L'uomo e l'ambiente in Valconca

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Oreste Delucca

L’UOMO E L’AMBIENTE IN VALCONCA

Oreste Delucca, riminese, da più di trent’anni è impegnato nello studio delle fonti d’archivio per documentare l’ambiente, l’economia, l’urbanistica, le strutture sociali della sua città e del territorio circostante, con particolare attenzione ai secoli finali del Medioevo. Su tali argomenti ha pubblicato molti saggi e numerosi volumi monografici, tra i quali: Alessio Monaldi fra storia e mito, Rimini 1989; L’abitazione riminese nel Quattrocento. Parte prima: la casa rurale, Rimini 1991; I pittori riminesi del Trecento nelle carte d’archivio, Rimini 1992; La vite e il vino nel Riminese, Rimini 1994; San Mauro fra Medioevo e età moderna, Verucchio 1994; Artisti a Rimini fra Gotico e Rinascimento, Rimini 1997; Ceramisti e vetrai a Rimini in età malatestiana, Rimini 1998.

BANCA POPOLARE VALCONCA

Oreste Delucca

L’UOMO E L’AMBIENTE IN VALCONCA

BANCA POPOLARE VALCONCA

Leggere la valle del Conca attraverso i segni del millenario rapporto con le genti che l’hanno abitata: questo, in estrema sintesi, l’obiettivo del presente volume. L’avventura della valle parte da molto lontano e registra vicende alterne, con fasi di popolamento mutevoli per intensità e distribuzione territoriale; parallelamente sono venute mutando le forme con cui l’uomo è intervenuto sull’ambiente, piegandolo ai propri disegni, talora con azioni dolci e misurate, ma anche con atti pesanti o sconsiderati, salvo pagarne poi le conseguenze. Il filo conduttore che, in filigrana, si può cogliere senza interruzione, è la lotta quotidiana per estrarre da questa terra le risorse necessarie alla sopravvivenza; il che costringe a superare l’ottica meramente estetica e superficiale per scavare più in profondità, indagando le fatiche, i problemi, i successi e gli insuccessi delle comunità che si sono succedute nei secoli.


L始UOMO E L始AMBIENTE IN VALCONCA



Oreste Delucca

L始UOMO E L始AMBIENTE IN VALCONCA


In copertina e alle pagine 6-7, 8, 10, 20, 32, 44, 64, 84, 98, 108, 118, 122-123: Scorci della Valconca

Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata Deroga a quanto sopra potrà essere fatta secondo le seguenti modalità di legge: • Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla siae del compenso previsto dallʼarticolo 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633 ovvero dallʼaccordo stipulato tra siae, aie, sns e cna, confartigianato, casa, claai, confcommercio, confesercenti il 18 dicembre 2000 • Le riproduzioni per uso differente da quello personale potranno avvenire solo a seguito di speciÞca autorizzazione rilasciata dagli aventi diritto/dallʼeditore

GraÞca e impaginazione: Francesco Angeli © 2004 Minerva Soluzioni Editoriali s.r.l., Bologna MINERVA EDIZIONI Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (Bologna) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 info@minervaedizioni.com - www.minervaedizioni.com

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Oreste Delucca in questo lavoro racconta la storia di quellʼestremo limite della Pianura Padana ma anche primo avamposto dellʼItalia Peninsulare che è la Valconca, “da sempre zona di conÞne, area cuscinetto, tramite fra mondi diversi, veicolo di esperienze, crocevia di culture e di genti”. Il tredicesimo volume della collana editoriale della Banca Popolare Valconca è, quindi, un libro di storia. Non si tratta, però, della Storia che narra di grandi imperatori, di generali e cruente battaglie: qui si indaga la storia quotidiana, quella che hanno affrontato i nostri antenati nel difÞcile rapporto fra lʼuomo e lʼambiente circostante, nella quotidiana fatica del vivere che è, in fondo, la fatica di tutti noi: vita militia est, la vita è una guerra. LʼAutore, in particolare, vuole dimostrare che “il nesso fra demograÞa (che implica consumo di risorse) e agricoltura (incaricata di produrle) è sempre molto stretto: la crescita dellʼuna stimola la crescita dellʼaltra e viceversa, innescando una concatenazione di cause ed effetti”. Così scorrendo il libro leggiamo delle varie tecniche colturali che nei secoli si sono evolute: dal sistema del debbio (dare alle Þamme un pezzo di terreno incolto per poi lavorare la terra) alla tecnica del maggese (che costringe ogni anno al riposo la metà del terreno) Þno alla moderna rotazione agraria. La storia quotidiana, poi, si intreccia con la Storia (con la esse maiuscola). Anche la Valconca ha visto i Galli che hanno introdotto, fra lʼaltro, la pratica della vite “maritata” allʼalbero; ha conosciuto gli antichi Romani con le loro “centurie” e le antiche vie di comunicazione come la Flaminia minor, ha vissuto le rivoluzioni portate dalla scoperta dellʼAmerica come lʼavvento del mais e di quegli strani tuberi di cui scrive lʼabate Battarra “la Provvidenza fa ora che si comincia a introdurre certe radici forestiere come i tartufÞ bianchi, che chiamansi patate”. Se una rißessione Þnale può essere svolta a seguito della lettura del libro è certamente relativa al fatto che lʼuomo è condizionato dal momento storico-culturale in cui si snoda la sua vicenda terrena e dallʼambiente in cui è inscritto. Egli vive la sua vita in questo tessuto di esigenze, di stimoli, di grandezze e di angustie. Altrettanto evidente è, tuttavia, che lʼuomo non è mai completamente determinato dalle circostanze. Nel corso della sua storia personale e collettiva lʼuomo cerca la soluzione dei problemi. Questo è il compito dellʼuomo singolo e dellʼuomo nel suo contesto storico-sociale, nel concreto della storia personale e nelle contingenze della storia sociale e politica. Noi siamo condizionati dalla storia ma mai completamente determinati da essa. Ed ecco, quindi, la grande parola che sempre ritorna nelle vicende umane: la libertà. Libertà e storia: perché noi non siamo stati immessi nel ßusso del tempo senza una ragione.

Avv. Massimo Lazzarini Presidente Banca Popolare Valconca



INDICE

Premessa Dalla preistoria alla protostoria La romanizzazione Il primo Medioevo Il secondo Medioevo Lʼonda lunga della ruralità Lʼindustria del turismo Guardando al futuro: unʼaltra città “profondata”? Appendice: Morciano, la scomparsa e la rinascita Note BibliograÞa

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PREMESSA

Fin dalle sue lontane origini, lʼuomo ha subìto i condizionamenti della natura, ma al tempo stesso ha cercato di carpirne le risorse, piegarne le resistenze, modellarne le forme. Lʼimperativo di “assoggettare la terra” contenuto nella Genesi biblica, pur se messo in bocca alla divinità, è stato scritto dagli uomini e testimonia lʼancestrale consapevolezza di un potere sugli elementi, ma anche di un limite, dato dal doverne riconoscere i princìpi regolatori. Come i millenni seguenti hanno mostrato, lʼavventura umana – giorno dopo giorno – è segnata dal rapporto con lʼambiente nelle sue varie espressioni, ivi compreso il clima. Lʼuomo e la natura interagiscono di continuo, sono i due termini di una relazione ineluttabile. Una relazione non facile, tuttavia, perché la rapidità dei processi innescati dallʼuomo si scontra con i ritmi lentissimi della natura; perché quella umana è una storia di conquiste e innovazioni, mentre la natura ha come legge suprema la conservazione degli equilibri. Nel bene e nel male, comunque, il rapporto fra lʼuomo e lʼambiente costituisce la chiave di lettura fondamentale per comprendere le vicende di una società e di un territorio; nessuna seria analisi storica può prescindere da questa trama, salvo ridursi ad una mera sequela di avvenimenti dei quali non si riesce a cogliere il senso e la concatenazione. Sebbene i comuni libri di storia non sempre gli attribuiscano il dovuto rilievo, lʼentità del popolamento e la sua distribu-

zione sono i dati primari da considerare; la densità demografica influisce in maniera determinante sul modo in cui lʼuomo vive e soprattutto sul suo modo di rapportarsi con lʼambiente circostante. Lʼeconomia che instaura e i modelli che sviluppa per utilizzare le risorse disponibili, si legano strettamente al numero delle persone da nutrire: questo è il secondo grande tema da sottolineare, che implica fra lʼaltro una particolare attenzione allʼevolversi dellʼagricoltura, i cui livelli tecnico-produttivi sono spesso condizione di vita o di morte per molte persone. Il terzo punto, anchʼesso legato indissolubilmente ai primi due, riguarda lʼattività concreta che lʼuomo compie per mettere a proÞtto le risorse naturali, cioè le opere (non sempre razionali e durature) che intraprende, le manipolazioni con cui incide sugli assetti spontanei; in deÞnitiva gli interventi attraverso i quali rielabora lʼambiente trasformandolo in paesaggio antropizzato. Le pagine che seguono, si sforzano di guardare la valle del Conca mantenendo una costante attenzione ai fattori appena esposti. Lʼanalisi è necessariamente sintetica e schematica, ma proprio per questo tende a porre in massima evidenza i passaggi che, dalla preistoria ad oggi, hanno determinato i mutamenti più signiÞcativi. Per forza di cose vengono riprese alcune fasi storiche illustrate in altri volumi della collana; ma non si tratta di una ripetizione. Quando un oggetto è complesso, ci appare sempre diverso non appena cambia il punto di osservazione. 9



DALLA PREISTORIA ALLA PROTOSTORIA

Le prime tracce dellʼuomo in Valconca sono concentrate nel suo bacino inferiore e risalgono al Paleolitico, più precisamente ad un periodo compreso fra i 200.000 e i 150.000 anni fa. Il territorio, ormai emerso definitivamente, presenta un alternasi di aree boschive e di praterie, mentre nelle parti basse permangono zone paludose e lacustri. I segni di frequentazione umana sono offerti dagli utensili in pietra scheggiata rinvenuti lungo il Tavollo, presso il cimitero di Morciano, a Santa Maria del Monte di Saludecio e soprattutto nei terrazzi alluvionali di Gorguccia, Fagnano, Annibolina; qui la particolare concentrazione dei reperti fa pensare ad abituali luoghi di sosta delle genti antiche. Ma ritrovamenti ancor più significativi riguardano il greto del Conca dove, assieme agli strumenti in selce, sono afÞorati resti di animali (elefanti, rinoceronti di Merck, bisonti, megaceri, orsi, cervidi, equidi, castori) e di piante (abeti bianchi, faggi, ontani, noccioli), utili per ricostruire il quadro faunistico e botanico del periodo. Lo stato dei materiali recuperati induce a ritenerli parte in situ e parte ßuitati, confermando il carattere torrentizio del Conca e la forte capacità di trasporto alluvionale dimostrata in ogni epoca1. I primi frequentatori della valle sono nomadi o semi-nomadi; vivono in piccoli gruppi e si spostano entro un raggio non molto ampio, sfruttando le risorse offerte dallʼambiente terrestre, lacustre e marino. Sostano in ripari naturali o in primordiali ricoveri e sono cacciatori-raccoglitori, nutrendosi soprattutto di selvaggina, ma anche

di vegetali e frutti spontanei, pesci, crostacei, molluschi. La loro presenza, numericamente modesta, si inserisce nel territorio senza lasciare tracce evidenti, senza turbarne lʼassetto e la stabilità. Ma non è ovunque così. Lʼuomo paleolitico, essenzialmente carnivoro e oltretutto sprecone perché incapace di conservare la carne degli animali uccisi, allorquando incrementa la sua densità Þno a superare la soglia di equilibrio, mette in crisi se stesso e lʼeco-sistema nel quale è inserito, perché fatica a procurarsi il cibo occorrente e non concede alla fauna il tempo necessario per riprodursi. Se vuole sopravvivere, deve afÞnare i suoi comportamenti, innanzitutto imparando a conoscere meglio il bestiame e a sfruttarlo in modo selettivo (ad esempio risparmiando le femmine, i maschi più vigorosi). Lʼosservazione gli permette anche di individuare le specie addomesticabili, creando le premesse per lʼavvio della pastorizia. La produzione del latte e dei suoi derivati (burro, formaggio) offre nuove risorse alimentari senza bisogno di uccidere gli animali, quindi rappresenta un vantaggio significativo; oltretutto permette di conservarne una quota per le stagioni e i momenti di penuria. Quando poi risulta scarsa anche tale fonte, allora bisogna afÞdarsi in maniera più massiccia ai vegetali, intensificandone la raccolta e successivamente cominciando a coltivarli, per aumentarne la quantità disponibile. La pratica della cottura, attraverso il dominio del fuoco, conclude questo percorso. 11


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1. Ricostruzione ambientale del bacino del Conca in età paleolitica (diorama, Museo del Territorio, Riccione)

Passo dopo passo, incalzato dal bisogno, lʼuomo paleolitico mostra la capacità di trasformarsi, operando una vera rivoluzione, quella che gli studiosi convenzionalmente chiamano “rivoluzione neolitica”. Da cacciatore-raccoglitore diventa agricoltoreallevatore, da soggetto prevalentemente carnivoro passa ad una dieta a dominante

2. Un terrazzo della Gorguccia (Misano), sito abituale di frequentazione delle genti paleolitiche

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vegetale; discendendo di un gradino nella piramide alimentare ottiene un ampliamento della base energetica disponibile. Infatti lʼanalisi dei mezzi di sussistenza mostra che la produzione del medesimo quantitativo di calorie richiede superÞci diverse a seconda che venga ricavato dalla carne o dai vegetali. In altre parole, far crescere gli animali


DALLA PREISTORIA ALLA PROTOSTORIA

necessari per ricavare quelle determinate calorie richiede un territorio molto più vasto di quello occorrente per coltivare i cereali capaci di produrre lo stesso risultato. Invertendo i termini del rapporto, la sostanza non cambia: un dato territorio, se tenuto incolto, fornisce animali in grado di sostentare un certo numero di persone; se coltivato, può alimentarne molte di più. Lʼagricoltura è la risposta alle molte bocche imploranti una maggiore produzione per unità di superÞcie. Osserva giustamente Fernand Braudel: «cereali o carne, lʼalternativa dipende dal numero degli uomini»2. Nel percorso dal Paleolitico al Neolitico lʼuomo, evolvendosi da “predatore” a “produttore”, realizza i presupposti per ulteriori balzi demograÞci. E i mutamenti non si esauriscono in chiave alimentare, ma investono anche le abitudini di vita e le relazioni sociali. Infatti lʼagricoltore è vincolato alla terra che lavora e ai relativi cicli colturali, quindi deve

abbandonare il precedente nomadismo e divenire stanziale. Ancorato stabilmente ad un luogo, può pensare a ricoveri meno precari, costruendo capanne esemplari, ordinandole in villaggi, abbozzando le prime esperienze di organizzazione comunitaria. Col tempo si evolvono anche le strutture di servizio: accanto allʼabitazione sorgono gli stallatici del bestiame, le sedi ove si manipolano e custodiscono gli alimenti, dove si procede alla lavorazione delle pelli, delle ossa, della pietra, del legname, delle fibre animali e vegetali, della creta. Ecco un nuovo e fondamentale traguardo, Þglio anchʼesso della acquisita sedentarietà: la ceramica, che fornisce una gamma sempre più ampia e variegata di attrezzature, che esalta il senso pratico, la fantasia, il gusto dei suoi arteÞci e permette, a posteriori, di datare e riconoscere le varie culture attraverso lʼesame degli impasti, delle forme e degli apparati decorativi.

3. Sedimenti ßuvio-lacustri di età paleolitica con avanzi lignei, emersi nellʼalveo del Conca (presso San Giovanni in Marignano)

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L’UOMO E L’AMBIENTE IN VALCONCA 4-5. I pianori che si affacciano sul rio Agina e sul rio Alberello (Misano), prediletti dagli insediamenti neolitici

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Il Neolitico in Romagna La culla riconosciuta della neolitizzazione, avviatasi circa 10.000 anni fa, è da ricercare in Asia Minore, nella “mezzaluna fertile”, dove un crescente carico antropico accentua la scarsità di risorse alimentari e stimola la ricerca di nuove esperienze, favorite dalla presenza in loco di animali domesticabili e di cereali spontanei. Quando lʼallevamento e lʼagricoltura divengono pratiche ormai consolidate e mature, cominciano a diffondersi in tutte le direzioni attraverso i processi migratori e la trasmissione delle conoscenze. Circa 7.500 anni fa la cultura neolitica raggiunge le sponde meridionali dellʼAdriatico, risalendo pian

piano la penisola balcanica e la penisola italica; ha un segno distintivo comune e inconfondibile, dato dalla cosiddetta “ceramica impressa adriatica” che si caratterizza per le decorazioni ricavate con impressioni a crudo, fittamente distribuite nel corpo del manufatto. Con la risalita dei gruppi di agricoltori-allevatori verso nord3 e la graduale assimilazione delle popolazioni indigene, attorno a 6.500 anni fa il Neolitico giunge in Romagna. Le prime tracce riconosciute appartengono alle basse valli del Conca e del Marano; le sedi preferite si snodano in vicinanza dei corsi dʼacqua minori, esenti dai rischi di esondazione; prediletti risultano i pianori sul ciglio dellʼalveo, specie quelli esposti al


DALLA PREISTORIA ALLA PROTOSTORIA

sole di mezzogiorno. In Valconca seguono le direttrici del rivi Agina e Alberello; nel Riminese quelle dei rivi Marano, Roncasso e Rodella4. Gli insediamenti assumono di solito la forma del villaggio lineare, parallelo al corso dʼacqua; le singole capanne possiedono lʼossatura di pali e le pareti di siepi, formate con canne e ramaglie ricoperte da una intonacatura di creta che viene rassodata con lʼaccensione di fuochi tuttʼintorno. A contatto coi villaggi sorgono le prime “strade”, modesti sentieri che collegano lʼentroterra al mare, seguendo il percorso dei rivi. Vicino alle capanne si trovano ovviamente i recinti per il bestiame e gli eventuali ricoveri; oltre questi, i campi coltivati.

La messa a coltura avviene con il sistema del “debbio”, ponendo le fiamme allʼappezzamento che si vuole dissodare, per liberarlo dalla vegetazione. Le ceneri derivanti dalla combustione degli alberi, degli arbusti e della cotica erbosa contribuiscono a formare il concime che garantisce la produttività del suolo. Quando questa scende sotto i livelli accettabili, a causa delle ripetute semine, si “addebbia” un campo vicino, abbandonando il vecchio alla ripresa della ßora spontanea; recuperate le originarie capacità organiche, dopo un certo numero di anni potrà essere riutilizzato. Talora il sistema del debbio è praticato anche per ridurre a prato la selva.

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6-11. Reperti neolitici della “ceramica impressa” provenienti dalla sponda riminese del torrente Marano (analoghi a quelli più frammentari e deteriorati rinvenuti in Valconca presso il rio Agina): frammenti di ceramica decorata, intonaci di capanna, utensili in selce, conchiglie forate per collane

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Pur nella convinzione che i ritrovamenti archeologici offrano un quadro parzialissimo della rete di villaggi neolitici sorti nellʼarea, è lecito in ogni caso ipotizzare una occupazione del territorio abbastanza modesta, con un “impatto ambientale” assai limitato. Tuttavia il fenomeno non è da minimizzare; anzi, va rimarcato con forza, perché si tratta della prima fase in cui lʼuomo lascia la sua impronta nella valle del Conca, creandovi strutture permanenti, attivando percorsi praticati in continuità, modiÞcando alcuni lembi del tessuto arboreo spontaneo, allevando specie selezionate di animali e piante. A distanza di tanto tempo, le tracce residue sono molto ridotte; nondimeno risultano significative e rivelatrici. Le testimonianze provenienti dalla valle del Conca denotano strette afÞnità con quelle rinvenute nella valle del Marano, pertanto è lecito riferirsi anche a questʼarea, che ha restituito segni più evidenti e materiali meglio conservati. I resti maggiori si ricavano dalle buche utilizzate allʼepoca come fosse di scarico; talvolta le odierne profonde arature ne portano alla luce il contenuto, inserito nello strato antropico originario. Vi si trovano frammenti dʼintonaco delle capanne, che sul lato interno mostrano ancora il solco delle canne e dei rami ai quali aderivano. Numerosi sono gli avanzi ceramici, che evidenziano una grande varietà di forme e decori: compaiono grandi recipienti, ciotole di media grandezza, bicchieri; gli ornamenti sono realizzati mediante le classiche impressioni eseguite a crudo con le


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unghie o qualche strumento ligneo. Vastissimo è lʼapparato di utensili in selce: lame, lamelle, bulini, punte e raschiatoi, destinati allʼattività domestica, alla lavorazione delle pelli e del legno, alla caccia. Alcune selci conservano tracce di traslucido, mostran-

do dʼessere state impiegate nei falcetti: una prova indiretta ma importante della cerealicoltura in atto. Sono inoltre presenti accettine in calcarenite levigata5; grossi ciottoli calcarei adoperati soprattutto per il focolare; ossa di animali selvatici (cer-

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12-13. Sentiero neolitico lungo il Marano, evidenziato dalle recenti arature profonde

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vi, caprioli, cinghiali) e domestici (buoi, maiali, pecore, capre), alcune delle quali usate chiaramente come utensili; valve di molluschi marini, spesso forate per farne collane ornamentali. E accanto agli strati che rivelano il sito delle antiche capanne, sovente è ancora visibile la lunga linea bruna del primordiale sentiero che segue il corso dʼacqua e si dirige al mare. Dopo la prima “neolitizzazione”, in Valconca e nellʼarea riminese si registrano altri inßussi, nuove migrazioni, successivi insediamenti. Alla cultura della “ceramica impressa”, inizialmente si sovrappongono le culture emiliane e padane denominate

di Fiorano e dei “vasi a bocca quadrata”; nel Neolitico recente si affermano invece le culture di Ripoli e di Diana, provenienti dalle regioni centrali e meridionali. NellʼEtà del Rame, agli albori della metallurgia, è la cosiddetta cultura della “ceramica a squame”, derivante dallʼestremo sud, a marcare la sua presenza. La cosa non deve meravigliare: questa terra di Romagna, ultimo lembo della Pianura Padana, ma anche avamposto dellʼItalia peninsulare, è da sempre zona di conÞne, area cuscinetto, tramite fra mondi diversi, veicolo di esperienze, crocevia di culture e di genti. Si è anche ipotizzato – con qualche fondamento – che il ciclico alternarsi di tali ßuttuazioni sia legato alle oscillazioni climatiche e allʼinßusso che queste esercitano su alcune piante significative. Soprattutto il mutare dei limiti di diffusione dellʼolivo, con le sue inßuenze sullʼagricoltura, lʼalimentazione e gli stili di vita, potrebbe essere il motivo di alcune migrazioni. A partire da 3.800 anni fa si afferma la metallurgia del Bronzo (rame + stagno), che nella Valconca ha restituito qualche utensile agricolo. Le popolazioni qui insediate mostrano chiari legami con lʼarea medio-adriatica, segnata dalla cultura appenninica e sub-appenninica. Praticano soprattutto lʼallevamento; non a caso nella loro produzione ceramica prevalgono gli strumenti di supporto alla lavorazione dei latticini. I villaggi dellʼarea pianeggiante, alla destra e sinistra del Conca, sono interessati allʼagricoltura mentre la pastorizia, con limitati fenomeni di transumanza, domina la cerchia collinare (Montefiore, Gemmano) spingendosi nella media ed alta valle, Þno a raggiungere il massiccio della Carpegna e il Sasso Simone. Anche la successiva età del Ferro ha lasciato le sue tracce particolarmente nella zona pianeggiante, salvo qualche insediamento di collina (Montefiore) e isolati reperti da Tavoleto e Carpegna. In questa fase la valle è zona marginale, estranea agli inßussi villanoviani, gravitante semmai entro lʼoriz-


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zonte culturale piceno. Compaiono segni di occupazione etrusca, umbra e gallica, alternando momenti di depressione a momenti di maggiore vivacità, testimoniati da solide relazioni mercantili con lʼarea egea. Dunque, nellʼarco di quattro millenni, Þno a tutto il IV secolo a.C., nella valle si susseguono molte genti e culture, indubbiamente apportando elementi di novità, con qualche rißesso sullʼambiente: basti pensare al sentiero litoraneo (parte del tracciato pedecollinare emiliano-romagnolo), che si aggiunge ai vecchi percorsi di vallata, ora più frequenti e penetranti; basti ricordare, nelle coltivazioni, la pratica della vite

maritata allʼalbero che i Galli introducono sullʼesempio degli Etruschi. Ma sono pur sempre aspetti minimali, che non alterano in modo tangibile le peculiarità dellʼambiente; un filo continuo lega le differenti esperienze perché lʼoccupazione del territorio si mantiene modesta, caratterizzata dalla presenza di piccoli villaggi o nuclei agro-pastorali sparsi, minuscole isole allʼinterno di un paesaggio che conserva in larghissima parte i suoi tratti originari. In sostanza, nel lungo cammino attraverso la preistoria e la protostoria, la valle è appena segnata dallʼuomo.

