IL MAESTRO DELLA TELA JEANS. UN NUOVO PITTORE DELLA REALITÀ NELL' EUROPA DELLA FINE DEL XVII SECOLO

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un nuovo pittore della realtà nell’europa della fine del xvii secolo

Il Maestro della tela jeans Galerie Canesso



un nuovo pittore della realtà nell’europa della fine del xvii secolo

Il Maestro della tela jeans


Si ringraziano vivamente coloro che hanno contribuito alla realizzazione della mostra e del catalogo: Giulio Alaimo, Roberta Bartoli, Olivier Beaufils, Dominique Canesso, Roberto Contini, Frank Dabell, Francesca del Torre, Martina Fleischer, Arturo Galansino, Sabine Haag, Fabrizio Lemme, Laura Marazzi, Elisabeth Martin, Agostinho Morais, Camilla Mosconi, Loredana Pessa, Paolo Scotto di Castelbianco, Alexandra van Dongen, Nathalie Volle, Christian Witt-Dörring, Luigi Zanzi. Coordinazione editoriale: Véronique Damian Traduzioni: Roberta Bartoli, pp. 7, 9-14; 30-61 Concezione grafica: François Junot Fotolito e stampa: Imprimerie Legovic – settembre 2010

© Galerie Canesso, 2010 ISBN 978-2-9529848-5-0

Ambasciata  d’ Italia Parigi


un nuovo pittore della realtà nell’europa della fine del xvii secolo

Il Maestro della tela jeans

A cura di Gerlinde Gruber Da un progetto di Véronique Damian, Francesco Frangi, Gerlinde Gruber e Alessandro Morandotti Sotto il patrocinio dell’ Ambasciata d’Italia a Parigi Paris, Galerie Canesso, 16 settembre – 6 novembre 2010

Galerie Canesso



Sommario

7

Il mistero del Maestro della tela jeans

maurizio canesso

9

La passione del jeans

franois girbaud

10

Un artista anonimo, il cosiddetto Maestro della tela jeans: un pittore della realtà in Lombardia

gerlinde gruber

16

Il Maestro della tela jeans: un nuovo pittore della realtà

22

francesco frangi e alessandro morandotti

Il Maestro della tela jeans e il fascino del blu

marzia cataldi gallo

Catalogo

30 32 34 36 52 54

Michael Sweerts (cat. 1) Eberhard Keilhau (cat. 2) Evaristo Baschenis (cat. 3) Le Maître de la toile de jeans (cat. 4-12) Giacomo Francesco Cipper (cat. 13) Giacomo Ceruti (cat. 14-15)

58

Bibliografia



Il mistero del Maestro della tela jeans maurizio canesso La mia storia con il Maestro della tela jeans è iniziata nel 2004, quando per la prima volta acquistai a un’asta di New York un dipinto di questo artista, Il Barbiere. Presentato nel catalogo di vendita come di scuola napoletana, era in precedenza proprietà di Wildenstein, dove veniva ritenuto opera di un pittore lorenese. Molto tempo dopo, quando stavamo cercando di scoprirne l’autore, Alessandro Morandotti ci segnalò una copia del quadro al Museo Baroffio del Sacro Monte di Varese che, ironia della sorte, è anche la mia città natale. Da qui comincia la vera ricerca. Nel 2006 compare il saggio di Gerlinde Gruber sulla rivista “Nuovi Studi”, dove tutto il catalogo del pittore è riunito sotto il nome di comodo di Maestro della tela jeans: l’articolo della studiosa attirò la mia curiosità, suscitando in me il desiderio di comprendere meglio, di approfondire il poco che sappiamo su di lui. Ho comperato in seguito la Donna che cuce e due bambini (di cui un’altra versione si trova alla Fondazione Cariplo di Milano), quindi i due quadri della collezione Koelliker che ho trovato disponibili sul mercato. Partendo da questi quattro dipinti, mi è sembrata interessante l’idea di organizzare un’esposizione sull’artista e, proseguendo su tale via, di riunirne tutte le opere note. Restavano ancora da rintracciare i due quadri pubblicati da Eeckhout nel 1960 come in una collezione a Imperia (Genova), senza altre precisazioni. Mi misi sulle loro tracce e arrivai a un bed and breakfast di Imperia dove, in effetti, essi stavano a decorazione delle pareti in mezzo ad altre pitture. Forte di questa scoperta, avrei desiderato ritrovare anche il dipinto già in collezione Cucchi, ma in questo caso i miei sforzi sono risultati vani. In sei anni, ho acquistato tutto quanto era disponibile, e oggi noto, del Maestro della tela jeans. Dalle sue pitture, così riunite, si sprigionano una grande forza espressiva e un mistero accentuato dall’esistenza di repliche. Il solo legame tra tutte queste scene si trova nella rappresentazione del blue jeans, questo tessuto universale che è ancora oggi tra i più utilizzati nel mondo. Desidero esprimere la mia gratitudine a Sua Eccellenza l’Ambasciatore d’Italia a Parigi, Giovanni Caracciolo di Vietri, per aver contribuito alla realizzazione di questa iniziativa.


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La passione del jeans franois girbaud Non ho mai accettato il fatto che il jeans sarebbe nato a Genova secondo gli italiani e a Nîmes secondo i francesi. Ho contribuito a far circolare questo dubbio per quarant’anni, perché ero convinto che questa tela fosse nata nelle filande di Amoskeag nel New Hampshire nel 1831. E’ una bellissima leggenda che mi ha sempre affascinato e che ha suscitato discussioni tra gli esperti. Ho dedicato tutta la vita alla ricerca per tentare di addomesticare questa molecola che si ossida quando esce dal suo bagno di indaco. La scoperta del Maestro della tela jeans – artista anonimo attivo nell´Italia del Nord – e delle sue opere scuotono ora tutta la nostra vita di ricerche. Dunque non siamo stati noi a inventare lo Stonewash e certi tintori conoscevano questo segreto già nel XVII secolo? Sotto Filippo il Bello, i Catari perseguitati, che possedevano la scienza di trasformare i metalli in oro, hanno forse passato la frontiera per arrivare a Chiesa? Tutto questo spiegherebbe senza dubbio il segreto della “tela Genova” (Genova sarebbe dunque diventata “jeans”) e sulla via di questi “impuri”, risalente forse al XV secolo, svelerebbe la traccia della tela di Nîmes (“denim”). Il jeans ha fatto il suo ingresso nell’opera del pittore e oggi, grazie alla tecnologia Wattwashtm, i suoi dipinti sono stampati sulla tela di jeans. Questa tecnologia risponde alle preoccupazioni del nostro tempo, alla presa di coscienza dello smisurato consumo d’acqua da parte dell’industria dei jeans. Con questo procedimento invece si risparmia il 97,5 % d’acqua: l’energia luminosa incide la materia, la sbiadisce e offre una miriade di possibilità fino alla riproduzione delle tecniche di tessitura normalmente legate alle stoffe da tailleur. La scoperta dei dipinti del Maestro della tela jeans rimette in discussione la storia stessa del denim, un argomento che non trova unanimemente d’accordo i professionisti del campo e gli storici. Sono stato sedotto dalla presenza di questa stoffa nella pittura e si è così imposta l’idea di stamparne le immagini al laser in un tessuto del XXI secolo. Ci separano quattro secoli, ma oggi questo materiale ci unisce. Grazie a Maurizio Canesso, che ha avuto l’idea di metterci insieme in questa bellissima mostra. L’arte è messa al servizio della tecnologia e la tecnologia è sublimata dall’arte.


Un artista anonimo, il cosiddetto Maestro della tela jeans: un pittore della realtà in Lombardia gerlinde gruber

Lo studio comparato dei dipinti permette talvolta di identificare la mano di un autore fino a quel momento sconosciuto, senza che alcun documento, tuttavia, ci conforti sulla sua identità anagrafica. A scopi pratici, è frequente allora che per nominarlo si ricorra a un elemento peculiare del suo stile. Le pagine che seguono sono dedicate a uno di questi casi, un pittore anonimo per il quale nel 2004 abbiamo proposto il nome, a prima vista anacronistico, ma allo stesso tempo utile e distintivo, di Maestro della tela jeans1: una costante nell’insieme dei suoi quadri era, difatti, la rappresentazione di un tessuto blu con fili bianchi nella trama, in cui si riconosce la struttura della tela di Genova. Nell’Italia del XVII secolo questo tipo di stoffa, prodotta sia nel capoluogo ligure, sia a Milano e Piacenza, era utilizzata per la confezione di abiti destinati alle sfere sociali più modeste. Per via della sua qualità e del suo prezzo contenuto, essa fu poi facilmente esportata fuori della penisola e in seguito denominata “jeans”2. Il dipinto Madre mendicante con due bambini (Parigi, Galerie Canesso; cat. 9) – scoperto da Alessandro Moran­ dotti – che ha ispirato il nome del Maestro della tela jeans, è stato presentato per la prima volta nel 1998 come esempio di pittura di genere lombardo-veneta3 nella mostra “Da Caravaggio a Ceruti. La pittura di genere e l’immagine dei pitocchi nella pittura italiana”4. Nell’ambito di questa . Gruber, in Frangi – Morandotti 2004, pp. 156-161; Gruber 2006, pp. 159-170. . I libri di conti di un sarto inglese menzionano nel 1614 delle stoffe (fustagni) di “Milano” e “Geanes”. Cfr. Cataldi Gallo 2005, pp. 15-25. . Poiché la maggior parte degli esponenti della pittura lombarda di genere erano attivi anche in Veneto, preferiamo rinunziare – in mancanza di dati precisi che riguardino il Maestro della tela jeans – a marcare la

tradizione, il Nostro rappresenta, infatti, una delle strade che portano all’apogeo dello stile realista lombardo personificato da Giacomo Ceruti5. Nella Madre mendicante con due bambini (cat. 9), si vede, appunto, una mendicante appoggiata alla stampella, che tende la sua ciotola verso lo spettatore, con un’aria carica di rimprovero. Sulle parti più rovinate del suo abito si riconosce la struttura della tela di Genova. I due bambini che l’accompagnano sono vestiti allo stesso modo, di cenci, a sinistra una fanciulla, a destra un ragazzino che tiene in mano una scodella. In primo piano, un recipiente pieno di braci e un’anfora di terraglia, posati verso il margine inferiore del quadro su un pavimento inclinato, completano il repertorio degli oggetti raffigurati. Il viso della madre e della fanciulla, più in luce rispetto a quello del ragazzino, emergono da uno sfondo scuro. Entrambi sembrano esprimere la piena coscienza della propria sorte nello sguardo che rivolgono allo spettatore. L’opera è all’origine del raggruppamento di un insieme di quadri sotto il nome di Maestro della tela jeans. Il giovinetto, che qui sta all’ombra della mendicante, compare anche in un altro dipinto dello stesso autore, il Piccolo mendicante con focaccia ripiena (già Brescia, collezione privata, ora Parigi, Galerie Canesso; cat. 4). Vestito con una giacca strappata, quest’ultimo è rappresentato davanti a una colonna, e tiene un pezzo di focaccia ripiena nella mano sinistra, mentre si copre la spalla sullo stesso lato passandosi quella destra sotto gli abiti. Nella fototeca di Roberto Longhi si trova una riproduzione di questo dipinto , archiviata tra le opere di Sweerts. Una scelta, questa, indicativa della cultura in cui il Maestro della tela jeans trova la sua naturale collocazione e, come Francesco Frangi fa notare, Sweerts rappresenta “un notevolissimo contrappunto […]

differenza tra le due culture. Solo nel caso di Giacomo Ceruti è possibile distinguere il periodo lombardo e quello veneziano della sua attività. . Gruber, in Brescia 1998-1999, p. 425, n. 90.



. Sulla nozione italiana di “realismo”, si veda Milano 1953.


della pittura pauperistica”6. E il nostro anonimo appartiene a un movimento che in quest’epoca attraversa tutta l’Europa, la “pittura della realtà”, il cui nome, come ricorda Frangi, fu dapprima associato ai fratelli Le Nain7: proprio con questi ultimi sono stati posti in relazione, nella maggior parte dei casi, i dipinti di attribuzione incerta8. Le due opere testè menzionate, la Madre mendicante con due bambini e il Piccolo mendicante con focaccia ripiena, sono caratterizzate da una rappresentazione molto intensa della povertà, che è un elemento tipico della pittura della realtà. La maniera di presentare il Piccolo mendicante con focaccia ripiena lascia intravvedere la possibile influenza di un pittore nordico, anch’egli attivo a Venezia e in Lombardia tra il 1651 e il 1655, prima di recarsi a Roma: Eberhard Keilhau, detto Monsù Bernardo (Elsingør, 1624 – Roma, 1687). I fanciulli sono un tema ricorrente nella sua opera, come nel caso del Ragazzo con vaso di rose 9, un dipinto di composizione simile, la cui esistenza è attestata nel 1721 nella collezione lombarda di Giovanni Antonio Parravicino. Allo stesso modo, il Giovanetto con un cesto di pane e pasticcini (Milano, Collezione Mario Scaglia; cat. 3) del pittore di origine bergamasca Evaristo Baschenis (16171677), ci mostra un ragazzino dall’espressione del tutto comparabile a quella del Piccolo mendicante con focaccia ripiena. Il suo abito dal colletto rialzato, chiuso da una serie di alamari in passamaneria, permette di immaginare quella che avrebbe potuto essere la casacca del giovinetto preso come modello dal Maestro della tela jeans. Il modo di rappresentare questo indumento ricorda lo stile di un altro artista presente nelle collezioni lombarde e sul quale si sa ancora poco: Sebastianone. I rapidi colpi di pennello, adat-

ti a rendere lo stato di usura del tessuto più che il tessuto stesso, evocano quelli del suo Filosofo piangente (Eraclito?)10 (Grenoble, Musée des Beaux-Arts). La maniera in cui il Piccolo mendicante con focaccia ripiena si tocca la spalla fa eco al giovane ferito nel quadro Donna anziana con fanciullo (già Novara, collezione Cucchi; fig. 1), già attribuito a Ceruti nel 1949 da Delogu11, dove si vede una donna seduta a terra, con un piatto di ceramica in mano, che dà da mangiare a un bambino (o mangia lei stessa) con un cucchiaio. Il piede destro è fa­ sciato. Il bambino, ferito alla testa, è anch’egli fasciato con bende, e il suo visino sporco lascia trasparire un senso di fatica. Con il chiaroscuro accentuato che gli è abituale, il Maestro della tela jeans sembra qui essersi applicato con più attenzione alla resa plastica dei tessuti che a quella delle loro condizioni di usura: sulla manica della donna si disegnano larghe pieghe il cui effetto, per quanto è possibile discernere sulla base della sola fotografia, differisce da quello delle altre opere del pittore. Per questo motivo, questo dipinto può essere datato in un momento diverso, anche se nell’espressione triste e malinconica del ragazzino si ritrova decisamente quella del figlio nella Madre mendicante con due fanciulli. La vegliarda rappresentata è servita probabilmente da modello alla protagonista del Pasto frugale con due bambini (cat. 10), vestita in modo diverso ma anch’essa rivolta verso lo spettatore. Malgrado lo stato di conservazione abba­ stanza modesto, si riconosce la mano del Maestro della tela jeans, che utilizza per il collo dell’abito della donna e per il tovagliolo la stessa semplificazione delle pieghe presente . Gruber, in Brescia 1998-1999, pp. 217, 424, n. 88.

. Frangi 1998, pp. 43-61: 54.

. Ubicazione attuale sconosciuta, olio su tela, 100 × 121 cm; cfr.

. Champfleury 1862 citato da Frangi 1998, p. 60, nota 43.

Delogu 1949, pp. 108-114, fig. 1. Nella Pinacoteca di Sassari in Sardegna

. Si veda anche il saggio di Frangi e Morandotti in questo catalogo.

è conservata una copia di questa composizione, attribuita a Ceruti (si

. Heimbürger 1988, p. 184, n. 65.

ringrazia Alberto Crispo per la segnalazione).



Fig. 1 – Maestro della tela jeans, Donna anziana con fanciullo, già Novara, collezione Cucchi.


