Mario Luzi "Le campagne, le parole, la luce"

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In copertina: Ottone Rosai, Ritratto di Mario Luzi, 1941, matita su carta.


MARIO LUZI Le campagne, le parole, la luce

Mostra organizzata dal Dicastero Museo e Cultura di Mendrisio con la collaborazione dei Comuni di Pienza e Siena e dall’Associazione Mendrisio Mario Luzi Poesia del Mondo

Casa Croci Mendrisio Museo d’arte Mendrisio Pienza Museo della Città Siena Santa Maria della Scala


Mario Luzi a Pienza, 2003.


MARIO LUZI Le campagne, le parole, la luce

A cura di Stefano Verdino

Con testi di Carlo Ossola Stefano Verdino Giovanni Fontana Giovanna Uzzani

Casa Croci Mendrisio 2014



In non pochi ricorderanno la memorabile serata trascorsa nel chiostro del nostro Museo d’arte in compagnia di Mario Luzi. In quell’occasione i festeggiamenti per la pubblicazione di Opus florentinum furono in qualche modo una sorta di pretesto per rendere omaggio alla grande figura del poeta. Era il 12 luglio 2002 ed egli ci avrebbe lasciato poco meno di tre anni dopo, la mattina del 28 febbraio 2005. È da qualche tempo che dedichiamo nei piccoli, suggestivi spazi di Casa Croci mostre alla poesia del ‘900, e regolarmente ritroviamo nelle foto la snella figura, il viso affilato del grande poeta toscano: in compagnia di Orelli, a fianco di Jaccottet, la sua presenza ci è ormai familiare; quasi consueta se poi pensiamo alla dedizione con la quale ne viene conservata la memoria da un gruppo di amici e fedelissimi capeggiati da Paolo Andrea Mettel, unitisi in associazione proprio qui a Mendrisio. A loro si deve l’omaggio ticinese del 2010, a cinque anni dalla morte, e a loro si deve oggi una serie di iniziative per il centenario della nascita. La mostra di Mendrisio, collocata in doppia sede e che proseguirà alla volta di Pienza è quindi la naturale, giusta continuazione di questa serie di incontri con la poesia del ‘900 inaugurata qualche anno fa a Casa Croci. Al curatore Stefano Verdino, profondo conoscitore del poeta, va la nostra gratitudine; altri sentiti ringraziamenti vanno a Giovanna Uzzani, curatrice del capitolo Luzi e i suoi artisti al Museo d’arte, agli autori dei testi in catalogo, Carlo Ossola e Giovanni Fontana, e a tutti i prestatori tra cui la Galleria Pananti di Firenze e Farsettiarte di Prato. Infine, la nostra riconoscenza per la loro preziosa collaborazione va ai Comuni di Pienza e di Siena, in particolare agli assessori alla cultura Giampietro Colombini e Massimo Vedovelli, e a Paolo Andrea Mettel, vero e proprio motore di molte iniziative nel centenario luziano. Rolando Peternier Dicastero Museo e Cultura


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A Firenze, sulla terrazza di casa (foto di Luciano Bonuccelli).


Sotto specie umana Carlo Ossola

Di Mario Luzi ricorre quest’anno il centenario della nascita [Castello, Firenze, 20 ottobre 1914 – Firenze, 28 febbraio 2005]; poeta e critico e autore di un ricco «teatro di parola», egli è stato l’ultimo artefice di una tradizione fiorentina del Novecento che ebbe antesignani Papini e Prezzolini, ma non meno Aldo Palazzeschi (1885-1974) e Carlo Betocchi (1899-1986). Coetaneo di Vasco Pratolini (1913-1991), seguì tuttavia il gruppo di “Frontespizio”, animato da Piero Bargellini (1897-1980), poi sindaco di Firenze (1966-1967) nei mesi terribili dell’alluvione della città, dal 1968 senatore e dal 1972 deputato al Parlamento. A “Frontespizio” si trovano Carlo Bo, don Giuseppe de Luca, Nicola Lisi; dopo la II Guerra mondiale innervano il gruppo intorno a Giorgio La Pira (Bargellini fu, con questi, sindaco, assessore alle Belle Arti e all’Istruzione). La vicenda di Mario Luzi non si può intendere senza questo arrière-pays che molto ha dato all’Italia del Novecento, anche quando Firenze perse l’egemonia culturale, ma continuò ad essere patria di poesia (il coetaneo Piero Bigongiari, 1914-1997), di lettere e di arti, se contiamo gli anni fiorentini di Cristina Campo, Gianna Manzini, Roberto Longhi, Anna Banti, Giovanni Michelucci, e di spiritualità e impegno civile: Elia Dalla Costa, Ernesto Balducci, don Lorenzo Milani. Una città spirituale e laica, ove era alta la lezione di Piero Calamandrei, Carlo Ludovico Ragghianti, Tristano Codignola, Anna Maria ed Enzo Enriques Agnoletti; e vigile la coscienza storica e la testimonianza di Roberto Ridolfi. Agli Scritti civili di Mario Luzi [non si dimentichi che il 14 ottobre 2004, in occasione dei suoi 90 anni, venne nominato senatore a vita dal Presidente Carlo Azeglio Ciampi] dedica ora opportuna attenzione la benemerita rivista “Istmi”1, con un fascicolo monografico che raccoglie del poeta scritti inediti o rari e poesie disperse. Sotto specie umana è il titolo di una delle ultime sue raccolte di poesia (1999): «Guarda. / Guarda bene. / Ancora. / Fino in fondo. / Non ritrarti, non coprirti con le mani / il viso, / non comprimerti le palpebre, / non stornare il volto. / L’abisso d’accecante luce e tenebra / fumiga ancora tutto quanto. / La mischia / non è spenta, il sì e il no del mondo / s’incalzano e si affrontano / nel gorgo della vorticosa danza» (Guarda.

Mario Luzi, Desiderio di verità e altri scritti inediti e rari, “Istmi”, 2014, n. 33, pp. 136; si tratta di un fascicolo monografico della rivista animata da Eugenio De Signoribus, Enrico Capodoglio e Feliciano Paoli, presso la Biblioteca di Urbania, nelle Marche.

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Guarda bene); e quel vortice umano è ancora lo stesso di Nel magma, 1963, e – non meno – degli scritti di subito dopo la II Guerra mondiale: «Qui risiede il criterio della forza interiore che giustifica per lui il nome di uomo, e in ciò consiste l’esercizio di quella prudenza che il Cristianesimo ha elevata a virtù cardinale. Ma in quante maniere il volto della verità è stato offeso: per errore per ignoranza per inerzia per viltà; e cioè in quante maniere l’uomo ha disonorato il suo nome. Mi dispiace osservare che nell’epoca moderna più che l’errore è l’ignoranza, più che i pregiudizi e la passione è la viltà che induce l’uomo a degenerare, una volta che lo si vede così volentieri rimettere le proprie prerogative essenziali nelle mani dei partiti e delle fazioni» [“Costume”, 3, 1945, pp. 15-16]. Si usciva appena da una dittatura e già si entrava nella pugna delle ideologie: ecco perché, sin dal 1941, egli aveva posto un imperativo di «etica formale», incondizionata e incondizionabile, sopra le vicende della storia e della politica; nel saggio Un’illusione platonica egli additava la perfezione utopica proposta dal Castiglione come un modello non negoziabile entro l’evento: «queste immagini e istituzioni carpiscono al silenzio compatto e all’attenzione integra dello scrittore qualcosa di una vita superiore: di una vita formale, eterna» (ora in Naturalezza del poeta. Saggi critici, 1995). Potremmo dire che tutta la vicenda poetica di Mario Luzi ha percorso questa esigenza di sublimazione e incarnazione: «Così posso testimoniarti. / È accaduto oggi qualcosa di molto grande. / Penso a una pietra preziosissima / confitta in questa nostra buia epoca». Così si chiude Rosales (1983), il dramma teatrale di Mario Luzi sulla fine in Messico di Lev Trockij, così desidero ricordarlo, con le sue stesse parole, ancora: «Muore come seme / […] per darci la nascita / ed è qui, è sempre presente» (Église, 1987; da Frasi e incisi di un canto salutare). Per questa purificazione e rigenerazione egli aveva voluto intitolare la sua riscrittura del Purgatorio di Dante: La notte lava la mente /1990), e tanto testimoniavano i pochi versi ch’egli aveva inserito nelle terzine del poema: «bruciate in questo rogo / ogni vostra impurità, / tutto, fino all’essenza. / Trasformatevi dolorosamente / nella vostra / incipiente divinità». Come tutti i grandi poeti del Novecento ha mirato all’essenza, a «quel giro stretto» che lega vita e volontà: «Le nazioni non meno dei singoli / disimparano l’amore della sostanza, dimenticano / quel giro stretto di vita e volontà / che ne molò i lineamenti, ne definì l’essenza» (Il gorgo di salute e malattia, da Su fondamenti invisibili, 1971).

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Nell’opera del mondo è il titolo d’insieme che egli ha dato - nel «Meridiano» delle sue poesie curato da Stefano Verdino - alla seconda parte della sua creazione, ma senza fare del mondo mera descrizione, anzi sospingendo sempre il «putiferio della mortalità», e sin dal poemetto Nel corpo oscuro della


metamorfosi, 1969, verso quel fulcro che lega «la fabbrica / di tutta la materia / intorno alla sua invisibile architrave» (Guizzò una luce d’angelo, da Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, 1994). E quest’architrave è il nodoso albero della Croce, che Luzi ha meditato, su invito di Giovanni Paolo II, per la Via Crucis al Colosseo nel venerdì santo del 1999: «Io che in nome tuo ho resuscitato Lazzaro / ho paura e dubito che la morte sia vincibile. / Ma a questo mi hai mandato, a vincere la vittoria della morte». Affiora qui l’eco dell’antica liturgia cristiana, che si è sempre più manifestata nell’ultimo Luzi, sino al poema volto «al centro d’una ed universa mente», al Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini: «a chi era cantata / lì, nel mattino / quell’antica Messa? / Lumen de lumine, / a Dio da Dio medesimo / attraverso quella valle, piena d’assenza degli uomini». Il tempo in Luzi è agonia, lotta, vissuta «come sorte e come grazia». Sin dalle origini d’Occidente, come vuole quella meditazione palpitante sull’eredità greca e l’annuncio cristiano, che è il suo Libro di Ipazia,1978. Sinesio e Ipazia, tra la fine del IV e l’inizio del V secolo dopo Cristo, sono testimoni e vittime, eredi e araldi, in essi passa la certezza e la sconfitta, il dubbio, l’impossibilità di varcare il mistero: «Città davvero mutata, talvolta cerco di capire / se nel tuo ventre guasto e sfatto / si rimescola una nuova vita / o soltanto la dissipazione di tutto. / E non trovo risposta». Come i grandi poeti francesi di cui si era nutrito, come Dante – ch’egli ha mirabilmente interpretato – Mario Luzi ha assunto la scena terrestre come la gleba del combattimento, del duello di bene e male, di vita e morte per «attivare dei punti di assillo e di sofferenza presenti anche se latenti nel tempo e nell’umano. Come fontane che riprendessero a versare acqua, o piaghe a sanguinare» (Fu così che, premessa al Libro di Ipazia). Abituati a pensare alla poesia come a un monologo lirico, non siamo riusciti ad accogliere la voce di Luzi che discende dal discidium, dalle Confessioni di Agostino (suo «breviario», come il poeta dichiarerà, sin dal 1929) a Mauriac – su cui si era laureato nel 1936. Così in molti si sono stupiti di veder sorgere la voce intrepida del novantenne, divenuto senatore a vita, sui misfatti del XXI secolo. Non era improvviso libare ai calici della politica, ma semplice fedeltà a quel combattimento che impegna vita e coscienza, memoria e parola, sin da Reportage, 1980, poiché sempre la parola che crea e libera ha di fronte «l’eterna satrapia / accigliata dietro quelle muraglie mongole. / Si parla di una nuova équipe legittima / insediata nel palazzo al posto di una cricca / altrettanto poco nota oggi sotto processo. / Il potere tace perso nel suo monumento» (Qui il potere è sommo e confina con la sua assenza, prima stanza di Reportage).

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E così dobbiamo ricordarlo nel centenario della nascita, dalla sua Firenze di carne e spirito, dai suoi inediti di agone e di grazia: «Vibrava della sua dualità / il dilemma, rodeva ogni certezza / di sostanza e d’idea, ardeva» (Fu lento, estenuante, da “Istmi”, 2014).

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A Le Baux, Provenza, 1983.

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La famiglia Luzi nei primi anni venti (i genitori Ciro e Margherita, la sorella Rina).


Stazioni di Mario Luzi Stefano Verdino

Il borgo e la madre Quando Mario Luzi nel 1960 ripubblicò da Garzanti le sue prime raccolte, con il titolo complessivo Il giusto della vita, mise – come premessa nel suo libretto d’esordio La barca (1935) – una poesia nuova, Parca-Villaggio, che voleva essere una sintesi di quel primo ventennale percorso (1935-57). In questo testo è la Parca del villaggio a parlare, la custode delle vite e delle vicende di un luogo in cui «impassibile / il tempo porta e scaccia volti umani». La ciclicità delle esistenze è vista con malinconia («il mesto rituale della vita»), ma l’immagine finale, nella staffetta tra l’infanzia dell’autore e quella del proprio figlio Gianni («intesso / la tua infanzia con quella di tuo figlio / che traversa la piazza con le rondini»), ha quel movimento rapido e di annodo celeste con le «rondini», che fa travalicare dalla malinconia e suggerisce comunque un assenso al regime della vita. Bene, tale villaggio non è una finzione letteraria, ma fa riferimento al paese avito, dei genitori di Mario Luzi, Samprugnano (dagli anni ‘60 Semproniano), nell’alta Maremma senese. Il paese della schiatta materna dei Papini, che lì hanno la farmacia, il paese dove il nonno paterno, Giuseppe, marchigiano (di Montemaggiore al Metauro), si era trasferito negli anni Settanta dell’Ottocento, come maestro elementare, e aveva messo su famiglia. In questo paese Mario passa tutte le estati fino alla giovinezza, mescolandosi alla varia tribù di zii e cugini, e quella vita rurale si incide profondamente nei suoi versi, dapprima con il congenito sentimento della natura, che trapela dalla Barca, e poi, nelle tre successive raccolte dell’immediato dopoguerra (Primizie del deserto, Onore del vero, Dal fondo delle campagne), con il pieno riconoscimento di appartenenza a quel «popolo», ad un ritrovato senso di comunità e carità. Questi versi trasmettono molte immagini della campagna e della vita in essa, e proprio la dimensione comunitaria e ciclica di provvisorie esistenze viene ad assumere un significato, quale è per l’appunto «il giusto della vita». Sono poesie come sequenze di film in bianco e nero tanto sono ricche di movimenti e di scarne immagini, in cui si alterna il «mesto rituale della vita» con la sua «giustezza». Peraltro anche la vita del fiorentino Mario non era, alle origini, una vita del tutto cittadina, il borgo di Castello dove era nato il 20 ottobre 1914 (allora frazione di Sesto fiorentino) aveva anch’esso una forte dimensione rurale:

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Nell’infanzia io avevo come termine di paragone immediato il paese, Samprugnano, paese della Maremma originario dei miei genitori, e il borgo fiorentino di Castello. Su questo fondo si staccava, senza avere nulla di conclamato, la figura di mia madre. In fondo il cristianesimo del pagus, vissuto socialmente dal pagus, dal villaggio, nel rispetto della tradizione e dei riti (che è un modo di religione che si è anche troppo spregiato), aveva una sua bellezza e una sua attrattiva, specialmente a Samprugnano, dove i rapporti umani prevalevano su quelli parrocchiali. Su questo mondo, che era anche quello di mia madre, lei si profilava in un modo per me più avvincente: io ho visto in mia madre tutto quel mondo di religione contadina ed elementare ma introflesso e pensato e molto intensamente vissuto. Questo mi ha incantato in lei, al di là del grande affetto che ci legava. Mi affascinava il suo trasportare tutte le cose in una interiorità, che forse la società modesta in cui si viveva allora non sentiva come bisogno primario. Il cristianesimo è stato prima di tutto un’ammirazione e una imitazione di mia madre. Io sono entrato per quella porta, che era una porta naturale, ma anche già selettiva. [...] Lei aveva i suoi momenti di preghiera, che non erano stabiliti per orario; non era solo devozione, era preghiera: io avvertivo questo scarto; era preghiera. Questo vedevo nei momenti di sua preoccupazione (per la salute di sua madre, dei suoi familiari, per mio padre, che ebbe un periodo difficile). Lei viveva la preghiera come soccorso, ma questa veniva ripresa in un suo discorso interiore. Lei riusciva a inserire le cose in un ordine, anche doloroso. Non era una donna allegra, era piuttosto malinconica, ma serena e mansueta (La porta del cielo. Conversazioni sul Cristianesimo, a cura di S. Verdino, Casale Monferrato, Piemme, pp. 10-11).

