TerrAmica Num. 13 - 2020

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Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in abbonamento postale - 70% FIRENZE ISSN 2421-2628 (cartaceo) - ISSN 2421-2717 (digitale)

ANNO VII

N° 13

FOCUS: LE AZALEE IN GIARDINO LEPRE E CONIGLIO: SIMILI MA DIVERSI NOVITA': IL MASTINO AFRICANO LE PIANTE VELENOSE PER IL CAVALLO

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EDITORIALE 4 5

Nel bene e nel male Uno sguardo al Comitato di Redazione

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Le Azalee Alla scoperta dell'Orto Botanico di Portici

di Luca Poli

COLTIVAZIONI di Alessandro Auzzi di Eugenio Cozzolino

ZOOTECNIA

sommario

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Focus: Le Azalee in giardino

Valdarnese, esperienze di giudizio Lepus europaeus vs Oryctolagus cuniculus

di Federico Vinattieri di Roberto Corridoni

ANIMALI DA COMPAGNIA 21

Quel mastino che vien dall'Africa...

di Federico Vinattieri

AGROALIMENTARE ITALIANO

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Le piante velenose per il cavallo

Quel mastino che vien dall'Africa...

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Foto copertina: Leonardo Graziani

ANNO VII - N° 13 - DICEMBRE 2020 DIRETTORE EDITORIALE: FLAVIO RABITTI

Impaginazione e grafica: Flavio Rabitti

Direttore responsabile: Marco Salvaterra

Reg. Tribunale di Firenze nr. 3876 del 01/07/2014

Periodicità: Semestrale

Stampa: Tipografia Baroni e Gori srl Via Fonda di Mezzana, 55/P 59100 - Prato

Sommario

L’instabilità proteica nei vini Le storie del cibo: Il cavolfiore • La ricetta: Cavolfiore al gratin

di Marco Sollazzo di Pasquale Pangione

AMBIENTE, FORESTE E NATURA

TerrAmica - Rivista Associazione di Agraria.org Sede legale: Via di Ripoli, 31 - 50126 - Firenze C.F. 94225810483 - associazione@agraria.org www.associazione.agraria.org

Redazione: Cristiano Papeschi (Responsabile scientifico Zootecnico), Eugenio Cozzolino (Responsabile scientifico Coltivazioni), Marco Salvaterra, Marco Giuseppi, Flavio Rabitti, Luca Poli, Lapo Nannucci

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Piante velenose per i cavalli: conoscerle per evitarle di Gemma Navarra, Erika Verdiani La valorizzazione dei castagneti di Marco Giuseppi da frutto di Mauro Bertuzzi La Filiera Corta: definizione e legislatura di Ivano Cimatti Progetti di aiuti europei oltre la pac SPECIALE ISTITUTI D'ITALIA

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Dall'Agrario di Firenze al di Marco Salvaterra, Maura Gori Sant'Anna di Pisa Studiare Agraria alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa ASSOCIAZIONE DI AGRARIA.ORG

Gli autori si assumono piena responsabilità delle informazioni contenute nei loro scritti. Le opinioni espresse dagli autori non impegnano la rivista e la sua direzione.

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Nel bene e nel male N

ci sono più, che ci portiamo tutti dentro. Purtroppo, le cose reali, come questa rivista, devono scontrarsi anche con gli aspetti economici, per i quali devo ammettere che TerrAmica non se la passa tanto bene: la mancanza di sufficienti sponsor e la scarsità di nuovi associati hanno messo in seria difficoltà l’Associazione nella stampa di questo numero. Speravamo infatti nei consueti rinnovi di primavera e nelle programmate attività sui territori, che sempre hanno supportato le casse dell’associazione per le spese di stampa ed invio

ne vanto!”, e ne andiamo ancora tutti fieri di vederlo sulle ormai rare magliette rimaste in circolazione. C. De André canta che “nel bene e nel male passerà (anche) questo tempo indeciso…”: un tempo che ci ha riempito tutti di incertezze e preoccupazioni per il futuro e, guardando alla nostra Associazione, ha lasciato un grande vuoto dentro. La chiusura, se pur per un periodo limitato, di tutte le attività sociali a causa delle restrizioni del Covid19 ha messo in ginocchio il terzo settore, non risparmiando nemmeno la nostra piccola realtà. Perché l’idea nata nel 2013 dal sottoscritto e da altri ragazzi (ancora oggi tutti collaboratori a vario titolo di Agraria. org), capitanati dal prof. Marco, era quella di proiettarsi a terra, nei campi, e dare vita a qualcosa di reale, concretizzando le tante amicizie, fin allora soltanto virtuali, del Forum e della Rivistadiagraria.org. L’obiettivo è stato pienamente raggiunto, e tanti sono i momenti indelebili e le persone straordinarie, comprese quelle che oggi non

della rivista. Purtroppo, mancando queste attività, sono di conseguenza venuti a mancare i fondi necessari per poter andare avanti con la pubblicazione. Il mio difficile compito, in questo momento, è infatti quello di informare gli associati e tutti i lettori di questa rivista che, armati di tenacia e passione come tutti i buoni contadini che si rispettano, cercheremo di fare tutti gli sforzi possibili per portare avanti il progetto TerrAmica, e non disperdere quindi i saperi, le esperienze e le persone messi insieme in questi 7 anni di lavoro. Un grande saluto a tutti ed un augurio di buona fortuna a tutta l’Associazione di Agraria.org!

Editoriale

el bene e nel male…siamo giunti a questa 13esima pubblicazione di TerrAmica, la rivista curata dai soci dell’Associazione di Agraria.org. “Dai soci per i soci”, con un taglio divulgativo e rivolto a tutti, per descrivere e raccontare esperienze pratiche o di vita di tante persone delle province italiane (ma non solo) accomunate dalla passione per l’agricoltura e tutto il suo “mondo”. E’ questo il succo di questa rivista, il cuore pulsante della nostra Associazione. Non a caso il nostro primo, anche unico, motto è “Io sono un contadino…e me

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Luca Poli Presidente Associazione di Agraria.org

Editoriale


Uno sguardo al Comitato di Redazione di TerrAmica Cristiano Papeschi (Responsabile Scientifico Settore Zootecnico): laureato in Medicina Veterinaria presso l’Università di Pisa, specializzato in Tecnologia e Patologia degli Avicoli, del Coniglio e della Selvaggina presso l’Università di Napoli, è attualmente in servizio presso l’Università degli Studi della Tuscia (Viterbo); già collaboratore di numerose riviste tecniche a carattere zootecnico e veterinario, membro di comitati scientifici e di redazione. Eugenio Cozzolino (Responsabile Scientifico Settore Coltivazioni): diplomato presso l’Istituto Tecnico Agrario Statale “De Cillis” e laureato in Scienze Agrarie presso la Facoltà di Agraria dell’Università di Napoli “Federico II, lavora presso il Consiglio per la Ricerca e la Sperimentazione in Agricoltura. Marco Giuseppi: diplomato all'Istituto Tecnico Agrario e laureato magistrale in Scienze e Tecnologie dei Sistemi Forestali all'Università degli Studi di Firenze. Segretario dell'Associazione di Agraria.org e responsabile progetti Erasmus+ (youth exchange e Servizio Volontario Europeo). Svolge la libera professione di Dott. Agr. e Forestale collaborando con diversi studi agronomici. Luca Poli: diplomato all’Istituto Tecnico Agrario e laureato magistrale in Scienze e Tecnologie dei Sistemi Forestali presso l’Università degli Studi di Firenze. Iscritto all'Ordine dei Dottori Agronomi e Forestali di Firenze. Riveste il ruolo di presidente dell'Associazione e svolge le mansioni di webmaster della Rivistadiagraria.org e del Catalogo online delle aziende agricole. Lapo Nannucci: diplomato presso l'Istituto Tecnico Agrario e laureato in Scienze e Tecnologie Agrarie alla Facoltà di Agraria di Firenze, è iscritto all’Ordine dei Dottori Agronomi e Forestali di Firenze; libero professionista consulente esterno presso Associazioni di categoria, Università, Enti di Ricerca ed imprese del settore zootecnico, della pesca e dell’acquacoltura. Particolare esperienza nel settore della pesca dei piccoli e grandi pelagici. Marco Salvaterra: laureato in Scienze Agrarie presso la Facoltà di Agraria di Bologna, è docente presso l’Istituto Tecnico Agrario Statale di Firenze; dal 2000 si occupa di divulgazione in campo agricolo attraverso il network Agraria.org che comprende, fra le altre cose, un Catalogo di Aziende Agricole, uno di Allevatori, una Rivista quindicinale online ed un Forum del settore. Flavio Rabitti (Direttore editoriale): diplomato all’Istituto Tecnico Agrario Statale di Firenze e laureato in Tutela e Gestione delle Risorse Faunistiche alla Facoltà di Agraria di Firenze; dal 2009 iscritto all’Albo regionale degli Imprenditori Agricoli. Gestisce una piccola azienda agricola in Toscana a Suvereto (LI), all’interno della quale produce vino, olio extravergine di oliva, miele, ed una serie di prodotti artigianali al tartufo (www.rabitti.eu).

Editoriale

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Le Azalee Affrontiamo le principali tematiche relative alla loro coltivazione in casa o all’interno dei nostri giardini di

Alessandro Auzzi

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e Azalee ed i rododentri fanno parte del genere dei Rhododendron, famiglia delle Ericaceae (anche se in passato si pensava appartenessero a generi diversi). Le Azalee sono piante originarie del Nord Europa, dell’America e dell’Asia e sono state introdotte in Italia verso il 1800. Sono arbusti che raggiungono medie altezze, hanno foglie ovali, coriacee e pelose, rami semi-legnosi e fiori a 5 stami; il frutto è una capsula che contiene molti semi.

Coltivazione

Coltivazioni

Le azalee prediligono luoghi semi-ombreggiati o ombreggiati ma ben luminosi ed areati; in ogni caso mai sotto il sole diretto. Riguardo le basse temperature, non subiscono danni se la temperatura non scende sotto i -10°C. Le azalee rientrano nelle piante acidofile. Un pH troppo elevato inibisce l’assorbimento delle sostanze nutritive ed è la causa più frequente della clorosi (ingiallimento delle foglie). Queste piante necessitano di un terreno abbastanza acido, ricco di sostanza organica e ben drenato; per aumentare l’acidità del terreno possiamo somministrare dello zolfo giallo direttamente nel vaso o nei pressi del colletto nel caso di piante a terra (in quest’ultima ipotesi mai a ridosso di esso). Il

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periodo per la somministrazione può essere sia quello primaverile che autunnale, ma evitando il periodo estivo visto le alte temperature. Quando vengono piantate (in terra o in vaso) è sempre meglio tenerle leggermente rialzate in modo da formare un sorta di “montagnetta” nella zona del colletto; così facendo non si creeranno ristagni idrici nella zona più delicata della pianta ed al contempo si avvantaggerà la pianta nella radicazione, avendo questa un apparato radicale superficiale. Si consiglia comunque anche di interrare una manciata di zolfo giallo, così da aumentare l’acidità del terreno. L’azalea è una pianta che richiede molta acqua ed un’umidità dell’aria

elevata. Le innaffiature devono essere abbondanti nei periodi di rialzo della temperatura, cioè tra la fine della primavera e per tutta l’estate; nel periodo primaverile si consiglia

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di bagnare le piante in vaso due volte a settimana, mentre in estate le irrigazioni devono essere effettuate la sera tardi oppure la mattina presto, almeno una volta ogni due giorni (soprattutto durante il periodo della fioritura e per quelle piante che sono poste in casa dove generalmente si hanno temperature più elevate con scasa umidità ambientale). Le azalee non richiedono abbondanti concimazioni ma queste devono essere regolari sia dal punto di vista chimico che dal punto di vista temporale, in modo da facilitare ed aumentare la fioritura di queste bellissime piante. La concimazione va sospesa nei mesi freddi, visto che la pianta in quei periodi non si trova in fase vegetativa; i concimi usati, generalmente, devono essere acidi. Solitamente vengono utilizzati concimi a base di urea e fosfati ma, nel periodo di maggiore richiesta - cioè poco prima e durante la fioritura - si consiglia l’uso di concimi a base potassica in modo da favorire la fioritura stessa. Per la ripresa vegetativa, che solitamente avviene a fine inverno - inizio primavera, si può somministrare concimi a base azotata. Questa tipologia di concimazione va bene sia per le piante in vaso che per quelle in terra. Le azalee non necessitano di potature eccessive, ma queste devono essere piuttosto regolari.

Coltivazioni


Azalea in vaso in uno dei giardini da me curati Per le piante in terra la potatura si basa soprattutto sul contenimento della forma, andando ad eliminare i rami che toccano terra, areando l’interno di essa e togliendo i fiori a fine fioritura in modo da non portare ulteriore stress alla pianta (visto che lasciarli porterebbe alla produzione dei semi). Per le piante in vaso invece si interviene in modo più regolare, tagliando i rami o accorciandoli, in modo da favorire la crescita e regolarne la forma. La potatura generalmente deve essere fatta subito dopo la fioritura; è bene non tardare molto, altrimenti con i nostri tagli potremmo

Coltivazioni

incidere negativamente sullo sviluppo dei nuovi rami.

Moltiplicazione La moltiplicazione per seme viene utilizzata solamente per la creazione di portainnesti; per riprodurre le nostre azalee possiamo invece utilizzare il metodo della talea. Questa non è altro che una porzione di ramo, tagliato dalla pianta madre. La talea, una volta preparata, va interrata in un vaso precedentemente riempito con torba, per poi essere sistemata in penombra (per sicurezza si può somministrare anche un fungicida

ad ampio spettro in modo da tutelare il rametto e la futura piantina da attacchi indesiderati). Le irrigazioni vanno effettuate con cura e moderazione, stando attenti a non bagnare né il rametto né le foglie di esso. Il vaso va poi coperto con un sacchetto di plastica per mantenere la giusta umidità o, in alternativa, è sufficiente porre sulla talea un vaso di vetro rovesciato, in modo che il rametto stia al centro di esso. Dopo circa un mese la talea inizierà a sviluppare l’apparato radicale, anche se questo sarà ancora molto esile e fragile; la giovane pianta riprodotta, essendo

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ancora debole, si potrà lasciare in vaso per ulteriore tempo. Successivamente potrà essere sistemata in contenitori di dimensioni maggiori. Così facendo, da un semplice rametto, potranno essere ottenute più piantine. La propagazione per talea è un metodo molto valido per moltiplicare le nostre piante; può essere utilizzato con successo anche su altre specie vegetali, come per esempio gli agrumi.