Fig.2 – Anonimo, Famiglia spagnola, Ottawa, National Gallery of Canada.

anche nel fazzoletto indossato dalla giovinetta nella Madre mendicante con due bambini. A tutt’oggi sono note due versioni di un’altra scena di pranzo: il Pasto frugale del Museum voor Schone Kunsten di Gand (cat. 6), e un’altra redazione del dipinto, presso la Galerie Canesso a Parigi (cat. 5). L’opera di Gand, già messa in rapporto con il Pasto frugale con due bambini da Andrea G. De Marchi e Francesca Cappelletti12, possiede le varie caratteristiche di stile del Maestro della tela jeans: oltre alla rappresentazione della tela di Genova e più generalmente di tessuti usurati, una prospettiva leggermente rialzata, il posizionamento di oggetti verso il limite inferiore del quadro e una prevalenza dei toni bruni. Anche in questo caso, una donna guarda lo spettatore con espressione seria e afferra una focaccia ripiena cui ha appena dato un morso, mentre sorregge un piatto con l’altra mano. Le sta seduto davanti un vecchio che imbocca un bambino. Sebbene indossi un mantello abbondantemente rammendato, il colletto che ne esce e la cuffia sono in un tessuto bianco, pulito e sono costituiti da un solo pezzo di tessuto, come quello del colletto del bimbo che soffia su una cucchiaiata di riso per raffreddarla. Sulla tovaglia, strappata in più punti, sono posati un piatto di zuppa e uno di uccellini, a quell’epoca componenti abituali di un pranzo frugale nell’Italia del Nord. In questo caso si tratta di una famiglia della classe media, forse di artigiani. In un articolo pubblicato nel 1960, Paul Eeckhout suggerisce una possibile influenza di Velázquez su questa opera, pur ritenendo che il suo autore sia stato attivo in Italia settentrionale13. Il soggetto del dipinto, che rappresenta personaggi di modesta condizione sociale seduti a tavola, può effettivamente far venire in mente i bodegones del sivigliano14, ma in questo caso si tratta di una semplice coincidenza e non di un’influenza diretta. Nello stesso tempo, Eeckhout ha portato a conoscenza del pubblico

una seconda versione di questo quadro, in una collezione privata di Imperia, vicino a Genova, e attualmente presso la Galerie Canesso a Parigi (cat. 5). La provenienza è per lo studioso prova ulteriore della cultura italiana dell’artista. E se egli ebbe a giudicare la redazione di Imperia più debole rispetto a quella dell’esemplare di Gand, il restauro mostra oggi un’opera di qualità assolutamente uguale. La scena è rappresentata da un punto di vista più ravvicinato e, oltre agli elementi già ricordati, si notano sulla tavola altri oggetti e un piatto di uccellini più ricco. Anche lo strappo nella tovaglia, in primo piano, è in un punto diverso ri­spetto al quadro di Gand, ma, a parte questi dettagli, i due dipinti presentano forti somiglianze. Nella versione ora a Parigi, la notevole precisione con la quale è realizzato l’occhio della donna, dall’orbita leggermente umida, mostra un senso dell’osservazione anatomica che potrebbe indicare per il nostro artista un’origine nordica. Nello stesso saggio, Paul Eeckhout attribuisce un’altra opera allo stesso autore di questi dipinti, la Famiglia spagnola 15 (Ottawa, National Gallery of Canada, fig. 2), un tempo considerata di artista iberico16, ma che, a nostro avviso, non può essere attribuita al Maestro della tela jeans. La tela rappresenta una donna piuttosto anziana, un uomo e una fanciulla a tavola, davanti a un piatto di zuppa di riso, una pagnotta, dell’aglio e un altro piatto dal contenuto di difficile identificazione. La donna solleva il mento all’uomo, mentre questi l’abbraccia, e la ragazzina, divertita dalla scena, si volta verso lo spettatore indicando con il dito la “coppia male assortita”17. E’ poco verosimile che il dipinto sia stato realizzato dal Maestro della tela jeans: se si osserva con attenzione la mano della donna, si nota una struttura di vene e legamenti poco naturale, addirittura assurda se la si compara con elementi analoghi nel quadro di Gand, dove essa è realizzata in maniera più sicura e realistica, attraverso più sottili strati di colore. Anche il tono generale della scena è diverso, e le espressioni dei personaggi del dipinto di Ottawa, ove predomina l’intenzione di conferire alla scena un senso morale, sembrano caricaturali se paragonate a quelle del nostro artista. Nella collezione di Imperia il Pasto frugale aveva un pendant, la Filatrice con due bambini (cat. 11), schedato come copia da P. Eeckhout18 e che forse, malgrado il cattivo stato di conservazione, sarebbe possibile attribuire al Maestro della tela jeans. Con una certa efficacia compositiva, il pittore raffigura al centro della scena una donna anziana che tiene in mano una conocchia. Essa è cieca da un occhio e si gira verso lo spettatore con un’espressione arcigna. L’abito strappato contrasta con quello meglio conservato del giovinetto che le sta vicino, in piedi, e che tiene con una mano un bastone e con l’altra un recipiente, mentre . Olio su tela, 88,5 × 92 cm. Ottawa, National Gallery of Canada; inv. 3452 (pittore italiano). . Haraszti-Takács 1983, pp. 214-215, n. 195 (Pittore spagnolo [?],

. Cappelletti 1998, pp. 302-303, fig. 9, p. 305, nota 67.

probabilmente di Siviglia

. Eeckhout 1960, pp. 373-377.

. Renger 2006, pp. 131-146.

. Sulla pittura di genere spagnola, si veda Wind 1987; Haraszti-Takács 1983.

. Eeckhout, 1960, vol. I, p. 377; vol. II, fig. 167 a.




guarda, anch’egli, verso lo spettatore. Un altro bambino, posto nel cono d’ombra della donna e, per questo motivo, difficile a distinguersi, sembra indaffarato ad aggiustarsi la camicia. Per la prima volta non compare qui alcun tessuto di tela di Genova. Le differenti sfumature di grigio distribuite sulla veste e sulla parte alta della camicia della donna sono caratteristiche dello stile del Maestro della tela jeans. Nonostante il tono serio del soggetto rappresentato, la combinazione del giallo ocra della giacca del fanciullo con il rosso dei pantaloni conferisce all’insieme un’impressione abbastanza colorata, che raramente si ritrova negli altri dipinti del Nostro, dove dominano toni più freddi di bruno, rischiarati dal blu e da un poco di rosso. Questo uso dei colori è, d’altro canto, indizio di un’origine lombarda del Maestro della tela jeans e permette un accostamento all’opera giovanile di Giacomo Francesco Cipper detto il Todeschini (Feldkirch, 1664 – Milano 1736), con cui il Nostro condivide numerosi elementi stilistici, quali l’assenza di un punto di fuga centrale, che produce come effetto una prospettiva leggermente rialzata. Entrambi gli artisti utilizzano volentieri un marcato chiaroscuro, si pensi ad esempio alla monumentale Scena di mercato, databile con ogni probabilità nell’ultimo decennio del Seicento19, o a quella datata 1703 già in collezione Geri (fig. 3). Lo stesso vale per questa scena di Barbiere (cat. 12), attribuita da Francesco Frangi20 al maestro della tela jeans, in cui anche i colori ricordano Cipper. Davanti a un barbiere occupato nel suo lavoro, è seduto un uomo, coperto nella parte alta del corpo da un asciugamano consunto. Costui guarda in direzione dello spettatore, come anche il giovane

apprendista che aiuta il barbiere e che gli tiene vicino un piatto di ceramica. Sulle stoffe più chiare si nota ancora una volta l’applicazione di velature grigie, date con mae­ strìa di tocco. L’insieme delle opere riconosciute finora al Maestro della tela jeans può essere completato da un altro quadro, anch’esso attribuito all’artista da Frangi21 e del quale esi­ stono due versioni (una a Milano e l’altra, già a Madrid, ora presso la Galerie Canesso a Parigi). Si tratta della Donna che cuce con due bambini (cat. 7 e 8). I due dipinti rappresentano una stessa scena d’interno: una donna in atto di cucire è seduta sul terreno nudo davanti a una culla in legno intagliato, nella quale dorme un bambino in fasce. Dietro la culla, un ragazzino, che ricorda in parte il Piccolo mendicante con focaccia ripiena, mostra in viso un’espressione seria; nella versione ora a Parigi, egli calza una specie di berretto sul quale è fissata una piuma. Ancora una volta, i personaggi sono decisamente distaccati dallo sfondo scuro e indifferenziato: lo spazio interno della stanza resta invisibile, e la profondità è resa solo grazie al posizionamento l’uno dopo l’altra della natura morta e del letto dietro al quale siede il giovinetto. Sul lavoro di cucito della donna la resa semplificata del contrasto tra le parti in ombra e quelle più chiare della stoffa può evocare l’opera di Antonio Cifrondi (Clusone, 1656 – Brescia, 1730) e ne sono prova il San Pietro di Bergamo, dipinto da quest’ultimo nel 170122, o anche la sua Filatrice di Brescia23 (fig. 4). Nell’opera giovanile di Cifrondi, per la quale restano ancora dei problemi da risolvere, le analogie con il Maestro della tela jeans si es. Frangi 2000, pp. 1145-1162.

. Si veda Gruber in Brescia 1998-1999, p. 427, n. 94.

. Chiesa di Santo Spirito. Cfr. Dal Poggetto 1982, pp. 422, 474, n. 34.

. L’attribuzione di questo dipinto al Maestro della tela jeans, dovuta a

. Pinacoteca Tosio Martinengo. Cfr. dal Poggetto 1982, pp. 455, 485,

Frangi, è ripresa da Damian 2006, pp. 56-59.

n. 79.



Fig. 3 – Giacomo Francesco Cipper, detto Il Todeschini, Scena di mercato, già Milano, collezione Geri. Fig. 4 – Antonio Cifrondi, La Filatrice, Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo.


Fig. 5 – Carlo Donelli, detto il Vimercati, Ritratto di un giovane uomo con cane, Milano, collezione Koelliker.

tendono ai tipi umani rappresentati.24 E poiché egli avrebbe soggiornato in Francia, secondo alcune fonti, viene talvolta considerato insieme a Pietro Bellotti – la cui presenza in Francia è allo stesso modo solo supposta25 – come l’ “anello mancante” tra lo stile realista francese del XVII secolo e la pittura “lombardo-veneta”. Ciò potrebbe spiegare il fatto che anche il Maestro della tela jeans è stato spesso considerato un pittore francese, e perché anche la Donna che cuce e due bambini sia stata pubblicata in origine come opera di quell’area, seguendo un’opinione di Federico Zeri.26 Tuttavia in questo dipinto si osserva una specificità tecnica di cultura lombarda, comune al Piccolo mendicante con focaccia ripiena: l’accentuazione del contorno degli occhi con un tratto di colore chiaro su una prima stesura più scura del fondo. Questa stessa peculiarità esecutiva si ritrova nei ritratti del pittore milanese Carlo Donelli, detto il Vimercati (Milano 1661-1715), come ad esempio nel Ritratto di giovane con cane (Milano, collezione Koelliker ; fig. 5).27 In mancanza di dati biografici che riguardino il Maestro della tela jeans, è difficile stabilire per le sue opere una cronologia esatta e solamente l’evoluzione del suo stile ci permette di fissare alcuni punti di riferimento. In questo modo la tendenza a una semplificazione delle pieghe, ottenuta con leggeri tocchi di pennello che tracciano decorativamente le superfici, si accentua nel corso della sua evoluzione pittorica. La realizzazione ancora voluminosa delle stoffe della Donna anziana con bambino (fig. 1) – in cui questa tendenza si manifesta solo a tratti – sarebbe dunque il segno distintivo di un’opera giovanile. Nel novero delle opere più tarde si possono contare le due versioni del Pasto frugale, la Donna che cuce e due bambini e la scena del Barbiere, in cui questa semplificazione si accentua più chiaramente. Allo stesso modo, l’incarnato dei personaggi subisce un notevole cambiamento, se solo si mettono a confronto il viso del Piccolo mendicante con focaccia ripiena, realizzato con finezza di tocco, o ancora quello del bambino nella Donna anziana con bambino, con la relativa asciuttezza delle carnagioni nel Barbiere. Quest’ultimo dipinto segna, forse, la conclusione di un processo evolutivo iniziato con il Piccolo mendicante con focaccia ripiena. Nella scelta dei temi, così come nel realismo con cui sono rappresentati, il Maestro della tela jeans dà un’auten-

tica prova di originalità: il suo Barbiere non rappresenta la scena classica del cavadenti, tema noto e di successo fin dai tempi di Luca di Leida, né l’operazione su un paziente, soggetto anch’esso illustrato nel XVII secolo: il barbiere qui è proprio ritratto con il rasoio in mano. La Donna con ragazzo (fig. 1), la Donna a tavola con due bambini o ancora la Donna che cuce e due bambini, costituiscono altrettante novità nel campo dei temi iconografici. E’ questo un terreno in cui l’artista dà prova allo stesso tempo di originalità e di una notevole sensibilità nell’osservare le varie situazioni, le figure e gli abiti.28 Votato a ritrarre personaggi di origini modeste, pienamente coscienti della propria condizione e occupati nei lavori più quotidiani, il pittore può esser considerato come un precursore importante del Ceruti. L’appartenenza delle sue opere al genere della pittura della realtà non è da mettere in dubbio oggi. D’altro canto, i punti comuni con altri dipinti di cultura lombardo-veneta che sono stati a più riprese osservati, permettono di ipotizzare un soggiorno del nostro artista in Lombardia, probabilmente a Milano. Nel corso del XVII secolo, la rappresentazione dei poveri divenne un genere sempre più complesso, in cui l’intenzione dell’autore è talvolta difficile da interpretare: la linea di confine tra il mendicante ladro, che merita il nostro disprezzo, e quello che invece invita il borghese a un atto di generosità, tende a dissolversi.29 La Madre mendicante con due bambini è l’unica opera del Maestro della tela jeans che porta il segno di questa ambivalenza di carattere. Il restauro recente del dipinto ha permesso di riportare alla luce un filone di pane, che sbuca dal grembiule della fanciulla e che potrebbe contraddire il gesto di mendicità della donna e del ragazzino. Un’interpretazione negativa di questa scena si opporrebbe tutavia all’abituale neutralità con cui il nostro artista rappresenta altrove personaggi nelle stesse condizioni. D’altra parte, mancando ogni informazione sui committenti o sui collezionisti di opere come queste, è difficile giudicare con precisione questo soggetto. Limitandoci dunque al solo studio del dipinto, alle numerose somiglianze stilistiche che vi abbiamo riscontrato con altri pittori lombardi intorno al 1700, possiamo almeno arrivare a supporre che l’opera del nostro pittore rappresenti una tappa importante della pittura della realtà in Lombardia.

. Si metta a confronto il viso della Madre mendicante con due bambini con quello del Contadino con berretto (Lovere, Accademia Tadini) di Cifrondi, databile agli anni Ottanta del Settecento (Dal Poggetto 1982, pp. 402, 502, n. 137). Entrambi hanno il naso all’insù, con un riflesso luminoso sulla punta. Nel quadro di Cifrondi, il fazzoletto indossato dal contadino è realizzato con la stessa formula semplificata dei colletti e delle pieghe degli abiti dipinti dal Maestro della tela jeans. . Nella sua biografia di Cifrondi pubblicata nel 1793, Tassi ricorda una permanenza del pittore nei suoi anni giovanili a Grenoble e a Parigi; cfr. Dal Poggetto 1982, pp. 359-360. Anche Bellotti avrebbe soggiornato in Francia nel settimo decennio del ‘600: cfr. Anelli 1996, pp. 80-81; Frangi 1998, pp. 54, 60. . Colace, in Gatti-Perer 1998, pp. 226-229, n. 107.

. Si veda anche il saggio di Marzia Cataldi Gallo in questo catalogo.

. Frangi – Morandotti 2004, pp. 168-171.

. Nichols 2007, pp. 230-244.

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Il Maestro della tela jeans: un nuovo pittore della realtà francesco frangi e alessandro morandotti

Ripercorrere in breve le vicende attributive di molti dipinti esposti in questa mostra, dedicata a un pittore di cui ancora ci sfugge l’identità anagrafica, è estremamente istruttivo. Gli “errori” fatti da studiosi del passato, che conoscevano bene l’ “intelligenza delle maniere” (così definisce il lavoro del conoscitore Luigi Lanzi), sono infatti molto significativi per definire, anche solo per approssimazione, le coordinate cronologiche e culturali entro cui si muove un artista dal profilo ancora poco definito. Il nome di Michael Sweerts venne evocato da Roberto Longhi di fronte al Piccolo mendicante con focaccia ripiena (cat. 4), quello dei Le Nain da Federico Zeri per la Donna che cuce con due bambini (cat. 7), mentre poi, in una sorta di incredibile girandola di pareri (o dispareri), fioccarono numerose, fin dai primi decenni del Novecento, le proposte in relazione al Pasto frugale (cat. 6), dal 1905 al Museo di Gand: l’unico dipinto riferibile al nostro maestro conservato, allora come adesso, in una collezione pubblica. Nel file, relativo al quadro presso l’archivio del Museo, vediamo sfilare – in lettere e note registrate dai conservatori – protagonisti e comprimari di molte scuole della storia della pittura europea tra Seicento e Settecento così come diverse personalità della ricerca storico-artistica internazionale (Gruber 2006). Per il Pasto frugale, Roberto Longhi pensava a un maestro francese (1953), altri studiosi lo riferivano invece all’ambito di Velázquez, mentre René Huyghe (1948), seguito presto da Ferdinando Bologna (1951), scriveva alla direzione del museo fiammingo questo lapidario ed efficace commento: “c’est un artiste qui tient à mi-chemin de Todeschini et de Giacomo Ceruti. Toutefois sa technique plus rapide révèle qu’il est d’une génération antérieure à ces deux peintres”. Emergono così, anche solo attraverso questa rapida rassegna della fortuna critica delle opere dell’artista che noi oggi riconosciamo con il nome convenzionale di Maestro della tela jeans, tutti i suoi possibili referenti, in una sorta di vero e proprio albero genealogico dalle illustri radici.

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Ci rendiamo per questo conto che l’anonimo maestro iscrive il suo pur provvisorio nome entro il prestigioso albo dei pittori della realtà, così come si è andato definendo grazie agli studi del Novecento dedicati alla pittura europea del Seicento e del Settecento. In perfetta e quasi naturale concatenazione, gli episodi cruciali di quella straordinaria stagione di ricerche vennero emblematicamente presentati in due mostre, di taglio e impegno diverso, che si svolsero a Parigi nel 1934 (Les Peintres de la réalité en France au XVIIe siècle, curato da Paul Jamot e Charles Sterling) e a Milano nel 1953 (I pittori della realtà in Lombardia, per la regia di Roberto Longhi). Longhi dichiarò sin dall’introduzione del suo catalogo il debito verso l’iniziativa più antica, almeno nella “formula dell’intitolazione” (che vuole dire molto), sebbene il taglio cronologico e l’ambito geografico di indagine delle due esposizioni fossero ben distinti. All’Orangerie, nel 1934, si erano visti quei pittori francesi del Seicento che all’ “intellectualité” avevano preferito la “passion du vrai”, come scrisse Paul Jamot nella prefazione del catalogo; a Palazzo Reale, nel 1953, quei maestri lombardi tra Cinquecento e Settecento che avevano contrapposto all’artificio della maniera e del barocco “una certa calma fiducia di potere esprimere direttamente, senza mediazioni stilizzanti, la ‘realtà’ che sta intorno”, come scrisse Roberto Longhi nell’introduzione del catalogo. Non si trattava dunque di tracciare una storia esaustiva dell’arte di quei secoli, quanto piuttosto di segnalare, all’interno delle vicende artistiche di quelle aree geografiche, una continuità stilistica, una sorta di filo rosso prezioso e resistente, caratterizzato da una propensione alla ripresa diretta del dato naturale, da una fedeltà alla verità delle cose. È sorprendente vedere come, nei brevi testi che introducevano le due iniziative, certe definizioni critiche coincidano: le opere di artisti lontani nel tempo e nello spazio si prestavano ad essere definite con parole simili e, solo con


quelle, a dar conto della circolazione di una sensibilità comune nell’Europa tra Seicento e Settecento. “L’art simple et franc” (e in una variante: “L’art simple et grave”) dei Le Nain, eroi insieme a Georges de la Tour della mostra del 1934, trovano corrispettivi linguistici nelle felici endiadi (“semplicità accostante”, “penetrante attenzione”) con le quali Longhi caratterizzò le vicende della pittura della realtà in Lombardia da Giovan Battista Moroni a Giacomo Ceruti (Longhi 1953). Non è questo il contesto per studiare il rapporto delle reciproche influenze tra quei giganti della storiografia del Novecento attivi tra la Francia e l’Italia, disposti a navigare allora lungo rotte comuni sebbene fossero divisi circa il ruolo giocato da Caravaggio come antefatto ineludibile di quelle ricerche artistiche sulla realtà anche più umile; per Jamot il grande lombardo era stato unicamente uno “choc exterieur”, per Longhi invece, “soltanto dopo che il Caravaggio aveva capovolto in umano il modo di interpretare gli argomenti sacri ci si poteva dar coraggio di rappresentare, non come divagazione pittoresca (Bassano) e come ‘genere’ (fiamminghi e olandesi), ma con piena dedizione all’argomento, una «Famiglia di contadini»” (Longhi 1935). E il pensiero di Longhi era certo dedicato alla Famiglia di contadini di Louis o Antoine Le Nain, al Louvre dal 1915 (fig. 1), “peint simplement avec une profonde sympathie humaine”, come si legge nella scheda relativa al quadro nel catalogo del 1934. Non era poi certo un caso che proprio nella Francia del manifesto del realismo firmato da Courbet nel 1855 si fosse assistito, intorno alla metà dell’Ottocento, alla consapevole riscoperta di Caravaggio (ma anche di Vélazquez e Ribera), avvenuta quasi contestualmente a quella dei pittori della realtà francesi quali i Le Nain. Un entusiasmo, quello per la pittura antica e moderna attenta alla realtà, che coinvolse allora gli studi critici (Planche, Laviron, Thoré, Champfleury, Baudelaire, Zola) come la produzione artistica (Courbet, Manet) preparando in prospettiva la mostra del 1934 all’Orangerie.