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LA ROMANIZZAZIONE

Nel III secolo avanti Cristo su queste terre si abbatte un ciclone che ne cambia profondamente la Þsionomia. Ancora una volta è la bassa valle il principale teatro degli avvenimenti. La volontà di conquistare nuove terre da assegnare ai ceti proletari, non disgiunta dal richiamo che esercitava il mare Superum, aveva attirato lʼinteresse di Roma verso le regioni adriatiche. La conclusione della terza guerra sannitica e la vittoriosa battaglia del Sentino (nel 295 a.C.) aprono la strada a questo progetto. Risalendo gradualmente il Piceno, i Romani occupano la stretta fascia costiera e si insinuano nelle vallate; quando poi raggiungono e superano il promontorio di Focara, al loro cospetto si schiude il ventaglio immenso della Pianura Padana, uno spazio pianeggiante ampio come mai avevano visto, compreso fra il mare e la linea delle colline che se ne allontana, piegando a occidente. Nel 268 fondano Ariminum, testa di ponte per le future conquiste, capoluogo di una colonia che si estende fra il Rubicone e il Conca6. Inizia immediatamente lʼopera di sistemazione del suolo, con assegnazione alle 6.000 famiglie qui giunte dallʼItalia centrale, che assicurano la base produttiva e al tempo stesso garantiscono la difesa e il presidio del territorio. È possibile che la colonizzazione nella valle del Crustumium (forse chiamato così per iniziativa delle genti Sabine qui stanziate) abbia preso avvio Þn da allora; di certo si è largamente sviluppata a seguito della Lex Flaminia

(approvata nel 232), che espropriava lʼagro dei Galli assegnandolo viritim, cioè in forma spicciola, ai veterani. Le parole di Catone, riportate da Varrone, sono inequivocabili nel riferire a questa fase la messa a coltura delle terre comprese fra la città di Rimini e il conÞne Piceno. La valle del Crustumium e segnatamente la sua parte pianeggiante, la più idonea per realizzarvi il programma di sistemazione agraria caro ai Romani, costituisce il settore estremo della divisione centuriale cis Ariminum. Lʼordinato reticolo delle sue quadre (orientate sulla via Flaminia) è il risultato di un radicale intervento sullʼassetto originario: ampi disboscamenti; bonifica delle zone paludose e regimazione delle acque sparse tramite lo scavo di canali e fossati, scolanti verso il mare o verso il Þume; ripartizione in poderi; costruzione e allestimento di strade, sentieri, siepi, Þlari, recinti, fabbricati. Tutto questo determina un profondo sconvolgimento dellʼambiente naturale, anche per la densità della popolazione insediata7. La ßora e la fauna indigene vengono pesantemente ridimensionate, se non addirittura distrutte; anche le tecniche agrarie introdotte nella centuriazione rappresentano fattori di novità: nelle pratiche colturali, nelle sementi, negli attrezzi, nel bestiame. Naturalmente non tutto il suolo viene assegnato ai coloni; ne restano esenti alcuni pascoli lasciati allʼutilizzo collettivo, alcune selve (per lʼallevamento brado e le forniture di legna), specie lungo i corsi dʼacqua, do21


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14. La centuriazione riminese (secondo G. Chouquer)

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ve talvolta sorgono (o permangono) piccoli santuari e sedi di culti salutari. Lʼappoderamento ha luogo anche nei primi terrazzi alluvionali; e interventi minori sono pure presenti nelle aree collinari e pedemontane, dove ovviamente le forme dei campi non rispondono a rigidi schemi ortogonali, ma seguono piuttosto lʼandamento del terreno. In ogni caso, anche qui la deforestazione incalza, allo scopo di ricavare legname da lavoro e prati per il bestiame. Nonostante lʼintelligenza dimostrata nellʼimpostare le opere di sistemazione agraria (come le persistenze dimostrano, a distanza di tanto tempo), la molteplicità e il peso degli interventi creano senzʼaltro qualche scompenso di carattere idro-geologico, tra lʼaltro acuendo il carattere torrentizio del Conca (che fra tutti i Þumi della bassa Romagna e delle alte Marche ha la pen-

denza media maggiore); non a caso il poeta Lucano, nella sua Farsalia, lo definisce Crustumium rapax8. Se il depauperamento del manto boschivo e il soverchio utilizzo del suolo hanno ripercussioni limitate, in questa fase, ciò dipende da due fattori frenanti: la continuità e la scrupolosità delle opere di manutenzione dei corsi dʼacqua e dei canali, naturali o artiÞciali che siano; la situazione climatica piuttosto favorevole che accompagna i secoli della romanità. I resti della centuriazione La rete delle centurie – realizzata nel 232 a.C. in asse con lʼantica strada litoranea, ormai quotidianamente battuta dai Romani e che verrà sistemata di lì a poco (nel 220) diventando la via consolare Flaminia – non è scomparsa del tutto. Certo,


LA ROMANIZZAZIONE

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dopo oltre venti secoli la sua individuazione non può dirsi generalizzata, né facile: gli sconvolgimenti operati dai Þumi nelle età successive, gli impaludamenti, le diversioni degli alvei, ne hanno compromesso la persistenza in vari punti; inoltre non bisogna

dimenticare che alle primitive delimitazioni se ne sono sovrapposte altre, legate alle posteriori deduzioni di epoca triumvirale e augustea, mutando le dimensioni dei poderi, sebbene lʼassetto generale e lʼorientamento della lottizzazione sia rimasto invariato9.

15. Mappa delle centuriazioni riminese e pesarese nella bassa Valconca (secondo P. Campagnoli)

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L’UOMO E L’AMBIENTE IN VALCONCA

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16. Ipotesi ricostruttiva della centuriazione in Valconca (O. Delucca, 2004) 17. Via del Carro (Misano): un limite dellʼantica centuriazione 18. Via Massaro (lʼantica Mesoita, a San Giovanni in Marignano): un altro limite della centuriazione riminese

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LA ROMANIZZAZIONE

Le tracce della centuriazione riminese giungono Þno allʼodierno corso del Ventena, nel cui alveo un tempo scorreva anche il Conca; si deve quindi immaginare una vasta pianura, interamente divisa e sistemata, ampia quanto lo spazio esistente fra i rilievi di Misano-Annibolina e lʼattuale direttrice San Giovanni-Brescia. Si possono ancora riconoscere, Þn quasi a Morciano, tratti di carrarecce, fossati e Þlari; un elemento forte della maglia centuriale è dato dalla via del Carro, con un percorso omologo (lʼantica Mesoita) nella zona della Tombaccia, che oggi si trova al di là del Conca. Nelle aziende poderali ricavate dalla bonifica, le principali colture sono quelle

del grano e della vite. Il grano segue la pratica del “maggese”, derivata dagli Etruschi, consistente nellʼalternare un anno di semina con un anno di riposo. La vite (secondo la tecnica appresa dai Galli, ma pure essa di derivazione etrusca) è allevata con potatura lunga e sostegno vivo, generalmente di pioppi. Questi nuovi impianti viticoli, favoriti anche dalle condizioni climatiche del periodo, alquanto propizie10, assicurano ben presto rese elevatissime, che vengono esaltate dai maggiori storici dellʼagricoltura come Catone, Varrone e Columella11. Lʼabbondante produzione agricola, grazie al mercato economico e monetario in continua espansione, trova sbocchi nella città

19. Anfore vinarie di tipologia locale (Museo della Regina, Cattolica)

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L’UOMO E L’AMBIENTE IN VALCONCA 20. Resti dellʼinsediamento romano a Cattolica

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di Rimini, a Ravenna, nel porto di Classe e particolarmente a Roma. I mosaici di Ostia, grande terminale per gli approvvigionamenti dellʼUrbe, recano ancora memoria delle importazioni adriatiche; e la presenza del vino riminese nella Capitale è inoltre documentata lungo i secoli della tarda antichità12. Il grande processo di trasformazione e messa a frutto della valle, operato dai Romani, non si esaurisce nel sistemare il suolo predisponendolo alle colture; vanno sottolineati molti altri interventi che contribuiscono a segnare lʼambiente in misura sensibile. Basti pensare al patrimonio edilizio, dapprima fatto di modeste case in legno (che sfruttano il materiale offerto dai disboscamenti), ben presto convertite in strutture più solide e complesse. Lʼutilizzo su larghissima scala del laterizio (mattoni, embrici, coppi) rappresenta un fenomeno veramente rivoluzionario per queste terre; i primitivi ediÞci cambiano volto, conce-

zione e composizione; la casa viene dotandosi di speciÞci settori dedicati allʼabitazione, alla manipolazione dei prodotti, allʼammasso delle scorte, Þno ad assumere – negli esemplari più eclatanti – il carattere della villa multifunzionale. Parallelamente si diffonde la presenza delle fornaci, che in territorio riminese si dimostrano tanto attive da alimentare perfino correnti di esportazione: anche nella Valconca hanno lasciato tracce significative, specie in alcune aree della bassa pianura (Fagnano, Santa Monica). Alla rete delle case sparse, disseminate nelle centurie, vengono poi ad aggiungersi vari nuclei aggregati, differenti per ubicazione e funzione13. Uno di questi sorge nel sito dellʼodierna Cattolica, ai lati della Flaminia, divenuta ormai strada di grande trafÞco e dotata di fondo artiÞciale (unʼulteriore impronta della colonizzazione sul paesaggio). Il complesso dispone di


LA ROMANIZZAZIONE 21. Ipotesi ricostruttiva di una mansio, destinata ad ospitare uomini, merci ed animali (Museo della Regina, Cattolica)

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strutture per la sosta, il cambio dei cavalli, lʼalloggio per uomini ed animali, in chiara e diretta connessione con la via Consolare. Inoltre, la maggiore prominenza della punta di Gabicce e la linea più arretrata della costa bassa, in quei secoli determinano una sensibile arcuatura, formando un seno naturale riparato dalle correnti di levante, un approdo verosimilmente utilizzato per la pesca ed i trafÞci. La foce del Conca, del Ventena e del Tavollo (che a quel tempo si gettano congiuntamente in mare presso lʼabitato) contribuisce a formare uno scalo marittimo di tutto rispetto. A loro volta, gli storici della tarda latinità ci tramandano la notizia di un oppidum chiamato Crustumium (nei pressi del Þume

omonimo), esistente almeno dal IV o V secolo d.C. La posizione e le caratteristiche di questo insediamento non vengono precisate dalle fonti. Secondo una ipotesi autorevole, potrebbe trattarsi di uno stanziamento civile e militare fortiÞcato tardo-romano, posto a difesa di un obiettivo strategico – il ponte sulla via Consolare – contro le ricorrenti minacce dei barbari. È stato anche proposto un sito: lʼattiguo rilievo di Monte Vici, evidenziando una possibile continuità insediativa col castrum Conche, di cui si troverà menzione a partire dallʼVIII secolo14. Risalendo verso il cuore della valle, a tratti si incontrano vici o pagi, al centro delle aree più Þttamente appoderate, alla confluenza delle piste e dei sentieri collinari 27


L’UOMO E L’AMBIENTE IN VALCONCA

provenienti dai pascoli; si tratta di modesti villaggi, luoghi di raccolta e prima manipolazione dei prodotti, dotati generalmente di concerie, tintorie, Þlande, caseiÞci, poste per animali da carico e strutture simili. Fra questi, assume particolare importanza San Pietro in Cotto, posto su un esteso pianoro sopraelevato (perciò esente da ogni assalto del Conca), situato in posizione veramente strategica, alla confluenza col Ventena di Gemmano, allʼincrocio di percorsi e piste che collegano i vari siti circostanti. San Pietro si trova anche sul tracciato della cosiddetta Flaminia minor, la strada interna che, partendo da Rimini, si dirige in linea retta verso Roma puntando su Acqualagna ed evitando la lunga diversione costiera su Fano. La strada, che nei secoli del Medioevo verrà chiamata Regale o Romea al pari della Flaminia maior15, prosegue salendo a MonteÞore attraverso un percorso dotato di fondo artiÞciale (fatto con ghiaia e pietre) di cui è rimasta memoria in virtù del toponimo Pedrosa. Il nucleo di San Pietro in Cotto ha restituito una vasta gamma di reperti, molti dei quali signiÞcativi per il loro pregio architettonico e artistico, autorizzando anche lʼipotesi della presenza di una sede cultuale; in ogni caso, è certa la sua importanza sotto il profilo economico e demico, quantunque lʼassenza di scavi sistematici ne abbia impedito una migliore conoscenza sotto il proÞlo topograÞco e amministrativo. Nella piana valliva e nella prima cerchia collinare – quella rientrante sotto la giurisdizione della VIII regione augustea – le ricerche archeologiche (nonostante il loro carattere sporadico) hanno fornito altri materiali di rilevante interesse che testimoniano il Þtto distendersi della presenza romana: tracce di occupazione provengono fra lʼaltro da San Giovanni in Marignano, Misano, San Clemente, Morciano, Saludecio e Mondaino, per le quali si rimanda a resoconti speciÞci16. E dʼaltra parte, per avere conferma di questa ragnatela insediativa, basta richiamare i moltissimi toponimi di chiara ascen28

denza romana (specie quelli col sufÞsso in -ano) diffusi un poʼ dappertutto. Quanto alla media ed alta Valconca – facenti parte della VI regione augustea – ancora molte nozioni sono da acquisire. È possibile lʼesistenza di un municipium a noi ignoto; infatti la lista delle comunità civiche segnalate da Agrippa fra Romagna e Piceno, ne contiene più dʼuna tuttora da localizzare17. Di sicuro una porzione dellʼalta valle appartiene al municipio di Pitinum Pisaurense (Macerata Feltria), sito in un avvallamento intermedio fra i bacini idrograÞci del Conca e del Foglia. Pur in assenza di indagini sistematiche, testimonianze certe dellʼoccupazione romana provengono da Tavoleto, Montegrimano, Mercatino Conca e Montecerignone (dove la persistenza del toponimo “Caʼ di Vico” forse tradisce la memoria di un antico vicus o villaggio). Il diffuso riemergere di materiali laterizi, specie di età imperiale, in un contesto peraltro ricco di legname, oltre a confermare la capillarità dellʼinsediamento, mostra anche la forte capacità di penetrazione e il profondo radicarsi dei modelli di vita introdotti dai coloni. Quanto alla produzione, se le colture agricole non difettano, occupando i pianori più favorevoli, tuttavia qui prevalgono le risorse dellʼattività silvo-pastorale. I prati delle radure originarie, assieme a quelli derivati dal disboscamento, offrono spazio ad una Þtta rete di “aziende” impegnate ad allevare bestiame bovino, ovino e suino, cui si riconnettono le lavorazioni del latte e delle carni con i relativi commerci. Lʼaltra grande ricchezza proviene dal bosco: i faggi, i cerri e le querce che ricoprono lʼalta valle, uniti alle essenze diffuse a quote minori, alimentano una cospicua produzione di legname, richiesto per gli usi domestici, per i bisogni delle fornaci, per la falegnameria, lʼedilizia e la cantieristica navale. Ad assorbire questi prodotti sono i mercati di Rimini, di Ravenna e soprattutto la grande base marittima di Classe coi suoi arsenali (tanto da ricordare, per analogia, le cospi-


LA ROMANIZZAZIONE

cue forniture di alberi – trabes – che hanno dato il nome alla vicina Massa Trabaria). Al termine di questa veloce carrellata è possibile tentare qualche considerazione riepilogativa, cercando di cogliere quali segni incisivi, quale eredità, i secoli della colonizzazione romana in Valconca abbiano consegnato alle età venture. I primi elementi a richiamare lʼattenzione sono senzʼaltro quelli esteriori: lʼarrivo delle genti latine ha sconvolto un assetto naturale che nei precedenti millenni era stato appena scalÞto. Il primordiale manto boschivo ha subìto un forte ridimensionamento, radicale in pianura e nella bassa collina, meno intenso ma pur sempre signiÞcativo nella media ed alta valle. La volontà di conquistare ampie

superÞci alle colture ha portato a dissodare lʼintero suolo pianeggiante, risalendo anche le quote e penetrando negli interstizi vallivi Þn dove possibile; le modeste “isole” agrarie dellʼetà protostorica, disseminate in un mare di verde, sono divenute un continente vasto e articolato. Il principio di introdurre in modo sistematico la struttura agrimensoria centuriale, ha determinato una sostanziosa rielaborazione del paesaggio, sovrapponendo allʼandamento morbido e sinuoso dei profili naturali la spigolosità dei tracciati rettilinei e ortogonali tipici della centuriazione. Anche le cromie hanno registrato un visibile mutamento, perché fra le molteplici sfumature del verde e del bruno si è venuto sempre più insinuando il

22. Lʼampio terrazzo di San Pietro in Cotto, sede di un importante nucleo insediativo romano

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L’UOMO E L’AMBIENTE IN VALCONCA 23. Testa marmorea femminile da San Pietro in Cotto (Musei comunali, Rimini)

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colore biancastro delle strade a fondo artiÞciale e quello rossastro dei laterizi, ormai generalizzati. Un panorama, dunque, fortemente segnato dallʼuomo, causa ed effetto al medesimo tempo del cospicuo piano di popolamento (denso come mai era avvenuto prima) predisposto per questa terra, importante per la sua posizione strategica e per lʼintrinseca feracità.

Ma altri segni sono rimasti, meno visibili eppure non meno importanti. Innanzitutto lʼaffermarsi – per la prima volta, nella valle – dellʼeconomia di mercato in senso pieno; sono gli stessi meccanismi produttivi, impostati sulla specializzazione (nel settore agricolo come in quello silvo-pastorale), a presupporre il superamento dellʼeconomia di consumo e il prevalere dello


LA ROMANIZZAZIONE

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scambio. Dʼaltra parte è una impostazione che risponde alla domanda e ai caratteri del tempo: le dimensioni sempre più vaste assunte dal dominio di Roma, lʼintensificarsi dei trafÞci e la crescente richiesta di merci, lʼunità linguistica e la grande circolazione delle persone, che porta anche ad una apertura sul piano tecnico e culturale. Altro elemento da non sottovalutare è lʼapproccio ad una organizzazione politico-giuridico-amministrativa evoluta e fortemente strutturata, che si affaccia – anchʼessa per

la prima volta – in questa regione ed apre orizzonti nuovi rispetto alle esperienze passate, sostanzialmente di carattere tribale. InÞne, va ricordato il graduale affermarsi della religione cristiana, che diviene lʼelemento di continuità oltre le fratture della storia e rappresenta un motivo di identità e di amalgama, anche per la sua capacità di cogliere ed assimilare le tradizioni e le peculiarità delle varie genti latine e perÞno di quelle protostoriche, pur duramente soggiogate sotto il proÞlo politico e militare18.

24. Lastra marmorea da Carbognano, che menziona i collegi professionali dei fabri e dei centonari (Musei comunali, Rimini)

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IL PRIMO MEDIOEVO

Come è noto, la colonizzazione romana, descritta or ora in modo sommario, non costituisce un processo lineare; registra una fase impegnativa di impianto e consolidamento, cui fa seguito il lungo tempo della stabilità e, più tardi, la china del deterioramento e del declino. Fra III e IV secolo la crisi politica ed economica dellʼImpero dʼoccidente giunge ad uno stadio avanzato, coinvolgendo ogni aspetto della vita associata: lʼorganizzazione amministrativa, giudiziaria e militare pian piano si dissolve; la difesa dei conÞni e delle stesse aree metropolitane diviene problematica, mentre le invasioni barbariche si fanno più ricorrenti e penetranti; la produzione agricola e le attività mercantili subiscono una pesante contrazione. Con la caduta di Roma e lo sfaldarsi dellʼunità territoriale i collegamenti e le grandi correnti commerciali si interrompono, le economie tendono a chiudersi nel localismo, gli scambi scendono a livelli modesti, la moneta si fa rara. Il susseguirsi di guerre devastanti e lʼinnestarsi di un circuito perverso – fatto di pestilenze, fame e miseria – mettono in ginocchio le popolazioni. Oltretutto, nellʼarco degli anni compresi fra il 400 e il 750, si instaura un ciclo atmosferico tendenzialmente freddo-umido (una delle cosiddette “piccole età glaciali”) che danneggia la produttività agricola e rende la vita difficile; recrudescenza generale del clima che rappresenta senzʼaltro una fra le cause dellʼinsistenza con cui le tribù barbariche scendono al sud, invadendo le

regioni mediterranee. Il punto più basso e drammatico della parabola si tocca nel VI secolo, quando le guerre gotiche seminano distruzioni e rovine lungo la Penisola, sconvolgono lʼassetto delle campagne, impediscono le semine, determinano gravi carestie e morti innumerevoli19. Lʼinsieme di questi fattori negativi provoca un pesante calo demografico anche perché, alle conseguenze delle guerre, pestilenze e carestie, si aggiunge un calo signiÞcativo della natalità: infatti le condizioni di insicurezza e disagio Þniscono per inibire la propensione a procreare; proprio mentre si esaurisce un altro “serbatoio”, interrompendosi lʼapporto degli schiavi provenienti dai margini dellʼImpero. Gli studiosi del settore hanno stimato che, rispetto ai livelli raggiunti allʼinizio del III secolo, la popolazione si sia addirittura dimezzata; e questo dato vale anche per le terre bizantine dellʼarea adriatica, nonostante lʼimpatto della crisi qui appaia globalmente meno duro. Nel territorio riminese/feretrano – e nello speciÞco della Valconca – cosa succede durante i secoli che vedono il tracollo della romanità e la faticosa ricerca di nuovi assetti politici, sociali ed economici? Cosa cambia di fatto nella vita della popolazione e nellʼambiente che la ospita? Nonostante la scarsità delle informazioni disponibili, è possibile tratteggiare a grandi linee le principali tendenze evolutive. In primo luogo muta la distribuzione degli insediamenti. Se prima le sedi privilegiate erano in pia33


L’UOMO E L’AMBIENTE IN VALCONCA

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25. Pastori, con bestiame e capanna (secc. V-VI, miniatura del codice Vat. Lat. 3867, Biblioteca Apostolica Vaticana) 26. Paesaggio silvopastorale (sec. VI, mosaico di SantʼApollinare in Classe, Ravenna)

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nura, nellʼagro centuriato, presso le strade principali, nei luoghi di confluenza degli uomini e delle merci, ora si preferiscono le alture, le aree appartate, lontane dalle vie di comunicazione, cercando di scampare ai conßitti, alle invasioni e alle razzie, tentando di sfuggire allʼinsicurezza; la ricerca del collegamento viene soppiantata dalla ricerca dellʼisolamento. In ultima analisi, il maggior peso demograÞco si trasferisce dalla piana costiera ai rilievi dellʼentroterra. È un cambiamento radicale, il capovolgimento di una situazione durata vari millenni, Þn dal lontano Neolitico, e che aveva trovato la sua massima esaltazione proprio nellʼetà romana. Il secondo fenomeno di portata epocale è da individuare nella forte riduzione delle aree coltivate, con lʼabbandono di molte terre, la consistente ripresa del prato e del bosco, il ricostituirsi di ambienti spontanei. In stretta relazione con tutto questo, si afferma (ovvero si riafferma) uno stile di vita (influenzato anche dalle genti barbariche, presenti o conÞnanti) che restituisce ampio spazio alla caccia, allʼallevamento

brado, allʼutilizzo delle risorse gratuite. In sostanza è un capovolgimento del fenomeno veriÞcatosi a partire dal Neolitico: a quel tempo la crescita demograÞca aveva costretto a lavorare la terra, per ricavarne maggiori frutti; ora il calo della popolazione consente di abbandonare una parte del suolo e di limitarsi a sfruttarne le potenzialità naturali, anche se ridotte. Ritorna il principio affermato da Braudel: «cereali o carne, lʼalternativa dipende dal numero degli uomini». Una alternativa che non vuole esprimere graduatorie di “valori”; regresso “colturale” (cioè diminuzione delle superÞci coltivate) non signiÞca necessariamente regresso “culturale”; anzi va riconosciuto che lʼeconomia silvestre, legata a rigorosi vincoli di corretto utilizzo, di rispetto e di conservazione, richiede una profonda conoscenza dellʼambiente e dei suoi ritmi, in sostanza presuppone una “cultura” certamente non inferiore a quella espressa dal mondo agricolo. Soltanto i pregiudizi dellʼodierna società (sempre tesa a ricercare spasmodicamente il massimo della produzione) hanno portato a considerare il ter-


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PERCORSO ROMANO

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27. Mappa delle “divagazioni” ßuviali nella bassa Valconca

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mine “incolto” come sinonimo di “improduttivo” e a caricare di signiÞcati deteriori le espressioni derivate da “selva”, come ad esempio “selvaggio” o “selvatico”. Per completare il panorama delle modiÞcazioni ambientali che si veriÞcano nei secoli del primo (ovvero “alto”) Medioevo, è necessario volgere lo sguardo alla pianura, dove oltretutto si registrano grossi rivolgimenti. Il diradarsi della popolazione nella bassa valle fa sì che il complesso

sistema idraulico predisposto dai Romani venga lasciato al suo destino: cessano la sorveglianza, la manutenzione continua, la riattivazione delle opere danneggiate; tutte cose estremamente necessarie alla luce dei massicci interventi di colonizzazione (descritti in precedenza) che hanno fortemente inciso sugli assetti naturali, rendendo più precario lʼequilibrio dellʼeco-sistema. E ancor più necessarie nel momento in cui si viene instaurando una fase climatica


IL PRIMO MEDIOEVO

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caratterizzata da maggiori precipitazioni e quindi maggiore violenza dei corsi dʼacqua. Lʼabbandono a se stessa della conca valliva, proprio quando sarebbe più forte il bisogno di una presenza regolatrice, apre la via al dissesto idrogeologico: i flussi torrentizi si fanno impetuosi, provocando frequenti alluvioni e divagazioni (soprattutto del Conca), estesi impaludamenti (che a loro volta causano ulteriori fughe degli abitanti verso lʼinterno).