Avversità Le azalee sono piante abbastanza rustiche, ma attraverso pratiche colturali non corrette è possibile provocare danni sia temporanei che permanenti. Di seguito affronteremo le principali problematiche relative alla sua coltivazione. Se le piante presentano un avvizzimento delle foglie o dei fiori è possibile che non siano state irrigate sufficientemente; per risolvere il problema è possibile immergere il vaso in acqua, tenendocelo per alcuni minuti. In alternativa si possono effettuare due irrigazioni a distanza di 2 ore circa (soprattutto per azalee in terra). Se le nostre azalee da appartamento presentono invece chiazze brune sulle foglie probabilmente la temperatura nel locale è eccessiva; si consiglia quindi di arieggiare l’ambiente, irrigando al contempo i vasi in modo da far riacquistare la giusta umidità alle piante. Se possibile, è buona norma nebulizzare l’acqua direttamente sulle foglie. La clorosi ferrica invece si ha quando il terreno è troppo pesante o se il pH del terreno è troppo alto; ciò rende il ferro insolubile causando un’inadeguata produzione di clorofilla. Si può intervenire tempestivamente alla prima comparsa dei sintomi con prodotti a base di ferro chelato o del solfato di ferro, mantenendo il terreno ben arieggiato e soffice, irrigando con acqua povera di calcare. In questo caso si può anche aumentare l’acidità del

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terreno, mettendo vicino alla pianta dello zolfo giallo. Riguardo gli attacchi fungini, l’unico che può arrecare gravi danni è il Phytophthora cactorum; questo fungo provoca l’avvizzimento delle foglie e dei giovani ributti, arrivando a danneggiare anche l’apparato radicale. Per combattere questo fungo conviene fare dei trattamenti mirati con prodotti a base di rame, specialmente a fine inverno e prima dell’estate. Parlando invece di insetti, quelli più comuni che colpiscono queste

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piante sono le cocciniglie, il ragnetto rosso e l’oziorrinco. Se la pianta colpita è di piccole dimensioni si può procedere alla rimozione manuale dei parassiti, mentre se le piante colpite sono numerose o molto grandi conviene intervenire con insetticidi specifici.

Dr. Alessandro Auzzi Giardiniere prof. auzzialessandro@ gmail.com

Coltivazioni


Alla scoperta dell'Orto Botanico di Portici Da giardino reale a Orto Botanico; annesso al Dipartimento di Agraria, è sito all'interno del complesso della Reggia di

Eugenio Cozzolino

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el 1872, sorse in Portici, la Reale Scuola Superiore di Agricoltura alla quale venne assegnata come sede il Palazzo Reale di Portici insieme al suo parco ed i suoi giardini. La reggia di Portici fu edificata fra il 1738 ed il 1742 per volere di Carlo III di Borbone su progetto dell’architetto romano Antonio Canevari. Il sito reale venne poi ampliato da Ferdinando IV e Gioacchino Murat ma conobbe poi un periodo di decadenza iniziato

con la caduta dei Borbone nel 1860 che portò all’alienazione di tutte le suppellettili e reperti archeologici provenienti dagli scavi di Ercolano. Alla Reggia era annesso un parco di circa 36 ha, impiantato su una colata lavica del 1631 ed ottenuto mediante l’esplosione di dinamite e la messa a dimora di lecci già adulti; il parco è oggi dedicato al botanico napoletano Giovanni Gussone. All’interno del Parco ed immediatamente adiacenti al palazzo furono

realizzati due giardini ornamentali di circa 9000 mq che furono trasformati in Orto Botanico da Nicola Antonio Pedicino che ne 1872, fu per primo chiamato alla Cattedra di Botanica della Scuola di Agricoltura. Dell’impianto originario dei giardini rimangono oggi soprattutto le opere architettoniche costituite dai muri di cinta su cui sono collocati dei busti marmorei; dalla “Fontana della Vittoria”, ornata alla base da fauni e sirene e sormontata da una statua di

Fontana della Vittoria

Coltivazioni

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scavo raffigurante la Dea Flora (l’originale attualmente esposta presso l’Herculanense Museum); dai 16 cassoni che occupano la parte perimetrale del giardino. Nel 1875 venne pubblicato il primo Index Seminum. Comincia dunque un lungo periodo di feconda attività per l’Orto che viene però vanificata dagli eventi della Seconda Guerra Mondiale che portarono all’occupazione alleata dei giardini ed alla conseguente distruzione di un gran numero di piante. Nel frattempo, nel 1935, viene istitu-

nianze storico-architettoniche ed importanti collezioni di piante provenienti da diverse zone del mondo.

Il giardino storico Nel giardino storico è nato l’impianto originario dell’Orto Botanico, esso comprende quattro riquadri, sedici cassoni, dodici aiuole tonde e tre vasche circolari ed una Serra storica. I due riquadri posti a destra della fontana sono dedicati alle Conifere, alle magnolie ed alle piante del Mediterraneo del Mondo, provenienti da Australia e Sudafrica. Dei due riquadri

epifite. Spiccano nel giardino la maestosa mole di un esemplare carpellifero di Gingko biloba alto circa 30 metri ed una Xanthorroea preissii, con fusto alto circa 190 cm, che di tanto in tanto fiorisce. Una struttura in pietra accoglie la Primula palinuri, importante endemismo di Campania, Basilicata e Calabria.

Il felceto Adiacente al giardino storico ed all’ombra della lecceta, il giardino

Il palmeto all'interno dell'Orto Botanico ita la Facoltà di Agraria dell’Università di Napoli che sostituisce l’Istituto Superiore Agrario. Dal 1948 ad oggi hanno preso forma dunque le collezioni che è possibile attualmente visitare. Con l’assegnazione di tre riquadri del Parco Gussone, a ridosso del lato interno, l’estensione ha raggiunto i 20.000 mq creando tre aree in cui hanno potuto essere allestiti il palmeto, un felceto con un piccolo laghetto ed uno spazio di circa 1000 mq per le serre riscaldate dedicate alle collezioni di piante succulente. L’Orto Botanico della Facoltà di Agraria di Portici rappresenta dunque un luogo abbastanza particolare in cui convivono pregevoli testimo-

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a sinistra della fontana, l’inferiore è dedicato alle Agavaceae, Liliaceae, Iridaceae e Xanthorroaceae, il superiore alle Myrtaceae, Lauraceae ed ancora a piante mediterranee. I cassoni sono tematici ed ospitano collezione di Cycadaceae, Myrtaceae, Aloaceae, Cactaceae, Agavaceae, Aizoaceae, e piante provenienti dall’Asia. Le vasche, così come la fontana centrale ospitano ninfee ed altre piante acquatiche; le aiuole circolari, in pietra vulcanica, di più recente realizzazione, sono destinate a palme e Chorysie. La Serra Pedicino, restaurata nell’anno 2000, dalla particolare forma, ospita una collezione di piante

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delle felci è uno degli angoli più suggestivi dell’Orto. L’umidità necessaria alla vita di queste piante è assicurata da un laghetto, attorno al quale sono state collocate le felci arboree e numerose altre specie provenienti da tutto il mondo. Un angolo è dedicato alla Woodwardia radicans rarissimo relitto della flora tropicalmontana del Terziario, oggi presente in Italia in Sicilia e Calabria e in Campania a Ischia e sulla penisola sorrentina.

Il palmeto Il palmeto, posto di fronte al felceto, fu ricavato da una schiarita del bosco. Ospita attualmente 25 specie di

Coltivazioni


Jatropha multifida palme, nonché una piccola collezione di Plumeria ed un esemplare di Grevillea robusta. Interessanti sono la Jubaea chilensis e la Butia capitata dai gustosi frutti e i grandi esemplari di Syagrus romanzoffiana.

La serra delle succulente La serra delle succulente rappresenta senza dubbio il fiore all’occhiello dell’Orto Botanico di Portici, ospita infatti oltre 400 specie di piante succulente provenienti dai deserti africani ed americani. Di rilievo sono le collezioni di Cactaceae, Aizoace-

Haworthia truncata ae, Euphorbiaceae, Didieraceae ed Apocynaceae. Su tutte spiccano gli esemplari carpelliferi e staminiferi di Welwitschia mirabilis. Dal 2002 la superficie della serra è stata ampliata a 1000 mq e sono in continuo aumento le acquisizioni di nuovi esemplari per arricchire le collezioni.

Le principali collezioni Come tutti gli altri Orti Botanici, anche quello di Portici svolge prevalentemente funzioni di didattica, ricerca scientifica e conservazione della natura. In tal senso, nel corso degli ultimi anni, si è orientata la definizio-

ne delle collezioni che sono tra l’altro vincolate da problemi di spazio che impongono scelte limitate. Quella delle piante desertiche è senza dubbio la più importante contando oltre 600 specie suddivise in diverse famiglie fra cui le più importanti sono le Cactaceae (circa 400 specie), Aizoaceae, Euphorbiaceae, Didieraceae e Agavaceae. Dal punto di vista didattico questa collezione riveste particolare interesse sia per quanto riguarda i diversi aspetti (morfologia, fisiologia, riproduzione) di ciascuna specie, sia per la possibilità di osservare direttamente il

Lophophora williamsii

Coltivazioni

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Ceiba speciosa

fenomeno della convergenza evolutiva. Particolarmente ricche sono le collezioni di Mamillaria, Haworthia, Gymnocalycium, Euphorbia e Rhipsalis. Notevole interesse rivestono inoltre piante provenienti dal Sud Africa e Madagascar appartenenti ai generi Aloe, Didierea, Alluaudia e Kalanchoe. Fra le altre ricordiamo, in particolare, splendidi esemplari staminiferi e carpelliferi di Welwitschia mirabilis Hook. dei deserti Sudafricani, che ha trovato nel substrato lavico vesuviano condizioni di crescita ottimali. Il resto delle collezioni è costituito prevalentemente da conifere (in particolare Cycadacee), piante insettivore ed arbusti provenienti da diverse zone del mondo (Australia, Sudafrica, California) caratterizzate da clima di tipo mediterraneo. Una piccola sezione è dedicata alle piante di uso alimentare e medicinale. L’inventario delle collezioni comprende dunque oltre 1000 specie con circa 4000 esemplari. Sitografia https://www.centromusa.it/it/orto-botanico-di-portici.html http://www.dipartimentodiagraria.unina. it/index.php?option=com_k2&view=item&id=87:orto-botanico

Dr. Eugenio Cozzolino Euphorbia heptagona

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eugenio.cozzolino @crea.gov.it

Coltivazioni



Valdarnese, esperienze di giudizio Un "antico" pollo toscano, una razza emergente dalle alte potenzialità di

Federico Vinattieri

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Zootecnia

isto e considerato che sono stato il primo Giudice al mondo a giudicare questa razza in una mostra ufficiale, dopo il suo recentissimo riconoscimento, penso spetti a me fare gli "onori di casa". Non vi nascondo che quando dall'Or-

Il Giudice Federico Vinattieri durante il giudizio della razza Valdarnese ai Campionati Italiani

dine dei Giudici della Federazione Italiana delle Associazioni Avicole (F.I.A.V.) mi venne comunicato che, oltre ad altre razze, avrei dovuto anche giudicare ben 30 soggetti di razza Valdarnese ai Campionati Italiani di Carrara 2019, rimasi un po' sorpreso di dover essere proprio io a rompere il ghiaccio con questa razza, diciamo così, "inedita". La cosa comunque mi intrigava

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molto, in quanto sono sempre stato propenso ad accettare le sfide e, al contempo, a prepararmi al meglio delle mie capacità per superare determinati compiti che il mio ruolo tecnico all'interno della Federazione mi impone.

Come affrontare un giudizio di una razza mai stata giudicata da nessuno e della quale non avevo ovviamente esperienze dirette? Mi concentrai sull'unica vera arma a disposizione del Giudice: lo Standard. Iniziai per tempo a studiarmi lo standard ufficiale a dovere, quasi a memoria, cercando di visualizzare il modello ideale richiesto che avrei

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dovuto ricercare tra i soggetti esposti e, contemporaneamente, i principali difetti da segnalare e penalizzare. Ricercai i vari articoli e materiale scritto in passato sulla razza. Contattai anche alcuni membri del C.T.S. federale (Commissione Tecnica-Scientifica), e chiesi loro delle foto rappresentative di esemplari tipici, così da avere anche un'idea visiva concreta non solo basata sulla parte teorica, ma anche sull'identificazione morfologica diretta. Avevo compreso i tratti anatomici peculiari della razza. Tutto mi era finalmente chiaro. Ero pronto ad approcciarmi a questo giudizio senza nessuna titubanza. Arrivai a Carrara la sera del giorno precedente al giudizio. Quando entrai nel padiglione della fiera, gran parte dei soggetti era già stato ingabbiato. Feci un giro perlustrativo tra le gabbie, cercando di vagliare in maniera approssimativa, con cosa avrei avuto a che fare l'indomani mattina. Un preventivo giudizio, per dirla in parole povere... I Vandarnesi erano già tutti presenti. Girovagando tra le gabbie, mi saltò subito all'occhio che non vi era il soggetto eccezionale, ma comunque si trattava di una rappresentanza di soggetti tipici. Non vi erano infatti esemplari che non presentassero le principali caratteristiche di razza, anzi, in molti casi questi connotati erano presenti in eccesso, estremizzando attributi già richiesti "estremi" in confronto ad altre razze mediterranee, come la grande cresta o bargigli molto abbondanti.

Zootecnia


Un Gallo di razza Valdarnese, durante una Mostra Allo stesso tempo, mi salto all'occhio che le condizioni espositive non erano delle migliori. La mia osservazione preventiva poi si spostò su altre razze. Arrivò il giorno del Giudizio. Iniziai da altre razze. Terminata la mia analisi di alcune razze "ciuffate" che mi erano state assegnate, venne il turno della Valdarnese. Faccio una premessa importante. Ho sentito molti avicoltori d'esperienza commentare la razza e far riferimento a vecchi testi, vecchi standard pubblicati in passati o su cenni storici di questo "antico" pollo toscano.

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Conoscere la storia e l'iter selettivo è certamente molto interessante, ma quando si tratta di affrontare un giudizio tecnico, tutto ciò che è passato è irrilevante, non conta niente, conta solo il presente, e di conseguenza conta esclusivamente lo Standard in vigore in quel preciso momento, che non deve essere interpretato dal Giudice, bensì applicato. Detto ciò, c'è da considerare che ogni Giudice ha il proprio metodo di giudizio. Io ad esempio, sono abituato a valutare prima tutti i soggetti di un sesso, e poi passare al sesso opposto.