Anche Longhi percepiva la spinta del dibattito critico antico e coevo, di cui fu anzi un protagonista come critico militante ospitando tra l’altro sulle pagine di “Paragone” del 1957 la vivace polemica tra realismo e nuovo romanticismo (mentore Renato Guttuso) e impressionismo-informale (auspice Francesco Arcangeli). Egli inoltre, fin dagli anni dei suoi primi studi su Caravaggio e la sua cerchia, coglieva il respiro europeo di quella pittura in cui la realtà era interpretata con sensibilità personale più che venire fedelmente riprodotta. Basterebbe pensare alla sua fulminante definizione di un dipinto presente alla mostra del 1953, il Ragazzo con canestra di pani e dolciumi di Evaristo Baschenis (presente anche oggi qui nelle sale di questa iniziativa privata; cat. 3), “dove diresti che, rivisitata la canestra del Caravaggio a Milano, il Baschenis si provi a rassomigliare a un Vermeer (e forse non gli riesce che uno Sweerts), sacrificatosi in provincia cattolica” (Longhi 1953). Riallacciandoci a quanto detto all’esordio di questo testo, non bisogna poi credere che le vistose oscillazioni attributive – tra la Siviglia di Velázquez, la Francia dei Le Nain, la Roma ‘fiamminga’ di Sweerts e la Lombardia di Ceruti – che hanno interessato in un recente passato i dipinti oggi ricondotti al Maestro della tela jeans, costituiscano una circostanza eccezionale nell’ambito degli studi dedicati alla pittura pauperistica sei e settecentesca, quasi una vera e propria specializzazione tra i maestri attenti alla realtà che li circonda. Se si analizzano le vicende storiografiche di molti eventi, compresi i più significativi, che compongono quello speciale capitolo della storia artistica europea, ci si rende conto di quanto simili sbandamenti abbiano accompagnato, e in alcuni casi continuino ad accompagnare, la messa a fuoco delle diverse personalità e delle loro opere. Lo lascia intendere il fatto che prima della definitiva riscoperta di “Monsù Bernardo” (il danese Eberhart Keilhau) da parte di Roberto Longhi (1938) molte opere del suo catalogo erano

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Fig. 1 – Louis o Antoine Le Nain, Famiglia di contadini in una stanza, Parigi, Museo del Louvre.


Fig. 2 – Giacomo Ceruti, Mendicante, Göteborg, Göteborgs konstmuseum. Fig. 3 – Giacomo Ceruti, Tre mendicanti, Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza.

state attribuite ad artisti spagnoli come Herrera il vecchio, Mazo, Murillo e persino Velázquez, al punto che Hermann Voss, al quale era parso possibile in un primo momento avvicinare quelle opere al pittore romano di cultura bambocciante Antonio Amorosi, lo definì “der falsche Spanier” (1912). Per rendersi conto ancora meglio delle difficoltà nello studio delle vicende europee della pittura di tema popolare può essere utile osservare gli accidentati itinerari critici di alcune tra le migliori invenzioni di Giacomo Ceruti, a partire dalla mezza figura di Mendicante oggi al Museo di Göteborg (fig. 2), che prima di approdare, all’altezza del 1973, nel catalogo del pittore milanese, si era trovata addirittura a presenziare alla mostra parigina del 1934 dedicata ai Peintres de la réalité, corredata da un riferimento dubitativo a Jean Michelin, importante esponente della stretta cerchia dei Le Nain. Direttamente a Louis le Nain era stato invece a lungo assegnato uno dei più emozionanti capolavori cerutiani, vale a dire i Tre pitocchi della Museo Thyssen-Bornemisza a Madrid (fig 3), la cui corretta paternità venne riconosciuta solo nel 1963 grazie all’intuizione di Carlo Volpe, idea attributiva che permise in seguito di individuare in quell’opera una delle tele realizzate dall’artista nel 1736 per il maresciallo Matthias von der Schulenburg, appassionato sostenitore della pittura con scene di genere nell’Europa del secondo quarto del Settecento. E il pensiero corre a uno dei primi grandi interpreti della vicenda artistica di Ceruti, Giuseppe Delogu, il quale, trovandosi davanti agli occhi il cosiddetto ciclo di Padernello (di cui due esempi sono oggi qui presenti in mostra grazie alla generosità della famiglia Lechi e di un altro collezionista; cat. 14 e 15), non poté fare a meno di immaginare un possibile richiamo ai precedenti di Ceruti, così difficili allora da mettere in chiaro, sostenendo: “Egli trova forse nella storia

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un solo esempio di lontana parentela ideale in Luigi le Nain e più tardi in Chardin” (Delogu 1931). Volgendo lo sguardo ad un contesto cronologico di poco anteriore e sostanzialmente coincidente con quello del nostro anonimo pittore, ancora più problematico si rivela poi il percorso critico di due enigmatici vertici della pittura pauperistica tardo seicentesca come la Vecchia popolana con un ragazzo, già nella collezione dei marchesi di Casa Torres a Madrid (fig. 5) e i cosiddetti Popolani all’aperto (Cremona, collezione privata; fig. 4). Tradizionalmente ritenuto di Velázquez, il dipinto Casa Torres venne infatti assegnato nel 1940 da August Liebman Mayer, specialista del pittore spagnolo, al girovago artista lombardo-veneto Pietro Bellotti: un riferimento che ha goduto in seguito di un certo consenso ma che non ha impedito a Nicola Ivanoff, nel 1965, di proporre una collocazione nell’ambito di Georges de La Tour, utile a evidenziare i dubbi circa l’esatta decifrazione stilistica dell’opera, ancora oggi in cerca di un’affidabile classificazione. Sostanzialmente analogo, nella sua incertezza, il destino dei Popolani all’aperto, salutato al momento della sua apparizione, nel corso degli anni sessanta del Novecento, come un capolavoro di Giacomo Ceruti (Morassi 1967; Zeri 1976) e quindi successivamente avvicinato al già ricordato Pietro Bellotti (Frangi 1993), prima di essere orientato, sulla scorta di un suggerimento di Federico Zeri, in una non meglio precisata area tedesca o francese del XVII secolo (Anelli, 1996). Un vero e proprio tour europeo, dunque, scandito in tempi recentissimi da un’ulteriore tappa – molto verosimilmente non quella finale – che ha visto il dipinto confluire a sorpresa nel catalogo di Franz Werner Tamm, pittore di origine tedesca noto soprattutto per la sua produzione di nature morte (Gregori 2010). Quello che più stupisce, rivisitando queste esperienze storiografiche, è il disporsi delle diverse proposte attributive di volta in volta formulate entro un arco cronologico e soprattutto geografico davvero ampio, nel quale va individuato il segno preciso delle difficoltà che molto spesso si sono poste a chi si è confrontato con la pittura di soggetti popolari. Tra le cause di queste divergenze – che non hanno mancato di coinvolgere anche conoscitori tra i più attrezzati – non va sicuramente trascurato il generale ritardo con cui gli studi hanno avviato la ricognizione di questo campo della produzione figurativa e il recupero dei suoi molteplici protagonisti, spesso penalizzati dall’ostinato silenzio nei loro confronti da parte dell’antica letteratura artistica. Il fatto che alcuni di essi, come il tirolese Ulrich Glantschnigg, lo sloveno Almanach, il ‘lombardo’ Giuseppe Romani o lo stesso Maestro della tela jeans, siano stati di fatto riscoperti solo negli ultimi anni, lascia bene intendere quanto siano vasti i territori ancora da esplorare per chi si avventura su questo versante della ricerca. La sensazione, tuttavia, è che all’origine del disorientamento di cui si è appena dato conto vi sia anche un’altra motivazione, da riconoscere nelle affinità singolari e imprevedibili che spesso accomunano le diverse espressioni


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Fig. 4 – Anonimo della fine del XVII secolo, Popolani all’aperto, Cremona, collezione privata. Fig. 5 – Anonimo della fine del XVII secolo, Vecchia popolana con un ragazzo, Madrid, già collezione del marchese di Casa Torres.

della pittura pauperistica sei e settecentesca, anche quando queste si trovano ad affermarsi in ambiti geografici molto distanti tra loro, tali da rendere assai improbabile un legame diretto tra gli artisti che ne furono responsabili. A giustificare una simile sintonia, in grado a volte di rendere meno nitidi, almeno ai nostri occhi, i confini tra le varie tradizioni figurative, contribuiscono ovviamente certe scelte, insieme stilistiche e iconografiche, per così dire imposte dal genere, come l’accentuazione dell’umile identità sociale dei protagonisti ritratti e dei contesti da loro abitati, oltre che la necessaria insistenza sui miseri dettagli materiali della loro esistenza quotidiana. Ciò che più conta rilevare, però, è come queste sorprendenti contaminazioni si verifichino soprattutto tra quei pittori che appartengono alla linea più nobile della pittura di soggetto popolare: quella che da Velázquez e La Tour conduce fino a Ceruti, passando attraverso le vicende dei Le Nain e di Sweerts e di poche altre personalità, tra le quali, oggi possiamo dirlo, anche quella dell’artista al centro di questa mostra. Già evocato nelle pagine di Charles Sterling, Vitale Bloch e Roberto Longhi, e quindi precisato nei suoi concreti svolgimenti da Giuliano Briganti e Mina Gregori, questo versante della pittura pauperistica si distingue innanzitutto per un rifiuto delle divagazioni comico-aneddotiche e delle inclinazioni allegoriche che molto spesso si insinuano all’interno del genere su cui si sta ragionando. A quelle prerogative, che pure costituiscono una componente fondamentale della fortuna collezionistica della scena di soggetto popolare, i protagonisti a cui si vuol fare riferimento sostituiscono un approccio al tema estremamente serio e impegnato, nel quale la profonda condivisione umana delle faticose condizioni di vita dei ceti inferiori si coniuga con l’utilizzo di un registro fortemente orientato in senso

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realistico, che indaga senza compromessi il mondo degli ultimi, restituendone con lucidità lo stato di indigenza ma anche la spoglia dignità. La sequenza che dalle giovanili prove sivigliane di Velázquez (fig. 6; National Gallery of Scotland) e dai quasi coevi Mangiatori di piselli di La Tour (fig. 7), conduce agli interni contadini dei Le Nain per concludersi con il ciclo di Padernello di Ceruti (cat. 14 e 15), ci restituisce visivamente gli episodi più alti e rappresentativi di questo filone, consentendoci altresì di percepire l’affermarsi al suo interno di un’intima, sotterranea continuità, sulla quale è bene soffermarsi. Di profilo tanto ‘morale’ quanto figurativo, tale filo rosso si coglie in una comune propensione per un linguaggio dalle cadenze severe, che adegua i suoi mezzi ai soggetti con i quali si confronta, adottando innanzitutto una tavolozza sobria ed essenziale, adatta a restituire in modo credibile il polveroso universo dei mendicanti e dei lavoratori più modesti. Uno sguardo obiettivo e asciutto indaga con franchezza le vesti quasi sempre lacere dei personaggi, i poveri oggetti della loro quotidianità, i volti segnati dagli stenti, le mani nodose, favorendo il diffondersi in quelle opere di un esercizio naturalistico quasi ossessivo e, insieme, di una concentrata cadenza espressiva, adeguata alle dolorose esperienze esistenziali raccontate sulle tele. Tutti requisiti che portano con sé il prosciugarsi di ogni compiacimento puramente stilistico e soprattutto la rinuncia ad un’esibizione della propria cultura figurativa, l’uno e l’altra sacrificati sull’altare di un’adesione schietta e senza schermi protettivi al dato di realtà. Considerando i dubbi che tuttora incombono sugli autori di molti dei dipinti riferibili all’universo della pittura di soggetto popolare, non deve stupire se, analogamente a quella di molti suoi compagni di strada, anche la questione


Fig. 6 – Diego Velázquez, Donna anziana e fanciullo che cucinano, Edimburgo, National Gallery of Scotland. Fig. 7 – Georges de La Tour, Mangiatori di piselli, Berlino, Gemäldegalerie Staatliche Museen zu Berlin.

del Maestro della tela jeans porti con sé qualche enigma di non poco conto, relativo non solo all’identità anagrafica dell’artista, ma anche all’individuazione della sua origine geografica. Se numerosi indizi fanno credere che un tratto significativo della carriera del pittore si sia giocato in territorio lombardo sullo scorcio del Seicento, altrettanto consistenti sono infatti le ragioni che invitano a immaginare una sua formazione in un diverso contesto, riguardo al quale, allo stato attuale delle conoscenze, risulta difficile esprimere un giudizio adeguatamente motivato. Come avviene per i protagonisti più rilevanti dell’epopea pauperista, anche nelle opere del Maestro la concentrata disciplina realistica del suo linguaggio, la sobrietà dei mezzi pittorici e l’assenza di qualsiasi cedimento decorativo rendono insomma il compito dello storico dell’arte non poco complicato. Ci si accontenti, dunque, di aver recuperato, grazie a questa mostra, un grande, commosso narratore delle sofferenze degli umili: la sfida, per il futuro, sarà quella di capire in quale angolo d’Europa quel racconto cominciò a fiorire, prima di trovare accoglienza nei territori lombardi che si accingevano ad ospitare la parabola di Giacomo Ceruti. L’ambizione del progetto avrebbe voluto che molti dei quadri illustrati in queste premessa andassero ad arricchire il percorso della mostra – che ha comunque una sua identità molto precisa – cosicché fosse possibile mettere alla prova la validità di alcuni confronti e la statura di questo maestro, di cui noi siamo un po’ come i genitori, mentre Gerlinde Gruber è la nutrice che lo ha amorevolmente allevato e fatto crescere. A Maurizio Canesso, il suo agente, si deve invece l’idea di raccoglierne le opere per farle conoscere, con l’ausilio indispensabile di Véronique Damian, a un più ampio pubblico.

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Il Maestro della tela jeans e il fascino del blu marzia cataldi gallo

Il Maestro della tela jeans è un’ancora anonimo pittore, che deve il suo soprannome alla costante presenza, nelle sue opere, di tela tinta in un bell’azzurro intenso. La sua predilezione per il cotone e per il blu non suscita la nostra attenzione per la rarità dell’accostamento, anzi, come vedremo, fin dai primi del Seicento il blu è uno dei principali protagonisti dell’abbigliamento popolare, ma perché la tela in varie tonalità di blu, che usa per vestire i suoi personaggi acquista una particolare vitalità negli interni uniformemente scuri e in certo modo angusti in cui colloca la sua umanità dolente. Per cercare di capire le ragioni che hanno indotto il pittore a trattare con tanto rilievo il binomio “tela e blu” è opportuno seguire due percorsi: in primo luogo la diffusione dei tessuti in cotone e in secondo luogo la storia del blu e della sua fortuna. Le stoffe in cotone, a differenza delle preziose sete de­ stinate a una clientela elitaria, dovevano soddisfare le esigenze di larghe masse di popolazione: la loro diffusione inizia nel periodo medievale e continua praticamente fino ai giorni nostri. A partire dal XII secolo numerose fonti rivelano l’ampiezza e l’intensità del commercio di cotone e di tessuti in cotone, per lo più di produzione italiana, in tutta l’Europa. Il boom della circolazione di tessuti in cotone era in gran parte motivato dal timore delle ricorrenti carestie, che aveva indotto a destinare i terreni necessari ai pascoli alla coltivazione di generi alimentari; fin dalla seconda metà del XII secolo nella pianura padana cominciano a sparire i pascoli di montoni e la lana diviene sempre più costosa, non solo in Italia ma in tutta l’Europa1. Per rimediare a questa situazione problematica si è cercato di produrre tessuti misti con la minor quantità possi-

bile di lana: le medielane tessute o con lana e cotone o con lana e lino; ma in seguito ci si è orientati verso la produzione di stoffe solide in cotone come i fustagni. “Il cotone è stato preferito al lino perché è più caldo, ma anche perché il terreno coltivato a lino era poi improduttivo per qualche anno, quindi, destinare alla coltivazione di lino un terreno – in un periodo in cui il rischio di carestie era sempre incombente – era pericoloso”2. Si può aggiungere che il cotone era meno durevole del lino, ma, soprattutto rispetto al lino poco raffinato, offriva altri vantaggi nel comfort, nella facilità di manutenzione e nelle qualità tattili e visive: i metodi di finissaggio permettevano di ottenere una maggior diversificazione di prodotti rispetto alle stoffe in lana o lino e la tintura permetteva di ottenere colori brillanti, una qualità molto apprezzata in una società dove i significati simbolici del colore e la sua intensità avevano una forte valenza sociale: fogge e tinte, allora, comunicavano età, condizione personale, posizione sociale e stati d’animo3. L’approvvigionamento di materia prima necessaria alla produzione di stoffe, che si tessevano in tutte le città del Nord Italia e si esportavano all’estero, era agevolato dall’attività portuale di Venezia e di Genova. A Venezia arrivavano cotoni grezzi dalla Siria e dall’Egitto, a Genova soprattutto quelli raccolti nell’Africa settentrionale e nelle regioni meridionali (Sicilia e Calabria), di qualità inferiore rispetto a quelli siriani. Il cotone più pregiato a fibra lunga era chiamato bambagia dal greco bambákion, il meno pregiato del Nord Africa era definito cotone dal termine arabo qutūn4. “L’alta produzione di tessuti misti conferma l’orientamento di base delle manifatture italiane verso la commer. Fennell Mazzaoui 1981, p. 89. . Muzzarelli 2000, p. 15, cap. III, cap. IV.

. Borlandi 1953, pp. 134 sgg.

