Arte e Luoghi | Febbraio 2019

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VILLA ADRIANA

Dal sequestro al museo, in mostra a Palazzo Nervegna a Brindisi fino al 15 febbraio 2019

A Tivoli per scoprire il fascino e l’antichità di uno dei luoghi più belli d’Italia

Anno XIV - n 2 febbraio 2019 -

L’ARTE LIBERATA

anno 143 numero 2 febbraio 201 9

FRANCESCO ZAVATTARI

ORCHESTRA SENZA CONFINI

TERENZANO, UN LUOGO DEL MISTERO

Sul web è partita la campagna di crowdfunding per realizzare il progetto musicale di una compagine molto particolare

Per i luoghi del mistero alla scoperta dell’Onfalo di Terenzano nei pressi di Ugento: l’ombelico di Madre Terra nel Salento


primo piano

le novitĂ della casa

IL RAGGIO VERDE EDIZIONI

ilraggioverdesrl.it


EDITORIALE

Francesco Zavattari posa per la campagna lancio del colore Cromology 'Luce-19' (Foto di Aurora Giampaoli)

Proprietà editoriale Il Raggio Verde S.r.l.

“Dobbiamo essere audaci” uno slogan che facciamo nostro. Perché probabilmente bisogna esserlo per parlare di bellezza, di arte e luoghi in un epoca in cui fa notizia solo il brutto e la disarmonia del pensiero come delle azioni. Ma siamo convinti che si possa contagiare con visioni positive e in questo numero ne abbiamo racchiuso tante. Dalla bellezza dell’”Arte liberata, dal sequestro al museo” raccontata dal critico Carmelo Cipriani alle sublimi visioni della pittura dell’artista salentina Francesca Mele impegnata in un ciclo di mostre in Germania. Dalle illustrazioni brutali dell’artista giapponese Mu Pan raccontate dall’artista Dario Ferreri alla bellezza di luoghi di casa nostra: Villa Adriana a Tivoli e il ritrovato giardino della Giaconia a Lecce visitati per noi dalla giornalista Sara Foti Sciavaliere. Ai luoghi del cinema che hanno portato lo scrittore Stefano Cambò a Firenze e ancora nel Salento con lo storico Mario Cazzato alla scoperta dell’antica Masseria Tagliatella. E ancora tanti luoghi da scoprire, disseminati in questo meraviglio Paese sotto il cui cielo abbiamo avuto il privilegio di nascere: il giardino sonoro di Pinuccio Sciola descritto dalle parole di Giuseppe Salerno curatore della mostra di Lughia, ai luoghi del mistero con la nuova rubrica del giornalista Raffaele Polo che ci fa scoprire l’ombelico del Salento, l’Onfalo di Terenzano nei pressi di Ugento (Lecce). E ancora la nuova stagione del Balletto del Sud del coreografo Fredy Franzutti, il ritorno sulle scene di Flavio Oreglio, il bellissimo progetto di crowdfunding dell’Orchestra senza confini. Aspettando “Napoli Città Libro”, abbiamo scoperto una libreria diversa a Treviso grazie alla scrittrice Anna Paola Pascali. Infine, la copertina dedicata all’artista toscano Francesco Zavattari, alla sua ricerca che lo porterà presto anche oltreoceano, al suo Luce-19 che possa illuminare il percorso di noi tutti in questo nuovo anno. Buona lettura! (an.fu.)

SOMMARIO

Direttore responsabile Antonietta Fulvio progetto grafico Pierpaolo Gaballo impaginazione effegraphic

Redazione Antonietta Fulvio, Sara Di Caprio, Mario Cazzato, Nico Maggi, Giusy Petracca, Raffaele Polo

Luoghi|Eventi| Itinerari: Girovagando Itinerarte 75 I luoghi del mistero Terenzano e il suo Onfalo 62| Il giardino di Palazzo Giaconia 92| Tivoli, Villa Adriana 100 | Salento Segreto 118 Arte: L’univeso instabile di Francesco Zavattari 4| Lughia, Pinuccio Sciola e i luoghi del sentire 16| Arte liberata dal sequestro al museo 24 | Luigi Ballarin e le meraviglie d’Oriente 38 | Le visioni sospese nel tempo di Francesca Mele 44 Musica: Riparte da Zelig il catartico Flavio Oreglio 60| Orchestra senza confini 90 I luoghi della parola: Curiosar(t)e Le illustrazioni brutali di Mu Pan 30 | Le parole del cibo le suggestioni dell’arte 56

Hanno collaborato a questo numero: Ambra Biscuso, Stefano Cambò, Mario Cazzato, Carmelo Cipriani, Barbara Del Piano, Sara Di Caprio, Sara Foti Sciavaliere, Dario Ferreri, Michela Maffei, Giuseppe Salerno, Anna Paola Pascali, Raffaele Polo

Teatro|Danza| La nuova stagione del Balletto del Sud 52

Redazione: via del Luppolo,6 - 73100 Lecce e-mail: info@arteeluoghi.it www.arteeluoghi.it

Cinema: |Van Gogh sulla soglia dell’eternità 74 Firenze la città amata dai registi americani 110

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Libri | Luoghi del sapere 76 -89 | Una libreria diversa 72 | Napoli Città Libro 73 I luoghi nella rete|Interviste|Intervista a Carmelo Cipriani curatore di Land Art festival 64 Numero 2- anno XIV - febbraio 2019


Francesco Zavattari durante la realizzazione di 'Luce-19' (Foto di Siro Tolomei)

L’UNIVERSO INSTABILE DI FRANCESCO ZAVATTARI Antonietta Fulvio

Da Lucca a Lecce, dal Portogallo all’Olanda ai tetti di New York Intervista all’artista e designer toscano

È

sempre un privilegio poter osservare nel tempo la ricerca di un artista. Seguirne gli sviluppi e gli esiti che di volta in volta arricchiscono il suo percorso personale ma anche quello delle persone che entrano in contatto con il suo mondo. Questa credo sia la magia dell’arte. La potenza. E oggi più che mai se ne avverte il bisogno, l’arte deve poter avere sempre più un ruolo di primo piano nel tessuto sociale, sollecitare domande, cercare connessioni non solo virtuali senza rinunciare per questo al gusto estetico, alla forma e soprattutto al colore. Concetti che calzano a pennello per Francesco Zavattari, originario di Lucca, classe 1983. Pittore e designer, dalla fotografia alla video art, dalla grafica al marketing ai live painting senza ombra di dubbio è “poliedrico” l’aggettivo che più si addice a Zavattari, al suo universo “instabile” perché in continua evoluzione. In questa intervista abbiamo cercato di racchiudere il racconto di esperienze vissute e anticipare i suoi progetti futuri.

Il 2018 da poco concluso ti ha visto come sempre impegnato su più fronti, dalla didattica alle mostre, al tuo impegno nel sociale. Proviamo a ripercorrerlo partendo dall'esordio del progetto "Tavolozze" che ti ha portato nel cuore di Roma. Tavole di piccole dimensioni (11x11 cm), tali da stare in un palmo della mano, per azzerare la distanza tra artista e pubblico e per ribadire l'unicità dell'opera d'arte contro il principio della serialità? Il principio alla base di "Tavolozze" è quello di raggiungere fisicamente un più ampio numero di persone con le mie opere, simulando un plus del concetto di serialità senza però abbandonare quello di assoluta unicità. Ogni Tavolozza infatti è interamente realizzata a mano. Non ho mai avuto particolare interesse a produrre un numero elevatissimo di opere all'anno, solitamente lavoro infatti su serie che contemplino un numero limitato di pezzi. "Tavolozze" rap-

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Tavolozza 6-1' (Foto di Siro Tolomei)

presenta una giocosa forma di evasione, un modo per ricordare ai miei acquirenti il valore di ciò che produco, senza però costringerli a mettere in bilancio budget sostenuti. Mi piace l'idea che possa esserci una scelta, tanto per chi decide di acquistare una tela 150x150 quanto per chi sceglie una tavolozza 11x11. Infine, cosa forse più importante per rispecchiare a pieno il mio stesso carattere, le Tavolozze costituiscono oggi il veicolo più leggero e veloce per raggiungere quasi ogni angolo del mondo, se si escludono le opere digitali

che realizzo, come fotografia e videoarte. Tanti i progetti educativi, tra Italia e Portogallo, dedicati al mondo dell'infanzia. Quanto è importante per i bambini l'approccio al mondo dell'arte? Importantissimo. Nella formazione educativa di un bambino l'arte può avere un ruolo decisivo in positivo: non sono certo solo io a dirlo, ma lo confermano molti studi di esimi pedagogisti. Ho e ho avuto il privilegio di lavorare con bambini di differenti età, tanto direttamente quanto indirettamente,

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Pagina a lato:Zavattari alla Fattoria Borgo la Torre di fronte a due tele di 'Luce-19' (Foto di Silvia Cosentino) Sotto: Backstage di 'Universo Instabile. Lo spettacolo. La danza' (Foto di Aurora Giampaoli); Scena di 'Universo Instabile. Lo spettacolo. La danza' (Foto di Aurora Giampaoli)

attraverso educatori che hanno utilizzato determinati stilemi del mio universo visivo e concettuale per coinvolgere i bambini in processi creativi stimolati e utili a sviluppare la loro facoltà di proiettare visioni. È forse però più interessante pensare a quanto il lavoro dei bambini abbia influenzato il mio nel tempo. Ogni mia opera e ogni mia serie si fondano su basi teoriche estremamente complesse e profondamente concettuali. Solitamente ogni mio progetto è accompagnato da una lunga e impegnativa fase di studio: questa è la mia cifra connotativa e quando si pensa a me come artista vorrei si pensasse a un artista estremamente attento al dettaglio tecnico che sta dietro, intorno e sotto la materia. Tuttavia, mi impegno quotidianamente per non perdere mai quell'appeal fresco, diretto, un po' naif (quindi puro) che i bambini hanno nel disegnare e comunicare in genere. Crescendo si tende a perdere questa grande capacità comunicativa, ma nel mio lavoro è un dono di cui faccio tesoro. Zavattari e i linguaggi trasversali dell'arte. La tua pittura ha incontrato anche la danza al Teatro Verdi di Pisa. Come è nata l'idea dello spettacolo "Universo Instabile"? Ripeterai l'esperienza? Sono da sempre un grande appassionato del linguaggio teatrale e amo l'opera lirica in particolare. Della danza invece non sono un esperto, ma ne ho sempre apprezzato la facoltà di spingere ai limiti il connubio fra talento naturale e disciplina tecnica. Un principio molto caro a me e al mio lavoro. Ho quindi deciso di avvicinarmi a quel mondo cominciando a conoscerlo e comprenderlo meglio. Nel 2017, in occasione del lancio di "Congetture Isomorfe", ho avviato una collaborazione con la coreografa Annalisa Ciuti e con il

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Scena di 'Universo Instabile. Lo spettacolo. La danza' (Foto di Aurora Giampaoli)

corpo di ballo del suo "Studio Danza". Insieme abbiamo iniziato a sviluppare molti progetti interessanti, primo fra tutti l'opera di videoarte "Clone": un piano sequenza immersivo che, parafrasando il mio sguardo, si insinua nella complessa e visionaria coreografia realizzata ad hoc da Annalisa. A quel punto è stata lei a propormi il privilegio della mia prima regia teatrale, in particolare nella danza. Ne è nato un grande spettacolo tratto, come tu dici, da una delle mie serie più importanti, che è stato un fantastico banco di prova per sperimentare l'intreccio delle nostre visioni: le mie in forme, luci e colori, le sue nel movimento. Il 15 giugno metteremo nuovamente in scena, ancora al Verdi di Pisa, uno spettacolo interamente basato sulla mia installazione più nota e articolata, "Poliedro".

Da sempre sei in prima linea nel sociale e, in particolare per "My Art is Female", quest'anno sei stato in Portogallo a Oporto, arricchendo con un altro importante tassello questo bellissimo progetto che pone al centro l'arte contro la violenza sulle donne. Come è nato questo progetto e come viene accolto dal pubblico? C'è stata un'esperienza più di altre in questi anni che ti ha particolarmente toccato? Nel 2015 l'associazione portoghese per i diritti sulle donne Umar mi invitò a realizzare una serie di opere dedicate al tema della violenza sulle donne. Nacque così "My Art is Female", molto più di una suite di quadri, ma un potentissimo veicolo di comunicazione e sensibilizzazione che, ancora oggi, nonostante il progetto con Umar sia terminato da tempo, continua il suo viaggio itine-

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'My Art is Female - Skin Edition: Caterina e Bianca' (Foto di Francesco Zavattari)

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Zavattari sul palco del Verdi di Pisa al termine dello spettacolo (Foto di Aurora Giampaoli)

rante in una serie di esposizioni curate da Cláudia Almeida. Ognuna di esse è occasione di dialogo e confronto su un tema che tocca le mie corde più intime. Qualche anno fa, proprio nella mia città, una donna di nome Vania fu barbaramente uccisa, data alle fiamme: pur non conoscendola personalmente, quell'episodio mi ha toccato nel profondo così, anche per quel motivo, ho deciso di dar vita a un particolare spin off della serie, portando il mio tratto fuori dai disegni incorniciati e andando a intervenire direttamente sul corpo delle donne. Ne è nata così la "Skin Edition", (ancora in evoluzione) in cui ho ritratto fotograficamente donne di varie età; sul loro corpo ho disegnato come su una tela vera e propria, al fine di esprimere un principio semplice, basilare, forse scontato, ma assoluto, che è diventato tagline della serie: sul corpo di una donna solo arte e colore. Dopo tre anni dalla tua personale "Elevata Concezione", nel 2018 sei ritornato a

Lecce con un nuovo entusiasmante evento "Poliedro. Resta. Ora". Per la tua installazione hai scelto Kunstschau, uno spazio artistico innovativo, curato da giovani, rilanciando il rapporto dell'opera e del contesto in cui viene collocata e che si apre alle interazioni con il fruitore. Ancora una volta le tue riflessioni sull'opera d'arte intersecano le parole grazie a un coinvolgente audio in cui l'attore Sandro Lombardi ha dato voce a un tuo manifesto artistico creato ad hoc. Genesi e dissoluzione dell'opera e nel bel mezzo il fruitore, un invito a soffermarsi sul valore dell'opera nell'hic et nunc... Al rapporto tra materia e pensiero... E l'arte può essere la bussola per orientarsi nel nostro "Universo instabile"? Chi mi conosce personalmente sa che sono estremamente critico e disilluso circa la perdita di determinati valori che dovrebbero, a mio parere, essere basi solide di ogni società civile che tale voglia definirsi. Non parlo in termini politici perché non è il

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Zavattari presenta il colore Luce-19 durante una delle convention Cromology Italia (Foto di Silvia Cosentino)

mio campo, ma sono spettatore come chiunque altro di un crescendo di maleducazione, ignoranza, mancanza di empatia e di tutto ciò che ci rende un po' meno umani, sempre più connessi, ma forse sempre meno legati. Unica ancora di salvezza per rendere questo processo non incontrovertibile ritengo sia la bellezza. Parlo di bellezza, non di arte, perché a ognuno va il compito di trovare ed esaltare la propria forma espressiva, sia essa l'osservazione o creazione di un'opera d'arte, l'impegno nella ricerca scientifica o in ambito sociale, per fare alcuni esempi. Nel mio caso, sì, la bussola è l'arte, così come la si intende convenzionalmente, ma anche come arte di vivere, ovvero la ricerca di ogni processo che elevi la persona, i propri talenti e le proprie ambizioni. La bellezza dell'universo (interiore e non) a mio parere sta proprio nella sua natura instabile e polie-

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drica. Se tutto fosse perfettamente "a posto", vivere sarebbe una noia mortale. Non solo live painting ed esposizioni, ma riservi particolare attenzione anche all'aspetto legato alla didattica come nel format educativo "Colour State of Mind", che ti ha visto ad esempio a Lecce all'Accademia di Belle Arti. Lucca invece è stata occasione per raccontare al pubblico il colore nell'opera dell'artista fiorentino Sandro Botticelli, mentre solo pochi giorni fa sei stato ospite di "Italian Professionals Netherlands" a Utrecht. Un modo e un approccio nuovo allo studio della storia dell'Arte e delle declinazioni del colore? Prima di tutto un modo di comunicare. Quello è il mio vero lavoro, qualunque sia il veicolo per farlo. Attraverso "Colour State of Mind" ho il pri-


Incontro dedicato a Zavattari all'Agorà di Lucca (Foto di Silvia Cosentino) foto a lato: 'Poliedro. Resta. Ora' presso Kunstschau Lecce (Foto di Marco Manno)

vilegio di raccontare l'elemento che, a vario titolo, caratterizza la mia vita: il colore. Sia esso utilizzato per realizzare un'opera su tela o per caratterizzare un prodotto di design, è comunque qualcosa che sento di voler raccontare. La mia ricerca in ambito cromatico mi impegna e mi emoziona da molti anni: perché quindi non condividere questa emozione con chi a sua volta ne è interessato? In particolare la storia dell'arte ha rappresentato il punto di partenza di questo mio percorso, perché, prima di raccontare il mio lavoro sul colore, ho voluto capirne l'utilizzo attraverso lo studio di numerosi capolavori analizzati negli anni. Oggi "Colour State of Mind" mostra l'uso del colore negli ambiti più disparati, dalla moda alla politica, ma la genesi del progetto è stata proprio capire, almeno in parte, il lavoro svolto da chi ha creato tanta bellezza a cavallo dei secoli. Se con la ricerca artistica legata alle installazioni di "Poliedro" l'opera si muove nel-

lo spazio, sospesa come nella tela di un ragno, con il progetto scultoreo "(Mind)blowing" lo sviluppo dell'opera parte dal basso, quasi a voler replicare la naturale crescita dell'albero. Come spiega la tua curatrice, la museologa portoghese Cláudia Almeida, "sintesi plastica tra intuizione e intelletto", è il colore o la forma il punto di incontro fra questi due progetti? È l'intreccio fra i due che si fa parafrasi dell'intreccio di ogni vita. Come ho lasciato intendere poco fa, pur essendo costantemente connesso in digitale, sono molto più appassionato dei legami reali. Entrambe queste mie opere vogliono rappresentare proprio questo: unioni e fili tesi fra ogni individuo, fra ogni sua ambizione, passione ed emozione. "Poliedro" descrive, appeso dall'alto, il reticolo apparentemente casuale che connota ogni esistenza, cercando di rappresentare quanto in realtà ogni nodo sia tutt'altro che casuale. "(Mind)blowing", invece, come un albero si sviluppa dal terreno per incarnare il con-

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Sotto: Zavattari durante la lavorazione di '(Mind)blowing - Figure 1' (Foto di Aurora Giampaoli) Zavattari con Annalisa Ciuti e il corso avanzato di Studio Danza dopo la realizzazione di 'Clone' (Foto di Aurora Giampaoli) Foto a lato: '(Mind)blowing - Figure 1' e due opere di 'Universo Instabile' nel foyer del Teatro Verdi di Pisa (Foto di Siro Tolomei)

cetto di un fuoco vivo e pulsante che, come quello di Dio sul monte Oreb, dovrebbe ardere senza mai consumarsi. A questo vorrei che corrispondesse la vitalità e la curiosità di ogni individuo. Un'inesauribile fonte di energia. Il 2019 è iniziato da poco. Qualche anticipazione? C'è un colore che preferisci più di altri? Che anno sarà il 2019 secondo Francesco Zavattari? Un anno di Luce, anzi, di "Luce-19". Questo il nome del colore che ho avuto la fortuna di sviluppare in collaborazione con Cromology Italia, una major nel campo della produzione di vernici. Attraverso quella particolare tonalità di giallo ocra ho e abbiamo voluto suggerire valori positivi da trasmettere a coloro che porteranno nelle proprie case quella tinta, ma anche a chi si troverà semplicemente a osservarla. Per quanto riguarda il percorso mio e del team, posso dirti che l'interesse rivolto al nostro lavoro va aumentando quotidianamente e che l'agenda degli impegni è già ricchissima almeno per il prossimo biennio: diversi importanti progetti fotografici, nuove

masterclass in contesti emozionanti, esposizioni in musei pubblici e contesti privati, spettacoli teatrali e molto altro... Un'attività su tutte per trasmetterti il nostro entusiasmo? La mia prima performance americana, che mi vedrà disegnare su tetti di New York in un live trasmesso attraverso Facebook in tutto il mondo. Connessioni reali e digitali, appunto.