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La figura della madre Margherita Papini è stata davvero cruciale nella sua vita, tanto che è possibile scandire la vita di Luzi, con lo spartiacque della morte della madre, il 9 maggio 1959. A lei ha dedicato Il giusto della vita, ma ancora del tutto nel suo nome è il successivo Dal fondo delle campagne (1965), con al centro la sezione «Morte cristiana», che fa specifico riferimento a quell’evento; è il libro che riconsegna alla terra, a quella profonda campagna, quella specifica esistenza tra i «murati nella crosta di questo corpo luminoso»: così gli appare la «terra toscana» in Dalla torre, una delle sue più alte poesie, ispirata alla vista dalla torre di Montalcino. Ma diversamente da Caproni che negli stessi anni allestì uno specifico ed originalissimo canzoniere per la propria madre con Il seme del piangere (1959) ed elaborò il proprio lutto principalmente in quel frangente, Luzi continuò a lungo, per molte altre stazioni, a confrontarsi con quella perdita, se oltre vent’anni dopo le due sezioni Madre e figlio di Per il Battesimo dei nostri frammenti (1985) si configurano come un intimo dialogo tra i due ed ancora le prime poesie di Angelica in Frasi e incisi di un canto salutare (1990) trat-


teggiano l’epifania materna in oscillazione tra continuità della morte e della vita: «Muore, lei, o continua? / Chi viene dalla vita / va verso la vita. / Muore, lei, e continua / in quella continuità. O alba, alba». L’ostinato persistere in sé stesso dell’’anima’ della madre, la loro intensissima corrispondenza di amorosi sensi, era in fondo la riprova di quella agognata continuità nella perdita, che la poesia sopra citata reclama. In una precedente – e drammaticaaltra epifania della madre (Ma ecco il pensiero della vita le si stanca, in Al fuoco della controversia, 1978) Luzi non aveva esitato a rimettere la propria identità di scriba nella sua «memoria latente»: questo mi perdo a pensare, questi grumi di vita dissipati dal mondo eppure impressi a fuoco in una sua memoria latente da cui non mi distinguo in nulla io scriba altro da quella non essendo, da quella e dalla sua sofferenza.

Nella scrivania della sua casa fiorentina, a Bellariva, la piccola foto della madre in primo piano ha fino all’ultimo guardato il vecchio suo figlio, non senza motivo, evidentemente. Ma la figura materna entra anche nell’orbita del femminile, una presenza massiccia nella sua opera, variamente composta da molte «ragazze», «fanciulle», «giovinette», «compagne», «donne», «maritate», «star», «eterna zarina», ecc., tra effimere presenze e tribù affettive, dalla sorella alla moglie Elena, cui ha dedicato – al tempo del suo declino senile – l’accorata Infraparlata di un fedele all’infelicità (2003, edita postuma in Lasciami, non trattenermi, 2009). Tante le donne diversamente amate o immaginosamente vagheggiate: la ragazza di Quaderno gotico (1947), la Giuseppina (Mella) delle Notizie, Peggy Wotton, Cristina Campo, Margherita Dalmati (A Niki Z. e alla sua patria), Franca Bacchiega, Isil ç Saatçioglu e Caterina Trombetti, che gli è stata vicina negli ultimi anni. Naturalmente quello che conta è la presenza sulla pagina di tutto questo: il femminile – nelle sue gamme – intriga ed interroga molto Luzi per la sua alterità al maschile e per l’annodo di fascino e mistero che questo comporta. Ma il femminile vuol dire anche maternità e quindi – come ben allude Alla vita – la connessione con la nascita ed il codice più organico della natura e della creazione. In ogni caso, nella prospettiva luziana, si tratta di una eminenza che non può che essere variamente adombrata dal polo maschile del poeta, tra desiderio (nelle sue gamme), tenerezza e fascino, ma anche inadeguatezza e scarto, nelle varie tappe di una partita davvero costante nei suoi versi. ̯

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Firenze, Siena e Pienza Per un poeta del moto e del viaggio come Luzi (vedi il riepilogo in figura del Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, 1994) sono molto importanti i luoghi ed anche quelli stanziali della sua vita sono sempre animati dal movimento, non a caso una delle sue più antiche poesie Serenata di piazza d’Azeglio (dove a Firenze abitava Elena Monaci, poi sua sposa) ha quel singolare attacco «Il fantasioso viale / voga nella sua nuvola verde». Firenze e Siena sono state le città della sua vita; Siena, la città della sua adolescenza di ginnasiale, la città dei primi amori, dei prediletti pittori della luce, ha sempre avuto una potente carica mitica, sempre più emersa nelle tarde opere («Mi guarda Siena, / mi guarda sempre / dalla sua lontana altura / o da quella del ricordo»): Essere a Siena, sempre, mi esalta un po', quasi mi ubriaca […]. Siena è un concentrato di umane sublimità e di estreme follie; una stratificazione di alti disegni della mente umana e anche di visioni; ma è anche il deserto, il misterioso paesaggio che la isola e la circonda, e dall'una o dall'altro – o dall'una e dall’altro insieme, ecco, viene questa strana febbre o febbrilità che investe uno come me che vi ritorna dopo tanti anni. Questo non cessa mai di accadere (L’incanto e l’attesa, 2004, ora Desiderio di verità e altri scritti inediti e rari, «Istmi», n. 33, 2004, p. 53).

Vi sono evidenti anche risvolti materni, connessi alla città-grembo e femminile, mentre per Firenze, «la città partita», il discorso è decisamente diverso; è la concreta polis del proprio destino di civis, la città della razionalità, geometrizzante e architettonica, ma anche visionaria, il cui duplice versante – ben siglato dalla Commedia – è sempre stato attivo nel Luzi ora gotico e neostilnovista (Quaderno gotico), ora neoplatonico (soprattutto negli ultimi libri). La «Città tutta battuta / camminata scarpinata» delle sue lunghe passeggiate, a Bellariva e altrove, ha conosciuto anche il suo impegno di testimone, in varie occasioni, non ultima la devastante alluvione del 1966 che ha una memorabile sequenza in un passaggio di Nel corpo oscuro della metamorfosi (in Su fondamenti invisibili, 1971): «Prega», dice, «per la città sommersa» venendomi incontro dal passato o dal futuro un'anima nascosta dietro un lume di pila che mi cerca nel liquame della strada deserta. «Taci» imploro, dubbioso sia la mia di ritorno al suo corpo perduto nel fango. 18


«Tu che hai visto fino al tramonto la morte di una città, i suoi ultimi furiosi annaspamenti d'annegata, ascoltane il silenzio ora. E risvegliati» continua quell'anima randagia che non sono ben certo sia un'altra dalla mia alla cerca di me nella palude sinistra.

Infine Pienza, il buen ritiro nella prediletta stagione dell’estate per oltre un ventennio (1981-2004). A Pienza Luzi capitò un po’ per caso, sulla scia di Leone Piccioni, che vi aveva casa di vacanza. Fu per molti anni ospite al Seminario di don Fernaldo Flori, che ne era il rettore; tra i due si sviluppò un’intesa profonda in «settimane di conversazione a due nelle pause, sotto i lecci del parco, durante camminate di giorno e di notte fuori e dentro il recinto del Seminario» (Don Flori, in Prose, Torino, Aragno, 2014, p. 359). Pienza è stata l’incubatrice e la fucina di tutta l’ultima stagione poetica luziana, da Per il battesimo dei nostri frammenti alla Dottrina dell’estremo principiante (2004), alle ultime poesie apparse postume, tra cui i versi scritti nell’ospedale di Nottola, nel settembre 2003, quando fu urgentemente ricovera-

Mario Luzi, secondo da sinistra, al centro Enrico Falqui e Guglielmo Petroni, ultimo a destra Pier Paolo Pasolini.

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to per una crisi cardiaca, versi che si leggono autografi in un cartiglio, vergati con mano tremante, quanto scolpiti con forza nel pensiero e nell’immagine. Tanta vigorosa creatività ha avuto le sue ragioni nella ritrovata solitudine e concentrazione essenziale, che l’«oasi» pientina gli ha offerto, consentendogli al meglio l’ascolto e la visione del grande codice della natura: Da quest'oasi che si apre accogliente al mio esodo, intuisco l'ozio dei vegliardi, ascolto l'ascesa del fragore sordo e chioccio degli uccelli verso il canto, il silenzio, il grido di felicità che colma il giorno, l'operosità della valle che rimbalza e si risponde in opere artigiane, in mugli di motori spinti al solco delle arature. E ancora... un silenzio «non silenzioso», in quanto voce e linguaggio della natura, dell'universo. Anzi, di più: un discorso continuo, sempre in atto, che in verità a volte noi interrompiamo con un dire frammentario e provvisorio. (L’incanto e l’attesa, cit.)

Le Marche, l’oriente e il mare La geografia luziana come si sa è molto vasta: lungo l’elenco dei luoghi del suo pellegrinaggio umano, non privo di escursioni esotiche (dalla Georgia, al tempo sovietica, all’India, alla Cina) e di momentanee stazioni europee (Zurigo, Londra, Parigi, Istanbul, l’Irlanda, l’Olanda, la Grecia, la Spagna), ma certo è l’Italia, nelle sue tanto varie contrade, ad offrire il più ricco campionario da Venezia e Verona, da Parma e Mantova, da Genova e Palermo, per non dire di entità regionali specifiche in cui campeggiano le Marche e l’Umbria. In particolare le Marche, terra originaria dei Luzi, hanno avuto più di un accesso alla sua biografia: il Piceno natio di sua moglie Elena, cui dedica la prosa Adolescenza (ora in Prose) ed i versi di Domenica ascolana, trovati autografi in una sua agenda, ed occasionati dal matrimonio in Ascoli del nipote Andrea; il Montefeltro dei lunghi soggiorni come docente di letteratura comparata all’Università di Urbino, chiamatovi da Carlo Bo; la frequentazione con artisti ed incisori per stampe d’arte, particolarmente fiorenti nel territorio, fino alle varie iniziative promosse dall’Associazione la luna, animata da Eugenio de Signoribus; per non dire, infine, la concreta esperienza del mare:

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Le Marche sono per me l’est, l’oriente, il sole che arriva all’alba; la luce di Urbino d’estate, che incendia le antiche forme della perfezione rinascimentale di Palazzo Ducale. lo così ho ricevuto le Marche. Ma ci sono state nella mia vita anche le spiagge, Grottammare, San Benedetto, fino a Tortoreto in Abruzzo, ed hanno comportato per me il contatto marino puro, l’avvertire l’acqua come elemento e anche come attrazione visiva del senso: l’Adriatico di colore verdastro, in genere. Il mare può essere anche un’idea, lo fu per me a lungo nella giovinezza, mentre lì, nelle Marche, mi si rivelava come qualcosa di corporeo nella maniera più gentile. (Desiderio di verità, p. 51)


In Sardegna con il figlio Gianni e Romano Bilenchi, 1961.

Marche come oriente e come mare, quindi. E qui si entra nella piena personalizzazione di questa geografia: l’oriente, di cui le Marche sono il più contiguo nesso (come altrimenti Venezia, la Grecia, la Georgia), ha in Luzi una particolare valenza, congiunto con le ragioni della nascita e dell’origine, sempre costitutivamente presenti nella sua poesia. In questo senso la geografia luziana funziona un po’ come quella dantesca relativa ad Assisi («Non dica Ascesi, ché direbbe corto ma Oriente se proprio dir vuole») e tutti i luoghi che sono porta d’oriente, rispetto alla Toscana, acquistano una particolare suggestione: «Un passero profondo si dispiuma / sul golfo ov’io sognai la Georgia», si legge nei versi convulsivamente metaforici di Avvento notturno (1940). E con l’oriente, anche in questi versi, il mare, presentissimo nella poesia luziana, come orizzonte e confine celeste. Si dice nei memorabili versi di Alla vita, la poesia matrice di tutta la sua opera: Amici ci aspetta una barca e dondola nella luce ove il cielo s’inarca e tocca il mare

In questi tre versi c’è già tutto Luzi: l’attesa di un viaggio, una navigazione (con quanto sia di fisico che di metafisico l’immagine promette), il movimento che già la barca accenna, il bisogno di umana compagnia, che è

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emblema della reale congrega d’amicizia nella Firenze degli anni Trenta (Bo, Traverso, Betocchi, Bilenchi, Landolfi, Parronchi, tra i primi), anche a compensazione dell’umiliazione civile del fascismo; infine la luce, il cielo e il mare, costituti cardine di una creazione, che dà fascino e meraviglia, anche per il suo incessante principio di movimento, siglato da quel «s’inarca». C’è tanto entusiasmo in questi versi ed un implicito sublime dinamico, che è la base della stilistica luziana, sempre lontana dalle misure idilliche. Il fiume e il grande codice Se il mare ha implicazioni trascendenti ed infinitive, il fiume ha decisamente uno statuto più fraterno ed intrinseco, dettato da una piena consuetudine di una vita tutta passata in riva all’Arno, visitato quotidianamente nei propri camminamenti, anche se non mancano altre significative presenze ed una delle sue poesie più note e innovative è Presso il Bisenzio (in Nel magma, 1963), sulla «gora» che traversa la periferia industriale di Firenze. Il fiume è cantato dalle origini alle ultime poesie, in un vasto spettro di variazioni sul tema, dapprima, «cercando nel tuo passo profondo / la forza che ti fa sempre discendere» (All’Arno, in La barca), infine, nell’epifania del fiume goduto dai volatili, mentre «lui vasto procede / e irrora / capillarmente la vallata» (nella Dottrina). In ogni caso si tratta di una alterità, o come forza di movimento o come pura manifestazione dell’essere, nella propria fisica consistenza, dal sapore lucreziano. Né va dimenticato l’innesto della sua presenza nella comunità umana, che proprio il duetto di fiume e città esprime, un duetto più volte percorso tra i punti di vista dai ponti e le immagini di navigazione in un contesto di sintesi di opposti: «Felici voi nel movimento» dico mentre fisso dal ponte chi naviga con abbandono o lena e guardo come crea nel molteplice l’unità la vita; la vita stessa (Il fiume, in Su fondamenti invisibili)

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Luzi è stato uno degli ultimi poeti italiani sensibili al paesaggio (l’altro mi pare Zanzotto). Per Luzi il paesaggio, esperito nel suo ricco e vario atlante geografico, è un inesauribile serbatoio di immagini e segni, è il messaggio del «grande codice» offerto alla decifrazione del poeta, nella propria lingua. La sua costante sensibilità creaturale ha ricercato sempre una «fisica perfetta», anche se ha conosciuto poi una fase in sigla, più che in simboli (la stagione propriamente ermetica dell’Avvento notturno e del Brindisi, 1946), ma si è poi distesa – dalle Primizie del deserto (1952) – in misure ‘realistiche’ per approdare infine ad epifanie e prosopopee che vanno intese come voci cap-


tate dalla natura rerum (in particolare da Sotto specie umana, 1999, agli ultimi versi). Anche in questo caso il campionario è vasto dai monti alle valli, dai boschi, da ogni tipo di animalia, fino al seme o all’osso, o alle ceneri. Vige l’esigenza di un vasto cantico creaturale di quello che sempre più Luzi ha chiamato «mondo» e tale da contemplare – francescanamente quanto dannunzianamente – la misura della laude, che nella poesia luziana si è imposta almeno a partire dal Battesimo dei nostri frammenti, non scevra tuttavia di interrogativi e di ammissioni deficitarie, perché consapevole dell’arbitraria proiezione dell’«ansia» umana nel vivente della natura, colto in modo quasi panteistico: L’ansia dell’uomo non ha confini umani, appropria al suo tormento l’aria, il cielo, le messi, ignora l’uomo quanto la sapienza sa in tutti i brividi, in tutte le faville di vita dei viventi, anche nei suoi medesimi (Dottrina)

Officina Come lavorava Luzi? Mario era refrattario alla cattedra. Nella piccola casa di Bellariva, stivata di carte e libri, ingovernati, i luoghi compositivi, non erano lo studio o la scrivania, in cui sbrigava la corrispondenza e dove ha stazionato fino all’ultimo l’antica macchina da scrivere Olivetti, acquistata negli anni Trenta dall’amico Leone Traverso, all’epoca precario rivenditore. Su quella macchina, vissuta in tutte le sue case fiorentine (viale Milton, via Galvani, via Nardi, Via Bellariva) e visibile d’estate anche a Pienza, Luzi ha ‘battuto’ quasi tutti i suoi versi, anche se le copie degli ultimi libri – a partire dal Simone Martini – erano passate al computer da Pier Franco Donovan (fino al 2002). Ma le prime stesure dei suoi versi erano affidate in varia misura a piccoli notes, a fogli vari, in anni più recenti (dagli anni ’70 in poi) ad agende di anni trascorsi ed inutilizzate. In genere l’elaborazione era molto ampia, fluida e sicura nei molteplici abbozzi; una volta raggiunta una stesura definita e quindi dattilografata, non sono di norma molti gli interventi successivi (refusi a parte), così come Luzi ha del resto sempre corretto assai poco nelle varie riprese di propri testi già stampati. In questi notes e fogli la scrittura è spesso ardua, minuta, esito probabile delle scomode positure:

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Autografo da La barca, 1935 (Centro studi Luzi «La Barca», Pienza).


sulle proprie ginocchia, sulle sedie di vimini dello studio, quando non da letto, in ore albali, come più volte ha confidato. Né Luzi si è mai curato di custodire le proprie carte, che o generosamente donava o distrattamente smarriva, come il clamoroso caso occorso allo scartafaccio giovanile della Barca, che conteneva anche una consistente quota di poesie compiute ed inedite: rimasto nella casa dei genitori, in via Condotta, finì insieme a vecchi libri ceduti ad un libraio, al momento di sgomberare la dimora, dopo la morte del padre Ciro nel 1965; riemerso nella fiera antiquaria fiorentina del 2001 e segnalato dal bibliofilo Beppe Manzitti, fu acquistato dal comune di Pienza (con l’aiuto della regione Toscana), mentre la quota inedita dei versi costituì le Poesie ritrovate (2003). Le ragioni del disinteresse di Luzi per il proprio archivio stavano nella sua diffidenza verso il passato e le memorie; non amava i rimpianti e le commemorazioni, perché amava vivere nel presente e nell’attesa. Le sue poesie più belle per lui erano quelle che aveva appena fatto o stava rimuginando; la prospettiva era sempre il presente e l’attesa, mai il passato. Questo comportava un basso tratto di narcisismo, per lo meno di quello più grossolanamente visibile. Non si curava affatto, ad esempio, di tenere copia dei propri libri e, prima dell’acquisto di una nuova libreria nel salotto, per vari anni le sue opere erano accatastate dentro una grande scatola di cartone per bottiglie. In modo analogo non aveva interesse per la propria biblioteca: in gioventù era stato buon frequentatore della Marucelliana e fruitore della ricca biblioteca personale dell’amico Carlo Bo. Non era infine un postillatore, diversamente da Caproni, che infieriva sui margini con una spessa matita. Luzi era un cultore dei foglietti, in cui annotava pagine e parole di quel determinato libro, anche se quei fragili cartigli finivano poi spesso in confusi grovigli cartacei. Era un fautore di schemi e scalette, con rinvii a citazioni, come documentano alcuni appunti per Lezioni di letteratura italiana, che tenne a Losanna, nei primi anni ’60, ospite di Fredi Chiappelli, che vi insegnava.