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. Cataldi Gallo 2005, pp. 15-33; Eadem, 2007 a, pp. 7-9 con bibliografia.


cializzazione di stoffe durevoli a basso prezzo adatte per l’abbigliamento quotidiano e per l’arredamento, in particolare per tendaggi e biancheria da letto. Gli imprenditori italiani hanno preferito sviluppare la produzione di stoffe attraenti e di costi contenuti da smistare facilmente in tutta l’Europa” 5. Fra le tante “nuove” stoffe a disposizione della clientela meno agiata risultavano particolarmente diffuse le bombasine (cotone e canapa), i terlici (cotone, lino e canapa), i burdi (dal centro turco di Bursa in Turchia, semplici, a righe o a scacchi), i valessi (valesii, valesci simili ai terlici), gli acordolati, cioè rigati. Ma il tessuto più popolare fra i tanti prodotti in Italia è senza dubbio il fustagno, di cui si tornerà a parlare perché proprio dal fustagno deriva il termine jeans. In area veneta e, per estensione, in area lombarda oltre al fustagno erano diffuse altre stoffe, chiamate pignolati, termine in uso fino al XIX secolo nel dialetto lombardo per identificare tessuti in cotone con piccoli decori (a forma di pinolo)6. La parola fustagno secondo alcuni studiosi deriva dal latino medievale fustaneum da fustis, che significa legno d’albero, a sua volta derivato dal greco xylina lina in pratica “albero di lana” simile al termine odierno tedesco Baumwolle7. Altri pensano che il nome tragga la sua origine da un quartiere del Cairo chiamato Fustat o Fostat8; ma l’ipotesi è considerata dubbia per il ruolo minore dell’Egitto nella manifattura del cotone9, mentre altri lo indicano come luogo di smistamento dei cotoni provenienti dall’India10. Fra le possibili derivazioni etimologiche si è citato anche il termine arabo fustan, che, fin dall’origine del suo uso, indicava una stoffa pesante di cotone, per lo più con ordito di lino. La parola fustagno nel Medio Evo designa un tessuto di cotone mischiato a lana o lino; con il passare degli anni si definisce sempre meglio la sua struttura con trama di cotone e ordito di lino, anche se va ricordato come ogni città seguisse regole particolari e come proprio per le particolari caratteristiche di ogni centro i fustagni fossero abitualmente indicati con il nome della città di provenienza. Dato da sottolineare quale componente importante nel grande puzzle della nascita del jeans. Non sembra che l’armatura, cioè il tipo di intreccio fra ordito e trama, abbia giocato un ruolo fondamentale nella definizione della stoffa: a quanto si è in grado di capire si chiamavano fustagni sia i tessuti con armatura tela, quando, cioè, ordito e trama si intersecano con un rapporto 1 a 1 (a scacchiera), sia quelli con armatura diagonale, quando . Fennell Mazzaoui 1981, p. 90. . Fennell Mazzaoui 1981, pp. 90 sgg. e Glossario in Ericani – Frattaroli 1993, p. 55. Per riferimenti alla produzione di fustagno nella colonia genovese di Pera cfr. Fennell Mazzaoui 1981, p. 198.

l’ordito lega le trame seguendo un andamento diagonale. E’ possibile che il finissaggio della superficie, ma con aspetto lanuginoso ottenuto con una lavorazione (cardatura) effettuata artigianalmente con il cardo11, fosse invece caratteristica comune ai fustagni. Le stoffe tessute con armatura diagonale risultavano più resistenti e drappeggiavano meglio di quelle con armatura tela, quindi erano molto richieste sia per l’abbigliamento che per l’arredamento12. Per sgomberare il campo da una ricorrente ambiguità di termini è bene precisare che anche l’industria tessile di Nîmes si è specializzata nella manifattura di un tessuto in lana ad armatura diagonale, quindi particolarmente resistente, che nel corso del Settecento è stato realizzato, con le stesse caratteristiche, anche in cotone. Le stoffe di Nîmes hanno avuto una notevole espansione, che ha dato luogo a produzioni diversificate e tanto notevoli da spingere i commercianti della città a guardare a nuovi sbocchi all’estero, soprattutto al fiorente mercato inglese. Per servire i mercati stranieri si sono aperti punti di vendita in due città chiave: Cadice e Genova; da Genova partivano le merci destinate al Nord America e al Levante. Le due denominazioni – jeans da Genova e denim da Nimes – quando si comincia un’attività tessile a Baltimora verso la fine degli anni ’80 del Settecento, non si sovrappongono ma coesistono, il jeans è destinato all’abbigliamento da lavoro in generale, il denim, un po’ più rozzo, è piuttosto de­stinato agli indumenti da indossare sopra, come le casacche o le salopette da lavoro13. La comparsa del fustagno, e delle altre stoffe in misto cotone, segnò una vera e propria rivoluzione sul mercato: la varietà dei prodotti in cotone offriva una gamma vastissima di tessuti che potevano soddisfare le esigenze di una clientela variegata per gusto e per possibilità di spesa14. Ma il momento clou per la “nascita” del jeans è stato verso la seconda metà del Cinquecento, proprio quando i fustagni genovesi stavano attraversando un periodo di crisi e avevano perso una larga fascia di mercato, all’interno e all’ estero, pur restando ancora presenti sulle piazze estere. Per stringere il cerchio intorno alla sua origine dobbiamo considerare due fattori: la qualità del fustagno genovese in quel periodo e il consumo di massa di fustagno sul mercato inglese. Rispetto alle manifatture di altre città italiane il fustagno genovese si può collocare in una zona media, di qualità inferiore a quello di Piacenza e a quello di Milano, si differenziava da quello di Napoli, che era tessuto con lana e più pesante; la stoffa genovese occupava una posizione mediana, anche in relazione al costo, rispetto alle stoffe prodotte in altri centri italiani o tedeschi, come Ulm15. Paradossalmente proprio la qualità media e il costo ragionevole del suo fustagno hanno fatto sì che Genova abbia dato il nome al tessuto più noto al mondo da più di un secolo.

. Fennell Mazzaoui 1981, nota a p. 199. . Gentile 1981, pp. 65-66; Hardouin-Fugier, Berthod, Chavent-Fusaro

. Silvestrini 1989, p. 61.

1994, futaine, p. 199.

. Nougarède 1989, pp. 32-34.

. Fennell Mazzaoui, 1981, p. 90 e nota p. 199.

. Gorguet-Ballesteros 1994, pp. 25-38.

. Anquetil 1999, p. 18, a questo proposito si segnala la presenza di

. Fennell Mazzaoui 1981, p. 93.

mercanti genovesi in Egitto fin dal 1060: Jacoby 1999, p. 11.

. Ibid., p. 198.

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“The wearing of fustians is lately grown to more use as may seem than ever it was before time…” 16: fra la metà del XVI e gli inizi del XVII secolo la moda inglese ebbe un radicale cambiamento, soprattutto per quanto concerneva la ricerca di materiali nuovi, belli e a basso costo. Il fustagno sembrò soddisfare tutte queste esigenze, visto che il panno fine era molto costoso. Prima che l’industria locale si sviluppasse nel Lancashire nei primi anni del Seicento, l’Inghilterra aveva già da tre secoli un ruolo importante nel commercio europeo di questi manufatti come paese con un’importazione costante di fustagni, che era iniziata già nel 1200. Un atto del 1495 recitava: “…fustians brought from the parts beyond the seas unshorn into this realm have been, and should be, the most profitable cloth for doublets and for other wearing cloths, greatly used among the common people of this realm…” 17. Le due qualità più diffuse in Inghilterra erano i fustagni di Ulm e quelli di Genova, universalmente conosciuti come “Holmes” e “jean” o “jeans”. Il conto di un sarto del Lancashire del 1614 mostra l’uso di fustagno di “Milan” e “Geanes”; i libri del porto di Londra rivelano importazioni in scala estesa di fustagni di Holmes, Jeane, Milan e Augsburg nel periodo 1587-158918. In quel periodo il costo del fustagno di Genova – nel caso citato utilizzato per fodere e arredi da letto – era di poco superiore a quello inglese e notevolmente inferiore a quello di Ulm19. E’ evidente che la qualità media e il prezzo contenuto dei fustagni di Genova, anche se all’interno della Repubblica sul momento sono stati interpretati come segno di decadenza della manifattura, di fatto ne sanciscono un imprevedibile successo. Se il target erano le classi basse e medie, senza dubbio va ricordato come anche gli aristocratici siano stati attirati dalla versatilità del cotone, con la differenza che gli aristocratici utilizzavano i tessuti in cotone soprattutto per la confezione di arredi, come tende e biancheria da letto, mentre le classi più basse se ne servivano per l’abbigliamento20. Se quindi fissiamo la nostra attenzione sul XVII secolo possiamo affermare con buon margine di tranquillità che i tessuti in cotone erano ampiamente diffusi fra le classi meno agiate in tutta Europa, che fra questi il più apprezzato era il fustagno, che è stato chiamato jeans in Inghilterra a partire dalla seconda metà del Cinquecento per la sua provenienza da Genova, ma non era necessariamente blu! . “The wearing of fustians is lately grown to more use as may seem than ever it was before time”: La frase è tratta da un atto del 1597-1598, cfr. Wadsworth – De Lacy Mann 1965, p. 21. . « […] fustians brought from the parts beyond the seas unshorn into this realm have been, and should be, the most profitable cloth for doublets and for other wearing cloths, greatly used among the common people of this realm [...] » Wadsworth – De Lacy Mann 1965, p. 18. . Wadsworth – De Lacy Mann 1965, p. 19 citato in Gorguet-Ballesteros 1994, pp. 28 sgg. . Rispettivamente 11, 12 e 15 denari per “yard”, quale utile termine di confronto si segnala che nello stesso periodo si spendevano 23 soldi per la stessa quantità di velluto di seta nero, cfr. Levey 1998, p. 30. . Fennell Mazzaoui 1981, p. 89 e Lemire 1991, pp. 89 sgg.



Se ora spostiamo la nostra attenzione sulla diffusione delle tinture in blu nello stesso secolo abbiamo due elementi clou : la diffusione del blu nell’abbigliamento popolare europeo e la vivacità assunta dalle stoffe blu, come le possiamo vedere nei dipinti a partire dalla metà del Seicento circa. Nell’ambito dell’abbigliamento popolare il colore blu ricorre con notevole frequenza in tutte le aree geografiche, in particolare Fiandre, Spagna, Italia e Francia, come si può verificare, in mancanza di tessuti conservati, osservando i dipinti seicenteschi in cui sono raffigurati gruppi di persone di classe sociale medio bassa o scene di genere. Ad esempio per quanto riguarda le Fiandre nel dipinto in cui è raffigurato un Matrimonio campestre, (Madrid, Museo del Prado, inv. 01441), opera di Jan Brueghel Il Vecchio datato attorno al 1612 compaiono 16 grembiuli in tela di cotone azzurro più o meno intenso, 3 calzoni maschili e 3 ghette. Nel Paesaggio con mercato e lavandaie, attribuito a Joos de Momper il Giovane e Jan Brueghel il Vecchio e datato agli anni 1620-1622 (Madrid, Museo del Prado, inv. 1443), si nota la presenza di teli di color azzurro intenso fra i panni stesi ad asciugare e l’uso di tela dello stesso colore per i grembiuli, se ne contano 12, delle lavandaie impegnate a lavare e a stendere; certe figure femminili indossano anche casacche confezionate con la tela blu (fig. 1). Testimoniata nelle Fiandre anche in dipinti di pittori più tardi, come Jan Miel, la diffusione di stoffe in cotone tinto in blu è vasta anche in Spagna. Basta pensare a opere come La riconquista di Bahia di Juan Bautista del Maino del 1635 (Madrid, Museo del Prado; inv. 00885) in cui un azzurro particolarmente intenso caratterizza alcune figure maschili (casacconi, giuppone, ghette), femminili (una gonna e un mantello) e infantili (calzoni) e la Veduta di Saragozza di Juan Bautista Martinez del Mazo (Madrid, Museo del Prado, inv. 889), datata agli anni 1646-1647, in cui si vedono figure maschili e femminili vestite con stoffe tinte in azzurro intenso. La presenza di capi di abbigliamento blu è un elemento ricorrente nei dipinti di vedute e nelle scene di genere italiane in tutte le scuole pittoriche: da quella napoletana – si pensi ad esempio ad alcune opere di Domenico Gargiulo, detto Micco Spadaro, e di Filippo Napoletano – a quella piemontese, che, nell’ottica di questa ricerca, è espressa al meglio dai dipinti di Pieter Borgomans, più cono­sciuto come Bolkman (nato a Utrecht nel 1640 e morto a Torino nel 1710), a quella lombarda. Va anche considerato che spesso questi pittori hanno lavorato in diverse aree geografiche, non solo in quella in cui risiedevano, si cono­ scono ad esempio vedute di Bolkman riferite a Genova e lo stesso artista ha lavorato molto a Roma, così come Filippo Napoletano è stato a lungo sia a Roma sia in Toscana. Da questa breve visione a volo d’uccello emerge chiara la presenza, se non prevalente, almeno molto rilevante, di stoffe tinte in colori che vanno dall’azzurro intenso al blu in tutte le regioni italiane e, più in generale, in tutta Europa. La voga di nuovi e più intensi toni di blu nelle stoffe e nell’abbigliamento tardo seicenteschi sono in gran parte


Fig. 1 – Jan Brueghel il Vecchio e Joos de Monper il Giovane, Scena di mercato e lavandaie, Madrid, Museo del Prado.

dovute all’impiego dell’indaco invece del guado come materia tintoria. Nei primi decenni del Cinquecento, e fino alla fine del secolo, una delle tinture più diffuse per ottenere il blu era il guado (pastel in francese) estratto da piante di isatis, importate dall’Africa nel XII secolo e poi coltivate, fra l’altro, anche in Italia. Dopo una lavorazione molto laboriosa le foglie venivano pressate in pani definiti “coques” o “coquaigne” in francese, in italiano “cuccagna”, dal nome degli stampi usati, da cui derivano vari detti, come “paese della cuccagna” per indicare un paese ricco. Oltre al guado, il più noto dei coloranti usati per ottenere il blu è stato certamente l’indaco; documentato a Genova fin dal 1140, l’indaco era apprezzato anche per le sue qualità terapeutiche, come efficace anti infiammatorio, fin dal tempo dei romani (Plinio il Vecchio). A partire dalla seconda metà del Cinquecento l’uso dell’indaco, nono­ stante la resistenza dei produttori di guado, dilagò in tutta l’Europa, grazie ai più intensi rapporti commerciali con il medio e lontano Oriente e, sopratutto, dalle nuove frontiere coloniali, da dove proveniva una qualità di indigofera, che permetteva di ottenere una materia colorante dalle proprietà superiori a quelle delle indigofere asiatiche21. Spagna

e Italia sono stati i primi due paesi ad accogliere il nuovo prodotto, che diventa fonte di guadagni considerevoli, mentre la Germania e la Francia, centri di produzione del guado, hanno cercato – invano – di resistere alla novità. L’indaco arriva in preziosi pani, tanto pressati da sembrare pietre, che consentono di tingere il cotone senza bisogno di mordenzatura – il solo contatto con l’ossigeno dell’aria basta a fissare il colore – e di ottenere una grande varietà di blu intensi e stabili, resistenti ai lavaggi e agli effetti dannosi del sole. Genova, grazie alla fiorente attività portuale e alle capacità imprenditoriali della sua classe mercantile, ha avuto un ruolo di crocevia, grazie al quale diventava più facile procurarsi le materie prime. Purtroppo la mancanza di ricerche approfondite sull’abbigliamento delle classi meno abbienti impedisce di poter quantificare la diffusione delle stoffe in cotone, anche se, per analogia con gli usi delle altre nazioni22, si può desumere un loro vasto utilizzo sia per gli abiti da lavoro maschili, sia per quelli femminili. Poiché le stoffe di cotone erano di largo consumo è scontato che non ne siano rimaste tracce, . Lemire 1991; Ewing 1984 e le ricerche di Roche 1989 e Perrot 1995 per

. Pastoureau 2008, pp. 150-156.

la Francia.




Fig. 2 – Teramo Piaggio e Aiuto, Orazione nell’orto, Giuda impiccato Pentimento di Pietro, Cristo e gli Apostoli, tela di lino tinta con indaco e dipinta con biacca, 15381540, Genova, Collezione Tessile della Soprintendenza per i Beni Storici Artistici ed Etnoantropologici della Liguria in deposito al Museo Diocesano.

visto che, come avveniva anche per i costosissimi abiti da parata, confezionati con tessuti serici e ricamati con filati dorati, era prassi comune utilizzare gli abiti fino alla totale consunzione. Per fortuna alcuni manufatti sono, per varie ragioni, sfuggiti a questo inesorabile destino, cosicché a Genova si conservano preziose testimonianze di manufatti di cotone, o lino, tinti in blu. L’esempio più straordinario è la serie di 14 teli destinati alle devozioni del periodo quaresimale dipinti con le Storie della Passione nel 1540 da Teramo Piaggio e da altri autori liguri – lombardi. La serie dei teli, proveniente dalla Chiesa dell’Abbazia di S. Nicolò del Boschetto a Genova, dove è stata conservata fino al XIX secolo, è diventata proprietà privata ed è stata salvata dalla dispersione grazie all’intervento della Soprintendenza genovese, che nel 2000 ne ha promosso l’acquisizione da parte del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e reso possibile l’esposizione al pubblico nelle sale del Museo Diocesano a Genova23 (fig. 2). Alcune statuine da presepe settecentesche, che indossano abiti originali, conservate al Museo Luxoro di Genova – Nervi, sono inconsce e rarissime testimonianze di fustagno genovese, veri e propri antenati del jeans: infatti, anche se non sono ancora state effettuate analisi specifiche, dall’analisi visiva tutti gli abiti blu risultano costituiti da un tessuto con armatura diagonale con ordito di lino (o canapa?) color ecru e trama blu, quindi in fustagno blu, quindi in jeans! (fig. 3 e 4). Il nostro pittore dimostra una particolare predilezione per i tessuti, che sembrano essere in cotone, di color azzurro intenso con cui “confeziona” i grembiuli femminili indos. Cataldi Gallo 2008, pp. 75-87.



sati nelle due versioni della Donna che cuce e due bambini (cat. 7 e 8), della Madre mendicante con due bambini (cat. 9) e nelle due versioni del Pasto frugale (cat. 5 e 6). Nell’abbigliamento maschile le ghette dell’uomo che viene rasato, allargate con l’inserimento di un grossolano inserto triangolare, costituiscono un forte elemento di richiamo nell’interno piuttosto cupo, in cui tutto è giocato sul rapporto dei diversi bruni con il bianco. Anche i calzoni dei due bambini ai piedi del lettino, nelle due versioni del dipinto in cui è raffigurata la madre che cuce – e si noti il ricorso alla tela “turchina” tutta strappata per foderare il cuscino della culla – evocano la passione dell’artista per la tela blu e, verosimilmente, scaturiscono dalla sua attenta e acuta osservazione della realtà quotidiana. Nel corpus delle opere attribuite alla sua mano i personaggi e le ambientazioni evocano scenari di povertà, una povertà quasi esasperata, che, a ben vedere, lascia scorgere all’osservatore qualcosa in più della miseria, qualcosa che si può descrivere come l’adozione da parte dei più miseri dell’arte di arrangiarsi per sopravvivere. Ci mostra l’arte di usare casacconi tutti rattoppati, come il vecchio che imbocca il nipotino nel dipinto conservato a Gand (cat. 5 e 6), o come quello che si fa radere dal barbiere (cat. 12); di cucire un tessuto già logoro, mentre si indossa un velo da testa bianco strappato in più punti e un grembiule lacerato da evidentissimi strappi (cat. 7 e 8). Ma gli elementi più singolari del suo discorso sono i personaggi vestiti con abiti incongruenti rispetto alla loro età e alla loro condizione. Gli esempi di questo tipo di allontanamento da quella che si può definire “norma” riguar­ dano in particolare gli abiti dei ragazzini e quello della figura femminile raffigurata come mendicante (cat. 9). In tutti gli esempi, pur con le ovvie differenze fra abiti maschili e femminili, la stranezza consiste nel fatto che i personaggi sono raffigurati con abiti che manifestamente non appartengono loro. Le figure di giovani donne, cioè le due versioni di Donna che cuce e quella di Donna mendicante, indossano la stessa casacca, con baschina piuttosto lunga, che si vede bene nel dipinto della galerie Canesso, e maniche attraversate da un taglio longitudinale secondo la moda del tempo, ma strappate e logorate dall’uso prolungato, con sotto un giuppone di colore giallo aranciato; in particolare nella versione in cui compare la mendicante in piedi (cat. 9), si vede chiaramente come il giuppone sotto la casacca sia ornato da un gallone in pelle o dorato, che segna il paramano e profila l’abbottonatura: potrebbe anche essere appartenuto a un uomo o a un militare. Ci si può porre la stessa domanda sulla provenienza delle vesti osservando alcune delle casacche dei ragazzini, in particolare quello con in mano la pagnotta (cat. 4) e quello che chiede l’elemosina con la madre e la sorella (cat. 9), entrambe sono decisamente oversize – il giovane vestito con abiti troppo grandi per lui sembra un topos e ricorre anche in opere di Ceruti e Olivero – e rifinite con particolari accurati, ad esempio le asole ad anello lungo i profili dell’alto collare, in netto contrasto con la marcata allusione alla miseria in cui i due si dibattono.