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Nel riquadro il curatore Giuseppe Salerno, a lato e nelle pagine seguenti alcune opere di Lughia

LUGHIA, PINUCCIO SCIOLA E I LUOGHI DEL SENTIRE Giuseppe Salerno

Il Giardino Sonoro, museo all’aperto di Pinuccio Sciola, terza tappa del del percorso espositivo di Lughia

L

a poesia è nella materia così come in ogni manifestazione della natura. Sta alla sensibilità di ciascuno di noi saperla cogliere. Chi più di altri ha coltivato questa capacità sono gli artisti che di poesia si nutrono per poi riproporcela attraverso i tanti linguaggi umani di cui l’arte si avvale. Me se è questo il percorso abituale per i più, non è così per pochi di essi il cui

impegno è nel creare le condizioni minimali perché, sottratta ad ogni vincolo spazio/temporale, sia la materia stessa ad esprimersi rivelandoci la propria anima. Un atto questo d’amore, fondato sul rispetto e reso possibile da una rara capacità di ascolto per la natura in sé, a prescindere dalla nostra temporanea ed ininfluente presenza. Sardi entrambi ed in sintonia per il

medesimo innato senso di appartenenza alla comune madre terra, Pinuccio Sciola e Lughia instaurano, con percorsi e modalità profondamente diverse, un rapporto di grande intimità con la pietra che diviene l’elemento centrale delle proprie attenzioni. Incontratisi soltanto due volte, la più recente fu nel maggio del 2015 a San Sperate dove le poche ore trascor-

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se insieme nel “Giardino Sonoro” sono state l’occasione per confermare affinità e sensibilità parallele. Un nuovo incontro, promesso per l’anno successivo, non ebbe luogo per la prematura scomparsa di Pinuccio. Importante ed universalmente accreditata la storia di Pinuccio Sciola che con le sonorità siderali sprigionate dallo sfioramento della mano sulle sue sculture megalitiche dà vita al

più poetico dei concerti, collegamento tra terra e cielo. Un grande maestro che vanta importanti meriti: l’aver condotto una ricerca straordinaria, unica al mondo; l’aver promosso la Sardegna nel mondo con la propria arte ed il proprio pensiero; l’aver innescato, incoraggiato e sostenuto, con lungimiranza e dedizione, la crescita e quindi l’affermazione artistica del suo paese natale, San Sperate,

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centro del mondo. Intensa l’attività di Lughia che se da una parte naviga nelle dimensioni dell’assoluto con le sue Architetture di Sabbia, composizioni di sabbia e sassi, scenari

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dell’anima dove la massima disgregazione della materia ed il suo massimo compattamento ci rimandano al ciclico divenire dell’universo ed alla pochezza del nostro essere, dall’altra è impegnata con le installazioni ambientali e con ogni altro suo intervento a sostenere la propria vicinanza al mondo naturale congiuntamente alla improrogabilità di un drastico cambio di rotta sul piano culturale. Due personalità dal carattere forte e dall’animo sensibile, segnate dalla medesima apparente contraddizione tra una poetica che

aleggia nelle dimensioni dell’assoluto (l’eterno e l’infinito) e la concretezza di un impegno sociale profondamente vissuto e manifestato. Un navigare, il loro, tra emozioni che si pongono fuori dalle contingenze del tempo e dello spazio senza con questo mai sottrarsi ad interventi appassionati e prese di posizione sulle miserie del quotidiano. Pinuccio Sciola e Lughia, due artisti i cui interventi rendono possibili legami diretti tra la materia che comunica la sua energia e quanti con essa entrano in contatto. Un

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approccio magnetico che trascende ogni razionalità, va oltre il sentimento e avvolge, senza mediazioni, l’anima. Pinuccio non c’è più ma il suo DNA resta impresso in quelle pietre lungamente accarezzate, per sempre lì a celebrare con il loro canto la storia di un universo senza fine. Una sintonia forte tra i due artisti che ha indotto Lughia a rendere omaggio al grande compagno di sogni ponendo a San Sperate, nel parco che accoglie le sue sculture sonore, l’insegna che contraddistingue i suoi “Luoghi del Sentire”. Saltare la mediazione dell’opera ed entrare in sintonia diretta con l’artista attraversando paesaggi e

situazioni che essa dichiara armonici con il proprio sentire, è questa l’operazione che Lughia va realizzando nei propri luoghi d’affezione collocando un cartello contenente una figura femminile in meditazione accompagnata dalla scritta: AREA DEL RISPETTO DEL SENTIRE. Un cartello che sollecita silenzio e predisposizione all’ascolto (nessun luogo è più indicato del Giardino Sonoro di Pinuccio Sciola) in ambienti magici, ricchi di suggestioni, che hanno il potere di dare spazio all’emozione ed al pensiero. Altre insegne sono già state collocate presso la Casa degli Artisti a Sant’Anna del Furlo, prezioso

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esempio marchigiano di residenza creativa e paesaggio sardo dove la natura, la storia e parco artistico che accoglie quasi cinquecen- l’arte si fondono in un respiro vitale. to opere e nel comune di Banari presso la Chiesa campestre della Madonna di Cea, piccolo gioiello architettonico inserito in un

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Nella foto un’opera di Emilio Vedova

ARTE LIBERATA DAL SEQUESTRO AL MUSEO Carmelo Cipriani

A Palazzo Nervegna fino al 15 febbraio la mostra con le opere confiscate e restituite alla collettività

BRINDISI. Che l'arte abbia un valore sociale è un dato risaputo, ma quando questa è sottratta alla criminalità si carica di significati aggiunti capaci di influire concretamente sulla sfera collettiva oltre che su quella individuale. La mostra "Arte liberata dal sequestro al museo", in corso a Brindisi fino al 15 febbraio, ne è la prova tangibile, raccontando un capitolo felice della storia italiana dell'ultimo decennio. Allestita nelle sale di Palazzo Granafei-Nervegna e oggetto di studio di un corso di formazione per docenti promosso da Anisa lo

scorso 18 gennaio, da un lato recupera al contenitore (speriamo non solo momentaneamente) quel prestigio che aveva assunto all'inizio della sua storia espositiva, ai tempi della Collezione Mazzolini e delle retrospettive di Sironi e Manzù, dall'altro rappresenta l'esito di una vicenda di riconquista, in cui la collettività si riappropria di beni sottrattole dal malaffare. Il titolo della mostra è emblematico. Le opere esposte provengono tutte da un'unica collezione di opere d’arte contemporanea confiscata in Lombardia nel 2008 e assegnata nel 2018 al

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Segretariato regionale, nuovo organo periferico del Ministero per i beni e le attivitĂ culturali, nato in seguito alla riforma Franceschini e sostitutivo delle "vecchie" Direzioni Regio-

nali. In esposizione veri e propri capolavori, 69 in tutto, acquisiti nell'ambito di un’inchiesta per gravi reati finanziari durante la quale il Tribunale di Milano ha sequestrato la colle-

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Nella foto un’opera di Giulio Paolini

zione in ottemperanza al Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione. Un'azione sinergica che oltre al Tribunale e al Segretariato Regionale, ha coinvolto l’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la

destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (ente nato nel 2011 per gestire i patrimoni nati da illeciti), Open Care, società milanese specializzata in servizi per l’arte, e l'Università di Pavia che

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ha condotto la perizia stabilendo autenticità e valore delle opere. La collezione, costituita tra gli anni Ottanta e i Duemila evadendo il fisco, è oggi restitui-

ta alla collettività come un bene unico, di notevole interesse culturale e di grande rilevanza sociale. Una storia a lieto fine che si ricollega esplicitamente ad una vicenda simile, avvenuta in tempi coincidenti in Calabria, dove la confisca nel 2012 di 108 dipinti a Gioacchino Campolo, re dei videopoker e affiliato dell'ndrangheta, ha consentito l'apertura di un nuovo museo a Reggio Calabria, con nuovi introiti in termini di entrate e posti di lavoro. Per quanto accomunabili da un punto di vista procedurale, tuttavia, le due vicende presentano anche una diversità sostanziale. Mentre Campolo acquisiva senza premeditazione, per pura brama di possesso, scegliendo opere in prevalenza figurative, assai diffuse nel collezionismo medioborghese, da galleria non sempre di primo livello, il collezionista milanese invece ha acquistato le opere da note case d’asta europee e da gallerie d’arte italiane e internazionali (tra cui spicca il nome di Massimo De Carlo) secondo un preciso disegno, probabilmente su consiglio di attendibili e competenti consulenti. Connotata da un assetto internazionale, la collezione, dopo l'esposizione in Palazzo Litta a Milano, ha intrapreso un percorso itinerante che da Brindisi la porterà a Roma e Napoli, fino alla Civica Galleria di Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo, dove rimarrà fino all'istituzione di un Padiglione dell’Arte

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Liberata, luogo espositivo e al tempo stesso centro studi dedicato al complesso e delicato tema del riutilizzo sociale dei beni culturali confiscati alla criminalità. Curata da Beatrice Bentivoglio-Ravasio, la mostra racchiude molteplici capolavori firmati da alcuni dei più significativi artisti del Novecento, con una predilezione per la seconda metà del secolo, a cominciare dall'informale a cui è ascrivibile un grande dipinto di Emilio Vedova, autentica esplosione cromatica, testimonianza della riscoperta del colore da parte dell'artista seguita alla Biennale del 1960. All'informale europeo afferisce anche "Composition jaune blanche et noire" eseguita nel 1954 da George Mathieu e donata dall’artista al collega Paul Jenkins in segno di amicizia e stima per le sue ricerche nell'ambito dell'espressionismo astratto. Grande rilevanza assumono nella raccolta le sperimentazioni neoavanguardiste. Mentre un collage di Giulio Paolini, una poetica installazione di Giuseppe Penone e due lavori a parete di Pierpaolo Calzolari testimoniano le indagini concettuali, tra poverismo materico e ambivalenza semantica, le accumulazioni di Arman, un accrochage di César, un enigmatico empaquetage di Christo, tra i primi creati dall’artista, è l'inutile e tautologico marchingegno di Ben Vautrier "Pour le plaisir de tirer" del 1966, raccontano le conquiste poetiche del nou-


Il dittico Turi Simeti

veau réalisme teorizzato da Pierre Restany, che nell'oggetto hanno trovato il simulacro di un'esistenza da rivelare, denunciare e talvolta preservare. Intento "realistico" perseguito con mezzi differenti se non opposti anche dalla Pop Art rappresentata in mostra dall'eccezionale ritratto di Giorgio Armani eseguito da Andy Warhol. All'omaggio italiano dell'artista americano corrisponde, nella stessa sala, quello a stelle e strisce di Franco Angeli, che attraverso il dollaro e altri simboli ha indagato le iconografie del potere, passato e presente. Alle ricerche poveriste ed oggettuali si collegano anche i lavori di Chen Zhen, Bruno Ceccobelli e Nunzio a cui appartengono tre legni combusti a parete. Un'opera che sembra riflettere sugli opposti simulando la presenza con l'assenza (il nero), la leggerezza con la gravità (il peso del materiale), la possanza con la fragilità (la combustione). Una certa predilezione il collezionista la rivela anche per le ricerche optical, cinetiche e spazialiste. Alle prime afferiscono i molti lavori di Victor Vasarely, presente con ben quattro opere di decenni differenti, tra i quali spicca per rappresentatività "Tuz Tuz" del 1973. Tutto italiano è invece il dialogo tra le ricerche cinetiche di Giacomo Colombo e quelle spazialiste di Paolo Scheggi, Enrico Castellani e Turi Simeti. Quest'ultimo è presente oltre che con un dittico giallo (originariamente trittico) del 1968,

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anche con un lavoro su tela del 1963, significativa testimonianza delle indagini compiute dall'artista sull'ovale, elemento iconico prediletto, e sulla sua serialità, prima delle estroflessioni di cui è origine e sostanza. Non mancano opere degli anni Duemila. Spiccano per qualità i lavori di Christian Lohr, vincitrice dell'ultimo Premio "Pino Pascali", e di Berlinde De Bruyckere, la cui ricerca sull'uomo, scenografica e drammati-

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ca insieme, si pone come una delle più interessanti alle soglie di questo nuovo millennio. E ancora opere di Sol Lewitt, Yang Pei-Ming, Ettore Spalletti, Giuseppe Uncini, Zoran Music e tanti altri, in un efficace compendio della Storia dell'Arte degli ultimi cinquant’anni, un tempo appannaggio di una sola persona oggi onore ed onere dell’intera collettività.


Nel riquadro Dario Ferreri; al centro Mu Pan, Alligator

LE ILLUSTRAZIONI BRUTALI ED IMPONENTI DI MU PAN Dario Ferreri

Un viaggio tra i luoghi e nonluoghi fisici ed emozionali dell'arte contemporanea

CURIOSAR(T)E

«Gli uomini sono in guerra tra loro, perché ogni uomo è in guerra con se stesso» Francis Meehan

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a qualche parte tra Kuniyoshi, l'ultimo grande maestro della stampa di ukiyo-e, nonché epigono del brutale surrealismo nell'arte giapponese, e Toshio Saeki, riferimento obbligato nell'ambito della bizzarra e sublime arte eroticoorrorifica in voga nel paese del Sol Levante, si colloca Mu Pan, un artista con base a Brooklyn che canalizza tutti gli elementi

più oscuri e surreali dei suoi predecessori in grandi acquerelli e dipinti ad olio estremamente interessanti, fitti e complessi. Alcuni hanno paragonato lo stile di Mu Pan a quello di un altro artista molto apprezzato, Ralph Steadman, il collaboratore e amico di lunga data di Hunter S. Thompson. E proprio come i personaggi spesso laceri e tormentati nell'opera di Steadman, i

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soggetti di Mu Pan sembrano essere coinvolti in scontri violenti con improbabili antagonisti, dai dinosauri agli ibridi animali-umani e da John Wayne a Bruce Lee, coinvolti in epici scontri con alieni ed altre fantasmagoriche creature del passato e del futuro. Mu Pan è nato a Taichung City (Taiwan), che ha lasciato all'età di 21 anni quando si è trasferito negli Stati Uniti. A New York ha conseguito, presso la School of Visual Art, il suo

Bachelor of Fine Arts (BFA) ed il Master of Fine Arts (MFA) in Illustration-as-visualessay. Secondo Mu Pan, se non fosse andato a scuola d'arte, sua madre aveva minacciato di mandarlo in un'accademia militare. Fortunatamente ciò non avvenne e questo artista di particolare talento ora passa le sue giornate a dipingere ed insegnare Illustrazione ai suoi studenti newyorkesi.

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CURIOSAR(T)E

Da sinistra: Mu Pan, Swan in basso: Little Big Horn; a lato: Bats

Crescendo, Mu Pan è stato attirato dai Manga, anche se l'arte popolare, in particolare le pergamene cinesi e le stampe giapponesi, ha avuto una profonda influenza sul suo lavoro; infatti ha studiato in maniera approfondita la storia giapponese, cinese e americana, mescolando eventi del passato con esseri immaginari e reali per creare dipinti e disegni spettacolari, espressioni di rabbia e ritratti di un mondo brutale e implacabile. I racconti che i suoi dipinti narrano, reinterpretano in moderna chiave politica e satirica, talvolta anche con note pop, storie e leggende cinesi, giapponesi ed americane, antiche e contemporanee. I suoi nuovi miti sono incarnati da personaggi ibridi ed elementi della cultura popolare, spesso quasi ai confini del cartoon. I grandi e spettacolari dipinti narrativi sono pretesto di aspre critiche sociali sul suo paese ospitante e d'origine, e sui temi dell'immigrazione, dei conflitti sociali e della perdita d’identitĂ culturale dei quartie-

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She Entwined

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Sotto: Mu Pan, Tylosaurus and the 108 Outlaws;

ri di New York o delle nuova generazione giovanile taiwanese. Le epiche ed eroiche scene di battaglia di Mu Pan sono ricche di dettagli e crudele ironia, ma anche di umorismo e di una malinconica nota introspettiva. "Adoro le scene di battaglia; sono il mio soggetto preferito ", ha detto l'artista in una recente intervista "ma non ha nulla a che fare con la mia esperienza di servizio militare a Taiwan. In realtà, io ero solo un soldato della

propaganda di una guerra politica: tutto ciò che facevo erano manifesti e pittura murale. Non riuscivo nemmeno ad utilizzare un fucile! Le scene di battaglia mi eccitano, specialmente quelle con spade e lance e persone a cavallo che cercano di uccidersi a vicenda. Non so perché, mi piace vederle nei dipinti e nei film. Mi piace produrre immagini del genere". In un’altra intervista, a proposito del suo lavoro afferma che esso “consiste semplicemen-

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te nel raccontare storie; storie nella storia reale, storie nella storia immaginativa e storie sulla natura umana. Fin dalla mia infanzia, il racconto ha avuto una forte influenza su di me. Sono cresciuto ascoltando la voce registrata dei miei genitori che leggeva storie per bambini su nastro, nel tentativo di farmi compagnia mentre erano via al lavoro; la mancanza della loro presenza e non avere nessuno che rispondesse alla classica fanciullesca domanda "perchĂŠ", ho sviluppato in me

l’immaginare il motivo per cui. Ho anche iniziato a fare osservazioni acute ed ho sviluppato una memoria fotografica. Con il mio interesse per la narrazione, man mano che crescevo, sono stato attratto dalla storia, che considero un tipo di narrazione. Ho letto a fondo la storia della Cina, del Giappone e degli Stati Uniti. Ho iniziato a ricreare, usando la mia immaginazione, scene storiche e scene della vita quotidiana di persone comuni e persone in forma animale, chiedendomi

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In basso: Mu Pan, spider woman; a lato: Mu Pan, Dinoasshole Chapter 8

cosa avrei osservato se fossi sulla scena. La combinazione di tutto quanto sopra detto mi consente di proiettare accuratamente le mie idee e la mia immaginazione su una superficie”. L’artista crede fermamente nel fondamentale bisogno dell'umanità di narrare le immagini visive. Per raccontare le sue storie usa forme animali, antropomorfe o altro, nel tentativo di mostrare allo spettatore la follia degli esseri umani ed il potere illimitato degli animali. Trae riferimenti dalle storie di Cina, Giappone e Stati

Uniti, tutti universi culturali di riferimento che hanno avuto un'enorme influenza sulla sua educazione ed essendo nato in una famiglia militare è affascinato dalle scene di battaglia. Molte delle scene nel suo lavoro indicano gli errori irreparabili che gli esseri umani hanno commesso in passato e ricrea gli scenari storici nella sua interpretazione personale, forse per lamentarsi di ciò che l’umanità non può più recuperare, o forse per immaginare che la giustizia possa prevalere, se non altro nel suo mondo immaginifico.