Iniziai pertanto dalle galline. Prendendo in mano via via le femmine esposte, per altro di buona tipologia, non ho potuto fare a meno di notare in ognuna dei difetti gravi e nella maggioranza dei casi, difetti da squalifica. I principali difetti nelle galline erano: presenza di speroni, faccia troppo chiara, eccessive tracce di rosso negli orecchioni, tarsi corti, corpo gracile, morbidezza del piumaggio, creste appiattite sulla testa, ali portate portate basse, teste piccole, occhi troppo chiari, magrezza eccessiva, code troppo aperte, piumaggio poco serrato al corpo. Due-tre galline avevano anche l'anello sfilabile, quindi non ho potuto giudicarle. La femmina che avevo identificato come la più meritevole, nascondeva ahimè un doppio dente nella cresta, che ne decretò l'inevitabile squalifica. I doppi denti nelle creste semplici piegate, non saltano subito all'occhio come nelle creste dritte dei galli (che sono facilmente osservabili anche senza prendere in mano l'esemplare), ma talvolta vengono celati dalla piega stessa, ma osservando la cresta con il soggetto sgabbiato, diventa ovviamente molto facile controllare la regolarità della dentellatura. Vero che quando ci si approccia ad una razza appena riconosciuta, bisogna settare i propri parametri di giudizio, su una certa tolleranza, data l'inevitabile eterogeneità dei soggetti, ma non si può certo passar

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Una Gallina di razza Valdarnese in gabbia da Mostra sopra a dei difetti da squalifica. Terminata l'analisi delle femmine, iniziai a giudicare i galli. Qui le problematiche erano molteplici. Tracce eccessive di rosso negli orecchioni, piumaggi lunghi e molto scomposti, spalle strette, petti piatti, gambe poco evidenti, creste irregolari, denti disuguali o con scarsissima radialità, occhi troppo chiari, code troppo rilevate, e soprattutto code molto danneggiate... in alcuni casi addirittura quasi assenti. Le falciformi erano praticamente assenti

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in quasi tutti i galli, ed in alcuni casi, anche le timoniere erano appena accennate. Avevo appreso molto bene dallo standard, che al contrario di quanto si possa pensare, i riflessi gialli sono richiesti, ed un colore troppo candido nei galli è elencato tra i difetti gravi. Quindi non era da ricercare un soggetto troppo bianco, ma dovevo ricercare un soggetto che presentasse il giusto connubio tra colore di fondo bianco e riflessi gialli non eccessivi.

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E' anche vero però che tra i difetti gravi vi è riportata anche la voce "piume di altro colore". Qui mi son trovato davanti ad una problematica, in quanto in alcuni esemplari, prendendoli in mano ed analizzando il piumaggio, ho constatato piume totalmente gialle, dall'iporachide, quindi dalla base della piuma, fino al vessillo e all'apice. Piume gialle nella loro totalità, in quantità notevole, soprattutto su groppa e ali. Questi non sono da considerarsi "riflessi", ma sono indubbiamente "penne to-

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munque una buona rappresentanza. Riconobbi subito alcuni soggetti che avevo già giudicato ai Campionati italiani, tra cui anche il soggetto a cui avevo assegnato il titolo, ancora devo dire, in buone condizioni di forma. In questa sede di giudizio, sono emerse nuove problematiche, non rilevate a Carrara; prima tra tutte la scarsa qualità del pigmento nei tarsi. Ho riscontrato in qualche soggetto dei tarsi chiari, più tendente al biancastro che al giallo. Sappiamo che in una femmina in deposizione possono attenuarsi alcuni pigmenti, come ad esempio nella faccia o appunto nei tarsi, ma nei galli è quasi sempre una tara genetica e non ambientale. Oltre a questo, un paio di soggetti, presentavano problemi di forma, troppo grossolana, con peso certamente superiore a quello indicato nello standard, con struttura troppo pesante. Se non altro le code erano un po' più presentabili. Due i soggetti più meritevoli, il gallo che avevo già fatto vincere a Carrara, ed un altro gallo, con caratteri similari... due riproduttori da tenere sicuramente in considerazione.

Un tipico Gallo Valdarnese in Mostra talmente gialle". Un riflesso è identificabile in una sfumatura gialla su una piuma bianca, o comunque parzialmente colorate di giallo, ma quando la piuma è completamente gialla non è un riflesso, bensì una colorazione uniforme. Ho segnalato il problema nel cartellino e ne ho tenuto di conto per il punteggio, che comunque, anche senza questo difetto, non avrebbe mai potuto raggiungere i 95 punti, datosi che il piumaggio era molto scomposto, le code erano molto incomplete e le condizioni espositive non erano delle migliori. Purtroppo non vi era nessun soggetto che potesse raggiungere il punteggio necessario per assegnare il titolo di Campione di razza. Con mia grande sorpresa, mi accorsi di dover ancora giudicare un soggetto della medesima razza, ma che era stato posto in un'altra zona del padiglione, in quanto si trattava di un esemplare esposto nella sezione dedicata ai "giovani allevatori". Già dalla prima impressione mi sembrò un soggetto in migliori condizioni e

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che non presentasse i difetti evidenti che avevo riscontrato in tutti gli altri galli. I riflessi gialli erano presenti, pur mantenendo la predominanza del bianco, tarsi e becco erano di un giallo brillante, orecchioni bianchi crema, cresta con discreta radialità, coda non perfetta ma comunque meno danneggiata rispetto a tutti gli altri galli precedentemente giudicati. Finalmente un soggetto che meritasse a mio avviso il titolo di Campione Italiano, a cui assegnai pertanto il fatidico predicato "Molto Buono 95". La domenica ritornai in mostra ed ebbi modo di confrontarmi con vari allevatori, e con coloro che per primi avevano selezionato la razza per ottenere il riconoscimento. Condividemmo alcune problematiche rilevate. Il caso ha voluto che anche per la Mostra Regionale Toscana, organizzata dall'Associazione Toscana Avicoltori, tenutasi a Calenzano (Firenze) nel mese di Gennaio, toccasse nuovamente a me giudicare la razza Valdarnese. Non vi era un numero di soggetti importante come a Carrara, ma co-

Con questo articolo ho voluto condividere queste esperienze di giudizio, per far comprendere ai diretti interessati, a che punto siano giunti nella selezione. Spero, con questo mio modesto contributo, d'aver fornito delle direttive a chi porterà avanti questa nuova realtà italiana. E' innegabile che su questa razza vi sia ancora molto lavoro da svolgere... è normale, ciò avviene in tutte le razze emergenti. Penso sinceramente che gli allevatori siano sulla buona strada per trovare un giusto connubio tra tipicità e correttezza. Sarò molto curioso di arrivare ai prossimi Campionati Italiani, a fine anno, per valutare lo "status quo" della razza, per osservarne l'evoluzione, e spero, anche i miglioramenti. Buon lavoro a tutti gli allevatori.

Federico Vinattieri Giudice F.I.A.V. difossombrone.it

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Lepus europaeus vs Oryctolagus cuniculus Lepri e conigli, cosi simili e cosĂŹ diversi... di

Roberto Corridoni

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d un occhio inesperto lepri e conigli potrebbero essere confusi dato che l'appartenza di entrambi all’ordine dei lagomorfi, (insieme alla Pica), li fa assomigliare molto. In realtà sono animali molto diversi, sia morfologicamente che dal punto

di vista comportamentale. La classificazione scientifica li vede caminare appaiati fino alla famiglia Leporidae, poi le strade si dividono nel genere e nella specie, Lepus/Lepus europaeus per la lepre e Oryctolagus/Oryctolagus cuniculus per il coniglio.

Differenze morfologiche Pur avendo caratteristiche fisiche comuni nell'aspetto ad un attento confronto i due animali rivelano differenze sostanziali. La lepre ha un corpo slanciato, con arti posteriori lunghi e potenti che

Lepus europaeus (foto di Paolo Crescia)

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permettono all'animale di correre e saltare con estrema agilità, permettendogli di scappare velocemente se attaccata da un predatore (caratteristica la corsa a zig zag che crea confusione nell'assalitore, dove può raggiungere i 60 km/h). Misura tra i 40 e i 70 cm di lunghezza ed ha un peso che oscilla tra 1,5 e 5 kg. Gli occhi sono grandi e di colore giallo, sono posti ai lati della testa e gli permettono di avere un campo visivo molto ampio pur avendo una vista poco sviluppata (a differenza dell'udito che invece è particolarmente sviluppato e supportato da grandi e mobili padiglioni auricolari). Le orecchie arrivano a misurare anche 15 cm. Il pelo ha una colorazione fulva giallo-grigio-bruno e permette all'animale una facile mimetizzazione con il terreno circostante, caratteristica vitale sia per l'attacco di predatori (aquila, lince, lupo e volpe) che di cacciatori. Il coniglio invece ha un corpo più tozzo e robusto che arriva a circa 45 cm di lunghezza, con un peso medio di circa 2,5 kg e gambe posteriori più corte rispetto al suo cugino più prossimo. Gli occhi, posti come la lepre ai lati della testa (che nella femmina risulta più allungata rispetto ai maschi), sono però di colore nero. Le orecchie arrivano a misurare circa 10 cm. Il pelo è piuttosto scuro nella parte superiore e grigio biancastro nella parte inferiore, formato essenzialmente da tre strati, un sottopelo fitto e soffice, uno strato intermedio con peli lunghi e duri che danno la colorazione al mantello e un terzo strato con peli ancora più lunghi ma meno fitti. Queste caratteristiche sono peculiari al coniglio selvatico e non tengono conto di tutte le varianti che l'uomo con le sue selezioni ha apportato alla razza, dalle dimensioni (conigli nani, medi, giganti), ai colori,

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te gerarchia tra i maschi del gruppo. Animale prettamente notturno, il coniglio vive in tunnel molto profondi scavati nel terreno, ad un minimo accenno di pericolo si rifugia sotto la superficie.

Differenze alimentari

(una gamma infinita), al colore degli occhi che varia dal nero al rosso al blu.

Differenze caratteriali La lepre è un animale molto timido e cauto, ha sensi molto sviluppati ed in caso di pericolo non scappa immediatamente ma preferisce evitare movimenti, cercando di mimetizzarsi con l'ambiente circostante per non attirare l'attenzione. Vive esclusivamente in superficie nascondendosi tra l erba alta o in piccole buche di massimo 20 cm di profondità. Dalle abitudini crepuscolari e notturne, anche se non è raro vederli in pieno giorno, la lepre preferisce la vita solitaria e si avvicina ai propri simili solamente nel momento dell'accoppiamento; qui non è raro vedere più di un maschio azzuffarsi per riuscire a conquistare la femmina. Il coniglio invece, pur avendo la fama di animale docile e placido, ha un carattere aggressivo e non sono rare le liti tra maschi dello stesso gruppo, liti che portano anche al ferimento piuttosto grave di uno dei contendenti. A differenza del suo parente più stretto vive in comunità formate da decine di individui dove vige una for-

La lepre ha un'alimentazione esclusivamente erbivora come erba, frutta, funghi, cortecce etc.. Ha una doppia digestione e dopo aver ingerito il cibo lo espelle sotto forma di feci molli di colore verdastro e consistenza gelatinosa, che vengono nuovamente ingerite e ridigerite per poi essere espulse come feci dure di colore scuro. Il coniglio, erbivoro anch'esso, mangia foglie, radici ed erba. Per ricavare il massimo nutrimento possibile è solito reingerire parte delle proprie feci, dette cecotrofi, per rielaborarne il contenuto nel frattempo degradato dalla flora batterica.

Differenze riproduttive Le maggiori differenze tra i due lagomorfi le ritroviamo nelle caratteristiche riproduttive. Pur avendo apparati genitali simili, l'accoppiamento, la gestazione ed il parto differiscono di molto. Nella lepre la stagione riproduttiva coincide generalmente con la primavera; qui i maschi si raggruppano attorno alle femmine in estro e danno vita a combattimenti spettacolari per accaparrarsi il diritto all'accoppiamento. Nonostante questo, i maschi si accoppiano con il maggior numero di femmine possibili e sul versante opposto le femmine si accoppiano con più di un maschio. La femmina può portare a termine fino a 3 gravidanze nell'arco dell'anno con una gestazione di 42 giorni (sei settimane). Generalmente nascono ad ogni parto da 1 a 6 piccoli, già ricoperti di pelo e con gli occhi aperti, caratteristiche

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Coniglio (Oryctolagus cuniculus)

che gli permettono, già dalle prime ore di vita, di muoversi liberamente, anche se la maggior parte del tempo lo passano nascosti singolarmente in luoghi diversi nei pressi del rifugio materno. La madre si avvicina a loro solo per allattarli. Una caratteristica importante per la loro sopravvivenza è quella di essere inodore e quindi difficilmente rintracciabili dai predatori. Lo svezzamento avviene dopo il mese di vita; i cuccioli a questo punto si allontanano definitivamente dalla madre e diventeranno sessualmente maturi a circa 1 anno di età. Una particolarità interessantissima della lepre è che può essere fecondata nuovamente prima di aver partorito: questo fenomeno è conosciu-

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to come “superfetazione”. Nel coniglio invece non esiste superfetazione; famosi per la grande capacità riproduttiva, le femmine vanno in estro ogni 21 giorni anche se l'ovulazione è indotta dall'accopiamento. Generalmente si riproduce nei primi mesi dell'anno ma se le condizioni lo permettono può allevare i piccoli per tutti i dodici mesi. La gestazione dura genralmente un mese, anche se può ritardare o anticipare di 1 o 2 giorni; vengono alla luce mediamnete dai 3 ai 14 cuccioli. Prima di partorire la femmina scava cunicoli sotterranei che ricopre col proprio pelo e con erbe secche. I cuccioli nascono nudi e ciechi, vengono allattati una volta al giorno per pochi minuti; lo svezzamento

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avviene intorno alla terza settimana di vita. L'indipendenza dalla madre avviene a circa un mese di vita e la maturità sessuale sopraggiunge intorno agli 8 mesi. In sintesi, questi due bellissimi animali hanno forte somiglianza ma in realtà veramente poco in comune; restano comunque due stupende creature da osservare e studiare con piacere nella loro routine quotidiana.