Anche in questo caso la provenienza degli abiti è molto incerta e fa ritenere che il pittore si sia inoltrato nelle pieghe più remote del mondo dei diseredati e abbia desiderato raffigurarne anche gli aspetti borderline rispetto ai concetti di “buona condotta” e rispetto della proprietà privata. La loro provenienza d’origine può essere cercata – a mio avviso con poca convinzione – nel passaggio di indumenti all’interno di una famiglia o nel dono di abiti usati da parte di qualche benefattore o della parrocchia24, mentre sembra più plausibile pensare all’ambito del mercato dell’usato o a quello dei furti di abiti. E’ come se i dipinti del nostro pittore ci accompagnassero in un sottobosco popolare poco conosciuto in cui l’arte di arrangiarsi e i comportamenti malavitosi convivono gomito a gomito. I suoi dipinti del resto sembrano dividersi in due gruppi, come ha già sottolineato Gerlinde Gruber25: quelli dei poveri “per bene” o si potrebbe dire “a modo”, che pur nella loro miseria cercano in ogni modo di “salvare le apparenze”, come nel dipinto in cui il vecchio imbocca un giovanetto tutto ben vestito sotto gli occhi della nonna sul cui petto spicca un colletto stirato alla perfezione e nelle varie redazioni del Pasto frugale (cat. 5, 6 e 10), e quelli dei poveri spinti dalla miseria ai limiti della rispettabilità, con vestiti troppo grandi e segnati da strappi e lacerazioni, che sembrano accentuate volontariamente. Nelle recenti indagini sui comportamenti vestimentari delle classi più basse si è messo in luce il ruolo speciale degli abiti nella società sei-settecentesca. Negli scambi commerciali, anche se il loro valore economico era minimo, le

vesti hanno sempre un ruolo speciale, per la loro intima relazione con il corpo; le vesti avevano, infatti, il compito di proteggerlo e coprirlo, ma anche di mostrarlo e manife­ starlo. Quindi il loro ruolo non è solo collegato a istanze di comfort e igiene, ma anche al desiderio di proprietà, identità e rispettabilità. Gli abiti si distinguevano dagli altri oggetti posseduti in una famiglia perché appartenevano ai suoi singoli componenti: erano personali. Per i giovani adulti, in particolare, gli abiti erano speciali perché erano la loro unica proprietà e perché su quegli oggetti erano liberi di esercitare le loro scelte, cioè di scegliere di acquistare con i loro risparmi un capo o l’accessorio che si potevano permettere, anche perché alcuni di essi come nastri o fazzoletti erano davvero poco costosi26. D’altro canto anche alcuni accessori ricorrenti nei dipinti, in particolare i fazzoletti annodati sul capo di tutte le figure femminili e i grembiuli, elemento essenziale del vestire femminile in tutte le aree geografiche e anche nelle diverse classi sociali, erano riconosciuti come “beni rifugio”, adatti ad essere lasciati in pegno quando la famiglia aveva bisogno di credito27. Non deve quindi sorprendere che molti uomini e donne delle classi meno agiate sentissero un forte desiderio di possedere almeno qualche vestito alla moda, o che almeno richiamasse, anche se in modo approssimativo, quello che era di moda fra le élites: in genere nell’abbigliamento popolare si può notare non certo una perfetta aderenza alle ultime mode ma indubbiamente una certa famigliarità con “the broad trends of high fashion”28. . Styles 2007, p. 303.

. Styles 2007, p. 307.

. Welch 2005, p. 28.

. Gruber 2006, pp.159-170.

. Styles 2007, p. 304.



Fig. 3 – Scultore Ligure del XVIII secolo, Pastore, Genova - Nervi, Museo Luxoro. Fig. 4 – Scultore Ligure del XVIII secolo, Pastore (particolare della casacca), Genova - Nervi, Museo Luxoro.


La speciale considerazione per le vesti fra i disagiati fa sì che indossare abiti evidentemente non propri sia un segno forte per manifestare uno stato di povertà tale, forse da spingere non tanto verso la diffusissima pratica degli acquisti di seconda mano, quanto al furto. Del resto nella letteratura popolaresca tardo barocca, così come nei trattati moralizzanti o nelle relazioni della polizia parigina, si tende a sovrapporre le due pratiche – vendita di seconda mano e furto – come espressioni strettamente collegate dei bassi istinti delle classi inferiori29. I furti di abiti erano molto diffusi, un po’ perché – come si è detto pocanzi – o per proteggersi, o per soddisfare la propria vanità, tutti avevano bisogno di abiti, ma anche perché, a fronte di pochissimi mobili e suppellettili, era abbastanza comune che persone di umile condizione possedessero più esemplari di ogni capo e quasi sempre potessero disporre almeno di un abbigliamento da lavoro e di uno da festa30. Il furto di biancheria – reso più semplice quando questa era stesa ad asciugare – e di abiti era una forma delittuosa di un certo rilievo nella Parigi tardo seicentesca (forse anche altrove), tanto da venir annoverato fra i crimini repressi dalla giustizia reale, con un inasprimento di repressione a partire dal 167031. In conclusione, come si è visto, la diffusione dell’uso del cotone, e del cotone tinto in blu in particolare, rendono difficile servirsi di questo elemento per individuare il centro di attività del Maestro. L’esame dell’abbigliamento – tenuto conto della scarsità di documenti a disposizione sull’abbigliamento delle classi disagiate – mostra alcuni caratteri ricorrenti. In primo luogo il perdurare di abitudini vestimentarie in uso nei primi anni del Seicento, o addirittura nel Cinquecento, come ha già evidenziato la Gruber a proposito del velo della Donna che cuce32: il fazzoletto bianco annodato in quel modo e un po’ rigonfio sulla nuca era diffuso in ambito veneziano e figura spesso nei dipinti di Bassano. Ancora la Gruber ha proposto una datazione agli anni ’20-40 del Seicento per le scarpe; anche la berretta bianca da casa indossata dal vecchio che imbocca il ragazzo nei Pasti frugali vanta illustri precedenti in opere di Caravaggio, come le Cene in Emmaus (Londra,

. Roche 1989, pp. 313 sgg. . Styles 2007, pp. 35-45, p. 305. . Roche 1989, p. 317. . Gruber 2006, p.165.



National Gallery e Milano, Pinacotaca di Brera). L’uso persistente di certi capi di abbigliamento riflette, per un verso, la necessità di utilizzarli il più a lungo possibile e, per un altro, la tenacia della tradizione, dimostrata dalla berretta bianca e dall’intramontabile corpino indossato dalla vecchia delle Cene Frugali e dalla bambina (con tracce di nanismo?) mendicante. Oltre alla berretta bianca citata, altri copricapo sembrano echeggiare il linguaggio corrente dei pittori di scene di genere tardo seicenteschi, come il cappello floscio a tesa larga arrotondata, che quasi nasconde il Piccolo mendicante con focaccia ripiena, ma il ruolo leader va certamente riconosciuto al fazzoletto annodato sotto il mento, presente sul capo di quasi tutte le figure femminili dipinte dal nostro Maestro; il fazzoletto – del cui “valore” come eventuale pegno si è detto – ha un ruolo da protagonista anche nelle opere di Monsù Bernardo, cioè Eberhard Keilhau, e di Giacomo Ceruti. Forse questi indizi riferiti alla storia del costume non sono sufficienti per ricondurre l’attività del pittore a una determinata area geografica – per ipotesi collocabile fra Lombardia e Veneto – ma possono integrare le ricerche incentrate sulla sua produzione artistica. Il fatto che gli sia stato attribuito l’appellativo di Maestro della Tela Jeans – come si è visto – è tecnicamente giustificato visto che lui dipinge stoffe in cotone, che presumibilmente sono in fustagno, stoffa che fin dal tardo Cinquecento gli inglesi hanno battezzato con il fortunato nome di jeans, per il semplice fatto che il tessuto arrivava da Genova. Aver attribuito quell’appellativo al Maestro riflette senza dubbio più la recente fortuna dei pantaloni “nati” negli States verso il 1860 che l’origine storica di questa stoffa – povera e resistente – che ha incantato i consumatori dal Medio Evo a oggi. In fondo, proprio questo legame con la nostra quotidianità ci fa sentire più vicini a questo acuto e sensibile Maestro, che dei suoi personaggi ha raffigurato l’aspetto, senza trascurare di fornirci anche squarci rivelatori della loro condizione umana. Grazie di cuore a Grazietta Butazzi, punto di riferimento per chi studia la storia del costume, per la sua disponibilità.


Catalogo vronique damian gerlinde gruber




Michael Sweerts (Bruxelles, 1618 – Goa, 1664) 1. Vecchio che regge una bottiglia accompagnato da un ragazzo

olio su tela, 48,6 × 37,9 cm roma, galleria dell’ accademia nazionale di san luca, inv. 172

bibliografia Kultzen 1996, p. 92, n. 17, fig. 17 (con bibliografia precedente); Laureati, in Brescia 1998-1999, pp.  151 fig., 334, n.29; Jansen – Sutton, in AmsterdamSan Francisco-Hartford 2002, pp. 152-153, al n. , nota 1.

mostre Brescia 1998- 1999, pp. 151 fig., 334, n. 29.

Non è un caso che l’arte del primo periodo romano di Michael Sweerts – lo si trova nell’Urbe nel 1646, all’età di ventotto anni – si collochi d’acchito nel movimento dei Bamboccianti, un gruppo d’artisti di origine fiamminga che prediligeva scene di vita popolare, a figure piccole molto caratterizzate. Pieter van Laer (1599-ca. 1642), il pioniere di questa pittura di genere, era già scomparso quando Sweerts arriva nella Città Eterna e anche se tali soggetti erano ancora rappresentati, essi erano espressi in maniera più composta. Il nostro Fiammingo, poiché è stato stabilito che Michael Sweerts è nato a Bruxelles nel 1618, posa uno sguardo attento al mondo del popolino, con la capacità di variare i temi e passare con facilità dalle scene d’interni a quelle all’aperto, di contadini o di strada, fino a studi isolati dal vero, talvolta con connotazioni allegoriche. Laura Laureati (in Brescia 1998-1999, p. 334) nota, molto a proposito, che dal punto di vista della composizione le scenette di Sweerts si ispirano ancora – sembrandone altrettante “eco” romane – ai soggetti popolari fiamminghi divulgati nello stesso periodo ad Anversa e a Bruxelles da David Teniers il giovane (1610-1690). In questo quadro, il vecchio che sembra sotto gli effetti dell’alcool è seduto in uno spazio difficile a definirsi. Si trova nel cortile oppure nella cantina di una locanda, come farebbe pensare la botte alla sua destra? Delle figure schizzate con rapidità s’intravedono in un interno attraverso una porta aperta sullo sfondo. Questa soluzione permette di aprire lo spazio per attenuare un poco la frontalità della scena, che resta tuttavia il carattere più moderno di questa rappresentazione. Come più tardi avviene nel nostro Maestro della tela jeans, l’attenzione si concentra sulle figure e ben poco sull’ambiente intorno, appena definito. Analogamente al quadro di Cipper (cat. 13), è il dialogo tra i personaggi a catturare l’attenzione dello spettatore, impegnato a interpretarne il messaggio. Nel dipinto in mostra, sembra che piuttosto si esprima una tensione tra i due protagonisti, perché il vecchio, visibilmente ebbro per il vino contenuto nella sua fiasca, sembra che



non voglia consegnarla al ragazzo che cautamente cerca di sottrargliela. Inoltre, come è stato sottolineato dalla critica a proposito di questa scena, potrebbe esservi sotteso un significato morale: quello del pericolo insito nell’abuso dell’alcool, e in un’accezione più generale, l’invito a stare in guardia contro il Vizio. Il vecchio dallo sguardo brillante resiste a questo messaggio portatogli dal fanciullo, rifiutando di incarnare il ruolo di esempio. Il dipinto nel suo insieme è declinato in differenti toni di colore bruno, e l’unica eccezione è costituita dal ragazzo che indossa una giacca rosso mattone, bucata. L’artista ripete questo tema più volte nella sua opera. Il soggetto dell’uomo più o meno giovane, con la bottiglia in mano, seduto in un interno o all’aperto, solo o con un altro protagonista, viene descritto volta a volta con spirito differente. E’ giovane e gioioso in un quadro di collezione privata europea eseguito poco dopo l’arrivo di Sweerts a Roma (Kulzen 1996, p. 90, n. 10), o d’età più avanzata in una successiva fase della carriera del pittore, anche in questo caso con una caraffa in mano, come si osserva nel dipinto del Metropolitan Museum (Kultzen 1996, p. 112, n. 79). Rolf Kultzen considera l’opera in mostra eseguita durante il soggiorno romano dell’artista, tra il 1650 e il 1655. Il dipinto proviene, per via ereditaria, dalla collezione privata di Maurizio Dumarest a Roma, e fa parte di un più ampio lascito di quest’ultimo all’Accademia di San Luca. Un’altra versione (48,6 × 39,3 cm), attribuita a Sweerts ma considerata copia da Rolf Kultzen (1996, al n. 17), si trova oggi nell’ Agnes Etherington Art Centre, Queen’s University, Kingston, Ontario, dono di Alfred Bader e consorte, Milwaukee (Zafran, in Amsterdam-San Francisco-Hartford 2002, p. 61, fig. 57). Kultzen segnala ancora un’altra copia dell’opera, passata a una vendita di New York (Christie’s, 10 giugno 1983, n. 134). Inoltre, Kultzen suggerisce che questo dipinto possa essere stato pendant dell’ Uomo che legge appoggiato a un teschio (Firenze, Fondazione Roberto Longhi; Kultzen 1996, p. 94, n. 23). vronique damian





Eberhard Keilhau, detto Bernardo Keil o Monsù Bernardo (Helsingør, 1624 – Roma, 1687) 2. Giovane che si scalda, in compagnia del suo cane

olio su tela, 73 × 97 cm vienna, gemldegalerie der akademie der bildenden knste, inv. 261.

bibliografia Schwemminger 1873, p. 3, n. 53 (da Murillo); Lützow 1889, p. 263 (scuola spagnola del XVII secolo); Lützow 1900, p. 273 (scuola spagnola del XVII secolo); Frimmel, 1901, p. 122 (artista minore); Voss 1925, p. 637 (Amorosi); Eigenberger 1927, p. 4 (Amorosi); Heimbürger 1988, p. 189 (Keilhau); Trnek 1989, p. 126 (Keilhau); Trnek 1997, p. 182 (Keilhau).

mostre Vienna 1969, p. 19.