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Le ambientazioni ed il formicolio che emerge dalla maggior parte dei suoi lavori portano alla mente i dipinti di Hieronymus Bosch, per le surreali atmosfere, per i soggetti ibridi uomo-animale, per i dettagli di definizione ed il carattere mistico e mitico che emerge dalle opere. Questa apparente violenza è legata alla personalità dell’artista, che è un anticonformista, un disincantato, talvolta sprezzante ed alla ricerca di un riscatto personale e sociale. Mu Pan definisce spesso sé stesso una persona arrabbiata e amara, come il suo lavoro artistico, che è per lui un percorso ed il mezzo per trovare e riaffermare l'equità e la giustizia. Tecnicamente utilizza il disegno per tutto il suo lavoro, anche quando prende la forma di pittura o scultura di carta: il disegno è la sua lingua madre; è quello con cui è cresciuto ed il linguaggio in cui può e sa esprimersi al meglio. Nei lavori di Mu Pan il disegno è una forma d'arte finale, non solo un metodo per disegnare e realizzare ruvide bozze, peraltro

frequenti nella sua produzione artistica e l’esito del disegno non è mai scontato, ma al contrario ignoto e sorprendente anche per l’artista, in una sorta di catartica marea produttiva. Le sue opere sono state presentate in pubblicazioni specializzate come Juxtapoz e Hi Fructose; ha partecipato a mostre personali e collettive in America, Asia ed Europa e suoi lavori sono ospitati nella Colleccion Solo di Madrid. Ha diverse gallerie di riferimento che lo rappresentano a Fiere d’arte internazionali. Il lavoro di Mu Pan non è per i deboli di cuore; è ricco di introspezione degli abissi più oscuri dell'anima e dell'umanità, una introspezione però che risulta asservita ad una feroce e surreale satira della vita contemporanea: il risultato è una miscela caotica, spesso barbarica, di arte popolare di ispirazione orientale classica e ricca di riferimenti alla cultura pop moderna che non lascia però indifferenti.

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LUIGI BALLARIN E LE MERAVIGLIE D’ORIENTE Giuseppe Salerno

A Roma dal 22 al 28febbraio negli spazi di Medina

ROMA. Definita dal luogo di appartenenza e da molteplici circostanze che sfuggono al controllo umano, ciascuno vive l’identità che gli è propria e che in modo assolutamente unico lo contraddistingue. Nonostante il caso determini in gran parte ciò che siamo, il destino riserba poi a tutti occasioni speciali di rinascita ogni qual volta abbiamo la possibilità di intrecciare il nostro percorso con il diverso. Una possibilità rivitalizzante questa, di crescita, se sostenuta da un’incontenibile desiderio di conoscenza ed incentrata sull’incessante ricerca di sé attraverso la relazione con ciò che non siamo. Un percorso che accomuna i tanti artisti che in mondi lontani e dimensioni altre, estranee alle superficialità del quotidiano, trovano fonte di ispirazione e nutrimento. Mondi interiori e mondi ignoti, vissuti o soltanto immaginati, acquisiscono attraverso l’arte una visibilità che li rende patrimonio collettivo. All’artista va pertanto il merito di met-

terci in contatto con nuove realtà, di gettare ponti da attraversare alla ricerca di linfa vitale. Un percorso di conoscenza capace di generare quell’amore che illuminando l’universo relega nell’ombra l’ignoranza, l’odio e l’indifferenza, sua grande alleata. In questa direzione si muove Luigi Ballarin, impegnato da sempre ad indagare aree a noi buie del sapere con l’intento di ridare significato ad un quotidiano nel quale l’umanità vaga senza ormai più di punti di riferimento. Una ricerca di universalità quella di questo artista che, desideroso di visioni dall’alto, ha fatto crescere in sé, calandosi in una cultura altra, la coscienza della complessità che governa il mondo. Senza visioni precostituite l’artista coltiva con passi lievi il suo desiderio di conoscenza avvicinandosi con grande umiltà ad un sentire che non gli appartiene. Si appropria inizialmente di forme, colori e profumi con cui prendono vita, tra le sue mani,

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Luigi Ballarin, Cavallo bizantino a lato: Nomade acrilico e smalto su tela 80 x 120

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Sotto l’artista Luigi Ballerin, a lato: Il paradiso, acrilico e smalto su tela 80 x 120

armonie che, come mandala, hanno il potere di avvicinarlo progressivamente alla tanto ricercata sintonia. Opere soltanto in apparenza “decorative” sono momenti essenziali di una ricerca profonda che vede l’artista calarsi ripetutamente in universi nei quali, sospeso ogni giudizio di valore, inizia a navigare lasciandosi andare al sentire. Un abbandono in un’atmosfera universale di preghiera, spiritualità e mistero che suona come temporanea presa di distanza dalle vicende terrene. Una processo durato anni che ha permesso all’artista di vestire con la necessaria consapevolezza la tanto accarezzata nuova pelle. Ma “l’abito non fa il monaco!”, recita un vecchio proverbio. E così Luigi Ballarin, non più il veneziano di prima, non si è trasformato in uomo dell’Islam. Oggi è qualcosa di diverso, di più articolato, di certo più vicino a quei

cavalli e farfalle multicolori che impegnano la tela nei suoi lavori più recenti. Forme nuove, libere, svincolate da culture e immagini archetipiche ostentano oggi un’epidermide patchwork, memoria viva di antichi manufatti ceramici e tessili. Con il superamento e l’incontro delle singole culture, dando vita ad opere/luoghi di incontro e commistione, Luigi Ballarin ha pienamente guadagnato la sua visione dall’alto. “Meraviglie d’oriente” è la mostra in corso presso la galleria Medina Roma a partire dal 22 febbraio. Luigi Ballerin Meraviglie d’Oriente 22-28 febbraio Medina eventi arte design Roma, via Angelo Poliziano, 32

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LE VISIONI SOSPESE NEL TEMPO DI FRANCESCA MELE Antonietta Fulvio

A Villa Schöningen in mostra fino al 10 febbraio Poi il tour a Rheine e Monaco

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ennellate come parole che vestono narrazioni in bilico tra vita, sogno e mistero. È una pittura che incanta quella di Francesca Mele che riesce sempre a sorprendere con le sue delicate e coinvolgenti composizioni pittoriche. Donne, oggetti e paesaggi che prendono forma e danno corpo a mille suggestioni. Dopo aver conquistato le grandi capitali dell’arte stavolta l’artista salentina ha incantato il pubblico berlinese. Inaugu-

rata, lo scorso 24 gennaio la mostra intitolata Opere Recenti 2001 - 2019 è stata curata da Mark Langer e promossa dalla Fondazione Evonik (Germany). Nelle stanze di Villa Schöningen, la Villa delle spie oggi sede di un prestigioso Museo, hanno trovato posto trentasette opere di grandi dimensioni (150x180cm e 120x120cm), dipinti nella tecnica a lei più congeniale - olio e polimaterici documentate anche nel catalogo rea-

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lizzato per l’occasione con la presentazione del letterato filosofo e teologo benedettino tedesco Elmar Salmann. Sarà possibile ammirarle fino al 10 febbraio e poi andranno in tour nelle più belle città tedesche. Nata a Novoli (Lecce), Francesca Mele vanta una carriera artistica strepitosa che l’ha portata in giro per il mondo collezionando ben 145 mostre in molte città italiane ed estere tra le quali Atlanta, New York, Miami, Parigi, Puy L’Eveque, Bruxelles, Avignon. Pittrice, ritrattista, grafico pubblicitario, i suoi interessi si allargano alla scultura, al design, alla scenografia. Un’abilità tecnica straordinaria da far invidia ai caravaggeschi per l’intensità di quelle sue figurazioni che tra ombre e luci sembrano sospendere in un tempo infinito le azioni raccontate. Sui suoi supporti pittorici preferiti, tele di juta e tavole di pioppo, come quinte scenografiche si muovono i personaggi che sembrano affiorare dal passato, sbalordisce la perfezione del disegno, i cromatismi luminosi anche nell’oscurità, la cura di dettagli e quel gioco di sovrapposizioni che è una cifra stilistica di Francesca Mele. Come frame di una pellicola i piani spesso si intersecano come sequenze filmiche ad imprimere una velocità al ritmo della narrazione. E le figure palpitano e conducono

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il fruitore fin dentro la scena come succede nell’opera Inno alla vita sembra quasi ascoltare il vagito di quel neonato che diventa metafora della genesi pittorica. Ogni creazione è un dono come lo è il talento puro. È un continuo svelamento di significati e di emozioni che da sempre la pittura riesce a contenere e ad esprimere attraverso segni, velature, colori.

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E poi quell’attraversamento tra le pieghe dell’anima, tra spartiti e libri che si aprono liberando note e pensieri o che scavano nell’inconscio come rami di betulle avvolte nella neve sotto un cielo notturno come nell’opera Il Bosco di Betulle, la Neve la Notte che è stata scelta per la copertina del catalogo che accompagna la mostra. Un percorso espositivo che racconta


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l’arte sublime, eterea e potentemente espressiva di Francesca Mele mettendo insieme la produzione degli ultimi diciotto anni. Immagini che entrano dentro, nella mente e negli occhi di chi le osserva per non uscirne piÚ.

Francesca Mele Opere Recenti 2001 - 2019 Villa Schoeningen dal 24 al 10 Febbraio 2019

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Il coreografo Fredy Franzutti; a lato il ballerino Emanuele Cazzato

LA NUOVA STAGIONE DEL BALLETTO DEL SUD

Sei produzioni in scena al Teatro Apollo di Lecce dedicate a Lindsay Kemp

LECCE. Sei produzioni, con repliche e matinée per le scuole, per un totale di 24 spettacoli con le coreografie di Fredy Franzutti. è questo il fitto programma della seconda edizione della Stagione di Danza del Balletto del Sud in scena al Teatro Apollo di Lecce. La dedica non poteva che essere per Lindsay Kemp, icona della danza recentemente scomparso, che ha collaborato con il Balletto del Sud dal 2005 al 2013 in due degli spettacoli proposti in calendario: “La bella addormentata” e “L’Uccello di fuoco”. Dopo il debutto natalizio con “La bella addormentata”il secondo appuntamento, “Le Maschere”, dal 22 al 24 febbraio presenta coreografie del repertorio classico dedicate ai personaggi della commedia dell’arte e alle maschere. Dal celebre “Carna-

val” con le coreografie di Micael Fokine, sul tema della suggestiva musica di Schumann, ai passi a due brillanti di “Harlequinade” e “Carnevale di Venezia”, coreografati da Marius Petipa su musiche rispettivamente di Riccardo Drigo e Cesare Pugni, fino al terzetto da “Fairy Doll” con le coreografie di Josef Hassreiter su musiche di Josef Bayer. In chiusura la nuova coreografia di Fredy Franzutti, “Masquerade”, un brano corale su musiche del georgiano Aram Khachaturian. La serata prevede la partecipazione di Arianne Lafita Gonzalvez e Vittorio Galloro, étoiles internazionali, e del ballerino originario di Tricase, Emanuele Cazzato, oggi stabile nel Corpo di Ballo del Teatro alla Scala di Milano, che danzerà con una solista del teatro milanese sua partner e, nella replica del 24, riceverà un riconoscimento speciale

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I ballerini Arianne Lafita Gonzalvez e Vittorio Galloro

per la sua carriera. Completano il cast artistico della serata il soprano Silvia Susan Rosato Franchini e il pianista Francesco Libetta con i solisti del master di pianoforte della Fondazione "Paolo Grassi" di Martina Franca. Conducono Giuliana Paciolla e Andrea Sirianni. Dal 15 al 17 marzo, sul palco dell’Apollo arriva il “Progetto: Leonardo Da Vinci”, performance di teatro, danza e musica dedicata all’uomo d’ingegno e talento universale del Rinascimento che incarnò in pieno lo spirito della sua epoca, esprimendo eccellentemente le maggiori forme di espressione della scienza, dell’arte e della conoscenza. Lo spettacolo – una produzione del 1998, proposta in occasione dei 500 anni dalla morte di Leonardo Da Vinci – prevede la partecipazione dell’attore Ugo Pagliai. Il 12 e 13 aprile il Balletto del Sud ripropone “Le Ultime Parole di Cristo”, balletto in un atto sull'oratorio sacro di Saverio Mercadante con l’inserimento dei testi di Jacopone da Todi e di Maria Concetta Cataldo. Lo spettacolo, che al suo

debutto, lo scorso anno, ha sollevato un appassionato interesse, vede nel ruolo di Maria, madre di Cristo, la stella della danza internazionale Luciana Savignano e in quello di Maria Maddalena, il popolare personaggio televisivo Loredana Lecciso. La produzione è realizzata in collaborazione con il Conservatorio Tito Schipa di Lecce che esegue la parte musicale con coro e orchestra. Il 2 e 4 maggio è in scena “Serata Stravinskji”, spettacolo in due parti con “L’Uccello di Fuoco”, in una speciale edizione ambientata nel film fantasy di John Milius, e “La Sagra della Primavera”, dove Franzutti traspone geograficamente la vicenda nell’Italia più retriva e arcaica del Meridione, in cui gli echi del rapporto con la cultura ortodossa hanno lasciato solchi ancora percepibili. La produzione è impreziosita dalle scene tratte dai dipinti del pittore Ezechiele Leandro. Il 3 e 5 maggio conclude la stagione di danza al Teatro Apollo lo spettacolo “Che Ieri M'illuse”, recital di teatro, danza e

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musica, ideato in omaggio al Vate di Pescara, Gabriele D’Annunzio, che venne anche in residenza nel Salento visitando Gallipoli, perla dello Ionio. Lo spettacolo, interpretato dall’attore Andrea Sirianni, presenta alcune pagine tratte dalle “Laudi del cielo, del mare, della terra e degli eroi” e brani dal romanzo “Il Fuoco”, dedicato all’attrice Eleonora Duse. Le coreografie animano le poesie e legano le immagini evocate delle note dei brani eseguiti dal vivo. Protagonisti degli spettacoli sono: Nuria Salado Fustè, Carlos Montalvan, Alessandro De Ceglia, Alexander Yakovlev, con primi ballerini ospiti come Tsetso Ivanov, primo ballerino dell'Opera di Sofia ed Emanuele Cazzato, salentino oggi al Teatro alla Scala di Milano. Accanto a loro tutti gli altri validi danzatori del Balletto del Sud, una solida realtà considerata una delle maggiori espressioni della danza italiana. www.ballettodelsud.it Il pianista e compositore Francesco Libetta

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Opera di Nicola Genco e la locandina della manifestazione

LE PAROLE DEL CIBO LE SUGGESTIONI DELL’ARTE

Presentato in Consiglio regionale pugliese il progetto al centro arte contemporanea e alimentazione Se incontri in sei biblioteche dal 7 febbraio al 20 giugno

Promuovere cultura, valorizzare l’arte e dare un “piccolo contributo” alla buona alimentazione, sono i motivi e i valori del progetto “Le parole del cibo, le suggestioni dell’arte”, messi in risalto dal presidente del Consiglio regionale della Puglia nella presentazione del progetto. “Un’iniziativa ricca di contenuti - ha detto Mario Loizzo - decisamente innovativa e che rientra nella mission che si è data un’Assemblea che non è solo legislativa: valorizzare la creatività e tutte le eccellenze della Puglia”. La manifestazione – ideata e diretta da Lia De Venere, promossa

dalla Biblioteca multimediale consiliare “Teca del Mediterraneo” e organizzata dall’Associazione Culturale ETRA ETS di Castellana Grotte – mette al centro la bellezza dell’arte contemporanea e la promozione della lettura, seguendo l’alimentazione come filo conduttore. Coniuga arte, cibo e lettura, ha sottolineato il presidente Loizzo e “deve aiutarci a risollevare le sorti del Paese in un momento difficile sotto sotto tanti aspetti”. Le opere che sei artisti (Dario Agrimi, Mariantonietta Bagliato, Giuseppe Ciracì, Nicola Genco, Claudia Giannuli,

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Rosemarie Sansonetti) proporranno in occasione delle sei giornate in biblioteca in cui si articola il progetto, saranno successivamente esposte nel foyer del nuovo palazzo consiliare e presentate in una mostra collettiva

organizzata dalla Biblioteca del Consiglio regionale della Puglia. “Una mostra di grande valore, che ravviverà la ‘piazza’ interna che caratterizza la sede di via Gentile a Japigia”, ha annunciato Loizzo.

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Opera di Nicola Genco

Prima però, ogni opera d’arte resterà esposta per almeno 3 settimane nella sede dell’evento in cui saranno presentate la prima volta. L’itinerario culturale e artistico tra colori, sapori, prodotti agroalimentari e storia, sarà un viaggio tra passato, presente e futuro, con un richiamo alle tradizioni e all’innovazione. Coinvolgerà sei biblioteche pugliesi, una per ogni provincia, in altrettanti incontri che prevedono la presentazione di libri e di installazioni di artisti contemporanei pugliesi legati al tema del cibo, oltre all’intervento di ricercatori ed esperti. Si tratta delle biblioteche di Laterza, Canosa, San Severo, Maglie, Noci e Latiano. “Il connubio tra il cibo e l’arte risale all’antichità –sostiene la curatrice Lia De Venere - Tavole imbandite e alimenti di ogni genere sono stati rappresentati nella pittura vascolare greca, in quella funeraria etrusca, nei mosaici ellenistici, in molti esempi di arte paleocristiana e medievale, nei dipinti del fiammingo Pieter Bruegel il vecchio (1525/1530 –1569),

nelle numerose nature morte dei secoli XVIXVIII, nella pittura del Realismo e degli impressionisti nel corso dell’Ottocento. Importanti contributi al tema – ha continuato la storica dell’arte - sono stati elaborati nel XX secolo nell’ambito delle avanguardie storiche, in particolare dai Futuristi, e a partire dalla metà degli anni Cinquanta dagli esponenti della Pop Art, del Nouveau Réalisme e di Fluxus, cioè da movimenti, gruppi, singoli artisti per i quali il rapporto tra arte e vita si è imposto come inderogabile filo conduttore delle proprie ricerche. Nella seconda metà del secolo si è verificato il fondamentale passaggio dalla raffigurazione degli alimenti al prelievo letterale di essi. Veri cibi, a volte offerti in pasto al pubblico, sono stati usati negli ultimi decenni per realizzare delle opere o durante le performances. Quasi tutto ciò che è commestibile (cotto o crudo che fosse) è stato assunto all’interno della sfera estetica, ovviamente con finalità e significati ogni volta diversi. A ogni artista,

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infatti, il cibo offre l’occasione per esprimere in sintesi la propria particolare visione della realtà e dell’arte, all’interno di percorsi che pur rispecchiando particolari urgenze individuali, il più delle volte mettono in luce desideri, sogni, timori e addirittura incubi propri del vivere contemporaneo. Oggi – ha concluso la direttrice artistica della manifestazione - l’arte intende indurci a riflettere su alcune tra le problematiche di grande rilievo e attualità più o meno direttamente connesse al tema, come le manipolazioni genetiche, l’ecosostenibilità, la difesa dell’ambiente naturale, i disordini alimentari, l’adulterazione e la contraffazione dei cibi, la gestione delle risorse idriche”. Sei i temi scelti per raccontare questo valore: “I cibi del futuro”, “Dieta o no?”, “Le donne e il cibo”, “I cibi del passato”, “La natura in tavola” e “Mangiar sano”. “Le parole del cibo, le suggestioni dell’arte” pone l’attenzione su argomenti di grande attualità attinenti alla conoscenza della cultura alimentare locale e non, e alla conoscenza delle regole di una corretta alimentazione che tuteli la salute delle persone. Anche per questo motivo il Consiglio Regionale della Puglia omaggerà ogni

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biblioteca ospitante con alcune pubblicazioni sulle tematiche del progetto, che ne incrementeranno il patrimonio bibliografico. Gli appuntamenti si svolgeranno dal 7 febbraio all’evento finale del 20 giugno, moderati dalla giornalista Annamaria Minunno. Ad ogni evento interverrà un consigliere regionale: Luigi Morgante il 7 febbraio a Laterza, Sabino Zinni il 15 marzo a Canosa, Giandiego Gatta l’11 aprile a San Severo, Mario Pendinelli il 12 maggio a Maglie, Michele Mazzarano il 23 maggio a Noci e Fabiano Amati il 31 maggio a Latiano. L’evento finale è previsto per il 20 giugno alle 18.30, nella sede della Biblioteca del Consiglio Regionale della Puglia di Bari. In quell’occasione il Presidente del Consiglio regionale Mario Loizzo inaugurerà l’esposizione temporanea delle opere realizzate dagli artisti nell’ambito del progetto. A presentare il catalogo sarà la storica dell’arte Lia De Venere.