Opere Non esiste una bibliografia degli scritti di Mario Luzi e non sarà facile farla. La sua attività è stata lunghissima – quasi settantacinque anni – dal battesimo poetico sul «Feroce», rivista giovanile studentesca animata da Fosco Maraini, nel 1931, agli ultimi versi di Lasciami, non trattenermi, scritti pochi giorni prima della morte (febbraio 2005). I libri di poesia – da lui licenziati e posti in commercio – sono stati trenta, a questi vanno aggiunte le ‘poesie ultime’, edite postume; quindici sono i titoli di Garzanti (dal 1960 suo editore di riferimento), ma va inoltre rubricata una vera e propria galassia di plaquette fuori commercio (tra cui la suite di poesie civili Sia detto, edite nel ’95

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come Annuario della Fondazione Schlesinger di Lugano) ed edizioni d’arte, che a partire dagli anni ’80 hanno conosciuto un incremento esponenziale; connessi a questi una nutrita serie di cataloghi d’arte, con un qualche scritto di Luzi (raccolti in Luzi critico d’arte, 1997), che ha sempre avuto molta intesa con il mondo pittorico sia dei classici (da Simone Martini a Masaccio a Piero della Francesca), sia dei grandi del Novecento (De Chirico, Morandi, Rosai), sia di non pochi contemporanei come Carlo Mattioli e Venturino Venturi e molti altri. Dopo la poesia, il fronte letterario più attivo è stato quello del teatro, con l’inattuale scommessa del verso, di matrice eliotiana, e condivisa in quel tempo con Pasolini, ma ben motivata nella propria strategia letteraria, in quanto il verso scenico – diversamente da quello poetico – si muove nel costante oltraggio della storia e nella diatriba dei personaggi. A parte il preludio di Pietra oscura (1947, edito solo nel ’94) nove sono le pièces: Ipazia (197178); Rosales (1983), Histrio (1987), Corale della città di Palermo per S. Rosalia (1989), Io, Paola, la commediante (1992), Felicità turbate (1995), Ceneri e ardori (1997), Opus florentinum (2000-02), Il fiore del dolore (2003), su don Pino Puglisi. Quasi tutti i suoi drammi sono interessati ad osservare la forza di corruzione di un potere cieco e degradato, senza ideali e nemmeno ideologie. La dimensione tragica sta proprio nell’impossibilità nella storia di uscire da questa situazione, che non fa che replicarsi; si legge in Ipazia, il suo testo più fortunato e scenicamente ripreso (da Marco Visconti, Orazio Costa, Lamberto Puggelli, Roberto Zorzut ultimo nel 2013): com’è proteiforme il potere e com’è sempre identico a se stesso. Non c’è mutamento a cui non si adatti come il buon marinaio che prende il mare per il suo verso. Invano gli uomini, invano le nazioni e le caste si sforzano e s’illudono di possederlo: è lui che esercita su tutti il suo dominio secondo le buone regole della sua sopravvivenza.

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In non pochi casi il teatro di Luzi nasce su commissione di compagnie teatrali, a partire dalla mirabile versione del Riccardo II scritta nel ‘65 per Gianfranco De Bosio e lo Stabile di Torino e per la voce di Glauco Mauri. In particolare vanno ricordate le collaborazioni con Federico Tiezzi e Sandro Lombardi (dalla riduzione scenica del Purgatorio dantesco del ’90, a Felicità turbate, sul Pontormo, fino a Scene di Amleto, 2001-02 e alla teatralizzazione del Simone Martini nel 2004) e con il Biondo di Pietro Carriglio a Palermo (Corale della città di Palermo e Il fiore del dolore). In qualche modo contigua è La passione. Via crucis al Colosseo, commissionatagli per il Venerdì


Cartolina postale inviata da Vittorio Sereni, prigioniero in Algeria, 1944.

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santo del 1999 dallo stesso Pontefice, letta da Sandro Lombardi e Lucilla Morlacchi, nonché le varie Parlate (2004), monologhi o scene d’occasione, scritti in tempi diversi (più limitati i riscontri con i musicisti, come Guido Turchi, Giacomo Manzoni, Mario Ruffini e Luciano Sampaoli, questo con i lieder di Torre delle ore, 1994). Il prosatore ha conosciuto solo uno specifico appuntamento con Biografia a Ebe (1942), breve ‘romanzo’ sentimentale e sperimentale, teso a mostrare «quanto possa essere avventurosa e naturale la nostra lingua, pure impoverita dagli stilismi degli scrittori contemporanei», secondo quanto lo stesso autore scrive all’editore Vallecchi. Ma a più riprese elzeviri e prose varie sono stati raccolti in volumi e libretti (Trame, De quibus, Mari e monti), ora per gran parte leggibili in Prose presso Aragno (2014). L’ampio raggio degli interventi sulla stampa periodica moltiplica in modo esponenziale la firma Mario Luzi per elzeviri, recensioni, saggi e note critiche, prefazioni ed interventi vari. Vi è l’assiduo collaboratore – con versi e prose critiche – della grande stagione delle riviste letterarie, da «Frontespizio» a «Campo di Marte», da «Prospettive» a «Primato» alla «Ruota», e nel dopoguerra, da «Società» a «Costume», «Il mondo», «Inventario», «La Fiera letteraria», «Paragone», «Tempo presente», «L’approdo», «L’albero», «Palatina», «il Caffé» e altre (vedi la selezione accolta in Prima semina. Articoli, saggi e studi (193346), a cura di Marco Zulberti, 1999; e il citato Desiderio di verità). Con Betocchi fu anche il principale animatore della «Chimera» (1954-55) presso Vallecchi (gli interventi militanti sono ripresi in Tutto in questione, 1965). Ma c’è stato anche il Luzi recensore ed elzevirista su quotidiani e rotocalchi come «Nuovo corriere», «Il Popolo», «Il Mattino dell’Italia centrale» (poi «Giornale del mattino»), «Tempo», fino alle collaborazioni più continuative con il «Corriere della Sera» (1967-72 e dal 1990 alla morte) e «Il Giornale» di Montanelli. Molto importanti su questi quotidiani le cronache letterarie sul romanzo sudamericano ai tempi del suo boom, con le prime recensioni italiane di Garcia Marquez e Vargas Llosa (poi raccolte in Cronache dell’altro mondo, 1989). C’è infatti anche un Luzi lettore di romanzi, che promosse ad esempio l’esordio di Pizzuto e fu tra i primi recensori di Musil, Henry Miller e il Dottor Zivago (vedi Le scintille del «Tempo». Dieci anni di critica luziana, a cura di Elena Moretti, 2003). Nell’ambito della saggistica letteraria vanno rubricati i suoi saggi di francesistica, dalla giovanile monografia su Mauriac, la sua tesi di laurea (L’opium chrétien, 1938), allo Studio su Mallarmé (1952), Lo stile di Constant (1962) e vari contributi su Chateaubriand e altri romantici (Aspetti della generazione napoleonica, 1956), senza dimenticare le molte note e recensioni sulla contemporanea letteratura francese, e l’interesse per la nuova psicocritica di Mauron. Per la letteratura italiana cruciale il saggio teorico L’inferno e il limbo del ’46 (poi nell’omonimo volume del 1949, più volte ristampato), teso


a rilevare la frontalità dantesca rispetto al ‘limbo’ petrarchesco, più frequentato dalla nostra tradizione, ma significativi sono altri saggi danteschi e leopardiani (Dante e Leopardi o della modernità, 1992), l’ampio studio sul Pascoli nella Letteratura italiana Garzanti di Cecchi e Sapegno (1965), le molte note sui poeti contemporanei, dai prediletti Campana, Rebora e Sbarbaro, ai compagni di strada Betocchi, Sereni, Caproni e altri, senza dimenticare i classici come Orazio o Lucrezio (alcuni ripresi in Vicissitudine e forma, 1974; Discorso naturale, 1984; Naturalezza del poeta, a cura di Giancarlo Quiriconi, 1995; Voce e verso, a cura di Daniele Piccini e Davide Rondoni, 2002). Gli scritti su testi della rivelazione cristiana (Giobbe, i Vangeli, S. Paolo, l’Apocalisse) sono stati raccolti da Paolo Mettel in Sulla parola di Dio (2010). Completano la sua bibliografia il Luzi antologista (della poesia francese, con Landolfi, nel ’50; dell’Idea simbolista, nel ’59) e traduttore (Montesquieu, Racine, Coleridge, Tirso de Molina, e le poesie di vari, raccolte in La cordigliera delle Ande, 1983) l’inatteso critico cinematografico (a firma ‘vice’) sulla «Nazione» degli anni ’50 (Sperdute nel buio. 77 critiche cinematografiche, a cura di Anna Maria Murdocca, 1997), il gentile e disponibile soggetto d’interviste (in veri e propri libri come Colloquio, con Mario Specchio, 1999, e Le nuove paure, con Renzo Cassigoli, 2003, per non dire delle moltissime altre sulle più diverse testate, di cui vedi l’antologia Conversazione. Interviste 1953-98, a cura della citata Murdocca, 1999) ed il corrispondente con gli amici: in volume i carteggi con Traverso (a cura di Anna Panicali, 2003), Caproni (2004), Betocchi (sempre a cura della Panicali, 2006) e Spagnoletti (a cura di Paola Benigni, 2011), mentre sono state edite in modo sparso altre lettere a Bilenchi, Anceschi, De Robertis, Bigongiari, Cristina Campo. Consistente la sua udienza internazionale attestata dalle numerose traduzioni a partire da Gothic Notebook su «Italian Quarterly» del 1948; in Francia quasi tutta la sua poesia è stata tradotta (ad opera di Philippe Renard, Bernard Simeone e Jean-Yves Masson), antologie liriche o singoli volumi si leggono in inglese, spagnolo, neogreco, rumeno, svedese, fiammingo, russo, bulgaro, croato, ceco, tedesco, turco, polacco e albanese; il Simone Martini, ad esempio, si trova integralmente in francese, spagnolo, inglese e turco. Come si vede le stazioni di Mario Luzi sono moltissime e ci invitano a nuovi percorsi, sia perché la sua poesia consente sempre nuove suggestioni a replicate e rinnovate letture, sia perché l’insieme della sua opera è un continente ancora in parte inesplorato e scopo di questa mostra – nell’offerta di tanti specimen – è appunto di stimolare la curiosità e la ricerca.

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L’officina di Mario Luzi

Abbozzi e stesure di poesie poi a stampa ci consentono di gettare uno sguardo sull’officina del poeta, sempre molto dinamica nel suo farsi, come dimostrano i due casi presenti e tra loro molto distanti cronologicamente.

1) Rughe, da Un brindisi, 1946 Tre prove su unico foglio, recto, il primo a inchiostro, gli altri due a matita

a) contro lo sguardo rigido nel vuoto +l’uomo, un+ <questo> muto consistere d’aspetti nell’eterna imminenza mentre +incerto sotto il cielo+ un +incerto+ sorriso dissimula il terrore ed esala fra i denti neghittosi e morbidi il buio fermento umano b) sotto lo sguardo rigido del cielo l’uomo, un muto consistere d’aspetti nell’eterna imminenza, fra le case il perenne esitare delle fonti un incerto sorriso dissimula il terrore ed esala fra i denti neghittosi e morbidi il buio fermento umano

| vuoto

c) contro lo sguardo rigido spazia il vuoto uniforme l’uomo, un muto consistere d’aspetti nell’eterna imminenza, il perenne mutare delle fonti, un incerto sorriso dissimula il terrore ed esala fra i denti neghittosi e morbidi il buio fermento umano. [spazio e inserimento:] sospiri ciechi, aneliti Le labbra lente macerano antichi veleni 31


- Testo a stampa L’anima assente, ovunque mi rivolga è un rigore che assidera le forme nel vuoto dello sguardo, l’uomo, un muto consistere d’aspetti nell’eterna imminenza, il perenne variare delle fonti. Un incerto sorriso dissimula il terrore ed esala fra i denti neghittosi e morbidi l’oscuro sogno umano. Sospiri ciechi, aneliti, volti non più istigati fra i muri e fra le piante. Le labbra lente macerano antichi veleni nell’effimero blu della campagna. Stanno i corpi pazienti, cresce la sera arborea fra le nubi e l’universo è incolume fin quando da una buia ferita una creatura mutata in ombra prenda a singhiozzare. 2) Fanno mostra di sé in anticamera, da Frasi e incisi di un canto salutare, 1990 - stesura foglio ds., con correzioni di punteggiatura

Fanno mostra di sé in anticamera disposti in unica cornice i molti laureati di quel lontano anno, ciascuno in un suo minimo ritratto, ciascuno nella capsula d'un tempo che fu suo ed insieme dentro il fiume invisibile che già li parifica tutti e tutti indistintamente squama…

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Chi nominano oggi, chi richiamano quei nomi e quei cognomi e quelle casate? Chi anima quei tratti e quei lineamenti? Forse di essi una residua trama . . . di essi, di. chi li ebbe suoi propri e li riempì di sè quei pegni dell’effimera presenza <…> + – +


e ora li svuota della sua sostanza come gusci aridi come inani valve... [segno di spazio per il verso successivo] O il nulla e la muta, vorticante metamorfosi del vasto e dell’umano? Non dicono <.> +,+ <N>+n+on dicono oltre. Stanno. - Testo a stampa Fanno mostra di sè in anticamera disposti in unica cornice i molti laureati di quel lontano anno, ciascuno in un suo minimo ritratto, ciascuno nella capsula d'un tempo che fu suo ed insieme dentro il fiume invisibile che già li parifica tutti e tutti indistintamente squama… O vige di quei volti, di quei nomi una residua trama che la muta vorticante metamorfosi non sbrana ancora e non disintegra? Non dicono, non dicono oltre. Stanno.

Mario Luzi nel suo studio, 2004.

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Lettera di Pasolini, 1955.