Roberto Corridoni Allevatore di bovini ed appassionato cunicoltore

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Quel mastino che vien dall'Africa... Un origine che non inizia in Africa ma bensì in Europa e che vede come protagonista anche il grande imperatore Alessandro Magno di

Federico Vinattieri

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ello straordinario insieme delle razze canine definite "molossoidi", possiamo ammirare le più svariate forme. Cani potenti, rustici, di poderosa struttura e mole... cani dalla storia millenaria. L'Italia possiede ben due rappresentanti di questa categoria di cani: il Mastino Napoletano, antica razza che racchiude in sè tutto il sapore

della storia del nostro Paese; ed il Cane Corso, razza di più recente acquisizione, ma dalle doti uniche sia per morfologia sia per aspetto caratteriale. Tanti gli esempi di Molossi che l'Europa ha plasmato nel corso degli ultimi centocinquant'anni. Quando si estende la visione anche alle razze non ancora riconosciute

ufficialmente, ci si imbatte in alcune grandi sorprese. Ed è così che son venuto a conoscenza del "Boerboel", l'affascinante Mastino africano. Il nome Boerboel (che si legge "burbul") deriva dalla parola "Boer" dall'afrikaans olandese "contadino", e "boel" che significa "cane". Cane del Contadino quindi, comunemente

Animali da compagnia

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Un tipico esemplare di Boerboel (foto: eliteboerboels.com)

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Profilo di Boerboel - foto © Ubaldo Flamini chiamato tra i cinofili anche "Leone d'Africa". Non è definibile quindi "razza" da noi Europei, non essendo riconosciuta dalla Federazione Cinologica Internazionale (F.C.I.), ma in Africa è sicuramente considerata tale, una tipologia di cane ben definita, allevata da decenni con criterio, che si sta pian piano facendo strada fin qui in Italia, dove alcuni esemplari sono già presenti. Prima di descriverne l'estetica che rende questo cane estremamente attraente per tantissimi allevatori, mi

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soffermerei un po' sulla sua origine, che è altrettanto affascinante.

Origine Lunga è la storia dell'allevamento di questa razza, una storia che si concentra maggiormente in molte regioni del Sudafrica. Per ognuna delle differenti Regioni, sono stati selezionati tipologie di "mastino africano" con lievi differenze, considerate tutte preziose, poiché ne garantiscono una grande variabilità genetica. Se ci si addentra nella storia del Boerboel, si potrà arrivare fino al

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640 a.C. in Assiria, territorio corrispondente all'estrema regione settentrionale dell'odierno Iraq, dove si presume abbiano avuto origine questi particolari molossi. In quei tempi antichi, questi molossi venivano impiegati nelle più svariate mansioni, dalla caccia ai grandi animali, ai combattimenti, fino ai temutissimi "cani da guerra". Si raccontano tante storie sulle origini di questi molossi, e non si è mai compreso quale sia il sottile divario tra storia e narrazione fantasiosa, ma comunque vale la pena raccon-

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tare la versione più nota e accettata dalla comunità cinofila del Sudafrica, una storia che non inizia in Africa, bensì in Europa. Riporto pari pari la "storia-leggenda", come descritta sommariamente in molti articoli dedicati alla razza. Si racconta che il Re dell'Albania donò un grosso cane, un molosso a quanto pare, all'imperatore Alessandro Magno, il quale rimase incantato dalle dimensioni dell'animale. Ben presto però, le aspettative di questo colossale cane, delusero in maniera evidente la corte e lo stesso Alessandro il Grande, e i motivi furono che il cane dapprima si rifiutò di cacciare gli orsi, e poi anche cinghiali e caprioli. Nel frattempo la notizia del fallimento del cane era arrivata sino al primo interessato, il Re albanese, che venuto a conoscenza della situazione nel 326 a.C., per rimediare al malcontento del Re Alessandro, mandò nella sua corte 156 cani, tutti di grossa taglia, appositamente addestrati per combattere leoni e addirittura elefanti. Questa volta però Alessandro non volle perdere dell'altro tempo con questi animali, e diede ordini ben espliciti, al fine di testare immediatamente l'effettiva potenzialità di questi cani. Dunque, i cani furono messi nelle arene prima con leoni, per poi farli combattere anche contro gli elefanti. Non delusero le aspettative. Questa volta i risultati furono sorprendenti, i cani aldilà della vittoria, si mostravano tenaci e coraggiosi, forti e instancabili, tutte doti che colpirono molto l'interesse del re Alessandro. Da lì in avanti, questi cani cominciarono ad essere impiegati nelle guerre e nei combattimenti e si diffusero ben presto, grazie alle truppe di Alessandro Magno, in tutta Europa. La parte africana della storia del Boerboel inizia nel sud dell'Etiopia, dove una tribù chiamata Cynomones impiegava grossi cani per la caccia e per la protezione di proprietà dai temutissimi animali selvatici. Come spesso succedeva, le tribù di tanto in tanto emigravano verso sud, e portavano con loro i propri cani. Nello sviluppo finale di questa affascinante razza, c'è grande incertezza su quali furono le razze canine

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impiegate. Le origini più probabili si fanno risalire nel periodo del 1652, quando un olandese, Mr. Van Riebeeck, portò con se in Africa, nella Città del Capo, un "Bullenbijiter". Successivamente arrivarono, con altri coloni europei, altri importanti cani, che col tempo si mescolarono con le razze originarie e presenti del luogo. Più tardi, nell'anno 1928, l'azienda di estrazione dei diamanti, la "De Beers", cominciò ad importare Bullmastiff in Sudafrica, al fine di proteggere e salvaguardare le preziose miniere. Questa razza fu anch'essa aggiunta quindi allo sviluppo del Boerboel. Dall'anno 1980 e con la supervisione dei varie Associazioni (S.A.B.T., H.B.S.A. e E.B.B.A.S.A.) ebbe inizio un tipo di allevamento molto più selettivo, che come risultato finale produsse il Boerboel Sudafricano, come lo conosciamo oggi. Si presume comunque che durante la selezione dell'odierno Boerboel, siano state impiegate diverse razze, come ad esempio il Mastiff, l'Alano, il Bull terrier, ed il Rhodesian Ridgeback. Vediamo adesso le caratteristiche morfologiche che contraddistinguono questa particolarissima razza africana, prendendo in esame le varie voci dello standard, che è stato recentemente redatto e reso pubblico.

Morfologia Partiamo dal suo aspetto generale: è un cane di grandi dimensioni con una muscolatura ben sviluppata e ben definita. Il Boerboel ha un fisico equilibrato, un aspetto potente grazie ad una muscolatura sviluppata. La sua grazia e la fiducia di creare un'impressione maestosa, è molto apprezzata. Le femmine sono notevolmente più piccole e meno muscolose, ma comunque devono dare sempre l'impressione di forza e apparire ugualmente muscolose. I cuccioli di Boerboel hanno una dimensione considerevole, soprattutto in confronto ad altre razze che da adulte sono la metà di loro. CORPO: Il Boerboel è un cane grande con una struttura massiccia e solida; Il tronco è muscoloso e solido. Il

petto è largo e profondo, con muscoli pettorali ben sviluppati. La schiena è dritta, larga e forte; la coda non deve essere lunga, deve presentarsi attaccata alta, robusta, larga, spessa, pelosa, e fiera. La coda può essere di colore più scuro rispetto al corpo. Il torace è ampio; le gambe sono forti, le ossa sono robuste. Arti devono avere le giuste angolazioni, unghie dure di colore nero, i cuscinetti sono neri; il collo di media lunghezza è forte e muscoloso. TESTA: La testa è molto grande, caratteristica distintiva della razza; il muso visto di fronte è ampio e si riduce un po' verso la punta del naso; la punta del naso è dritta; le labbra sono carnose, ma non devono essere troppo pronunciate o pendolanti; le orecchie sono di medie dimensioni. ALTEZZA AL GARRESE: L'altezza al garrese minima per i maschi è da 64 a circa 70 cm: le femmine devono essere di almeno di 59 cm. Non vi è alcun limite ufficiale di altezza superiore. PESO: Il peso di un Boerboel maschio e adulto si aggira intorno ai 65 - 90 kg, per quanto riguarda le femmine il peso varia, con un minimo di 61 kg sino ad arrivare a 85 kg. PELO: Corto e morbido al tatto; il sottopelo non è molto presente, anche considerando l'ambiente in cui vive. COLORAZIONI: Dal giallo chiaro al rosso scuro, dal tigrato al nero, quindi fulvo, ambra, marrone e tigrato (anche se il nero non è ufficialmente riconosciuto), può presentare anche macchie bianche, che però, tuttavia non sono ben accette; tipica maschera nera; Ogni colore degli occhi diverso dal bruno è considerato un minore difetto, tranne che per il blu che non è ammesso; la punta del naso è sempre nera. MOVIMENTO: quando si muove il Boerboel ha una andatura regolare e sciolta, esprime calma e potenza. Vediamo ora una delle caratteristiche peculiari, ossia il TEMPERAMENTO. Un esemplare tipico di Boerboel non deve presentare alcuna paura o comportamenti timidi, inoltre non deve essere eccessivamente remis-

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Esemplare di Boerboel importato in Italia - foto © Ubaldo Flamini sivo, minaccioso, o aggressivo, ma al contrario deve essere obbediente e sensibile al suo gestore. Con il padrone e i suoi cari è quindi protettivo, non espansivo. Fuori dal suo territorio abituale è serio, vigile, a testa alta fissa con sguardo interrogatorio, in casa è abbastanza attivo ma non troppo scatenato e si adatta alla vita familiare anche in appartamento senza creare grossi problemi. Quando si tratta di difendere un territorio o una persona però, il Boerboel si mostra impavido e molto determinato, leale. Ama sentirsi utile in famiglia, anche giocando con i bambini. In Danimarca il Boerboel è stato dichiarato fuori legge nel 2010 per la sua aggressività, ma in verità è un cane pacato e imperturbabile. Ha il carattere tipico dei cani primitivi, non molto esuberante, anzi, molto calmo e tranquillo ma sempre attento a tutto ciò che lo circonda. Un istinto molto territoriale resta il connotato più tipico. Sotto l'aspetto salutistico, bisogna spezzare una lancia a favore di questa razza, poiché si tratta di una tipologia di cane sano, rustico, estremamente resistente, che non necessita particolari cure, e tenendo conto che sempre di "molosso" si parla, ha una vita media piuttosto lunga, che arriva a circa 10-12 anni di età, una media alta quindi per un molossoide. Come per tutti i molossi di grande taglia, l'attenzione deve andare al monitoraggio della displasia dell'anca e

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del gomito, ed a vari altri problemi, come l'ectropion e entropion, prolasso e iperplasia vaginale, cardiopatie ereditarie. All'inizio l'interesse nei confronti di questi cani era limitato al "Suid-Afrika" ed ai Paesi limitrofi... poi pian piano sono stati esportati in altre parti del mondo. Questa razza si è sempre mantenuta in comunità isolate e ciò spiega la scarsa diffusione fino ad oggi, ma ora la possiamo considerare senza dubbio una razza emergente. Sta iniziando ad essere molto ricercato dagli appassionati dei cani da guardia, soprattutto per il suo temperamento, pur restando ancora sconosciuto alla maggior parte dei cinofili europei. E' ben difficile trovare un allevamento di Boerboel, anche se non impossibile: in Italia oggi si contano pochissimi esemplari, solo per merito di qualche appassionato che è andato a procurarselo, spendendo anche cifre considerevoli. Qualche allevamento in Europa lo si può trovare in Belgio, in Olanda o comunque nel nord Europa. Non essendo ancora ufficiale come razza, la ricerca di un allevamento e la sua certificazione è ancora più difficile. Degna di nota l'Associazione S.A.B.T. (Sud Africa boerboel breed association), che nel 1990 aveva cercato di fare ordine tra gli esemplari del momento e ne aveva sele-

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zionate ben 72 tipologie, tra Namibia, Botswana, Malawi, Zambia e Zimbabwe. Successivamente il Kennel Union of South Africa (K.U.S.A.) è riuscito ad attirare l'attenzione della Federazione Cinologica Internazionale che ancora però stenta a riconoscere lo "stato di razza" in modo ufficiale, per mancanza di alcuni requisiti, sia di omogeneità, sia di tracciabilità delle varie linee di sangue. Adesso che il Boerboel è arrivato in Italia, non tarderanno ad arrivare allevatori che lo prenderanno a mano e cercheranno di cimentarsi nella pubblicizzazione e nello sviluppo di questa "nuova" razza, che a mio avviso meriterebbe maggior attenzione, perché comunque, che lo si voglia o no, rappresenta una storia ben definita, ed è un tassello che manca nel grande palcoscenico delle razze canine. La storia dell'umanità ha portato i molossi in ogni Continente, forgiando "mastinoidi" dai diversi tratti anatomici... il molosso africano ci mancava all'appello... e quindi benvenuto a quel Mastino che vien dall'Africa.

Federico Vinattieri www.difossombrone.it

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L’instabilità proteica nei vini Vediamo a cosa è dovuta e quali sono i rimedi preventivi per evitare gli intorbidamenti in bottiglia di

Marco Sollazzo

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eppure le proteine siano generalmente in quantità bassa nel vino e contribuiscano poco al valore nutritivo, esse hanno un ruolo tecnologico ed economico importan-

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molecolare. ne (cosa molto rara) - per il fenomeNel mosto, le proteine non relazio- no sopra descritto - può non essenate ai patogeni, vengono general- re visibile al consumatore finale, in mente idrolizzate ad amminoacidi da quanto la limpidezza del vino non è parte di enzimi naturali (proteasi) e un requisito richiesto come nelle alsuccessivamen- tre tipologie di vini. te utilizzate dai Per verificare se il vino è stabile a lilieviti enologici. vello proteico sono state sviluppate Invece, le pro- diverse metodologie. Il metodo più teine relazionate comune utilizzato dalle industrie enoai patogeni (PR) logiche e accettato dalla comunità risultano insensi- scientifica è quello di filtrare un cambili agli enzimi del pione di vino come se il vino fosse vino e rimangono imbottigliato, quantificare la torbidità nel tempo dopo del vino con un strumento chiamato la fermentazione alcolica. Tali proteine Tab.1 – Fattori tecnologici che contribuiscono all’incre- sono responmento delle PR sabili dell’intorbidimento dei te perché determinano un grande vini bianchi poiché si denaturano effetto sulla chiarifica e stabilità dei lentamente, risultano instabili nel vini. Le proteine sono prodotte du- tempo per via dei pH enologici e rante la maturazione dell’uva (dopo delle ‘’temperature elevate’’, e fil’invaiatura, cioè la variazione di co- niscono per riaggregarsi, flocculore dell’acino) nella polpa e tendo- lare e creare intorbidamento del no ad essere rilasciate nella fase di vino (fig. 1). ammostamento. Una parte di queste Il problema dell’instabilità proteica proteine note come ‘’proteine rela- riguarda generalmente solo i vini zionate ai patogeni’’ (PR) è prodot- bianchi, gli spumanti e, in alcuni ta in quantità maggiore dalla pianta casi, i vini rosati, per due motivi Fig 1 - A sinistra un vino limpido dopo essere stato imbottigliato, a destra lo in risposta ad attacchi patogeni o principali: stress osmotici della pianta stessa a) il contenuto polifenolico dei vini stesso vino - torbido - risultante dall’instabilità proteica dopo alcuni mesi in (carenza idrica, nutrizionale, ecc.). bianchi è molto più basso rispetbottiglia. E’ stato studiato che l’estrazione di to a quello dei vini rossi. Infatti il queste PR è influenzata dalla me- contenuto polifenolico presente todologia di raccolta e delle lavora- nei vini rossi interagisce nel vino con nefelometro (un vino imbottigliato ha zioni enologiche principali (tab. 1). le proteine, creando dei complessi un livello di torbità inferiore a 1 NTU) Le principali proteine relazionate ai pesanti e facendole precipitare pri- e successivamente lasciare il campatogeni sono la taumatina e lachi- ma che il vino sia imbottigliato. pione di vino a bagnomaria per due tinasi, proteine acide a basso peso B) un vino rosso instabile alle protei- ore ad una temperatura di 80 gradi.

