avuto una paralisi alle zampette posteriori causata da un’ernia discale. Me lo ha tenuto nascosto per tutto quel tempo perché, conoscendomi, sapeva che non avrei sentito ragioni, ma che sarei voluta scendere anche solo per capire com’era la situazione. Quel giorno il tempo non era a mio favore, viaggiava troppo lentamente, sembrava che l’ora delle partenza non arrivasse mai...sembrava che la strada del ritorno fosse interminabile. Finalmente arrivata a casa mi fiondo da lei...non dimenticherò mai quella visione: lei indifesa che impazzisce di gioia nel vedermi, ma che riusciva a muoversi solo trascinando le zampette. Da quel momento in poi tutto ciò che avevo attraversato era svanito, il mio unico pensiero era farla stare bene. Io ho passato due giorni a piangere ininterrottamente e lei a leccare le mie lacrime. Io ero diventata le sue zampe... ovunque lei volesse andare, me lo faceva capire e io gliela portavo...dipendeva in tutto e per tutto da me. Il mio unico pensiero era quello di farla stare bene e di cercare di trovare una soluzione per vederla camminare nuovamente al mio fianco, per renderla indipendente. Mio padre, nei mesi precedenti, aveva già fatto molte ricerche trovando una ditta che produce dei carrellini per cani, così gliene ordinammo uno su misura che le permettesse 478


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di muoversi più liberamente. Nel frattempo io stavo facendo delle altre ricerche per vedere se esisteva una fisioterapia per questo genere di situazioni, se poteva esistere anche solo un minimo di speranza di rivederla su tutte e quattro le sue zampette. Fra le varie ricerche ho trovato degli esercizi da poterle far fare per ristabilire un’andatura spinale, un’andatura non comandata, ma istintiva... poi, cercando cercando, siamo venuti a conoscenza di un centro riabilitativo in una città più o meno vicina al mio paese e quindi due volte la settimana partivamo, io e lei, per andare a fare riabilitazione....fra la riabilitazione e gli esercizi che le facevo fare tutti i giorni lei migliorava sempre di più fino a quando, dopo circa 5 mesi, ha ripreso a camminare. La gioia era immensa: avevamo vinto anche questa battaglia! Adesso cammina, corre e gioca con la pallina, l’unica cosa che non riesce a fare è salire le scale, ma per il resto è tornata come prima. In quei mesi ho capito quanto sia semplice amare un animale quando è nel pieno delle sue forze, quando è così come siamo abituati ad avercelo; le difficoltà iniziano quando bisogna veramente accudirlo, in tutto e per tutto, ed è proprio lì che si nasconde l’amore vero. È facile amare e giocare con un cane che appena arriviamo scodinzola e ci salta addosso per farci capire la propria gioia, ma provate ad amare un cane che non può venirvi incontro e che non scodinzola, è difficile ma è un amore che non trova confini...il loro amore si nasconde dietro ad uno sguardo. Guardate il vostro cane negli occhi, è lì che capirete quanta devozione prova per voi. Io e la mia Kira abbiamo vinto ognuno la propria battaglia che ci ha unite ed ha rafforzato, ancora di più, il nostro legame. Mi chiamo Ilaria, adesso ho 27 anni e, come si è potuto capire, fra le varie cose nella mia vita ho avuto anche un tumore! La vita mi ha messo davanti a delle difficoltà che, per una ragazza della mia età, non avrei mai pensato di poter vivere, ma ce l’ho fatta, sempre con molta tenacia e con grande positività. Non posso che ringraziare tutte le persone che ho incrociato lungo il mio percorso, hanno contribuito a farmi vivere tutto in modo più leggero e dando il giusto peso ad ogni difficoltà. Ho impa479