Il dipinto, in discreto stato di conservazione, fu donato nel 1822 alla Galleria di dipinti dell’Akademie der bildenden Künste dal conte Lamberg-Sprinzenstein. Vi si vede raffigurato un giovane che, vestito con semplicità e seduto a terra, con un braccio appoggiato a una seggiola e il mento posato sulla mano dallo stesso lato, rivolge allo spettatore uno sguardo pensieroso, mentre per scaldarsi tende l’altro braccio verso un braciere pieno di tizzoni ardenti. Sulla seggiola è gettato con negligenza un berretto di pelliccia rossa. Gli sta vicino un cane, la cui attenzione è tutta presa dalle braci. Il luogo in cui si svolge la scena è impreciso: il frammento di muro, che ne è l’unica indicazione, potrebbe essere pertinente tanto a un’ambientazione all’esterno che all’interno. La collezione di Vienna possiede un secondo dipinto di Keilhau, pendant di questo in mostra, con Due bambini che intrecciano ghirlande di fiori. Come molte altre opere appartenenti al genere della pittura della realtà, la coppia di quadri è stata dapprima considerata come di artista spagnolo, copia da Murillo. Riportando un’attribuzione fatta a voce da Roberto Longhi, Herman Voss la pubblicò nel 1925 come di Antonio Amorosi. Infine, Minna Heimbürger vi ha riconosciuto lo stile di Monsù Bernardo



nel suo periodo bergamasco (verso il 1655). Secondo la studiosa, questo dipinto si presta a diverse interpretazioni allegoriche: il braciere colmo di braci rappresenterebbe l’inverno o il fuoco, la mano del giovane, che si avvicina ad esso per scaldarsi, il senso del tatto, e il cane l’odorato. Rispetto a queste letture, preferiamo ritenere che lo scopo del pittore fosse la raffigurazione del personaggio in sé, e che la presenza del cane potrebbe qualificarlo come un pastore. Il dipinto si data presumibilmente intorno al 16501660. Nessun altro artista del Seicento ha rappresentato dei fanciulli in maniera altrettanto frequente di Keilhau: in questo, egli è stato una fonte d’ispirazione importante per l’opera di Evaristo Baschenis e del Maestro della tela jeans. Nei tratti del ragazzo si riscontrano le caratteristiche di serietà tipici di quest’ultimo, ma lo stile di Monsù Bernardo è più morbido, e il suo tocco più leggero rende la carnagione dei suoi personaggi in maniera più espressiva. Queste caratteristiche, unite alla luce calda e dolce che rischiara il dipinto, conferiscono un’atmosfera generale molto più serena. In confronto, la realtà del Maestro della tela jeans è più secca e più dura e il suo utilizzo di un forte contrasto chiaroscurale lo avvicina maggiormente alla tradizione caravaggesca. gerlinde gruber


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Evaristo Baschenis (Bergamo, 1617-1677) 3. Bambino con cesto di pane e dolci

olio su tela, 54 × 73 cm milano, collezione mario scaglia.

bibliografia Biancale 1912, pp. 325, 334, nota 1; Delogu 1931, p. 220; Angelini 1943, p. 87, n. 20; Longhi, in Milano 1953, pp. x, 41, 43, n. 54; Cipriani – Testori, in Milano 1953, p. 43, n. 54; Griseri 1953, p. 63; Pignatti 1953, p. 277; Testori 1953, p. 24; Delogu 1962, p. 164; Volpe, in Napoli-Zurigo-Rotterdam 19641965, p. 91, n. 206, fig 92b; Gregori 1969, p. 108; Rosci 1971, pp. 5051; 58, nota 70; Valsecchi 1972, n. viii, xxxii; Bergström 1975, p. 288; Gregori 1982, pp. 31, 92, nota 161; Frangi 1991, pp. 42, 276; Bentivoglio Ravasio 1993, p. 345; De Pascale, in Bergamo 19961997, pp. 166-169, n. 16; Rosci, in Bergamo 1996-1997, pp. 45-46, 50, nota 21; Ruggeri 1996, p. 321; Bayer, in New York 2000-2001, pp. 92-95; Frangi, in Milano 2002, pp. 208-209, n. 82; De Pascale, in New York 2004, pp. 214-215; Gruber 2006, p. 161; Morandotti, in Milano 2007-2008, pp. 210-213.

mostre Roma 1945, n. 118; Milano 1953, pp. , 41, 43, n. 54; NapoliZurigo-Rotterdam 1964-1965, p. 91, n. 206, fig 92b; Bergamo 1996-1997, pp. 166-169, n. 16; Milano 2002, p. 208, n. 82; Milano 2007-2008, pp. 210-213.

Il quadro è certamente stato prodotto a Bergamo, dove la sua presenza è attestata con sicurezza nell’Ottocento e all’inizio del ventesimo secolo (presso la famiglia Quarenghi, ante 1912). A partire da questa data, sempre a Bergamo e a Roma, esso diventa proprietà di Gianforte Suardi e poi, per via ereditaria, del conte Guido Suardi, presso cui è ancora nel 1964, al momento della grande mostra sulla natura morta italiana, prima di passare sul mercato milanese dove venne acquistato dall’attuale proprietario. Le sue numerose nature morte, esemplari nella resa veridica delle cose, e specialmente quelle celebri dedicate agli strumenti musicali, ci fanno spesso dimenticare che il bergamasco Evaristo Baschenis realizzò anche dipinti con figure (Tassi, 1793, i, p. 235). Tra quelli che sono arrivati fino a noi, ci è d’obbligo tuttavia constatare che la figura umana cede sempre il passo a meravigliosi inserti di natura morta, come dimostra anche il Trittico Agliardi (collezione privata), che raffigura membri della famiglia nei panni di musicisti: in questo caso i personaggi sono i veri attori della scena, ma l’insieme di strumenti musicali e figure umane illustra sempre perfettamente questo genere della pittura di Baschenis come “pittura di ritratto”. Nel dipinto in mostra, il ritratto del bambino è stato volontariamente spostato sulla destra per piazzare al centro il cesto, un raro momento di equilibrio nei virtuosismi miranti a legare figure e natura morta. I due motivi fanno veramente corpo unico in una descrizione cesellata, formicolante di particolari e, in questo senso, lo zucchero bianco dei dolci rivaleggia senza fatica con le nappe fioccose delle chiusure della camicia, e il pennello accorda a entrambi i dettagli la stessa attenzione scrupolosa. Vi si aggiunga l’armonia dei toni, fatta di bruni dorati, di grigi, così brillantemente rialzati dal rosso del revers della manica e dei dettagli della passamaneria e dei bottoni. Infine, la luce si spande con libertà sui tratti delicati e seri del fanciullo, e in maniera più contrastata sul cesto il cui bordo esterno è animato dall’ombra portata dei dolci, un motivo caro all’artista e che riappare spesso, in particolare nelle nature morte di cucine (collezione privata; Milano, Accademia di Brera; si veda Bergamo 1996-1997, nn. 9, 10. 41). Attraverso il ritratto questa natura morta prende vita, autentica testimonianza di una precisa epoca e della sua società. Nel contesto

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preciso della mostra questo quadro è stato richiesto come esempio di un precedente lombardo nel filone delle scene di genere trattate come altrettante istantanee di vita; il Bambino con cesta di pane e dolci oltre alla sua ambizione intellettualistica, assume qui un sapore speciale. Infatti non ci si può esimere dal confrontarlo – come ci invita a farlo il tema comune del ritratto di fanciullo – con il Piccolo mendicante con un pezzo di focaccia ripiena (cat. 4). Il personaggio di Baschenis ne risulta la controparte elegante e raffinata che non ha nulla da invidiare al suo omologo dal punto di vista dell’intensità psicologica. Se il primo, elegantemente vestito, esibisce sulle braccia il suo appetitoso trofeo, senza inutile esibizionismo e con applicazione, il secondo, nei suoi abiti bucati, sopporta la fame e il freddo, e il pittore porta la sua attenzione sulle mani arrossate, o che vengono nascoste sotto la giacca per trovare un po’ di calore. Il viso mezzo nascosto dal colletto della giacca stessa, decisamente troppo grande, ha l’espressione inebetita di colui che attende nel freddo qualche opportunità di sopravvivenza, un problema per forza assente dalla composizione di Baschenis. In quest’ultima, trionfa il piacere grazie all’intermediazione della natura morta, questo paniere ricolmo di biscotti, tra i quali dei savoiardi, di pane o di ciambelle: il savoiardo in equilibrio incerto sul bordo ci dà la misura dello sforzo compiuto dal fanciullo per mantenere la stabilità dell’insieme. Il ruolo preponderante conferito a queste leccornie permette all’artista di inventare una forma di pittura che parla direttamente ai sensi. In maniera originale, Baschenis ha proceduto sulla via che va da Caravaggio a Vermeer – quest’ultimo per l’impiego di una tecnica liscia e delicata per il viso, una caratteristica condivisa con il giovanetto del Maestro della tela jeans (cat. 4) – forse in questo sollecitato dalla presenza di artisti nordici, come Michael Sweerts, in Italia settentrionale. Per un rendiconto dettagliato e commentato della bibliografia sul dipinto, si rimanda all’ultima pubblicazione di Alessandro Morandotti: lo studioso propone di situare l’opera intorno al 1650-1660, una data abbastanza avanzata nella produzione dell’artista, che si giustifica per il grado di compiutezza di questo quadro, autentico capolavoro dell’artista. vronique damian


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Maestro della tela jeans (attivo in Italia del Nord alla fine del xvii secolo) e

4. Piccolo mendicante con focaccia ripiena olio su tela, 86 × 71 cm parigi, galerie canesso

bibliografia Gruber, in Brescia 1998-1999, p. 425, sotto n. 90; Gruber, in Frangi – Morandotti 2004, pp. 156, 158, fig. a p. 160; Gruber, in Milano 2006, pp. 128-130; Gruber 2006, pp. 160-161, 165, fig. 242.

Proveniente da una collezione privata italiana, il dipinto rappresenta un fanciullo in abiti stracciati, in piedi davanti a una colonna, che tiene nella mano sinistra un pezzo di focaccia sbocconcellato e con la destra infilata sotto la giacca sembra sostenere la spalla. Con le labbra socchiuse, egli fissa davanti a sé con uno sguardo insistente che oltrepassa lo spazio del quadro. L’incarnato è descritto in maniera molto sottile grazie alla superficie pittorica liscia, in contrasto con l’abito, gli strappi e le toppe, riprodotti invece con tocchi rapidi di pennello. Il viso pulito è reso meticolosamente, come anche le dita sottili e delicate, due caratteristiche che sembrano in contrasto con l’origine sociale popolare del bambino. Nella sua fototeca, Roberto Longhi aveva classificato la foto del Piccolo mendicante sotto il nome di Michael Sweerts (Bruxelles, 1618 – Goa, 1664), senza dubbio in virtù della fisionomia allungata e seria dall’espressione malinconica, che doveva evocare allo studioso quella del Ragazzo con cappello dell’artista fiammingo (Hartford, Wadsworth Atheneum Museum of Art), databile al 16551656 circa. Ma, a parte queste somiglianze, il giovanetto del Maestro della tela jeans risulta meno lirico: in Sweerts, infatti, i tratti del viso, eseguiti con raffinatezza, mirano a un’idealizzazione che non è invece tra gli intendimenti del nostro artista. Nel nostro Piccolo mendicante domina una visione profondamente realista, che accentua la forza espressiva del dipinto e, inoltre, rispetto a Sweerts, il Maestro della tela jeans fa uso di un più marcato contrasto tra ombra e luce. L’espressione seria di questo viso ricorda il dipinto di Evaristo Baschenis (si veda cat. 3), una personalità che occupa una posizione speciale nell’opera dell’anonimo (Frangi, in Milano 2002, p. 208). Entrambi gli artisti riescono, grazie all’espressione attenta

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del personaggio, a imprimere ai loro dipinti un tono altamente poetico, realizzando nello stesso tempo una composizione essenziale e realista; ad esempio lo sfondo nel quadro di Baschenis è reso con un tono scuro e unito, mentre il Maestro della tela jeans si limita a indicare un frammento di colonna. I due quadri hanno in comune un’impaginazione caravaggesca, grazie altresì alla presenza di un’unica fonte luminosa, proveniente dall’alto a sinistra. Ma nel Maestro della tela jeans le reminiscenze da Caravaggio sono ancora più marcate: i contrasti luministici sul viso del fanciullo sono più drammatici che in Baschenis e la colonna nello sfondo ricorda inoltre, seppur lontanamente, l’inquadramento della nicchia nella Madonna dei pellegrini del Merisi (Roma, Sant’Agostino, cappella Cavalletti). L’incarnato del nostro mendicante – descritto, come si è detto sopra, con estrema attenzione – assume per le sue caratteristiche tecniche una funzione importante nel ridotto corpus di opere attribuite al Maestro della tela jeans. Ipoteticamente, infatti, si vorrebbe proporre di far risalire il dipinto a una data più remota nell’opera dell’artista. All’altro estremo, quello della sua produzione più tarda, si potrebbe porre il Barbiere (cat. 12; si veda in questo catalogo il saggio di Gerlinde Gruber), caratterizzato in alcune parti da una tecnica pittorica schizzata rapidamente e quasi semplificata. Di fatto, una simile resa abbozzata della superficie si incontra di preferenza in Italia – si pensi allo stile di Antonio Cifrondi – e potrebbe indicare che il nostro piccolo mendicante è stato ritratto in un’epoca precedente rispetto al Barbiere, ossia quando nell’opera del Maestro della tela jeans le influenze italiane sono meno pregnanti. gerlinde gruber


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Maestro della tela jeans (attivo in Italia del Nord alla fine del xvii secolo) 5. Pasto frugale olio su tela, 92 × 113 cm parigi, galerie canesso

6. Pasto frugale ₍non esposto₎ olio su tela, 148,7 × 118,8 cm gand, museum voor schone kunsten, inv. nr. 1905 - a

bibliografia n. 5 Eeckhout 1960, i, p. 377, ii, fig. 167 a; Gruber 2006, p. 162.

bibliografia n. 6 Gand, 1909, pp. 88-89 (spagnolo, scuola di Siviglia, 1615-1630 circa); Frimmel 1913; Gand, 1938, p. 153 (Napoli, XVII secolo); Bautier 1943, p. 13, fig. xiv; Chabot in Bruxelles-Liegi-Città del Lussemburgo 1949, p. 18, n. 29 (italiano, XVII secolo); Chabot 1951, p. 26, n. 32 (attribuito a Ceruti); Eeckhout 1960, i, p. 373377 (lombardo, fine XVII secolo); Moulin 1988, p. 168; Hoozee 1988, p. 41; Hoozee – Tahon-Vanroose 1989, p. 64; Cappelletti 1998, p. 305, nota 67; Hoozee 2000, p. 34 (Italia del Nord); Gruber 2006, pp. 162-163, fig. 247.

Il dipinto della Galerie Canesso proviene, come il suo pendant (cat. 11) dalla collezione Ignazio Ramone di Imperia, in Liguria; la coppia era stata acquistata nel 1947 dalla collezione Anselmi di Porto Maurizio (Imperia), dove le due opere erano considerate come “fiamminghe”. Il dipinto versa in buono stato di conservazione. Il Pranzo frugale di Gand, proveniente dalla collezione viennese di Ladislaus Bloch, è stato comperato nel 1905 dal Museum voor Schone Kunsten, (si veda Frimmel 1913, come “anonimo spagnolo”). In seguito, esso è stato considerato come di scuola napoletana, quindi nel 1951 Chabot l’ha attribuito a Ceruti, prima che Eeckhout (1960) lo mettesse in relazione con lo stile lombardo della fine del Seicento. Più recentemente, esso è stato assegnato a scuola dell’Italia del Nord (Hoozee 2000). Entrambe le opere mostrano evidentemente la stessa scena, con la differenza che la prima propone i personaggi a mezza figura, entro un formato orizzontale, mentre la seconda è a figure intere, in un formato verticale. A parte uno strappo sulla tovaglia posto in maniera diversa in primo piano e, sul dipinto di Parigi, la presenza di piccoli tondi in metallo difficili da decifrare (monete?), a fianco del piatto, i due dipinti si distinguono solo per minime differenze stilistiche. Una coppia anziana e un fanciullo sono seduti attorno a una stretta tavola, sulla quale sono posati un piatto con una zuppa di riso, uno con uccellini, un pezzo di pane, un cucchiaio e un coltello. La donna guarda fuori dal campo del quadro, tiene con una mano il piatto di uccellini e con l’altra mangia una focaccia lombarda ripiena di erbe, probabilmente bietole mescolate ad altre verdure. L’uomo porge una cucchiaiata di zuppa di riso al bambino, che soffia per raffreddarla. I cibi raffigurati sono tipici di un semplice pranzo dell’Italia del Nord o della Lombardia. Cucchiai di ottone di questo tipo erano prodotti in Italia nel XVII secolo. Essi apparvero per la prima volta intorno al 1600 (comunicazione scritta di Alexandra van Dongen, del 20 giugno 2010, si veda anche Klijn 1987, p. 17). Anche in questo caso il Maestro della tela jeans studia la realtà con estrema cura. Il mantello del vecchio è raccomodato, tuttavia il colletto e il berretto, realizzati in un tessuto bianco, sono puliti, senza guasti, come il colletto del ragazzino. Questi personaggi appartengono alla piccola borghesia: potrebbe trattarsi di poveri artigiani. Il colletto dell’uomo e del giovinetto

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sono trattati in maniera più decorativa che plastica, e stilisticamente sono comparabili al grembiule della Donna che cuce e due bambini (cat. 7 e 8). Nel dipinto di Parigi, la precisione notevole con cui è realizzato l’occhio della donna, leggermente umido, è prova di uno spirito d’osservazione anatomica che potrebbe indicare per l’artista un’origine nordica. Questo dettaglio ci porta a ritenere che il dipinto della Galerie Canesso sia stato creato prima di quello di Gand, e che esso sia cronologicamente vicino al Piccolo mendicante con focaccia ripiena (cat. 4), il cui viso è reso in maniera ancor più delicata. Entrambe le opere attestano una comune prossimità con le composizioni caravaggesche, un altro elemento che conforta la cronologia proposta. I personaggi del quadro di Parigi, in un ambiente neutro e privo di indicazioni di spazio, e ancora immersi nell’oscurità, si collocano in una tradizione che risale all’inizio del XVII secolo, quella di Caravaggio e ancor più di Bartolomeo Manfredi, che aprirono questa nuova direzione più realista (Hartje 2004, pp. 128-135, 211-255). Anche i Bodegones di Velázquez sono stati ricordati, in più di un’occasione, in rapporto a queste composizioni (si veda il testo di Frangi – Morandotti). Il Maestro della tela jeans procede ulteriormente su questa via, concentrandosi unicamente sul tema del pranzo. All’inizio del XVII secolo, le scene che hanno luogo intorno a una tavola sono associate all’amore, ai giochi, alla musica, e sotto il pretesto di soggetti leggeri vi si aggiunge talvolta la frode o l’estorsione, dunque una connotazione allegorica e morale, che può trovare origine in soggetti biblici come il Figliol Prodigo, il povero Lazzaro a tavola con il ricco Epulone o la Vocazione di Matteo. Non è questo il caso del nostro artista, che rappresenta personaggi anonimi, di bassa estrazione, occupati a mangiare. Nella versione di Gand, la scena è in un certo senso allargata, e non conosciamo il contenuto della bottiglia in primissimo piano – si tratta di olio o di una qualche bevanda? In un dipinto di Cipper raffigurante il Figliol prodigo con le prostitute, si nota una bottiglia che ricorda quella del Pranzo frugale di Gand, tappata in maniera simile (Proni 1994, n. 42). Si riconosce chiaramente del vino rosso in uno dei due bicchieri del dipinto di Cipper, il che ci autorizza a pensare che anche la bottiglia di Gand possa contenere vino. gerlinde gruber


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Maestro della tela jeans (attivo in Italia del Nord alla fine del xvii secolo) 7. Donna che cuce e due bambini olio su tela, 102 × 193 cm milano, fondazione cariplo, inv. no af01257afc

8. Donna che cuce e due bambini olio su tela, 100 × 181 cm parigi, galerie canesso

bibliografia n. 7 Spiriti 1998, p. 75; Colace, in Gatti-Perer 1998, pp. 226-229, n. 107; Rossi 1998, p. 38; Frangi 2000, II, pp. 1145-1162; Gruber, in Frangi – Morandotti 2004, p. 158, ill.; Gruber, in Milano 2006, p. 130, ill.; Gruber 2006, pp. 161162, 165, 167.

bibliografia n. 8 Gruber, in Milano 2006, pp. 128130; Gruber 2006, pp. 161, 164-165, fig. 243.