È un processo che coinvolge in qualche misura tutti i bacini dellʼarea romagnola e i rispettivi Þumi. Infatti si sposta a monte il loro “punto neutro” (dove termina lʼerosione ed inizia lʼaccumulo dei sedimenti); le valli si congestionano di materiali, gli alvei tendono ad innalzarsi e, quando hanno superato il livello della piana circostante, inducono le correnti fluviali ad invaderla e a scegliersi percorsi alternativi, talora creandoli ex novo, talora utilizzando il letto

28. Una cima boschiva della valle

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L’UOMO E L’AMBIENTE IN VALCONCA

le migrazioni ßuviali intervenute nellʼalto Medioevo. Come accennato in precedenza, i tratti della centuriazione riminese giungono al torrente Ventena; fra questo e il Tavollo si riconoscono invece i segni della centuriazione pesarese, orientata in modo leggermente diverso21. In età romana il corso del Conca, superato Morciano, anziché deviare a occidente come fa oggi, doveva proseguire rettilineo e spingersi nellʼalveo del Ventena, che in quel punto gli è molto vicino e non presenta ostacoli naturali per essere raggiunto22. I due fiumi dovevano proseguire uniti fino al mare, sfociando presso lʼinsediamento di Cattolica e ricevendo anche le acque del Tavollo. Poiché le maglie orientali delle centurie riminesi proseguono oltre gli odierni corsi del Conca e del fosso Ordoncione, è presumibile che questi si siano formati in età post-romana; una conferma sta nel fatto che la pieve di Misano un tempo estendeva la sua competenza su varie terre situate alla destra del fiume (nella zona della cosiddetta “Tombaccia”). E il fosso Ordoncione appare un paleo-alveo del Conca stesso, un passaggio intermedio nel suo graduale spostamento verso occidente23. Anche i toponimi me29

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29. Il grano 30. La vite

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di Þumi vicini, meno gravati dalla sedimentazione. In questo modo risultano coinvolti nelle esondazioni anche suoli che in precedenza ne erano del tutto esenti. La piana del Conca, poi, subisce impaludamenti ancor più gravi per la presenza delle alture di Montalbano e Monte Vici, che costituiscono un ostacolo al deßusso delle acque determinando il formarsi di zone lacustri alle loro spalle. A causare tracimazioni sono soprattutto il Conca e il Tavollo, mentre il Ventena mostra particolare instabilità nel tratto di foce. A loro volta il fosso Ordoncione e il rio delle Vivare (il medievale rius Catolice) paiono il residuo di antiche diramazioni dei corsi maggiori20. Le tracce superstiti del reticolo centuriale sono indicatori molto utili per ricostruire


IL PRIMO MEDIOEVO

dievali Concha sicha e Insula riecheggiano una fase delle passate divagazioni ßuviali24. Volendo dare uno sguardo veloce anche agli aspetti politico-amministrativi, assume particolare rilevanza il persistere della separazione fra la bassa e lʼalta valle, lungo una linea che corrisponde grosso modo al conÞne della giurisdizione riminese. In epoca romana questo limite divideva la VI dallʼVIII regione; in età bizantina separa la Pentapoli marittima (capitanata da Rimini) dalla Pentapoli montana (cui appartiene il Montefeltro). Ma occorre tenere presente che non si tratta di demarcazioni stabili e nette. Lʼarco temporale che comprende la tarda antichità e lʼalto Medioevo è caratterizzato da scontri continui fra ”barbari” (prima Goti, poi Longobardi) e “romani” (prima dʼoccidente, poi dʼoriente); gli esiti sono mutevoli, comportano un alternarsi di vittorie e sconÞtte, di occupazioni e abbandoni. Se è possibile riconoscere una differenza signiÞcativa fra le due aree della Valconca, questa va individuata nelle fasi del possesso longobardo, più frequenti e persistenti nella parte alta rispetto alla bassa. Tuttavia non bisogna farsi idee sbagliate sulle modalità della dominazione barbarica, leggendola secondo schemi impropri. Innanzitutto non si conÞgura come un giogo di carattere etnico; infatti nella zona vivono popolazioni di diversa origine, lingua, cultura e religione (le stesse aree più spiccatamente “bizantine” ospitano numerose genti di stirpe germanica); e dʼaltra parte non va dimenticata la graduale assimilazione del cristianesimo che porta dominanti e dominati ad abbracciare la stessa religione. In secondo luogo occorre considerare la natura del territorio soggetto, scarsamente abitato, prevalentemente incolto e destinato al libero utilizzo; qui sedi amministrative e apparati pubblici non sono nemmeno ipotizzabili; le guarnigioni militari, piccole e rade, sono impegnate soprattutto a difendere e tenere sgombre le principali vie di comunicazione. In simile contesto, gli abitanti vengono a contatto con lʼautorità

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dominante solo in occasione delle visite effettuate dal drappello dei funzionari che – accompagnati dalla scorta armata – ogni tanto raggiungono i villaggi sparsi e i minuscoli nuclei castellani per riscuotere i tributi, Þssare le prestazioni manuali destinate alla viabilità o alla difesa, risolvere le eventuali questioni giudiziarie25.

31. Lʼolivo

Primi segni di ripresa A partire dallʼVIII secolo nelle terre in esame cominciano a manifestarsi concreti segnali di ripresa: il clima migliora; la penetrazione longobarda mostra gli ultimi sussulti; gli episodi conflittuali (che ora hanno per soggetti la Chiesa ravennate, il Papato e più tardi anche lʼImpero) assumo39


L’UOMO E L’AMBIENTE IN VALCONCA 32. Il Þco è diffuso nelle basse colline

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no prevalentemente natura politica anziché militare; la popolazione ricomincia a crescere e con essa riprende spazio lʼattività agricola a danno dellʼincolto. In tale contesto si produce un fenomeno nuovo, importante sotto lʼaspetto religioso e civile al tempo stesso: il sorgere e lʼaffermarsi delle pievi. Queste chiese “principali”, da cui dipendono varie cappelle circostanti, non di rado sorgono sul luogo di vecchi insediamenti romani; allo specifico ruolo ecclesiale sovente sommano funzioni laiche, supplendo al vuoto lascia-

to dallʼapparato amministrativo pubblico ormai dissolto. In sostanza le pievi sono anche aggregazioni civili, riferimento per catastazioni, tassazioni, giudicati, leva militare, manutenzione di strade, ponti ed altre opere di interesse collettivo. LʼediÞcio plebale generalmente viene utilizzato anche per le assemblee della comunità circostante; sul sagrato si tengono mercati e manifestazioni, alle sue pareti sono poste le unità di misura assunte a base del commercio locale26. Le pievi con giurisdizione sul territorio della Valconca medio-alta sono: San Giovanni Battista di Carpegna, San Cassiano di Macerata Feltria, San Teonisto di Corena e San Lorenzo in Berco di Tavoleto. Le pievi della valle medio-bassa, in riva sinistra sono: San Savino di Montecolombo, SantʼAndrea in Casarola e SantʼErasmo di Misano; in riva destra: Santa Colomba di Onferno, San Laudizio, San Giorgio in Conca. Per quanto riguarda lʼeconomia agricola e i suoi sviluppi, le indicazioni disponibili provengono soprattutto dai documenti della Chiesa ravennate che – avendo raccolto di fatto lʼeredità dellʼEsarcato – anche nella Valconca detiene proprietà vastissime, in particolare nella fascia mediana, il cui ruolo appare dominante sotto il proÞlo produttivo e difensivo. Attraverso azioni di boniÞca, disboscamenti e dissodamenti, il recupero del suolo alle colture procede a piccoli passi. Le maggiori concentrazioni terriere, denominate masse, vengono assegnate campo dopo campo ai coloni incaricati delle opere di miglioramento fondiario: i contratti prevedono infatti la clausola ad meliorandum. Finito di roncare, cioè di tagliare la boscaglia (con la “roncola”, donde il nome dellʼoperazione), si avviano le semine dei cereali e dei legumi, si inizia a pastinare, cioè a piantare la vigna (con lʼattrezzo chiamato “pàstino”) e a recintarla con lʼapposita clausura; nel frattempo, utilizzando gli alberi abbattuti si provvede a costruire una modesta casa, attorniata dalle pertinenze indispensabili. In questa fase lʼuso del


IL PRIMO MEDIOEVO

laterizio appare molto scarso e comunque è limitato al riutilizzo dei resti romani. I patti agrari anteriori al Mille testimoniano anche la presenza dellʼolivo, di qualche frutto, delle piante collegate alla vigna (canneti e saliceti), nonché la sopravvivenza di ampi territori boschivi (per i quali si paga il “legnatico”), di querceti e lecceti in cui allevare i maiali (soggetti al “ghiandatico”), di numerosi castagneti, di aree prative destinate al pascolo degli ovini, di acquitrini e specchi lacustri utilizzati per la caccia27. La relativa vitalità della zona è documentata dallʼesistenza della massa Marazzana, che si estende fra Gemmano e Montecolombo; della massa Rancore, nei pressi di Morciano, che col suo stesso nome testimonia lʼavvenuto disboscamento; della massa Istiana, comprendente Misano e Scacciano, sullʼaltra sponda del Þume. Il quale Þume ha ormai abbandonato lʼantico nome di Crustumium per assumere quello di Conca (forse di derivazione paleogreca, per indicare un gomito, una insenatura), secondo percorsi lessicali comuni ad altri

corsi dʼacqua vicini, come è accaduto per lʼAriminus divenuto Maricla e per il Pisaurus divenuto Folia. Le masse testé menzionate, che ricadono quasi interamente nella titolarità dellʼarcivescovo di Ravenna, sono anche utili per comprendere le difficoltà delle comunicazioni terrestri e il relativo isolamento in cui versano le singole valli durante lʼalto Medioevo. Infatti le clausole contrattuali, mentre impongono ai coloni della Valconca di condurre alcune particolari derrate a Rimini, nella rettorìa ivi esistente, prevedono che il grosso del raccolto padronale sia trasportato alla spiaggia, dove in giorni prestabiliti passa a ritirarlo la nave dominica, incaricata di risalire la costa e trasferire i prodotti alla sede arcivescovile. Se lʼavvio della crescita demografica determina una evoluzione dellʼambiente, soprattutto con il dilatarsi delle aree coltivate e il restringersi di quelle boschive, le forme del popolamento viceversa non mutano i loro tratti essenziali. La fascia costiera continua ad essere quasi del tutto spopolata; nella fascia mediana, relativa-

33. Il castagneto di MonteÞore

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mente più abitata, permangono i nuclei sorti nei secoli precedenti, specie quelli dʼaltura, meglio protetti dalla conformazione del suolo. Qui vengono attrezzati i primi modesti sistemi difensivi, preludio alle complesse strutture che caratterizzeranno il futuro processo di “incastellamento”. E accanto alle sedi aggregate, continua lʼinsediamento sparso, una tradizione che ha radici profonde ed anzi acquista nuovo vigore, alimentandosi delle famiglie che occupano i poderi di recente formazione e vi si stabiliscono, nel rispetto delle clausole contrattuali che li obbligano a risiedere sul fondo (supersedendum, superhabitandum). Verosimilmente non si producono signiÞcative novità nemmeno nellʼalta valle; le informazioni speciÞche anteriori al Mille sono piuttosto carenti, ma il prevalere dellʼeconomia silvo-pastorale e la sua particolare viscosità al cambiamento autorizzano ad escludere la presenza di grossi scossoni nella vita delle piccole comunità disseminate fra il bacino superiore del Conca e i suoi modesti afßuenti. La leggenda di Conca, città “profondata” La notizia della città sommersa o sprofondata compare nelle fonti scritte solo a partire dal Trecento; ma con ogni probabilità si riallaccia ad una tradizione orale molto più antica, da collocare presumibilmente nei secoli del primo Medioevo, caratterizzati da forte instabilità ambientale. Al riguardo è signiÞcativo che tutti gli storici e i cronisti intervenuti sullʼargomento non portino alcuna testimonianza (neppure mediata) sullʼepisodio e non azzardino alcuna ipotesi circa la sua datazione; e dʼaltra parte, se lʼevento si fosse veriÞcato dopo il X secolo, qualche traccia nella documentazione superstite (sempre più abbondante col procedere degli anni) sarebbe certamente rimasta. Queste lacune, se rendono difÞcoltoso inquadrare cronologicamente il fenomeno e delinearne lʼesatta natura, tuttavia non ne demoliscono la credibilità e non autorizza42

no a liquidarlo con leggerezza. Quando la memoria storica suggerisce qualcosa, un fondamento cʼè sempre; si tratta semmai di deÞnirne meglio i contorni, separare lʼessenziale dalle incrostazioni e, soprattutto, cogliere il messaggio sottostante. Senza ripetere le analisi già compiute da altri28, può essere utile riprendere alcuni dettagli contenuti nella vasta bibliografia esistente. Si dice che Conca, ovvero la “terra” (nel signiÞcato di “città”), è stata coperta o inghiottita dalle acque; che le veriÞche effettuate in mare hanno mostrato i segni di muri e di torri. Alcune fonti indicano il sito della città sommersa alla foce del fiume Conca, oppure la dicono «inghiottita dalla terra e sommersa dallʼacqua che occultamente gli era sotto». Mentre è lecito un certo scetticismo in ordine al riconoscimento di mura ed altri avanzi lineari, forse avvenuto scambiando per opere umane i cosiddetti serroni (cioè le stratiÞcazioni rocciose del basso fondale antistante, legate allʼerosione del promontorio di Gabicce), appare molto più credibile la presenza di tracce da interpretarsi come torri o strutture isolate. Nulla vieta di ritenere che il mare abbia raggiunto e demolito attrezzature portuali o torri costiere, specie se collocate nel tratto soggetto da secoli ad una azione di smantellamento; anche in epoca più recente, nel 1761, un analogo fenomeno si è riproposto a danno della torre costruita alla foce del Tavollo. Ma va anche messa in conto lʼipotesi che la distruzione sia partita da terra, mediante una delle rovinose alluvioni veriÞcatesi nellʼalto Medioevo, così impetuosa da travolgere un insediamento e trascinarlo in mare. Ricordando che – Þno a una certa data – Conca, Ventena e Tavollo hanno avuto il tratto terminale e la foce in comune, va considerata la forza congiunta dei tre corsi dʼacqua. E inoltre va tenuto presente che lo sbocco a mare avveniva proprio a lato del Monte Vici; è dunque possibile che la corrente ßuviale abbia ripetutamente scalzato la base del rilievo Þno a farne crollare


IL PRIMO MEDIOEVO 34. “Conca città profondata” (W. Janszoon, Joan Blaeu, Theatrum orbis terrarum sive atlas novus, Amsterdam 1694)

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una parte, assieme alle relative costruzioni. E se lʼaltura franata ospitava una porzione dellʼantico oppidum Crustumium, divenuto castrum Conche in età bizantina, risulta legittimata anche lʼattribuzione del nome “Conca” allʼabitato scomparso; così come si giustiÞca la sua ubicazione presso la foce dellʼomonimo fiume, evidente in alcune mappe (scontando tuttavia lʼimprecisione dovuta al mutato percorso Þnale del Þume stesso). Determinare lʼeffettiva entità del dissesto non è possibile; certamente è stato di qualche rilevanza, sufficiente per indurre sentimenti di meraviglia e sgomento tali da innescare il processo di trasmissione della memoria orale. E come sempre avviene in simili circostanze, di passaggio in passaggio i toni descrittivi ne avranno dilatato la reale portata, grazie alle suggestioni che

un fenomeno del genere immancabilmente evoca nellʼimmaginario collettivo. Ma a ben vedere, la dimensione dellʼavvenimento finisce per essere di scarsa importanza rispetto al suo significato simbolico e al messaggio forte che riesce a tramandare. Tanto che la città di Conca in qualche misura può considerarsi lʼimmagine riepilogativa, emblematica di una fase storica densa di squilibri naturali e politico-sociali, che vede lʼuomo ritrarsi verso lʼentroterra, sicché la costa appare lontanissima, offuscata dalle brume che avvolgono la piana acquitrinosa; e la mitica città rimane solo la metafora di unʼarea, ovvero di unʼepoca ormai “sommersa” dagli eventi, “profondata” nei più reconditi recessi della memoria.

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IL SECONDO MEDIOEVO

Superata la boa dellʼanno Mille e fugate le paure dellʼApocalisse, la vita riprende i suoi ritmi, anzi li intensifica. Assumendo ancora una volta lʼandamento demograÞco come Þlo conduttore dellʼanalisi, è possibile cogliere le principali linee di tendenza. La graduale messa a coltura di nuove terre permette alla popolazione di aumentare, provocando a sua volta la domanda di sempre maggiori risorse e innescando una rincorsa che, per rimanere sotto controllo, richiederebbe un salto tecnologico tale da garantire più alti rendimenti del suolo. Però il miracolo non si realizzerà e sopraggiungerà la crisi. Ma non precorriamo i tempi; intanto, per quasi tre secoli, gli indicatori statistici puntano tutti allʼinsù. Riguardo ai caratteri dellʼinsediamento, si viene consolidando la serie dei centri di altura situati nella fascia valliva mediana (appartenente alla cosiddetta formazione “gessoso-solÞfera”, i cui rilievi raggiungono in media i 400 metri di altitudine). Sono realtà diverse, per origine e appartenenza ma, data la loro posizione strategica, in particolari momenti “fanno sistema”: così era stato nellʼalto Medioevo, quando fungevano da barriera contro la penetrazione longobarda; così avviene ora, dopo che il comune di Rimini ne ha assunto il controllo e li usa come cintura protettiva dei suoi domini meridionali. Da modestissimi nuclei aggrappati alla rupe, dilatano il loro perimetro, diventano “castelli”29 munendosi di steccati difensivi, trasformati poi in mura e torri possenti, Þno ad assumere la

Þsionomia che ancor oggi vediamo (o intravediamo). Montescudo, Montecolombo, Croce, Marazzano, Gemmano, MonteÞore, Serbadone, Saludecio, Mondaino, Meleto, Montegridolfo: fra XI e XIII secolo sono tutti presenti e allineati a sorvegliare la media e bassa Valconca. Ed anche più a monte, sul versante destro e sinistro del bacino ßuviale, dove domina la formazione marnoso-calcarea, lʼincastellamento procede: Sassofeltrio, Tavoleto, Montegrimano, Montecerignone, Montecopiolo ne sono gli esempi maggiori, non a caso destinati ad essere perennemente contesi fra le autorità di Rimini e Montefeltro. Lʼimportanza del territorio collinare, con i suoi centri, è testimoniata anche dal peso tuttora rivestito dalla via Flaminia interna: una specie di cordone ombelicale che, partendo da Rimini, attraversa il Conca allʼaltezza di Osteria Nuova, raggiungendo MonteÞore e Tavoleto per dirigersi verso lʼUrbe. Quanto allʼagricoltura, sèguita a guadagnare spazi; la colonizzazione delle masse prosegue a ritmo serrato; i dissodamenti sottraggono ulteriore terreno allʼincolto e al bosco. Le terre coltivate più intensamente si trovano nella cerchia delle colline mediane, in corrispondenza dei castelli maggiori; risalendo la valle i campi si fanno più radi con lʼaccentuarsi delle pendenze, lʼinnalzarsi delle quote e il ridursi della densità demografica. Ma la conquista del suolo, partendo dallʼepicentro collinare, procede gradualmente anche verso la costa: in una prima fase vengono coinvolti i rilievi mino45


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35. MonteÞore

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ri (come San Clemente, Misano, Santa Maria in PietraÞtta, Santa Maria in Marignano) e la pianura terrazzata che sovrasta il Þume. Indicativo è lʼatto del 1014 con cui Bennone dona al Þglio Pietro il castello di Morciano attorniato da 50 mansi o poderi. A distanza di mezzo secolo Pietro e la sua famiglia cederanno a Pier Damiani i beni costitutivi del monastero di San Gregorio in Conca, comprendenti un vasto territorio su ambo i lati del fiume; è il segno che lʼoccupazione della bassa valle procede ormai in modo capillare, accompagnata dai necessari interventi di boniÞca e sistemazione agraria. Quando – ben prima del 129730 – viene fondato il “Castelnuovo” di San Giovanni

in Marignano, trasferendo lʼabitato dal colle alla pianura, il processo di riassetto delle terre circostanti, di regolazione idraulica e appoderamento ha compiuto un ulteriore passo signiÞcativo, patrocinato questa volta dal monastero ravennate di San Vitale, il maggiore proprietario della zona. E non è casuale che allʼincirca in quegli anni (nel 1271 per lʼesattezza) si collochi anche la nascita del castello di Cattolica; sebbene la sua origine abbia soprattutto motivazioni politiche, la scelta del luogo si inserisce chiaramente nel progetto di recupero dellʼarea costiera a fini agricoli, oltre che di controllo sulla via Flaminia31. Da tutti questi passaggi emerge con forza la grande “fame di terra” che caratte-


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rizza il periodo storico in esame. Le ragioni sono varie e convergenti: fra il 1000 e il 1300 la popolazione quasi raddoppia di numero; inoltre la crescita delle città (Rimini nel caso speciÞco) e delle professioni non agricole accresce la dipendenza alimentare dalla campagna. La richiesta di derrate si fa sempre più insistente. La maggiore produzione che un terreno possa garantire è quella cerealicola; pertanto si guastano di continuo prati e selve per farne campi arativi (torna ancora una volta di attualità lʼalternativa evidenziata da Braudel). La dieta della popolazione si sposta progressivamente sul consumo di cereali e in particolare di grano, la cui domanda cresce a dismisura, innescando una spirale inar-

restabile. La debolezza del meccanismo risiede nella bassa produttività del suolo; in questi secoli si registra qualche positiva innovazione agricola, ma con effetti limitati. Quasi ovunque è ancora in uso la vecchia tecnica del maggese che costringe ogni anno al riposo la metà del terreno ed assicura modesti rendimenti nellʼaltra metà, anche a causa degli scarsi concimi, tanto che le rese non superano mediamente i 3-4 chicchi raccolti per ogni chicco seminato32. Volendo aumentare il prodotto non rimane che aumentare le superÞci a coltura, Þno a coinvolgere le aree marginali; ma i risultati sono insufÞcienti. A complicare le cose, interviene anche una fase climatica piuttosto sfavorevole. Ad un certo punto la terra non

36. Mondaino

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riesce più a soddisfare la domanda; la società va in crisi. Dallʼinizio del Trecento si susseguono periodi prolungati di carestia, che si intrecciano con fenomeni di elevata morbilità; la popolazione ormai è prostrata e, quando arriva lʼepidemia peggiore, soccombe in gran numero: è la “peste nera” del 1348. Una società che ha saputo elevarsi Þno a raggiungere traguardi prestigiosi nel campo dellʼarte, della cultura, del diritto, delle libertà civiche, delle istituzioni e dei commerci, purtroppo non è riuscita a introdurre nelle campagne le tecniche necessarie a migliorare la propria agricoltura e ad incrementarne la produttività. Il costo di questo

insuccesso è molto pesante; lʼequilibrio spezzato si ricostruisce solo a prezzo di tante vittime, secondo una legge spietata: non riuscendo a produrre di più, gli abitanti dovranno essere di meno. I resoconti trecenteschi parlano di una falcidia che nelle varie regioni europee avrebbe colpito da un terzo Þno a due terzi della popolazione; respingendo le valutazioni estreme, si può ritenere più verosimile il primo dato; in ogni caso, la mazzata è pesante. A livello locale mancano informazioni analitiche; le cronache malatestiane dichiarano che il 15 maggio 1348 «cominzoe in Arimino una grandissima mortalità e poi per lo contado e durò infina adì primo de decembre; e


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morì de tre persone le doe»33. Il resoconto ricalca la formula tipica del momento, senza fornire dettagli; il disastro comunque è confermato (basti pensare che, fra lʼinizio di giugno e lʼinizio di novembre 1348, a Rimini nel solo cimitero di San Francesco vengono sepolte 2.400 persone)34. Il Quattrocento Dopo ulteriori “scosse” di portata minore, che stabilizzano lʼarretramento subìto, il ciclo vitale riprende i suoi ritmi. Il nodo di fondo, insito nella debolezza strutturale dellʼagricoltura, non è stato sciolto e tornerà al pettine; ma nel frattempo il carico

umano si è fatto meno pesante e permette di respirare. Un importantissimo documento del 1371, fatto compilare dal cardinale Anglic de Grimoard e conosciuto come Descriptio Romandiole, fornisce un quadro della regione, permettendo di conoscere anche la situazione della Valconca a quella data. Si tratta di un censimento che indica i “fuochi”, cioè le unità Þscali imposte a ciascuna comunità; quelle cifre non sono equiparabili in assoluto alle famiglie e quindi non permettono di risalire in modo meccanico al numero degli abitanti. Ma è innegabile lo stretto parallelismo esistente fra potenzialità economica e peso demograÞco; in ogni

38. Montegridolfo

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39. Mappa dellʼalta Valconca, entro la “Provincia del Montefeltro” (1733, disegno a penna, Col. Mss. 29, Biblioteca Planettiana, Jesi)

caso la Descriptio permette di effettuare utili confronti e stilare interessanti graduatorie. Partendo dallʼinterno e andando verso la costa, i centri della valle (compresi quelli che gravitano sugli afßuenti del Þume principale) sono censiti per i seguenti fuochi: - Montecopiolo - Monteboaggine - Montecerignone - Montetassi - Montegrimano - Montelicciano - Montealtavelio - Riopetroso - Piandicastello

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60 35 70 65 95 30 25 6 20

- Tavoleto - Castelnuovo - Ripamassana - Fabbrica - Sassofeltrio - Gesso - Montescudo - Montecolombo - Onferno - Marazzano - Gemmano - MonteÞore - Saludecio - Mondaino - Cerreto - Montepetrino

30 25 6 8 60 25 120 42 20 10 100 160 140 114 15 9


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- Meleto - Montegridolfo - Cevolabate - San Clemente - SantʼAndrea in Casale - Misano - Scacciano - Agina - San Giovanni in Isola - San Giovanni in Marignano - Tomba di Oradino - Conca - Cattolica

24 37 16 45 10 36 44 7 9 63 17 10 15

Ancora una volta la valle appare distinta in tre settori dotati di caratteristiche proprie.

Nella parte alta sono presenti castelli di non eccessiva entità, tutti inferiori ai 100 fuochi Þscali. La fascia mediana mostra la massima concentrazione degli insediamenti, di cui 5 raggiungono o superano i 100 fuochi. Lʼarea dei rilievi bassi e della piana costiera è quella accreditata dei valori più modesti, con un massimo di 63 fuochi al “Castelnuovo”. La colonizzazione della pianura e la nascita di centri come Cattolica o San Giovanni non bastano a sovvertire le precedenti gerarchie; è sempre la collina a dominare nettamente la scena, per il peso della sua economia e la consistenza dei suoi castelli. Questa dunque è la situazione allʼaffacciarsi del Quattrocento, il secolo di trapasso

40. Sassofeltrio

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41. Montecerignone

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dal Medioevo allʼetà moderna, il secolo dʼoro delle signorie malatestiana e feltresca, vicine e nemiche, sempre in lotta per strapparsi reciprocamente il controllo dellʼuno o dellʼaltro caposaldo. Ma le fredde cifre riassuntive appena viste non riescono a rafÞgurare il volto concreto della valle; merita allora indugiare un poco, osservarne a volo dʼuccello la Þsionomia, nei tanti aspetti che sa offrire allʼocchio interessato. Non che si registrino mutamenti signiÞcativi rispetto al passato, ma lʼabbondanza della documentazione storica ora permette di conoscere meglio i particolari. Il XV secolo, peraltro, è fatto di elementi contraddittori, di luci ed ombre: la popolazione registra un certo incremento, ma è la naturale risalita dal baratro in cui erano sprofondati

i livelli demograÞci nel corso del Trecento, piuttosto che lʼeffetto di signiÞcativi stimoli economico-sociali; il clima si presenta globalmente meno ostile, però non mancano le annate perniciose; ai momenti di serenità si alternano guerre e invasioni, calamità atmosferiche, raccolti scarsi e periodi di carestia. Nel complesso, un anno su tre può dirsi “difÞcile” e denso di preoccupazioni. Fermando inizialmente lo sguardo sulla media e bassa valle, si può notare che il suolo è largamente coltivato; il processo di formazione dei poderi è ormai a buon punto; le unità colturali risultano di estensione generalmente modesta. Non mancano alcune grandi proprietà, ma la loro gestione di solito avviene in forma frazionata. Lʼabbazia di San Gregorio in Conca e quella ra-


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vennate di San Vitale, il monastero riminese di San Giuliano35 e la sede arcivescovile di Ravenna da un lato, la famiglia Malatesta ed alcuni casati ragguardevoli di Rimini dallʼaltro36, detengono cospicui nuclei fondiari; i quali però vengono generalmente assegnati per singoli appezzamenti o poderi, tramite contratto di enfiteusi (nel primo caso), di mezzadria o affitto (nel secondo). Risulta quasi del tutto assente la “fattoria” che cura in modo diretto lʼorganizzazione dei vari settori produttivi e la materiale conduzione delle terre mediante servi o salariati. Fra le diverse sistemazioni colturali presenti, è lʼarativo nudo a prevalere, destinato soprattutto alla semina del grano e – in minor misura – dei cereali inferiori o della fava. Frequente è la vite, che compare più

spesso in coltura specializzata, cioè nella vigna, generalmente cinta e protetta da clausure (fatte di siepi, vive o morte). Però nel corso del Quattrocento cominciano a diffondersi anche i Þlari della coltura promiscua, che separano un campo dallʼaltro; sono retti con sostegno vivo37 – intervallato da canne – e legati mediante vinco o ginestra. In tutti i rilievi è presente lʼolivo, solitamente inframmezzato ai cereali o alla vigna; mentre nelle campagne di Saludecio, Mondaino e Montegridolfo sono numerosissimi i fichi, in coltivazioni apposite, denominate terre Þcate. Il frutto, che può venire essiccato e conservato a lungo, per il suo alto valore nutritivo è un prodotto alimentare importante, al quale si accompagnano anche noci e mandorle.