«Ferita nei suoi gangli / la bellezza del pianeta»: poesia e natura nell’ultimo Luzi Giovanni Fontana

Il fracido ottobrino è il componimento che inaugura – dopo un breve ‘Preludio’ – Dottrina dell’estremo principiante, la raccolta ‘terminale’ di Mario Luzi uscita per i tipi di Garzanti nel settembre del 2004. Come altri testi appartenenti alla prima (Animalia) e alla seconda (Per natura) sezione del volume, Il fracido ottobrino è stato anticipato in libri d’arte o cataloghi di mostre, in un vario, mutevole, ma spesso fecondo dialogo con disegni o incisioni d’autore, fra i quali ci piace ricordare, in questa sede, le litografie del ticinese Samuele Gabai (Mario Luzi, Tempi, immagini di S.G., Edizioni Atelier Lythos, Como 2003).1 Nella sua apparente semplicità, nel suo aspetto ingannevolmente rassicurante, questo testo riassume in termini quasi paradigmatici i caratteri dell’estrema poesia luziana:2 Il fracido ottobrino del bosco del parco del giardino 5 che si aprono 1

I componimenti compresi nel volumetto – tirato in 100 esemplari firmati e numerati dagli autori – sono Il fracido ottobrino (poi in M. L., Dottrina dell’estremo principiante, Milano 2004, pp. 13-14), Ha la sua giusta canicola (ibidem, p. 43), È pigra la nuvola (ibidem, pp. 41-42), Navigano scintillando (ibidem, pp. 55-56) e Squarcia il fulmine (ibidem, pp. 23-24); le belle immagini che li accompagnano sono «litografie originali a quattro colori stampate su carta a mano e acquarellate dall’artista». La ‘Bibliografia 1998-2005’ posta in appendice al prezioso volume di S. Verdino La poesia di Mario Luzi. Studi e materiali (1981-2005) (Padova 2006, pp. 223-282) segnala altre anticipazioni del componimento, fra cui spicca quella dell’opuscolo Arte e poesia. La poesia nell’immagine – L’immagine nella poesia (Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, 2003), stampato in occasione di una mostra di opere inedite su carta di P. Gubinelli, che ripropone – in ordine diverso – gli stessi titoli della plaquette ‘comasca’, confermando la compattezza e la ‘vocazione figurativa’ di questo nucleo di testi. 2 Sull’ultima stagione della poesia di Luzi, si vedano S. Agosti, Luzi e la lingua della «verità»: dal Canto salutare ad Avvento notturno (1990), in S. A., Poesia italiana contemporanea. Saggi e interventi, Milano 1995, pp. 11-30; V. Coletti, Domandare e poetare: linguaggio poetico dell’ultimo Luzi, in AA. VV., L’Accademia della Crusca per Giovanni Nencioni, Firenze 2002, pp. 357-371; M. A. Grignani, La lingua «matria» dell’ultimo Luzi, in «Lingua e stile», XLI, dicembre 2006, pp. 255-273; M. A. Grignani, «Seme». Eclissi della metafora, in Note per Mario Luzi, a c. di S. Verdino, fascicolo monografico di «Nuova Corrente», anno 54 (2007), n. 150 (luglio-dicembre), pp. 283-296; L. Manigrasso, Il crollo del discorso. La liberazione dalla forma nella Dottrina dell’estremo principiante, ibidem, pp. 313-333; D. Piccini, La stagione «paradisiaca» di Luzi. Lingua e strategie espressive, in AA. VV., Mario Luzi oggi. Letture critiche a confronto, a c. di U. Motta, Novara 2008, pp. 109-131. Le poesie di Luzi – fino a Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini – si citano da M. Luzi, L’opera poetica, a cura e con un saggio introduttivo di Stefano Verdino, Milano 1998 (poi da M. Luzi, Sotto specie umana, Milano 1999 e da M. Luzi, Dottrina dell’estremo principiante cit.).

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in tutti i loro malli e lasciano le bacche, le ghiande, i bei marroni, pigra piova di pigne drupe e frugi gravi e duri sulla coltre di fogliame – lo inala, ne è ingorda la ghiandaia, non esita, tranquillo se ne pasce il tordo, vi affondano il volo breve e accorto di radura in radura i colombi dov'è meno fioco il giorno. Non c'è chiacchiera, ma c'è colloquio aperto tra i rami, nell'aria. Ancora tra famiglie e specie qualcosa nell’essere si sbracia, però la rissa tace, molto si concede dall'uno all’altro dei viventi insieme, è pace?

Innanzi tutto, l’attenzione al mondo naturale che, a partire da Per il battesimo dei nostri frammenti (1985), si ritaglia uno spazio sempre più ampio nella ricerca di Luzi, senza, tuttavia, mai assumere i connotati idillici o consolatori del rifugio o dell’Eden – anzi, rivelandosi assoggettato agli stessi meccanismi imperscrutabili di morte e rinascita, di coazione e libertà che regolano la nostra vita e attraversato da ‘messaggi’ misteriosi che la scrittura si incarica di decifrare. In secondo luogo, il regime della voce poetante che, in questo discorso ‘creaturale’, non si distingue dall’universo che è oggetto della rappresentazione, non si solidifica in un ‘io’ che subordini a sé il discorso, ma si disperde fra gli oggetti disseminati nel quadro, rapprendendosi unicamente in domande («è pace?») che sembrano emergere anonimamente ‘dalle cose’.


Infine, la struttura metrica, che fa deflagrare il verso tradizionale in un pulviscolo di frammenti ritmici, spesso costituiti da un’unica parola e dislocati irregolarmente sulla pagina, per rispondere a due diverse sollecitazioni: da una parte, a livello (per così dire) micro-strutturale, a un’esigenza di scavo nella lingua, di aderenza alle cose, per il quale – sono parole di Luzi – lo «scalpello» che frantuma le unità metriche codificate si rivela più utile del «pennello»; dall’altra, su un piano più generale, al progetto sottilmente mimetico di una poesia che, sulla scia dell’ultimo Mallarmé, sia immersa fino in fondo nel mondo naturale di cui parla, in cui la forma stessa del testo sia assimilata alla natura, alla geografia della volta celeste, allo scorrere delle acque, all’inquieto chiacchiericcio del sottobosco, in cui il pensiero si metta in scena nel suo farsi e nel suo sprofondare nel reale.3 Fissate queste coordinate di carattere generale, seguiamo – con un movimento per ora orizzontale, tutto interno al ‘corpo del testo’ – lo sviluppo del discorso di Luzi. Innanzi tutto, l’attacco: «Il fracido ottobrino / del bosco / del parco / del giardino». ‘Fracido’ è variante antica e letteraria (ma anche toscana) di ‘fradicio’, dal latino fracere, ‘decomporsi’; il ‘fracido’ (aggettivo sostantivato) è dunque ‘la parte andata a male’, ‘corrotta’, ‘imputridita’,4 in questo caso di un microcosmo naturale. L’aggettivo «ottobrino» fissa con precisione le coordinate temporali della scena, mentre le indicazioni spaziali dei versi successivi risultano più indeterminate e – disegnando una parabola che dalla natura selvaggia del «bosco» conduce a quella addomesticata e umanizzata del «parco» e del «giardino» – sembrano attenuare l’urto dell’incipit. A questa operazione di ‘riassorbimento’, per altro, non sono estranei il reticolo delle anafore e il ‘giro’ facile delle rime, visualizzato quasi leziosamente dall’impaginazione dei versi. La prima campata del testo (1-15) riprende e dilata questo gioco di spinte e di controspinte, esibendo una struttura che potremmo definire illusionistica: il soggetto apparente della frase – «Il fracido ottobrino» – si rivela, infatti, con il passare dei versi, il puro supporto di un discorso nominale che si costruisce per enumerazione di dettagli, in un’ordinata rassegna degli oggetti e 3

Su questo aspetto, sia lecito rimandare al nostro Il teorema e il testo. Su Luzi traduttore di Mallarmé in «Strumenti critici», a. X, fasc, 3 (n. 79), settembre 1995, pp. 417-53 (ora in G. Fontana, Il fuoco della creazione incessante. Studi sulla poesia di Mario Luzi, Lecce 2002, pp. 140-172). Oltre agli studi già ricordati, si veda in proposito anche Elisa Tonani, «Punteggiatura bianca» e ritmo visivo nella poesia dell’ultimo Luzi in Note per Mario Luzi cit., pp. 335-358. 4 F. Sabatini-V. Coletti, Dizionario della lingua italiana, Milano 2007, p. 1054. Nel Grande Dizionario della Lingua Italiana del Battaglia il termine è registrato, in quest’accezione, con esempi di Savonarola e N. Franco; quanto alla sua vitalità in area toscana, si vedano P. Petrocchi, Novo dizionario universale della lingua italiana, Milano 1887-1891, v. 1 (1887), p. 969 e G. Rigutini-P. Fanfani, Vocabolario italiano della lingua parlata, Firenze 1887, pp. 676-677.

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delle presenze che popolano questo esterno autunnale e concorrono alla creazione di quella ‘putredine’. Il ritmo lento dell’esplorazione è appena increspato dalla corrente leggera dell’accumulo, dalla «pigra piova» dei termini – ora colloquiali e fonicamente ‘aperti’ (5-10 «malli», «bacche», «ghiande»), ora rari o tecnici e dal timbro ‘chiuso’ e ‘cupo’ (11-15 «pigne», «drupe», «frugi») – che scandiscono l’inventario dei tesori dell’autunno.5 Il movimento è sinuoso, avvolgente: il flusso verbale – nato come specificazione e approfondimento del «fracido» dell’incipit – avviluppa, infatti, il lettore in una spirale di immagini seducenti di ‘apertura’ e di ‘fertilità’ che solo la verticalità della ‘caduta’ (adombrata dal dantesco «piova»6 e visualizzata dalla disposizione dei termini sulla pagina7) sembra collegare a un’idea di deiezione e di perdita. Come nei quattro versi iniziali, dunque, l’immagine di decomposizione è neutralizzata e riassorbita nella lucentezza dell’involucro visivo autunnale. Al verso 16 un’arricciatura del tessuto sintattico segnala lo spostamento dell’obiettivo dagli oggetti alle presenze animali che vi si immergono e se ne nutrono, inaugurando la seconda sezione del componimento. In un frammento che sembra sporgersi nel ‘vuoto’, la ripresa pronominale de «Il fracido ottobrino» – che da ‘soggetto apparente’ del discorso si trasforma, per anacoluto, in ‘oggetto’ delle azioni degli animali («lo inala, ne è ingorda…») – crea infatti un piccolo choc... L’improvviso cambiamento di prospettiva è sottolineato dall’inversione (che isola, in rejet, il soggetto dei tre periodi di cui si compone la sequenza) e dallo slittamento sull’asse paradigmatico, dall’interrogazione febbrile del lessico («lo inala, ne è ingorda…»).

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Sulla compresenza di ‘alto’ e ‘basso’, sullo «sfrangiamento di registri» (mai posti, però, a scontro o in interferenza), sulla rinuncia alla figuralità che caratterizzano la lingua dell’ultimo Luzi, si vedano soprattutto le osservazioni illuminanti di M. A. Grignani, La lingua «matria» cit., pp. 269 segg. e «Seme» cit., pp. 286 e segg. (e, nella loro scia, i rilievi di D. Piccini, La stagione «paradisiaca» di Luzi cit., pp. 123-127). Qui ‘drupa’ è un termine tecnico della botanica («Frutto indeiscente con epicarpo formato da una membrana, mesocarpo carnoso, endocarpo legnoso contenente i semi, p.es. la pesca, la ciliegia», F. Sabatini-V. Coletti, Dizionario cit., p. 853), mentre «frugi» – ‘frutti’ – è una forma antica e letteraria, ricalcata sul latino ‘fruges’ (plurale di ‘frux, frugis’, prodotto della terra, frutto) e di cui il Grande Dizionario della Lingua Italiana del Battaglia attesta alcune occorrenze in autori quattrocinquecenteschi. 6 Il termine è impiegato nella descrizione dell’ambiente del terzo cerchio che apre il sesto canto dell’Inferno (vv. 7-12): «Io sono al terzo cerchio, de la piova / etterna, maladetta, fredda e greve; / regola e qualità mai non l’è nova. / Grandine grossa, acqua tinta e neve / per l’aere tenebroso si riversa; / pute la terra che questo riceve» (Dante Alighieri, Commedia. Inferno, con il commento di A. M. Chiavacci Leonardi, Bologna 1999, pp. 105-106). L’eco di questa terribile «piova» – pur attenuata dall’aggettivo «pigra» – si coglie dunque anche nel lento depositarsi di «pigne», «drupe», «frugi» sulla «coltre di fogliame», che si screzia di colori ambigui, inquietanti. 7 Il diagramma è dapprima tortuoso, zigzagante, intermittente, quasi a mimare uno sgocciolio, poi sempre più lineare, fitto e ribattuto, come una pioggia continua e insistente.


Lettera a Giorgio Orelli, 1977 (Archivio Orelli, Bellinzona).

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Anche questo secondo, ampio movimento (16-25) si regge su equilibri delicatissimi, su un sistema di spinte e controspinte dinamiche: al progressivo dilatarsi delle unità metrico-sintattiche corrisponde infatti, da un lato, il crescendo delineato dal rapporto sempre più intimo e vitale con il «fracido» (desiderato, assimilato, ‘penetrato’) e, dall’altro, il diminuendo disegnato dall’atteggiamento sempre meno ansioso, sempre più tranquillo e «accorto» degli uccelli (che, non a caso, da «ghiandaie» si fanno «colombi»8). Al margine estremo di questo lunghissimo periodo, la precisazione «dov`è meno fioco il giorno» colloca la scena in un orizzonte spazio-temporale più definito e, richiamando circolarmente l’idea di ‘fine’ implicita nel sintagma «Il fracido ottobrino», sigilla la sequenza più propriamente descrittiva del componimento, intessuta, come abbiamo visto, di immagini di morte e di vita, di fine e di rinascita. Abbiamo fin qui attraversato i primi venticinque versi del componimento ‘orizzontalmente’, registrando le reazioni che suscitano in chi li percorre per la prima volta. Se ora, però, li riesaminiamo dall’alto e nel loro insieme, ci accorgiamo che essi realizzano, in forme dilatate e quasi slabbrate, un costrutto marcato tipico della lingua parlata, la dislocazione a sinistra, che prevede l’anticipazione e la messa in rilievo del tema della frase (presentato come se fosse già noto) e la sua successiva ripresa pronominale. Queste movenze sono molto frequenti nell’ultimo Luzi, come ha rilevato Vittorio Coletti,9 e conferiscono al discorso un’impronta dialogica (complementare a quella interrogativa segnalata in apertura) entro la quale possono convivere armoniosamente gli opposti, in una tensione che si carica di significati simbolici: il «fracido ottobrino», isolato ed enfatizzato dalla dislocazione nelle sue ambigue coloriture, come emblema di decomposizione e di fertilità, è ripreso, infatti, nella seconda sezione come oggetto di un processo vitale di nutrimento e di crescita, dentro una gabbia sintattica che sottolinea la complementarità dei due momenti, delle due visioni, nella prospettiva di un universo in perpetua trasformazione e in misteriosa crescita.10 L’approdo di questo viaggio in una natura autunnale attraversata da segnali misteriosi e contraddittori non può che essere una condizione instabile, un equilibrio precario, rappresentato in forme apparentemente tradizionali negli

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Concorrono a questo allentamento della tensione la duplicazione degli aggettivi – «breve e accorto» – e la determinazione spaziale ‘discreta’ «di radura in radura», che dilata e sfrangia la descrizione. 9 V. Coletti, Domandare e poetare cit, p. 365-368, in part. a p. 366. 10 Il dialogismo è interno al discorso poetico, che si costruisce per progressiva, quasi empirica messa a fuoco del proprio contenuto, ma investe anche il lettore, che è ‘risucchiato’ dentro il processo di ricerca e di interrogazione del reale rappresentato dal – o realizzato nel – testo.


ultimi versi del componimento (26-34).11 Un «colloquio aperto / tra i rami, nell’aria» che nasce dalla temporanea sospensione della «rissa», dalla tregua che i viventi si concedono l’un l’altro, mentre «tra famiglie e specie qualcosa» ancora, sotterraneamente, «si sbracia».12 Donde una domanda che sembra emergere dalle cose, senza soluzione di continuità, protendendosi, anche graficamente, verso l’ignoto: «è pace?», ‘esiste la pace?’, ‘vi è concordia, vi è armonia dietro le parvenze rassicuranti di un crepuscolo ottobrino?’13 Com’è consuetudine nel Luzi degli ultimi decenni, l’interrogativo rimane senza risposta, perché la domanda «non chiede di sapere, accetta di esitare, non pretende di conoscere e si accontenta della sapienza costitutiva del dubbio», scommettendo, se mai, sull’esistenza di un «senso sepolto».14 Ma la traccia fonica che collega «pace» a «tace» e «sbracia» (e «specie») e più lontano a «fracido» conferma l’idea che quest’armonia sia in realtà solo sospensione del male o addirittura contenga in sé la propria negazione, sia insidiata dalla materia stessa di cui ingannevolmente si sostanzia – la putredine del «fracido ottobrino»… O, forse, che in natura putrefazione e fertilità, «rissa» e «pace» misteriosamente convivano, l’una necessaria all’adempimento dell’altra, nel solco di una «metamorfosi» e di una «creazione» incessanti proiettate verso una «nuova nascita». E dato che la poesia estrema di Luzi ci ha insegnato a considerare la natura e l’uomo come un tutt’uno, dentro un cosmo in crescita, aperto a un’autentica «trasmutazione»,15 l’uso di termini come «chiacchiera», «colloquio», «viventi» autorizza ad estendere queste ‘conclusioni provvisorie’ alla famiglia umana… 11 La correctio di 26-28 ha un andamento marcatamente prosastico, anche in virtù della ripetizione del predicato «c’è», mentre l’analogo «però la rissa tace» (33) è incuneato fra due proposizioni (29-31, 32-33) ‘slogate’ dalla disposizione ‘artificiale’ dei componenti (nel primo caso potenziata dalla frammentazione del verso, che isola e enfatizza «specie», in consonanza con «sbracia» e «pace»). 12 ‘Sbraciare’, intransitivo, vale ‘uscire, sprizzare dalla brace’ (detto per lo più delle faville): cfr. F. Sabatini-V. Coletti, Dizionario cit., p. 2427; e si vedano anche P. Petrocchi, Novo dizionario universale cit., v. 2 (1891), p. 853 e G. Rigutini-P. Fanfani, Vocabolario cit., p. 1383 (ma solo per l’uso transitivo ‘ravvivare il fuoco smuovendo la brace o i tizzoni ardenti’); non è attestato, invece, l’uso riflessivo del verbo. 13 Significativo è il fatto che l’interrogativa non sia isolata dal punto o dai due punti né introdotta dalle virgolette o dai trattini, ma sia preceduta unicamente da una virgola (e quindi resa con un’iniziale minuscola). 14 V. Coletti, Domandare e poetare cit., p. 365. Per una tipologia dell’interrogazione luziana (nel contesto di una rassegna delle «forme che suggeriscono l’unità profonda» del mondo mentre «predicano in superficie la disunione e il dilemma», salvaguardando «la frammentarietà implicita nel suo stato enigmatico»), si veda anche D. Piccini, La stagione «paradisiaca» di Luzi cit., pp. 118-122. 15 Sulla «rivoluzione copernicana» della poesia luziana degli ultimi decenni, che dalla «metamorfosi» (intesa come un divenire che è «trasformazione dell’identico») si apre alla «trasmutazione» (che è un movimento del tutto – storia e cosmo, intesi unitariamente – «verso un destino, verso un compimento, verso un possibile e reale nuovo, verso una «nuova nascita»», che giustifica, in un’ottica cristiana, il dramma storico dell’umanità), si veda soprattutto G. Mazzanti, Dalla metamorfosi alla trasmutazione. Destino umano e fede cristiana nell’ultima poesia di Mario Luzi, Roma 1993.