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Fig. 2 – Diversi livelli di torbidità del vino misurati con il nefelometro. La differenza tra il valore iniziale e finale dopo il test di stabilità proteica dovrebbe essere inferiore a 2 NTU per considerare il vino stabile.

Fig. 3 - Fasi d’instabilità proteica nel vino e fattori che possono provocarne l’instabilità una volta che esso è imbottigliato (Immagine di Matteo Marangon)

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Fig. 4 - In basso è riportata la dose di bentonite utilizzata in ciascuna provetta. In bianco è riportato il valore di torbidità prima del test proteico (poiché il vino deve essere prefiltrato il valore sarà sempre inferiore a 1 NTU), in nero nelle provette è riportato il valore di torbidità dopo il test a caldo (80°C per 2 ore). In questo caso la dose da utilizzare è di 0.8 g/L di bentonite, poiché è la dose minima necessaria per far precipitare le proteine senza provocare instabilità nel vino. NTU è l’unità di misura utilizzata per stabilire l’indice di torbidità di una soluzione; più il valore è alto più la soluzione è torbida (fig.2). Una volta passate le due ore, si porta il campione a temperatura ambiente e si verifica di nuovo la torbidità. Se la differenza tra la torbidità iniziale e finale è inferiore a 2 NTU allora il vino è considerato stabile, se è superiore il vino è considerato instabile. Questo è un metodo che

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permette di simulare l’instabilità proteica che può verificarsi nel vino nel corso del tempo (fig.3). Se il vino risulta instabile alle proteine presenti, allora è necessario utilizzare dei sistemi per prevenire questa instabilità in bottiglia. Il modo più comune è l’impiego della bentonite, un’argilla naturale utilizzata in ambito enologico, che si lega con le proteine e provoca la loro precipitazione prima che queste possa-

no risultare instabili. In commercio sono reperibili diverse bentoniti. Le più efficaci risultano essere quelle con un alto contenuto di sodio piuttosto che di calcio e la maggior parte di esse devono essere reidratate in acqua per 24 ore prima di poter essere utilizzate. Se la bentonite non è idratata la sua efficacia è molto minore. Per determinare il contenuto di bentonite da utilizzare nel vino, si riprocede con il test di instabilità

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proteica aggiungendo dosi crescenti di bentonite (la stessa che si andrà ad utilizzare nel vino) in diverse provette e si sceglie la dose minima da utilizzare in cui la differenza di torbidità tra il campione iniziale e finale è inferiore a 2 (fig. 4). Dato che la bentonite ha un impatto negativo sugli aromi del vino e ne può provocare una riduzione anche del 30%, la sua quantità deve essere limitata al minimo per evitare l’instabilità proteica. Se la bentonite è utilizzata nei vini rossi, ad esempio in vini poco carichi di colore dove la limpidezza può essere una caratteristica evidente al consumatore, anche qui la quantità deve essere moderata e ridotta al minimo, perché si osserva una perdita di colore all’aggiunta crescente di bentonite. Possono essere utilizzate sostanze alternative o integranti alla bentonite, come il sol di silice o i tannini, ma tali composti risultano non avere la stessa efficacia. L’aggiunta di bentonite deve essere fatta durante la risospensione del vino attraverso l’ausilio di una pompa enologica ed essa deve essere miscelata con il

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vino approssimativamente 15 minuti per ogni 100 litri di vino. Si procede poi con la filtrazione del vino per rimuovere la bentonite e le sostanze legate ad essa. Per essere sicuri della stabilità proteica del vino si riprocede con il test a caldo. Se il protocollo è stato seguito in maniera corretta il vino dovrebbe non avere problemi. In breve, per valutare se il vino è instabile alle capacità proteiche si effettua il test a caldo, se esso risulta positivo all’instabilità proteica si riprocede al test a caldo con dosi crescenti di bentonite. Determinato il valore minimo di bentonite necessario per avere la stabilità proteica si effettua l’aggiunta di bentonite nel vino, dopo averla reidratata per 24 ore. Si esegue la filtrazione del vino e quindi la rimozione della bentonite. La procedura termina con un test finale a caldo per verificare la stabilità proteica. In conclusione, il seguente articolo ha cercato di far chiarezza sul tema della stabilità proteica e di fornire gli strumenti necessari per poter intervenire sulla soluzione del problema.

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Come detto precedentemente, anche se il vino non è un’equazione matematica, il produttore deve essere capace d’identificare eventuali problemi e di pervenire ad una soluzione per arrivare alla produzione di un vino di qualità, accettato e riconosciuto dal consumatore. Sitografia (immagini) http://www.acenologia.com/english/img/ fig1_marangon_163a.jpg https://www.msrgear.com/blog/wp-content/ uploads/2015/05/science-bottles.png https://www.researchgate.net/profile/Matteo_Marangon/publication/37677872/figure/ fig1/AS:669502253580305@1536633184 721/Hypothetical-haze-formation-mechanism-in-a-bottle-of-white-wine-during-storage. jpg https://www.awri.com.au/wp-content/uploads/2019/12/NTU-Tubes-post-heating.png

Dr. Marco Sollazzo Laureato in Viticoltura ed enologia sollazzo.marco@ hotmail.it

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LE STORIE DEL CIBO Il Cavolfiore di

Pasquale Pangione

Il cavolfiore (Brassica oleracea L. var. botrytis) è caratterizzato da un'infiorescenza a corimbo, che può assumere una colorazione varia (bianca, paglierina, arancione, verde, violetta) e che costituisce la parte commestibile dell'ortaggio. La storia del cavolo è molto antica e non molto chiara. I greci e i latini ne parlavano e lo apprezzavano già mille anni prima di Cristo: è questo il periodo più probabile in cui è stato addomesticato, a partire da una specie selvatica. Per anni è stato consumato dalle popolazioni del nord, grazie al fatto che è in grado di crescere anche in ambienti dal clima rigido e, inserito nella dieta, apporta una buona dose di vitamina C. I detti popolari che riguardano i cavoli sono numerosi e leggendari; alcuni denunciano una mancanza “non capire un cavolo”, altri indicano egoismo “farsi i cavoli propri” o offesa “sei una testa di cavolo“... tutti richiamano l’umiltà e la popolarità di quest’ortaggio. E' una tra le crucifere più coltivate in Italia, diffusa soprattutto nelle regioni centro-meridionali. In Italia si affermò primariamente in Toscana, come testimoniano alcuni quadri Medicei dei primi del Settecento. Il cavolfiore ha numerose varietà, che vengono distinte in base all'epoca di maturazione, per cui vi sono varietà precocissime (raccolte ad ottobre), precoci (raccolte a novembre-dicembre), invernali (raccolte a gennaio-febbraio) e tardive (raccolte da marzo a maggio). I Romani lo utilizzavano per curare le più svariate malattie e lo mangiavano crudo, prima dei banchetti, per aiutare l'organismo ad assorbire meglio l'alcool. Il cavolo veniva coltivato in Spagna dagli arabi, che lo introdussero dalla Siria attorno al XII secolo. Nei mercati inglesi e francesi veniva commercializzato già nel 1600 e dall'Inghilterra fu portato in India all'inizio del 1800. In Italia fu fatto arrivare molto presumibilmente dai veneziani, che lo acquistavano nell'isola di Cipro e, proprio attorno a Venezia, riseminando i semi delle piante più belle, cominciò per tutta Europa il miglioramento genetico di questa pianta. Successivamente venne esportata e coltivata nel Centro e Nord del continente. Nell'antichità la famiglia delle barassicacee o crucifere, godette di una fama straordinaria non solo come alimento adatto a tutte le stagioni, crudo, cotto o conservato sotto aceto, ma anche come rimedio a una molteplicità di affezioni (comprese impotenza e ubriachezza). Catone il censore, fu un grande consumatore ed estimatore del cavolo, considerandolo il segno più tangibile della bontà dei rimedi naturali della tradizione romana, da opporre alle pericolose manipolazioni della medicina greca. Ancora pochi decenni fa nell'immaginario dei contadini l'ortaggio aveva anche una valenza simbolica particolare. Le foglie centrali del cavolo (cappuccio) venivano assimilate al sesso femminile mentre il fusto rappresenta il membro maschile. Da qui la credenza che i bambini nascessero sotto i cavoli. Oltre alle trasparenti allusioni accennate, si aggiunga che alle contadine che estraggono con le due mani con gesto roteante la "testa" da terra e tagliano la radice (il "cordone ombelicale") viene popolarmente dato il nome di "levatrici".

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LA RICETTA Cavolfiore al gratin Difficoltà: bassa - Preparazione: 40min. - Cottura: 30min. - Dosi: 4 persone Costo: basso

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l cavolfiore è uno di quegli ingredienti che si presta a infinite ricette, quindi la scelta è ricaduta su quelle più particolari, che probabilmente faranno apprezzare questo ortaggio anche ai bambini, visto che non proprio lo adorano.

Ingredienti Cavolfiore 1 (1kg circa) Prosciutto cotto 150g (facoltativo) Latte 1l Burro 50g Farina 50g Noce moscata un pizzico Formaggio grattugiato Sale qb Pepe qb Pangrattato qb

Preparazione Per prima cosa lavare e sbollentare (massimo 4 minuti) il cavolfiore. Preparare la besciamella: scaldare il latte in un pentolino. In un' altra pentola, fondere il burro, poi aggiungere la farina e cuocere (più si cuoce più è saporito) un po' di minuti mescolando con una frusta .Versarvi sopra il latte, il sale, il pepe, la noce moscata e cuocere mescolando spesso per circa 20 minuti stando attenti a non adden-

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sare troppo la besciamella. Dividere il cavolfiore a piacere (fette, cimette, cubetti ecc.), sistemarlo in una pirofila spennellata di burro, alternandolo con l'eventuale prosciutto e la besciamella. Livellare l'ultimo strato, spolverare di parmigiano e pangrattato, infornare a 190°C per 25-30 minuti e servire.

Variazioni, note e consigli Se lo si desidera più “croccante”, si può comporre la pirofila con il cavolfiore crudo. Si possono aggiungere delle patate (lesse). Si può aggiungere del formaggio filante. Si possono aggiungere: prezzemolo, curcuma, curry, timo ecc. ecc... E come dico sempre: <in cucina non vi ponete mai limiti>. Con il cavolfiore è possibile fare anche delle gustosissime "Frittelle dolci"; bollito e successivamente schiacciato con la forchetta, viene aggiunto a farina, uovo, zucchero, un pizzico di sale, una scorza grattugiata di un limone non trattato e mezza bustina di lievito per dolci. Il composto ottenuto va cotto in una padella, scaldando l'olio (preferibilmente E.V.O.), versando il composto un cucchiaio alla volta e cuocendo su entrambi i lati. Pasquale Pangione

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Piante velenose per i cavalli: conoscerle per evitarle Impariamo a riconoscere le principali specie tossiche per i nostri cavalli ed i sintomi provocati dalle loro tossine di

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Gemma Navarra e Erika Verdiani

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cavalli sono pascolatori selettivi e molto attenti, se lasciati pascolare liberi difficilmente mangiano piante per loro tossiche. Da puledri imparano a selezionare le piante pascolando insieme alla madre. In contesti forzati però, come il paddock o lunghe soste in cui il cavallo viene tenuto legato, i cavalli possono cedere alla

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tentazione di mangiare anche piante tossiche per fame o anche solo per noia. Per questo è importante che il cavaliere sappia riconoscere le piante più pericolose per evitare incidenti. Fondamentale è non legare il cavallo vicino a piante tossiche perché, annoiandosi durante la sosta, potrebbe decidere di sgranoc-

chiare quello che ha intorno anche se non ha un buon sapore. In bosco le piante più pericolose sono il tasso (Taxus baccata) e il maggiociondolo (Laburnum anagyroides), mentre in contesti antropizzati sono tossiche numerose piante ornamentali come oleandro (Nerium oleander), lauroceraso (Prunus laurocerasus) e bos-

Cavallo legato in sicurezza lontano da piante velenose

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Ambiente, foreste e natura

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Datura stramonium so (Buxus sp). Nel paddock il cavallo opera una selezione pascolando le piante a lui gradite e lasciando quelle di cattivo sapore; con il tempo rimangono solo quelle sgradite che spesso sono proprio quelle tossiche. Per precauzione sarebbe opportuno sradicare le specie tossiche. Alcune erbe tossiche che si possono trovare nei prati sono: belladonna (Atropa belladonna), elleboro (Helleborus foetidus), stramonio (Datura stramonium), senecione di San Giacomo (Jacobea vulgaris), ghittaione (Agrostemma githago), giusquiamo (Hyoscyamus niger). Oltre alle piante velenose ci sono anche piante moderatamente tossiche che normalmente i cavalli mangiano in piccole quantità senza arrivare ad intossicarsi. Queste specie, come ad esempio le felci e la robina (Robinia pseudoacacia), non costituiscono un pericolo per il cavallo a meno che non vengano mangiate regolarmente e in grandi quantità. Tenere un cavallo in un paddock popolato da queste specie è un serio rischio per la sua salute. Inoltre anche alcune piante edibili possono costituire un pericolo per il cavallo: il trifoglio (Trifolium sp.) e l’erba medica (Medicago sativa) sono specie di cui è ghiotto, ma se ingerite in grandi quantità

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possono essere seriamente pericolose e provocare coliche anche mortali. È importante anche controllare sempre la qualità dell’acqua a disposizione del cavallo, non farlo bere in corsi d’acqua che potrebbero essere inquinati e controllare che i punti di abbeveramento nel paddock siano puliti. Bidoni e vasche devono essere controllati e puliti regolarmente poiché l’acqua stagnante può sviluppare alghe e larve di insetti, e bacche velenose (come quelle del sambuco) possono cadere nell’acqua inquinandola. Può succedere che piccoli animali muoiano nell’acqua nel tentativo di bere, per questo consigliamo di mettere delle tavolette di legno galleggianti su cui possano appoggiarsi

Laburnum anagyroides

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ad altitudini tra i 300 ai 1400 m sul livello del mare. Talvolta viene usato per siepi ornamentali nei giardini. È una conifera amante dell’ombra che quindi si trova nel sottobosco. Si presenta come un arbusto sempreverde, con aghi non pungenti verde scuro disposti a spirale intorno ai rametti, il tronco è tozzo e ramoso fin dalla base, con corteccia sottile bruno-rossiccia che si sfoglia. Produce bacche rosse, che sono l’unica parte non velenosa della pianta.