42. I ruderi del monastero di San Gregorio in Conca, presso Morciano 43-46. La semina, la battitura, la vendemmia, la raccolta delle rape (sec. XIV, miniature del ms. 853, Biblioteca Comunale, Forlì)

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L’UOMO E L’AMBIENTE IN VALCONCA 47. La mietitura del grano e la tosatura delle pecore (sec. XVI, miniatura del Cod. Lat. I, 99, Biblioteca Marciana, Venezia)

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Lʼedilizia poderale, pur essendosi evoluta rispetto alle misere capanne di legno dei secoli alti, resta comunque estremamente modesta. Con il ripristino delle fornaci, il laterizio è tornato in auge, soprattutto nei tetti, mentre le pareti continuano a registrare il binomio legno-mattone. Nella maggioranza dei casi il fabbricato rurale ha dimensioni ridotte, fattura grossolana e struttura precaria, anche perché raramente viene costruito da personale qualiÞcato; sovente è opera dello stesso colono, sempre si realizza con il suo concorso, che prosegue poi con gli interventi di manutenzione, riparazione, ampliamento38. Accanto allʼediÞcio si trovano le pertinenze necessarie alla conduzione del fondo: eventuali capanni per

gli animali o gli attrezzi, il forno, il colombaro, la corte, lʼaia per la battitura, il pozzo, i pagliai e naturalmente lʼorto, i cui prodotti sono goduti per intero dal lavoratore. Nonostante la sistematica azione di dissodamento, i prati e i pascoli non sono scomparsi del tutto; se ne trovano nelle unità fondiarie maggiori e nei suoli più scoscesi o meno adatti alle colture. Lo stesso può dirsi per le selve ed i boschi: persistono piccole macchie poderali, tuttavia le presenze arboree di rilievo sopravvivono unicamente in siti particolari. Alcuni versanti esposti a settentrione conservano signiÞcativi lembi di castagneto, importanti per le sue valenze alimentari e le forniture di legname; nel XV secolo sono documentati in varie


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zone di Montefiore (Serbadone, Pedrosa, San Felice, San Martino-Liceto), oltre che a Saludecio, Montescudo, Gagliano e Marazzano39. Altre permanenze boschive si riscontrano nelle forre e negli alvei ßuviali; una speciale menzione spetta alle selve di Fagnano, sulla sponda sinistra del Conca, appartenute al monastero di San Gregorio e passate poi agli Olivetani di Scolca. Le carte quattrocentesche ne descrivono analiticamente la gestione, basata su tagli periodici destinati a produrre legname da lavoro, carbone, fascine per le fornaci; e recano anche notizia delle principali essenze arboree esistenti, vale a dire il cerro e la farnia40. Ma lungo il Þume non si trovano solo le selve; infatti è un pullulare di attività e di presenze. Il suo carattere torrentizio incute timore e suggerisce prudenza, ma non impedisce una fitta frequentazione ed un intenso utilizzo delle risorse ivi reperibili: le sabbie e le ghiaie; le specie vegetali tipiche delle zone umide; gli specchi dʼacqua (le cosiddette pantiere) ideali per la caccia. Nei pressi del Conca, su ambo le sponde, si trovano anche numerose fornaci da calce e da mattoni, che in questo ambiente possono contare su tutte le materie prime necessarie: terra, pietre, acqua, legname41; dopo la grande stagione vissuta in età romana e la loro scomparsa nel primo Medioevo, le fornaci tornano ad avere nuovo spazio nellʼeconomia locale. E, naturalmente, del Þume si utilizzano le acque come fonte energetica per i molini da grano; stante il ruolo centrale del frumento nellʼalimentazione dellʼepoca, gli apparati molitori costituiscono uno snodo vitale della società. Dalle terre di Gemmano alla foce, sono almeno trentaquattro le strutture operanti. Sulla riva destra, scendendo Þno a San Pietro in Cotto, si trovano i molini di Longarino, di Castellaro, della Strada, di Stupino, della Ripa, dello Scanello, il Nuovo, del Mascaro, di Ciotti; fra Morciano e il mare compaiono i molini della Valle, di Santa Croce, della Tomba di Oradino, di San Pietro, di San Paolo, di Ve-

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nerandi, di Montalbano. Sulla riva sinistra, a partire da Montescudo, sono documentati i molini di Lamberti, del Petecchio, del Prato, del Palazzo Vecchio, del Palazzo Nuovo, del Gualdo, dei Vivoli, della Noce, del Gaggio, del Terrato, del Pantano, del Rivale, del Cerro, della Fornace, di Raticone, di SantʼIlario, di Roncadiccio, di Malagamba. I patti dellʼepoca lasciano intravedere il continuo lavorio necessario per attivare le prese dʼacqua e i canali adduttori (continuamente sconvolti dalle piene) e permettono di conoscere la rete degli accordi intessuti fra i mugnai per ottimizzare lo sfruttamento delle acque 42. Per completare il quadro di questa importantissima presenza, vanno poi messi nel conto i molini minori attestati su entrambi i corsi denominati Ventena e sul Tavollo; infatti le carte del XV secolo ne testimoniano lʼesistenza anche presso Mondaiono, Meleto, Spinarello di Saludecio, SantʼAnsovino, Serbadone, MonteÞore, San Pietro in Cotto e San Giovanni in Marignano. Per quanto concerne il popolamento, Þnora sono state messe in evidenza le due principali forme insediative che si riscontrano nella Valconca medio-bassa, cioè la forma aggregata (allʼinterno dei castelli) e quella sparsa (distribuita sui vari poderi). La prima ha il pregio di offrire maggiore sicurezza agli abitanti, la seconda ha il van-

48. Lʼunico ricordo delle antiche selve di Fagnano

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taggio di collegare direttamente la residenza al luogo di lavoro; una condizione, questʼultima, che spesso viene imposta dai patti colonici. Ma vivere in case isolate, stante la frequenza delle guerre, invasioni, incursioni e scorribande che caratterizzano questa fase storica, comporta la necessità di predisporre

49. La torre portaia della tomba di Misano 50. Casa-torre quattrocentesca presso Saludecio

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temporanei luoghi di rifugio per i momenti in cui il pericolo si materializza. Se il podere non è molto distante da un castello, il naturale luogo di ricovero è là, magari negli ediÞci del padrone43; ma la gran parte delle case di pianura si trova parecchio lontana dai castelli, situati quasi tutti in collina. Ec-


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L’UOMO E L’AMBIENTE IN VALCONCA 51. La tomba di Oradino (oggi Tombaccia) presso San Giovanni in Marignano, prima dei recenti restauri

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co allora il diffondersi di strutture intermedie: le tombe. Sono piccoli nuclei, di natura varia, accomunati dalla capacità difensiva, che si concretizza generalmente nel possesso di solide mura: residenze-fortezza di famiglie eminenti, poste al centro delle loro proprietà fondiarie; case-torri a protezione di opiÞci isolati, quali i molini; piccolissimi agglomerati con cintura difensiva, che non raggiungono la dimensione del castello. Nellʼarea situata fra Morciano e il mare se ne contano almeno dodici: alla destra del Conca sono la tomba di San Giovanni in Isola (oggi Brescia), la tomba di PietraÞtta, la tomba di Oradino (oggi Tombaccia) e la tomba di Servideo; alla sinistra del Conca sono la tomba di Soverino, la tomba di

SantʼAndrea in Casale, la tomba del Cerro, la tomba di Misano, la tomba della Palazzina, la tomba di Scacciano, la tomba del Moro e la tomba dellʼAgina44. Accanto alla schiera collinare dei castelli e alla ragnatela delle case sparse, questi centri minori contribuiscono a formare il mosaico degli insediamenti che punteggia il paesaggio della media e bassa valle. Risalendo verso lʼinterno, si raggiungono via via i centri dʼaltura. Per più decenni del Quattrocento questo territorio aveva subito il travaglio dovuto agli scontri continui fra i Malatesta e i Montefeltro; dopo il 1463 e la pesante sconÞtta del signore riminese, passa interamente sotto il controllo di Urbino, diventandone una appendice peri-


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ferica e affatto marginale. Gli interventi più vistosi da segnalare, nella seconda metà del secolo, riguardano il rafforzamento dei castelli, in analogia con quel che aveva fatto precedentemente Sigismondo Pandolfo per quelli situati nella linea mediana. Quanto agli assetti produttivi, lʼattività silvo-pastorale continua ad essere prioritaria, integrata dalle colture che lʼambiente rende possibile; importante è la coltivazione del guado, una pianta tintoria redditizia, che riesce a vegetare fino a quote elevate. E, come altrove, lʼincremento della popolazione sollecita lʼestensione della cerealicoltura45; un riflesso diretto è possibile scorgerlo nella diffusione dei molini che si snodano fra Monteboaggine e Sassofeltrio, il cui numero raggiunge la trentina. Ne consegue anche una crescita degli scambi che spiegano, fra lʼaltro, il proliferare dei mercatali, entro il bacino vallivo o nelle immediate adiacenze (come a Macerata Feltria)46. È un fenomeno che richiama molto da vicino lʼevoluzione di Morciano dove, proprio nel medesimo arco temporale, rinasce il paese, lungo la strada che ospita da secoli il mercato. Ma ne riparleremo più analiticamente in appendice. La pieve di San Giorgio e il castello di Conca Prima di lasciare alle spalle lʼetà medievale, è doverosa una breve rißessione sul castello di Conca e sulla pieve di San Giorgio in Conca, così profondamente legati alla valle da portarne il nome. Il nucleo abitato era comparso già nellʼVIII secolo; dal X trovano menzione più volte sia il castello che la pieve, sempre in stretta connessione fra loro e con lʼoratorio di Santo Stefano47. Vari studiosi hanno cercato di individuare il luogo di questo insediamento, con opinioni contrapposte. Fin dal Seicento – e soprattutto nellʼOttocento con Luigi Tonini – ha trovato credito lʼipotesi di una collocazione nellʼentroterra (vicino a Morciano o ancora più su), motivata soprattutto

dal constatare che molti fondi pertinenti alla pieve di San Giorgio e/o al castello di Conca rientravano nellʼambito territoriale di Montefiore, Saludecio e Gemmano48. A sostegno, si è voluto anche indicare lʼesistenza di una chiesa posta sul Conca a Salgareto di Montecolombo, dedicata ai santi Giorgio e Alberto (1376-1397), poi chiamata “San Giorgio in Conca” (15771785)49, ricordata Þno al XX secolo per essere posta sulle “greppe di San Giorgio”50. Né va dimenticata la presenza, subito sopra Morciano, della “villa di Conca”: entità che generalmente presuppone la vicinanza di un omonimo castrum. In una relazione topograÞca del 1639 è detto che, lungo la direttrice fra Morciano e San Giovanni in Marignano, il «Castello Conca era situato tra il Þume di questo nome e Ventina»; distrutto dalle guerre in età malatestiana, «hora non si vedono che pezzi di muraglie, donde ha preso il nome di murazze. Non si camina un miglio distante da questo luogo che si trova il sito dove era anticamente un altro castello chiamato la tomba dʼOradino…»51. Pertanto la descrizione indica una località che corrisponde pressʼa poco al Mòscolo, vicina al complesso di San Gregorio. Di convinzione diversa, altri studiosi – dal 1899 almeno, ma anche prima, giacché se ne parlava ai tempi del Tonini52 – hanno sostenuto lʼubicazione costiera del binomio pieve-castello, individuandola sul rilievo di Monte Vici (vicino a Cattolica, anchʼesso comunemente indicato come “greppe di San Giorgio”), forse con una estensione sul vicino colle di Montalbano; a supporto sono state prodotte numerose fonti cartograÞche e archivistiche cinquecentesche53. Esiste anche una ipotesi che tende a conciliare le precedenti, secondo cui la pieve di San Giorgio in Conca sarebbe stata fondata nellʼentroterra e trasferita sulla costa in un secondo tempo, a somiglianza di traslazioni veriÞcatesi altrove54. Lo spostamento potrebbe trovare supporto nella contrazione che il territorio plebano ha 61


L’UOMO E L’AMBIENTE IN VALCONCA 52. Lʼagricoltura e la pastorizia (sec. XIII, miniatura del ms. 285, Collegio di Spagna, Bologna)

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subìto fra XI e XIII secolo, avendo perso le sue aree più interne55. La sopravvivenza di vari toponimi similari lungo lʼasta ßuviale (Conca Vecchia, Ghetto Conca, Villa di Conca, Case Conca) induce infine a non ignorare lʼipotesi che di castrum Conche ne sia esistito più dʼuno, analogamente a quanto si può verificare per il bacino del Þume Uso che, nel Medioevo, ha ospitato due località di nome castrum Usis ed una tumba Usis, allʼorigine peraltro di incresciosi equivoci56. Senza la pretesa di dire lʼultima parola, alla luce dei fenomeni migratori e dei processi economico-sociali descritti nelle pagine precedenti, forse è possibile inquadrare meglio anche la questione relativa al-

la ubicazione del castello di Conca e della correlata pieve di San Giorgio. Un esame complessivo del materiale disponibile, rende più convincente la loro collocazione su Monte Vici, Þn dai primordi57. Sorto in cima ad una emergenza naturale, forse in continuità o sulle rovine dellʼoppidum Crustumium di epoca romana, lʼinsediamento bizantino del castrum Conche, a carattere prettamente militare, avrebbe svolto uno specifico ruolo di difesa della strada Ravenna-Roma e dellʼapprodo marittimo, contribuendo a salvaguardare la continuità dei collegamenti più volte insidiati dai Longobardi. Con lʼaffermarsi del sistema plebano, avrebbe ospitato nelle sue vicinanze la pieve di San Giorgio.


IL SECONDO MEDIOEVO

La fondazione costiera, al centro di un territorio a quel tempo depresso sotto il proÞlo demograÞco e produttivo, si giustiÞca soprattutto per il suo valore strategico. È la medesima ragione che spiega la nascita, lungo la strada litoranea, di altre pievi, come ad esempio San Lorenzo in Strada o San Martino di Bordonchio. Ed è anche la ragione per cui il castello di Conca non acquisterà mai una forte potenzialità di tipo insediativo ed economico58. Lʼipotesi di una origine nellʼentroterra è suggerita da molteplici indizi, tanto da non poterla scartare a cuor leggero; tuttavia manca di prove stringenti59. A sua volta, lʼeventualità di un trasferimento sul litorale solleva molti dubbi, trattandosi di una operazione complessa, che avrebbe coinvolto non solo lʼediÞcio religioso, ma lʼintero castello, in quanto le due entità risultano sempre collegate, sia nellʼalto come nel basso Medioevo. Inoltre appare molto strano che un fatto di così grande portata, se realmente accaduto, non compaia in alcuna testimonianza storica e sia sfuggito a qualunque pur minima annotazione nelle carte dʼarchivio. Non essendo molto realistico pensare ad una traslazione entro i limiti temporali del X-XI secolo (quando i centri della media valle hanno ancora una preminenza assoluta e costituiscono semmai poli di attrazione in senso contrario, dalla costa allʼentroterra), è solo durante la corsa allʼoccupazione della pianura registratasi nei due secoli successivi che si creano le condizioni teoriche per un parallelo “scivolamento” del castello e della pieve di Conca. Ma il totale silenzio che caratterizza i documenti (ormai molto numerosi) di quello speciÞco periodo, toglie credibilità allʼassunto. Certo, per fugare ogni minimo dubbio, occorrerebbe poter concretamente dimostrare che castello e pieve erano sulla costa ancor prima di allora. Le fonti offrono testimonianze per il Quattrocento: segnalando nel 1444 il foveum castri Conche in prossimità del mare60; citando più volte, fra 1480 e 1496, la “torre di Conca” (ancor oggi

visibile sul Monte Vici)61, particolarmente tramite un rogito del 1495 stilato in castro Conche in turre dicte Conche62. SigniÞcativo è anche lʼatto del 1401 che riguarda terre poste in plebatu Conche Siche, a conÞne con il lido del mare e la Concha sicha63. Una attestazione autorevole è inoltre disponibile per il XIV secolo: quando, nel 1376, viene precisato che la pieve di Conca risulta avere alle sue dipendenze le sole chiese di San Giovanni (castello vecchio di San Giovanni in Marignano), San Pietro (castello nuovo) e SantʼApollinare (Cattolica), implicitamente si attesta una sede plebana posta nella bassa pianura64. Restano però da acquisire testimonianze di età anteriore. Quindi la ricerca deve continuare, per ottenere conferme topograÞche atte ad eliminare ogni residua zona dʼombra, facendo magari tesoro di elementi indiretti. Ad esempio le pergamene ravennati del novembre 1272, che formalizzano la concessione dei terreni relativi alla nascente Cattolica, risultano stilate parte nel medesimo castello di Cattolica, parte nel suo borgo e parte nel castello di Conca65 (in casa di Atto Ravegnano, personaggio riminese legato ai Malatesta)66; il che porta ragionevolmente a credere che il castello di Conca sia in zona. Altro esempio: Þn dal 1218 i terreni pesaresi prossimi al torrente Taviolo vengono misurati ad perticam publicam de Conca67; difÞcilmente si farebbe ricorso a questa unità di misura se la relativa pieve fosse ubicata alle spalle di Morciano.

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L’UOMO E L’AMBIENTE IN VALCONCA

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LʼONDA LUNGA DELLA RURALITÀ

Se lo spirare del Quattrocento segna convenzionalmente la Þne del Medioevo e lʼinizio dellʼetà moderna, non per questo va inteso come uno spartiacque dai contorni netti. Molte cose resteranno a lungo le stesse; altre cambieranno nel corso dei secoli, ma non tanto da sovvertire i caratteri e le strutture fondanti della società rurale. Fino a che lʼagricoltura continuerà ad essere il centro della vita, la persistenza dei modelli culturali e delle condizioni materiali sarà più forte di ogni innovazione, anche rilevante. Non a caso – mentre molti storici puntano a restringerne lʼarco temporale – Jacques Le Goff tende invece a parlare di “lungo Medioevo” dilatandone la durata Þno agli albori della rivoluzione industriale68. E dʼaltra parte, leggendo le cronache, prestando ascolto alle notizie e ai fatti quotidiani che emergono dai resoconti, per molto tempo manca davvero la sensazione di un cammino lineare verso la “modernità”; anzi, il percorso appare contraddittorio, altalenante e si rimane impressionati dal ricorrere di fenomeni regressivi, dalla lunga serie di annate difÞcili che colpiscono la popolazione dallʼinizio del Cinquecento Þno al Seicento inoltrato, anche nelle terre della Valconca, nel mentre stanno rientrando gradualmente sotto il diretto dominio pontiÞcio, nellʼambito di un marcato processo centralizzatore. I viaggiatori che dal XVI secolo iniziano a percorrere il “bel paese” tracciano descrizioni enfatiche: esaltano lʼaria salubre, la campagna “dilettevole”, i castelli “buoni e

fertilissimi”, abbondanti di messi e di frutti, ignorando completamente la realtà di fatica, miseria, sacriÞci e fame che sta sotto quellʼordinato paesaggio. Più attendibili, le fonti storiche – con un misto di assuefazione e rassegnazione – snocciolano invece una lunga teoria di elementi negativi. Ad intervalli si registrano occupazioni militari, stanziamenti prolungati di truppe, saccheggi, spoliazioni, razzie e violenze da parte degli eserciti stranieri che fanno del suolo italiano – valle del Conca inclusa – la palestra per le loro esercitazioni belliche. A sua volta il clima tende al peggio: inverni lunghi e freddi con forti gelate e nevicate anche nei mesi di aprile-maggio, grandinate, piogge disastrose, Þumane e alluvioni ricorrenti, primavere brevi, estati calde, eccessive escursioni termiche molto nocive alla campagna (oltre che alle persone e al bestiame); a posteriori si potrà constatare lʼavvento di un vero e proprio ciclo avverso (una “piccola età glaciale”), a partire dal 1550. La produzione agraria ne risente in misura pesantissima, causa le difÞcoltà nelle semine e nei raccolti, i gravi danni e talora le distruzioni totali che colpiscono le messi. Questi fenomeni, specie quando si ripetono per vari anni di seguito, determinano condizioni di miseria estrema, carestia, insufÞcienza alimentare e debilitazione, che finiscono spesso per sfociare in episodi tragici: epidemie, pestilenze e mortalità diffusa. Per completare il quadro vanno anche ricordate le vicende che travagliano speciÞcamente la zona costiera, con lʼintensiÞcarsi della pirateria e 65


L’UOMO E L’AMBIENTE IN VALCONCA 53. Castelli della media Valconca (1574, disegno dal vol. V.10, Archivio Vescovile, Rimini) 54. Veduta della marina (sec. XVI, boccale della Collezione Cleto Cucci, Rimini)

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gli accresciuti pericoli cui soggiacciono gli abitanti rivieraschi, i pescatori e i marinai, i frequentatori della strada litoranea. Proprio

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in relazione a tale recrudescenza, va ricordata la recinzione difensiva di Cattolica – negli anni 1583-1587 – e la costruzione delle torri di guardia alle foci del Tavollo e del Conca, nel 1673. Non è questa la sede per redigere lunghi elenchi di calamità. Basti ricordare, fra tutte, la peste del 1529 (scoppiata dopo ripetute carestie) con le molte migliaia di morti a suo carico, oppure i decenni a cavallo fra Cinque e Seicento, caratterizzati da una crisi tale da causare un sensibile crollo demografico. E se, dopo la fine del XV secolo, per qualche tempo era proseguito lʼaumento della popolazione, trainato dal tendenziale recupero successivo alla peste nera e dalle notevoli immigrazioni (specie di area balcanica), a metà XVI la crescita rallenta, poi si arresta, quindi si trasforma in brusca diminuzione e per tutto il XVII tentenna fra regresso e stasi. A mostrare segni di maggiore vitalità è la parte pianeggiante della valle, mentre la montagna attraversa un momento davvero brutto perdendo, in poco più di cento anni (fra il 1590 e il 1700), un terzo della popolazione69 e pagando il prezzo della precedente


L’ONDA LUNGA DELLA RURALITÀ 55. La torre della Cattolica 56. La marina con le torri costruite nel 1673 alle foci del Conca e del Tavollo (1677, disegno del ms. Add. 15757, British Library, Londra)

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57-62. Attrezzature e attività rurali (lʼaratura, la potatura, la spanocchiatura del granoturco, la raccolta delle olive, la pigiatura dellʼuva, la cantina)

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fase espansiva avvenuta su basi non solide. Infatti, la cerealicoltura esasperata, spinta Þn sopra i 1000 metri di quota, aveva portato a dissodamenti eccessivi, sacrificato pascoli, boschi e prati, creando un assetto dei suoli instabile e foriero di scompensi in certa misura irreversibili. Con il sopraggiungere del peggioramento climatico, i benefici produttivi si erano poi azzerati, restando unicamente i danni. Il nesso fra demografia (che implica consumo di risorse) e agricoltura (incaricata di produrle) è sempre molto stretto: la crescita dellʼuna stimola la crescita dellʼaltra e viceversa, innescando una concatenazione di cause ed effetti. Fintanto che si giunge ad una rottura insanabile degli equilibri, dovuta alla incapacità o impos-

sibilità di offrire risorse pari alla domanda; allora lʼaumento della popolazione si blocca (spesso in modo traumatico) e inizia una fase discendente, che potrà fermarsi solo quando i prodotti dellʼagricoltura risulteranno sufÞcienti al bisogno. Da quel momento ripartirà un nuovo ciclo. Il Settecento segna per lʼappunto lʼinizio di una curva ascendente che inverte il tendenziale declino seicentesco; dopo un inizio molto prudente, a partire dagli ultimi anni del secolo il balzo demografico sarà prolungato, registrando via via dimensioni crescenti. Il fenomeno investe sia la montagna che la pianura, sebbene le cause e i caratteri assumano in parte contorni diversi. Da un lato le grandi epidemie, che ad intervalli avevano falcidiato la popolazione, allentano la loro presa permettendo un incremento più rapido e meno sussultorio; dallʼaltro intervengono fattori economici e sociali a far sì che le tensioni sul versante delle risorse non assumano toni dirompenti. Nellʼalta valle, la fame delle crescenti bocche ha una parziale risposta nel consolidarsi di una consistente emigrazione stagionale verso le Maremme e lʼAgro Romano. La seconda stampella la trova nellʼutilizzo alimentare del meno costoso mais (accompagnato più tardi dalla patata). Il XVIII secolo, infatti, segna lʼavvio di rilevanti modiÞcazioni del sistema agronomico, le quali offrono nuove derrate e accrescono la produttività dei suoli garantendo il sostentamento a un maggior numero di persone. Quello che non era riuscito in passato, comincia Þnalmente a realizzarsi, permettendo di spostare a livelli più alti la soglia di equilibrio fra popolazione e risorse. In deÞnitiva, diventa possibile una maggiore densità demografica; e diventa possibile spostare braccia dalle campagne alla nascente industria manifatturiera. Il granturco o mais (o fromentone) è uno dei fattori innovativi. Importato dalle Americhe e quindi conosciuto da tempo, era tuttavia rimasto ai margini del sistema agrario. Lʼabate Giovanni Battarra, de-