Il dipinto milanese si trovava (come cat. 5 e 11) in una collezione privata ligure, precisamente quella della storica dell’arte Caterina Marcenaro a Genova (si veda Rossi, 1998, p. 38), che l’ha lasciato in eredità alla banca Cariplo di Milano. Nella collezione Marcenaro esso era considerato – ciò che sembra oggi stupefacente – come opera dell’olandese Johannes Vermeer (1632-1675), forse a causa del sentimento di tranquillità che sprigiona da questa scena di vita quotidiana, sebbene Vermeer fosse noto, contrariamente al nostro pittore, per le sue scene d’interni di vita borghese. Ma il quadro, con la sua monumentale descrizione di un ambiente decisamente rurale, è testimonianza di una cultura del tutto diversa, e per tal motivo è stato in passato ritenuto opera di un pittore francese della prima metà del XVII secolo (Colace 1998, su suggerimento di Zeri), menzionando come altrettanti riferimenti i fratelli Le Nain e Georges de La Tour. Si deve a Francesco Frangi (2000) la sua corretta restituzione al catalogo del Maestro della tela jeans. La seconda versione nota dell’opera, portata alla mia attenzione da Alessandro Morandotti, si differenzia da quella milanese per la piuma fissata sul berretto del fanciullo e per gli incarnati più rossicci, come pure per i trapassi verso le parti in ombra, meno modulati. Essa è riapparsa in epoca recente a una vendita a New York (Sotheby’s, 19 maggio 1995, n. 146). E’ stata quindi sul mercato dell’ arte a Madrid, e poi in una collezione privata, prima di essere aquistata dalla Galerie Canesso. Le due composizioni mostrano a sinistra una donna seduta, assorta nel suo lavoro di cucito. Dietro di lei dorme un bimbo in fasce, dentro a una culla intagliata, ai piedi della quale siede un ragazzino che, passandosi la mano dietro il collo guarda verso lo spettatore. Davanti al lettino, sono posati un recipiente di maiolica con un cucchiaio in metallo, una caraffa in terracotta e una pagnotta dalla forma ancora esistente oggi in Italia. A sinistra, da un cesto anch’esso posato sempre per terra fuoriesce un pezzo di stoffa strappata, e in primo

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piano un largo rotolo di benda, leggermente inclinato, e una matassina di filo completano gli strumenti di cucito. Come nella Madre mendicante con due bambini (cat. 9), l’angolatura con cui sono raffigurati la caraffa e il piatto implica un punto di vista rialzato rispetto al piano del suolo. Il nostro artista apparentemente non si interessa alla prospettiva centralizzata, fatto che R. Colace (1998) interpreta come un difetto di padronanza tecnica. In modo rivelatorio, egli ottiene l’effetto di profondità scalando i piani: prima la madre, poi il letto, quindi il ragazzino seduto, e per finire tutta la stanza, che resta senza una definizione precisa. In questo senso, il Maestro della tela jeans si avvicina a Giacomo Francesco Cipper, nella cui opera pure si ritrova più volte il motivo del bimbo fasciato, steso nel lettino (si veda fig. 3 p. 13). La culla con semplici motivi decorativi, e i relativi montanti, sono tipici in Italia delle regioni rurali e più generalmente delle zone alpine; si tratta di un modello di mobile rimasto in uso fino alla fine del Settecento (comunicazione scritta del 9 aprile 2010 di Christian Witt-Dörring, cui va il nostro ringraziamento). Per questo motivo, il dipinto è stato avvicinato alla cultura italiana settentrionale, un argomento che va incontro alla sua attribuzione a un pittore francese. Malgrado i mobili e le stoviglie evochino chiaramente un ambiente rurale, la donna vestita in abiti stracciati potrebbe, se non fosse assorta nel suo lavoro, essere scambiata per una mendicante. Il grembiule, nelle parti sfilacciate, mostra i fili bianchi della trama tipici della tela di Genova. I pantaloni del giovinetto e probabilmente il cuscino sotto la testa del bambino sembrano confezionati con lo stesso tessuto. Anche il ragazzino è vestito di cenci: egli sembra essersi reso conto della triste situazione in cui si trova, e colpisce lo spettatore con lo sguardo pensoso e impassibile. L’artista pare un precursore di Giacomo Ceruti, nelle cui opere i personaggi sembrano coscienti della loro miseria (si veda cat. 14 e 15). La stanza, immersa nell’oscurità, non è descritta ulteriormente. gerlinde gruber


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Maestro della tela jeans (attivo in Italia del Nord alla fine del xvii secolo) 9. Madre mendicante con due bambini olio su tela, 152 × 117 cm parigi, galerie canesso

bibliografia Gruber, in Brescia 1998-1999, p. 425, n. 90; Frangi 2000, II, pp. 1145-1162; Gruber, in Frangi – Morandotti 2004, pp. 156-161; Gruber, in Milano 2006, pp. 128-133; Gruber 2006, pp. 159-161, fig. 241.

mostre Brescia 1998-1999, p. 425, n. 9; Milano 2006, pp. 128-133.

Stando alle notizie pervenuteci, non pubblicate, il dipinto proviene dalla Villa Airoldi a Albiate, a nord di Milano, dove si trovava ancora alla fine del XX secolo. Nel 2002 venne acquistato, a Roma, da Luigi Koelliker, e in tempi recenti dalla Galerie Canesso, che ha curato il restauro dell´opera, permettendo così a molti dettagli della superficie pittorica di ritornare alla luce o di divenire più leggibili. La scena rappresenta una madre con i suoi due figli, tutti vestiti poveramente. Il pittore tuttavia concentra la propria attenzione nella descrizione della madre: al braccio si notano ancora i resti di una manica tagliata sotto la quale appare un’altra manica color mattone, con polsino in materiale differente sul quale si vedono ancora dei bottoni (si veda il testo di Marzia Cataldi Gallo in questo catalogo). La donna si appoggia a una specie di gruccia; la parte che prima del restauro faceva pensare a una gamba di legno si è chiaramente rivelata essere, invece, la piega della gonna che arriva fino a terra. La donna si rivolge allo spettatore mostrandogli la tazza vuota, e anche la bambina dirige uno sguardo assente al di là del quadro, verso di noi. Sotto il grembiule, regge una piccola borsa dalla quale sporge del pane, altro particolare che prima del restauro non si poteva discernere e che è in contrasto con il gesto supplice della madre. Dietro la fanciulla, appare l’elemento architettonico del muro ad angolo, un dettaglio che non distrae l’attenzione dello spettatore dai protagonisti, ma che ha anzi la funzione di inquadrarli e isolarli. Il gruppetto, in marcia come per uscire sulla destra dalla scena del quadro, sembra essersi fermato solo un istante per mostrare dignitosamente la propria miseria. Il recipiente sbreccato con le braci nel primissimo

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piano evoca il freddo che permea la scena, ma potrebbe anche assumere un ruolo allegorico, e divenire allora un attributo dell’inverno (si veda Huys Janssen, in L’AjaLovanio 2002-2003, p. 121, n. 16, pp. 168-169, n. 97). Tuttavia questa non sembra essere una probabile intenzione del pittore, giacché saremmo di fronte qui all’unico dipinto della sua opera che possa essere letto anche in chiave allegorica. Lo scopo è, al contrario, quello di mostrare la povertà in modo fedele, e addirittura monumentale, ciò che dà un senso al particolare realistico del recipiente di braci, allusione diretta al freddo patito da questi poveretti. Dal punto di vista dello stile, l’autore del quadro si mostra in rapporto con gli artisti dell’area veneto-lombarda: il viso della madre con il naso arrotondato sulla punta, e messo in evidenza dal riflesso luminoso alla fine del setto, fa pensare a soluzioni simili nell’opera del giovane Antonio Cifrondi, quali si notano ad esempio nel Popolano con berretto (Lovere, Accademia Tadini; si veda Dal Poggetto, 1982, p. 403, fig.; pp. 502-503, n. 137). Il tono generale, gli effetti di chiaroscuro così come il pavimento in prospettiva rialzata, sono allo stesso modo caratteristiche adottate da Giacomo Francesco Cipper nella sua attività giovanile (si veda fig. 3 p. 13), il che ci permette di datare questo dipinto nell’ultimo quarto del XVII secolo. Il nostro anonimo pittore si propone di raffigurare il mondo dei poveri in un formato abbastanza importante, con notevole sensibilità nel presentarne i protagonisti. Su questa linea, egli si qualifica come un importante precursore di Giacomo Ceruti, un artista che darà ai suoi mendicanti una simile, profondamente partecipe lettura psicologica (cat. 14 e 15). gerlinde gruber


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Maestro della tela jeans (attivo in Italia del Nord alla fine del xvii secolo) 10. Pasto frugale con due bambini olio su tela, 76,2 × 116,7 cm parigi, galerie canesso

bibliografia Cappelletti 1998, pp. 302-303, fig. 9, p. 305, nota 67; Gruber 2006, p. 163, fig. 245; Pulini, in Londra 2006, pp. 64-65; Pulini, in Brescia 2007, pp. 78-81, n. 15; Pulini, in Orlando 2008, pp. 86-89, n. 14.

Il dipinto, che si trovava in passato presso la collezione di Luigi Koelliker a Milano, è stato a giusto titolo messo in relazione con quello del museo di Gand (cat. 6) da Francesca Cappelletti, che lo conosceva tuttavia solo attraverso la riproduzione fotografica. La composizione raffigura una donna anziana, seduta con due bambini a una tavola la cui prospettiva si caratterizza come meno rialzata rispetto a quella del Pasto frugale di Gand; d’altra parte, in entrambe le opere si ritrovano gli stessi oggetti. La natura morta mostra una ciotola di colore scuro e un piatto in maiolica, presente anche nel quadro di Gand, in posizione arretrata si nota un secondo piatto sbreccato nel bordo, e in primo piano un cucchiaio e un pezzo di pane sono rappresentati in posizione invertita rispetto all’altra versione del Pasto frugale (cat. 5 e 6) e alla Donna che cuce con due bambini (cat. 7 e 8). Il ragazzino imbocca la bambina e la vegliarda guarda fuori dal campo spaziale del quadro. Gli occhiali indossati dalla donna sono testimonianza della forza realistica del Maestro della tela jeans: essi sono del tipo detto “frontale”, utilizzato già alla fine del XVI secolo, “Questi occhiali erano indossati dalle donne e da personalità che avevano uno stato sociale più elevato, ciò che permetteva loro di non togliere il copricapo” (Rossi 1989, p. 49). Una stanghetta, generalmente pieghevole, assecondando la curva della fronte, poteva da un’estremità essere fissata ai capelli o alla parrucca, o anche come in questo caso tra i capelli e il fazzoletto della donna. La stanghetta era in metallo, ciò che non è tanto visibile nel nostro quadro, dove sembra piuttosto che si tratti di un filo. Tuttavia, il fatto che la superficie pittorica abbia un poco sofferto fa supporre che la natura del materiale di questo dettaglio fosse in origine più esplicita. Se si confronta il Pasto frugale con due bambini o con il Pasto frugale di Gand e quello della Galerie Canesso

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(cat. 5 e 6), identici dal punto di vista tematico, si nota che tutti e tre i dipinti hanno uno sfondo scuro uniforme e che, parimenti, i colletti degli abiti dei ragazzini sono resi in maniera simile, con pieghe scure, appena sfumate. Il modo in cui la donna sorregge il piatto in maiolica ricorda la posizione delle mani dell’anziana commensale nel quadro di Gand, e in quello della Galerie Canesso (dove essa tiene la stoviglia con la sola destra), e anche il motivo della tovaglia sdrucita ricorre in entrambe le composizioni: il Maestro della tela jeans utilizza a piacere infatti a un repertorio di immagini costante. Tanto nel nostro quadro che nelle due versioni del Pasto frugale, Francesca Cappelletti trova rimandi ai Le Nain, interpretando i tre dipinti, per via dei contrasti chiaroscurali, come “un episodio di lontano rimbombo del caravaggismo”, e datandoli nel terzo o quarto decennio del Seicento, una cronologia che mi sembra un po’ troppo precoce (Cappelletti 1998, p. 303). E’ stato Andrea G. De Marchi ad attirare l’attenzione della studiosa su quadro dipinto, proponendo come possibile autore di entrambe le composizioni Jean Michelin (1623 circa1696), un artista del seguito dei Le Nain (Cappelletti 1998, p. 305, nota 67). Tuttavia di Michelin conosciamo solo opere a figure piccole, senza forti contrasti di ombre e luci, e per giunta di formato abbastanza ridotto. Inoltre, egli non ambienta mai il soggetto in maniera sommaria, come fa invece il nostro anonimo autore, perché per Michelin l’integrarsi dei personaggi nella scenografia ha un’importanza superiore allo studio dettagliato delle pose di ciascuno. Il dipinto si differenzia nettamente da quelli meglio conservati del nostro pittore; la fotografia pubblicata da Francesca Cappelletti ne attesta le condizioni prima del restauro. gerlinde gruber


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Maestro della tela jeans (attivo in Italia del Nord alla fine del xvii secolo) 11. Filatrice con due bambini olio su tela, 90 × 115 cm parigi, galerie canesso

bibliografia Eeckhout 1960, I, p. 377; II , fig. 167b; Gruber 2006, p. 168, nota 33.

Il quadro proviene, come il Pasto frugale che gli fa da pendant (cat. 5), da una collezione privata di Imperia dove si trovava dal 1947. In precedenza esso faceva parte della collezione Anselmi di Porto Maurizio (Imperia), dove passava come opera fiamminga. Paul Eeckhout lo considerò copia da un originale perduto dello stesso autore responsabile del dipinto di Gand (cat. 6), senza dubbio portato a tale conclusione dal fatto che il dipinto compagno è, sia dal punto di vista stilistico che nell’esecuzione, di qualità leggermente superiore. Tale considerazione ci autorizza a mettere in dubbio la possibilità che le due tele possano essere veramente concepite come pendants, e cronologicamente nate insieme. Forse la Filatrice con due bambini è una replica, concepita per l’occasione, di una composizione che data a un momento diverso nella carriera dell’artista. Lo sfondo, uniformemente scuro, conferisce una certa gravità al dipinto, ma è forse opportuno interrogarsi se in origine non fosse stato più chiaro. Il buco aperto nel grembiule della filatrice doveva lasciar vedere la gonna al di sotto – che ci si aspetterebbe di vedere blu, in tela di Genova – ma in questo caso non si vede altro che una macchia nerastra, inducendoci a pensare che il colore originario abbia potuto essersi alterato col tempo. A parte queste poche osservazioni, la scena colpisce immediatamente lo spettatore. Al centro è seduta una donna anziana, apparentemente cieca da un occhio, che fila con un’espressione arcigna. Alla sua

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destra un bambino meglio vestito, che tiene un bastone e un bicchiere, guarda anch’egli in direzione dello spettatore. I colori rosso e giallo non sono tipici nel ridotto catalogo assegnato al Maestro della tela jeans, e manca il blu della tela di Genova, come ho già suggerito più sopra. In effetti, tutti gli altri personaggi femminili dell’artista portano una sottana o un grembiule confezionati in questa stoffa. Il fanciullo a destra sembra sistemarsi la giacca. L’impressione forte data dal quadro è dovuta alla rappresentazione senza mezzi termini dell’handicap visivo dal quale è colpita la vecchia. Nel XVII secolo, non è raro trovare dei quadri raffiguranti dei ciechi, e non soltanto in un contesto proverbiale, come è il caso del dipinto di Pieter Brueghel il Vecchio (Napoli, Galleria Nazionale di Capodimonte). I vecchi ciechi di Georges La Tour sono certo un riferimento importante per il Maestro della tela jeans (si veda in questo catalogo il contributo di Frangi – Morandotti), e la versione del musée des Beaux-Arts di Tours mostra in formato reale il cantore in piedi, veramente “abitato” dalla musica. Tuttavia i ciechi di La Tour non possono avere un contatto visuale con lo spettatore, mentre la nostra vecchia filatrice ci fissa duramente con il suo occhio sano. Anche lo sfondo scurissimo concorre a dare un tono ancora più drammatico alla composizione, contrariamente ai vegliardi ciechi di La Tour che suonano davanti a una quinta di colore bruno chiaro. gerlinde gruber


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Maestro della tela jeans (attivo in Italia del Nord alla fine del xvii secolo) 12. Il Barbiere olio su tela, 150 × 115 cm parigi, galerie canesso

bibliografia Damian 2006, pp. 56-59; Gruber 2006, pp. 164-165, fig. 248.