Maggiociondolo (Laburnum anagyroides) Nerium oleander subsp. oleander uccellini e lucertole. L’avvelenamento può presentare sintomi molto diversi a seconda della tipologia di tossine assunte dal cavallo. È importantissimo riconoscere quanto prima i sintomi per intervenire tempestivamente chiamando il veterinario.

l’avvelenamento cercando di tenere lontani i nostri cavalli da questa pianta. Il tasso è diffuso in tutta Italia anche se non è comune. In bosco si trova sottoforma di arbusto, spesso associato a faggio, acero e agrifoglio,

Tutta la pianta è tossica, in particolare i semi, e può provocare gravi avvelenamenti anche con esiti mortali. I sintomi sono convulsioni e difficoltà respiratorie. Il maggiociondolo si trova nei boschi di querce tra gli 0 e gli 800 m sul livello del mare, è presente in tutta l’I-

Tasso (Taxus baccata) Nel tasso sono velenose foglie, rami e corteccia. La dose letale può essere anche molto piccola. Il veleno ha effetto paralizzante e il cavallo muore in poco tempo per arresto cardiaco. I primi sintomi sono mancanza di coordinamento, difficoltà respiratorie e convulsioni. Purtroppo non ci sono cure, quindi è fondamentale prevenire

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Taxus baccata

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Senecio jacobaea talia peninsulare. Si presenta come un piccolo albero con corteccia liscia e rami pendenti, le foglie sono trifogliate e a maggio produce dei bellissimi fiori gialli a grappoli.

Oleandro (Nerium oleander) Tutte le parti della pianta sono tossiche. Le tossine agiscono a livello del cuore, provocandone un eccitamento eccessivo. In alcune zone d’Italia questa pianta viene chiamata “ammazza cavallo” o “ammazza asino”. È una pianta molto usata per decorare giardini, mentre in natura si trova in ambienti sassosi o sabbiosi, lungo torrenti e fiumi. Si presenta come un cespuglio sempreverde con foglie lucide e allungate e fiori dai colori sgargianti.

Stramonio (Datura stramonium) È una pianta di sapore amaro non gradita ai cavalli che però cresce spesso nei paddock poiché ha biso-

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gno di terreni ricchi di azoto (sostanza sempre molto presente a causa delle deiezioni dei cavalli). È un’erba altamente tossica che colpisce il sistema nervoso provocando deliri, allucinazione, convulsioni, paralisi ed in fine la morte. È un’erba annuale con foglie grandi e dall’odore sgradevole, i fiori sono bianchi e appariscenti.

Senecione di San Giacomo (Jacobeae vulgaris) È un’erba di cattivo sapore che però diventa gradevole da secca; se ingerita colpisce rapidamente il fegato. Il segno più caratteristico dell’avvelenamento da senecione è la perdita di peso nonostante la regolare alimentazione; se non curato in tempo il cavallo colpito può anche morire. A causa della sua pericolosità, in alcuni paesi esistono delle sanzioni per i proprietari dei terreni che favoriscono il diffondersi di questa erba nei pascoli. È un’erba perenne diffusa

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nei prati e ai margini dei boschi, da 0 a 1500 m sul livello del mare, con fiori gialli a stella. Sitografia floraitaliae.actaplantarum.org vitainmaneggio.altervista.org equistrianinsights.it

Nelle foto i cavalli del Centro Ippico il Bosco di Rincine. Dr. ssa Erika Verdiani Guida Equestre Ambientale

Dr. ssa Gemma Navarra Guida Equestre Ambientale nvrgmm@virgilio.it

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La valorizzazione dei castagneti da frutto La produzione di castagne può rappresentare una considerevole fonte economica per certe realtà del nostro territorio; vediamo come recuperare e gestire i vecchi impianti presenti nei nostri appennini di

Marco Giuseppi

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castagneti da frutto sono stati per lungo tempo una risorsa fondamentale nell’economia dell’Appennino. Fonte di guadagno e di sostentamento per intere popolazioni montane. Giovanni Pascoli li chiamava “gli alberi del pane” ed in

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effetti è stato così per molto tempo. Oggi i castagneti rappresentano un valore inestimabile e assolvono varie funzioni. Oltre alla in fondamentale funzione produttiva soprattutto nel passato, sono sempre più frequentemente chiamati a svolgere un

ruolo focale nella protezione e conservazione del paesaggio montano e collinare, spesso in zone marginali, che permette di innescare anche fenomeni per uno sfruttamento sul piano turistico e ricreativo del territorio.

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Non meno importante è la funzione storica e socioculturale, che i boschi di castagno ed in particolare i castagneti da frutto svolgono come testimonianza della cultura dei secoli passati, dove centinaia di generazioni di popoli montani si sono nutriti, hanno sfruttato il legno e creato utensili, grazie all'utilizzo del castagno. Tali ecosistemi, che erano rimasti inalterati per secoli, hanno più di tutti subito gli effetti dei cambiamenti socioeconomici e demografici avvenuti nel secondo dopoguerra; questi hanno prodotto uno spopolamento di molti dei territori montani del nostro paese, a partire dai più marginali, con conseguente trasferimento di molte persone in città alla ricerca di nuove opportunità di lavoro favorite dall'industrializzazione. Una delle conseguenze, è stata quella dell'abbandono di molti appezzamenti produttivi di castagneti da frutto, anche considerato che circa il 75% dei castagneti da frutto italiani si trova oltre i 600m di quota e quindi lontano dai principali centri urbani. La produzione di castagne interessa la maggior parte del territorio nazionale con realtà che in Campania, Toscana, Piemonte, Emilia Romagna e Calabria assumono anche una considerevole rilevanza economica. Dopo gli anni dell'abbandono, dopo le difficoltà dovute al cinipide galligeno (che aveva abbattuto la produzione di castagne italiane fino all'80%), per il castagno da frutto si apre una nuova stagione; è necessario superare però determinate criticità, che sembrano avere caratteristiche strutturali. La castanicoltura da frutto italiana vive in una fase di alti e bassi caratterizzata però da una lenta e costante difficoltà sia sul mercato interno che sulle esportazioni. Anche il numero totale delle aziende agricole e la superficie di queste dedicata al castagno sono calate negli ultimi anni, nonostante rimanga un numero di “castanicoltori” intorno alle 40 unità. Di seguito quindi si propongono alcuni suggerimenti per il ripristino di castagneti in zone marginali e/o abbandonati da anni, un piccolo contributo per una coltivazione tanto importante per le nostre zone montane. Ovviamente la convenienza del recupero di un castagneto dovrà

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essere valutata in base ai diversi parametri (climatici, pedologici, accessibilità) che ne rendano fruttuoso l'investimento, mentre le modalità di intervento dovranno essere adattate ed il più delle volte usate in modo combinato senza pensare a questo schema come uno schema rigido. Parimenti in quelle stazioni non vocate si potrà pensare ad altre forme più adatte e quindi più redditizie per quanto riguarda una migliore utilizzazione della risorsa rinnovabile per eccellenza, “il bosco”, anche passando dalla raccolta dei frutti a diverse forme di governo che favoriscano lo sviluppo di biomassa legnosa. Gli interventi da realizzare sono la ceduazione delle ceppaie di castagno e delle altre specie presenti, l’innesto degli individui selvatici migliori, la potatura dei soggetti preesistenti e l’eventuale nuovo impianto di piante innestate. I lavori saranno realizzati in maniera scalare e sequenziale con priorità al recupero dei vecchi soggetti da frutto, al fine di giungere a produzioni minime iniziali nel breve periodo. Le principali operazioni da mettere in atto per il recupero ed il mantenimento del futuro castagneto da frutto sono di seguito elencate

Ripulitura La vegetazione arborea e arbustiva invadente sottrae luce, acqua e sostanze nutritive ai castagni da frutto. Pertanto deve essere completamente asportata, sino al ripristino dell’originario assetto del castagneto, fatto di castagni fruttiferi sopra un prato stabile. L’intervento dovrà essere attuato tagliando al piede tutte le piante indesiderate, compresi i selvaggioni, ossia i giovani castagni nati spontaneamente da seme. Questi ultimi dovranno essere lasciati solo se sani e vigorosi per colmare, con successivo innesto, gli eventuali vuoti già presenti o che si formeranno con l’abbattimento delle piante senza possibilità di recupero. Questa operazione sarà attuata nell’immediato e terminerà con la ripulitura tramite sminuzzamento e/o l’allontanamento del materiale vegetale di scarto, che costituisce una potenziale fonte di diffusione delle fitopatie. Negli anni a seguire dovrà essere

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inibito l’eventuale sviluppo di polloni dalle ceppaie delle invadenti, sino al loro esaurimento.

Taglio dei castagni da frutto irrecuperabili I soggetti fruttiferi stentati, malati e malformati, irrecuperabili ai fini pro-

duttivi, saranno tagliati ed eccezionalmente estirpati a seconda se la ceppaia è ancora in grado di produrre vigorosi e sani polloni o se invece malata e deperente. Nell’esecuzione di questo intervento dovrà essere rivolta attenzione ai valori estetici, agronomici e culturali del castagneto, dovuti all’età, alla struttura e alla varietà degli singoli alberi pertanto può essere opportuno preservare qualche soggetto assai vetusto nonostante le scarse prospettive di produzione e vita. I materiali vegetali di risulta dovranno essere distrutti tramite sminuzzamento o allontanati dall’area di intervento.

Il taglio dei castagni da frutto soprannumerari Una volta terminate le operazioni di ripulitura del castagneto e reso

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quest’ultimo accessibile, dovrà essere valutato con attenzione il numero, la collocazione e lo stato dei singoli castagni fruttiferi innestati. Allo stato attuale il sesto non è sempre regolare e le piante sono disposte secondo la morfologia del terreno. L’investimento medio ad ettaro del castagne-

ti polloni, germogli radicali che nel loro sviluppo sottraggono preziose sostanze nutritive ai rami produttivi e rendono difficoltoso l’accesso alla pianta e l’effettuazione delle potature. Vanno pertanto recisi con tagli netti, a filo del fusto o con il rilascio di brevissimi monconi, evitando in

to recuperato dovrà essere compreso tra 80 e 120 piante e tale densità dovrà essere raggiunta gradualmente intervenendo con diradamenti annuali di selezione basati anche sulla base di valutazioni personali dell’operatore castanicoltore. In presenza di vuoti, andrà colmata con il rilascio di selvaggioni da innestare o l’impianto di varietà selezionate. Gli interventi a terra si concludono con il riordino dei fusti dei singoli soggetti fruttiferi mediante il taglio dei polloni e dei succhioni.

maniera assoluta strappi o rotture.

Spollonatura Uno degli aspetti più evidenti nel castagneto da frutto in stato di abbandono è la densa fascia di getti, più o meno giovani e sviluppati, che a foggia di “corona” circonda il colletto degli alberi adulti: sono i cosiddet-

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Eliminazione dei succhioni Analogamente a quanto accade con i polloni, dalle gemme avventizie site lungo il fusto e le branche principali si possono sviluppare getti epicormici, più o meno vigorosi. Sono i succhioni, che sottraggono preziose sostanze nutritive ai rami produttivi e rendono difficoltoso l’accesso alla pianta e l’effettuazione delle potature. Il loro sviluppo è spesso più intenso in corrispondenza del punto d’innesto, dove talvolta l’anello cicatriziale è ingrossato. I succhioni collocati sopra il punto d’innesto possono essere rilasciati nel caso se ne ipotizzi uno sfruttamento per la riforma della chioma. La loro eliminazione dovrà avvenire con le stesse modalità descritte per i polloni.

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Potatura dei vecchi soggetti Lo scopo della potatura è quello di dare la giusta densità alle branche e riequilibrare lo sviluppo delle ramificazioni al fine di migliorare l’illuminazione dell’intera chioma e accrescere il vigore vegetativo e la produttività dell’albero. Solo con l’emissione di nuovi getti è infatti possibile ottenere rami fruttiferi. Con la potatura si sfrutta la naturale attitudine del castagno a rigenerare rapidamente le parti di chioma asportate, selezionando e direzionando nuovi e più produttivi rami al posto di quelli vecchi e stentati. Nell’esecuzione di questa operazione, si dovrà valutare la vigoria e le condizioni vegetative e sanitarie di ogni soggetto in reazione ai valori di densità ricordati per l’impianto. Dato che la potatura costituisce una delle maggiori voci di costo nella gestione dei castagneti, gli interventi di recupero dovranno anche considerare la possibilità di ricostituire chiome accessibili e controllabili anche da operatori non specializzati. L’intensità delle potature e l’opportunità di effettuare un intervento di drastica riduzione della chioma, con tagli sulle branche principali o addirittura sul fusto, dovrà essere attentamente valutata. Se infatti è vero che potature intense inducono nuovo vigore e produttività in castagni senescenti e scarsamente fruttiferi, in quanto le porzioni di chioma più prossime al polo radicale (zona del colletto) presentano meristemi apicali fisiologicamente più giovani e perciò capaci di produrre getti vigorosi e produttivi, è altrettanto vero che molti interventi sommariamente eseguiti potrebbero generare scarse ricadute produttive, stravolgere la fisionomia della chioma e compromettere la vitalità di ve-

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tusti e monumentali castagni.