L’ONDA LUNGA DELLA RURALITÀ

scrivendolo nel 1778, dice che Þno a quarantʼanni prima «i contadini dʼintorno agli orti ne piantavano una spica o due, e ne avrebbono riscosso una bernarda70 o due, per fare otto o dieci volte la polenta»71. Viste però le sue rese abbondanti, intorno alla metà del secolo si comincia ad estenderne la coltivazione, reputandolo soprattutto un alimento sostitutivo, nel caso di cattivi raccolti del grano; ma ben presto diviene un pilastro dellʼeconomia poderale e della dieta contadina. Nella pianura lo si utilizza come coltura primaverile in avvicendamento col grano, tanto da eliminare lʼanno di riposo ed aumentare così la produttività fondiaria complessiva; nelle colline, le cui terre sono meno sciolte e fresche, il riposo rimane talora indispensabile, la diffusione del mais risulta inferiore e lenta, ma non priva di effetti. Accanto al granturco, è giusto ricordare anche la patata. Derivante pure essa dalle Americhe, si diffonde qualche decennio più tardi e coinvolge superÞci minori; però non deve essere sottovalutata giacché serve a diversificare la gamma delle risorse e ad incrementarne la quantità disponibile. Dice lʼabate Battarra: «la Providenza fa ora che si comincia a introdurre certe radici forestiere come i tartufÞ bianchi, che chiamansi patate»72. Lʼaltro fattore innovativo sta nella rotazione delle colture, che innesca un processo così importante da meritare lʼappellativo di “seconda rivoluzione agraria”, dopo quella realizzata in età neolitica. Come sʼè detto in precedenza, Þno alla metà del Settecento la tecnica in uso era quella del “maggese”, alternando un anno di semina a grano con un anno di riposo, per consentire al suolo il necessario recupero. Ma la produzione si manteneva bassa e, per aumentarla, non restava che dissodare nuove terre sottraendole al pascolo; però in questo modo si osteggiava la presenza del bestiame che a sua volta non poteva fornire il concime necessario a fertilizzare i campi. In sostanza, il ciclo agronomico impostato sul maggese era irrazionale, poneva in conflitto agri-

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coltura e allevamento, perpetuando esiti mediocri per lʼuna e per lʼaltro. Il sistema che durante il XVIII secolo prende piede, soprattutto nelle regioni più fertili e progredite, consiste nellʼalternare la coltura cerealicola (che impoverisce il terreno) con una coltura foraggiera (trifoglio o erba medica) che viceversa arricchisce la terra e contemporaneamente fornisce un buon alimento per il bestiame; dal quale deriva fra lʼaltro il concime capace di migliorare ulteriormente i suoli. Si innesca pertanto un ciclo virtuoso che garantisce la positiva integrazione fra agricoltura e allevamento, permette uno sfruttamento ininterrotto dei campi senza pregiudicarne la fertilità, assicurando al medesimo tempo maggiori derrate alimentari, maggiori animali da lavoro, 69


L’UOMO E L’AMBIENTE IN VALCONCA

da carne e da latte; una “consociazione integrale nello spazio e nel tempo”, come si è voluto giustamente deÞnirla; un circuito ecologico di grande interesse. Una persistente arretratezza Il salto è davvero notevole, una vera “rivoluzione”; che tuttavia in Romagna ed anche nella Valconca stenta a prendere piede. Le cause sono molteplici: lʼarretratezza dei contadini, la difÞdenza per il nuovo e il forte attaccamento alle tradizioni, che inducono a ripetere le tecniche ataviche; le rigidità indotte dal patto mezzadrile, che ostacola ogni innovazione o trasformazione; la ridotta dimensione dei poderi, ampi mediamente 6-7 ettari appena; la mentalità

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retriva dei proprietari, la loro scarsa propensione ad investire in bestiame e attrezzature, preferendo la produzione granaria (e del mais, a partire da una certa data), che non comporta spese o rischi e garantisce ricavi immediati, sebbene ridotti. Si continua dunque come sempre (o quasi). Tolta la novità del granturco, la cui produzione (ed il relativo consumo) aumenta per gradi, è il frumento a conservare il predominio occupando la maggioranza dei suoli, con rese che in pianura si aggirano sugli 8 chicchi per 1 seme e in collina si fermano ai 3 o 4 per 173. Lo stesso Battarra, che dal suo osservatorio di Coriano si propone come maestro di “pratica agraria”, nel 1778 ancora non contempla lʼavvicendamento fra cereale e foraggio: lo si coglie con evidenza laddove speciÞca che, per misurare la produttività effettiva, il rendimento annuale di un terreno va abbattuto della metà, «perché i campi a grano si seminano un anno si e un anno no alternativamente, come è noto a ognuno»; e dove parla del Þeno, prendendo in considerazione solo i prati stabili74. Le migliorie da lui suggerite, pur essendo di notevole importanza, si limitano ad accorgimenti di carattere pratico e non sovvertono i tradizionali cicli delle colture. Chi mostra invece di avere recepito le nuove acquisizioni è il canonico riminese Paolo Morelli: nel 1816, redigendo il suo trattato, sostiene la rotazione biennale grano-foraggio, affermando che la giusta alternanza delle colture giova più del riposo75. Tuttavia le sue Istruzioni, essendo rimaste manoscritte, avranno una risonanza assai inferiore al testo del Battarra. Dʼaltronde, la ritrosia padronale allʼinvestimento di stalla vaniÞca lʼinteresse per le rotazioni a foraggio. Accanto al binomio grano-mais, nei poderi della media e bassa Valconca prosegue la presenza della vite e dellʼolivo, generalmente in coltura promiscua. È attorno a questi quattro prodotti che ruota lʼeconomia del territorio e delle singole famiglie, in un contesto che sèguita ad essere caratterizzato da miseria e


L’ONDA LUNGA DELLA RURALITÀ

arretratezza, come mostrano chiaramente i risultati dellʼInchiesta Jacini, condotta nellʼultimo lustro dellʼOttocento. Dallʼindagine continua ad emergere un panorama rurale statico, privo di stimoli positivi, popolato in larga misura da indigenti; le

maggiori produzioni strappate alla terra sul Þnire del XVIII secolo (soprattutto grazie al mais), sfuggono dalle mani contadine a causa dei patti agrari sempre più vessatori e dellʼulteriore ridimensionamento poderale; anzi lʼaffermarsi del granturco, se aiuta a

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scacciare la fame, scaccia anche il grano dalle tavole, peggiorando la dieta alimentare e determinando il diffondersi della pellagra76. Che non è lʼunico male del tempo, trovandosi a tratti in compagnia di febbri malariche, manifestazioni di tifo e colera. Lʼindubbio incremento produttivo è inoltre soggetto a fluttuazioni e periodi sfavorevoli, come ad esempio nel secondo decennio del XIX secolo, contrassegnato da una pesante recrudescenza climatica.

63. Mappa del Conca a Cevolabate di San Clemente, con i molini del Gaggio e del Trado o Terrato (1795, disegno dal registro 378 della Cancelleria Vescovile, Archivio di Stato, Rimini)

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Ed anche nelle annate normali deve fare comunque i conti con lʼormai inarrestabile aumento della popolazione; lʼeccessivo carico demografico rende sempre più larga la strada dellʼemigrazione e i flussi invernali verso lʼAgro Romano (citati poco fa) non interessano solo gli uomini della montagna, ma anche quelli della Valconca medio-bassa, provenienti in particolare da Mondaino, Saludecio, Morciano. Per chi resta, la difficile quadratura del bilancio


L’ONDA LUNGA DELLA RURALITÀ

familiare allʼinterno delle singole unità poderali impone comunque lʼespletamento di lavori sussidiari, che vanno dal coltivare terreni aggiuntivi, alla cura del bestiame minuto e del maiale, alla tessitura domestica, allʼallevamento del baco da seta (i cui principali mercati si trovano a Morciano e Montescudo). Un elemento riassuntivo della condizione rurale nella valle, sul Þnire dellʼOttocento, può offrirlo la descrizione della dieta

contadina, così come appare con insistenza nei questionari dellʼInchiesta Jacini: il bere si basa sul vino solo durante i lavori più gravosi, altrimenti consiste in aceto e acqua; il mangiare prevede lʼuso del grano solamente fra giugno e agosto, mentre nei mesi restanti si fonda sul consumo di polente, erbe e legumi; la carne bovina è praticamente assente dalla tavola, le carni di bestie minute si consumano raramente, solo se riescono a sfuggire allʼobbligo delle

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L’ONDA LUNGA DELLA RURALITÀ 64-67. Attrezzature e attività rurali (lʼerbatura, lʼuccisione del maiale, la Þlatura, la carbonaia)

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regalie padronali o allʼesigenza di venderle sul mercato per raggranellare qualche soldo77. Dunque, si attaglia molto bene anche

alla Valconca il detto: «quando il contadino mangia il pollo, o è malato il contadino o è malato il pollo».

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L’UOMO E L’AMBIENTE IN VALCONCA 68. Mappa della parrocchia di Serbadone, con le sue terre selvate (1793, disegno dal vol. V.51, Archivio Vescovile, Rimini)

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Nellʼalta valle la situazione è ancora più precaria. Se qualche modesto miglioramento agricolo è rilevabile nel corso del Settecento, non basta certo a risolvere i gravi problemi di sussistenza, appesantiti ognora dalla crescita demograÞca che non accenna a fermarsi, quantunque sia più bassa che in altre zone. Un misto di confusione politica (cui contribuisce anche la presenza francese), di recessione economica e disgregazione sociale, allʼinizio dellʼOttocento porta lʼarea montefeltrana alle soglie del collasso: unʼarea costellata di piccolissimi centri ormai tagliati fuori dalle grandi vie mercantili, priva di ogni manifattura e al tempo stesso incapace di reggersi con le sole risorse della terra. La collaudata valvola della migrazione stagionale ad un certo punto si mostra insufÞciente; occorrerà aprire un altro canale di sfogo, dato dallʼemigrazione oltralpe e oltreoceano.

È un ingranaggio sul quale merita soffermarsi brevemente. Infatti la corda tesa, che tuttavia non giunge al punto di rottura, la popolazione che aumenta sebbene il suo territorio non le garantisca lʼautosufÞcienza alimentare, sembrerebbero negare tutti i principi affermati finora. Ma la contraddizione è solo apparente: la tradizionale economia “chiusa”, capace di reggersi unicamente grazie al bilancio equilibrato fra la produzione e il consumo interni, ora può tenere maggior conto del mercato, dei ßussi di derrate e di forza lavoro. Cosicché questo paese che potremmo deÞnire “dalle braccia lontane” riesce, nonostante tutto, a resistere facendo tesoro delle risorse che parte della sua gente accumula altrove e grazie alle quali può acquisire beni prodotti altrove. E nellʼimmobilità sopravvive. Che poi è una immobilità solo apparente; in realtà

69. La marina e lʼapprodo di Cattolica (1788, veduta di A. Fedi, ms. Pal. C.B.4.7, Biblioteca Nazionale Centrale, Firenze)

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qui tutto si muove; non solo gli uomini che partono con la sacca dietro le spalle, ma la terra stessa e quel che vi sta sopra. È stato anche definito “il paese dove gli alberi camminano”. Le ricorrenti lesioni prodotte dai disboscamenti e dissodamenti disperati, al sopraggiungere della recrudescenza climatica manifestatasi fra il 1802 e il 1818, accentuano i loro effetti disastrosi: piogge prolungate, nevi e gelate trasformano il territorio montefeltrano in un mare di fango, di smottamenti e di frane. A Montegrimano, per esempio, nel 1814-1815 i movimenti franosi abbondano «rovinando estese campagne e togliendo affatto due strade principali, formando laghi ed una minaccia fino le mura e le abitazioni del paese»; il dissesto, dunque, raggiunge anche le colline mediane e si sposta ancora più in basso, investendo pure Gemmano, Montescudo78, Mondaino, Saludecio. Nellʼarco degli anni 1814-1817, legata al peggioramento del clima, sopraggiunge una grandissima carestia,

70-74. Attrezzature e attività rurali (il panieraio, la ferratura, il carretto, il molino ad acqua)

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accompagnata da violenta epidemia, che porta la montagna ad un livello di prostrazione dal quale non si solleverà più79. Se la gente rimane tuttavia aggrappata alla terra, soffrendo condizioni di estrema povertà e sopravvivendo grazie al sostegno delle sue braccia lontane, è solo perché non intravede alternative. Vegeta e attende il momento propizio. Anche al piano e nelle prime colline la vita non è facile, comunque presenta caratteri e toni meno drammatici. Cadute ormai le motivazioni che avevano provocato la fuga verso lʼinterno, la crescita del popolamento – sia aggregato che sparso – mostra le spinte maggiori in pianura, dove la terra è più fertile. E la presenza umana si inÞttisce ormai anche in prossimità della costa; fra lʼaltro è da ricordare che nel 1830, con la caduta di Algeri, era formalmente cessato il rischio della pirateria. In tale contesto assume grande rilievo lo sviluppo di Cattolica; i rinnovati trafÞci che investono


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la strada Flaminia, lʼinaugurazione della ferrovia nel 1861, la realizzazione dei moli portuali, la nascita della cantieristica e le prime esperienze dei bagni di mare, sono i fattori concomitanti che determinano lʼascesa della cittadina rivierasca, fino al riconoscimento dellʼautonomia comunale, realizzatasi nel 189580. Con tutto questo, lʼasse portante dellʼeconomia valliva resta lʼagricoltura che, a cavallo fra Otto e Novecento, mostra Þnalmente un certo dinamismo, quantunque ne sia particolarmente coinvolto un numero limitato di aziende della pianura, appartenenti a una ristretta cerchia di imprenditori illuminati. Qui si sperimentano rotazioni quadriennali e quinquennali; vengono introdotte piante industriali come la canapa, la barbabietola e il tabacco; una cura speciale è dedicata alla selezione del bestiame bovino; si realizzano i primi approcci ai concimi chimici e alla meccanizzazione. Ma cʼè dellʼaltro: attraverso varie forme di associazionismo prende piede anche un progetto diffuso di informazione, di formazione teorica e pratica, di sostegno dei lavoratori agricoli attraverso numerose iniziative che si spingono fino al credito

agrario, alle forme collettive di acquisto e di vendita. Sono i primi passi di una modernizzazione diffusa. Purtroppo la prima guerra mondiale interrompe questo percorso positivo. Al termine, lʼavvento del fascismo, con le sue rigidità, ne scoraggia la ripresa; poi sopraggiunge la crisi del 1929 e una lunga stagnazione; più tardi, la politica autarchica e la martellante “campagna del grano” fanno ripiombare lʼeconomia agraria nella condizione di cerealicoltura esasperata da cui stava faticosamente uscendo. Si giunge così alla seconda guerra mondiale, allʼinterminabile conßitto sulla “linea gotica”, ai disastri che colpiscono anche la Valconca. Quando tutto Þnisce, le campagne non hanno tempo di riprendersi, non hanno tempo di evolversi e modernizzarsi: quasi allʼimprovviso la gente volta le spalle alla terra e rivolge lo sguardo alla costa. Con lʼesplosione del turismo lʼagricoltura locale perde quella centralità che deteneva da millenni, senza peraltro essere riuscita ad esprimere pienamente le sue potenzialità. Di quel mondo – vecchio di appena mezzo secolo, eppure così lontano – e del paesaggio che lo raffigurava, molteplici 81


L’UOMO E L’AMBIENTE IN VALCONCA

elementi sono ormai scomparsi, rimasti solo nei ricordi custoditi da chi non è più giovane. Un paesaggio ordinato, sicuramente bello a vedersi, apparentemente idilliaco: campi regolari e ben disposti, suddivisi dai Þlari della piantata, ovunque sovrana; rettangoli dorati di messi mature, o verdeggianti di foraggio e di mais, o bruni di zolle appena versate; alberature e siepi lungo le strade campestri, lungo i fossi e i conÞni poderali, sempre piacevoli allʼocchio quantunque orfane degli olmi, spariti da tempo per le morìe; e ancora, serpentine cupe della vegetazione che Þancheggia i rivi diretti ai corsi dʼacqua maggiori; e tante case sparse, con le aperture e le aie rivolte al sole, plasmate dagli anni e confuse nellʼambiente, visibili a malapena dietro i pagliai, oltre le pergole e i giuggioli aderenti a facciate che trasudano del solfato di rame irrorato alle viti di moscatello. Più su, dove la pianura si increspa e le pendenze cominciano a farsi sentire, le quadre lasciano il posto a geometrie meno regolari, che accompagnano di preferenza le curve di livello; qui si impone lʼargento de-

72

73

82


L’ONDA LUNGA DELLA RURALITÀ

gli olivi, canuti per la vecchiezza; e qualche macchia residua di verde arbustivo; e paesi arroccati in cima ai colli, che rilucono al sole basso del mattino, o stagliano il loro scuro proÞlo contro i rossori del tramonto. Ancora più su, risalendo il Conca, nella valle che a tratti si restringe, o si allarga insinuandosi nelle rughe dei fianchi, è un rincorrersi di chiazze verdi, più chiare quelle dei pascoli, scure quelle delle selve; e appena la pendenza si addolcisce, riappare la terra smossa, chiamata a partorire magri raccolti; e ogni tanto le ferite grigiastre dei calanchi, segno di antichi errori: pareti spelacchiate, coperte solo da qualche ciuffo stentato, a guisa di cranio alopècico. E mentre si dirada lʼinsediamento sparso, compaiono piccoli nuclei di case “a pendìo”, dove la pietra soppianta ormai completamente il mattone. Fino a che il paesaggio si fa nu-

do, sequenza di pascoli e spuntoni rocciosi dominati dalla montagna, gigante bluastro che incombe come una quinta minacciosa staccatasi dalla scena di fondo. Non cʼè che dire: valle di una bellezza forte, ingannatrice e ruffiana, capace di ammaliare chi la guarda da lontano e ne osserva la superficie, come avveniva per lʼaffascinato viaggiatore dei secoli scorsi; bella nei colori e nelle forme, persino nellʼasprezza dei traumi subiti; ma non tanto da irretire chi ci ha consumato una vita, fra stenti e fatiche. Appena si è aperto uno spiraglio, una prospettiva, costui è fuggito senza esitare, gettandosi con entusiasmo e speranza in una avventura nuova, attratto da qualche lavoro in città, ma soprattutto dal luccichìo del mare che si frange sulla battigia, laggiù; preferendo, al simil-oro delle messi, lʼoro zecchino della spiaggia.

74

83



LʼINDUSTRIA DEL TURISMO

Fin dalla preistoria e protostoria il popolamento della Valconca ha visto prevalere lʼinsediamento di pianura o di basso rilievo, che ha raggiunto il massimo grado in età romana, con la centuriazione della conoide valliva terminale. Nellʼalto Medioevo le condizioni di insicurezza hanno causato la fuga della popolazione verso lʼinterno, affermando la centralità della collina; è stato un rivolgimento di portata epocale, durato per oltre un millennio, fino alla metà del XX secolo. Poi, con ritmo incredibilmente veloce, questo equilibrio è andato in frantumi, producendo nel giro di pochi anni un assetto completamente nuovo, tutto centrato sulla esigua fettuccia costiera: la società contadina cedeva il passo allʼeconomia turistica. A differenza di altre aree, non si è dato alcun passaggio intermedio, nessun accenno signiÞcativo di presenza industriale e manifatturiera. Lʼindagine pubblicata nel 1866 dalla provincia di Forlì attribuiva alla Valconca riminese le seguenti attività extra-agricole: una tintoria con 5 operai a Montescudo; una concia di pelli e una fabbbrica di utensili in rame a Morciano, anchʼesse con 5 lavoranti ciascuna. Lʼinchiesta Jacini del 1879 ignorava completamente tali presenze, limitandosi a segnalare in modo generico i frantoi oleari, nonché i molini idraulici da grano (31 sul Conca e 14 sui corsi minori), invero tutti opiÞci a conduzione familiare strettamente connessi allʼagricoltura e difÞcilmente classiÞcabili fra le industrie.

La ricognizione di Emilio Rosetti, riferibile agli anni ʼ80, menzionava le cave di gesso a Sassofeltrio e confermava la conceria di Morciano, aggiungendovi un mobilificio (con 7 dipendenti) e 2 pastiÞci (con 4 dipendenti in tutto: le aziende nascenti della famiglia Ghigi). Quanto alla parte superiore della valle, una rilevazione del 1894 censiva 4 gualchiere (con 11 lavoranti) e 3 tintorie (con 6 operai). Anche includendo la cantieristica marittima cattolichina (nel 1872 solo 4 addetti, fra maestri dʼascia e calafati), si trattava pur sempre di imprese modeste per numero e ruolo, affatto marginali entro il panorama economico complessivo. In definitiva, la vera industria che ha soppiantato il ruolo centrale dellʼagricoltura è stata il turismo. La fascia litoranea posta a valle della falesia, venuta a formarsi progressivamente dopo la massima ingressione marina di età neolitica, era rimasta a lungo pressoché disabitata e improduttiva; quindi, fra XVI e XIX secolo, veniva afÞdata in concessione a privati, con lʼimpegno di boniÞcarla gradualmente e renderla coltivabile. Dalla metà dellʼOttocento, questo lembo di terra si trova investito di valenze e interessi nuovi, legati alla nascente moda dei bagni di mare. Sulla scorta delle esperienze realizzatesi a Rimini, dove nel 1843 era sorto il primo Stabilimento Bagni, anche il lido prospiciente la valle del Conca inizia lʼavventura turistica. Il primo impulso proviene da Cattolica, il centro maggiore: nellʼultimo ventennio 85


L’UOMO E L’AMBIENTE IN VALCONCA 75. La vecchia sede del PastiÞcio Ghigi a Morciano 76. FotograÞa aerea della costa nel 1943

75

del secolo presso la spiaggia nascono vari villini aristocratici, in concomitanza con lo stabilimento balneare (1883). Allʼinizio del Novecento parte una seconda ondata di villini, ad opera dei ceti borghesi e – dopo la parentesi bellica – una terza, di tipo economico. Gli anni Trenta si caratterizzano per due momenti signiÞcativi: da un lato lo sviluppo delle colonie, dallʼaltro il decollo della struttura alberghiera, formatasi grazie

76

86

a nuove fabbriche ed alla trasformazione delle vecchie ville. Nel 1933 Cattolica possiede già 29 esercizi; nel 1942 sono 54 (10 alberghi, 26 pensioni e 18 locande). Sullʼaltra sponda del porto canale, lo sviluppo turistico di Gabicce rißette, in misura ridotta, gli eventi della vicina sorella maggiore. La base materiale di partenza è formata dalle case dei pescatori, scesi dal colle al piano per integrare le risorse della terra con quelle del mare; la trasformazione in apparato alberghiero avviene con gradualità: nel 1933 si contano appena 3 pensioni, che salgono ad 8 nel 1940. A Misano il forte peso dellʼeconomia agricola e la proprietà latifondistica della fascia costiera ritardano lʼavvento del turismo più che altrove; in parallelo, anche le dinamiche demografiche sono cronologicamente sfalsate rispetto agli altri comuni rivieraschi. Lʼarea situata a mare della falesia – non a caso denominata “Fienile” – mantiene a lungo la sua connotazione rurale e solo nel 1924-1926 vede i primi ediÞci ad uso turistico; quindi una pausa, seguita da isolate iniziative. La prima pensione è del 1933; nel 1938 sono diventate 2; poi la guerra.


L’INDUSTRIA DEL TURISMO 77. Tende sulla spiaggia di Cattolica

77

Il turismo di massa Se la nascita dei bagni di mare e gli iniziali sviluppi avevano innescato fin da allora alcune dinamiche economico-sociali di qualche peso, è allʼindomani del secondo conflitto mondiale che si sprigionano 1. STRUTTURE ALBERGHIERE anno

Cattolica

Gabicce

Misano

1951

131

18

5

1956

228

33

19

1961

314

92

47

1966

389

105

76

1971

393

127

122

1976

381

124

137

1981

365

126

138

1986

349

131

144

1991

333

127

144

1996

293

119

135

2001

280

121

132

Fonti: diverse.

energie inusitate, allorquando si afferma il turismo di massa, fondato su un misto di spiaggia, mare, gastronomia, prezzi popolari, accoglienza, spensieratezza e tanta voglia di gettare alle spalle gli orrori della guerra. La costa si popola di strutture ricettive con un ritmo ed una intensità davvero incredibili; sembra una enorme fungaia, che i bagnanti continuano a riempire, come un gran formicaio. Lʼindustria delle costruzioni e quella delle vacanze si rincorrono, arrampicandosi lungo la linea ascendente dei diagrammi statistici. È la stagione dʼoro del cosiddetto modello edile-balneare. A Cattolica nel 1949 gli esercizi alberghieri sono già 85; nel 1951 salgono a 131; un decennio dopo sono 314; nel 1968 raggiungono il tetto di 405, per poi decrescere lentamente di numero quando lo sviluppo turistico si arresta e subentra la fase del riassetto. A Gabicce nel 1951 le strutture alberghiere sono a quota 18, per passare a 92 nel 1961 e toccare la cifra di 130 nel 1972; quindi il loro numero si mantiene sostanzialmente stabile. A Misano, come già detto, lʼevoluzione risulta sfalsata di circa 87


2. OCCUPATI PER SETTORE DI ATTIVITÀ 1951

1961

1971

primario

%

secondario

%

terziario

%

primario

%

secondario

%

terziario

%

primario

%

secondario

%

terziario

%

Montecopiolo

596

73

46

5

178

22

377

60

54

8

200

32

166

39

163

39

95

22

Montecerignone

459

71

20

3

171

26

309

64

26

5

147

31

132

46

97

34

58

20

Montegrimano

717

71

29

3

270

26

415

57

69

10

241

33

157

41

134

35

92

24

Mercatino Conca

500

63

49

6

242

31

285

48

62

11

245

41

83

22

124

33

170

45

Sassofeltrio

663

79

37

4

146

17

329

50

100

15

230

35

118

26

229

51

104

23

Tavoleto

439

66

50

8

172

26

244

51

76

16

162

33

110

34

134

41

83

25

Gemmano

669

82

95

12

51

6

412

64

144

22

90

14

234

51

112

24

115

25

MonteÞore

1158

78

153

10

181

12

577

62

194

21

161

17

252

43

170

29

162

28

Saludecio

1626

82

184

9

173

9

808

55

468

32

184

13

341

38

362

40

195

22

Mondaino

948

76

168

14

127

10

444

50

293

33

146

17

122

22

286

52

145

26 B

Montegridolfo

445

78

90

16

36

6

193

49

163

41

42

10

122

40

139

45

47

15

Montescudo

1084

78

148

10

163

12

521

60

169

19

184

21

225

37

163

27

213

36

Montecolombo

707

70

168

16

140

14

361

42

313

37

175

21

184

35

181

34

164

31

San Clemente

1119

70

322

20

163

10

749

56

401

30

193

14

376

40

359

38

205

22

Morciano

311

24

490

38

479

38

187

12

832

51

613

37

132

8

723

45

758

47 C

San Giovanni M.