Il Barbiere è stato catalogato, all’asta di Christie’s del 2004 (23 gennaio, lotto n. 6) come di scuola napoletana del XVII secolo, sebbene l’autore del catalogo avesse notato che si trattava della stessa mano responsabile del Pasto frugale di Gand (cat. 6). Nel 1975 esso si trovava a Parigi presso Wildenstein (lettera del 27 maggio 1975 a Eeckhout; documentazione del Pasto frugale al Museum vor Schoone Kunste di Gand). Si deve a Francesco Frangi l’attribuzione dell’opera al Maestro della tela jeans e sotto questo nome essa venne pubblicata da Véronique Damian nel 2006. La scena raffigura un barbiere – nel XVII secolo questa professione era esercitata soprattutto da uomini (Woschitz 1994, pp. 27-28) – tutto affaccendato attorno alla testa di un uomo seduto che, con un asciugamano strappato sulle spalle, guarda al di fuori dello spazio del quadro. Un giovane apprendista aiuta sorreggendo un recipiente di maiolica, che presenta una parte del bordo tagliata, allo scopo di reggere l’oggetto sotto il mento della persona da radere, per raccogliere il sapone. Si tratta di un tipo di ceramica italiana chiamata “marmorizzata”, prodotta soprattutto a Pisa, ma anche in altre manifatture del Nord

Fig. 1 — Maestro della tela jeans (copia da), Il Barbiere, Varese, Museo Baroffio, Santuario del Sacro Monte

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Italia, nella prima metá del XVII secolo (informazione fornita da Alexandra van Dongen, lettera del 19.6.2010. Si veda anche Hurst – Neal – Beuningen 1986, p. 33-37). Anche l’apprendista guarda in direzione dello spettatore. Sopra un tavolinetto basso in primo piano sono posati un pettine a due file di denti, delle forbici e un tovagliolo bianco: utensili che si accordano pienamente con l’attività di una bottega di barbiere. La scena è ambientata davanti a un muro scuro, su cui si apre una nicchia nella quale si staglia un fiasco; a sinistra sembra essere appeso uno specchio, entro una cornice quadrata. Malgrado questa scenografia abbastanza precisa, l’attenzione è tutta appuntata sui protagonisti, posti in evidenza grazie all’enfasi della raffigurazione prospettica, espediente tipico del Maestro della tela Jeans. Dal punto di vista iconografico, il nostro artista esplora qui una strada nuova, giacché il barbiere viene mostrato veramente indaffarato con il suo cliente. Il pittore non rappresenta né la scena classica dell’estrazione di un dente, né l’operazione di un paziente(Schneider, 2004, p. 184, fig. 114). Occorre qui ricordare che esiste tutta una serie di dipinti che mostrano L’estrazione della pietra della follia dove, per l’esattezza, si opera il malato alla testa: questa fonte visiva è stata probabile fonte di ispirazione diretta per il nostro artista. Il soggetto è stato raffigurato anche da Giacomo Francesco Cipper (cat. mostra Chambéry - Le Havre - Reims 2005-2006, p. 86, n. 17), per citare un esempio di scena prossima a questa del Maestro della tela jeans. La sola rappresentazione nota di un barbiere in atto di tagliare i capelli a un cliente in bottega è un quadro già attribuito a Quiringh van Brekelenkam (L’Aja, RKD, Fototeca Iconografica, alla voce “Barbier”), che per essere di formato decisamente ridotto, per giunta con figure piccole, non può essere messo in relazione con quello del nostro pittore; infatti nella monografia su Brekelenkam le scene di questo tipo sono catalogate sotto attribuzioni incerte (Lasius 1992, pp. 88-89). Grazie a queste nuove considerazioni iconografiche, l’interesse mostrato dal nostro artista per il naturalismo si traduce in un’osservazione estremamente precisa delle scene di vita quotidiana. La composizione del dipinto in mostra ha conosciuto evidentemente un certo successo, come prova una copia (146 × 116 cm.) che si trova oggi al museo Baroffio (Santuario del sacro Monte a Varese; inv. 83) proveniente, con ogni probabilità, dalla collezione del barone Giuseppe Baroffio Dall’Aglio (Brescia, 1859 – Azzate, Varese, 1929). gerlinde gruber


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Giacomo Francesco Cipper, detto Il Todeschini (Feldkirch, Vorarlberg, 1664 - Milano, 1736) 13. Pranzo di contadini con giovane flautista olio su tela, 144 × 114 cm roma, collezione privata

bibliografia Damian 2008, pp. 26-31.

Cipper – come il Maestro della tela jeans – si è cimentato sovente in scene dominate dalla rappresentazione di personaggi attorno a una tavola e sostenute da un gusto per la natura morta che l’artista porta ai livelli più alti. Al centro della composizione, su una tovaglia chiara di tessuto spesso e senza toppe, sono disposti dei cibi semplici: pane, formaggio, del salame posato su un pezzo di carta e delle castagne cotte. Tutti questi elementi, come anche la caraffa di vino, il piatto e il cucchiaio sorretto dalla bambina, sono descritti con autentica ricerca di verosimiglianza, senza mezzi termini, così che la merenda sembra appetitosa e degna della giovane donna, che ha indossato per la circostanza i suoi abiti migliori, come mostrano i fiocchi, esageratamente vistosi. La vecchia in secondo piano, dipinta in marrone scuro su un fondo bruno chiaro, sembra divertita dalla schermaglia della giovane coppia mentre la bambina, probabilmente una mendicante visto lo stato miserando dei suoi vestiti e il bastone posato sulle ginocchia, mangia soddisfatta un piatto di brodo: si può leggere quasi della felicità nel suo sguardo diretto. E’ difficile comprendere se la scena si svolga in un interno o all’aperto, forse la corte di una locanda. Come spesso avviene nelle opere di Cipper, un pilastro divide verticalmente la composizione, un espediente che gli permette di frazionare lo spazio, come anche la pietra grossolanamente sbozzata che funge da sedile in primo piano. Eseguito con brio, il quadro ha un equivalente nel più tardo Pranzo di contadini con giovane mendicante (ubicazione ignota), datato da S. Proni (1994, pp. 124-125) agli anni 1725-1730, quasi nell’ultimo tempo di Cipper, dove si ritrova lo stesso modello femminile utilizzato qui per la giovane donna. In ogni caso, bisogna supporre per il nostro dipinto una data successiva al 1720, come concorda anche oralmente Gerlinde Gruber. I primi piani sono realizzati in una gamma cromatica chiara e vivace, in cui dominano i blu e i rossi, mentre le figure in secondo piano sono lavorate a grisaille sullo sfondo, con una materia più leggera e più parca. Esse sono rilevate da piccoli accenti di colore bianco, dati a punta di pennello, che interrompono come tanti punti

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luminosi un’armonia altrimenti troppo monocroma. Se è ragionevole immaginare che dietro queste scene si celino significati simbolici, in questo caso i tre personaggi femminili alludono alle tre età della vita, ed è commovente constatare che le più precarie e miserabili sono l’infanzia e la vecchiaia. Il quadro nel suo insieme suona allora come un magnifico inno alla vita stessa, suonato dal piccolo flautista in secondo piano. Lo sguardo tra il divertito e il canzonatorio della giovane, evidentemente corteggiata dalla controparte maschile, sembra invitare lo spettatore al famoso carpe diem del poeta epicureo Orazio, che sollecitava i suoi lettori ad approfittare del presente senza preoccuparsi dell’avvenire. E ancora, attraverso il gioco degli sguardi incrociati, che si rivelano altrettante mute interrogazioni, la composizione rivela i suoi legami con quelle del nostro anonimo Maestro della tela jeans e di Giacomo Ceruti, i cui sguardi interpellano lo spettatore senza aspettarsi compassione. Tuttavia le scene descrivono azioni precise, come quelle svolte dalle varie filatrici, ricamatrici, dalle donne che cuciono o chiedono la carità, o ancora il barbiere, tutti coinvolti nell’offrire la loro umanità laboriosa al grande movimento della pittura della realtà. Il quadro proviene dalla collezione Busiri Vici, e si trova attualmente in collezione privata romana, dopo che era stato acquistato dalla Galleria Canesso. La storiografia recente si è finalmente interessata in maniera più puntuale all’opera di questo artista di origine austriaca, protagonista della pittura di genere in Lombardia (si veda ultimamente il catalogo della mostra Chambéry-Le Havre-Reims, 2005-2006). La presenza del Cipper a Milano è attestata dal 1696, ovvero dieci anni prima del passaggio della Lombardia sotto il dominio austriaco, nel capoluogo lombardo egli lavora fino alla morte nel 1736. Le date del suo soggiorno coincidono in pieno con il vivo interesse suscitato, tra 1670 e 1740, dalla pittura della realtà, movimento al quale il pittore aderisce insieme a Pietro Bellotti (1625-1700), al danese Eberhard Keilhau, detto Monsù Bernardo (1624-1687) e, per finire, a Giacomo Ceruti (1698-1767). vronique damian


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Giacomo Ceruti, detto Il Pitocchetto (Milano, 1698-1767) 14. Donna che intreccia vimini olio su tela, 125 × 142 cm comune di montichiari ₍brescia₎, collezione lechi

bibliografia Gregori 1982, pp. 42, 45, 203, 435, n. 60 (con bibliografia precedente); Frangi, in Brescia 1987, pp. 97, 174, al n. 20; p. 175, n. 21; Zani, in Brescia 1998-1999, p. 432, nota 1.

mostre Brescia 1935, pp. xxxii, n. 92; 28, fig. vi ; Zurigo 1948-1949, n. 783; Milano 1953, p. 74, n. 156 e fig. 156; Parigi 1960-1961, n. 471 (non ill.); Brescia 1987, pp. 97, 174, al n. 20; p. 175, n. 21.

Il dipinto fa parte di quello che è convenzionalmente chiamato il “ciclo di Padernello”, ovvero un insieme di quindici quadri di Ceruti, di grande formato, e di soggetto popolare, commissionati con ogni probabilità dalla nobile famiglia Avogadro di Brescia. La loro realizzazione va posta durante il lungo soggiorno in città dell’artista, il cui termine si data al 1734. Si trova quindi Ceruti a Gandino (Bergamo), mentre è in viaggio per Venezia. Intorno al 1809, la collezione Avogadro passa ai conti Fenaroli, che la disperdono nel corso di una grande asta a Brescia, nel 1882; comunque, la Donna che intreccia i vimini non è menzionata nel catalogo Fenaroli del 1820. A questa vendita, i pitocchi (ovvero i mendicanti o gli straccioni) di Ceruti vennero acquistati dalla famiglia Salvadego che li espose nel suo castello di Padernello (vicino a Brescia). L’insieme del ciclo si trovava ancora in questa sede quando venne scoperto, agli inizi del XX secolo, da G. Delogu (1931, pp. 315, 322, 331) e subito dopo esposto a Brescia nel 1935, rivelando al grande pubblico un artista pressoché dimenticato (Calabi, in Brescia 1935, pp. xxxii, n. 92, 28, fig. vi). Questo insieme di quadri, trattati come una vera e propria epopea di poveri, di contadini, di mestieri umili – sia femminili che maschili – tutti con valore esemplare, ed unici in questo filone della pittura della realtà, nel 1736 sfocerà nel capolavoro dei Tre mendicanti realizzato per il maresciallo Schulenburg a Venezia (oggi a Madrid, museo Thyssen-Bornemisza): l’opera eleva lo stato di povertà a una condizione spirituale, espressione di una lettura che da negativa passa a una connotazione positiva. L’impaginazione della Donna che intreccia i vimini, raffigurata contro un muro scuro che le serve da sfondo, stupisce per la scelta della presentazione di profilo. Mentre intreccia dei rametti, si intuisce il suo sguardo perso davanti a sé. Seduta su un appoggio di fortuna, all’aperto, essa non è avvolta dalla luce chiara del giorno, ma al contrario sta in una penombra che esalta la solitudine promanante dalla figura, verosimilmente assorta nei suoi pensieri esistenziali. Con grandi tratti rapidi ed espressivi, Ceruti si applica allo studio attento degli abiti sdruciti e sfilacciati, che si accumulano fino a far scomparire la figura. Tra queste gradazioni di bruni e di grigio chiaro

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spicca solo la giacca color mattone. E’ nota l’abilità dell’artista nel campo del ritratto, ma qui non si può far altro che rilevare l’apparente contraddizione di non mostrare lo sguardo del modello, preferendo una visione tutta esteriore che si applica più al suo stato che ai caratteri fisici. Ceruti condivide con il nostro Maestro della tela jeans il rifiuto dell’espressione – ma non dell’espressività – dandoci un’immagine “silenziosa” e introspettiva. La povertà diventa l’identità di questa donna che, mantenendo il mistero, non sollecita l’empatia dello spettatore: manca infatti il gioco degli sguardi, specchio dell’anima. Se tali soggetti, come è stato spesso sottolineato dalla critica, pagano il debito con la serie di stampe di straccioni di Jacques Callot (1592-1635), pubblicate un secolo prima a Nancy, verso il 1622-1623, è vero però che Ceruti li coniuga con spirito diverso, che privilegia l’interiorità, e nello stesso tempo li cala nella vita quotidiana dell’epoca, in un’Italia in crisi. Se si pensasse a un equivalente in Callot, si potrebbe ricordare la Mendicante col rosario, anch’essa di profilo, ma Ceruti si distingue da questo precedente grazie alla ricerca di un valore morale: con la loro attività queste povere genti mantengono la loro dignità e non si compiacciono di restare nella passività. La Donna che intreccia i vimini trova una risposta formale – e maschile – nel Pitocco in riposo (collezione privata) dalla stessa impaginazione e dimensioni praticamente identiche, senza che peraltro si possa affermare che queste due composizioni fossero veri e propri pendants. Al contrario, l’uomo fissa lo spettatore con sicurezza, cosa che la nostra donna evita di fare, con una precisa volontà che prende di conseguenza una connotazione delicata e pudica, con un atteggiamento che in altro contesto sarebbe potuto passare per civetteria femminile. Giacomo Ceruti emerge come un interprete pieno di talento della pittura naturalista, concentrandosi tanto sul modello che sul contenuto, imbevuto di filosofia, che si prolunga nel movimento dell’ Illuminismo milanese di cui si tinge l’arte di Alessandro Magnasco (1667-1749). Alla critica è piaciuto evocarne le eco più tarde, nel secolo successivo, in particolare nei grandi affreschi narrativi e societari di Gustave Courbet (1819-1877), tanto per citare un esempio. vronique damian


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Giacomo Ceruti, detto Il Pitocchetto (Milano, 1698-1767) 15. Due portaroli che giocano a carte olio su tela, 140 × 155 cm brescia, collezione privata

bibliografia Gregori 1982, pp. 56, 214, fig. 66, 436-437, n. 66 (con bibliografia precedente); Bona Castellotti 1986, fig. 178; Frangi, in Brescia 1987, pp. 102, 176, n. 26; Anelli 1994, pp. 317-319, fig. 11; Terzaghi, in Brescia 1998-1999, p. 241, p. 437, n. 111; Risaliti 2004, pp. 30, .

mostre Brescia 1935, p. , n. 102, p. 28; Milano 1973, s. n.; Brescia 1987, pp. 176, n. 226, 102, fig. 26 ; Brescia 1998-1999, pp. 241, 437, n. 111; Mantova 2004, pp. 30, , s. n.

Come il dipinto precedente (cat. 14), al quale rimandiamo per le notizie circa la provenienza, la tela con i Due portaroli che giocano a carte appartiene anch’essa al “ciclo di Padernello”, una serie di quindici quadri di grande formato, con soggetti popolari, commissionati a Ceruti con ogni probabilità dalla nobile famiglia Avogadro di Brescia, e realizzati negli anni tra il 1720 e il 1734, data della partenza del pittore per Gandino (Bergamo) e quindi per Venezia, dove egli lavorerà per il maresciallo Schulenburg. Tuttavia qui siamo di fronte a un registro meno drammatico del precedente, e lo spettatore osserva con sguardo divertito questi due ragazzini che si giocano a carte i guadagni delle loro fatiche, come lascia intuire il cesto vuoto rovesciato di lato per essere usato come sedile da uno dei due protagonisti. Il fanciullo di destra è seduto su una pietra e sta inserendo la sua moneta tra due steli di vimini mentre il suo compagno mescola le carte. Il tema del gioco, associato al mondo dell’infanzia, permette all’artista , che pure riflette ancora le convenzioni della pittura della realtà, di introdurvi nuovi aspetti della vita popolare che coincidono perfettamente con la spensieratezza dell’età giovanile. Si tratta di un divertimento che viene dopo un lavoro duro, quello di portare grandi cesti carichi di viveri. Il fondo architettonico, schizzato con leggerezza in toni bruno chiari, induce a pensare che ci troviamo sulla piazza di un villaggio, forse all’ora dei vespri giacché alcune figure sembrano entrare in chiesa. Altri si affaccendano ancora sotto i portici, segnalando in quel punto la posizione delle botteghe. Davanti a questa scenografia, i nostri due bambini, a piedi nudi, entrambi vestiti con una semplice camicia e pantaloni corti, sono assorti nel gioco. I due visi, raffigurati in profilo perduto, di tre quarti per il fanciullo a destra, si staccano nettamente sullo sfondo grazie a una linea scura che ne delimita il contorno e che, in modo più generale, delimita il contorno delle figure. A grandezza naturale, i due personaggi emergono sulla superficie della tela in primissimo piano, e la loro

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prossimità sembra così reale da invitare quasi lo spettatore a prender parte al gioco. Nulla distrae lo sfortunato che perde, e che rientrerà senza il denaro così duramente guadagnato, dal piccolo dramma che si svolge sotto i suoi occhi. Tuttavia, l’artista ha avuto cura di colorare i visi di rosso per segnalare l’emozione e la vita, lo stesso rosso puro con cui è dipinto il berretto al centro della composizione. E’ stupefacente constatare che nessuna espressione di gioia illumina questi due visini freschi che sono, contrariamente a quanto farebbe pensare l’età, risolutamente seri e concentrati. Per il suo carattere molto finito, tanto nella resa degli incarnati che nella grande attenzione data ai vari motivi del quadro, Mina Gregori lo data alla fine del soggiorno bresciano di Ceruti. Un dipinto in collezione privata, dallo stesso soggetto e d’impaginazione simile ma trattato differentemente – il che prova come l’artista non amasse ripetersi – attesta il successo di questo tema (Gregori 1982, p. 434, n. 58). Mina Gregori segnala altresì una copia antica di questa composizione, in collezione Bettoni Cazzago. I due dipinti di Ceruti presenti in questa mostra ci svelano due aspetti diversi del suo talento, al più alto livello nel genere della pittura pauperistica, che egli mise in atto tra la Lombardia e Venezia. La Milano dell’inizio del XVIII secolo, dove abitavano nello stesso quartiere Cipper, detto il Todeschini (1664-1736) e Ceruti, fa di questa città e in modo più generale della Lombardia – menzioniamo tra l’altro Antonio Cifrondi (1657-1730) che dopo un soggiorno in Francia arriva a Brescia verso il 1725 dove presumibilmente avrà avuto tutto il tempo di affiancare il Ceruti – un vero e proprio crogiuolo per la pittura della realtà (si veda Anelli 1982). La regione fu sempre aperta a questo genere, anche quando esso proveniva da zone ancor più settentrionali dell’Europa, come ci indica il passaggio documentato alla metà del Seicento di un altro artista straniero, il danese Eberhard Keilhau (1624-1687), presente tra il 1654 e il 1656 a Bergamo e a Milano. vronique damian


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Bibliografia

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galerie canesso 26, rue Laffitte, 75009 Paris Tél. : + 33 1 40 22 61 71 Fax : + 33 1 40 22 61 81 e-mail : contact@canesso.com www.canesso.com



Nel contesto europeo della pittura della realtà del XVII secolo, il Maestro della tela jeans emerge come una personalità singolarissima, in particolare per il fatto di aver raffigurato la gente umile vestita in fustagno di Genova: la tela – di un blu più o meno intenso – conosciuta ai giorni nostri sotto il nome internazionale di “jeans”. Il piccolo gruppo di opere riunite sotto questo nome anacronistico ma incisivo, prova che la sua attività si è potuta svolgere, almeno in parte, in Lombardia. La pittura di questo misterioso artista, silenziosa e solenne, annuncia le parabole di Giacomo Ceruti, e nello stesso tempo si lega agli esempi di illustri predecessori quali Velázquez, Georges La Tour, o i fratelli Le Nain.

ISBN 978-2-9529848-5-0

9 782952 984850


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