Potatura di rimonda Il primo scopo dell’intervento di potatura è quello di eliminare tutte le parti morte e morenti dell’albero. Questa operazione, detta di mondatura, si prospetta relativamente lunga ed onerosa per la mole di materiale da asportare, localizzato per lo più nelle parti più distali della chioma. Questa operazione dovrà essere effettuata contestualmente alla potatura delle branche vive. Oltre alle parti morte dovranno essere asportate quelle più senescenti e ammalate, senza alcuna prospettiva di ripresa. Il materiale di risulta dovrà essere allontanato e distrutto.

Potatura di riduzione (ringiovanimento) È un intervento straordinario che riguarderà soggetti produttivi che da tempo sono privi di cure colturali e dovrà essere effettuato contestualmente alla rimonda del secco. Su tali soggetti dovrà essere preservato quanto più possibile la struttura dell’albero, evitando di intervenire sulle branche di I e II ordine, se non danneggiate, abbassando la chioma, valorizzando le impalcature più basse e favorendo la migliore illuminazione di tutti i rami.

Potatura di riforma (ristrutturazione, regolarizzazione) Con questo intervento si regola lo sviluppo della chioma dopo il taglio di riduzione o ringiovanimento. Dovrà essere eseguito a 2-3 anni dall’intervento principale al fine di selezionare i getti più sani e vigorosi, oltre che meglio disposti, i quali costituiranno la struttura periferica della nuova chioma.

Potatura di mantenimento (alleggerimento, sfoltimento) Questo intervento dovrà essere effettuato ogni 3-5 anni, su piante ben strutturate ed equilibrate, quando i getti annuali riducono il vigore vegetativo e presentano una lunghezza inferiore ai 20 cm. Si opera con la tecnica del taglio di ritorno e l’asportazione di quelli secchi e malati, selezionando e favorendo l’insolazione dei rami più produttivi al fine di regolare la fruttificazione ed aumentare la pezzatura dei frutti, evitando fenomeni di alternanza. La regolare esecuzione del taglio di mantenimento eviterà la realizzazione di interventi straordinari di riduzione.

Capitozzatura Quando le parti morte dell’albero sono numerose e le parti vive risultano distribuite in maniera irregolare, con un forte sbilanciamento dell’albero, si dovrà optare per la completa ricostituzione della chioma mediante capitozzatura. Si tratta di un’operazione drastica, da attuare solo come estremo tentativo di recupero di soggetti meritevoli, procedendo all’asportazione totale della chioma con un taglio direttamente sul fusto, sopra il punto d’innesto. La capitozzatura provoca il riscoppio di una fitta vegetazione su cui in seguito, con cadenza almeno triennale, dovrà essere effettuata un’opera di selezione e diradamento.

Dott. Marco Giuseppi Agronomo forestale marco.giuseppi@ gmail.com

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La Filiera Corta: definizione e legislatura di

Mauro Bertuzzi

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a filiera corta è una filiera produttiva caratterizzata da un numero limitato e circoscritto di passaggi produttivi, e in particolare di intermediazioni commerciali, che possono portare anche al contatto diretto fra il produttore e il consumatore (wikipedia). In pratica attraverso un legame diretto fra chi produce e

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chi consuma, questo tipo di attività vuole garantire mediante un link ben evidente, una trasparenza delle informazioni in termini di luogo di origine e processo, apportando allo stesso tempo il giusto mix fra qualità ed economicità. Fin dal 1982, il legislatore normò il Codice del Commercio per la ven-

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dita diretta delle produzioni agro-alimentari compiuta direttamente dal produttore primario (agricoltore), attribuendole una propria autonomia rispetto al commercio tradizionale. Da qui ebbe inizio il commercio diretto fra produttore e consumatore, anche se, in maniera totalmente diversa rispetto a oggi. Il quadro legi-

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slativo nel corso degli anni si articolò poi di nuove leggi e normative che ne disciplinarono l’attuazione fino a ad arrivare allo stato attuale; le leggi recenti più importanti di questo iter furono: 1) Articolo 4, decreto legislativo 18 maggio 2001, n. 228 che stabilì che gli imprenditori agricoli, singoli, associati, oppure gli enti e le associazioni che intendevano vendere direttamente prodotti agricoli o prodotti derivati, potevano vendere direttamente al dettaglio, su tutto il territorio Nazionale i prodotti provenienti in misura prevalente dalle rispettive aziende, osservando però le disposizioni vigenti in materia di igiene e sanità. 2) Articolo 10, legge 20 febbraio 2006, n. 96, Disciplina dell’agriturismo, che andò ad estendere l’applicazione dell’art. 4, del Decreto legislativo del 18 maggio 2001 n. 228 ai prodotti propri dell'azienda agrituristica, tal quali o trasformati, ed ai prodotti tipici locali venduti dalle stesse imprese agrituristiche. 3) Articolo 1, comma 1065, legge 27 dicembre 2006, n. 296 (finanziaria

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per il 2007) che al fine di promuovere lo sviluppo dei mercati dell’aziende agricole a vendita diretta, il Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali stabilì i requisiti minimi e gli standard per la realizzazione dei mercati per quanto concerne gli aspetti legati alle modalità di vendita, alla trasparenza dei prezzi e alle condizioni per poter beneficiare degli interventi previsti dalla legislazione in materia 4) Articolo 30-bis del “Decreto del fare” (Decreto legislativo n. 69/2013 e successive modifiche) andò a modificare l’articolo 4 del Decreto legislativo 228/2001 per quanto riguarda la vendita diretta in forma itinerante apportando delle semplificazioni, la più importante è la comunicazione per l’inizio attività al Comune che non venne più ritenuta necessaria per queste condizioni: a. per la vendita al dettaglio esercitata su superfici aperte nell’ambito dell’azienda agricola; b. per la vendita diretta esercitata durante le sagre, le fiere e le manifestazioni a carattere religioso, benefico o politico o di promozione di

prodotti tipici o locali; c. per la vendita diretta mediante commercio elettronico (e-commerce), si può procedere contestualmente all’invio della comunicazione al Comune del luogo dove ha sede l’azienda di produzione. 5) Legge 158/17 ossia nel pacchetto misure per il sostegno e la valorizzazione dei piccoli comuni e disposizioni per la riqualificazione e il recupero dei centri storici dei medesimi comuni, fu inserita la promozione e la vendita di prodotti che provengano da filiera corta o a chilometro utile. Negli ultimi anni sono state realizzate dal Parlamento alcune riforme organiche nel settore agricolo e agroalimentare, in materie diverse, nello specifico è stata approvata dall'Assemblea della Camera, il 17 ottobre 2018, la proposta di legge C.183, recante norme per la valorizzazione e la promozione dei prodotti agroalimentari a filiera corta e a chilometro zero. I punti salienti di questa proposta legislativa sono: a) Articolo 1 definisce le finalità: esse consistono nella promozione

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della domanda e dell'offerta dei prodotti e nel garantire una adeguata informazione al consumatore sulla loro origine e specificità. b) Articolo 2 fornisce le definizioni di prodotti agricoli e alimentari a chilometro zero provenienti da filiera corta. c) Articolo 3, comma 1, prevede che, in caso di apertura di mercati agricoli di vendita diretta in aree pubbliche, i comuni possano riservare agli imprenditori agricoli che vendono prodotti a chilometro zero o a filiera corta appositi spazi all'interno delle aree del mercato. d) Articolo 4 previo accordo fra i Ministeri delle Politiche Agricole, Economia e Sviluppo economico, l’istituzione di un logo "chilometro zero o utile" e il logo "filiera corta" da utilizzare in luoghi di vendita diretta, mercati a km0, esercizi commerciali e di ristorazione. e) Articolo 5 interviene sul Codice dei contratti pubblici e più precisamente sull'articolo 144, sostituendolo. Viene previsto che l'utilizzo dei prodotti a chilometro zero o provenienti da filiera corta vengano considerati, a parità di offerta, criterio di premialità rispetto agli altri prodotti di qualità, quali i prodotti biologici, tipici o tradizionali, i prodotti a denominazione

protetta e quelli provenienti dall'agricoltura sociale. f) Articolo6 prevede che, salvo che il fatto non costituisca reato, l'operatore che immetta sul mercato prodotti agricoli e alimentari violando quanto prescritto dall'articolo 2, o utilizzando il logo di cui all'articolo 4, in assenza dei requisiti di cui all'art. 2, verrà punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 1.600 euro a 9.500 euro. g) Articolo 7 prevede: al comma 1, l'abrogazione del comma 2 dell'articolo 11 della legge 6 ottobre 2017, n.158, ossia, che, ai fini della dimostrazione del limitato apporto delle emissioni inquinanti, il Ministero dell'ambiente d'intesa con il Ministero delle politiche agricole, stabilisca i criteri e i parametri che i produttori agricoli e agroalimentari dovranno osservare per attestare il possesso di tale requisito da parte delle relative produzioni a chilometro utile. Conoscere la legislazione rappresenta quindi un tassello basilare, visto che la vendita diretta figura come un fenomeno molto importante per l’agricoltura italiana, così come rilevato dal Censimento dell’agricoltura del 2010 (ultimo censimento ufficiale), dove il numero di aziende che utilizzano normalmente questo ca-

nale è pari ad oltre 270.000 unità; sempre secondo questo studio la vendita diretta è praticata dal 26% delle imprese agricole che immettono il proprio prodotto sul mercato (cioè circa 1 milione di aziende, escluse quelle che producono esclusivamente per l’autoconsumo) con differenze significative a seconda della tipologia di produzione prevalentemente venduta; nel caso di prodotti trasformati la vendita diretta viene effettuata dal 76% delle aziende, mentre per le vendite di produzioni vegetali tale canale viene utilizzato solo dal 15% di esse; Per le vendite di prodotti animali invece, la percentuale di quelle che utilizzano la vendita diretta è pari al 25%. La vendita diretta (https://maurobertuzzi.jimdofree.com/attivit%C3%A0/ la-filiera-corta/) oggi giorno è un canale che se ben sfruttato può rappresentare un business sempre maggiore per le aziende agricole, questo grazie anche ai nuovi canali digitali come l’e-commerce. Dr. Agronomo Mauro Bertuzzi bertuzzimauro@ hotmail.com


Progetti di aiuti europei oltre la pac di Ivano

Cimatti

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re parlamentari europei, Paolo De Castro, Irène Tolleret e Anne Sander hanno scritto al Commissario Europeo alla Salute, Stella Kyriakides per rammentare l’estrema rilevanza ed importanza per l’agricoltura europea delle Tea Tecnologie di evoluzione assistita, detto anche Nbt, new breeding technique. Il punto di partenza della comunicazione è quanto asserito da Céline Duroc, il direttore generale dell'associazione francese dei produttori di mais, intervenuta ad un recente evento sulla gestione integrata dei parassiti e la protezione delle piante

Ambiente, foreste e natura

la quale ha affermato che l'Europa raggiungerà presto una "impasse tecnologica nell'agricoltura" che richiederà tutte le soluzioni innovative che abbiamo a il nostro smaltimento, comprese nuove tecniche di selezione vegetale (NPBT). Inoltre che il regolamento che circonda le NPBT è "vago e inappropriato" per la "transizione ecologico-tecnologica necessaria" in agricoltura. Gli agricoltori hanno già fatto molta strada grazie alle riforme della PAC, sebbene la loro immagine continui a essere danneggiata dal persistente fenomeno dell'agri-bashing, (ovvero la denigrazione mediatica della

figura dell’agricoltore). Tutto questo sta causando incertezza nella comunità agricola. Paolo De castro, fra l’altro che la strategia Farm to fork, nell’ambito del programma europeo Green Deal è l’occasione di fornire alternative concrete all’uso della chimica in agricoltura e sopra tutto che i geni NBT in verità non sono OGM. I tre deputati ritengono che l'Unione europea dovrebbe guidare la corsa all'innovazione e dovrebbe stabilire un quadro per garantire la certezza del diritto nel campo delle tecniche di allevamento innovative». Innanzitutto i tre deputati europei, membri della commissione per l'a-

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gricoltura al Parlamento europeo, si sono congratulati per la decisione di presentare una comunicazione sulle tecniche innovative di breeding nel 2021. La Commissaria si era infatti espressa sin dall’inizio del 2020 in favore dello sblocco di queste biotecnologie di precisione, attualmente penalizzate da un’interpretazione che le accomuna agli ogm dal punto di vista normativo, in relazione anche agli obiettivi dichiarati dal Green Deal e dalla strategia From Farm to Fork. Siamo pienamente consapevoli della necessità di promuovere la conversione degli agricoltori verso pratiche più rispettose dell'ambiente, al fine di rafforzare il loro contributo al raggiungimento dell'obiettivo di neutralità del Green Deal ed inoltre che “Esistono nuove tecnologie e non possiamo ignorarle, perché sarebbe controproducente, tanto più perché se non cogliamo queste opportunità, altre lo faranno al nostro posto. Se vogliamo rimanere competitivi, dobbiamo andare avanti ed esplorare tutte le strade a nostra disposizione. I quali hanno Tuttavia, Sander ha avvertito che ciò è costoso sia in termini di capitale finanziario che umano e che questa necessità di investimenti e formazione per i nostri agricoltori deve essere presa

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in considerazione nella strategia della Commissione. «L'attuazione del Green Deal – ricordano - può portare a perdite significative di produttività e reddito per gli agricoltori negli anni a venire a causa dei nuovi obiettivi dell'UE in termini di riduzione dei prodotti chimici e dei terreni agricoli». «Tuttavia, in combinazione con lo sviluppo dell'agricoltura digitale, tecniche di allevamento innovative e più sostenibili potrebbero aiutare gli agricoltori a compiere la transizione ambientale evitando forti conseguenze economiche che possono derivare dagli obiettivi fissati nelle strategie Farm to Fork e Biodiversità». «Tuttavia, il bilancio dell'Ue dedicato all'agricoltura è rimasto fermo e questa situazione potrebbe tradursi in ulteriori perdite di competitività per gli agricoltori europei». La missiva alla Commissaria ricorda come la modernizzazione sia un obiettivo trasversale importante nella nuova riforma della PAC, «ma non può essere raggiunta se l'UE chiude un occhio sull'innovazione e, più precisamente, sull'applicazione di nuove tecniche per migliorare la resilienza delle colture». Le Tea sarebbero secondo gli scriventi uno strumento efficace. «L'A-

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genzia europea per la sicurezza alimentare (EFSA) ha appena valutato che alcuni nuovi metodi non presentano più rischi rispetto all'allevamento convenzionale». «Gli esperti hanno evidenziato i vantaggi di queste tecniche in quanto possono rafforzare la resilienza delle piante contro la siccità e le malattie. In questo modo, consentirebbero agli agricoltori di ridurre il volume degli input agricoli e, quindi, accelerare la loro transizione ambientale». I tre mittenti concludono sottolineando la necessità di ascoltare la voce degli scienziati di tutto il mondo. «L'Unione europea dovrebbe essere in prima linea nell'innovazione per affrontare il cambiamento climatico. Alcuni importanti partner commerciali dell'UE hanno già compiuto passi significativi in questa direzione e in futuro i produttori europei dovrebbero competere a condizioni diseguali con i produttori di paesi terzi».