Flavio Oreglio

RIPARTE DALLO ZELIG IL CATARTICO FLAVIO OREGLIO

Giovedì 15 e venerdì 16 febbraio, nello storico locale milanese, due serate di spettacolo del cantautore “catartico” con un nuovo progetto discografico

MILANO. Sarà un grande ritorno sulle scene, su questo non c'è ombra di dubbio. Dopo il “trentennale lungo” (parafrasando “Il Secolo Breve” di Hobsbawm), nel quale ha raccontato e riproposto tutto il suo percorso artistico dal 1985 al 2015 con pubblicazioni editoriali e discografiche, spettacoli, incontri, Flavio Oreglio – attore, umorista e scrittore – riparte dalla musica e da Milano, per riappropriarsi definitivamente della sua storia e della sua natura “cantautorale” come fu agli esordi. “Cantautore assolutamente – dichiara lo stesso Flavio – nell'accezione storica in cui si colloca il cabaret della Milano del dopoguerra”. Due serate, giovedì 15 e venerdì 16 febbraio 2019, utilizzando quel luogo magico che fu – a cavallo dei due millenni - il laboratorio creativo e la vetrina mediatica che lo traghettarono al grande pubblico come l‟indimenticabile “poeta catartico” (ovvero il Teatro Zelig di Milano), per presentare in prima nazionale “Anima Popolare” (Edito e prodotto da Long

Digital Playing Edizioni Musicali, casa discografica milanese di recente nascita costituita da Luca Bonaffini) e distribuito da Ducale Music. Il suo nuovo progetto discografico e live è stato interamente realizzato con il gruppo Staffora Bluzer. Novità assoluta ed interessante: A fianco di Anima Popolare sarà possibile riscoprire alcuni degli ultimi progetti editoriali/musicali e audiovisivi “storici” e antologici del Flavio Oreglio scrittore e canta-attore grazie al "back catalogue" proposto dalla partnership LDP-DUCALE. Con lo spettacolo "Anima popolare‟, Flavio Oreglio riscopre la vitalità della musica e delle tradizioni popolari, inserite in un contesto narrativo attuale e divertente. Il sound folk degli Staffora Bluzer crea il tessuto sonoro sul quale s'innestano parole che raccontano storie popolari, giocano tra satira e divertissement, riscoprendo a tratti la poesia dei momenti quotidiani e perpetuando quella “via ludica all‟impegno” cui Oreglio ci ha abituati da trent'anni a questa parte.

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L'ascolto di alcune delle più significative canzoni della tradizione popolare degli ultimi centocinquant'anni ci fa riscoprire la loro straordinaria attualità, la “classicità” della stessa tradizione musicale ha sicuramente ancora molto da dire. Musica paradossalmente senza tempo ma che ha un tempo così preciso che se lo perdi - come direbbe Enzo Jannacci - ti devi ritirare, ed è talmente al passo coi tempi che ti

costringe a stare a tempo coi passi. Non poteva mancare un tributo alla Scuola Milanese (DarioFo, Giorgio Gaber, Enzo Jannacci, Walter Valdi, Nanni Svampa, i Gufi), importantissimo punto di riferimento per la tradizione del cabaret italiano, quella scuola che ha dato il via in pianta stabile all'affermarsi del genere nel nostro paese. Una performance da assaporare col sorriso sulle labbra.

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Nel riquadro Raffaele Polo, al centro e in basso: l’Onfalo di Terenzano, foto di Alessandro Romano (www.salentoacolory.it)

UN LUOGO MISTERIOSO: TERENZANO E IL SUO ONFALO Raffaele Polo

“ I LUOGHI DEL MISTERO

Girovagando nel Salento

UGENTO (LECCE). Più che un luogo misterioso, è la struttura che vi è conservata a rivestire un carattere di grande interesse e un interrogativo pressante: ma cos'è? E, soprattutto, a cosa serviva? Noi contemporanei siamo ossessionati da queste domande, che applichiamo a tutti gli oggetti, ad ogni emblematica costruzione. Non poteva essere diversamente per l'Onfalo di Terenzano, che possiamo visitare nei pressi di Ugento, libero nella campagna a sorprenderci con la sua reale grandezza e l'emblematico volume. 'Onfalo' significa ombelico. E proprio un enorme ombelico, che affiora dal sottosuolo, contornato da un cilindro cavo, è il protagonista di questo 'mistero' tutto salentino. Ci avviciniamo e guardiamo questa cavità scavata dall'uomo, una sorta di grande tegame per preparare la ciambella, una enorme e profonda ciambella....

È indubbiamente antica, molto ben conservata, cominciamo ad esaminare le ipotesi che si affacciano alla nostra mente: poteva servire come trappola per i lupi, ci suggeriscono. Ma la soluzione, seppure abbastanza plausibile, non ci soddisfa. Una particolare struttura per utilizzare mola e macina pronte a schiacciare e conservare uva e olive, magari grano? Anche questo pare un aspetto abbastanza verosimile ma poco pratico e senza conferme. Ci sono altri Onfalo, piuttosto, nel nostro territorio? No, decisamente questa è una struttura unica nel suo genere, inserita in un contesto di grande importanza archeologica, che risale all'età del bronzo e poi, via via, si assesta nel medioevo. E il mito della Dea Terra che nutre i suoi abitanti con il suo abbondante capezzolo è molto ben simboleggiato proprio da questo reperto archeologico ricco di mistero. Ma, indubbiamente, a qualcosa

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doveva servire. E qui, la fantasia si sfilaccia in una serie di considerazioni che ci portano a considerare quanto poco ne sappiamo delle nostre origini, a cominciare proprio dai primi insediamenti umani, a ridosso di dolmen e menhir.... Ecco, i menhir. Proprio della loro costante presenza nel nostro territorio, ormai considerata abituale e scontata, nulla di preciso e confermato si sa. Ipotesi tantissime e molte suffragate da pare-

ri credibili e culturalmente corroborati. Ma nulla, ancora, di veramente inconfutabile e decisivo. E l'Onfalo, l'Onfalo di Terenzano, è un chiarissimo mistero che ci conferma quanto poco sappiamo delle nostre origini, dei nostri antichi progenitori. Che, con i limitati mezzi a loro disposizione, pure riuscivano a creare meraviglie che non finiscono di stupirci e di farci formulare mille ipotesi, tutte da verificare.....

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Gianfranco Basso, Kunst Macht Frei, installazione ambientale 2018i

VALORIZZARE IL TERRITORIO APULIA LAND ART FESTIVAL Intervista a Carmelo Cipriani, storico dell’arte e curatore della sesta edizione del festival che si è svolto ad Alberobello Sorta sul finire degli anni Sessanta la Land Art è oggi un modo di progettare ed esperire l'arte quanto mai attuale. Certamente per la maggiore attenzione che si presta al paesaggio e all'ambiente ma anche per le relazioni che consente di instaurare con la comunità ospitante. Un modus cogitandi ed operandi che oggi viene riproposto da istituzioni, fondazioni o anche semplici associazioni in molteplici contesti, spesso associato a residenze per artisti, dando origine a proposte assai interessanti sul piano estetico oltre che ad un profondo ripensamento della stessa Land Art, oggi alle prese con contaminazioni video, concettuali e performative. Ne è un esempio, tra i più interessanti e longevi d'Italia, l’Apulia Land Art Festival giunto alla sesta edizione, e svoltasi tra agosto e settembre 2018 ad Alberobello. Abbiamo chiesto di raccontarcela al curatore Carmelo Cipriani. Come e da quale necessità nasce l'Apulia Land Art Festival?

Il progetto è nato nel 2012 ad opera dell'Associazione culturale Unconvention Art. Ne sono gli ideatori Carlo Palmisano, pugliese di Ceglie Messapica ma residente a Roma, e Martina Glover. Entrambi da sei anni dirigono il Festival promuovendone l'immagine e attivando sinergie e collaborazioni con enti pubblici e privati. Un progetto che ogni anno ha visto crescere programma e consensi, qualificandosi come una delle più interessanti iniziative di arte contemporanea in Puglia, che quest'anno ho avuto il piacere di curare. La genesi del festival è legata ad una necessità fondamentale: valorizzare il territorio pugliese nelle sue molteplici specificità, esaltandone i valori culturali, antropologici e sociali. Le precedenti cinque edizioni si sono svolte a Ceglie Messapica, Specchia, Ostuni, Cassano delle Murge-Acquaviva delle Fonti, Margherita di Savoia, interagendo con territori assai caratterizzati da un punto di vista sia naturale che storico-artistico. Quest'anno è stata l'amministrazione comunale di

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Alberobello ad ospitare il Festival nel suggestivo scenario di Casa Rossa, struttura masserizia fondata nel 1887 come Scuola Agraria e poi utilizzata prima come campo di concentramento, poi come centro di ospitalità per donne straniere, ex collaborazioniste, prostitute e sbandate, e ancora più tardi come casa di Rieducazione Maschile Minorile. Nella storia più recente la casa è diventata sede della più antica emittente televisiva pugliese, fino al 2007 quando il Mibac ne ha riconosciuto ufficialmente il valore culturale, aprendo final-

mente la via alla tutela e alla valorizzazione. Quali sono stati i protagonisti della sesta edizione? Dodici artisti con vissuti particolari, italiani ma molti con origini straniere o importanti periodi di residenza all'estero: Gianfranco Basso, Aldo Del Bono, Francesco Di Tillo, Ciro Amos Ferrero, Giovanni Gaggia, Lu.Pa (Lulù Nuti e Pamela Pintus), Benny Mangone, Aischa Gianna Muller, Massimo Ruiu, Raffaele Vitto. A loro si è aggiunto

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Aisha Gianna Muller, un altro tentativo di allungare la giornata, video, 2018

Gabriel Holpzafel Mancini, artista cileno, l'unico straniero del gruppo. Tutti giovani talentuosi o professionisti con una solida formazione alle spalle. Tra loro anche uno studente dell'Accademia di Belle Arti di Bari, a dimostrazione di quanto il curriculum sia stato un parametro di scelta importante ma non discriminante. È bene precisare che gli undici progetti finalisti sono stati selezionati in base a quattro parametri: fattibilità economica e logistica, sostenibilità ambientale, coerenza con il tema e, infine, curriculum vitae. Ne è derivata una stretta maglia valutativa che a realizzazione compiuta si è rivelata garante di qualità. Alla call internazionale lanciata a maggio hanno risposto oltre cinquanta artisti da tutto il mondo, dall'Iran al Giappone, dagli Stati Uniti all'Australia. Progetti eterogenei che spaziavano dalla pittura all'installazione, dalla scultura alla fotografia, a testimoniare quanto il concetto di Land Art abbia oramai cambiato fisionomia, assumendo confini dilatati nella mente degli artisti, oggi totalmente liberi da rigide categorizzazioni e condizionamenti espressivi. Come ogni anno, la call ha invitato gli artisti a riflettere

su un tema, che per l'ultima edizione non poteva non essere la storia e la memoria di Casa Rossa, luogo identitario, simbolico ed immaginifico, emblema del dramma ma anche della rinascita. Della collaborazione di quali partner si avvale il progetto? Innanzitutto del Comune di Alberobello e della Fondazione Casarossa, presieduta da Riccardo Strada, recentemente istituita per dare voce e corpo dall'attività di tutela e valorizzazione del luogo. Partner culturali importanti invece sono stati l'Istituto Italiano di Cultura a Cracovia e Viadellafucina 16, il più importante condominio-museo d'Europa, nato a Torino da un'idea di Brice dei Coniglioviola e oggi trasformatosi in un importante esperimento di convivialità e condivisione osservato e studiato anche da sociologi ed antropologi. L'artista della sezione Residenze selezionato da una giuria avrà l'opportunità di vivere un periodo di residenza in questo stimolante contesto. Più precisamente a recarsi a Torino sarà Gianfranco Basso, scelto dalla giuria in seguito alla rinuncia della vincitrice Aischa Gianna Muller.

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Casa Rossa, Alberobello

In un momento in cui si registrano gravi disastri ambientali, in che modo gli artisti interagiscono con i territori prescelti? Mettendosi in relazioni con essi e generando un rapporto fondato non sul mero profitto ma sulla sincera e profonda conoscenza. L'insegnamento di Beuys è in tal senso fondamentale. Ciascuno degli artisti infatti per realizzare il proprio intervento a Casa Rossa ha dovuto seguire un processo di progressiva scoperta, prima studiandone la storia, le vicende trascorse, poi analizzandone le molteplici dinamiche del presente, siano esse economiche, sociali, antropologiche o culturali. L'aspetto più interessante del mio lavoro è stato proprio quello di seguirli in questo processo relazionale, assecondandolo e facilitandolo, vivendo con loro riuscite e sconfitte, conferme e cambiamenti progettuali, entusiasmi e fattori demotivanti. Quali elementi assicurano la continuità del progetto? Innanzitutto il lavoro dei direttori artistici che annualmente s'impegnano nella ricer-

ca di professionalità e finanziamenti per far sì che un progetto lodevole sul piano socio-culturale non solo persista ma prosegua il suo percorso di crescita. Altro fattore intrinsecamente legato al primo è il sostegno degli enti locali e di istituzioni private che, seppur con ottiche e finalità differenti, vedono nel festival una reale possibilità di crescita e valorizzazione territoriale. Infine la bellezza e la peculiarità della terra pugliese, capace di offrire agli artisti scenari sempre diversi e spunti di riflessione assai stimolanti. Quali sono state le novità della sesta edizione? Contesto, protagonisti, opere realizzate ma soprattutto i doni avuti dai maestri. Mi spiego meglio. Due grandi maestri italiani, Pasquale Santoro e Pietro Guida, hanno fatto al festival dei doni speciali. Innanzitutto Santoro, componente dello storico Gruppo Uno, il quale, oltre ad una pregevole retrospettiva, curata da Fabio De Chirico, ha concesso all'organizzazione del Festival di realizzare una serie di sculture seguendo suoi progetti inediti degli anni

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LU.PA, Nodum, Pietra e applicazione web, 2018, Massimo Ruiu, Transito, chiocciole su muro, 2018

Settanta e oggi collocate in permanenza a Casa Rossa. Un altro pregevole dono è giunto da Pietro Guida, artista tra i piÚ significativi del meridione d'Italia, ampiamente storicizzato e recentemente consa-

crato da importanti retrospettive a Matera e a Lecce. Oltre al periodo di residenza presso Viadellafucina16, agli artisti vincitori della sezione Residenze e della sezione Installazioni urbane (il romano Alberto

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Raffaele Vitto, Movimento Terra, installazione ambientale, 2018

Timossi), curata da Giuseppe Capparelli, hanno ricevuto un'opera-trofeo realizzata da Guida appositamente per il festival; una scultura progettata ispirandosi alle sue opere costruttive degli anni Sessanta, anzi, ad essere precisi, la scultura donataci è la prima opera realizzata da Pietro

dopo la fase costruttiva, definitivamente conclusasi alla metĂ degli anni Settanta. Di questi doni siamo davvero molto fieri e grati. (an.fu.)

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Francesco Londonio, Presepe, Fanciulla contadina e bimbo che accarezzano una pecora, altro bimbo che suona il

VIAGGIO NEI LUOGHI DEL SAPERE UNA LIBRERIA DIVERSA Anna Paola Pascali

Intervista a Laura Pastrello responsabile della libreria Goldoni di Treviso

La libreria Goldoni di Treviso nasce dalla fusione tra il Supermercato del libro della famiglia Pastrello, il cui fondatore Igino Pastrello è stato uno dei più importanti librai di Treviso, e la storica libreria Goldoni di Venezia. Le due esperienze, ricche di professionalità e competenza, hanno dato vita ad una realtà dove lo scopo principale è quello di ripristinare il rapporto umano tra lettore e libraio, ultimamente minato dalla concorrenza della vendita on line. La libreria ha come finalità il rendersi diversa dalle altre. Laura Pastrello ne è la responsabile nonché la figlia del suo fondatore. Lei sostiene che una libreria indipendente deve saper distinguersi, essere diversa in tutto e per tutto. Ed è stata questa la prima domanda che le abbiamo rivolto.

Noi vogliamo riqualificare la figura del libraio che consiglia e dialoga con il lettore perché il libro non è solo un prodotto fatto di carta ma dietro ad un libro c’è un autore, c’è un interesse e c’è soprattutto una persona fisica che lo legge. I libri devono essere vettori di rapporti tra le persone, veicoli di socializzazione, amplificatori di buoni sentimenti. Hai parlato di lettori e degli autori? cosa lasciano quelli che passano dalla libreria? Tutti gli autori lasciano e portano via qualcosa. Noi diamo spazio a tutti, conosciuti e non. Perché assistere alla presentazione di un autore diviene poi il miglior modo per consigliarlo. Si instaurano rapporti di reciproco rispetto e spesso si diventa amici.

In che modo la Libreria Goldoni è diversa? La diversificazione sta soprattutto nel rapporto col cliente, nella non omologazione e disumanizzazione del libro.

