Atti & Sipari numero 1

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A SIIPPA TII && S TT AT RII AR suoi lutti: l’uomo non ha più parole per riuscire a codificare la tragedia e per parlarne; l’unica possibilità è capovolgere il tutto in farsa. All’inizio, infatti, egli utilizza una divertente variante dell’antiprologo: seduto tra il pubblico e corredato di un microfono e di due improbabili antenne da grillo, si lamenta del fatto che lo spettacolo non sia ancora iniziato, nonostante un notevole ritardo. Dopodiché si alza e si dirige sulla scena e visto che niente lascia presagire un prossimo inizio dello spettacolo, sarà lui a dargli l’avvio, e presenta Antonin Artaud che cerca di catturare Dio attraverso un inverosimile marchingegno di sua fattura. Ma, accortosi della presenza di persone che lo stanno a guardare, inizia una vera e propria lezione su come si possa inconfutabilmente dimostrare l’esistenza di Dio: una prolissa e arzigogolata riflessione su come tutti noi siamo convinti di determinare i nostri stessi movimenti, i quali in realtà sono comandati da un’entità superiore che ci governa come fossimo marionette. Significativa risulta quindi la resa scenica prescelta: Artaud è rappresentato con un burattino tenuto da Cosentino all’altezza del torace e mosso con la mano destra. Alla maschera è attaccato un pastrano che copre la parte inferiore del corpo del performer fondendolo per metà con quello del personaggio. Così il pubblico ha la incontrovertibile dimostrazione visiva delle teorie che il vaneggiante Artaud va farneticando. L’esilarante effetto è ottenuto e amplificato dal contrasto tra la serietà del personaggio, tragico nell’accettare il fato a cui è destinato (e di Cosentino, atarassico nella mimica) e le risate del pubblico: il comico si trasforma in umorismo. In Antò le Momò c’è una lunga sequenza incentrata sulla questione del linguaggio televisivo – derivata in larga parte da precedenti spettacoli di Cosentino, quali Angelica e la precedente versione di Antò le Momò – utilizzata dal performer per riflettere sulla attuale povertà linguistica e morale della società italiana. Fanno così la loro comparsa sulla scena alcune Barbie, metafora dell’intrattenimento di massa, mosse e fatte parlare dall’attore stesso; e una vecchia nonna (personaggio ricorrente nella produzione di Andrea, cui lui stesso presta corpo e voce) che è chiamata dalla televisione per raccontare le antiche (e improbabili) tradizioni della campagna livornese, di cui è una delle ultime depositarie. In questo passaggio dello spettacolo, che tra l’altro precede la katastrophè finale, Cosentino mette in scena tutto il suo virtuosismo, in un pezzo di rara bravura, scandito da un tempo incalzante, in un vortice travolgente di gag esilaranti sempre più rapide. Infine, inaspettata, giunge la tragedia. Ancora una volta (l’ultima) Cosentino stempera il tutto con la comicità (o umorismo?). L’attore raggiunge il centro del palco dove in precedenza aveva messo una sedia, si siede e, dovendo affrontare una tematica tragica, dichiara di sentirsi in dovere di calzare i coturni. Ma in epoca post-moderna i coturni sono sostituiti da zeppe post-moderne di vernice di colore rosso fuoco. Inol-

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tre l’intera sequenza è raccontata in prima persona da un fantomatico Pulcinella (Andrea ne indossa la maschera). Solo trascendendo la realtà attraverso una maschera (e non una a caso, ma Pulcinella che simboleggia il fool a cui è permesso dire tutto) si può parlare di qualcosa che va al di là dell’umana comprensione: la tragedia, appunto. Pulcinella inizia, infatti, a parlare della tragedia di Erba ma il discorso si frantuma in un vortice di frasi spezzate e confuse che non riescono a creare un periodo organico; ciò che viene detto non acquisisce un senso compiuto; non si riesce più ad esprimere il senso di quello che si vuole dire. La perdita della tragedia è testimoniata sulla scena dall’impossibilità di parlarne: lo stesso silenzio che hanno mantenuto anche nel loro privato i due assassini veri. Essi, che erano tenuti sotto controllo dalla polizia con alcune cimici nascoste nel loro appartamento, non hanno mai parlato dell’efferato delitto, commesso solo perché i vicini erano rumorosi e loro non riuscivano a dormire. L’unica cosa che avrebbe detto il marito è: «Come si sta in pace!». Ma d’altronde non c’è più nemmeno bisogno di parole per esprimere l’inesprimibile; bastano quei pochi e confusi accenni di Cosentino al fatto, per far commuovere lo spettatore, il quale però anche in questo caso mantiene un distacco critico grazie alla diegesi condotta da un Pulcinella in tacco a spillo. A colpire la sensibilità di Cosentino è l’unica frase che uno degli assassini è riuscito a dire. Egli, infatti, riflette sul fatto che i grandi tragici hanno sempre punito i loro personaggi omicidi con la perdita del sonno, come dimostra magistralmente Macbeth, non a caso evocato dallo stesso performer. È curioso, quindi, che due individui siano ricorsi all’omicidio per ritrovare il sonno perso. È la perdita del concetto di tragedia che può aver causato questo? Cosentino non dà una risposta e ammette che «Antò le Momò è [...] il contenitore aperto e provvisorio di spettacoli che non farò mai e di idee che svilupperò altrove». Controllo esterno. Il calapranzi per i “Cantieri Teatrali Koreja” Francesco Ceglia «A chi toccherà stasera?», è questo il leitmotiv e, allo stesso tempo, la chiave di lettura dello spettacolo messo in scena dalla compagnia salentina “Cantieri Teatrali Koreja” al Festival Inequilibrio 2007. Il Calapranzi (titolo originale The Dumb Waiter, 1957) è un atto unico che appartiene al primo periodo di Harold Pinter, premio Nobel per la letteratura nel 2005, e che ben rappresenta quel teatro dell’assurdo e dell’alogicità di cui il drammaturgo inglese è considerato un esponente, e in cui i dialoghi fra i personaggi lasciano trapelare messaggi nascosti e sottili minacce. Il testo, in questo adattamento con la regia di Salvatore Tramacere, ha una sottostruttura che ben si adatta alla nostra attualità, in un’Italia la cui cronaca è


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