Avv. Ivano Cimatti ivan_cimatti@ hotmail.com

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Dall'Agrario di Firenze al Sant'Anna di Pisa L’ascesa di Giulio Masseti: un percorso alla conquista del proprio futuro

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Speciale Istituti d’Italia

alvolta capita di essere testi- anno, gli ha consentito di partecipa- Sant'Anna di Pisa, classificandosi moni di eventi che confortano re e vincere la Gara nazionale dei primo nella graduatoria generale di valori appartenenti all'immagi- periti agrari che si è svolta presso merito, dopo un lungo percorso di nario collettivo e che, tuttavia, non l'Istituto “A. Parolini” di Bassano del selezioni ed esami che ha visto la di rado, scontrandosi con le difficoltà Grappa (Vicenza) nell'aprile 2019. partecipazione dei migliori studenti del quotidiano, rischiano di essere Tale evento, promosso dal Ministero d'Italia. Soltanto quattro i posti diignorati. Ad esempio, il valore attribuito allo studio come veicolo di conquiste, di libertà intellettuale, di crescita individuale e di investimento per il proprio futuro professionale. Se è vero, come è vero, che lo studio ha una fondamentale valenza formativa ed è un meraviglioso strumento per evadere dalla gabbia a cui l'ignoranza ci condanna, Giulio Masseti è stato protagonista di un'evasione sorprendente, degna degli onori della cronaca, come questo articolo vuole testimoniare. Giulio, assecondando la sua passione per l'agricoltura e l'ambiente, ha frequentato l'Istituto Tecnico agrario di Firenze, diplomandosi col massimo dei voti nell'anno scolastico 2019-2020. Un percorso durante il quale ha Giulio Masseti con la DS del “Parolini” di Bassano, dott.ssa Anna Rita Marchetti e il prof. Salvaterra - (foto prof. Luca Marchetti I.I.S. "Viola-Marchesini" - ITA "O. Munerati") dimostrato una tenace disponibilità nei confronti dello studio delle discipline sia dell'Istruzione, vedeva in concorso sponibili per la classe Accademica di tecniche che umanistiche. Il deside- i 50 migliori studenti dei vari istituti Scienze Sperimentali-Scienze agrario di capire e di andare oltre, con un tecnici agrari nazionali. rie e Biotecnologie agrarie. atteggiamento onnivoro nei confron- Dopo l'esame di maturità, ha su- Davvero un grande traguardo che ti del sapere, è stato il fil rouge del perato il Concorso di ammissione premia la sua capacità ed apre la periodo passato nell'Istituto agrario. degli Allievi Ordinari a.a. 2020-21 strada a future aspirazioni, garanUn impegno che, durante il quarto alla Scuola universitaria Superiore tendogli una borsa di studio, con la

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quale formarsi in maniera gratuita, e l'ospitalità in una delle strutture dove l'Università accoglie gli studenti fuori sede. Questa condizione gli permetterà di concentrarsi sullo studio e di sfruttare a pieno sia un'offerta d'eccellenza ricca di stimoli e contenuti

sia un'esperienza importante di vita collegiale. La Scuola Superiore Sant'Anna è un ateneo pubblico a statuto speciale che il ranking appena pubblicato da THE (Times Higher Education), e relativo alle università fondate da

meno di 50 anni, pone al quarto posto al mondo. A conferma dell'eccellente qualità, gli allievi, ad integrazione dei Corsi di Laurea dell’Università di Pisa, partecipano ad attività formative altamente qualificate. Programmi didattici avanzati, accompagnati da periodi di studio all’estero e di stage presso enti ed aziende. Il caso ha voluto che proprio il compagno di camera di Giulio a Bassano del Grappa, lo studente del tecnico agrario "Duca degli Abruzzi" di Elmas (Cagliari) Giuseppe Melis, si sia classificato secondo alla selezione del Sant’Anna, permettendo anche a lui l’ingresso con borsa di studio nella prestigiosa scuola superiore. Sono molti i professori, professionisti, imprenditori e amministratori della cosa pubblica affermati che provengono dalla Scuola Superiore di Sant'Anna. Giuliano Amato, figura di spicco della politica ed economia, a conferma del prestigio della struttura, è il Presidente Onorario dell'Associazione ex Allievi. Da orgogliosi insegnanti di Giulio, abbiamo voluto segnalarne il percorso sinora svolto e l’esempio positivo che rappresenta, augurandogli di continuare ad investire sulla propria crescita umana e culturale. Buona vita. Maura Gori Insegnante di Lettere presso l'Istituto Tecnico agrario di Firenze

Marco Salvaterra Insegnante di Estimo ed Economia agraria presso l’Istituto Tecnico agrario di Firenze

Giuseppe Melis e Giulio Masseti

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Studiare Agraria alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa Istituita nel 1987, garantisce ai suoi allievi una borsa di studio completa di vitto, alloggio, contributi didattici e tutta una serie di servizi utili agli studenti

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a Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa è un istituto universitario pubblico e gratuito fondato sulla valorizzazione del merito e del talento. È stata istituita nel 1987 come ente universitario dotato di personalità giuridica, autonomia amministrativa e disciplinare. Gli ambiti di studio e di ricerca della Scuola includono il settore di Scienze Agrarie e Biotecnologie Vegetali. Gli allievi del Sant’Anna sono iscritti ai Corsi di Laurea dell’Università di

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Pisa (a scelta fra Scienze Agrarie, Viticoltura ed Enologia, Scienze Naturali e Ambientali e Biotecnologie) a cui affiancano, presso la Scuola, un percorso di formazione parallelo e complementare impostato su criteri di merito e profitto individuale; esso è favorito dall’alta qualità delle attività didattiche, dall’avvicinamento precoce alla ricerca, da programmi di scambio con le istituzioni universitarie più prestigiose a livello nazionale e internazionale, dalla promozione

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di tirocini presso aziende ed enti pubblici italiani e stranieri. La programmazione didattica dei Corsi Interni è ispirata a principi di marcata interdisciplinarità, mediante il coinvolgimento di saperi diversi. I Corsi possono prevedere la partecipazione di docenti esterni, scelti tra gli studiosi del tema provenienti dalle più prestigiose realtà accademiche italiane e straniere. Il Sant’Anna garantisce ai suoi allievi una borsa di studio completa di vit-

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to, alloggio, contributi didattici e tutta una serie di servizi utili agli studenti: biblioteca, aule studio, palestra e

quali possono affiancare i loro docenti e tutor in esperienze e tirocini utilizzando i macchinari più moderni

molto altro. L’esperienza collegiale, nella quale è continuo il confronto con colleghi, ricercatori e docenti, arricchisce l’esperienza di studio con competenze relazionali e soft skills:

e le tecniche più avanzate. Le linee di ricerca di cui si occupa il settore di Scienze Agrarie e Biotecnologie Vegetali spaziano dal campo delle agrobioscienze, dell’ecologia, della genetica agraria, fino allo studio di entomologia e microbiologia applicate all’agricoltura. Studiare al Sant’Anna vuol dire essere a stretto contatto con docenti di alto livello: il settore di Scienze Agrarie e Biotecnologie Vegetali può contare su sei professori ordinari, tre associati e diversi ricercatori. Tra questi c’è il professore ordinario di genetica agraria Mario Enrico Pè, attuale Preside della Classe di Scienze Sperimentali, nonché Presidente della Società

autonomia, adattabilità, capacità di pianificare e organizzare e problem solving. Le opportunità di studio/formazione all’estero e le esperienze in azienda o centri di ricerca potenziano il curriculum di studi e forniscono gli elementi distintivi per affrontare la scelta del proprio futuro professionale con consapevolezza e gli strumenti richiesti dal mondo del lavoro. In questa “comunità educante” si sviluppano naturalmente le competenze necessarie per affrontare le sfide di un mondo del lavoro, sempre più complesso e internazionale. Anche i laboratori all’avanguardia della Scuola Superiore Sant’Anna sono a disposizione degli allievi, i

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Italiana di Genetica Agraria (SIGA). Le ricerche del professor Pè sono focalizzate sul miglioramento del profilo genetico del frumento etiope attraverso breeding, mirando alla salvaguardia della fragile produzione alimentare in Etiopia, minacciata dai cambiamenti climatici. L’ex-Rettore della scuola, il professore Pierdomenico Perata, è tra i maggiori esperti italiani di Fisiologia Vegetale e Biologia delle piante, ed è Presidente della Società Italiana di Biologia Vegetale e socio dell’Accademia Nazionale delle Scienze detta dei XL. Il professor Perata ha tra i suoi numerosi successi scientifici lo sviluppo, tramite tecniche di incrocio tradizionali, di una nuova varietà di pomodoro (Solanum lycopersicum) caratterizzata da un alto contenuto di antocianine, importanti molecole antiossidanti con effetti benefici sulla salute. Pur essendo molto giovane, il Sant’Anna occupa le prime posizioni nei ranking nazionali e internazionali: per il Times Higher Education World University Rankings 2020 (THE) la Scuola è al 2° posto a livello nazionale e al 4° posto a livello mondiale tra le università con meno di 50 anni. Per studenti brillanti e fortemente motivati, la Scuola Superiore Sant’Anna è un’opportunità unica! Contatti: www.santannapisa.it www.studiarealsantanna.it Instagram: @studiarealsantanna Facebook: @scuolasuperioresantanna

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Chi siamo

Associazione di Agraria.org

L’Associazione di Agraria.org è stata costituita nel 2013 da un gruppo di giovani laureati in Agraria, Scienze Forestali e Veterinaria. Fin dalla sua fondazione, grazie all’impegno dei tantissimi associati sparsi per tutta Italia, ha promosso ed organizzato numerose iniziative per diffondere le conoscenze riguardanti pratiche agricole ed agro-alimentari sia a scopo amatoriale che professionale, supportare le piccole realtà agricole nella promozione della loro attività attraverso la vendita diretta, favorire l’inserimento dei diplomati e laureati del nostro settore e la crescita delle aziende agricole associate.

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Promozione attività dell'associazione

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Cosa facciamo La rivista TerrAmica ha tra i suoi molteplici scopi anche quello di promulgare le attività svolte e da svolgere della nostra Associazione, dando risalto, soprattutto in questo spazio, alle iniziative che i nostri soci ed amici portano avanti sui territori. Le attività si sono incentrate nel territorio toscano e fiorentino in particolare; vista la maggior presenza di associati in queste zone, infatti, sono stati svariati gli eventi organizzati, tutti incentrati su uscite di gruppo che hanno unito passeggiate tranquille con momenti didattici e culturali su temi agricoli, forestali ed ambientali.

Escursioni guidate nei parchi cittadini

Spazio Associazione di Agraria.org


Alcuni incontri a tema organizzati dall’Associazione per gli iscritti Esperti dell’Associazione, in particolare laureati in Scienze Forestali e Ambientali, hanno guidato con passione e professionalità le tante persone accorse alle uscite orga-

Vecchio, nell’ambito delle iniziative per la Festa dell’Albero del 21 dicembre scorso. A tal proposito occorre ringraziare nuovamente il Vicesindaco Alessia Bettini ed il Comune di Firenze per il riconoscimento consegnatoci: che sia di buon auspicio per le future iniziative che l’Associazione svolgerà sul territorio, per una sempre maggior consapevolezza sull’ambiente, la natura e le attività agricole che convivono a due passi dalle nostre case. Infine una notizia che potrà maggiormente interessare i Dottori Agronomi e Dottori Forestali iscritti agli Ordini professionali: per questa rivista, così come per la Rivistadiagraria.org, siamo in fase di richiesta di accreditamento presso il Conaf (Consiglio dell’Ordine Nazionale dei Dottori Agronomi e Dottori Targa di ringraziamento ricevuta dall'Associazione di Agraria.org da parte dell'Assessora- Forestali) per il riconoto all'Ambiente del Comune di Firenze scimento dei crediti formativi ai professionisti nizzate insieme allo Sportello EcoEquo dell’Assessorato che scrivono articoli. Tra gli scopi principali della nostra all’Ambiente del Comune di Firenze ed alle tante altre Associazione, infatti, vi è proprio quello di promuovere associazioni che ne fanno parte. I percorsi hanno variato la diffusione delle conoscenze del settore, anche tra i per i maggiori parchi e giardini della città, comprendendo tecnici professionisti che quotidianamente ci lavorano; spazi verdi comuni rinomati per storia e frequentazione: pensiamo infatti che sia molto utile per tutti coinvolgere il Parco delle Cascine, il Parco dell’Anconella ed il Giar- sempre di più nelle nostre attività i professionisti del setdino di Boboli. tore agricolo, che quotidianamente svolgono, tra gli altri Grazie a queste iniziative portate avanti durante tutto il compiti, il ruolo di “ponte” tra chi fa ricerca e chi lavora (è 2018 e 2019, il Comune di Firenze, in particolare l’As- proprio questo il caso) in campo, che per questo possosessorato all’Ambiente, ha voluto premiare la nostra no essere in grado di promuovere conoscenze, iniziative Associazione con una targa di ringraziamento, che è e pratiche innovative per migliorare il lavoro e quindi la stata consegnata nel Salone dei Cinquecento in Palazzo quotidianità, di tutti noi.

Spazio Associazione di Agraria.org

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Come associarsi



Agraria.org a g r i c o l t u r a

a

p o r t a t a

d i

c l i c k

Sei un allevatore? Iscriviti gratuitamente nel catalogo allevamenti: http://allevamenti.agraria.org/ Sei un libero professionista del settore agrario o forestale? Iscriviti gratuitamente nel catalogo professionisti: http://professioni.agraria.org/ Hai un’azienda agricola e vendi direttamente i tuoi prodotti? Iscrivila gratuitamente nel catalogo per la Filiera Corta: http://aziende.agraria.org/


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