1017

54

547

29

322

17

770

41

695

37

403

22

439

23

805

42

661

35

Cattolica

727

21

1288

38

1373

41

498

10

2210

43

2415

47

310

5

2037

36

3392

59

Misano

1445

68

426

20

268

12

752

36

884

43

426

21

371

17

921

42

902

41 D

Gabicce

456

49

257

27

220

24

351

25

600

44

429

31

233

13

759

42

810

45

totale generale

15086

61

4567

19

4875

20

8582

37

7753

34

6686

29

4107

20

7898

39

8371

41

totale A

3374

70

231

5

1179

25

1959

55

387

11

1225

34

766

34

881

39

602

27

totale B

6637

78

1006

12

871

10

3316

55

1744

29

982

16

1480

38

1413

36

1041

26

totale C

2447

51

1359

29

964

20

1706

35

1928

40

1209

25

947

21

1887

42

1624

37

totale D

2628

41

1971

30

1861

29

1601

19

3694

43

3270

38

914

9

3717

38

5104

53

totale A + B

10011

75

1237

9

2050

16

5275

55

2131

22

2207

23

2246

36

2294

37

1643

27

totale A + B + C

12458

69

2596

14

3014

17

6981

48

4059

28

3416

24

3193

30

4181

39

3267

31

totale C + D

5075

45

3330

30

2825

25

3307

25

5622

42

4479

33

1861

13

5604

40

6728

47

Comune

A

Fonti: Comunità Montana Montefeltro; Camera di Commercio di Rimini; Istat.

un decennio rispetto agli altri comuni della costa: 3 pensioni nel 1950; 47 nel 1961; 122 nel 1971; 138 nel 1981, con un lieve incremento negli anni successivi, seguito da un pari decremento. Questo processo, enorme e rapido, muove grandi risorse materiali, ma anche grandi risorse umane, sottratte prevalentemente allʼagricoltura. Dai censimenti del periodo 1951-1971 si rileva un forte incremento degli occupati nellʼindustria (con particolare riferimento al settore delle costruzioni nei suoi molteplici comparti) ed una crescita 88

altrettanto forte nel terziario, con alta incidenza delle varie Þgure impegnate nel turismo. Considerando i lavoratori dellʼintera valle, gli addetti allʼagricoltura scendono dal 61% al 20%; gli addetti allʼindustria salgono dal 19% al 39%; gli addetti al terziario passano dal 25% al 47%. Disaggregando i dati per fasce territoriali si può osservare che, nei venti anni considerati, gli addetti allʼagricoltura nellʼalta e media valle passano dal 75% al 36%, nella bassa valle dal 51% al 21%, sulla costa dal 41% (comprendendo la pesca) al 9%. Gli addetti


3. POPOLAZIONE Comune

1656

1701

1736

1782-90

1816

1861

1881

1901

1921

1936

1951

1961

1971

1981

1991

2001

Montecopiolo

846

717

610

750

Montecerignone

714

625

665

743

782

979

1347

1791

1869

1941

2009

1464

1224

1221

1208

1264

839

1118

1236

1493

1619

1632

1532

1017

841

764

685

Montegrimano

1204

1094

1200

688

1334

1378

2027

2413

2866

3265

2939

2244

1630

1208

1130

1094

1155

PiandicastelloMercatino

364

374

426

461

490

681

752

903

891

1738

1342

1215

1161

1069

1029

Sassofeltrio

763

762

945

1055

1104

1373

1588

1853

2135

Tavoleto

481

530

556

643

643

953

1091

1282

1352

1422

1995

1541

1340

1263

1211

1229

1374

1074

911

856

812

816

Gemmano

1007

1172

1317

1544

1437

2147

2422

2531

2278

MonteÞore

1506

1217

1588

1927

2206

2571

2895

3055

3473

2183

2181

1725

1173

970

1012

1061

3429

3322

2498

1657

1466

1573

Saludecio

1976

2196

2490

2449

2717

3890

4063

4867

5474

1777

5114

4866

3786

2639

2429

2324

2359

Mondaino

1014

1165

1250

1728

1562

1546

1877

2135

Montegridolfo

804

650

735

856

791

933

1035

1100

2317

2433

2547

1962

1534

1469

1376

1444

1269

1248

1167

1041

868

874

874

918

Montescudo

1337

1385

1570

1587

1837

2728

2812

3073

3314

3309

2987

2295

1804

1612

1630

2089

Montecolombo

1307

1492

1389

1708

1187

1931

2052

San Clemente

1087

1229

1418

1674

1760

2603

2681

2437

2491

2488

2377

2066

1659

1479

1710

1953

3107

3473

3303

3336

3061

2443

2428

2461

Morciano

387

423

551

682

1000

1503

3102

1732

2202

2573

2641

3264

4025

4131

4705

5323

5875

San Giovanni M.

1358

1551

1928

2250

2383

2795

3512

4147

4407

4526

4806

4856

5509

6564

7208

7760

Cattolica

500

592

630

917

1057

2000

2404

3619

5097

6491

8686

12969

15623

15599

15115

15752

Misano

987

1199

1287

Gabicce

334

291

315

1582

1558

2543

2733

3454

4024

4222

4502

5202

6349

7898

8831

9876

317

398

646

823

1040

1317

1722

2349

3555

5151

5569

5410

5356

totale generale

17976

18664

20870

24207

25129

34967

39468

46955

52638

54250

57282

57109

57279

59457

60926

65503

A 3207

totale A

4372

4102

4402

4986

5236

7131

8427

10188

11131

11141

10892

8068

6739

6395

6079

6181

totale B

8951

9277

10339

11799

11737

15746

17156

19198

20616

20204

19447

15373

11334

10299

10499

11601

totale C

2832

3203

3897

4606

5143

6901

7925

9456

10453

10470

11406

11942

12083

13697

14992

16737

totale D

1821

2082

2232

2816

3013

5189

5960

8113

10438

12435

15537

21726

27123

29066

29356

30984

totale A + B

13323

13379

14741

16785

16973

22877

25583

29386

31747

31345

30339

23441

18073

16694

16578

17782

totale A + B + C

16155

16582

18638

21391

22116

29778

33508

38842

42200

41815

41745

35383

30156

30391

31570

34519

totale C + D

4653

5285

6129

7422

8156

12090

13885

17569

20891

22905

26943

33668

39206

42763

44348

47721

B

C

D

Fonti: Corridore; Mambelli; Diario riminese; Motu proprio; Campi; Casaretto; Istat. N.b. In sede di controllo dei dati, qualche valore incongruente è stato corretto risalendo a fonti suppletive; altri non sono risultati sanabili per lʼimpossibilità di riscontri. Si tratta però di poche e modeste anomalie (es. Montecolombo nel 1816), che nel complesso non inÞciano la validità della serie. La disomogeneità delle rilevazioni più antiche è causa di inevitabili approssimazioni: non sempre la sommatoria degli ambiti parrocchiali (relativi al periodo che precede il 1861) corrisponde esattamente al territorio di un comune; le stesse giurisdizioni comunali hanno subìto nel tempo più di un mutamento: in particolare la nascita della municipalità di Cattolica (1895) e lʼaffermarsi di Mercatino Conca ai danni di Piandicastello (1940). In merito ai singoli censimenti, va detto che i dati di partenza del 1656, essendo riferiti alla popolazione dai tre anni in su, sono stati maggiorati del 7,4% secondo il suggerimento dellʼautore. I valori del 1782-1790 riguardano rispettivamente i comuni della Valconca pesarese e di quella riminese. Nel 1936 il comune di Piandicastello includeva temporaneamente Sassofeltrio, oltre a Mercatino Conca (estratto da Montegrimano). Fino al 1881 gli abitanti di Cattolica sono stati sottratti al dato globale di San Giovanni in Marignano; ad eccezione del 1816 in cui Cattolica era aggregata a Gradara.

allʼindustria e artigianato nellʼalta e media valle passano dal 9% al 37%, nella bassa valle dal 29% al 42%, sulla costa dal 30% al 38%. Gli addetti al terziario nellʼalta e media valle passano dal 16% al 27%, nella

bassa valle dal 20% al 37%, sulla costa dal 29% al 53%. Il massiccio trasferimento dal settore primario a quello secondario e terziario – consumatosi allʼinterno di una medesima 89


L’UOMO E L’AMBIENTE IN VALCONCA

4. ANDAMENTO DELLA POPOLAZIONE

PREISTORIA-PROTOSTORIA

ETÀ ROMANA

generazione – determina non solo la conversione lavorativa di tantissimi individui, ma anche il loro materiale spostamento di sede. Infatti il complesso turistico della riviera può realizzarsi unicamente grazie ad una forte migrazione verso la costa. È un esodo vero e proprio, una discesa alla marina dalle dimensioni enormi (che le statistiche peraltro evidenziano in misura incompleta, giacché i vuoti sono parzialmente compensati dai rimpiazzi). Sembra quasi di rivivere lʼepopea nord-americana, con la corsa dei pionieri verso il “lontano ovest” (far west): contadini e mezzadri abbandonano a frotte la terra per trasformarsi in manovali, muratori, carpentieri, capimastri, camerieri, albergatori, bagnini, ristoratori, baristi, negozianti. Né bisogna ignorare del tutto il nucleo di coloro che si spostano solo temporaneamente sulla costa, per fare la “stagione”. Nellʼarco di un ventennio il turismo diviene il settore trainante dellʼeconomia locale (una vera e propria “monocoltura”), scalzando la centralità dellʼagricoltura che durava da 6.500 anni. In pari tempo il peso demografico si sposta in maniera decisa verso il mare, sovvertendo il prevalere 90

ALTO MEDIOEVO

della collina durato oltre mille anni. Nel 1921 gli abitanti dellʼalta e media valle rappresentavano il 60% del totale, contro il 40% della bassa valle e della costa; alla data del 2001 questo rapporto scende al 27% contro il 73%. Da soli, i tre comuni della costa passano dal 20% al 47% della popolazione globale (da notare che nel 1656 i loro territori ospitavano solo il 10% della popolazione valliva; Cattolica ne ospitava il 3%, contro il 24% del 2001). La massima accelerazione si rileva fra il 1951 e il 1971, quando il peso dei tre comuni cresce dal 27% al citato 47%, con una densità demografica che a Cattolica raggiunge i 2536 abitanti per chilometro quadrato, contro i 34 di Montecopiolo. La modesta vitalità economica e il basso tenore di vita delle comunità agricole e pastorali presenti nella valle non possono competere con le opportunità che altri comparti e altre zone riescono ad offrire. Si produce quindi un deciso spopolamento del territorio rurale, con fughe dirette in modesta misura verso le grandi città o le aree industriali e – come sʼè detto – in massima parte verso il vicino, promettente turismo costiero. Molti poderi restano


L’INDUSTRIA DEL TURISMO

PER FASCE TERRITORIALI

BASSO MEDIOEVO

ETÀ MODERNA

temporaneamente abbandonati: nei comuni della sola Valconca riminese, durante il 1960 sono ufÞcialmente 160 (per un totale di 1.059 ettari) e diventeranno 308 (per 2.114 ettari) nel 1970. Il riassestamento è graduale; i contadini dellʼinterno “scivola-

ETÀ CONTEMPORANEA

no” a quote inferiori, mentre ad occupare le postazioni più arretrate subentrano famiglie provenienti dalle Marche meridionali, dallʼAbruzzo e anche da regioni più lontane, ivi compresa la Sardegna con alcune colonie di pastori.

5. DISTRIBUZIONE DEL POPOLAMENTO NELLE VARIE EPOCHE ALTA VALLE MEDIA VALLE BASSA VALLE COSTA

30.000

25.000

20.000

15.000

10.000

5.000

2001

1991

1981

1971

1961

1951

1936

1921

1901

1881

1861

1816

1782/90

1736

1701

1656

0

91


L’UOMO E L’AMBIENTE IN VALCONCA 78. Casa rurale tradizionale 79. Esempio di edilizia campestre moderna

78

79

92


L’INDUSTRIA DEL TURISMO

80

La spinta verso la fascia costiera e il ruolo calante dellʼagricoltura non si misurano solamente nel raffronto fra comune e comune, ma anche allʼinterno di una medesima entità comunale; signiÞcativo è il microcosmo di Misano che, nei 22 chilometri quadrati della sua superÞcie, ad una porzione di territorio rivierasco somma un ampio entroterra piuttosto fertile e tradizionalmente produttivo. Ebbene, rispetto al totale delle abitazioni presenti, lʼincidenza delle case sparse (espressione tipica del comparto rurale) fra 1881 e 1936 passa dal 90% allʼ82%, quindi scende al 54% nel 1951 per crollare al 16% nel 1971. Quale signiÞcativo corollario, nel 1949 la sede municipale viene trasferita dal monte al piano (così

come era avvenuto per Gabicce). Il rivolgimento che si produce nelle campagne, economico e sociale a un tempo, non soltanto riduce il peso specifico dellʼagricoltura, ma la cambia profondamente; e con essa il paesaggio. Aumenta la proprietà coltivatrice diretta e diminuisce la mezzadria, che nel 1964 verrà abolita per legge, concludendo così sette secoli di protagonismo. Lʼattività rurale tende a industrializzarsi con la meccanizzazione e lʼuso intensivo dei concimi chimici; si perde il valore delle rotazioni, puntando al massimo proÞtto immediato senza pensare agli effetti di medio e lungo periodo. Scompaiono gradualmente i Þlari della piantata, le siepi e le vecchie alberature, che sono di ostaco-

80. I “rotoloni” che hanno sostituito i pagliai

93


L’UOMO E L’AMBIENTE IN VALCONCA

81

81. Montegrimano in una cartolina di Þne Ottocento

94

lo al lavoro delle macchine; molte colline appaiono denudate e i dossi piallati. Da un lato ritorna lʼarativo semplice, quantunque ai cereali ora si accompagnino coltivazioni più redditizie; dallʼaltro si affermano le colture legnose nella forma specializzata del vigneto, dellʼoliveto e del frutteto. La tradizionale diversiÞcazione produttiva del podere mezzadrile viene compressa e il paesaggio ne perde in varietà, risulta semplificato e in qualche misura mortificato, vedendosi cancellata la ricca stratiÞcazione storica che lʼaveva prodotto. Qualche lembo residuo è ancora visibile qua e là, specie nella collina, in piccoli fazzoletti di terra curati da vecchi contadini, ormai pensionati, sopravvissuti alla “mutazione”. Fra bassa e media valle, altri segni del cambiamento appaiono evidenti; degni di particolare nota sono i “capannoni” dellʼartigianato e della piccola industria sorti in maniera sparsa (talora accanto alle vecchie case), oppure enucleati in apposite piccole “aree”. Rappresentano il tentativo di coesistenza fra il settore primario e il secondario, posto in essere per garantire opportunità di

lavoro aggiuntive a quelle – chiaramente insufficienti e inadeguate – offerte dallʼagricoltura; è il tentativo di dare risposta allo spopolamento e al declino che gravano sui piccoli comuni. Percorrendo la valle, lʼocchio rimane abbastanza turbato da queste presenze che mal si accordano con lʼarmonia dei luoghi; si potrà dire, a discolpa, che non è sempre facile conciliare la poesia dellʼambiente con la prosa dei bisogni materiali81. Tuttavia lʼaspetto che rompe in modo più drastico la continuità col passato, proviene dalla nuova edilizia “rurale”, diffusa un poʼ ovunque. Le case che sorgono al limitare delle strade o al centro dei poderi, segnano la morte della cultura contadina e il trionfo della mentalità urbana: fabbricati che scimmiottano le forme degli edifici presenti in molti viali cittadini, anche a costo di rinunciare alla funzionalità e praticità che le case tradizionali avevano acquisito attraverso lʼafÞnarsi di una esperienza plurisecolare. Persino la tinteggiatura, fatta di colori inopportuni, si scontra coi toni e le cromie della campagna. Forse è stato lʼin-


L’INDUSTRIA DEL TURISMO

82

conscio ripudio della condizione contadina ad avviare questa moda dilagante, afÞdata alla progettazione di tecnici incolti, rincorrendo una presunta superiorità metropolitana. Quale regresso, invece, rispetto alle solenni dimore poderali ormai cancellate, la cui saggezza dʼimpianto – fatti salvi i doverosi adeguamenti – era un patrimonio da salvaguardare con intelligenza! E assieme allʼediÞcio della tradizione, sono scomparsi altri elementi consueti, come ad esempio i pagliai, rimpiazzati ovunque dai “rotoloni”, raccolti in una successione di pile e avvolti in custodie plastiÞcate che tanto ricordano le confezioni della carta igienica. Proseguendo verso lʼinterno, è la presenza arborea a colpire lʼattenzione. Il superamento della economia di sussistenza, lʼaffermarsi di logiche meramente legate alla produttività e la stessa diminuzione del carico umano, portano allʼabbandono di varie terre marginali, quelle meno fertili, le più scoscese e difÞcili da trattare con le macchine o quelle troppo decentrate. Sicché la vegetazione riguadagna spazio, le zone verdi si dilatano circondando i

corsi dʼacqua, i dirupi, i paesi arroccati; il raffronto con le vecchie immagini ne offre una testimonianza inequivocabile. La montagna e lʼalta valle, dopo la fase acuta dello spopolamento, registrano evoluzioni non omogenee: ad un certo recupero dei caratteri ambientali originari, che interessa tutto il territorio, corrispondono destini diversi fra le varie comunità. Alcuni paesi o nuclei minori vanno incontro ad un grave declino, alla totale scomparsa o allʼoblio (è il caso di Gesso, Castelnuovo, Piandicastello, Monteboaggine); i capoluoghi comunali resistono, anche grazie al ruolo dellʼapparato amministrativo, o riescono addirittura a conseguire qualche piccolo progresso sviluppando un turismo collinare (con modeste appendici termali) che serve inoltre a valorizzare i prodotti locali dellʼallevamento e della pastorizia: emblematici sono gli esempi di Villagrande e Montegrimano, che seguono le orme del vicino e più quotato centro di Carpegna. Ma un settore primario fortemente ridimensionato ed un terziario di parziale supporto, non potrebbero reggere senza lʼossigeno fornito dal notevole ßusso

82. La stessa veduta di Montegrimano oggi, con evidente recupero della presenza boschiva

95


L’UOMO E L’AMBIENTE IN VALCONCA

83

83. Fotogrammi di un rilevamento aereo del 2002 84. I grattacieli di Portoverde

84

96


L’INDUSTRIA DEL TURISMO

di manodopera artigiano/industriale diretta quotidianamente verso il contiguo territorio della Repubblica di San Marino. Gli attuali numerosissimi pendolari (i cosiddetti “frontalieri”) svolgono lo stesso ruolo dei vecchi emigranti nel riequilibrare le sorti di una comunità caratterizzata da endemica debolezza. Né bisogna dimenticare il peso del sistema previdenziale-assistenziale nelle sorti di molti nuclei familiari e quindi del bilancio complessivo. Ben diverso destino colpisce le campagne a ridosso della costa, che vengono fagocitate in quota notevole dallʼurbanizzazione: Cattolica si congiunge di fatto con San Giovanni in Marignano tramite dilatazioni residenziali e crescita del polo artigiano-industriale; alle spalle di Misano Mare si produce un fenomeno analogo che, alle destinazioni abitative e produttive, aggiunge strutture di carattere sportivo, come il circuito di Santa Monica. AlÞne, sulla ristretta fettuccia costiera posta a valle della falesia si distende il

complesso turistico-alberghiero. Realizzato quasi interamente per iniziativa di piccoli operatori e imprese familiari, con scarsissime risorse e tanto impegno personale, è di fatto un inno alla loro intraprendenza; la dimensione e lʼarticolazione del meccanismo creato quasi dal nulla, così ricco di offerte e opportunità, destano meraviglia. Le note dolenti stanno nel sacriÞcio eccessivo degli spazi, nellʼedificazione esasperata e non programmata, che mortificano inevitabilmente i livelli qualitativi. La sommatoria degli egoismi individuali non produce mai lʼinteresse collettivo. È mancata – nel governo del territorio – la saggia mano pianiÞcatrice dellʼente pubblico, indispensabile per evitare gli errori e il respiro corto dello spontaneismo; ed anche quando una traccia di progetto si è inverata, è rimasta comunque succube della speculazione privata, come appare evidente nel “mostriciattolo neo-catalano” di Portoverde, iniziato sul Þnire degli anni ʼ60.

85. Le immagini pubblicitarie di Portoverde escludono pudicamente i grattacieli

85

97


L’UOMO E L’AMBIENTE IN VALCONCA

98


GUARDANDO AL FUTURO: UNʼALTRA CITTÀ “PROFONDATA”?

Si dice che la storia è maestra di vita, che lʼanalisi dei cicli ricorrenti e dei processi in atto aiuta a “leggere” il futuro e a ricavarne utili lezioni di comportamento. Forse è vero, tuttavia mai come ora si presenta difÞcile preÞgurare lo scenario del domani, essendo totalmente cadute le rigidità di un tempo: i modelli autarchici sono desueti; la società globalizzata apre il mercato alla produzione e al consumo senza più vincoli territoriali o naturali; ciascuna comunità trova davanti a sé un largo ventaglio di opportunità (condito però di altrettante difÞcoltà). Al cospetto di un orizzonte così indeÞnibile, la prudenza è dʼobbligo; si potranno al massimo cogliere le tendenze più consolidate per farne la base di qualche proiezione attendibile. I consigli e i suggerimenti divengono un azzardo; rimane più prudente limitarsi alle semplici rißessioni. Sotto il proÞlo demograÞco la situazione della Valconca parrebbe stabilizzata; il breve periodo non lascia prevedere grosse variazioni nel popolamento, sia dal punto di vista numerico che della distribuzione spaziale. Il turismo costiero è saturo; la fuga dallʼentroterra si è arrestata; le comunità collinari e montane stanno recuperando il loro equilibrio. Gli ultimi censimenti annuali le indicano anzi in leggera crescita, per una serie di ragioni concomitanti: la ricerca di luoghi più vivibili e di afÞtti meno esosi rispetto alle sedi urbane; il rientro di numerosi pensionati nei paesi dʼorigine; lʼavvio di un turismo collinare che fa perno sui valori ambientali; lʼaffermarsi di una

agricoltura qualitativa attenta alle potenzialità del territorio. Questʼultimo aspetto costituisce una delle novità più interessanti. Parecchie esperienze stanno dimostrando che esiste un futuro per produzioni di pregio quali: vino, olio, salumi, formaggi. Lo stesso paesaggio ne viene inßuenzato: dopo lʼespandersi dei vigneti, ultimamente è lʼolivo a marcare forti progressi, ricoprendo le colline delle sue chiome inconfondibili. Se lʼambiente mediterraneo si caratterizza per la presenza diffusa del binomio vite-olivo, allora la prima provincia “mediterranea”, scendendo dal nord, si trova proprio qui. Esistono anche forti possibilità di integrazione – per ora poco sfruttate – fra agricoltura e natura. La storia, lʼarte e la cultura di cui sono ricchi i vari centri, le note e apprezzate tradizioni gastronomiche, lʼidentità e le bellezze dei luoghi, le nascenti oasi verdi e gli scenari suggestivi, possono entrare in simbiosi con lʼofferta agronomica locale, concorrendo al decollo di un vivace turismo dellʼentroterra capace di intercettare la domanda che proviene da strati crescenti della popolazione. Il valore di questa prospettiva non è meramente economico, in quanto racchiude una opportunità di grande interesse: il riequilibrio della valle, attenuando lʼeccessiva concentrazione del popolamento e delle sedi produttive che caratterizza la piana costiera. Una prospettiva oltremodo propizia, anche perché può offrire occasioni di crescita in una fase che vede gli altri settori 99


L’UOMO E L’AMBIENTE IN VALCONCA 86. FotograÞa aerea dellʼagosto 1955, che evidenzia i materiali in sospensione presenti nelle acque sotto-costa 87. Le ultime dune sulla spiaggia di Cattolica

86

segnare il passo. Lʼapparato artigiano-industriale, che nel corso degli ultimi decenni (soprattutto grazie al polo di San Giovanni in Marignano) ha raggiunto dimensioni e peso notevoli assumendo un ruolo non più subordinato alla struttura balneare, ora è condizionato dai bassi ritmi dellʼeconomia

globale; a sua volta il turismo balneare, pur restando nellʼimmaginario collettivo lʼelemento trainante e il simbolo della riviera, ha cessato dʼessere la “monocoltura” dei passati decenni e risulta ormai attestato su livelli quantitativi difÞcilmente valicabili. La natura manomessa Merita soffermarsi un poco sulle ragioni di questʼultimo assunto, con particolare riguardo alle motivazioni legate ai fattori ambientali, che formano oggetto speciÞco del presente volume. Per un verso il complesso edilizio alberghiero ha raggiunto una tale densità che ogni ipotesi di incremento ne provocherebbe un pericoloso degrado (non a caso il numero delle strutture è venuto calando negli ultimi anni); per altro verso anche il mare e la spiaggia difÞcilmente sopporterebbero un carico umano superiore a quello odierno; infatti è fuori dubbio che la qualità di un luogo si deteriora quando la massa degli utenti supera

87

100


GUARDANDO AL FUTURO: UN’ALTRA CITTÀ “PROFONDATA”? 88. Le strutture in disuso del frantoio ASMARA, legate ai massicci prelievi di ghiaie dallʼalveo ßuviale 89. Il letto del Conca allʼaltezza di San Giovanni in Marignano, depauperato del manto ghiaioso e sprofondato

88

un certo numero. Ovviamente le sorti dellʼAdriatico non si decidono solo in riviera; la difesa di un siffatto mare, chiuso e poco profondo, richiede necessariamente il concorso di tutte le comunità che convergono sulla pianura padana; tuttavia la purezza

dellʼacqua sotto-costa, la limpidezza, la trasparenza e il suo aspetto accattivante molto dipendono dalla quantità dei “bagnanti”. Analoghe considerazioni riguardano il grado di fruibilità della spiaggia; e altrettanti interrogativi solleva quella particolare zona

89

101


L’UOMO E L’AMBIENTE IN VALCONCA

90-91

intermedia, venuta a trovarsi fra mare e spiaggia dopo lʼinstallazione delle opere in difesa dellʼarenile; una zona dove le acque ristagnano e il libero fluire delle correnti risulta impedito. Negli ultimi decenni il tratto costiero ha subito una metamorfosi profonda; lʼequilibrio fra terra e mare si è alterato, deter-

90-92. Lʼinvaso e la diga sul Conca, che hanno bloccato ogni apporto solido destinato al ripascimento naturale della spiaggia

92

102

minando una progressiva erosione della spiaggia. Come è noto, le cause sono molteplici: innanzitutto i moli portuali o di foce (cresciuti in numero e lunghezza) hanno interrotto lo scorrimento naturale della sabbia che la corrente litoranea trasferisce di continuo verso nord; in questo modo i tratti di arenile posti alla sinistra degli sbarramenti,


GUARDANDO AL FUTURO: UN’ALTRA CITTÀ “PROFONDATA”?