Quindi, da tutto questo, ne deduco che le soddisfazioni sono tante… Tantissime. Il mio sogno è quello di far diventare la libreria un centro culturale di interscambio, un luogo nazional-

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Francesco Londonio, Presepe, Adorazione dei magi, cm. 58 x 80

popolare accessibile a tutti. Perché la cultura non appartiene ad una tipologia specifica di persone, ad una élite ristretta. Il libro deve essere versatile come l’ambiente che lo ospita. Nessuna soggezione deve ostacolare il rapporto con i libri e la libreria. E in che modo pensi di fare tutto questo? Diciamo che le presentazioni dei libri non sono mai fine a se stesse. Ad esempio cerchiamo di diffondere insegnamenti importan-

ti anche nelle scuole. Un episodio recente, che mi ha toccata moltissimo, è il messaggio di uno studente delle scuole superiori le Canossiane di Treviso dove l’avvocato Nicodemo Gentile ha parlato del fenomeno sempre più diffuso dei femminicidi ma soprattutto dei manipolatori seriali. Il messaggio inviato all’avvocato il giorno dopo diceva così: “Salve, sono un ragazzo dell’istituto di Treviso… le volevo fare i complimenti per quello che ha detto oggi. Grazie mille… la ammiro moltissi-

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mo. Io non sono uno che ama leggere anzi lo detesto. Avrò letto sì e no tre libri in vita mia ma il suo sarà il quarto. Comprerò sicuramente il suo libro. Grazie ancora. Cordiali saluti. Nicolò”.

ziativa finalizzata alla condivisione delle idee e degli interessi. Noi cerchiamo di dare completa soddisfazione al cliente. Chi entra nella mia libreria deve, per quanto possibile, trovare i suoi spazi.

Ottimo risultato di sensibilizzazione, direi… e cos’altro fate per i ragazzi e perché così tanto per loro? Noi organizziamo anche laboratori per i bambini, corsi di filosofia e psicologia aperti non soltanto ai giovani ma a chiunque voglia partecipare. Diciamo che puntiamo molto sui giovani poiché sono loro il futuro ed è loro l’arduo compito di cambiare le cose che oggi non vanno.

Quindi Laura, riassumendo, perché la tua libreria è diversa? Perché la mia libreria ha un cuore dentro e quel cuore è il mio.

Non solo libri. Nello spazio “salottino” un tavolino con quattro persone che giocano a scacchi. Un’altra iniziativa della libreria? Sì. Anche l’incontro con gli scacchi è un’ini-

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NAPOLI CITTÀ LIBRO SI RIPARTE DA CASTEL SANT’ELMO

Fervono i preparativi per la seconda edizione del Salone dell’editoria in programma a Napoli dal 4 al 7 aprile 2019

NAPOLI. Approdi. La cultura è un porto sicuro sarà questo il tema della seconda edizione di Napoli Città Libro che si terrà dal 4 al 7 aprile nelle imponenti sale Castel Sant'Elmo di Napoli. Fervono i preparativi del Salone del Libro e del’Editoria di Napoli che, dopo l’edizione inaugurale del 2018 nella complesso di San Domenico Maggiore, intensifica il dialogo con la città e la sua cultura mettendo al centro la forza di una radicata tradizione umanistica e intellettuale. Arricchita da format e nuovi contenuti, la seconda edizione sarà dunque caratterizzata dal tema che intende lanciare un appello allo spirito critico di ognuno di noi: “l'obiettivo è quello di stimolare le menti per accendere un dibattito sull'importanza della conoscenza e della cultura nel mondo di oggi; un mondo che si profila sempre più caotico, tempestato da fake news e da disinformazione”, anticipano gli organizzatori. “L’approdo evoca il moto a luogo, la provenienza, ma anche lo stato in luogo, l’accoglienza, il mettere radici. Il porto è come una doppia porta che da un lato invita a entrare e abitare in un luogo preciso e dall’altro si apre sull’orizzonte, sfidando a partire. La cultura è il faro verso cui dirigersi, un ancoraggio affidabile cui aggrapparsi per non perdersi nella corrente dell’arbitrio, delle opinioni gridate.” Questo in sintesi il concept intorno cui ruoterà la manifestazione dettata dalla necessità di approdare oggi più che

mai nel porto sicuro della cultura. Un evento che rientra negli obiettivi che si sono dati nel marzo 2017 tre editori, Alessandro Polidoro, Diego Guida, Rosario Bianco fondando l'Associazione Culturale Liber@rte. Perché la Cultura rende liberi. (an.fu.) www.napolicittalibro.it

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VAN GOGH SULLA SOGLIA DELL’ETERNITÀ Barbara del Piano

Sul grande schermo la profetica visione dell’arte secondo il grande Vincent

È

stato proiettato nelle sale cinematografiche il film sul talento artistico del pittore olandese “ Van Gogh – Sulla soglia dell’eternità”, una pellicola firmata da Julian Schnapel assolutamente da non perdere. Una sospensione tra grano e cielo lunga centodieci minuti per guardare la vita con gli occhi dell’artista. Distribuito da Lucky Red e vincitore della Coppa Volpi al Festival del Cinema di Venezia, il film dal genere biografico – drammatico racconta non solo gli ultimi anni di vita del giovane artista e la sua visione dell’arte ma invita lo spettatore ad un discorso quasi religioso, facendolo interrogare profondamente sul senso della vita. Quando l’arte scorre nelle vene queste spesso sono gonfie di passione. Gli occhi di un puro che guarda alla

natura come connessione con l’umanità, energia pulsante: il quadro è nella natura, basta liberarlo. Una realtà dipinta è una realtà a sé: l’idea di pittura che agitava e innalzava l’animo di Van Gogh. Indefinibile l’aroma della sua sensibilità, che colora di giallo, lui che desidera dipingere in pieno sole. Profetica la sua visione dell’arte, destinata alle generazioni future; un ampio respiro il suo rapporto con l’eternità. Straziante la sua visione del mondo e i giorni trascorsi in un manicomio: la follia non è forse una benedizione per l’arte? Pennellate materiche quelle tracciate dall’interpretazione di William Dafoe, che arriva ad incarnare uno spirito, andando ben oltre la sceneggiatura. E poi l’intimità delle note di Tatiana Lisovskaya, ritmi intensi dove la tensione

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del violino si mescola alla morbidezza del pianoforte: degno accompagnamento del processo creativo. Negli ultimi anni abbiamo assistito a diverse produzioni cinematografiche dedicate all’incompreso e immortale artista olandese ma quello di Julian Schnapel si afferma come un eccezionale evento artistico – cinematografico, rivelando nuove luci. Per la prima volta grazie a frequenti zoom intrusivi che riescono a catturare il tratto deciso di ogni singola pennellata la manualità dell’arte sovrasta la finzione scenica con un risultato di forte impatto e la meritata candidatura ai Golden Globe come migliore attore.


JEAN AUGUSTE DOMINIQUE INGRES E LA VITA ARTISTICA AL TEMPO DI NAPOLEONE Milano, Palazzo Reale 12 marzo – 23 giugno 2019 ROBERT CAPA. RETROSPECTIVE Ancona, Mole Vanvitelliana Sala Vanvitelli Banchina Giovanni da Chio, 28 16 febbraio – 2 giugno 2019 intero € 11,00 , ridotto € 9,0 mostrarobertcapa.it ANTONY GORMLEY. ESSERE Dal 26 febbraio al 26 maggio 2019 aula Magliabechiana Firenze, Piazzale degli Uffizi, 6 T +39 055 2388 831 MILANO E IL CINEMA a cura di Stefano Galli fino al 10 febbraio 2019 Palazzo Morando | Costume Moda Immagine, spazi espositivi piano terra, via Sant’Andrea 6, MilanoOrari: Martedì- domenica: 10.00-20.00 (la biglietteria chiude un'ora prima) Giovedì: 10.00 - 22.30; biglietti:intero: € 12 ridotto: € 10 (studenti under 26, over 65, disabili, gruppi adulti e tutte le convenzioni) Infotel. +39 327 8953761 OTTOCENTO IN COLLEZIONE. Dai Macchiaioli a Segantini Novara, Castello Visconteo Sforzesco (piazza Martiri della Libertà 215) fino al 24 febbraio 2019 Orari: martedì - domenica, 10.0019.00 (la biglietteria chiude alle 18.00). Biglietti: Intero: €10,00; Info: Tel. 0321.394059

JEAN DUBUFFET. L’arte in gioco. Materia e spirito 1943-1985 Reggio Emilia, Palazzo Magnani (Corso Garibaldi 29) fino al 3 marzo 2019 Orari: martedì - giovedì, 10.0013.00; 15.00-19.00; venerdì, sabato, domenica e festivi, 10.00-19.00. lunedì aperto solo per le scuole. Biglietti: Intero: €12,00; Ridotto: €10, 00; Studenti (dai 6 al 17 anni): €6,00; Gratuito: bambini fino ai 5 anni; un accompagnatore per persone con disabilità, giornalisti con tessera di riconoscimento valida. tel. 0522 444 446 ANNIBALE. UN MITO MEDITERRANEO Piacenza, Palazzo Farnese (piazza Cittadella 29) fino al 17 marzo 2019 Orari: lunedì chiuso; dal martedì al giovedì: dalle ore 10.00 alle ore 19.00; venerdì, sabato e domenica: dalle ore 10.00 alle ore 20.00 www.annibalepiacenza.it POLLOCK e la Scuola di New York Roma, Ala Brasini del Vittoriano fino al 24 febbraio 2019 Orari: da lunedì a giovedì 9.30 19.30; venerdì e sabato 9.30 - 22.00 domenica 9.30 - 20.30 (la biglietteria chiude un'ora prima) Ingresso: intero 15€ ANDY WARHOL. L’alchimista degli anni Sessanta Monza, Reggia di Monza Orangerie (viale Brianza, 1) fino al 28 aprile 2019. Orari: Martedìvenerdì, 10.00 - 19.00. Sabato, domenica e festivi, 10.00 - 19.30. Lunedì chiuso. Biglietti: Intero: €10,00 13 ANNI E UN SECOLO – FOTOGRAFIA. Premio Fabbri per l’arte sesta Edizione Bologna, Palazzo Pepoli Campogrande fino al 17 Febbraio 2019 orario: 9.00- 19.00, lunedì escluso – ingresso libero

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LORENZO LOTTO. IL RICHIAMO DELLE MARCHE al 20 febbraio 2019 Museo Civico di Macerata, Palazzo Buonaccorsi, via Don Minzoni, 24 Apertura: martedì – domenica: 10:00 – 18:00; chiuso il lunedì; Biglietto: intero: €10; ridotto – €8. Tel. +39 0733.25.63. 61 www.mostralottomarche.it FERDINANDO SCIANNA VIAGGIO RACCONTO MEMORIA Palermo, Galleria d’arte Moderna 21 febbraio – 28 luglio 2019 IL CARRO D'ORO DI JOHANN PAUL SCHOR. L’EFFIMERO SPLENDORE DEI CARNEVALI BAROCCHI Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina, Sala delle Nicchie 20 febbraio - 5 maggio 2019

"AVRUPA". CRISTIANO PALLARA Jefferson Lavanderia Lecce Viale Egidio Reale 21, 73100 Lecce fino al 9 marzo dal Lunedì al Sabato ore 10.00 / 13.00 - 17.00 / 20.00 Domenica solo di mattina 10.00 / 13.00. Info: 3291323182 znsprojectlab@gmail.com ENZO DE GIORGI. COME UN SOGNO Fondazione Palmieri ex Chiesetta di San Sebastiano Lecce, Vico dei Sotterranei fino al 28 febbraio 1938: L’UMANITÀ NEGATA – DALLE LEGGI RAZZIALI ITALIANE AD AUSCHWITZ Palazzo del Quirinale Palazzina Gregoriana Orario: dalle ore 10.00 alle 16.00 (ultimo ingresso ore 15.00) È necessario presentarsi 15 minuti prima dell’orario di inizio della visita. La mostra è gratuita, previa prenotazione obbligatoria al costo di € 1,50. Info: 06 39.96.75.57

ITINER_ARTE...DOVE E QUANDO...

“CON NUOVA E STRAVAGANTE MANIERA”GIULIO ROMANO A MANTOVA Mantova Complesso Museale Palazzo Ducale 6 ottobre 2019 - 6 gennaio 2020 Museo: tel. + 39 0376 352100 www.mantovaducale.beniculturali.it


LUOGHI DEL SAPERE

TEODERICO. IL RE OSTROGOTO CHE IMMAGINÒ L'ITALIA

CARLO RUTA Teoderico. Il re barbaro che immaginò l'Italia Edizioni di storia e studi sociali, Ragusa-Roma, pp. 144, gennaio 2019 edizionidistoria@gmail.co m

Per le aristocrazie romane era un barbaro, ostrogoto, ma la sua esperienza di re dei Goti e dei Romani, di fatto re d'Italia, fu straordinaria. Non fece l'Italia perché nella sua epoca un'impresa del genere non era possibile, ma, in qualche modo, secondo l'autore del libro appena uscito in libreria, la «incubò» e la immaginò, prima che per il paese arrivasse il tempo della catastrofe. In questa opera di Carlo Ruta, la figura del sovrano goto viene passata al vaglio in maniera del tutto innovativa, da prospettive poco esplorate, con esiti significativi, che mettono in rilievo l'esemplarità di un uomo di Stato che operò per il benessere del paese su cui regnava, per oltre trenta anni, e che spinse la storia d'Europa in avanti, attraverso il rilancio della civilitas romana ma anche attraverso la prefigurazione, appunto, del cambiamento. Si era nel punto di lacerazione tra il mondo antico e il Medioevo. Teoderico, re goto in Italia dal 493 al 526, si presenta come una delle figure più forti ed emblematiche dell'Europa tardo-antica. Attraverso la sua vicenda politica egli riesce a rispecchiare la complessità di un'epoca, di transito: disordinata, ambigua, travagliata da radicalismi ma percorsa anche da esperienze di convivenza etnica, di pluralità, di compostezza civile, di decoro urbano e di contagio religioso e culturale. Il re barbaro in questo sommovimento politico, sociale e culturale finì con il generare un modello di Stato che ambiva a spendere con lucida determinazione le eredità del passato mentre inaugurava un tipo di convivenza etnica originale: chiuso e tuttavia plurale, segnato da rigidi protocolli identitari ma in grado di generare, nel concreto delle cose, costumi condivisi. Egli volle essere rappresentante e arbitro di mondi distanti che, senza nulla cedere delle tradizioni cui più tenevano, riuscirono per decenni a eliminare dall'orizzonte civile lo scontro etnico e di religione. Tra i Goti, comunemente di fede ariana, e gli Italici, cattolici, furono tutto sommato tempi di normalità, retti da una misurata concordia. E questo modo di convivenza, freddo ma per tanti versi fecondo, contribuiva a ricomporre nel paese la vita delle città. Lo Stato teodericiano faceva i conti in maniera esemplare con il passato di Roma, assimilandone gli elementi più produttivi, giuridici, economici e tecnico-costruttivi. Si faceva inoltre garante di grandi tradizioni di pensiero, greche ed ellenistiche in particolare, attraverso l'apporto di filosofi e letterati tra i più significativi della tarda antichità. Boezio e Cassiodoro, ministri e consiglieri del re goto, lasciarono eredità decisive sul piano dell'organizzazione dei saperi e, in particolare, della custodia delle classicità, mentre si formava, in disparte, una delle figure più eminenti del mondo cristiano, Benedetto da Norcia, che con la sua Regola avrebbe

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interagito in maniera feconda con i progetti della tarda maturità di Cassiodoro, fondatore del Vivarium. Solo negli ultimi anni gli equilibri garantiti da quell'esperimento di governo cominciarono a incrinarsi, per cause legate soprattutto ai rapporti travagliati con l'Impero d'Oriente. Ma anche in quei contesti, i dissidi interni, pur significativi, non produssero nel paese grandi devastazioni. Goti e Romani, ariani e cattolici nel concreto delle città riuscirono a fermarsi, a placare le tensioni e spegnere lo scontro civile che minacciava di erompere, mentre si apriva una fase di intrighi da «basso impero» interpretati da un Senato sempre più travagliato da partigianerie. Era per certi versi l'ultima chiamata alle armi di un'aristocrazia che in larghissima parte aveva smarrito il senso dello Stato. Poi, morto Teoderico nel 526, il regno goto precipitava in una profonda instabilità ed infine, per iniziativa di Costantinopoli, in uno stato di guerra che in un paio di decenni ne avrebbe determinato la fine.

A TTATTIA SE LA POESIA INCONTRA LE IMMAGINI IL LIBRO DI FERDINANDO KAISER E CARLO FEDELE

FERDINANDO KAISER CARLO FEDELE Attattia onne ca va onna ca vene St edizioni 2018 €15,00 ISBN 9788894396300

Un titolo suggestivo, A ttattìa, neologismo dall'arabo Thatì (risacca) una parola che richiama le inaspettate creazioni e le vie d'uscita cui può dar luogo la poesia quando incontra una lingua insieme alla potenza delle immagini in un unicum senza soluzione di continuità proprio come suggerisce il sottotitolo onna ca, onna ca vene. È iniziato lo scorso 28 novembre, nella bellissima Chiesa di Sant’Agostino degli Scalzi, il viaggio di “A ttattìa”, il libro catalogo a firma del fotografo Ferdinando Kaiser e del poeta di Margellina Carlo Fedele, versi e scatti per raccontare Napoli. “Perché Napoli è un “modo” più che un “luogo”, perciò il racconto più intimo e sincero che di essa si possa fare, prevede essere Napoli, più che osservarne i movimenti. Farsi, cioè, punto di vista sulla società diventando parte di essa, recitandone il quotidiano copione mai scritto da alcuno, ma interpretato magistralmente da attori e comparse”. Un bellissimo progetto, da leggere e da ammirare, edito da St edizioni. Carlo Fedele nasce a Napoli il 15 giugno 1957, ha già pubblicato un libro di poesie in lingua italiana ed è autore di canzoni tratte da sue composizioni. Ha collaborato con videomaker nella realizzazione di testi teatrali e documentari. Ferdinando Kaiser nasce a Marianella (Napoli) il 20 luglio 1953 e la passione per la fotografia lo porta ad essere “l’uomo ovunque” per le strade di Napoli alla ricerca di cose e persone, di un patrimonio artistico spesso poco conosciuto, di mani e volti della gente comune, con la predilizione per gli artisti di strada. Ha al suo attivo numerose mostre e segnalazioni meritorie in campo istituzionale

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LUOGHI DEL SAPERE

“DISSIPATIO ANIMAE” IL ROMANZO DI GLORIA DE VITIS «[..] svolto bruscamente l’angolo del sogno e mi colpisce il dolore. Lancio la monetina, rientro nella mia realtà e nel mio viaggio». Afra si accinge a partire, va a trovare a Roma la sua adorata nipote per starle vicino dopo la sua prima delusione d’amore. Il viaggio fisico diventerà una sorta di viaggio interiore durante il quale si interrogherà sull’esistenza, esplorerà gli angoli più nascosti della sua anima e attraverserà il dolore delirante causato anche per lei dall’abbandono dell’uomo che ama. È questa la trama di “Dissipatio Animae” di Gloria De Vitis, edito da La Fornace. Un libro insolito per una scrittrice non consueta. «[…] per comprenderlo e apprezzarlo dovete prapararvi a sovvertire molte delle vostre più comuni concenzioni di lettura, comprensione, gusto, normalità […]. Un libro straniante, su più livelli»: così in prefazione scrive Gian Marco De Vitis, ed è una considerazione facilmente condividibile dopo la lettura di quest’opera. Un libro che sembra scavare in angoli riservati dell’anima e della psiche della protagonista, forse nutrito da quello stesso riserbo dell’autrice. La leccese Gloria De Vitis, classe 1966, è scultrice e pittrice, ama il mare e la solitudine, come dice lei “vive nel suo mondo”. In campo letterario negli anni Novanta collabora con il giornale “Avanti”. Nel 2003 pubblica il suo primo libro di poesia: “Squarci” (Manni); nel 2006 è la volta di “Nuda”; nel 2011 vede la luce il suo primo racconto “Lucignola” (Lupo); in fine nel 2015 “Turbata” (Edizioni Esperidi). La prima impressione che ho avuto dalla lettura di “Dissipatio Animae” è stata straniante. Nonostante ciò che la quarta di copertina possa suggerire con i cenni alla trama (poche righe in riportate anche all’inizio di questo stesso articolo) in realtà non c’è una vera storia, probabilmente a un certo punto della lettura si perderà anche il senso della meta del viaggio (almeno è quello che è successo a me) che Afra, la protagonista, sta affrontando, perché la narrazione trascenderà la realtà concreta, il viaggio fisico. Il libro diventa un flusso di coscienza, la narrazione è una scomposta frammentazione di riflessioni e pensieri, talvolta deliranti, a cui Afra