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Per altro, il significato di questi versi si definisce più chiaramente dentro il sistema compatto e coerente delle ultime raccolte luziane, che appaiono collegate fra loro non soltanto – come abbiamo visto – da strategie espressive omogenee, ma anche da un fitto reticolo di riprese e di parallelismi tematici, lessicali e perfino fonici. Inseguendo la scia fonica e semantica delle parole-chiave che abbiamo individuato («pace», «rissa», «tace», «brace») nella stagione «paradisiaca» di Luzi possiamo, infatti, ricostruire la genealogia di questo componimento, che sembra rimodulare, in toni meno drammatici, la partitura di un testo capitale di Frasi e incisi di un canto salutare (1990) intitolato La lite .16 La lite – posto, come la poesia che stiamo analizzando, in limine, a indicare la cifra più intima della raccolta – è un lungo componimento che si apre sulla domanda che sigilla il Fracido ottobrino («È pace?») ed è intessuto di allusioni al riaccendersi di «un infuocato alterco» fra ciò che finisce e ciò che dura, al risorgere di «lingue zittite da estinzione» ma «non da raggiunta pace», al riemergere di «rantoli di una non seppellita rissa», che il «ghirigoro vocale e celestiale» dei «cantori del mattino» primaverile non riesce a sopire: segnali misteriosi che emergono dalla materia e dalla storia, spie della presenza del dolore e della morte nella «temporalità umana», cui solo l’incarnazione di Dio-uomo nel mondo, riscattando il negativo e l’effimero, può dare un senso.17 «…non hanno / origine né fine / solo pausa / e intontimento / le note del vivente disaccordo / squillanti in molti lembi / di terra e tempo, / zig-zag d’una cangiante / medesima agonia / tra la luce del mondo / e la sua nera carne. Necessaria all’armonia? / Pegno dovuto all’alleanza? Forse…»: questi versi della terz’ultima sequenza de La lite (51-65) costituiscono, probabilmente, la miglior chiosa al finale del Fracido ottobrino, rinviando, pur nell’apparente rovesciamento di prospettive (l’accento posto sulla dimensione storica più che su quella naturale, sull’«infuocato alterco» più che sul «colloquio aperto»), alla medesima fede nella «trasmutazione».

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16 La lite – anzi (la lite), con il titolo allineato a destra – è il secondo testo (dopo Di chi era maceria) della prima sezione della raccolta, Genia, preceduta solo dal ‘proemiale’ Auctor (M. Luzi, L’opera poetica cit., pp. 716-719). Nelle sue preziose note di commento (Apparato critico, pp. 1685-1687), S. Verdino segnala lo stretto legame strettamente esistente fra questo testo e Frasi, dalla sezione Dal grande codice di Per il battesimo dei nostri frammenti (1985): «La poesia fa riferimento alla condizione di lotta e di agonia del messaggio cristiano nella temporalità umana e sviluppa poesie precedenti come Frasi in BNF [=Per il battesimo dei nostri frammenti], al cui incipit (vv. 1-18) si richiamano i vv. 1-13» (p. 1685). 17 «Genia presenta il viaggio del supremo Lui nella storia, al di dentro di ogni contraddizione dolorosa, in una piena esperienza dell’agone, dove tornano i temi liturgici della morte e della risurrezione o della pentecoste, mentre da parte umana si misura la difficoltà di lettura e di decodificazione del messaggio, insidiato o dal silenzio o dal logoramento della lingua» (S. Verdino, A Bellariva. Colloqui con Mario, in M. L., L’opera poetica cit., pp. 1239-1292, a p. 1278).


Dattiloscritto da Onore del vero, 1957, con note tipografiche.

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Quel che fa la differenza è, se mai, lo sguardo inquieto che l’«estremo principiante» getta sul mistero dell’incarnazione del divino nel mondo – lo stesso sguardo che si coglie negli ultimi versi di un altro testo della sezione Animalia – Squarcia il fulmine – su cui vogliamo chiudere il nostro breve viaggio nella poesia testamentaria dell’ultimo Luzi:

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Squarcia il fulmine la diga d'aria e luce dell’estate. Lei cala dalle sue alte plaghe di stasi e beatitudine alla chioma già inquieta degli alberi, rasenta il suolo nel suo volo ed ecco le è simile la strige che scolora e perde nella fuga penne e piume. La talpa atterrita che precipitosamente infila la sua buca anche le è vicina dov' è la differenza? Si risente, si accorge di sé ferita nei suoi gangli la bellezza del pianeta, l’unità della sua vita. Il male è necessario, forse, il male non manca.


Il componimento – giocato, come Il fracido ottobrino, su scarti improvvisi, su inopinati cambiamenti di prospettive o aperture laterali del discorso – si propone non solo come rappresentazione dinamica di un micro-evento (le reazioni del mondo naturale all’improvviso scatenarsi del fulmine), ma anche come raffigurazione simbolica di un destino di deiezione che l’innominata «Lei» (3) condivide - in un’ideale, dolorosa ‘staffetta’ - con creature celesti (la «strige») e terrestri (la «talpa»), tutte indistintamente coinvolte in una ‘cacciata dal paradiso’ di ‘stasi e di beatitudine’ e costrette a misurarsi con l’enigma di un male «forse necessario», certo onnipresente. «Si risente, si accorge di sé / ferita nei suoi gangli / la bellezza del pianeta, l’unità della sua vita», dice Luzi, congedandosi da noi, con fede e con sgomento.

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Ottone Rosai, Terra toscana, 1939, olio su tela, cm 40.2 x 50 (Farsettiarte, Prato).


«Moti e ricerche verso l’infinito». Mario Luzi e i suoi artisti Giovanna Uzzani

«Si fa sempre più palese che un uomo e un cipresso di Rosai sono nel medesimo tempo un’affermazione e un dubbio tra i quali, diaframma angelico e cupo, una vita stenta a consumarsi» (Mario Luzi, 1937)

Come le prime esperienze poetiche di Mario Luzi, così anche le prime sue pagine di critica d’arte risalgono alla metà degli anni Trenta: è il 1934, quando sulle pagine del foglio pistoiese «Il Ferruccio»,1 il giovane scrive in due puntate una sua personalissima Guida all’interpretazione di Raffaello Sanzio; e corre il 1937 quando sulla rivista «Il Bargello», il poeta, poco più che ventenne, si lascia coinvolgere dal caso Rosai, artista tra i più carismatici della scena fiorentina, riferimento ineludibile di una ampia sequela di artisti in erba. Il contesto è quello che gravita intorno all’ambiente letterario e artistico de «Il Frontespizio», interprete di quel cattolicesimo di antiche origini strapaesane, che dal ’36 si rinnova attraverso una nuova generazione che irrompe, non rinnegando le proprie radici, ma insieme accogliendo gli umori dello spiritualismo cattolico francese e inedite inquietudini. Ed ecco, a stretto giro, l’accostamento al «Bargello», dove si annida la prima contestazione letteraria, poi a «Letteratura» e a «Campo di Marte», le riviste che si aprono alla cifra dell’ermetismo fiorentino. Risalgono a questi anni, per Mario Luzi, la conoscenza e la frequentazione di Ottone Rosai, di Pietro Parigi e dei loro allievi, così come l’amicizia con Mario Marcucci. Curiosamente, a quei primi contributi critici non ne sarebbero succeduti altri se non nei decenni a venire, e comunque a seguito della morte di Rosai, nel 1957; occorre dunque attendere, per vedere moltiplicarsi le attenzioni di Mario Luzi, ormai maturo come uomo e come poeta, verso l’arte contemporanea. Eppure a quella linea, segnata dai primi incontri, egli sarebbe rimasto tendenzialmente fedele, con poche deroghe, spesso dettate dall’occasionalità di una richiesta, di un incontro, di un rapporto nuovo. E sempre disposto egli si sarebbe confermato a privilegiare, nella ricerca degli artisti compagni

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«Il Ferruccio» nasce a Pistoia come settimanale di ispirazione fascista e vive tra il 1932 e il 1944. Nelle sue pagine, il fascicolo dedicato alla cultura accoglie i giovanissimi Mario Luzi, Piero Bigongiari, Oreste Macrì, Danilo Bartoletti.

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di strada, la decantazione dei sentimenti, l’evanescenza della forma, la sublimazione delle emozioni, entro un assioma di fondata ricerca interiore. Tanto che si è tentati di cercare le ragioni profonde delle scelte e delle infatuazioni del poeta ormai maturo, continuamente attingendo a quel fecondissimo crogiuolo di esperienze che è stato il primo periodo di elaborazione della poetica ermetica. È dunque alla ricerca delle ragioni profonde di quei primi legami con gli artisti cari al «Frontespizio» che merita condurre la ricerca, tanto più che nell’indice degli scritti d’arte luziani dei decenni a venire, ricorrono di continuo gli stessi nomi dei maestri – Rosai, Viani, Parigi, Capocchini e degli allievi Venturino, Caponi, Tirinnanzi, Quinto Martini e molti altri ancora.2 «Avevo visto “Il Frontespizio” in vetrina, in libreria […]. L'attrazione per me era rappresentata dai loro scritti: i racconti di Lisi, la poesia di Betocchi, un mondo che non mi era estraneo. Fatto sta che su invito non formale, ma in ragione di amicizia, fatto da Lisi, e su sollecitazione di Bo, cominciai a scrivere delle note sulla rivista, anche se inizialmente con intermittenza».3 È in una recente intervista che Luzi ripercorre le tappe dei suoi primi contatti fiorentini con la rivista, di cui rammenta le linee programmatiche iniziali, l’avvicinamento degli ermetici, lo scisma dei collaboratori e l’epilogo. Difatti, sulle tracce di «Strapaese», la prima stagione del «Frontespizio» – tra il 1929 e i primi anni Trenta – aveva raccolto artisti e letterati che si erano espressi in contrapposizione radicale a ogni idealizzazione o idealismo, piuttosto a favore della rappresentazione di storie minori, della quieta fragrante vita di provincia, della vita umile e dura dei diseredati, seguendo il magistero di Papini, Soffici, Rosai, Viani, numi tutelari della toscanità contemporanea. Si esprimeva così una frangia della cultura cattolica all’interno del generale «ritorno all’ordine» e ai valori.4 Ma dal 1936 erano entrate nel «Frontespizio» forze letterarie nuove e con loro molti giovani artisti – mentre avveniva l’aggancio tra avanguardia letteraria e spiritualismo cattolico di ispirazione francese, non senza difficoltà e incomprensioni, rispetto alle posizioni del nucleo storico della redazione. Sono dunque le leve della poesia ermetica a proporsi ora nell’esegesi della pittura rosaiana e delle sue derive. E mentre Roberto Longhi liquida sprezzante il seguito rosaiano come «pittura per letterati», Luzi testi-

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Vedi a riguardo l’imprescindibile Luzi critico d’arte, a cura di Nicola Micieli, testi di M. Ciccuto, N. Micieli, T. Paloscia, A. Parronchi, catalogo della mostra, Sesto Fiorentino, Museo della Porcellana di Doccia, dicembre 1997-gennaio 1998, Logisma editore, Firenze-Bivigliano 1997. 3 L’intervista, rilasciata dal poeta a Firenze nel 1986, viene per la prima volta pubblicata in Conversazioni a Firenze, a cura di Andrea Spini, Polistampa editore, Firenze, 2008. 4 All’interno della bibliografia sulla rivista fiorentina, segnalo il ricco saggio di M. Pratesi, Genesi e sviluppo della linea artistica del «Frontespizio», in «Bollettino d’Arte», Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, n. 43, maggio-giugno 1987, pp. 1-48: primo efficace studio sul tema e punto di partenza per il lavoro presente.


monia con orgoglio: «Pratolini, Gatto, Parronchi, io stesso, iniziammo a parlare di Rosai nei nostri giornali, «Il Bargello», «Campo di Marte», «Frontespizio». Ad aiutare Rosai fu la cultura cattolica, che colse subito il suo senso cristiano dell’uomo, mentre la cultura laica e crociana gli è stata più distante. Ma i più vicini al cuore della sua pittura rimasero i cattolici, e più avanti i comunisti, già anticipati da quei comunisti in nuce che erano i fascisti di sinistra».5 Avvengono in tale contesto inediti sodalizi. Così nella pagina poetica si fa strada una progressiva ricerca di astrazione e rarefazione delle immagini; il potenziamento dei valori evocativi; la riduzione del lessico a poche parole pregnanti ed essenziali; la soppressione delle determinazioni, per rendere la parola assoluta e allusiva, mentre si riducono drasticamente i nessi grammaticali e sintattici. E in analogia i disegni, le incisioni, gli appunti grafici che integrano le pagine del «Frontespizio», si propongono nella loro qualità di immediate rivelazioni: frammenti, forme stilizzate e fortemente espressive, segni fragili e malcerti di inchiostro sulla pagina, chiaroscuro vibrante del carboncino, ricercata pesantezza artigianale delle xilografie, o ancora linee leggere, quasi a non definire, né chiudere la forma. Le pagine della rivista collezionano un’antologia di disegni straordinari, di costante tematica quotidiana, che al pari dei componimenti poetici si mostrano densi di trasalimenti, nelle luci soffocate, nelle macchie, nei segni radi che trascendono la cronaca, in uno spazio emotivo senza tempo. Escono su quelle pagine i contributi degli artisti del «Frontespizio», maestri accanto ad allievi, e così Rosai, Morandi, Parigi, Viani accanto ai vari Manzù, Marcucci, Quinto Martini, Gallo e molti altri giovani. A guardar bene, abbiamo già composto la gran parte dell’indice luziano di critica d’arte, e indicato le chiavi di lettura che il poeta rintraccia e promuove nei suoi artisti, nel correre di quel tempo e dei decenni successivi. In questo serrato ut pictura poesis, anche i temi appaiono consonanti: il tema della giovinezza, nel suo carattere generoso e istintivo, segnata dalla lotta interiore, il tema della vocazione, del distacco, della solitudine, della sconfitta. Scorrendo le pagine della rivista troviamo dunque nudini fragili, piccoli ritratti in momenti di intimità, paesaggi di una campagna arsa e selvatica, casolari solitari. Vengono in mente in particolare i disegni di Manzù, i suoi gracili arlecchini, graffiti dalla punta secca della matita, o la serie delle straordinarie Erbe di campo, condotte con mano sensibile alla ricerca di segrete selvatiche bellezze. Anche nella parallela produzione di pitture e sculture di questi artisti ritroviamo le stesse indicazioni: ecco ricorrere il tema del ritratto, come umile specchio di quotidiane manifestazioni, in terra o terra refrattaria, graffite a crudo con la stecca, in gesso o cemento o 5 M. Luzi, Ottone Rosai: opere dal 1911 al 1957, mostra e catalogo a cura di Pier Carlo Santini, introduzione di Carlo Ludovico Ragghianti, Vallecchi editore, Firenze, 1983.