93

non più rimpinguati dal consueto rifornimento, hanno cominciato a deperire e ad arretrare. In secondo luogo sono fortemente calati o addirittura azzerati gli apporti solidi con cui i Þumi provvedono ad alimentare le spiagge compensando le dispersioni prodotte dalle mareggiate; il fenomeno riguarda in particolare il Conca, tradizionale veicolo di copiosi materiali alluvionali. Per vario tempo si è dato corso ad una deprecabile attività estrattiva di sabbie e ghiaie (stimata in 480.000 metri cubi fra il 1957 e il 1971), che ha provocato ampi squarci nel suo letto ed ha anche innescato lʼinfossamento dellʼalveo, cui si è posto riparo costruendo cinque briglie di contenimento e “gradinando” il fiume. Poi, nel 1972, la fluitazione dei sedimenti ha subito un arresto totale a causa della diga realizzata

per creare lʼinvaso destinato ad alimentare lʼacquedotto locale (oggi inattivo). Lʼinsieme di questi interventi umani ha alterato in maniera pesante il delicato equilibrio costiero, sottraendo alla competizione degli elementi naturali le migliori “forze” destinate a controbilanciare la tendenziale aggressività del mare. Per proteggere la spiaggia e preservarla dalla graduale scomparsa, sono sorte allora le opere di difesa, rappresentate da scogliere, pennelli, barriere soffolte, ripascimenti artiÞciali: tutte risposte locali e temporanee, che rallentano o spostano lʼerosione ma non la bloccano, producendo nel contempo una profonda mutazione del paesaggio rivierasco e sminuendone palesemente la qualità. Inoltre la situazione è appesantita dal concorso di altri fattori, particolari e ge-

93. Le prime scogliere sulla spiaggia di Cattolica; è anche visibile una barriera provvisoria a difesa dellʼ arenile

103


L’UOMO E L’AMBIENTE IN VALCONCA

94

94. La linea continua delle scogliere di Cattolica, di fronte ad una spiaggia “satura”

104

nerali. Tutta la costa è interessata dalla subsidenza: il suolo si abbassa, per la naturale costipazione dei suoi materiali, per lo sfruttamento delle falde acquifere e dei giacimenti di idrocarburi. Gli ultimi decenni hanno fatto registrare una preoccupante accelerazione del fenomeno; per fortuna lʼallacciamento della rete idrica costiera allʼacquedotto romagnolo ha concesso un respiro al sistema freatico locale; deleterio sarebbe invece lʼipotizzato prelievo del gas individuato nel sottosuolo di Misano. Alla subsidenza vanno poi sommate le conseguenze dellʼeustatismo: il livello marino si sta alzando giacché lʼaumento di anidride carbonica nellʼatmosfera (provocato dalle attività umane) innalza le

temperature ed accelera lo scioglimento dei ghiacci polari. Se i consumi energetici mondiali non muteranno la loro natura e intensità – cosa poco probabile, dati gli indirizzi economici e politici dominanti – secondo lʼopinione degli studiosi più accreditati nei prossimi decenni lʼeustatismo accentuerà decisamente le sue dinamiche. Dunque, a meno che le tendenze in atto vengano sovvertite da qualche macro-fattore oggi non prevedibile, lʼeffetto combinato dei processi appena descritti fa presagire un avanzamento del mare, tale da rendere vano – nel medio periodo – ogni intervento a protezione della spiaggia. Lʼarenile verrebbe inesorabilmente sommerso; e non solo quello. Infatti il mare potrebbe anche


GUARDANDO AL FUTURO: UN’ALTRA CITTÀ “PROFONDATA”? 95. Lʼampia spiaggia di Misano nel 1952, allʼaltezza della ex colonia Piacenza 96. Nel 1978 lʼerosione raggiunge la colonia, che verrà poi abbattuta

95

96

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L’UOMO E L’AMBIENTE IN VALCONCA

97

raggiungere lʼabitato, spingendosi magari Þno alla falesia, così come era avvenuto in precedenza. A qualcuno sembreranno ipotesi irreali, venate di catastroÞsmo; eppure basta sem-

98-99

106

plicemente conservare gli attuali modelli economici e di vita per tradurle in realtà. Certo, il disastro non è alle porte; sulla costa della Valconca le prime conseguenze tangibili, a iniziare dalla spiaggia, si avver-


GUARDANDO AL FUTURO: UN’ALTRA CITTÀ “PROFONDATA”?

tiranno solo fra un poʼ dʼanni, a meno che improvvide iniziative dellʼuomo contribuiscano ad affrettarle oltre ogni pronostico. Comunque sia, a prescindere dai tempi, le linee di tendenza paiono tracciate: fra abbassamento del suolo e innalzamento del mare, il destino della fascia rivierasca posta al di sotto della falesia appare segnato. È possibile che, quando il mare invaderà quegli spazi, il turismo balneare sia già una esperienza conclusa; in caso contrario saranno le acque a decretarne la Þne. Sarebbe fuori luogo meravigliarsi: era noto Þn dal momento in cui è iniziata lʼedificazione della costa bassa, dando vita al complesso turistico, che si trattava di una operazione ineluttabilmente effimera. A partire dallʼantichità classica gli architetti si sono costantemente raccomandati di scegliere con scrupolo le sedi da urbanizzare, valutandone a fondo tutte le caratteristiche ed escludendo i suoli a rischio. Invece, il massimo di concentrazione edilizia sulla riviera è avvenuto proprio in quellʼarea di recente formazione che non andava occupata perché instabile, alta non più di 4-5 metri sul livello marino e soggetta ai contraccolpi di mutazioni anche modeste. Intasare le lingue costiere che il mare è solito lasciare

e riprendere, nel ßusso e rißusso delle sue stagioni, signiÞca inevitabilmente afÞdarsi alla provvisorietà delle contingenze ciclicamente riproposte. Nellʼottica di lunga durata, la città dei bagni posta a ridosso della battigia è un gigante dai piedi dʼargilla, un monumento alla precarietà. Ancora una volta ritorna il dualismo fra i tempi brevi dellʼuomo e i tempi lunghi della natura. Ha ragione chi punta a sfruttare le opportunità immediate, ancorché non durature, sostenendo che alla resa dei conti lʼinvestimento risulterà comunque ammortizzato a sufÞcienza? In tal caso non resta che afÞdarsi al quotidiano, resistendo e reagendo ogni giorno – nei modi ritenuti più efÞcaci e corretti – Þno a che sarà possibile. Nella serena consapevolezza che un giorno – quanto lontano? – lʼodierna fascia costiera si tramuterà in una nuova città “profondata”. Lʼevento lascerà senzʼaltro il segno, nellʼeconomia e negli animi; ma la tempra di questa gente è forte, la sua intraprendenza proverbiale. Forse saprà reagire e costruire un assetto diverso, un nuovo equilibrio; col tempo le emozioni e i ricordi si allenteranno, quellʼevento storico potrà anche trasformarsi in leggenda. È già accaduto.

97. Lʼerosione a Misano-Brasile 98. La spiaggia di Misano difesa dai pennelli 99. La spiaggia di Misano-Brasile difesa dalle scogliere 100. Lʼinurbamento a rischio, nelle terre basse costiere fra Misano e Cattolica

100

107



APPENDICE

MORCIANO, LA SCOMPARSA E LA RINASCITA

Allʼinterno di un lavoro che si sforza di esaminare le interazioni fra lʼuomo e lʼambiente in Valconca nel corso delle varie epoche storiche, le vicende di Morciano e del suo castello meritano uno spazio particolare perché offrono un esempio estremamente signiÞcativo di tale rapporto. Il sito di Morciano è strategico: luogo di naturale conßuenza per le genti di tutta la valle, posto sopra un vasto e fertile terrazzo che si eleva sul Þume, risulta documentato come fundus fin dal 94782 e come locus negli anni 971-98383. Dal 1014 compare il centro fortiÞcato (castrum); al suo interno si trova la cappella dedicata a San Giovanni; allʼesterno il luogo di mercato (forum), la selva (fracta et silva) e lʼinsieme dei poderi (campi, mansi)84. Va detto però che i castelli del tempo sono caratterizzati da strutture difensive intrinsecamente modeste, spesso costituite da un semplice recinto ligneo, magari munito di torri guardiane; si cerca allora di potenziarne la resistenza scegliendo le collocazioni più favorevoli offerte dallʼambiente (picchi rocciosi, sedi impervie e di accesso difficile). Ma la zona di Morciano è pianeggiante; il punto che meglio si presta allo scopo è dato dallo sperone proteso verso lʼalveo del Conca: il dirupo sul fiume costituisce uno scudo naturale, resta solo da proteggere lʼaccesso sul lato opposto. Lì nasce dunque il castello. Non è grande: dentro il recinto abitano poche persone in umili case raccolte attorno alla chiesa; è piuttosto un ricetto, un ricovero

di emergenza per la popolazione limitrofa nei momenti di pericolo. È anche ipotizzabile, col tempo, una sua evoluzione: da struttura esclusivamente lignea a fortificazione in muratura. Dopo il 1014 la sua presenza è comprovata dalle fonti negli anni 1068, 1069, 1070, 1081, 1148, 1183, Þno al 120285; a partire dal 1203 il termine castrum scompare dalla documentazione: Morciano viene menzionato esclusivamente come forum, corredato dalla chiesa di SantʼAngelo o San Michele Arcangelo86. Non si ha notizia di guasti causati da eventi bellici; la tradizione vuole che sia stata lʼirruenza del Conca ad erodere e minare la rupe su cui sorgeva il castello; il Crustumium rapax cantato da Lucano avrebbe colpito ancora. Mancano fonti coeve che ne parlino in forma esplicita; però lʼaffermazione è sorretta da fondamenta abbastanza solide e credibili, che trovano sostegno anche nel persistere dei fenomeni erosivi lungo i secoli. Nel Seicento, Gasparo Rasi ricorda lʼatto del 1069 con cui Pietro di Bennone donava a Pier Damiani la «parte sua della chiesa chʼegli haveva nel castello di Morciano, chiamata San Giovanni Evangelista et hoggi non vi è chiesa né castello essendo stato aterrato da continuo et inpetuoso corso del Þume Conca che lo costeggiava; et nel suo letto et ripe si scorgono le vestigia»87. La furia delle acque sembra risparmiare temporaneamente – perché situati appena più a valle – il luogo del mercato e lʼattigua chiesa di SantʼAngelo, que parum 109


L’UOMO E L’AMBIENTE IN VALCONCA 101. Ipotesi ricostruttiva del castrum Morciani nel XII secolo (O. Delucca, 2004) 102. Fiume che straripa (disegno del Guercino, Devonshire Collection, Chatsworth)

101

distat ab eodem castro, secondo la citata fonte del 1202 che precede il disastro. Ma lʼazione destabilizzante del Þume, nellʼansa che lambisce Morciano, continua a minare le basi della rupe. Dalla visita pastorale del 1607 risulta che la chiesa di

102

110

SantʼAngelo cum domo canonicali minatur ruinam propter eius vetustatem et vicinitatem ßuminis della Conca, al punto che suos superiores decrevisse eam transferre in alia parte dicti burgi in loco tuto et libero a periculo ßuminis88. Il che trova conferma


MORCIANO, LA SCOMPARSA E LA RINASCITA 103. Veduta aerea di Morciano; a destra la parte vecchia, sul ciglio della rupe 104. Morciano lungo la ripa del Conca. Al centro è visibile la voragine che ha inghiottito lʼantico castrum

103

nelle scritture dellʼabbazia di San Gregorio dove Giacinto Martinelli, annotando le spese sostenute lʼanno 1619 per la “chiesa nova” di SantʼAngelo, dichiara: «Era questa chiesa anticamente più in su verso la Conca ma, appressatasi la corrente del Þume, con-

venne per la corrosione levare e trasportarla sul mezzo della piazza di Morciano»89. Dopo un certo lasso di tempo, anche questa seconda chiesa «fu rosa a poco a poco dal suddetto Þume, restando solo dʼantico un macigno in mezzo al Þume, che lo credo-

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L’UOMO E L’AMBIENTE IN VALCONCA

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105. La via Castellaccia si perde nel dirupo

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no comunemente “il piede del Conca”; e nel luogo dellʼantica chiesa vi è eretta una croce, rialzata da pochi anni addietro sulle sponde del Þume stesso»90. Il terzo ediÞcio religioso sorgerà nel 1794. Naturalmente lʼerosione provocata dal Þume non poteva non coinvolgere anche la strada del paese e le case prospicienti: tantʼè vero che «una volta venendo da MonteÞore vi si entrava per una strada retta, la quale essendo stata corrosa a poco a poco dallʼacque del Þume Conca, il comune di MonteÞore nel 1759 ne aprì una nuova, che è quella per cui si passa al presente»91. Alla luce di questa azione instancabile del Þume, protrattasi secolo dopo secolo, appare verosimile il disastro dʼinizio Duecento, anche in assenza di documentazione specifica. E tutta la storiografia si mostra

concorde nel sostenere che il castello di Morciano «decadde poscia e rimase quasi distrutto dalle corrosioni del Conca»92. Del resto, osservando la parte vecchia del paese, è tuttora possibile cogliere vari elementi che confermano le ripetute frane: lʼenorme squarcio visibile a monte del nucleo attuale; la via Castellaccia che si perde nella china; la via mediana (o “piazza”, come suole dirsi), tradizionale sede del mercato, palesemente interrotta. Le passate peripezie di Morciano, dʼaltra parte, si inseriscono in un contesto caratterizzato da analoghi fenomeni erosivi avvenuti in vari momenti lungo lʼalveo del Conca. Pur tralasciando la possibile responsabilità del Þume nelle vicende della “città profondata”, altri fatti sono da ricordare. Il progressivo inarcamento dei meandri che segnano il letto fluviale, ha provocato in particolare un episodio molto simile sullʼaltra sponda, a Salgareto di Montecolombo: qui il continuo sgretolarsi della rupe, sotto lʼincalzare delle acque, avrebbe determinato la distruzione della chiesa di San Giorgio, posta sul suo ciglio93. Inoltre (come già detto), le forti piene hanno sempre causato il disfacimento delle chiuse e dei canali per i molini, costringendo la “gente del Þume” ad un lavoro incessante di ripristino e ricostruzione. Più di recente, va ricordata la sofferenza di Mercatino, soggetto a ripetute inondazioni, tanto da dover ricorrere ad opere di contenimento, fra il 1869 e il 189794. Le grandi alluvioni del Conca hanno alimentato per secoli timori e fantasie, superstizioni e devozioni, imprimendole nellʼanima popolare; la leggenda del beato Amato Ronconi da Saludecio, che scampa alla piena del Þume, ne è un esempio eloquente. Tornando a Morciano, dal 1203 viene dunque indicato soltanto come forum (mercato)95. Non rientra in alcuna delle categorie con cui sono classiÞcati di norma gli insediamenti del contado riminese (castrum, tumba, villa), perché non è un abitato; tantʼè che non Þgura affatto nella Descriptio


MORCIANO, LA SCOMPARSA E LA RINASCITA 106. La porzione di Morciano alle dipendenze di San Clemente, nel 1774; la strada principale è stata raggiunta e interrotta dal Þume (Catasto Calindri, Archivio di Stato, Rimini)

106

Romandiole del 137196. Tale documento, che riporta in modo analitico i vari centri della regione, anche i più piccoli, riuniti nei rispettivi vicariati, ignora infatti Morciano. Se ne trae la conclusione che, a partire dagli inizi del XIII secolo e per lungo tempo, Morciano non ha una popolazione stabile, ma è soltanto luogo di conßuenza per il mercato che vi si svolge con periodicità. Dalle fonti archivistiche emerge lʼassenza di case dʼabitazione Þno al secondo decennio del Quattrocento: nel luogo vi sono esclusivamente capanne e tende (una decina), con tre taverne od “ospizi”. In sostanza, il forum possiede semplici strutture di ricovero che, nel giorno del mercato, si riempiono di merci, persone e animali, salvo venire abbandonate Þno al mercato seguente. È significativo che i contratti giunti Þno a noi risultino stipulati sempre il giovedì, divenuto il giorno canonico dellʼemporio: i notai dei dintorni una volta alla settimana scendono a valle e rientrano alla sera. Altrettanto signiÞcativo risulta il fat-

to che in questi contratti compaiano tante persone delle località limitrofe e nessuno di Morciano, confermando la mancanza di residenti. Anche gli artigiani attivi sul mercato (in un primo tempo sono citati: il fabbro, il sarto e il calzolaio) si trattengono quel solo giorno, provenendo dai castelli vicini. In questa fase, lʼevento di maggiore rilievo è dato dalla costruzione dellʼospedale di SantʼAngelo, iniziato nel 1292 da Menadello di Biforca, il quale nel proprio testamentario dispone anche un congruo lascito per ultimarlo. Stante il carattere prettamente assistenziale delle strutture ospedaliere nel Medioevo, tale costruzione si giustifica appieno presso un luogo di convergenza e di transito come il mercato; va rilevato però che nel 1376 lʼospedale risulterà totalmente distrutto97. Rinasce il paese Mentre sotto il profilo commerciale Morciano conserva senza interruzioni 113


L’UOMO E L’AMBIENTE IN VALCONCA

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107. Disegno di Morciano nel 1793 (voI. V.51, Archivio Vescovile, Rimini)

114

un peso notevole, grazie al suo mercato, nondimeno alla scomparsa del castrum fa seguito un recupero demografico lento e tardivo. Al di là dellʼinsediamento sparso nelle campagne, mai venuto meno, un nuovo centro stenta a formarsi e comunque risulta sempre una entità priva di vita autonoma, proiettata esclusivamente sullʼemporio settimanale; al punto che nel XVI secolo Morciano sarà individuato ancora col nome di “mercato”98. In campo urbanistico i primi concreti segnali di novità risalgono alla fine del Trecento, quando è documentato il “castellare di Morciano”. Lʼespressione indica un ediÞcio articolato, diviso fra alcuni possessori, dotato di robusti muri e forse di altre strutture difensive, piuttosto malmesso alla data della rilevazione. Poiché tutti i beni immobiliari della zona appartengono allʼabbazia di San Gregorio (passati poi al monastero Olivetano di Rimini99), è possibile seguire le vicende di questo fabbricato, così come delle altre dimore, attraverso i superstiti libri censuari delle corporazioni religiose100. Il castellare trova menzione fra il 1386 e il 1404; in questo lasso di tempo viene

assegnato a varie persone dei paraggi. Si trova nel fondo “del Castellare o di Morciano” e, tra i suoi confini, annovera la fossa del molino. Fino al 1499 le fonti archivistiche segnalano anche alcuni terreni agricoli posti nel suddetto fondo, aventi per conÞne la fossa del molino Valle ed il Conca. La struttura edilizia del “castellare”, sulla base dei riferimenti topografici disponibili, parrebbe situata nelle vicinanze del mercato, forse a controllo e difesa del guado sul Þume; non è escluso che possa trattarsi della fortiÞcazione da cui è derivato il nome della via Castellaccia. Il secondo elemento di novità, primo per importanza, consiste nella rinascita del paese, sul luogo stesso di effettuazione del mercato. Non si tratta più di un castrum come due secoli prima, ma di un nucleo abitativo aperto, senza cinta muraria. È probabile che lʼiniziativa del nuovo insediamento stabile nasca dietro sollecitazione delle categorie che operano abitualmente nel mercato; di fatto, ad assumerne la paternità e la regia sono i responsabili del monastero o abbazia di San Gregorio. Nel 1413 risultano avere già costruito in proprio un hospitium (ossia taverna), chiamato anche “la casa grande”; in quello stesso momento compaiono le prime concessioni di terreni ai privati, accompagnate dalla clausola che impegna gli assegnatari a costruirvi una casa entro un certo lasso di tempo: 1 anno, 2 anni, 3 anni, 10 anni, imprecisato. La ripartizione in lotti ha come superÞcie base la “tavola”, pari a circa 30 metri quadri (29,48 per lʼesattezza). Le 37 misure presenti nelle registrazioni superstiti (che vanno dal 1413 al 1529) corrispondono ad 1 tavola (16 volte), 1 tavola e mezzo (6 volte), 2 tavole (8 volte), 2 tavole e mezzo (1 volta), 3 tavole (1 volta), 4 tavole (5 volte). Nellʼarco di tempo considerato, gli edifici materialmente costruiti risultano essere 41, mentre i lotti sui quali non è ancora testimoniato alcun ediÞcio sono 12. Le case a sicura destinazione abitativa sono


MORCIANO, LA SCOMPARSA E LA RINASCITA

poche, 7 in tutto, mentre la maggioranza dei fabbricati serve alle attività mercantili, il che spiega la loro frequente dimensione ridotta; in prevalenza sono semplici botteghe o magazzini che sostituiscono le tende e i capanni utilizzati in precedenza. Sul piano strutturale, gli ediÞci risultano generalmente in muratura, con tetto di coppi; si tratta però di ediÞci modesti, alcuni dei quali classiÞcati come “casupola”. Le informazioni riguardanti lʼaltezza scarseggiano: 4 case sono dotate di un solaio; 3 risultano

a pian-terreno; delle altre non è detto nulla. Qualche notizia trapela sulle loro pertinenze: alcuni cortili ed orti sul retro, un paio di forni utilizzati in comune, numerosi portici sul fronte stradale, che servono chiaramente per lʼesposizione delle merci e la contrattazione. Entro certi limiti le fonti permettono di ricostruire anche lʼossatura del paese in formazione. Lʼelemento principale consiste nella strata seu forum, detta anche platea seu forum o semplicemente forum: è lʼarteria centrale, in cui ha sede il mercato. Un

108. Pianta di Morciano nel 1811 (Catasto napoleonico, Archivio di Stato, Roma)

108

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L’UOMO E L’AMBIENTE IN VALCONCA

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109. La chiesa di SantʼAngelo (o San Michele Arcangelo) nella sua ultima sede

116

atto la deÞnisce: via seu platea fori Morzani que est de iuribus dicte abbatie, rendendo esplicita la proprietà del monastero di San Gregorio. Sui due lati di questa strada convergono ben 21 case fra quelle censite (una dʼesse Þgura in medio cursu dicti fori), oltre a 4 lotti ancora inediÞcati. Alcune notizie di fabbriche in aderenza lasciano intendere Þn da allora una edilizia compatta, caratterizzata dalla tipologia “a schiera”. Ma il nucleo di Morciano non si esaurisce qui; alcune segnalazioni di strade situate dietro gli stabili che si affacciano sul “foro”, nonché di strade o androne fiancheggianti, mostrano lʼesistenza di un reticolo ormai delineato. In particolare trova menzione la strada che parte dal foro diretta a San Clemente (scendendo verso il guado del Conca). Il mosaico delle case e

dei lotti raggiunge anche i suoli più bassi e quelli a dirupo, come si evince dalla domum inferiorem dicti fori versus Concham, o dalla presenza di suoli ediÞcabili che si spingono usque ad gripum. Sulla strada centrale del mercato continuano a trovare sede i prodotti e i mestieri più consueti. Vengono segnalati fabbri e sellai; un apposito luogo è riservato agli orciai (il loco ubi urcei et olle vendebantur); i numerosi calzolai sono riuniti in una apposita residentia calzolariorum, dove provvedono alle riparazioni e alle vendite (offrendo scarpas ad vendendum), la qual cosa non meraviglia, dato che le persone del tempo si muovono soprattutto a piedi; e naturalmente fra le varie botteghe risultano inserite parecchie osterie o taverne. La cerchia dei frequentatori e dei residenti sèguita


MORCIANO, LA SCOMPARSA E LA RINASCITA

ad essere formata in prevalenza da genti delle località vicine; ma non manca notizia di osti, artigiani e mercanti bolognesi, ferraresi, lombardi, slavi. E poiché i luoghi di mercato, dove conßuisce tanta gente coi relativi animali, sono anche sedi propizie per la questua, ecco lʼiniziativa dellʼospedale di SantʼAntonio il quale, nel 1467, risulta avere dal monastero di San Gregorio in Conca la concessione di un piccolo terreno super quo est constructum quoddam pillastrum lapideum pro faciendo Þguram Sancti Antonii et cum una cassetta pro retinendo elemosinas faciendas dicto hospitali, quod terrenum scitum est in foro Morciani. Un atto del 1479 confermerà la presenza del zoccus conÞctus in muro in quo reponuntur quatreni dati ad honorem Sancti Antonii101. Resta da dire che, in materia giuridicoamministrativa, Morciano è diviso a metà fra MonteÞore e San Clemente. La linea di conÞne passa proprio al centro della strada che ospita il mercato, ingenerando non poche controversie tra le due comunità. Piuttosto nota è la vertenza scoppiata nel 1467, conclusasi con un accordo che riconosce

a MonteÞore la titolarità del mercato, ma concede agli abitanti di San Clemente una serie di opportunità e facilitazioni102. Viceversa in ambito religioso Morciano ha un riferimento univoco, appartenendo per intero alla parrocchia di SantʼAngelo. Proprio dalle scritture di provenienza ecclesiale si ricava un dato molto importante per comprendere la situazione del luogo: in occasione della sacra visita effettuata dal vescovo Castelli nel 1579, il censimento parrocchiale rileva la presenza di 194 anime103. Una quarantina di famiglie, in sostanza, comprendendo quelle dei lavoratori agricoli sparsi nel territorio circostante. Il paese vero e proprio, a distanza di quasi due secoli dalla rinascita, conta ancora poche decine di abitanti, a riprova del carattere peculiare di Morciano: lʼessere rimasto per lunghissimo tempo sede di incontro e di scambio piuttosto che luogo di residenza.

