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N. 40 - Giugno 2016 ISSN 2431 - 6739
Anno V
Il fantastico sociale. Il cinema di Citto Maselli Percorsi di cinema tra realismo lirico e impegno politico Classe 1930, Citto Maselli si è avvicinato assai precocemente al mondo del cinema. Delineando subito un percorso originale, segnato da un’interpretazione liberissima della Stefano Macera lezione di alcuni grandi maestri e dalla capacità di condurre a sintesi quelli che normalmente vengono considerati opposti. Per dire, in certe sue opere, l’indagine sociale e l’accensione visionaria non solo coesistono, ma sembrano alimentarsi a vicenda. Del resto, è inconsueto anche il modo in cui Maselli – comunista da sempre, prima nel PCI, oggi in Rifondazione – intende il rapporto tra creazione artistica e impegno. Lontano dalle secche di certo cinema militante, teso a diffondere certezze e imbrigliato in formule propagandistiche, egli ritiene che il “cinema politico” debba anzitutto proporre domande, suscitando discussioni il più possibile franche. E’ il suo modo di rispettare il pubblico, come sottolinea in questa intervista. In cui cerchiamo di suggerire dei percorsi
all’interno di una produzione vasta e ricca di segue a pag. 6
Il sottobosco italiano nell’arte di Pierfrancesco Uva
La deriva della politica culturale Su un quotidiano nazionale è apparso un articolo dal titolo “Roma, il tramonto della cultura: finito il Veltronismo, la Capitale si è spenta”. Intendendo ovviamente per “veltronismo” la politiStefania Brai ca dei grandi eventi, delle notti bianche, della Festa del cinema ma anche delle “case” del cinema, delle letterature, del jazz, eccetera. Credo che si debba iniziare proprio da qui per ragionare, a mio parere, sulla deriva che ha caratterizzato le politiche per la cultura – negli enti locali, ma non solo - esattamente a partire dalle politiche “veltroniane”. Parlo di deriva perché è proprio quell’idea di occasionalità, di eventismo, di pura immagine, di mercificazione e di privatizzazione di fatto, che ha provocato lo “spengimento” non solo di Roma e di tante altre città, ma della produzione culturale in generale nel nostro paese. Perché
con l’idea che la cultura è una “facciata” per abbellire il nostro territorio e magari per richiamare i turisti, non si va da nessuna parte. O meglio: si fa parlare di sé sulla stampa, “ci si fa un nome”, si “illuminano” per qualche giorno alcune città, si produce probabilmente un utile economico per i commercianti e forse – quando va bene - per gli albergatori, ma si finisce per contribuire esattamente a quella desertificazione che si dice a parole di voler combattere. Perché le istituzioni culturali pubbliche hanno come condizione di esistenza la certezza del sostegno pubblico e non l’incertezza degli sponsor privati; se siamo d’accordo che in quanto pubbliche non solo sono di tutti, ma devono avere come ragion d’essere l’utile culturale e dunque sociale: che vuol dire progettazione a lungo termine, vuol dire gestione affidata in base a concorso su un progetto culturale, vuol dire attività permanente sul territorio, vuol dire politiche economiche che consentano l’accesso a tutti, anche di giorno e non solo di notte o le prime domeniche del mese. segue a pag. 3
Jack Folla e la sacralità della comunicazione La mercificazione delle parole, il loro uso distorto, il tradimento della verità Sono uno scrittore che ama il silenzio. C’è una guerra delle parole in corso, non mi piacciono le guerre e ho troppo rispetto delle parole. Ma non sono neanche un vigliacco e penso sia Diego Cugia giunta l’ora di restituire alle parole la vita e il rispetto che meritano. Un impegno che dovremmo prendere tutti noi che parliamo con immagini, con libri, con articoli o come personaggi pubblici. In ogni parola c’è il seme che germoglierà il giardino di un pensiero o il bacillo della peste. Immagino che se Gesù, invece di duemila anni fa in Oriente, fosse nato trent’anni fa in Occidente,oggi irromperebbe nelle redazioni dei giornali, delle radio e delle tv, e caccerebbe molti mercanti dal Tempio della Comunicazione, mandando a gambe all’aria le loro bancarelle. Le parole, ormai, sono tutte pubblicità. Mercificate per ottemperare ai nostri bisogni. Invece di verità, produciamo slogan, dimenticandoci o ignorando colpevolmente che ogni parola ha un fuoco dentro, è sacra, perché ha il potere di dare la vita o la morte. Così le parole, non più illuminate, oscurano i nostri giorni. Il direttore del Tg 4, per esempio, ha scritto su “Libero” che bisogna radere al suolo il palazzo dove viveva la piccola Fortuna, vittima di un pedofilo e dell’omertà di alcuni inquilini. Ma che c’entra radere al suolo il palazzo? Allora i detenuti che hanno massacrato di botte il presunto assassino andrebbero liberati per buona condotta! Come puoi eccitare all’odio sulla tomba di una bambina? Sei il direttore di un telegiornale, non stai allo stadio a fischiare l’arbitro per un gol annullato, controllati. Nelle stesse ore, a radio 24, Cristiano De Andrè veniva intervistato sul suo libro autobiografico: «Ti droghi ancora?...Ma l’eroina la fumavi o ti bucavi proprio? Con l’ago, sì? Ah, con le pere?...E la cocaina? Ti fai ancora? Qualche volta? Mmm. Ma ti fai anche adesso? No? …Vuoi parlarmi di tua figlia?», parole come perline di un rosario nero, distribuite con petulante insolenza dall’ego-conduttore, perché era solo la propria autobiografia segue a pag. successiva
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