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Pietro Parigi, La confessione del brigante, xilografia, da «Il Frontespizio», copertina, 1936.

in pietra erosa di fiume, materiali poveri, preferiti rispetto al marmo; così pure il tema religioso, sentito come spunto di solitaria meditazione; il paesaggio, specchio di intime risonanze; la natura morta o silente; la povertà; la solitudine. «Rosai aspro e angelico» è il punto di partenza e di arrivo, pietra miliare nello sviluppo della poetica luziana, dal primo contributo critico del 1937, a quello post mortem, fino ai successivi interventi degli anni settanta e ottanta: «Seguivamo giorno per giorno l’artista bruciare il suo rovello nelle meste e aggressive raffigurazioni dell’uomo, persistente più che mai sotto la specie di omuncolo, oppure svettante nella straordinaria limpidezza dei suoi paesaggi».6 Quei paesaggi disabitati, le case con le finestre impenetrabili, come specchi di nera pece, i ritratti foschi degli amici, l’immagine «visionaria» dei quartiere d’Oltrarno o di via San Leonardo, serrata fra gli alti muri a secco, lo sguardo sulla campagna, «celestiale» talvolta, gli «omini», chiusi nella loro solitudine, si propongono allo sguardo del poeta come esemplari «di un’umanità accidiosa insieme e orgogliosa di se stessa, ove alcune leggi statiche e perenni sembrano avere un compimento».7 Attraverso queste opere si affer-

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il contributo luziano in 100 opere di artisti moderni, catalogo della mostra, Falsetti, Prato, 1972; cons. in Luzi critico d’arte, cit., pp. 54-55. 7 Vedi M. Luzi, Su Rosai, «Il Bargello», IX, luglio 1937; cons. in Luzi critico d’arte, cit., p. 53.


Lorenzo Viani, Temporale, 1932, olio su tavola, cm 60 x 84.5 (Farsettiarte, Prato).

ma infine una toscanità esemplare: «C’è una specie di sublimazione sensuale nel paesaggio e nelle sue straordinarie luminescenze, mentre l’umano resta chiuso nel suo dramma, condensato e confitto nella sua interna conflittualità.»8 In molti dei suoi contributi dedicati a Ottone Rosai, Luzi non manca di riferire assonanze con Lorenzo Viani e con lo scrittore Federigo Tozzi, altro grande toscano, socialista poi anarchico poi cristiano, apocalittico e medioevale, straordinario esploratore delle possibilità della parola, nei ritmi serrati, paratattici, incisivi, crudi del linguaggio. Così dissertando su Rosai: «Al pari degli altri grandi toscani coevi, Tozzi, Viani, il sentimento tragico della vita non gli consente di distrarsi dall’uomo, di non incombere sulla sua contraddizione e sul suo scandalo, di non tormentare l’immagine interrogando i segni che porta scritti nel volto.»9 E ancora, riflettendo su quella che chiama «tradizione toscana dei Tozzi e dei Viani»: «Mi riferisco alla visione drammatica dell’uomo avvilito e mortificato, e in qualche misura ribelle […]. De Benedetti vede in Tozzi la fedeltà alla tradizione toscana, ma anche una intensificazione dei tratti, un disperato incremento dello scavo in ciascuna

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Vedi il contributo luziano in Ottone Rosai: opere dal 1911 al 1957, cit., cons. in Luzi critico d’arte, cit., pp. 54-55. 9 Scritto nel 1983, ora in M. Luzi, Nuovamente venuto Rosai, Edizioni Pananti, Firenze 1984; cons. in Luzi critico d’arte, cit., p. 56.

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situazione umana che gli permettono di stabilire un paragone tra Tozzi e Kafka. Qualcosa di simile si può fare per Rosai […]. C’era in Rosai una innata e potente virtualità costruttiva: dall’episodio sorge immediatamente la costruzione, non c’è il trascorrente, non c’è il fugace, semmai una istanza quasi ossessiva».10 Ecco introdotta la lettura del pittore Lorenzo Viani, amato da Luzi per il «rovello nativo, profondo, che alla nostra critica europeizzante poté apparire umorale e vernacolo»; per i suoi personaggi, fieri e miserabili, vàgeri segnati «dalla miseria, l’umiliazione, l’offesa, il vagabondaggio, l’irriducibilità»; per il linguaggio «spoglio di eloquenza», capace di «ampiezza e solennità e intensità», di «deformazioni spettrali e ruvide»; di «imprecazioni»; apprezzato infine come iniziatore di un toscano «espressionismo, violento cupamente deformante», «pietoso alfabeto per leggere il mondo».11 Un’altra personalità assai cara a Luzi è Pietro Parigi, compagno di lungo corso, dai tempi del «Frontespizio» alla piena stagione ermetica, fino al dopoguerra e alla frequentazione dell’ambito di Giorgio La Pira e della rivista «La Badia». Guardando le xilografie che accompagnano l’intero viatico di Parigi, Luzi nel 1980 torna a commuoversi per «l’innocenza» e «trepidazione di eterno novizio», per «la castità romanica», per l’incanto delle rappresentazioni: «vita meditata in parabola».12 Ma ben oltre al repertorio, l’accordo con lo spirito luziano avviene sul piano del linguaggio: e splende in tal senso l’esemplarità del tratto inciso di Parigi, rapido, elegantissimo, nel legno tagliato di filo; l’immagine si scarnifica in spoglia sintesi, a suo modo «classica», come si è scritto. È sul piano del linguaggio che si comprende parimenti l’interesse per una pittura di diversa tradizione, asciutta, nobile, cifrata come quella di Giovanni Colacicchi, forse l’unico rapporto di Luzi nato nella Firenze degli anni Trenta, ma distante dalla poetica del «Frontespizio». Di quei paesaggi immoti, così come dell’umanesimo contemporaneo di Colacicchi, Luzi può sentirsi attratto per l’asciutta solarità della visione, per l’evocazione di classici ideali di bellezza, reinterpretati con sintesi moderna. Figure isolate, paesaggi arsi e assolati, valori tattili della pittura, filtro dello stile, affermazione nobile della libertà dell'artista, questi gli argomenti di tale assonanza; e ancora sublimazione della forma, della luce, dai toni biondi e acquamarina, in momenti di algida, sospesa rarefazione. 10

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Cfr. l’intervista di Paolo Tortonese a Mario Luzi, in Ottone Rosai: opere dal 1911 al 1957, cit., 1983, in Luzi ciritico d’arte, cit., p. 58. 11 Le citazioni sono espunte e liberamente assemblate da 100 opere di Lorenzo Viani, scritti di Mario Luzi e Michelangiolo Masciotta, Edizioni Falsetti, Prato, 1967; Studi vianeschi, atti del I Convegno, Viareggio, 31 maggio-1 giugno 1980, a cura di Marcello Ciccuto, Fondazione Lorenzo Viani, Viareggio 1981; entrambi i contributi consultati in Luzi critico d’arte, cit., pp. 64-67. 12 Vedi l’intervento luziano in Mostra permanente dell’opera di Pietro Parigi xilografo, catalogo, Edizioni Rivista Città di Vita, Firenze, 1980; cons. in Luzi critico d’arte, cit., p.62.


Ottone Rosai, Panorama a Firenze (Porta Romana), 1935, matita e carbone su carta spolvero riportata su tavola, cm 245 x 450 (Galleria Pananti, Firenze).

Altre suggestioni sono regalate dalla pittura del grande Giorgio Morandi, di cui Luzi ammira i toni contemplativi e le atmosfere rarefatte; così come dalla pittura di Carlo Carrà, amato per «solidità, casta aderenza all’oggetto, casta natura, innocenza e candore figurale, solitudine, possibilità costruttive, religione dello sguardo, sacralità degli oggetti, presenza delle cose nello spazio e nel tempo». I paesaggi di Carrà, in particolare, quel mare, tradotto come «massa d’acqua compatta» e quei monti visti come «coni puliti e massicci», gli suggeriscono lo stesso lunare effetto, la stessa «raccolta vertigine» che da ragazzo ricorda di aver provato dinanzi alla «misteriosa deserta cavalcata di Guidoriccio da Fogliano»: «quella landa era allora la campagna circostante e quella favola tutta la vita, la sua essenza, la sua febbre.»13 Fin qui i nomi dei pittori che il poeta accosta sin dagli anni Trenta, e che a quel tempo condividono già la fama di maestri. Si arriva poi alla generazione degli artisti coetanei a Luzi, primo fra gli altri Mario Marcucci, giovane pittore viareggino che l’amico poeta Alessandro Parronchi gli presenta nell’estate del 1939: «Conobbi Marcucci e subito volli far conoscere a Luzi quest’altro Mario. Andammo insieme a trovarlo. Ci estasiammo davanti ai suoi acquerelli, e lui non ci mandò via senza donarcene qualcuno. Luzi condivise con me il grande apprezzamento che avevo concepito per la pittura di Marcucci. Nel gennaio del ’43 su quel giornaletto che ingenuamente aveva il

13

Relativamente agli affreschi di Simone Martini, vedi M. Luzi, Ritorno a Siena, in Trame, Rizzoli, Milano, 1982, p. 104; intorno a Carrà vedi M. Luzi, L’anima romanica di Carrà, Falsetti, Prato, 1971; cons. in Luzi critico d’arte, cit., pp.46-49.

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Nino Tirinnanzi, Paesaggio greviggiano, 1987, olio su tela, cm 70 x 100 (Galleria Pananti, Firenze).

nome di ‘Rivoluzione’ apparve una sua colonna su Mario Marcucci.»14 Segue la citazione che Parronchi puntualmente riporta, tratta da quel breve saggio: «Poche volte è accaduto che si potesse intendere con tanta improvvisa lucidità che cosa era la pittura, non solo, ma anche la poesia e la musica, come davanti a questo esempio di naturalezza perenne che è propria degli esseri veramente spirituali». Malgrado due soli siano i contributi luziani sulla pittura di Marcucci, nel ’43 e nel ’68, sempre gli rimane impresso il valore di quella «pittura fluida, cangiante come la natura stessa, libera e potente, nella sua incessante metamorfosi».15 Poco più anziano del poeta è Ugo Capocchini, conosciuto egli pure al tempo del «Frontespizio» e al quale nei successivi decenni Luzi dedica vari contributi critici. Se nella prima maniera dell’artista e nei ritratti chiamati «pompeiani», Luzi apprezza «l’eleganza di quelle figure avvolte e isolate nel ritmo di una musica sognata», successivamente il suo interesse si accende per il nuovo «impeto» che l’artista sperimenta. Accade così che, in affinità al nuovo

14

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A. Parronchi, Mario Luzi critico d’arte, in Luzi critico d’arte, cit., p. 9. La citazione del saggio di Luzi è tratta da M. Luzi, Mario Marcucci, in «Rivoluzione», III, 5-6 gennaio 1943. 15 Vedi anche il contributo luziano in 100 opere di Mario Marcucci, Edizioni Galleria Falsetti, Prato, 1968; cons. in Luzi critico d’arte, cit., pp. 74-75.


Mario Marcucci, Paesaggio, 1961, olio su faesite, cm 40 x 49.5 (Galleria Pananti, Firenze).

registro poetico luziano, più mosso e inquieto, corrosivo talvolta nei paesaggi aspri e tetri, affannato davanti alla pensosa insensatezza del vivere, si accendono i quadri di Capocchini. Di quelle visioni, dei temi religiosi, Luzi ora sottolinea gli effetti drammatici, «la pulsazione di una dissonanza», «il linguaggio duttile», «il bruciante lirismo», e registra gli effetti: «agili inseguimenti, veloci catture, più raramente prese sottili e prolungate del ritmo o del suo scheggiarsi nell’urto».16 Accade che anche la scultura di Quinto Martini e Oscar Gallo, debuttanti nel «Frontespizio» come giovani allievi di Soffici, si manifesti affine alla maniera ermetica, tanto che Nino Bertocchi, egli pure frontespiziaio, nel 1934, vi riconosce la facoltà di «trovar le parole che commuovono chi ha l’animo sensibile alla voce dei poeti».17 Passano davanti agli occhi il busto de La parente

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Vedi il contributo luziano in Ugo Capocchini: opere 1927-1977, catalogo della mostra, Palazzo Strozzi, Firenze, 1978; cons. in Luzi critico d’arte, cit., pp. 69-71. Si segnalano inoltre i contributi precedenti: Capocchini, catalogo della personale, Galleria L’Indiano, 1963; Capocchini, catalogo della personale, Galleria Michaud, 1969; Capocchini, in «Antologia del Vieusseux», gennaio-giugno 1974; Capocchini. L’immagine sconvolta, catalogo della personale, Galleria Pananti, Firenze, 1976. 17 La lettura che Nino Bertocchi propone dell’opera del giovane Quinto Martini, messa in relazione al contemporaneo Luzi de La barca, risale a M. Pratesi, Genesi e sviluppo della linea artistica del Frontespizio, cit., p. 34.

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Oscar Gallo, Hainzara, 1933-34, gesso, altezza cm 58.

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di Quinto Martini, in terra refrattaria, silente e assorta in una fissità dolce, come etrusca, i suoi nudini, le figure di ragazze del paese, abbandonate nel sonno; e similmente il ritratto della bella e dolce Hainzara, di Gallo, capace di evocare «le immagini addormentate/di voi, dei vostri occhi assenti/senza forma, senza calore passan sul cuore degli adolescenti», che appaiono fra le quartine del Canto notturno per le ragazze fiorentine, dalla contemporanea raccolta luziana de La barca. Passano gli anni, si aggiornano le ricerche, e tornando a ragionare dell’amico Quinto, negli anni Settanta, Luzi è ora pronto a riconoscere nelle sculture dedicate al tema della pioggia altre metafore e altre cadenze linguistiche a lui affini: «necessità esistenziale, castigo e felicità, freschezza, uggia, malinconia, segnale cosmico nel circuito di morte e vita, volti dilavati, cancellati». Storie non lontane quelle dei due allievi di Rosai più devoti, Dino Caponi e Nino Tirinnanzi, cresciuti sotto l’ala del maestro e dei poeti del «Frontespizio», del «Bargello», di «Campo di Marte». Fra strade bianche e prode erbose, si accompagnavano, ragazzi ancora, al maestro taciturno e ombroso, ai tempi di via di Villamagna, raccontati con fragranza da Romano Bilenchi, poi di via San Leonardo. Dino impara a disegnare su grandi fogli di carta


gialla o su vecchi registri dell’Anconella, dove affida alla matita nera, all’inchiostro, al carbone su carta, le osservazioni del vero, di un gesto quotidiano, la potenza di un volto rugoso, i ritrattini dei compagni, alcuni pubblicati sul «Bargello». Di Caponi, Luzi avrebbe successivamente ricordato le composizioni della prima maturità, quando il pittore arriva a tradurre la cifra rosaiana in atmosfere plumbee, bloccando le emozioni, e insieme tirando fuori l’espressività e il rovello.18 Di Tirinnanzi, avrebbe seguito invece il linguaggio «idillico», a suo modo «affabile e sensuale» e la declinazione più naïf, espressa in tagli, in silenzi e in vedute di retaggio rosaiano.19 Tra i giovani di quella generazione, conosciuti alla sequela di Rosai e fatti amici, certo il più congeniale alla sensibilità di Mario Luzi, per antonomasia «fondamentale», è «Venturino Venturi», «quel grande artista e con quel nome».20 È all’amico scultore che Luzi rivolge nel corso del tempo la domanda cruciale – «L’esserci, il primo/e il più nudo dei misteri gli chiedo/delirando il come/gli chiedo il perché» –.21 «Isolato e rapito nella sua passione plastica, Venturino rimugina». Al centro dei suoi pensieri è «l’origine del mondo: maternità, embrione, cellula vivente, radiazione di energia»; e ancora: «La maternità può essere un semplice blocco ovoidale, un sasso levigato dal fiume (…); esso appartiene alla vita del cosmo. La notte e la solarità radiosa, l’amore e la bieca violenza, la fertilità e la potenza distruttrice, il maschile e il femminile: la stessa dialettica originaria e perenne che presiede al dramma dell’universo». Nei numerosi contributi critici che Luzi dedica all’amico, nel corso dei decenni, ricorrono gli stessi pensieri: in quelle opere, elementari, assolute, il poeta coglie «l’assillo» cruciale e «l’ansia di spiritualità», tradotti nel «maestoso candore dei volumi, nella concentrazione greve e pura della forma». «Formare ed esprimere contemporaneamente; in forme non frammentarie, non episodiche, ma fondamentali»; giungere al «linguaggio totale», per eccellenza antico, anzi «archetipico», proprio della grande arte romanica, della sua «fede umile e trionfale» e insieme della «cifra toscana», per sua natura espressione dell’«equilibrio tra idea formale e concretezza, persino realistica». Alla ricerca di questa primaria purezza, Luzi intuisce come non ci possa essere alcuna differenza di «gravità» tra la fabula di Pinocchio e Dante, tra la storia di Geppetto e della Fatina e quella di Giuseppe e Maria. Una stessa divina sacralità egli intuisce in quelle forme assolute, che consentono

18 Dino

Caponi, catalogo della mostra personale, con introduzione di Mario Luzi, Galleria Michelucci, Firenze, 1971. 19 Nino Tirinnanzi, presentazione al catalogo della personale, Galleria Arco d’Albert, Roma, 1955; M. LUZI, Nino Tirinnanzi: dipinti 1936-1991, Edizioni Pananti, Firenze, Roma, 1955. 20 La citazione è tratta da una nota a margine della poesia Atelier di Venturino, pubblicata in M. Luzi, Venturino Venturi. Moti e ricerche verso l’infinito, Edizioni Galleria Pananti, Firenze, 1991; cons. in Luzi critico d’arte, cit., p. 133. 21 M. Luzi, Venturino Venturi, cit.