110. Il mercato dei buoi a Morciano

110

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NOTE

Abbreviazioni

sono accusati di provocare erosioni e prosciugamento delle sorgenti.

AAR – Archivio Arcivescovile Ravenna

9

ACR – Archivio Capitolare Rimini

Bonora Mazzoli, Persistenze, pp. 95-97; Bottazzi, Pro poplo, pp. 329-350.

ASF – Archivio di Stato Forlì

10

ASR – Archivio di Stato Rimini AVR – Archivio Vescovile Rimini

Il periodo compreso fra il 300 a.C. e il 400 d.C. viene infatti qualiÞcato come “ottimo climatico”; tantʼè vero che, nelle fasi più calde, la coltura della vite raggiunge la penisola britannica. 11

Cfr. Righini, La produzione vitivinicola, pp. 185-200; Delucca, La vite e il vino, pp. 14-17.

1

Per maggiori dettagli sul popolamento della Valconca in età preistorica e protostorica cfr.: Ghirotti, Biordi, I primi insediamenti umani, pp. 1-14; Peretto, Le più antiche testimonianze, pp. 21-35; Bagolini, Misano Adriatico, pp. 37-60; Bermond Montanari, Storia di Misano, pp. 6179; Ghirotti, Scoperte archeologiche, pp. 165-189; Id., Carta archeologica, pp. 111-123; Fontemaggi, Piolanti, Archeologia in Valconca. Per lʼalta valle cfr.: Monacchi, La carta archeologica, pp. 101-125. 2

Braudel, Le strutture del quotidiano, pp. 77, 99.

12

Ivi, pp. 17-19.

13

Cfr. Susini, La storia antica, pp. 140-141.

14

Lombardi, “Crustumium a quo oppidum”, pp. 147-163.

15

Delucca, Il castello di Coriano, pp. 84-85.

16

Cfr. ultimamente: Fontemaggi, Piolanti, Archeologia in Valconca, con ampia bibliograÞa.

3

Favorita anche dalle condizioni climatiche propizie (il cosiddetto “ottimo climatico”). Tra lʼaltro è il momento di massima ingressione marina; le acque superano di qualche metro il livello attuale e intaccano la piattaforma alluvionale formando la nota “falesia” (ancora ben visibile nel tratto Misano-Cattolica); è anche il momento in cui il promontorio di Gabicce viene scalzato ed eroso con maggiore violenza.

17

Susini, La storia antica, p. 140.

18

Ivi, p. 142.

19

Cfr. Procopio di Cesarea, La guerra gotica.

20

Veggiani, Le variazioni idrograÞche, pp. 38, 41.

21

Campagnoli, La bassa valle, pp. 92-93.

4

In ordine a questi ultimi ritrovamenti, cfr.: Delucca, Giocare alla storia, pp. 40-69; Bagolini ed altri, Insediamenti neolitici, pp. 53-112; Delucca, Alle origini di Rimini, pp. 17-50.

5

La levigazione è la nuova tecnica di lavorazione della pietra, peculiare del Neolitico.

6

Forse il limite meridionale, che diverrà elemento di separazione tra la VI e lʼVIII regione augustea, va piuttosto individuato nel Tavollo (come suggeriscono i posteriori conÞni ecclesiastici); cfr. Campana, Epigrafe romana, pp. 102-103. In ogni caso va considerato che il Conca, a quel tempo, ha un percorso più orientale, mantenendo alla sua sinistra praticamente lʼintera valle. 7

In tempi recenti si è coniato il termine “riminizzazione” per indicare una profonda manomissione del territorio; il fenomeno ha avuto un lontano precedente nella “romanizzazione” di venti secoli fa.

8

Tracce di problemi ecologici e relative denunce erano già comparse in epoche precedenti ed in altri contesti; si veda per esempio il Crizia di Platone, ove il disboscamento e lʼeccessivo sfruttamento dei pascoli

22

Veggiani, Le vicende geologiche, p. 17; Id., Clima, uomo e ambiente, p. 15. 23

In base agli elementi raccolti nella Pianura Padana, si pensa che le fasi di maggiore dissesto idrogeologico risalgano al VI-VII secolo, forse in occasione del cosiddetto “diluvio” avvenuto nel 589 e descritto da Paolo Diacono (cfr. Veggiani, Le variazioni idrograÞche, p. 44).

24

ASR, Congregazioni religiose soppresse, Libro di San Gaudenzo 15, c. 313, nel 1401; Libro di San Gaudenzo 13, c. 161, nel 1462; not. Sigismondo Fabriani 1488/1491, c. 33, nel 1488.

25

Lombardi, Mille anni di Medioevo, p. 93.

26 Ad esempio la “pertica di San Giorgio in Conca”, come si vedrà più avanti, è menzionata in atti del 1170, 1201 e 1218. 27

Per un esame più dettagliato delle clausole contrattuali, si vedano i numerosi contratti riportati in: Curradi, Pievi del territorio riminese.

119


L’UOMO E L’AMBIENTE IN VALCONCA 28 Cfr. in particolare: De Nicolò, Nuove ricerche su Conca; Ead., Conca e Cattolica. 29

Nel Medioevo per castrum (castello) non si intende semplicemente la rocca o fortezza, ma lʼintero paese protetto da una cinta difensiva.

30 Una concessione di quellʼanno, riguardante lʼospedale riminese di San Lazzaro, mostra il castello già esistente e popolato, descrivendo: petia quedam terre que constat media tornatoria cum domibus et casamentis ediÞcatis super [frattura] que pertinet dicto hospitali, posita in dicto plebatu Conche capella Sancti Iohannis in [frattura] et in castro novo plani, a primo latere Ventena, a secundo via qua itur ante domum Fus[frattura] Butinnelli, a tertio platea qua itur ante domum Franchutii fabri, a quarto platea que vadit ante domum Bondi de Cagli et Petri Leti; quam possident sub annua pensione triginta denariorum homines quamplures de dicto castro ut constat de concessione eis facta manu Hominis Sancti Marchi notarii in MCC nonagesimo septimo (ASR, Miscellanea enti pubblici ed ecclesiastici, fascicolo n. 2, c. 9). 31

Cfr. De Nicolò, Il tesoro di Cerere, pp. 16-17.

32

Cfr. Delucca, Lʼabitazione riminese, pp. 61-128. Il “torto imperdonabile” del grano è il suo basso rendimento, come dice Braudel (Le strutture del quotidiano, p. 95).

33 Cronache malatestiane, p. 17. Anche i sopravvissuti la ricordano come mortalitatem magnam (ASR, pergamena 2242).

relazioni, pp. 215-239; Curradi, Pievi del territorio riminese, pp. 93104; De Nicolò, La Cattolica del Cinquecento, pp. 35-77; Rabotti, Breviarium, nn. 10, 52, 76. 48 Cfr.: Clementini, Raccolto istorico, I, p. 299; Tonini, Storia civile, I, pp. 77-78; II, pp. 208-214; Id., Ariminum, Crustumium, p. 7; Vasina, Centri di potere, pp. 231-236. 49

Curradi, Pievi del territorio riminese, pp. 101-104.

50

Del Monte, Quinta visita pastorale, pp. 33-35, 45.

51

Pedroni, Sei libri, I, c. 18.

52

Tonini, Storia civile, II, p. 210.

53

Cfr.: Luzj, Ricerche su Conca, n. 2, pp. 20-23; n. 3, pp. 33-37; Riciputi, La storia di Cattolica, p. 105; Vanni, Lʼestremo lembo, pp. 33, 36, 48, 249; De Nicolò, La Cattolica del Cinquecento, pp. 35-77; Ead., Nuove ricerche su Conca, pp. 9-11; Ead., Conca e Cattolica, p. 7; Ead., Il tesoro di Cerere, pp. 14-16; Agnoletti, La tradizione antica, p. 54.

54

Vasina, Centri di potere, p. 232.

55 Si vedano gli elementi portati, per altri Þni, in: De Nicolò, La Cattolica del Cinquecento, p. 44; Ead., Il tesoro di Cerere, pp. 14-19. 56

Cfr. lo scambio di località occorso in: Falcioni, Storia di Bellaria.

57 34

Tonini, Rimini dopo il Mille, pp. 88-89.

35

I cui beni sono distribuiti soprattutto fra Saludecio, Mondaino, Meleto e Montegridolfo. 36

Cfr. De Nicolò, Il tesoro di Cerere, pp. 27-37.

37

Costituito prevalentemente da aceri campestri, pioppi o alberi da frutto.

38

Si veda ad esempio il caso del mezzadro di Conca tenuto, nel 1465, a reactare et coperire domos…cum lignamine et cuppis (Delucca, Lʼabitazione riminese, p. 492). 39

Ivi, pp. 122-124.

40

Cfr. Delucca, Misano nel Quattrocento, pp.167-168. Memoria di essenze arboree si rintraccia anche in alcuni Þtotoponimi come Cerreto, Laureto, Farneto.

41 Ivi, pp. 178-181. Nel Seicento lʼAdimari ne segnala ancora lʼesistenza, favorita dalla possibilità di utilizzare il legname delle selve di Fagnano (Sito riminese, I, p. 14). 42

Cfr. Delucca, Misano nel Quattrocento, pp.170-178.

43

Nel 1440, ad esempio, un colono di Montalbano in caso di pericolo ha il diritto di rifugiarsi nella casa del padrone sita dentro il vicino castello di San Giovanni in Marignano (Delucca, Lʼabitazione riminese, pp. 720-721).

44

Ivi, pp. 700-802.

45

Allegretti, Una fase acuta del dissesto, p. 98.

46

Brisigotti, La formazione del borgo di Maceratafeltria, pp. 51-72.

47

Per indicazioni dettagliate circa le relative fonti, cfr.: Rabotti, Le

Questa affermazione non contrasta (come si è voluto intendere: cfr. De Nicolò, Il tesoro di Cerere, p. 22, nota 7) con lʼipotesi che il castello di Conca (specie se dilatato verso Montalbano) fosse troppo distante dallʼapprodo marittimo per essere utilizzato nellʼalto Medioevo quale sede di deposito temporaneo dei prodotti agricoli, in attesa dellʼimbarco per Ravenna (Bebi, Delucca, Gallerie sotterranee, p. 31). Tale ruolo non compare nemmeno nei secoli in cui la collocazione rivierasca del castello è largamente documentata. Ad esempio, un patto mezzadrile del 26 maggio 1469, relativo a terre poste in curia castelli Conche, dispone che la quota padronale del grano e delle altre biade sia condotta ad litus in barca (ASR, not. Gaspare Fagnani 1469/1470, c. 7); il 22 ottobre 1492, una controversia ci informa che tale Marco Giangolini aveva acquistato del grano e il venditore dictum granum deberet conduci facere in lito maris ad Catolicam et ibidem dictus Marchus tenebatur facere venire barcam ut illud possit honerare (ASF, Fondo notarile di MonteÞore, not. Martino Lunardelli 1476/ 1494, c. 182); fonti coeve prevedono la consegna del grano ad ripam sive in ripa maris Catolice (ASR, not. Gaspare Fagnani 1490/1494, c. 267; 1491/1499, c. 75).

58

Fino a disaggregarsi e trasformarsi in “villa di San Giorgio in Conca”, con 198 abitanti intorno al 1580 (AVR, vol. V.8, c. 101). La stessa pieve denuncerà una progressiva decadenza, schiacciata fra le realtà emergenti di San Giovanni in Marignano e Cattolica; Þno al suo declassamento o assorbimento, come emerge per esempio da una lettera del 1418 relativa alla possessionem plebis Sancti Petri de castro Sancti Iohannis in Marignano cum plebe Sancti Georgii della Concha et ecclesia Sancti Iohannis castri veteris et ecclesia della Cattolica eidem plebi Sancti Petri unitis (Garampi, Schede, III, n. 1494).

59

120

Il compianto Luigi Ghirotti, che aveva sempre esternato i suoi dubbi sulla localizzazione di Monte Vici, un giorno dichiarò di avere individuato i resti del castrum Conche in un sito dellʼinterno. Ma lʼimprovvisa scomparsa non gli ha permesso di pubblicare lʼesito delle proprie ricerche, impedendo così di veriÞcarne la fondatezza.


NOTE 60

ASR, Carte Zanotti, busta n. 2; Archivio storico comunale, AP 1244, c. 38. 61

Nel 1480 è documentata una casa iuxta turrim de Concha (ASR, notai illeggibili, Þlza n. 5, c. 18; not. Paolo Albertini 1470/1499, cc. 62-64 ); e nel 1496 unʼaltra casa in curia Conche in capella Sancti Georgii in fundo Turris Conche (ASR, not. Sebastiano Bonadies 1493/ 1499, c. 123).

62 ASF, Fondo notarile di MonteÞore, not. Martino Lunardelli 1494/ 1497, c. 265. Da non confondersi con la “villa” di Conca, segnalata nel gennaio 1489 nella corte di MonteÞore (ivi, not. Martino Lunardelli 1476/1494, c. 2) e tuttora esistente presso Morciano. 63

ASR, Congregazioni religiose soppresse, Libro di San Gaudenzo 15, c. 313. 64

ACR, Decimario di Leale Malatesta, cc. 32-34.

65

AAR, pergamene 5566, 6173.

66

Clementini, Raccolto istorico, I, p. 499; Tonini, Storia civile, III, pp. 296, 693.

67

Biblioteca Oliveriana Pesaro, ms. 376, III, c. 244; cfr. Frenquellucci, Alle origini del comune, p. 53. La pertica di Conca è segnalata anche in un documento del 1201 (Bebi, Delucca, Gallerie sotterranee, p. 31). Risulta già in uso nel dicembre 1170, allorché dodici tornature di selva poste in plebe Cunce sono misurate ad pertica predicta plebe (ASR, pergamena 107). 68

Se si andasse ad indagare le tante pieghe della società rurale sopravvissuta Þno allʼultima guerra, si riconoscerebbero molte persistenze e arcaicità: dalla durata giornaliera di lavoro (dallʼalba al tramonto, come nel Medioevo), alla lingua autonoma (il dialetto). 69

Allegretti, Nuove fonti per la storia, p. 86.

70

È una misura locale per cereali, pari a circa 12 chilogrammi.

71

Battarra, Pratica agraria, I, p. 104.

72

Ivi, p. 105.

80

Questo settore secondario “diffuso”, presente nellʼinterno della Valconca, segue cronologicamente i tentativi industriali più corposi avviati in una fase anteriore e gradualmente deperiti: al riguardo si possono ricordare il PastiÞcio Ghigi a Morciano e la fabbrica di Þsarmoniche Galanti a Mondaino, che nel 1957 contavano rispettivamente 240 e 85 lavoratori. 82 AAR, pergamena 2681; Fantuzzi, Monumenti ravennati, VI, p. 10 (ove è datata 946). 83

Rabotti, Breviarium, n. 10.

84

ASR, pergamena 1.

85

ASR, pergamena 9 (a. 1068), 11 (a. 1069), 15 (a. 1070), 71-72 (a. 1148), 135 (a. 1183); Garampi, Schede, I, nn. 136-137 (a. 1081); ACR, pergamena 43 (a. 1202). Atti del 1148 e 1150 continuano a menzionare anche la chiesa di San Giovanni (ASR, pergamene 72 e 78).

86

Nel 1161 il monastero di San Gregorio lʼaveva ceduta al vescovo di Rimini in permuta (Rabotti, Le relazioni, p. 225). Successivi atti del 1267 e 1277 ne ribadiscono la presenza (ASR, pergamene 732 e 782). 87

Rasi, Racconto istorico, c. 6.

88

AVR, vol. V.16, c. 64.

89

Martinelli, Memorie del Monastero, c. 15.

90 Relazione del 1786 redatta dal parroco don Francesco Maria Antonelli (Morciano, Archivio parrocchiale). Un esemplare della croce di cui sopra, scomparsa da un secolo, è stato ricollocato recentemente; il macigno è andato in frantumi nella seconda guerra mondiale, ma ne esistono testimonianze fotograÞche (Mancini, Morceani ecclesiae, pp. 13-14). 91

Vitali, Memorie storiche, pp. 396-397.

92

Si veda, a titolo di esempio: Campi, MonograÞa statistica, I, p. 38.

93

Del Monte, Quinta visita, pp. 33-34.

94

Alberelli, Mercatino Conca, pp. 48-51, 59-66.

73

Rispetto ai secoli del Medioevo i progressi sono evidenti ma non eccessivi. Per avere un termine di raffronto, può essere utile notare che le rese odierne – a seconda dei suoli – vanno dai 20 ai 30 chicchi raccolti per 1 seminato, grazie alle sementi selezionate, agli avvicendamenti, alle lavorazioni e alle concimazioni che si praticano. 74

75

Battarra, Pratica agraria, I, p. XIII; II, p. 92. Morelli, Istruzioni di agricultura, pp. 25, 133.

Cfr. De Nicolò, Cattolica di Romagna.

81

95

Si veda al riguardo la sequenza documentaria riportata in: Delucca, Fiere e mercati, pp. 47-48.

96

Cfr. Mascanzoni, La Descriptio Romandiole.

97

Garampi, Schede, II, nn. 470, 1130.

98

Tonini, Storia civile, VI/I, pp. 194, 336; Clementini, Raccolto istorico, II, p. 666.

76

Le relazioni sanitarie mostrano con evidenza che lʼintroduzione massiccia del mais nella dieta contadina si riscontra anche nellʼalta valle dove, ad una produzione modesta, si accompagna però una importazione notevole, dato il costo inferiore rispetto al frumento. 77

CatolÞ, Lʼinchiesta Jacini in Romagna.

99

Lʼabbazia di San Gregorio viene unita a quella di Scolca il 22 febbraio 1401 (ASR, pergamena 2690).

100

Una analisi di dettaglio è rimandata ad altra sede, limitando momentaneamente lʼinformativa ad alcuni brevi cenni come richiesto dal carattere divulgativo e compendiario della presente pubblicazione.

78

A Montescudo, peraltro, le frane sono abbastanza consuete, tanto da avere suggerito il nome alla chiesa di SantʼAngelo della Ruina, documentata Þn dal tardo Cinquecento (AVR, vol. V.6, c. 42; vol. V.8, c. 126; vol. V.37, c. 871). 79

Allegretti, Una fase acuta del dissesto, pp. 98-102.

101

Cfr. Delucca, Fiere e mercati, p. 51. Una signiÞcativa analogia si riscontra con la località di Macerata Feltria dove, fra Quattro e Cinquecento nasce il Mercatale, nel sito dove tradizionalmente si tenevano le Þere e i mercati settimanali. Gli statuti comunali di Þne Quattrocento portano notizia di un “sacello” in capo al mercato, appartenente al

121


L’UOMO E L’AMBIENTE IN VALCONCA vicino ospedale di SantʼAntonio. Lʼemporio ha luogo nello spazio esistente fra le due schiere di case del Mercatale ove, chi ha la concessione di un terreno, deve costruire entro due anni salvo la perdita della concessione stessa (Brisigotti, La formazione del borgo di Maceratafeltria, pp. 58-61). 102

Cfr. Vitali, Notizie storiche, pp. 398-403; Delucca, Fiere e mercati, pp. 50-51.

103

AVR, vol. V.6, c. 142.

122


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REFERENZE FOTOGRAFICHE Campagna fotograÞca realizzata dalla LitofotograÞa Marchi & Marchi srl, San Giovanni in Marignano

Altre immagini provengono da: Amministrazione Provinciale, Rimini (76, 86, 108) Archivio di Stato, Rimini (63, 106) Archivio Vescovile, Rimini (53, 68, 107) Azimut, Rimini (83, 100) Loris Bagli, Riccione (3, 89) Aldo Biagetti, Rimini (54) Biblioteca Gambalunga, Rimini (34, 69) Cesare Biondelli, Rimini (73, 74) Oreste Delucca, Rimini (6-13, 16, 101) Giorgio Martinini, Rimini (92, 103, 104) Museo della Città, Rimini (23, 24) Museo della Regina, Cattolica (19, 21) Museo del Territorio, Riccione (1) Pier Giorgio Pazzini Stampatore Editore, Villa Verucchio – fotograÞe di Pier Paolo Zani (29-31, 57-62, 64-67, 70, 71) Foto Mario Polverelli, Morciano (72, 75, 110) Società di Studi Montefeltrani, San Leo (39) Foto Giancarlo Tonti, Misano (96, 97)

Lʼeditore rimane a disposizione degli eventuali aventi diritto che non sia stato possibile rintracciare


Finito di stampare nel mese di Novembre 2004 per i tipi della Tecnostampa srl, Loreto (AN)


I libri della Valconca P.G. Pasini, Piero e i Malatesti. L’attività di Piero della Francesca per le corti romagnole (1992)

Pier Giorgio

Pier Giorgio Pasini

Pasini

IL TESORO DI SIGISMONDO

E. Grassi, Giustiniano Villa poeta dialettale, 1842-1919 (1993) P.G. Pasini, Il crocifisso dell’Agina e la pittura riminese del Trecento in Valconca (1994)

e le medaglie di Matteo de’ Pasti

A. Bernucci – P.G. Pasini, Francesco Rosaspina “incisor celebre” (1995)

P.G. Pasini, Arte in Valconca dal Barocco al Novecento (1997) A. Fontemaggi - O. Piolanti, Archeologia in Valconca. Tracce del popolamento tra l’Età del Ferro e la Romanità (1998) P.G. Pasini, Emilio Filippini pittore solitario 1870-1938 (1999) E. Brigliadori – A. Pasquini, Religiosità in Valconca. Vicende e figure (2000) P.G. Pasini (a cura), Arte ritrovata. Un anno di restauri in territorio riminese (2001) Loris Bagli, Natura e paesaggio nella Valle del Conca (2002) A. Sistri, Cultura tradizionale nella Valle del Conca. Materiale e appunti etnografici tra Romagna e Montefeltro (2003) Oreste Delucca, L’uomo e l’ambiente in Valconca (2004) P. Meldini, La cultura del cibo tra Romagna e Marche (2005) P.G. Pasini, Passeggiate incoerenti tra Romagna e Marche (2006) C. Fanti, Pietre e terre malatestiane (2007) P.G. Pasini, Atanasio da Coriano frate pittore (2008)

Sono in vendita nelle migliori librerie; alcuni titoli sono esauriti

IL TESORO DI SIGISMONDO

P.G. Pasini, Arte in Valconca dal Medioevo al Rinascimento (1996)

BANCA POPOLARE VALCONCA

BANCA POPOLARE VALCONCA

Sigismondo Pandolfo Malatesta, uno dei più importanti signori italiani del Quattrocento, è stato capitano generale degli eserciti della Chiesa, di Firenze, di Napoli e di Venezia, guadagnandosi una grande fama di condottiero ed enormi ricchezze, che gli permisero di costituire a Rimini una importante corte letteraria e artistica. Ancora viveva, quando correva voce di un suo favoloso “tesoro” nascosto nelle mura di alcune rocche del territorio riminese: un tesoro cercato per secoli, e mai trovato. Effettivamente Sigismondo faceva nascondere qualcosa di strano nelle mura dei suoi edifici: ma non si trattava di tesori nel senso classico del termine, bensì di medaglie con la sua effigie, ritrovate, e in grande quantità, soprattutto nei restauri del dopoguerra. Medaglie in bronzo e in argento, squisite e preziose, tra le prime del Rinascimento, dovute al veronese Matteo de’ Pasti, stabilmente attivo alla corte riminese fino alla morte, che precedette di pochi mesi quella di Sigismondo (1468). Dopo aver fornito notizie sul presunto tesoro di Sigismondo, e sui vani tentativi di ritrovarlo, questo volume passa ad illustrare il vero tesoro: le medaglie di Matteo de’ Pasti, annoverate fra i capolavori della medaglistica rinascimentale; e si sofferma sul loro autore, sui loro ritrovamenti, sulla loro datazione, sul loro stile, sulla funzione loro affidata di diffondere la fama del signore presso i contemporanei e presso i posteri. L’apparato illustrativo offerto dal volume – frutto di una campagna fotografica appositamente condotta - permette di esaminare esemplari sicuramente autentici di medaglie pastiane e di approfondirne la conoscenza; e inoltre invita a riflettere su alcuni problematici risvolti dell’attività artistica del grande medaglista veronese e dell’arte alla corte di Sigismondo Malatesta, grande condottiero e grande quanto tirannico mecenate, vissuto in un momento di crisi e di trapasso tra l’autunno del Medioevo e la primavera del Rinascimento. Pier Giorgio Pasini si occupa di storia dell’arte rinascimentale fin dagli anni settanta, quando diresse la mostra “Sigismondo Pandolfo Malatesta e il suo tempo”, Rimini, Sala dell’Arengo, 1970. Già nel catalogo di tale mostra (edit. Neri Pozza, Vicenza) figurano i suoi primi studi su Matteo de’ Pasti, che poco dopo lo indussero a proporre una completa revisione della cronologia delle medaglie pastiane. Per questa si vedano i contributi portati al primo convegno internazionale di studio su “La medaglia d’arte” di Udine (10-12 ottobre 1970) e al symposium su “Italian Medals” della National Gallery of Art di Washington (29-31 marzo 1984), riproposti nel presente volume. Allo studio dell’attività di Matteo de’ Pasti l’autore si è dedicato anche in numerosi altri lavori riguardanti la civiltà umanistica fiorita alla corte malatestiana, e soprattuto nei seguenti: I Malatesti e l’arte, Silvana ed., Milano 1983; Piero e i Malatesti, L’attività di Piero della Francesca per le corti romagnole, Silvana ed., Milano 1992; Piero e Urbino, Piero e le corti rinascimentali, Marsilio ed., Venezia 1992; Cortesia e Geometria. Arte malatestiana fra Pisanello e Piero della Francesca, Luisè ed., Rimini 1992; Il Tempio Malatestiano. Splendore cortese e classicismo umanistico, Skira, Milano 2000. Infine ha scritto, con altre, la “voce” Matteo de’ Pasti per il Dictionary of Art, Macmillan Publishers Ltd, London, 2004.


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