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rato che nella vita non bisogna pensare a dei problemi che potrebbero un giorno verificarsi, ma bisogna concentrarsi solo sui problemi attuali e risolverli uno dopo l’altro. Ho imparato ad amare di più e ad amare le giuste persone. Ho imparato ad amarmi di più, ad esserci per coloro che chiedono e per chi merita. Ho imparato a circondarmi di gente positiva e che sorrida sempre. Ho imparato che le amicizie si manifestano nella loro totalità proprio in momenti come questi, senza giudicarti per l’aspetto fisico che cambia o per un’uscita che non può avvenire a causa di una stanchezza fisica. Ho imparato che si rivelano amici preziosi anche persone che hai conosciuto per caso, che ti aiutano a stare bene in un posto totalmente nuovo, che ti offro tutto senza aspettarsi qualcosa in cambio. Ho visto l’importanza che può avere una famiglia unita. Per tutto questo e per altro devo ringraziare la mia famiglia e tutti coloro che non hanno avuto paura, ma hanno lottato con me, tutti coloro che hanno protetto la mia vita e hanno unito le loro forze con le mie per vincere. Adesso ogni volta che torno ad Aviano trovo quelle amicizie che porterò per tutta la vita nel mio cuore perché hanno segnato e percorso con me un periodo importantissimo ed ho imparato anche ad apprezzare il colore del suo cielo: in fondo non è solo grigio, ha delle bellissime sfumature di grigio che celano un tocco di mistero. In fondo basta avere il sole dentro!

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Nicolae Soroncean DETERMINAZIONE Era il mese di aprile 2015, avevo già la conferma di essere stato accettato all’Università di Strasburgo realizzando il sogno di fare l’università in Francia. Avevo già pianificato tutto, mi rimaneva solo di superare gli esami di maturità e di realizzare quel sogno. Non pensavo che mi potesse capitare qualcosa che mi avrebbe cambiato la vita. Alcuni giorni prima del mio compleanno - 19 anni - mi sono sentito male, avevo sempre la febbre a 39,5 che non scendeva mai. Ho deciso di andare a fare gli esami radiologici. Avevamo scoperto che il mio cuore era coperto di gangliomi. In quel momento avevo già capito di avere il cancro. Non ci potevo credere che mi potesse capitare qualcosa del genere. Il giorno dopo mi sono sottoposto ad una biopsia. Si avvicinava il mio compleanno e avevo pianificato una gran festa, pero non è andata come mi sarebbe piaciuto. Al mio compleanno sono arrivati i risultati della biopsia che confermavano i sospetti: ero affetto da un Linfoma di Hodgkin stadio II. Considerando tutte le brutte novità, ho deciso di festeggiare il compleanno, cosi come avevo pianificato, pero i miei pensieri erano sempre alla malattia, non ci volevo credere. Abbiamo deciso di fare alcuni test a Bologna, con urgenza, visto che mia mamma è medico pediatra e lei voleva un’altra conferma di quello che avevano detto i dottori in Moldavia. Di seguito ho fatto la PET che mostrava il III stadio S (B), quindi la malattia era piu’ grave di quanto si pensasse. Vista la situazione avrei dovuto iniziare subito la chemio ma purtroppo fui costretto a rimandarla, per tornare in Moldavia a superare gli esami di maturità. Nella vita le cose cambiano tutti i giorni, anche ogni minuto. Essendo tornato in Moldavia avevo da superare 4 esami. Tutto è passato così veloce che, senza pensarci, gli esami li avevo già superati. Non sapendo ancora i risultati, sono dovuto tornare a Bologna a fare la visita cardiologica. I risultati mostravano un cuore che funzionava nel limite della normalità. Ho fatto e un’altra PET, i 481


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risultati hanno mostrato che la mia situazione era migliorata, perché durante tutto il periodo degli esami avevo assunto il cortisone, chei mi ha tenuto in forma e anche diminuito le dimensioni della malattia. Dopo aver fatto tutti i controlli necessari potevamo finalmente cominciare le chemio e i medici mi hanno detto che la prima seduta era programmata per il venerdì. Sembrava un semplice fine settimana, ma non era cosi, io facevo la prima chemio della mia vita e mi sarebbe piaciuto che fosse l’ultima. Tutti i miei sogni se ne sono andati via, h