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Dino Caponi, Case di periferia, 1955, olio su tela, cm 95 x 70.


Venturino Venturi, Bambino benedicente, 1967, cemento, altezza cm 53.

a Venturino di entrare e uscire liberamente dalla Commedia a Pinocchio, come dal grande «libro dell’umanità».22 Continuano negli anni le frequentazioni assidue del poeta con artisti compagni di strada, e anche la conoscenza di Enzo Faraoni risale ai tempi dell’anteguerra: Luzi se lo ricorda appena uscito dalla scuola di Porta Romana, fresco degli insegnamenti di Pietro Parigi; era stato il maestro, nel 1938, a presentarlo a Rosai, insieme al compagno Renato Alessandrini. Ne era nato un rapporto forte e duraturo, fatto di dedizione, affetti, scoperta ammirazione. Di Rosai, Faraoni sarebbe stato l’assistente all’Accademia, appena prima della guerra e di quel tempo avrebbe serbato alcuni dei ricordi suoi più fragranti. Ma rispetto all’arcaismo rosaiano, Luzi osserva nell’amico l’autonomia

22

Le citazioni sono liberamente tratte dalla ricca antologia luziana dedicata all’amico scultore. Vedi: M. Luzi, Venturino Venturi: un creatore di forme vive, in «Quadrante», Firenze, maggio 1963; M. Luzi, Venturino Venturi degli anni ’60, in «Critica d’arte, 96, 1968; M. Luzi, L’arte e la vita. Venturino. In «Critica d’arte», LIV, 20, 1989; M. Luzi, Venturino Venturi. Moti e ricerche verso l’infinito, edizioni Galleria Pananti, Firenze, 1991; Con gli uomini e con gli angeli: Venturino Venturi sulle tracce di Dante, testi di Mario Luzi, Edizioni Pananti, Firenze, 1984.

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Enzo Faraoni, Natura morta, 2000, olio su tela, cm 79 x 100.

dei percorsi, laddove Faraoni intensifica modernamente i valori espressivi, accentrando l’emozione su tratti «piuttosto densi e bruschi», drammatici talvolta, in una pittura di cui il poeta si sofferma a ricordare il «vigore agro dei verdi», «la sostanza asprigna» della tavolozza, la pasta cromatica che si rapprende e rabbuia, i colpi di biacca che, con segni convulsi, attraversano la superficie pittorica con nuova inquieta scioltezza.23 Si innestano a questo punto le nuove amicizie di Luzi con gli artisti che debuttano nel dopoguerra, le cui storie si intrecciano a quella del poeta, fino alle vicende più recenti. È la stagione dell’informale, che coinvolge l’intera scena artistica europea e che anche a Firenze trova una propria originale declinazione. Alla ricerca della libertà del gesto pittorico e nella conferma dell’autonomia della forma, ci si avventura a trascrivere sulla tela il gorgo delle emozioni, laceranti spesso, affidando l’espressione ai colori, stesi a paste dense, grevi, che irrompono sulla tela nella loro tormentata oggettualità. Avviene dietro queste sollecitazioni il contatto di Luzi con la pittura informale di Sergio Scatizzi, arrivato dalla Valdinievole a Roma, poi a Firenze, e subito accolto tra artisti e poeti che gravitano intorno alla Galleria L’Indiano,

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M. Luzi, Faraoni, Galleria Pananti, Firenze, 1969.


allora diretta da Piero Santi, appena inaugurata nel 1955 con l’antologica dell’amato Rosai. «Scatizzi è amico di poeti e letterati; da sempre. Forse è un modo di essere – avrebbe appuntato Raffaele Monti – Piace ai poeti, forse perché totalmente pittore».24 Ed è parimenti il caso dell’amicizia grande con Carlo Mattioli, che da Parma viene a studiare all’Accademia di Belle Arti di Firenze; un’amicizia che si riaccende nei primi anni di docenza di Luzi e Mattioli a Parma, e che accompagna la maturità di entrambi, in percorsi che tornano a intrecciarsi, come nell’occasione della cartella petrarchesca di Mattioli, ispirata al Canzoniere ; o come nella cartella di acquarelli La pioggia nel pineto, di cui Luzi avrebbe scritto, coinvolto da quella «sinfonia silvestre di luci, sentori, sonorità cangianti».25 Ma è Nel mare del non dormito sonno, il componimento poetico dedicato a Mattioli nel 1987, il segno più evidente di consonanza, laddove si manifestano la corrosione del verso, gli effetti di sospensione ritmica, e tutti gli espedienti attraverso i quali il poeta disgrega e decostruisce, quasi a mettere in discussione lo statuto della poesia, potenziando l’emozione e insieme rimanendo fedele all'unico, ossessivo leitmotiv della sua maturità, ossia il tema del tempo e della primordiale dialettica dell’uomo con l’eterno. Nell’incalzare delle poetiche e delle stagioni dell’arte, si affacciano frattanto le richieste di una nuova, smagliante oggettività e l’aspirazione ai modi moderni del racconto, della veduta e del paesaggio. Avviene sotto questa spinta l’incontro di Luzi con Ernesto Piccolo, uscito dall’Istituto d’Arte, poi dall’Accademia, ceramista e pittore, che nel cromatismo vivace, nelle leggerezze delle forme, nel gusto per il frammento narrativo trova consonanza con la contemporanea poesia luziana. Ed è il caso di Silvio Loffredo che, arrivato da Parigi, si ritrova fra i discepoli di Rosai, ma già con un proprio bagaglio di esperienze, nel verso di un realismo svagato, ironico talvolta, o visionario, debitore, come osserva Luzi, dei suoi «maestri elettivi, che erano per lo più certi graveurs fantasisti, di linea espressionista». Freschezza e vigore sono le qualità che Luzi apprezza nell’amico, ma anche le sue più pungenti hantises, che lasciano intravedere l’aspetto monstre della sua psiche, in un condiviso «incremento rimbaudiano».26 È emersa frattanto anche in Toscana la valenza narrativa, sottilmente lirica di una pop nostrana, capace di inventarsi un nuovo epos, che rappresenti nei modi della rivelazione i miti di una generazione cresciuta nella provincia, ma 24

R. Monti, Ipotesi veneziane, cat. della mostra, Galleria Michaud, Firenze, 1979; in Scatizzi. L’ipotesi della pittura, catalogo della mostra, a cura di Giovanna Uzzani, Lucca, Fondazione Ragghianti, giugno-novembre 2012, pp. 15-29. 25 Carlo Mattioli. La pioggia nel pineto, 25 acquarelli, con presentazione di Mario Luzi, Il Bulino Edizioni d’arte, Modena, 1984. Vedi inoltre M. Luzi, Mattioli e il Canzoniere del Petrarca, catalogo della mostra, Galleria Aldina, Roma, 1969. 26 Loffredo: immagini e immaginazioni, nota di M. Luzi al catalogo della personale, Galleria Punto Arte, Modena s.d.; cons. in Luzi critico d’arte, cit., p. 124.

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sognando Parigi o cullando un sogno americano, cieli aperti, una Gilera sul prato, un tuffo nel blu di una piscina, vento che scompiglia le pieghe di una tenda dai colori accesi. Non sono incontri che a quel tempo Luzi ricorda di avere avuto, a Firenze, alle gallerie Flori o all’Indiano; ma che rimpiange, quando a distanza di molti anni fa la conoscenza di Umberto Buscioni, come scrittore, prima ancora che come pittore: il pretesto è la presentazione a Glossario, «diario leggero» – lo definisce lo stesso autore – ed anche «gioco della memoria», e «diario senza folgorazioni, atto a raccogliere qualche umore leggero». «Sia dato spazio alla fortuna», esordisce Luzi, benedicendo l’occasione fortuita dell’incontro, che gli dà modo di ritrovare e ritrovarsi nella declinazione di questa pop, uscita dalla cosiddetta Scuola di Pistoia: «C’è aria, movimento, letizia, festa cromatica in queste tele»; eppure «manca l’uomo: ci sono i suoi indumenti, i suoi ornamenti» […], camicie, scarpe, cravatte disposte nei luoghi più ariosi del mondo; persiane che si oppongono all’immensità del cielo e fronteggiano l’universo».27 Molti altri sono stati i contributi che Luzi ha scritto sull’ arte contemporanea; ma a differenza di Alessandro Parronchi, che durante la sua vita è rimasto tendenzialmente fedele a pochi rapporti esclusivi, Luzi non si è mai legato a un numero ristretto di nomi, preferendo uno sguardo antologico e svagato sul panorama dell’arte contemporanea. Il percorso di questo saggio e della mostra che a Mendrisio trova sede, nelle circostanze delle celebrazioni per il centenario della nascita del poeta, si conclude con due fra le più recenti sue liaisons con il mondo artistico. Nel corso degli anni Settanta, Luzi incontra infatti la pittura di Piero Vignozzi e di Rodolfo Ceccotti, entro una linea che si pone con fiera alternativa alla sperimentazione concettuale, a vantaggio di una più umanistica ricerca figurativa. Il primo si affaccia inizialmente alla critica d’arte nella terza pagina del «Nuovo Corriere», al seguito di Romano Bilenchi, e al fianco di Luzi, Pratolini, Gatto in particolare, che diviene suo principale punto di riferimento. Poi, dal ’57, inizia l’avventura della pittura, ed è pittura di memoria, sottoposta ai tempi lenti della contemplazione e della decantazione: galleggiano nell’indistinto della dimensione memoriale pochi dettagli del cortile, del giardino di casa, della cucina, giganteschi nella messa a fuoco selettiva; ed in questa visione ravvicinata, quei frammenti, intrisi in una luce diafana, per via di levare assumono un inaspettato valore evocativo. Ceccotti, più giovane di vari anni e anch’egli vicino a Gatto, a Luzi, a Luigi Baldacci, si esprime invece in orizzonti sconfinati, in cieli grandiosi e turbolenti, in vallate deserte e pinete e casolari di Maremma, senza figure, come disabitati da tempo immemore. Ciò che intride ogni paesaggio è la luce, chiamata a interpretare lo stato d’animo del pittore, in attimi di solitudine e sommo silenzio. 62

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M. Luzi, Prefazione a U. Buscioni, Glossario, Passigli editore, Firenze, 1992.


Rodolfo Ceccotti, L’attesa, 2011, olio su tela, cm 96 x 145.

È con una delle ultime divagazioni di Luzi nel mondo della pittura che vorremmo concludere, ricordando il poema Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, del 1994: qui il poeta immagina il grande pittore Simone Martini nell’estremo suo ritorno verso la terra natale. Non più di critica d’arte si parla in questo testo, né di esegesi; non soccorre la visione dell’opera o la sua descrizione, né l’analisi o tantomeno la libera evocazione di sensazioni dettate dalla pittura. È in scena l’estremo viaggio verso Siena, in attesa della morte, quasi un traguardo nell’atto di risalire all’ origine di sé e della propria arte. Identificandosi con l’amato pittore gotico, Luzi riesce a pronunciare le domande fondamentali della sua vita di uomo e di artista: fatalmente arrivato alla consapevolezza dei propri umani limiti, accetta infine come necessari il rimpianto e il rimorso. E risplende la difficoltà e la meraviglia dell’arte, lungo il percorso della conoscenza.

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Tre scritti toscani

Si presentano tre scritti di argomento paesaggistico toscano; due editi sul «Corriere» sono qui riprodotti sulla base di alcune correzioni autografe portate dall’autore sulla pagina a stampa. Il terzo pezzo è stato recuperato da un file, dall’archivio informatico ‘Babbo’ di Gianni Luzi.

Dalle ville ai casolari s’innalza una struggente melodia Non c'è niente che mi rimandi alla Toscana – dove del resto vivo – come la gloria contrastata di Puccini. È una Toscana questa che s'enuncia non come idea dichiarata e implicita, ma come vero «terroir». Là si dibatte e cresce quella giovane gloria negli anni prima del '30 mentre le trombe a tulipano dei grammofoni liberty diffondono a tutto volume la «Tosca» e la «Bohème» o la «Butterfly» nelle sere di prima estate quando le finestre rimangono aperte e poi a luglio o ad agosto giorno e notte, fuori e dentro, nei luoghi di vacanza. Al pathos di quella struggente vocalità fa accanito riscontro da altre trombe la diffusiva emotività degli archi, ora dilagante, ora a tuffi, a impennate dell'altro maestro in auge che, dopo essersene servito, D'Annunzio si decise a definire – con quanta equità non importa – un capobanda. Ma allora i fans, livornesi e non, di Mascagni tenevano saldamente la piazza e non avevano indulgenza né tolleranza per altre muse. Né i «passionisti» del coro a bocca chiusa erano da meno nella denegazione dell'«Amico Fritz» e perfino della «Cavalleria». Legata a questa zuffa paesana della Toscana tutta, incluse le sue sublimi città, la musica di Puccini stentava nella mia considerazione a prendere alta quota; teneva bene l'altezza, sì, ma quella media. Lo faceva con movimenti infallibili, senza sforzi, con esuberanza ed eccesso, perfino, di facoltà, come succede, che so, a Gozzano o a Maupassant. Ecco, ora forza il suo limite, infrange la sua barriera, tocca le guglie della tragedia, dicevo mentre seguivo la nota più acuta erompente che pareva volesse svettare con il suo timbro ghiaccio in certi passaggi di «Tosca» e di «Manon». Ma no, essa slitta lungo la sua voluta, si sposta e raggiunta dalle altre va a collocarsi dalla parte del commento, affonda nella commozione del coro, chiudendo la propria ventura e torna a carezzare proprio il punto dove aveva aperto la ferita.

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Era proprio questo che prendeva alle viscere i buoni e faziosi miei compaesani: quel perfetto equilibrio elegiaco che trafigge e medica la sensibilità. Ho dovuto lasciar passare molto tempo perché quella associazione, che mi pareva così irritante a vederla da vicino, dell'uzzolo musicale e sentimentale degli agiati commercianti in villa con la straziante melodia pucciniana si ricomponesse in una idea di popolarità più fondamentale. E questa illumina nella musica di Puccini una sostanza assai profonda, rivela una latente potenzialità endemica che la consacra e certo non la diminuisce. Nasce da una sfera di emotività diffusamente condivisa e celebra e trasforma quelle emozioni in armonie e invenzioni ritmiche destinate a essere immancabilmente condivise. Ciò che mi pareva una mediocre complicità mi si è trasformato in un abbastanza elementare e tanto più misterioso potere. Ebbi poi per amici musicisti intelligenti che non avevano pietà di quanto fosse inerte ed elocutorio nella creazione musicale – Dallapiccola per ricordare il più illustre – e questi cominciarono a un certo punto a glorificare Puccini. Il sospetto di snobismo inverso cadde subito quando emerse la loro attenzione ammirativa alla partitura e alla tecnica pucciniane. Oggi non solo la pronta ricettività nei riguardi delle innovazioni e rivoluzioni dell'epoca ma anche la viva musicalità di quegli abili innesti e di quelle fortunate assimilazioni sono, credo, indiscusse. Ma ce n'è voluto del tempo perché l'intellighentia lo prendesse sul serio: il divorzio tra la nuova musica (e le nuove arti); e la facile e felice teatralità di Puccini sembrava irreversibile. Non sono proprio un cultore dell'opera ottocentesca, eccettuato Bellini. Puccini è ottocentesco? Tra le opere che ascolto volentieri ce ne sono due o tre delle sue, e le ho nominate. Le trovo irrefutabili, sono perfettamente quello che sono. Il confine tra piccolo genio e genio assoluto nel caso di Puccini svaria continuamente. In «Corriere della Sera», 8 dicembre 1983, p. 16 (Corriere degli spettacoli) in una pagina dedicata a Puccini e sovra titolata «Uno scrittore e un poeta rivisitano il mondo toscano e interpretano umori e debolezze del compositore»; la pagina infatti comprende anche un lungo elzeviro di Mario Tobino, Quel ‘campagnolo spudorato’ di Torre del Lago. Il pezzo di Luzi uscì con molti refusi, che lui corresse in una copia (che mi donò). Qui si pubblica la versione emendata. Questi i refusi a stampa: «ne rimandi» (per «mi rimandi»), «dea» (per «idea»), «dubbi» (per «tuffi»), «degenerazione» (per «denegazione»), «confederazione» (per «considerazione»), «corrompente» (per «erompente»), «ne pareva» (per «mi pareva»), «riprendesse» (per «lo prendesse»).