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è indotta sollecitata da qualche episodio lungo il suo viaggio, da qualche incontro fatto in autogrill (luoghi di incontri passeggeri di micro mondi). Un’immagine ben nitida mi si è presentata alla mente, in un paragone con un’altra forma d’arte, per rendere un chiaro rimando visivo dell’immagine che mi rievoca la narrazione di “Dissipatio Animae”, sia nel suo significato che nel significante: Picasso con la sua nota Guernica, o i suoi ritratti di donne dai corpi simili a dei collage assemblati alla bene in meglio. L’elemento che si palese comunque con maggiore evidenza, e colpisce, è l’uso del linguaggio. «Spezzo i nessi sintattici del linguaggio che non ce la fa più ad essere linguaggio e non significa» (G. De Vitis, Dissipatio Animae, p.6), è Afra a parlare, però da sostanza alle idee delle autrice con questa frase. Gloria De Vitis è “attenta alla ricerca estetica del linguaggio”. Vuole dare corpo alla parola, a volte arrivando però a svuotarle del loro significato più comune. Inoltre,in genere una costruzione corretta delle frasi prevede anche un’attenta scelta lessicale nell’evitare la ridondanza delle parole (soprattutto la ripetizione di stesse e/o derivati all’interno dello stesso periodo o troppo prossimi all’interno del testo), invece possono essere gli esempi, alcuni più lampanti in tal senso, in cui le frasi sono volutamente giocate sulle ripetizioni. Dissipatio Animae sembra un flusso di coscienza delirante e schizofrenico, in cui la parola, la scrittura assume una funzione, un valore terapeutico. Sara Foti Sciavaliere

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KAPUTT DI CURZIO MALAPARTE

LUOGHI DEL SAPERE

RIFLESSIONI

CURZIO MALAPARTE KAPUTT A cura di Giorgio Pinotti Fabula ADELPHI EDIZIONI 2009, PP. 476 ISBN: 9788845923715

Kaputt, di Curzio Malaparte, costituisce un’opera memorabile che si può definire romanzo storico, ma anche reportage: è la cronaca e la narrazione lucida, spesso poetica, di una poeticità malinconica, triste, intrisa di sangue, della catastrofe a cui il giornalista e ufficiale assistette quando l’Europa si precipitò nella rovina della II Guerra Mondiale. Quattro anni pesanti, duri, indimenticabili, trascorsi a contatto con l’umanità più varia, più crudele, più sofferente: boia nazisti, Himmler, il Reichmnister Frank, Generalgouverneur di Polonia che sovrappose ad uno splendido affresco italiano, un manierato dipinto grondante di grappoli e pareva sangue, il sangue versato della gente scacciata. Lo stesso era convinto di essere il sovrano di una corte che pretendeva di far rivivere i fasti del Rinascimento italiano, tra sontuosi pranzi in cui il vino era servito in scintillanti calici di cristallo e si beveva Volney, denso vino rosso di Borgogna, mescolato a champagne di Mumm, e si invitavano grassocce dame in velluto ad infilzare il daino portato a tavola, secondo il rituale dell’onore del coltello. Durante questi pranzi assurdi e surreali, tra porcellane e candelabri, mentre il resto del mondo, fuori, muore di fame, i tedeschi scherniscono gli ebrei, parlandone come di topi, di una razza inferiore e spregevole. Malaparte, ha, tuttavia, la lucidità necessaria per svelare la natura del popolo tedesco: «il tedesco non ha alcuna paura dell’uomo forte, dell’uomo armato che lo affronta con coraggio, e gli tiene testa. Il tedesco ha paura degli inermi, dei deboli, dei malati. [...] Ciò che muove il tedesco alla crudeltà, agli atti più freddamente, più metodicamente, più scientificamente crudeli, è la paura. La paura degli oppressi, degli inermi, dei deboli, dei malati, la paura dei vecchi, delle donne, dei bambini, la paura degli ebrei. [...] E sebbene egli si sforzi di nascondere questa sua misteriosa «paura», sempre è condotto fatalmente a parlarne, e sempre nei momenti più inopportuni, specie a tavola: [...] o per l’inconscio bisogno di provare a se medesimo di non aver paura, il tedesco si scopre, con un compiacimento morboso che rivela non soltanto il rancore, la gelosia, l’amore deluso, l’odio, ma un pietoso e meraviglioso furor d’abiezione. La misteriosa nobiltà degli oppressi, dei malati, dei deboli, degli inermi, dei vecchi, delle donne, dei bambini, il tedesco l’avverte, la sente, l’invidia e la teme, forse più di ogni altro popolo d’Europa. Malaparte scrive che “[...] ascoltav[a] le parole dei commensali con una pietà e un orrore, che invano tentav[a] di nascondere”, e dopo esser inorridito ai discorsi sul piacere degli ebrei di vivere nella sporcizia, divorati dagli insetti, e sulla loro incapacità di allevare e curare i bambini, essendoci un’enorme differenza tra i bambini tedeschi e quelli ebrei, risponde: “I bambini dei ghetti non sono

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bambini. [...] I bambini tedeschi sono puliti. I bambini ebrei sono schmutzig. I bambini tedeschi sono ben nutriti, ben calzati, ben vestiti. I bambini ebrei sono affamati, sono mezzi nudi, vanno a piedi scalzi nella neve. I bambini tedeschi hanno i denti. I bambini ebrei non hanno denti. I bambini tedeschi vivono in case pulite, in stanze riscaldate, dormono in lettini bianchi. I bambini ebrei vivono in case luride, in stanze fredde, piene di gente, dormono su mucchi di stracci e di carta accanto ai letti dove sono distesi i morti e gli agonizzanti. I bambini tedeschi giocano: hanno bambole, palle di gomma, cavallucci di legno, soldatini di piombo, fucili ad aria compressa, trombe, scatole di «meccano», trottole, hanno tutto quel che occorre a un bambino per giocare. I bambini ebrei non giocano: non hanno nulla per giocare, non hanno giocattoli. E poi non sanno giocare. No, i bambini ebrei dei ghetti non sanno giocare. Sono proprio bambini degenerati. Che schifo! Il loro unico divertimento è di seguire i carri funebri colmi di morti, e non sanno neppure piangere; o di andare a veder fucilare i genitori e i fratelli dietro la Fortezza. È il loro unico divertimento andare a veder fucilare la mamma. Proprio un divertimento da bambini ebrei”. Quando Frank, il Generalgouverneur, osserva che vorrebbe insegnar loro a camminare, sorridendo nelle vie dei ghetti, Malaparte prorompe: “Sorridendo? Volete insegnar loro a sorridere? A camminar nei ghetti sorridendo? I bambini ebrei non impareranno mai a sorridere, neppure se li ammaestrate a frustate. Non impareranno neppure a camminare, mai. Non sapete che i bambini ebrei non camminano? I bambini ebrei hanno le ali”. Questi angeli infrangono coraggiosamente il divieto di uscire dalla “città proibita”, infilandosi come topi nelle buche scavate alla radice del muro: otto, dieci anni e rischiano la vita, e intanto nelle vie miserabili del ghetto gli uomini si spogliano mentre sono condotti alla fucilazione, e camminano come spettri nudi, per lasciare i vestiti a coloro che rimangono. Altro carattere del popolo tedesco è l’obbedienza ottusa e incondizionata: si tratta di gente incapace d’altro che di obbedire, per cui ad un favore non accondiscerà mai, però non sa sottrarsi ad un ordine o un’imposizione. È per questo motivo che un giorno Malaparte, mentre soggiorna in Finlandia, occupa il letto libero nella camera dell’unico militare tedesco che disprezza i superiori, senza neanche chiederglielo, ed è in questo modo che ottiene più di quanto avrebbe ottenuto, usando modi cortesi. Pur disprezzando i tedeschi Malaparte si accorda con Himmler per comportarsi in Germania “secondo le regole del cricket”, mantenendo una sorta di lealtà pericolosa, che gli consente di essere meno controllato e di portare lettere e pacchi ai parenti italo-tedeschi, e in seguito rifiuta un colloquio con Himmler, denunciando il comportamento nazista subito dopo aver lasciato la Germania. Dai gerarchi nazisti e dai sontuosi pranzi conviviali, tra porcellane,

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belle donne esangui, prive di anima e con la vergogna dipinta in viso, si passa alla gente comune che non sa come sfuggire ai pogrom, come sfamarsi, come sopravvivere. Questi passaggi sono così vicini e inattesi, disgusta in tal modo il lusso degli uni e atterriscono le sofferenze degli altri, che il libro è come una girandola: viaggia veloce e non sai dove girerà il vento, ti viene il mal di mare e un senso di nausea. Come poteva Malaparte avere a che fare con quella gente? – ti domandi mentre ti gira la testa? Eppure comprendi la necessità dello scrittore di essere là, di queste descrizioni, di essere testimone e spesso ostacolo a maggiori atrocità, di quei suoi discorsi tesi, vibranti, allusivi. Mentre il treno della narrazione prosegue in tutta l’Europa, Svezia e Finlandia Romania e Polonia, Germania e Italia, ti stordiscono le pianure, le scie di cadaveri, quei cieli verdi e viola, i prati azzurri, i girasoli nei campi, in Ucraina, che assistettero ai massacri dei contadini nei kolkhoz: [...] “le donne, i vecchi, i bambini, seguivano la colonna per un lungo tratto, ridendo e piangendo, e a un certo punto si fermavano, per un pezzo stavano lì a fare addio con le mani, a mandar baci con la punta delle dita ai prigionieri [...]. [...] I soldati tedeschi di scorta, col fucile mitragliatore a tracolla, camminavano chiacchierando fra loro e ridendo, tra le siepi di girasoli. E i girasoli si sporgevano dalle siepi per vederli passare, seguendoli a lungo col nero occhio rotondo, finché la colonna spariva nel polverone”. I girasoli acquistano tutta la dolcezza degli esseri umani e il loro sguardo emana un fascino irripetibile: “Una notte andai a stendermi in un campo di girasoli. Era proprio una selva di girasoli, una vera foresta: curvi sugli alti steli pelosi, il grande e rotondo occhio nero, dalle lunghe ciglia gialle, annebbiato dal sonno, i girasoli dormivano a capo chino. [...] All’alba mi svegliò un dolce crepitare sommesso. [...] Pareva un fruscio di gente che camminasse a piedi nudi sull’erba. E quel fruscio si faceva immenso, di minuto in minuto più forte, era oramai simile ad uno crepitar di sterpi in fiamme, era ormai come lo scricchiolio sommesso di uno sterminato esercito che camminasse guardingo attraverso un campo di stoppie. Disteso per terra, io trattenevo il respiro, mirando i girasoli sollevar lentamente le palpebre gialle, aprir gli occhi a poco a poco. A un tratto mi accorsi che i girasoli alzavano il capo e, dolcemente girandosi sugli alti steli con uno scricchiolio sempre più fitto e vasto, Tutti i nostri libri è possibile acquistarli direttamente dal nostro sito

ilraggioverdesrl.it

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volgevano il grande occhio nero verso il sole nascente”. Le potenti descrizioni paesaggistiche si alternano a quelle sul carattere e l’indole dei popoli, che apprendi senza sforzo: il fare cerimonioso degli spagnoli, gentiluomini con un profondo senso della morte e dell’onore come De Foxà, il ministro di Spagna; la malinconia dei finnici che privati della luce per mesi interminabili, brindano, pronunciando una parola misteriosa “Malianne”, e dei lapponi che vivono immersi nella potenza di una natura selvaggia e libera, perdendo la ragione e suicidandosi in massa, soprattutto i militari. Là, tra i boschi, a contatto con animali senza colpa, anche i tedeschi smettono di odiare e diventano come le renne, con quegli occhi simili a Gesù, di animali destinati al macello, e allora, tra tanti lutti, anche la morte appare desiderabile, per cui l’impossibile diventa possibile e non c’è niente di male essere morti ed è una cosa meravigliosa essere morti. C’è l’orgoglio delle donne polacche, con i visi pallidi per la fame, senza “ombra di dolcezza, di rassegnazione, di pietà, nulla di simile nel sorriso stanco di quelle labbra dolorose. [...] “Donne e uomini dall’aspetto patito sedevano intorno ai tavoli ascoltando in silenzio la musica, o parlando a voce bassa fra loro. Tutti avevano i vestiti sgualciti, la biancheria stanca, le scarpe dai tacchi consumati. Nei loro modi v’era quella gentilezza, che fa della nazione polacca uno specchio appannato, dove i gesti più consueti si riflettono con una grazia e una nobiltà antiche”. C’è anche “quella dolce fantasia che le donne italiane hanno negli occhi, simile ad uno sguardo d’amore dimenticato tra le ciglia socchiuse”; ci sono i napoletani con la loro flemma e la loro generosità: un Console italiano, Sartori, si getta a capofitto nell’impresa di ritrovare almeno il cadavere di un ebreo facoltoso che aveva messo a disposizione la villa di famiglia per il Consolato italiano a Jassy, in Polonia. Durante il giorno terribile del pogrom rischia la vita per salvare tutti gli ebrei che fuggono e si ritrovano sbandati di fronte all’Ambasciata. In seguito si affanna a cercare il convoglio in cui è stato rinchiuso l’ebreo per essere trasportato ai campi di concentramento. Trova il treno-merci fermo da tre giorni in aperta campagna, sotto il sole, e aprendo le porte viene sommerso da centinaia di cadaveri, ma non si scompone minimamente, perfino quando uno di questi lo morde, anche quando i morti vengono allineati lungo i binari, e sono tanti duemila cadaveri sotto il sole. Eppure quando viene ritrovato un neonato, stretto tra le ginocchia della madre, che prima di morire lo aveva attaccato con la bocca ad uno spiraglio della porta, allora il napoletano, flemmatico, tranquillo, che non si era scomposto per duemila cadaveri, allora si emoziona e inizia a gridare, circondato da duemila morti, per quell’unico bambino vivo. La vita trionfa, nonostante tutto. Allo stesso modo la vita ebbe ragione del generale tedesco che in Lapponia aveva sterminato con le bombe i salmoni cari al popolo

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come dei familiari: l’unico salmone rimasto vivo impegnò il generale tedesco nell’acqua bassa per più di tre ore, finché per salvare la faccia non gli rimase che ucciderlo con un proiettile. La protagonista del romanzo Kaputt non è la guerra, ma l’Europa disperata e affamata, mentre la guerra assiste muta ed esterrefatta. Questo libro è come una ferita: non avresti mai voluto farti male, brucia più di quanto ti aspettavi, e non vorresti vedere, non vorresti riflettere, ma poi recuperi coraggio, guardi in faccia la realtà e ringrazi chi te l’ha mostrata. Anzi, ti sembra, dopo essere stato investito e sopravvissuto al racconto di tali atrocità, di avere imparato qualcosa in più, di avere acquistato il senso del coraggio e della dignità, perché se ebbero coraggio loro, i protagonisti della II Guerra Mondiale, allora tu puoi resistere a tutto, e ricordi di apprezzare cose che si tendono a dimenticare: il mare, che per un carcerato rappresenta la libertà, e non c’è niente di più libero, anche se quando Malaparte stava in galera a Gaeta, e non poteva vederlo, allora non riusciva che ad immaginarlo bianco come le pareti della sua cella. Da allora ti soffermi a pensare a “quell’azzurro così misterioso che ricordava il mare, quell’azzurro misterioso del mare, in certe ore misteriose del giorno”. Kaputt diventa una lunghissima, crudele, spietata, diversa riflessione sui comportamenti dei protagonisti, i capi militari tedeschi, la nobiltà romana, Edda Ciano, il popolo senza più volontà e obiettivi, Galeazzo che s’illude sul buon carattere degli italiani incapaci di volere la morte di qualcuno, nemmeno la sua, mentre Malaparte è convinto che sì, il popolo vuole che qualcuno paghi perché bisognava far qualcosa quando era il momento di opporsi, mentre ciascuno pensò solo a conservare il potere personale. Spesso i racconti di Malaparte sembrano inverosimili e una spietata ferocia dipinge storie paradossali in cui non si sa dove inizia la verità e dove termina la finzione. Indimenticabile la storia, raccontata alla principessa Louise von Preussen, di un ufficiale tedesco che catturò un partigiano di dieci anni, un bambino cui risparmiò la vita, perché seppe indovinare quale dei due era l’occhio di vetro: “Ascolta, io ho un occhio di vetro. È difficile riconoscerlo da quello vero. Se mi sai dire, subito, senza pensarci su, quale dei due è l’occhio di vetro, ti lascio andar via, ti lascio libero. L’occhio sinistro – rispose pronto il ragazzo. – Come hai fatto ad accorgertene? Perché dei due è l’unico che abbia qualcosa di umano -”. Poi c’è il racconto delle membra gelate dei soldati tedeschi: per il freddo congelano e cadono il naso, le orecchie, le dita, gli organi genitali. Molti perdono le palpebre, cosicché gli occhi rimangono nudi e spalancati, privi di protezione contro la luce, e vanno incontro alla notte, che diventa un’immensa palpebra, per poter dormire al buio. Alla fine della narrazione, l’Europa appare come un’unica, aperta, sanguinante ferita, ma è a Napoli che Malaparte, attonito, esausto,