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Camera con vista sulla storia – Pellegrinaggio di qua e di là dall’Arno

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Dovessi, come immagina la redazione del Corriere, introdurre in Firenze un visitatore che vuol vedere e sapere, sì, ma alla svelta, sintetizzando al massimo e al meglio la corvée ovvero la necessaria scarpinata, beh, prima di tutto ne sarei abbastanza irritato, sia per colpa della sua pretesa sia a causa della mia insofferenza pedagogica. L'ho fatto, credo, qualche volta, lasciando tuttavia che il casuale l'avesse vinta sul programmato e venendo, così, a capo dell'incauto impegno preso o subito senza troppo furiosamente pentirmi. In ogni caso, sicuro di non correre il pericolo di doverlo davvero mettere in pratica, mi posso figurare un percorso efficace ma non tanto ovvio e risaputo da riuscire frustrante, su cui avviare il mio ospite, anzi accompagnarmi a lui con piacere e un po' di sorpresa anche da parte mia — che è il minimo per tollerare l'incombenza e non scadere all'avvilente ruolo di somministratore di notizie e informazioni mandate a memoria, per lo più imperfette, come erano del resto i benemeriti ciceroni prima che la didascalia a gettoni li sostituisse. Ecco dunque: provvederei a compiere un giro preliminare di accerchiamento della cittadella cioè del tuorlo dell'uovo della polis fiorentina. Questo giro anche se bellissimamente tortuoso e fronzuto — tale è il serpente del Viale dei Colli —, non ci porterebbe mai troppo lontano dall'obbiettivo, tanto più che aperture, occhi di luce nel verde, lo centrano laggiù nel mezzo della conca, lucentissimo ed in piena evidenza con le sue torri e le sue cupole: finché scorciandosi bruscamente per via San Leonardo, petrosa, muratissima e celeste straducola nella quale ebbe casa e atelier Ottone Rosai, arriviamo al Forte di Belvedere, e cioè a picco sopra il cuore e insieme all'immediato cospetto della «gran villa». Dal grande monumento dell'arte delle fortificazioni eretto da Michelangelo nella stretta delle circostanze, quando ormai gli imperiali stringevano da presso la Repubblica, la città quasi per effetto di cannocchiale rovesciato appare in una sintesi simile a quelle splendide che danno di questa e di altre città i pittori gotici, da Simone Martini all'Angelico: ed appare ravvicinata e nello stesso tempo astrale e distante. Sembra la si possa toccare, lì sotto, con mano e allo stesso tempo che quella vicinanza sia un inganno e una magia. «Vedi un po' — direi al pellegrino — in che minimo spazio di qua e di là dal fiume e dei suoi ponti, in che celestiale e infernale francobollo si riassume tutto ciò che nella storia minuscola e municipale e nella storia universale dell'avventura umana significa concretamente e miticamente Firenze». La sovrapposizione del corpo oggettivo e del paradigma, fissando un attimo la visuale, si attenua e infine si cancella. Ma è già tempo di calarci per la Costa San Giorgio e la Costa dei Magnoli giù


Sull’Arno a Bellariva (Firenze).

a precipizio fino a Santa Felicita e al Ponte Vecchio: passato il quale divertirei con il mio compagno risalendo l'Arno fino alla Piazza dei Giudici e al Museo della Scienza, per poi penetrare all'interno lungo la via dei Castellani e prendere così alle spalle l'acropoli e il santuario fiorentini: è infatti da dietro, dalla relativa bassura in fondo a via della Ninna che quella indivisibile concrezione di tempi, di poteri, di stili cresciuta da San Pietro Scheraggio in Palazzo Vecchio eppoi nelle trasformazioni medicee di quella gloriosa e facinorosa sede civica eppoi negli ancora più medicei Uffizi si erge come un blocco montuoso che abbia scalato se stesso, come un'arce di pietra ferma e accidentata non prigioniera della sua forma ma aperta alla fantasia degli eventi... Ma prima di espugnarla facciamo ancora pochi passi lungo la stessa via dal nome però mutato in via dei Leoni e fermiamoci a San Firenze tra il barocco dei Filippini e la fronte dei Gondi a guardare da quello slargo, ancora dal basso, da sotto in su come si guardano i picchi, la levità e la severità del

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complesso di Badia contrastare la cupa mole del Bargello che scoscende di fronte a lei. Un albero, altissimo, che è andato a cercare aria e luce al di sopra dei tetti, svetta e forma con la torre «donde Firenze toglie terza e nona» e altri eccelsi edifici uno strano cespo teso in alto, rigido e fremente. Entriamo nel chiostro degli aranci e nella chiesa di Santo Stefano. Se è lunedì pomeriggio (e sarebbe una fortunata circostanza) sentiremo Orazio Costa e quelli della sua scuola leggere Dante nel luogo dove aveva cominciato a farlo Boccaccio. Dopo questa manovra di aggiramento e questa fondamentale iniziazione lascerei l'ospite al suo capriccio e, se proprio lo vuole, alla routine dei turisti.

«Corriere della Sera», 5 luglio 1989, inserto ‘zaino’, p. 3, secondo la copia con correzioni autografe dei refusi a stampa («appresso» = «da presso»; «sontuoso» = «montuoso»; «cesto» = «cespo»; «clemente» = «fremente»).

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Levante fiorentino Dalla mia terrazza che ha una veduta periscopica quasi completa sui tetti di Firenze e sui dintorni orientali lo sguardo corre ogni mattina verso il monte dell’Incontro. È in lontananza una massa compatta eppure trascolorante e lieve. Da quella parte viene il giorno e discende l’Arno. Ma dietro si estende una regione fervida e invitante. Quello che i miei amici georgofili o chi per loro chiamano «il levante fiorentino», è là. Si tratta di un paese sobrio e domestico. Essi regalano quel nome splendido e immaginoso a una terra a cui il lavoro oculato, la sapienza agricola e la saggezza amministrativa dei proprietari e dei contadini ha conferito un aspetto di fondamentale equilibrio e di parsimoniosa bellezza rustica. Conoscevo più che altro di passaggio questo territorio, lo attraversavo o lo rasentavo andando verso Ronta, Dicomano, la parte orientale del Mugello oppure verso Poppi e il Casentino o anche entrando nel Valdarno per la vecchia via aretina... Solo in anni recenti l’ospitalità che trovo in una bella casa sulle alture di Rosano mi ha aperto una conoscenza più vasta di quella parte. La veduta che si stringe sul poggio dov’è edificata si apre azzurra e solare oppure celeste e innevata in lontananza sul Pratomagno o segue la linea di fuga risalendo la valle superiore dell’Arno. Beh, non mi ero mai fermato a lungo in quei borghi e in quelle campagne per cui ero passato tante volte e che ora vedevo dall’alto coordinati gli uni con gli altri, ben situati nella armonia di poggiate e di fondovalli. Li avevo poco frequentati Rignano, Reggello, la Rufina. Ma ero vissuto ugualmente nella rassicurante certezza che essi ci fossero e che fossero parte della terra fiorentina. Del resto mi accadeva talvolta di fermarmi a goderne la vista dalla curva elevata di qualche strada o dal treno che l’attraversava sul vecchio e sul nuovo tracciato della linea. Variava secondo l’occasione ma era sempre un’immagine luminosa che riassumeva tanta realtà viva, fattiva. A Pontassieve, per esempio, ero stato la prima volta con Leone Traverso, accompagnavamo in macchina – era, mi sembra, il 1936 – un nostro amico avvocato di quelli che secondo la giuliva ironia di Traverso staccava i pendagli dalla forca, a perorare in pretura. Ma ci sono tornato in circostanze più goderecce con Enrico Vallecchi e la sua brigata a qualcuna delle rinomate trattorie; ci sono passato per la Consuma, per Vallombrosa: e poi per visitare in ospedale mia moglie, vittima di un leggero incidente. Tante sono state le occasioni di costeggiare l’Arno e la Sieve specialmente dove confluiscono. È davvero un ganglio del corpo fiorentino dove pare metta le ali. 71


Il «levante fiorentino» è davvero un’espressione felice e che si presta a coprire i principali significati della vitalità: l’economia del Valdarno, la viticoltura di Pomino, le fornaci, le carpenterie, l’artigianato vario, le industrie leggere, ma anche le origini di Masaccio, di Piero e, perché no, del Sor Ardengo (Soffici), di Venturino Venturi: e i monasteri famosi o oscuri, le dispute umanistiche, le assemblee di categorie, le assise e le cerimonie musicali di oggi. Di là dall’Incontro. Dentro o vicino il «levante fiorentino».

File Archivio Babbo datato 9-10-97.

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Disegno di Eugenio Montale, Mario Luzi che legge.

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Foglio autografo con correzioni e varianti a margine sinistro (v. 10) e destro (v. 12) su foglio protocollo a c. 2v, con abbozzo a c2r.


Due traduzioni inedite

Le due versioni sono databili agli anni del dopoguerra (1945-50), per via delle modalità della scrittura (minuta) e del supporto cartaceo. L’esercizio catulliano è l’unico esempio noto fatto sui classici; la traduzione del Roman di Rimbaud (finora si conosceva solo quella di Tête de faune) ci consente di precisare meglio l’essenziale rapporto con il poeta francese.

Per varie genti e mari numerosi tratto qui a questo rito straziante sono giunto, fratello, a consolarti con l’estremo regalo della morte, a interrogare le tue mute ceneri, poiché fortuna te, incredibilmente te stesso m’ha strappato, mio infelice fratello, ah troppo ingiustamente toltomi! Queste funebri offerte intanto, a me secondo l’antico uso dei padri secondo l’uso antico dei nostri avi confidate per dono alle tue spoglie accoglile che stillano ampiamente fondono dirotto | copioso pianto fraterno, ed in perpetuo, addio.

Si riporta l’originale catulliano: Multas per gentes et multa per aequora vectus advenio has miseras, frater, ad inferias, ut te postremo donarem munere mortis et mutam nequiquam alloquerer cinerem. Quandoquidem fortuna mihi tete abstulit ipsum. Heu miser indigne frater adempte mihi, nunc tamen interea haec, prisco quae more parentum tradita sunt tristi munere ad inferias, accipe fraterno multum manantia fletu, atque in perpetuum, frater, ave atque vale. 75


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Foglio autografo, al recto, con correzioni e varianti al margine (destro, vv. 28, 33, 38, e sinistro, v.7) del verso o sottoscritto (al verso finale, v. 47). Le sottolineature sono dell’autore in riferimento alle varianti.


Roman di Rimbaud

I Oh non c’è serietà a diciassett’anni. Ed una bella sera, – al diavolo cervogia e limonata dei chiassosi caffè dai lumi scintillanti – si va fra i tigli verdi dei viali. Mandano un buon odore nella buona sera di giugno, l’aria è qualche volta sì dolce che si chiudono le palpebre. A tratti – non lontana la città – il vento carico di suoni ha profumi di vigna e profumi di birra.

I tigli han buono

10

II Ecco che appare un minuscolo brano d’azzurro cupo inserito fra i rami, punto da una maligna stella che fonde con dolcissimi fremiti, piccola e tutta bianca. Notte di giugno! Diciassette anni… Ci si lascia ubriacare. La linfa è uno champagne che v’inebria. Si trasogna, si sente sopra le labbra un bacio che vi palpita, là, come un insetto.

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III Il cuore s’avventura fra i romanzi, pazzo, inquieto allor quando nel pallido chiarore d’un riverbero passa una bimba di grazia incantevole | passa una ragazzina seducente all’ombra dell’atroce colletto di suo padre. 30 Poiché vi trova immensamente ingenuo, pur facendo trottare i piccoli stivali si volge vivacemente, ansiosa; allora sulle labbra vi muoiono le ariette.

graziosi

IV Siete ora innamorato ed in affitto fino al mese d’agosto! Innamorato: i vostri sonetti la fanno ridere, gli amici ad uno ad uno prendono il largo, siete poco fine. Poi, una sera, l’amata s’è degnata di scrivervi. E quella stessa sera voi rientrate nei caffè sfavillanti domandate cervogia e limonata… Oh non c’è serietà a diciassette anni quando si hanno dei tigli sui viali.

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suo: . . . . . fan ridere 40

se ci sono


Si riporta l’originale di Rimbaud: I On n'est pas sérieux, quand on a dix-sept ans. - Un beau soir, foin des bocks et de la limonade, Des cafés tapageurs aux lustres éclatants ! - On va sous les tilleuls verts de la promenade. Les tilleuls sentent bon dans les bons soirs de juin ! L'air est parfois si doux, qu'on ferme la paupière ; Le vent chargé de bruits – la ville n'est pas loin – A des parfums de vigne et des parfums de bière... II - Voilà qu'on aperçoit un tout petit chiffon D'azur sombre, encadré d'une petite branche, Piqué d'une mauvaise étoile, qui se fond Avec de doux frissons, petite et toute blanche... Nuit de juin ! Dix-sept ans ! – On se laisse griser. La sève est du champagne et vous monte à la tête... On divague ; on se sent aux lèvres un baiser Qui palpite là, comme une petite bête... III Le coeur fou robinsonne à travers les romans, - Lorsque, dans la clarté d'un pâle réverbère, Passe une demoiselle aux petits airs charmants, Sous l'ombre du faux col effrayant de son père... Et, comme elle vous trouve immensément naïf, Tout en faisant trotter ses petites bottines, Elle se tourne, alerte et d'un mouvement vif... - Sur vos lèvres alors meurent les cavatines... IV Vous êtes amoureux. Loué jusqu'au mois d'août. Vous êtes amoureux. – Vos sonnets La font rire. Tous vos amis s'en vont, vous êtes mauvais goût. - Puis l'adorée, un soir, a daigné vous écrire !... - Ce soir-là..., – vous rentrez aux cafés éclatants, Vous demandez des bocks ou de la limonade... - On n'est pas sérieux, quand on a dix-sept ans Et qu'on a des tilleuls verts sur la promenade.

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Pietro Paolo Tarasco, Mario Luzi e Pienza dalla finestra di via del Bacio, acquerello su carta, 2009, cm 45.7 x 30.7.


Mario Luzi: Cento anni Paolo A. Mettel

«Sì, l’immensità, la luce/ ma quiete vera ci sarebbe stata?/ Lì avrebbe la sua impresa/ avuto il luminoso assolvimento/ da se stessa nella trasparente spera/ o nasceva una nuova impossibile scalata …/ Questo temeva, questo desiderava.» Possiamo considerare queste le vere ultime parole del poeta che già intravede il termine della sua lunga e laboriosa giornata umana. In esse noi leggiamo trepidazione e dubbio, una essenziale sintesi dei desideri dell’umano, ma anche la traiettoria di una fede e di una affermazione delle ragioni dello spirito, che certo è stata una delle più luminose della nostra storia recente, tanto più luminosa – nell’aspirazione, nella tensione del linguaggio – quanto più opaco è stato il contesto sociale e civile in cui è venuta ad esprimersi. Parole come queste, di piena scommessa sulla forza della lingua poetica e sulla sua capacità di intendere l’«Altro», ci spingono a vivere con spirito dedicato vorrei dire quasi di servizio il Centenario della nascita di Mario Luzi, non dimenticando di usare la «parola» capace di volare «alta». Già ai suoi esordi giovanili Luzi invitava gli amici a salire sulla barca che aspetta al filo dell’orizzonte poiché con quella prospettiva «… dalla barca si vede il mondo / e in lui una verità che procede / intrepida, un sospiro profondo / dalle foci alle sorgenti…» Una visione da subito profetica e attuale che coinvolge «l’umana compagnia» – per usare una parola leopardiana – in un progetto di viaggio e di conoscenza per intendere la «verità» del «mondo», dentro una prospettiva profondamente creaturale e spirituale. E questa visione facciamo nostra con cuore ed entusiasmo nel lungo percorso degli eventi che onoreranno Mario Luzi durante tutto il Centenario.

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Indice

Sotto specie umana

Carlo Ossola

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Stazioni di Mario Luzi

Stefano Verdino

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L’officina di Mario Luzi

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«Ferita nei suoi gangli / la bellezza del pianeta»: poesia e natura nell’ultimo Luzi

Giovanni Fontana

35

«Moti e ricerche verso l’infinito» Mario Luzi e i suoi artisti

Giovanna Uzzani

47

Tre scritti toscani

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Due traduzioni inedite

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Mario Luzi: Cento anni

Paolo Mettel

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Casa Croci Mendrisio 29 maggio - 24 agosto 2014 Mario Luzi Le campagne, le parole, la luce Museo d’arte Mendrisio 17 luglio - 24 agosto 2014 Mario Luzi Memorie di terrra toscana Museo della Città di Pienza 27 settembre - 2 novembre 2014 Santa Maria della Scala di Siena 15 novembre - 6 gennaio 2015

Mostre a cura di Stefano Verdino Giovanna Uzzani Simone Soldini Con il sostegno di Repubblica e stato del Canton Ticino Fondo Swisslos Redazione Gianna Macconi Segreteria Valérie Ferro-Sulmoni Realizzazione dell’allestimento Gian Pio Fontana Paolo Sulmoni Trasporti Rossi Art Brokers s.r.l. Assicurazione UNIQA Grafica e stampa Tipo Print di Roncoroni+Sulmoni SA, Mendrisio ©2014 Museo d’arte Mendrisio, CH 6850 Mendrisio – tiratura 800 copie ISBN 88-85186-53-X

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