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sulla via di casa, recupera il senso della vita e del sangue, osservando la felicità travolgente, il boato con cui il popolo napoletano, accalcato di fronte al Duomo, apprende che le teche contenenti in sangue rappreso di S. Gennaro, sono intatte e sono scampate alle bombe: “Era la prima volta dopo quattro anni di guerra, la prima volta, in tutto il corso del mio crudele viaggio attraverso la strage, la fame, le città distrutte, la prima volta che udivo pronunciare la parola «sangue» con un sacro, misterioso rispetto. In ogni parte d’Europa, in Serbia, in Croazia, in Romania, in Polonia, in Russia, in Finlandia, quella parola aveva un suono di odio, di paura, di disprezzo, di gioia, di orrore, di crudele, barbarico compiacimento, di sensuale piacere, un accento che sempre mi aveva riempito di orrore e di disgusto. M’era diventata più terribile la parola sangue che il sangue stesso. Toccare il sangue, bagnarmi le mani in quel povero sangue sparso in ogni terra d’Europa, non mi dava tanto ribrezzo, quanto udire quel nome «sangue». E a Napoli, proprio a Napoli, nella più infelice, affamata, umiliata, abbandonata, torturata città d’Europa, ecco che udivo pronunciare la parola «sangue» con religioso timore, con sacro rispetto, con un profondo senso di carità, con quell’alta pura, gentile, innocente voce con la quale il popolo napoletano pronunzia le parole mamma, bambino, cielo, Madonna, pane, Gesù, con la stessa innocenza, la stessa purezza, con lo stesso gentile candore. [...] Era la prima volta, dopo quattro anni di feroce, spietata, crudelissima guerra, che udivo pronunciare quella parola con religioso timore, con sacro rispetto: e l’udivo sulle labbra di quella folla affamata, tradita, abbandonata, senza pane, senza tetto, senza tombe. Dopo quattro anni ecco che quella parola suonava nuovamente come una parola divina. Un senso di speranza, di riposo, di pace, mi invadeva al suono di quella parola ‘o sangue! Finalmente ero giunto al termine del mio lungo viaggio, quella parola era veramente il mio porto, la mia ultima stazione, la banchina, il molo sul quale potevo finalmente toccare la terra degli uomini, la patria degli uomini civili. [...] Il cielo scorreva come un fiume azzurro su quella città in rovina, piena di morti insepolti, sulla sola città in Europa dove il sangue dell’uomo era ancora sacro, su quel popolo buono e pietoso, che aveva ancora, per il sangue dell’uomo, rispetto, pudore, amore e reverenza, su quel popolo per il quale la parola sangue era tuttavia parola di speranza e salute. [...] Un prete uscì sugli scalini del Duomo, alzò le braccia al cielo per imporre il silenzio alla folla, e annunciò che il prezioso sangue era salvo. ‘O sangue! ‘O sangue! ‘O sangue! La folla inginocchiata piangeva, invocando il sangue, e tutti avevano il viso ridente, lacrime di gioia solcavano quei visi scavati dalla fame, e un’alta speranza invadeva il cuore d’ognuno come se ormai neppure una sola goccia di sangue dovesse più cadere sulla terra assetata”. La narrazione di Malaparte si conclude con un altro tratto del popo-

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lo napoletano, quello simile ad una filosofia di vita, millenaria, che gli consente di tirare le somme sul risultato di una guerra assurda e atroce, carattere che emerge dal dialogo con un acquaiolo: [...] “– Mi potreste dare un bicchier d’acqua? – dissi. [...] – Eh, un bicchier d’acqua! – esclamò l’uomo alzando il sopracciglio. – Non sapete che è cosa preziosa? Non c’è una goccia in tutta Napoli. Prima moriremo di fame, poi moriremo di sete e, se saremo ancora vivi, moriremo di paura. Un bicchier d’acqua! Va bene – dissi mettendomi a sedere davanti a un altro tavolino – aspetterò che la guerra sia finita per bere. Non c’è che aver pazienza – disse l’uomo. – Vedete, io non mi sono mai mosso da Napoli. Sono tre anni che aspetto qui la fine della guerra. Quando cascano le bombe, chiudo gli occhi. Non mi muoverò di qui neanche se buttano giù il palazzo. Non c’è che aver pazienza. Si vedrà chi ha più pazienza, la guerra o Napoli. Volete davvero un bicchier d’acqua? Sotto il banco troverete una bottiglia, ci dev’essere ancora un po’ d’acqua. Là ci sono i bicchieri. A questo punto si delinea l’unico vincitore della guerra, trionfante su un’Europa ridotta kaputt, dando il senso amaro di una farsa: [...] “Bevvi al collo della bottiglia, scacciandomi le mosche dal viso con la mano. – Maledette mosche – dissi. Perché non fate la lotta alle mosche, anche a Napoli? Da noi, nell’Italia del nord, a Milano, a Torino, a Firenze, perfino a Roma, i comuni hanno organizzato la lotta alle mosche. Non c’è più neppure una mosca nelle nostre città. – Non c’è più neppure una mosca? – No, neppure una mosca. Le abbiamo ammazzate tutte. È una cosa igienica, si evitano le infezioni, le malattie. – Eh, ma anche a Napoli abbiamo fatto la lotta alle mosche, anzi, abbiamo addirittura fatto la guerra alle mosche. Sono tre anni che facciamo la guerra alle mosche. – E allora, come mai ci sono ancora tante mosche a Napoli? – Eh, che volete, signore: hanno vinto le mosche! Michela Maffei

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SUZANNE. UNA DONNA, UN ROMANZO LA SCRITTURA COINVOLGENTE DI LARA SAVOIA

Lara Savoia Suzanne Il Raggio Verde pp.245 €15,00 ISBN 9788899679569

Quando prendiamo un nuovo libro tra le mani guardiamo subito la copertina, cercando il nesso tra lei e la storia che stiamo per conoscere.La copertina del Libro Suzanne, di Lara Savoia, è malinconica ed evocativa: una donna che fa volare le sue mani tra i tasti di un pianoforte! Musica, dunque. Conosco lo stile, conosco il segno di Enzo De Giorgi, autore della copertina, mi commuovono sempre le sue donne, donne emancipate che vivono tra il reale e surreale, tra il razionale e l'empirico, come, infondo, noi donne siamo. Apro il libro e trovo la pagina bianca, e poi ancora bianca, le definiscono di cortesia, io le chiamo di attesa, poi volto ancora e trovo sulla sinistra la pagina tecnica; a destra partendo dall'alto: Autore Lara Savoia, Titolo Suzanne, Casa editrice Il Raggio Verde. Volto ancora, a sinistra la filigrana dell'immagine di copertina, l'attesa sta per finire, mi dico, sposto lo sguardo a destra e leggo la dedica: A mio Padre, breve e tagliente con un pugnale nel cuore, respiro e volto pagina: bianca a sinistra, a destra due poesie: la Rosa Bianca di Attilio Bertolucci e una di Testori. L'Autrice mi ha messa subito di fronte ad una scelta e scelgo Testori! Sarà lo svolgersi della storia? Volto ancora pagina e immagino un video che riprende i gesti del lettore, toccare la materia_libro, osservarne la forma, scorgerne la potenza e apprestarsi all'atto di entrare nella storia scritta da altri ma che potrebbe essere la mia, la tua, oppure portarti in un altrove dove perdersi per la durata del racconto. Eccomi finalmente, il nero sul bianco, il vuoto si è riempito, l'attesa è finita e sono in un viaggio di cui non conosco la meta, vado verso questa nuova incognita da vivermi, infondo si nasce e si muore da soli e si legge da soli. Guardo sulla destra e leggo un titolo: Il ragazzo del buio, quindi sfoglio il libro e scopro che ogni capitolo ne ha uno. Ma è uno sceneggiato a puntate, un cartone animato? Sorrido di questa mia voglia di ritrovare la parte leggera di me. Inizio a leggere e la descrizione dei luoghi è impeccabile, mi regala pennellate del mio Salento, e mi porta in altri paesaggi. Mi dico: non è solo scenografia, questi luoghi si raccontano ed i personaggi potevano essere incastonati solo in questi luoghi. E poi i luoghi raccolgono storie di umana precarietà, (…) hanno gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese, il viso rivolto al passato. Una tempesta spira dal paradio, e lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta, perdonate la citazione di Benjamin sull' Angelus Novus di Klee, mi pare attinente. Suzanne è un romanzo che parla di amore, un romanzo di evasione, qualcuno lo guarderebbe con sufficienza, fuori dalla contemporaneità: non denuncia, non è “impegnato”, quindi giudicato e con-

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dannato. Ora alzi la mano chi non ha letto un Armony, ai miei tempi, in gioventù, circa mezzo secolo fa, si leggeva Liala, sono libri che ti portano fuori dal tempo e dallo spazio, quello spazio che “ti vive” per inoltrarti in quella dimensione onirica che a volte è necessaria per evadere dalle spire taglienti della quotidianità. Come non ricordare romanzi ottocenteschi che hanno dato la possibilità di sognare nel corso dei decenni a donne di tutte le estrazioni sociali, da Cime tempestose di Emily Brontë, a Jane Eyre, di Charlotte Brontë, rivelatosi come il capolavoro della scrittrice inglese; o ancora Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen. La scrittura di una donna è diversa da quella di un uomo e leggere il romanzo di una donna mi suscita grande curiosità e interesse, in virtù anche della lotta delle donne per affermare la loro creatività. Sappiamo bene che le donne fino alla metà del 700 hanno scritto di nascosto e prevalentemente per se stesse, dobbiamo aspettare la fine dell’800 per vederle imporsi al mercato editoriale trasgredendo alle regole della società e della tradizione, combattendo contro censure e pregiudizi, contro la discriminazione che le escludeva da ogni coinvolgimento sociale e/o letterario. La donna era “muta o pazza”. Durante i secoli del silenzio femminile la scrittura è “narrazione privata” espressione immediata, in cui riversavano emozioni personali. Lara Savoia fa una scelta colloca la storia in luoghi reali, il Salento, L'Aquila, l'Inghilterra ma i suoi protagonisti non comprano il 3x2 al supermercato, vivono in luoghi fiabeschi, vivono vite che noi comuni mortali possiamo solo sognare. Suzanne non è un nome o un epitaffio scritto sulla lapide in memoria dell’amore, è la storia di una donna, ma anche delle donne, della loro diversità. Lara disegna il personaggio di Suzanne, affermandone l’immagine attraverso una scrittura che ne tutela l’ IO socialmente minacciato. Usa il linguaggio della tradizione e lo adotta alle proprie esigenze dando attenzione alle singole parole, caricandole di espressività, di poesia. Esprime sensazioni fisiche legando la scrittura al corpo, alla percezione. Le donne parlano di emozioni e di sentimenti. La parola è un’esigenza che apre le porte dell’anima, è viaggio di amore e di conoscenza. Ezra Pound sosteneva che “Una fondamentale accuratezza di espressione è il SOLO e unico principio morale della scrittura” e Lara la possiede, come possiede l’abilità letteraria, il senso delle proporzioni e della forma, il suo stile è lineare, il linguaggio chiaro e preciso, il lessico e la costruzione della frase impeccabili, i dettagli sono curati e concreti, costruisce i personaggi che ruotano intorno alla protagonista in modo sapiente creando la giusta tensione, qualcosa deve accadere, lo si avverte, tanto da sconfinare nel noir. Saper usare usare le parole è una forma di potere, le parole come formule, come rito. “Le parole prigioniere battono furiosamente alla porta dell’anima (Antonia Pozzi) ma se liberiamo le parole un’onda ci travolge e possiamo combattere per la vita o lasciarci invadere l’animo fino a farlo annegare nella follia”.Il rapporto tra silenzio e parola, tra silenzio e parola scritta induce Suzanne a identificarsi, alla conferma del sé come individuo, come genere. Matura una sua consapevolezza; la ricerca della verità a costo di trovare il buio e l’orrore, ma è necessario che le scelte imploda-

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no è l’unico mezzo che salvifica. Stretta in una trappola di inestinguibili conflitti, la protagonista rompe il silenzio, lo sguardo sull’abisso si è incrociato con quello dell’abisso verso di lei, ma ecco che alla fine del folle volo c’è la riconquista dell’identità. “La nostra anima verrà a visitarci portandoci in dono non solo la visione dell’altro da noi ma dell’altra in noi” scrive Clarissa Estès. Ambra Biscuso

TACCUINO INTRODUTTIVO ALLA LETTERATURA SALENTINA IL NUOVO LIBRO DI RAFFAELE POLO

RAFFAELE POLO Taccuino introduttivo ala Letteratura salentina Il Raggio Verde pp. 140 €12,00 ISBN 9788899679668

“Un repertorio straordinario, e prezioso, perché là stanno le nostre radici, che continuano ad alimentarci e a farci rifiorire con il nutrimento della cultura. Sia da storico letterario, sia da recensore di poeti e scrittori nell’attualità, Raffaele Polo usa sempre quella sua inconfondibile leggerezza dell’essere.” È quanto scrive in prefazione il direttore di Leccecronaca, Giuseppe Puppo, sul nuovo libro di Raffaele Polo che inaugura la collana “Taccuini”. Il suo “Taccuino introduttivo alla Letteratura salentina”, edito da Il Raggio Verde con in copertina l’acquaforte di Giovanni Polo, nasce dall’esigenza come lo stesso autore rimarca di dimostrare (contrariamente a quanto si sente affermare) come il Salento sia terra di poeti e di scrittori degni di nota e considerazione. “Eroi che hanno costruito, senza che nessuno se ne accorgesse, la Cultura salentina”. Rigorosamente in ordine alfabetico sono raccolti gli articoli, usciti su Leccecronaca, e che ricordano: Ernesto Alvino, don Tonino Bello, Carmelo Bene, Vittorio Bodini, Ennio Bonea, Enrico Bozzi, Salvatore Bruno, Erminio Giulio Caputo, Rocco Cataldi, Girolamo Comi, Franco Corlianò, Francescantonio D’Amelio, Ercole Ugo D’Andrea, Giuseppe De Dominicis, Nicola G. De Donno, Iacopo A. Ferrari e Antonio De Ferraris, Cosimo De Giorgi, Luigi De Santis, Rina Durante, Salvatore Imperiale, Oberdan Leone, Arturo Leva, Mario Marti, Cesare Monte, Vittorio Pagano, Raffaele Pagliarulo, Vito Domenico Palumbo, Salvatore Paolo, Giovanni Polo, Raffaele Protopapa, Claudia Ruggeri, Maddalena Santoro, Michele Saponaro, Salvatore Toma, Donato Valli, Giulio Cesare Viola, Antonio Verri. Laureato in Lettere e in Pedagogia, Raffaele Polo è giornalista e collabora con diverse testate tra cui il Nuovo Quotidiano di Puglia e Leccecronaca.it. Si occupa da sempre di scrittura, critica d’arte, poesia dialettale e teatro. Autore di numerosi libri in cui da sempre il Salento è luogo della memoria e scenografia in cui far muovere i suoi personaggi tra Storia, mistero, realtà e immaginazione. Tra le sue ultime pubblicazioni: “Altre Storie dal Salento”, Lupo editore; “Le Leccecronache”, “Edoardo e l’ultimo sogno”, QDB edizioni; “Le improbabili indagini dell’Ufficiale Rizzo”, Robin Edizioni

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ORCHESTRA SENZA CONFINI UNA CAMPAGNA SUL WEB

La campagna di crowdfunding per il progetto musicale è finalizzata alla registrazione di un Live con cinque brani inediti

Musica come ponte per unire, collante per aggregare culture e sonorità diverse grazie al suo linguaggio universale. E a proposito di musica ci sarà tempo fino al prossimo 19 febbraio per aderire ad una campagna davvero singolare. Lanciata sul portale www.musicraiser.com si chiama Orchestra Senza Confini Live in Studio. Come avrete immaginato si tratta di una campagna di crowdunding per dare continuità ad un progetto nato nel marzo 2017 quando si è dato vita ad un’orchestra di venti elementi accomunati «dal desiderio di esplorare e contaminare il sound della musica tradizionale del West Africa con quello del Salento e del Mediterraneo». «Dopo mesi passati insie-

me a creare e a portare in giro il nostro repertorio, sentiamo la necessità di registrarlo e di condividerlo con il mondo!.- spiega l’organettista Claudio Prima leader dei “Bandadriatica” coinvolto con tanti altri suoi colleghi nel progetto che, aggiunge, «si tratta di un’orchestra multietnica totalmente inclusiva con a bordo ragazzi africani e italiani. Con il tempo, nel cerchio si sono aggiunti due ragazzi non udenti dell'associazione Poiesis, dandoci la meravigliosa possibilità di utilizzare la musica anche come strumento per superare l'apparentemente invalicabile confine della disabilità. È una nuova avventura che ci sta dando molto e che personalmente ritengo molto importante in questo periodo storico.»

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E quale spazio migliore del web che in casi come questo può mostrare la sua forza migliore diventando reale spazio di condivisione? Ecco allora l’idea di lanciare la campagna per la raccolta fondi, 3000€ in 60 giorni l’obiettivo per poter registrare il Live in Studio di 5 brani inediti. «La nostra musica fa luce su un argomento scottante ed attuale: la diversità. Aderire significherà diventare parte di questo grande cerchio che accoglie ogni individuo, ogni forma di cultura tradizionale, senza discrimina-

zione e senza giudizio.» Knos orchestra senza confini è un progetto dell’Ass. Cult. Sud Est in collaborazione con le associazioni Fermenti Lattici, Ruotando, Etnos centro multiculturale e Factory Compagnia Transadriatica. L’invito allora è quello di acquistare in anteprima il CD dell’orchestra contribuendo a finanziarne la registrazione. In che modo? aderendo alla campagna su musicraiser. Basta un click! (an.fu.)

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Lecce, il giardino di Palazzo Giaconia, foto di Sara Foti Sciavaliere

IL GIARDINO DI PALAZZO GIACONIA OVVERO IL GIARDINO RITROVATO Sara Foti Sciavaliere

Storie l’uomo e il territorio

Un angolo rivalutato nel centro storico di Lecce

LECCE. Il giardino di Palazzo Giaconìa: un angolo rivalutato nel centro storico di Lecce Il processo di riqualificazione e restauro del centro storico di Lecce, ormai avviato una ventina di anni fa, prosegue e lo si vede dai cantieri che si incrociano lungo l’asse di collegamento da Porta Rudiae alla centrale piazza S.Oronzo e dalle impalcature che ancora rivestono alcuni dei monumenti principali come la Basilica di Santa Croce, ma intanto alcune di queste opere vengono rese finalmente fruibili al

pubblico, si veda i casi dell’ex Covento degli Agostiniani e del Bastione San Francesco però poi richiusi, se non per eventi o circostanze eccezionali e circoscritte. L’ultimo di questi casi quello del camminamento delle mura urbiche e del giardino di Palazzo Giaconìa, resi accessibili dall’Immacolata all’Epifania e oggi di nuovo chiuse. Un ponte di ferro gettato sul fossato delle mura urbiche e un tratto di via romana riportata alla luce durante i lavori di scavo, conduce il visitatore in uan

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Lecce, il giardino di Palazzo Giaconia, foto di Sara Foti Sciavaliere

sorta di squarcio che si apre nelle mura nei massicci blocchi dorati di pietra lecce. La cornice della porta ritagliata nel calcare locale inquadra uno scorcio di palme e aranci nel giardino di Palazzo Giaconìa, cinquecentesco palazzo aristocratico che all’inizio del Novecento fu riadattato per ospitare l’Istituto per non vedenti voluto dalla lucana Anna Antonacci e a lei intitolato. Il giardino si dispone su due livelli collegati da una breve scalinata. Dalla terrazza d’ingresso corrispondente al tratto di mura urbiche. Qualche gradino e ci si ritrova a passeggiare lungo un tratto del camminamento di ronda collegato a breve distanza alle terrazze dell’attiguo bastione San Francesco. I rampicanti riprendono vita inerpicandosi su piccoli pilastri e andranno a intrecciarci alle arcate in metallo di un pergolato, che ingentilisci

il vecchio camminamento, riportando alla memoria riposanti passeggiate all’ombra. Da qui si apre la visuale. Da una parte la città moderna che è andata a occupare la campagna fuori dalle mura cittadine e dall’altro il ritrovato giardino di Palazzo Giaconìa. Svettano le palme sulla prima terrazza, tra le geometriche aiuole, mentre dalla balaustra in pietra locale si scorge il livello più basso del giardino, riprendendo la soglia stradale, dove alberi di arance ricordano gli agrumeti che un tempo dovevano estendersi intorno alla città, come ricordano alcune fonti storiche. Un portone permette di lasciarsi il giardino alle spalle e fare ingresso diretto nel centro storico di Lecce, in piazza dei Peruzzi, a pochi passi dalla Chiesa di Santa Maria degli Angeli e dell’ormai abbandoanto convento dei Padri Minori di San Francesco di Paola. E

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Lecce, il giardino di Palazzo Giaconia,, foto di Sara Foti Sciavaliere

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proprio da qui che parte la storia di questo luogo, quando monsignor Giaconìa, discendente di una nobile stirpe leccese, desiderò costruire intorno alla metà del XVI secolo una dimora degna del suo casato e ottenne dai Padri una parte quel lotto di terreno dell’area della vicina Santa Maria degli Angeli. Il prelato cominciò a costruire un magnifico palazzo che gli costò grandi sacrifici economici fino al punto di doverlo cedere al suo creditore Daniele Varcardo, vescovo di Dalmazia, a lavori non ancora completati. L’edificio di fatto è l’evidente frutto di più fasi di costruzioni attuate in tempi successivi e dai diversi proprietari seguiti a Varcardo. Quest’ultimo in verità lo usò per ben poco tempo, vendendolo all’umanista Don Vittorio dè Prioli, sindaco di Lecce nel 1593, che si insediò nel palazzo che aveva gà allora un ampio cortile che immetteva in un suggestivo giardino”odoroso di agrumi” dove il celebre conte umanista “raccolse ai suoi tempi, fra laureti e mirteti e sceltissimi fiori, colonne, bassorilievi, iscrizioni, statue, e quant’altro di antico aveva raccolto in escavizioni praticate a Lecce, a Rhudiae ed a Salapia, insieme al suo

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Lecce, il giardino di Palazzo Giaconia, foto di Sara Foti Sciavaliere

amico Claudio Falconi barone di Latiano. Questo prezioso materiale, dopo la morte del Prioli, andò completamente sperduto per incuria dei s uoi eredi”. (G.Paladini, “Guida storica e artistica della città di Lecce”). E nulla si sa della sorte di quella collezione, anche se si potrebbe pensare che i due rilievi in pietra leccese collocati nell’androne del giardino possano essere collocati proprio in quello stesso lapidario. A suggerire quest’ipotesi fu Michele Paone che, in uno dei numerosi libri, “Palazzi di Lecce”, scriveva: “tutto, purtroppo, è andato disperso, ad eccezione dei rilievi in morbida pietra locale, il David che scrive e il duello e il trionfo di David, attribuiti a Gabriele Riccardi, cui è assegnato anche il disegno dell’edificio”. L’attribuzione al noto scultore e architetto leccese del Cinquecento non è tuttavia oggiritenuta attendibile, seppure Guglielmo Paladini supportasse l’idea del Paone almeno nella paternità dei rilievi. E sempre nell’atrio, a sinistra, sull’architrave di una porta murata si trova scritta la seguente frase, non del tutto leggibile: “MIHI

OPPIDU CARCER ET SOLITUDO [PARADIS]”, “ A me qui rinchiuso da (queste) mura il carcere e la solitudine sono il Paradiso(Eden=giardino)”. Un’incione da attribuire probabilmente a Vittorio dè Prioli che, dicevamo, celebre umanista era dedito alla raccolta di iscrizioni antiche, statue e bassorilievi. Il Conte doveva considerare questa residenza un luogo di solitudine e meditazione, lontano dal centro cittadino (essendo all’epoca al “limite” della città, diremmo noi, in perferia). E ancora oggi potrebbe essere uno spazio tranquillo per una passeggiata meditativa o una lettura rilassante. Questo angolo nascosto ai molti per tanto tempo, ha visto nei giorni di apertura straordinaria un flusso non indifferente sia di leccesi che di forestieri, interessati e curiosi, e tanti altri potrebbe essere ancora visitato, concedendone la possibilità. Adesso quindi non rimane che aspettare la notizia di una prossima riapertura da parte dell’Amministrazione Comunale o da chi ne ha competenza, e magari questa volta sperare in un’accesibilità definitiva.

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Teatro Marittimo, Villa Adriana,foto Sara Foti Sciavaliere

TIVOLI, D’ARTE E D’ACQUA: VILLA ADRIANA

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Sara Foti Sciavaliere

Alla scoperta di una bellezza antica e immortale

TIVOLI (ROMA). A trenta chilometri dalla Città Eterna, c'è Tivoli, una graziosissima cittadina dalle origini assai antiche e assai apprezzata da sempre per le sue bellezze e la salubrità della sua aria, e non c'è da meravigliarsi che diversi facoltosi personaggi dell'Antica Roma vi abbiano eretto lussuose abitazioni. La più celebre, e meglio conservata, tra queste dimore è Villa Adriana, voluta dall'omonimo imperatore e inserita

dall'Uniesco nel Patrimonio dell'Umanità. Si tratta un'area archeologica piuttosto estesa (seppure meno di quanto doveva esserlo in origine), che necessita di almeno una mezza giornata per essere esplorata. Un complesso di edifici di varia natura, la cui costruzione si data tra il 118 e il 138 d.C.. La particolarità architettonica di tutto l'insieme ben si accorda con la ben nota passione dell'imperatore per l'architettura e rende piuttosto verosiile la sua

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PIazza d’Oro, Villa Adriana,foto Sara Foti Sciavaliere

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partecipazione diretta al porgetto della villa. L'eccezionale monumentalità del complesso era accresciuto dai ricchi giochi d'acqua nei giardini e dalla splendida sìdecorazione scultorea. È una passeggiata che lascia respirare un tempo che non c'è più, ma che resiste al suo stesso scorrere, imponendosi con quei resti di tangibili, quei ruderi che sono sopravvissuti alla Storia e che si accordano ancora con la natura. Si supera il cancello del parco archeologico e un viale in salita, tra alberi secolari e piante aromatiche, conduce il visitatore sulla soglia della villa suburbana, una villache è, nel suo ipianto urbanistico, una piccola città nella quale però non è possibile distinguere gli spazi che sconfinano l'uno nell'altro. È stato scritto che Adriano ha portato qui i suoi ricordi più belli, anche dai luoghi più lontani, avndo ricavato i materiali e le forme degli edifici fìda tutte le regioni dell'Impero. Di fatto, Adriano ha costruito questa Villa come evocazione dei suoi viaggi e custode della sua memoria: marmi e pietre provengono da luoghi distanti (dalle coste dell'Africa e dell'Oriente) e i nomi dei diversi edifici riprendevano queli dei luoghi più celebri delle province, forse proprio con l’intento di suggerire quell'idea di universalità che Adriano attribuiva alla sua Villa, quasi a rappresentare l'Impero stesso. Si attraversa un varco in una muraglia di 200 metri (la cui lunghezza era in funzione delal durata del percorso consigliato dai medici per la passeggiata dopo pranzo) e si accede in un vasto giardino rettangolare

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Canopo, Villa Adriana, foto Sara Foti Sciavaliere

con una piscina al centro: è il Pecile, che si ispira al portico della celebre Stoà Poikile di Atene. Intorno alla vasca centrale vi era probabilmente un ippodromo dove gareggiavano i carri. Proseguendo verso il lato meridionale si costeggiano da una parte le Cento Camerelle, una serie di stanzette allineate e sovrapposte, destinati a essere alloggi per il personale di servizio della villa e magazzini, e ancora l'edificio con tre esedre, che è stato il grandioso ingresso alla residenza imperiale. Da qui ci si può perdere tra colonne i resti i di terme e biblioteche, i ruderi delle monumentali cupole dell'Heliocaminus e del NInfeo della Piazza d'Oro, superstiti colonne di portici, ed è affascinante poter scorgere ancora tracce di pitture sulle pareti o i marmi policromi dei pavimenti. Due però sono le immagini che rimangono impresse nella memoria quando si visita Villa Adriana, il Canopo e il Teatro Marittimo, forse per questo sono anche gli spazi più fotografati di questo luogo, ma in effetti la suggestione che riescono ancora a suscitare lascia immaginare lo splendore di cui dovevano godere quando furono allestiti simili spazi. Il Canopo è un complesso costruito in una piccola valle in parte artificiale e doveva evocare un omonimo canale, delta del Nilo, tra Alessandria e Abukir, nel quale si era sviluppato un porto di rilievo commeciale. La valle, allestita a giardino, è attraversata da un lungo bacino d'acqua, l'Euripo, e chiusa, sul lato meridionale, da un vasto padiglione, detto Serapeo dal tempio di Serapide a Canopo. Il Serapeo si

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Vasca del Pelice, Villa Adriana, foto Sara Foti Sciavaliere

presenta come un monumentale ninfeo a esedra, che doveva essere utilizzato in estate come lussuosa sala da banchetti: gli ospiti si disponevano lungo i lati del Canopo, via via più lontani dall'imperatore a seconda della loro importanza. Tutto il complesso era decorato da una fitta serie di statue, per lo più opere di gusto ellenico, oggi visibili in alcune copie in cemento mentre gli originali sono conservati nel vicino Antiquarium. Quasi con un percorso ad anello, attraversando altri spazi archeologii, tra leggeri declivi, alberi e ruderi, in prossimità del Pecile, da dove siamo partiti, si accede al corridoio circolare del Teatro Marittimo, così chiamato in passato per la sua forma e le decorazioni ispirate a motivi marini, ma in realtà era un edificio residenziale costituito da un isolotto circolare artificiale sul quale si concentrano gli ambienti di una piccola domus e circondato da un portico coperto con una volta a botte. Siamo nel cuore della Villa, dove restiamo stupiti dal cielo e i riflessi del sole che si specchiano sull'acqua e richiamano la tranquillità che probabilmente ricercava lì Adriano, ritirandosi in quel luogo. La quieta e la luce che fa vibrare il silenzio di Villa Adriana rende ristoratrice la passeggiata in questo complesso. E qui, nel lasciare l’opera monumentale di questo, mi vengono in mente alcune righe di Marguerite Yourcenar, tratteda “Memorie di Adriano”: «Mi sentivo responsabile della bellezza del mondo. Volevo che le città fossero splendide, piene di luce, irrigate di acque limpide, popolate di esseri umani il

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Grandi Terme, Villa Adriana, foto Sara Foti Sciavaliere

na si estendesse a tutti, insensibile e presente come la musica del firmamento nel suo moto [...].»

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cui corpo non fosse deturpato né dal marchio della miseria o della schiavitù, né dal turgore d’una ricchezza volgare [...]. Volevo che l’immensa maestà della pace roma-

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Firenze, (fonte: pagina istituzionale

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FIRENZE LA CITTÀ AMATA DAI REGISTI AMERICANI Stefano Cambò

Negli ultimi trent’anni, i luoghi più significativi di Firenze sono stati scelti da alcuni celebri film makers d’oltreoceano per girare le scene più belle e suggestive delle loro pellicole. E d’altronde, la culla del Rinascimento (come viene definita da sempre in tutto il mondo) annovera un patrimonio culturale inestimabile sia per bellezza architettonica che per importanza storica, tenendo in considerazione che è stata la Capitale d’Italia per un breve periodo dopo l’unificazione. Non solo, ma il capoluogo della Toscana, oltre che per le produzioni cinematografiche, è stato scelto anche dagli scrittori più affermati per ambientare i loro romanzi, diventati dei veri e propri best-seller venduti in tutto il mondo. Come è successo alla fine del millennio a Thomas Harris, l’autore de Il Silenzio degli Innocenti, uno dei thriller più conosciuti di tutti i tempi, diventato nel 1991 un famosissimo film diretto da Jonathan Demme ed interpretato magistralmente da Jodie Foster ed Anthony Hopkins (entrambi

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premiati con l’Oscar). Durante una scena del film, Firenze fece il suo ingresso nella cella del carcere di Memphis, dove Hannibal Lecter (l’indimenticabile protagonista della storia) teneva esposto su un muro il disegno eseguito a memoria del panorama della città visto da Forte Belvedere. Quel piccolo momento diventò per l’autore, il punto di partenza per scrivere Hannibal, il seguito de Il silenzio degli Innocenti diventato ben presto, prima un best-seller e poi un famoso film diretto questa volta da Ridley Scott. Infatti, la seconda parte del romanzo (come di conseguenza il secondo tempo della pellicola) è stato ambientato interamente a Firenze e più precisamente a Palazzo Capponi, diventato per l’occasione la residenza di Hannibal Lecter che qui soggiornava indisturbato sotto le mentite spoglie del dottor Fell. Nella sua biblioteca tappezzata di damaschi rossi, durante alcune scene, il protagonista suona al clavicembalo le variazioni di Gold-


Firenze, Lungarno, foto di Sara Di Caprio

berg e scrive le lettere a Clarisse Sterling, l’agente del FBI che gli dà la caccia. Ma il vero teatro dell’azione fiorentina è Palazzo Vecchio in Piazza della Signoria, oggi sede storica del Comune e nel film luogo delle conferenze d’arte di Hannibal Lecter su Dante e Machiavelli, nonché scena di un delitto con il povero malcapitato di turno scaraventato da un terrazzino che s’affaccia sulla Loggia de’ Lanzi. Altri luoghi emblematici della pellicola sono il Chiostro di Santa Maria Croce (quello dell’incontro tra Anthony Hopkins e Francesca Neri), la Farmacia di Santa Maria Novella e la fontana del Porcellino (dove avviene l’omicidio del personaggio interpretato da Enrico LoVerso, con il sangue che colora completamente di rosso l’acqua). Per il secondo kolossal americano ambientato a Firenze bisogna fare un salto temporale di almeno dieci anni per scomodare uno dei super eroi dei fumetti più conosciuto al mondo. Stiamo parlando naturalmente di Batman, diventato nella trilogia diretta da Cri-

stopher Nolan il celeberrimo Cavaliere Oscuro, sempre pronto a salvare il mondo nonostante tutti lo considerino una vera minaccia. Infatti, nell’ultimo capitolo della trilogia intitolato The Dark Knigth Rises (quello che vede il ritorno del super eroe a Gotham City dopo anni d’esilio), vi è un piccolo momento in cui, il fidato maggiordomo Alfred si confida con Bruce Wayne (l’alter ego storico di Batman) con la speranza di vederlo un giorno seduto ai tavolini di un bar che si affaccia sulle rive dell’Arno a Firenze in compagnia di una bella donna, lontano dai frastuoni e dalle missioni impossibili che lo costringono ad indossare gli scomodi panni dell’uomo pipistrello. Quel giorno arriva inaspettato alla fine della pellicola con i due protagonisti della storia intenti a bere un caffé a pochi passi l’uno dall’altro (la location è il mitico Caffé della Loggia di piazzale Michelangelo), mentre alle loro spalle s’intravede il bellissimo e suggestivo Ponte Vecchio, simbolo architettonico e storico della città.

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Vedute di Firenze, foto di Sara Di Caprio

Così storico che nel lontano Medioevo, le prestigiose gioiellerie che oggi si affacciano direttamente sulle acque calme del fiume, erano delle piccole macellerie affiliate al commercio delle carni. La dislocazione sopra il ponte di questi esercizi mirava soprattutto ad eliminare le consuete e maleodoranti tracce lasciate dai carretti dei beccai (così si chiamavano all’epoca i macellai) lungo le strade di Firenze durante il trasporto degli scarti. Per evitare ciò si pensò di disperderli direttamente, senza alcun danno, nella sottostante corrente del fiume attraverso bocchettoni che dalla bottega sovrastante si affacciavano direttamente sulle acque dell’Arno (ecco spiegato come mai le case costruite sul ponte trasbordino i margini dello stesso dando un tocco decisamente unico e suggestivo a tutto il paesaggio). Solo nel 1593, le botteghe dei macellai furono occupate da orafi e gioiellerie sotto l’ordi-

ne del re Ferdinando I che mal gradiva un commercio poco nobile e con odori sgradevoli sotto le finestre de Il corridoio vasariano costruito qualche decennio prima dall’architetto Giorgio Vasari per Cosimo I con lo scopo di mettere in comunicazione il centro politico e amministrativo di Palazzo Vecchio con Palazzo Pitti, l’abitazione privata della famiglia dei Medici. Il corridoio sopraelevato, lungo circa un chilometro, infatti parte proprio da Palazzo Vecchio. Passando dalla Galleria degli Uffizi, costeggia il Lungarno Archibusieri e sovrasta le botteghe del lato sinistro di Ponte Vecchio. Nel suo ultimo tragitto, aggira la Torre dei Mannelli e arriva dritto nelle stanze private di Palazzo Pitti. E proprio questo straordinario esempio di architettura urbanistica del Rinascimento è diventato il fulcro di uno dei libri americani più popolari del nuovo millennio, con l’im-

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Palazzo dei Cinquecento, fonte pagina istituzionale; in basso una sequenza del film “Codice da Vinci” di Ron Howard

mancabile film uscito neanche due anni fa. Si tratta per l’appunto del romanzo Inferno scritto dallo statunitense Dan Brown (quello del Codice da Vinci tanto per intendersi) e della pellicola omonima diretta da Ron Howard e interpretata dall’attore Tom Hanks, ormai collaudato nel vestire i panni del professore Robert Langdon. Già dal titolo si capisce che l’opera prende decisamente spunto dalla Divina Commedia di Dante Alighieri, padre putativo della lingua italiana e ispiratore a quanto pare anche delle trame del libro e di conseguenze del film, che vede l’apice dell’azione proprio sul famoso corridoio vasariano descritto prima, con il protagonista della storia che lo percorre di corsa da Palazzo Pitti fino alla Galleria degli Uffizi per sfuggire alla minaccia dei suoi probabili aguzzini. L’inseguimento si conclude nel Salone del Cinquecento, la sala più importante di Palazzo Vecchio dove si vede uno degli antagonisti che dà la caccia a Langdon, precipitare da diciotto metri di altezza, riservando inconsapevolmente allo spettatore catturato dal film, l’occasione di ammirare tutte le soffiature decorate che compongono il soffitto. E con le immagini di questa meraviglia ancora negli occhi, ci allontaniamo da Firenze e dalla magia del suo Ponte Vecchio sapendo che qui, più che in altri luoghi della nostra amata penisola, abbiamo lasciato davvero un pezzo del nostro cuore.

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Foto di Mario Cazzato

L’ENIGMA DELLA MASSERIA TAGLIATELLA Mario Cazzato

Uno scrigno alle spalle della stazione Ferroviaria

Salento Segreto

a cura di Mario Cazzato

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n principio era una villa costruita almeno in due fasi ravvicinate verso la metà del '500. Sotto, scavato nella roccia c'è il famoso ninfeo, rocostruzione archeologica dei ninfei classici. Con le Metamorfosi ovidiane in mano il committente volle un ambiente le cui sculture, tutte femminili, ricordassero che quel luogo era sacro a Pomona e alle ninfe Amadriadi, appassionate dalle piante da frutto che, come scrive Ovidio, erano protette da recinzioni anche per evitare il carattere brutale dei maschi a cui era vietato l'accesso. E infatti l'iscrizione ora illeggibile sull'ingresso al ninfeo avvertiva che

quello era uno spazio dedicato alle ninfe e a Pomona. Già al suo apparire, quindi, la villa era intimamente legata ai giardini circostanti.

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Salento Segreto a cura di Mario Cazzato

foto di Mario Cazzato

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Salento Segreto a cura di Mario Cazzato

foto di Mario Cazzato

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