Maria Teresa Moscato – Rita GattiMichele Caputo_Crescere tra vecchi e nuovi dei

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Maria Teresa Moscato – Rita Gatti – Michele Caputo (a cura di)

CRESCERE TRA VECCHI E NUOVI DEI L’esperienza religiosa in prospettiva multidisciplinare

ARMANDO EDITORE


Sommario

Introduzione MARIA TERESA MOSCATO – RITA GATTI – MICHELE CAPUTO Una lettura teologica del senso religioso ERIO CASTELLUCCI

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1. “Senso religioso” come a-priori antropologico; 2. “Senso religioso” come ricerca implicita o esplicita del “sacro”; 3. “Senso religioso” come atteggiamento che si esprime nelle diverse tradizioni religiose; 4. Considerazioni conclusive

L’esperienza religiosa nella narrazione di sé. Scritture di studenti universitari MICHELE CAPUTO

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1. Premessa metodologica; 2. La rappresentazione della religiosità in termini identitari; 3. Gli ambiti di formazione; 4. L’influenza familiare; 5. L’esigenza di ragionevolezza nell’educazione religiosa familiare; Riferimenti bibliografici

Il senso religioso come categoria filosofica e le sue aperture pedagogiche GIORGIA PINELLI 1. Acquisizioni preliminari per una definizione del “senso religioso”; 2. La domanda di Assoluto come proprium dell’uomo: una chiave di fondazione teorica per il senso religioso; 3. Uno sguardo metodologico: senso religioso e “opzione teorica iniziale” nelle Scienze umane; 4. Quale approccio metodologico/epistemologico per la comprensione del senso religioso?; 5. Senso religioso e filosofia dell’educazione; 6. Riferimenti bibliografici

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Esperienza religiosa e senso religioso in Romano Guardini: implicazioni pedagogiche ANDREA PORCARELLI

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1. Una premessa; 2. Identità e specificità dell’esperienza religiosa in quanto tale; 3. Le vie di accesso all’esperienza religiosa; 4. Tra religiosità naturale e fede soprannaturale; 5. Eclissi di Dio nel mondo contemporaneo?; 6. Suggestioni educative; Riferimenti bibliografici

Senso religioso e spiritualità orientale. Note ai margini di un Convegno LAURA CAVANA

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1. Il fenomeno New Age; 2. Il rapporto con il sacro nella spiritualità orientale; 3. La sacralizzazione del sé; 4. Il sacro-come-generativitàcreativa e come-luogo-degno-di-rispetto; 5. Sacro e spiritualità; Riferimenti bibliografici

L’educabilità umana e la religiosità: genesi, intrecci, sviluppi MARIA TERESA MOSCATO

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1. Pedagogia e religione: le ragioni di un lungo silenzio; 2. “Ritorni” e “rivincite” del sacro? Un nuovo sincretismo?; 3. La categoria generativa di “senso religioso”; 4. Esperienza religiosa e “religiosità”; 5. La categoria di trascendenza nell’esperienza religiosa; 6. Il linguaggio religioso; 7. La relazione al trascendente e la posizione dell’Io: religiosità e magia; 8. Lo “spiritualismo” come nuova religiosità; 9. Il “senso religioso” come infrastruttura psichica; 10. La religiosità come bisogno e come illusione; 11. Critica della religione e crisi della ragione; 12. L’unità della vita psichica e la coscienza come “compito infinito”; 13. I nuclei psichici “germinativi”; 14. Una germinatività “staminale”?; 15. Alcune provvisorie conclusioni: dal “senso religioso” al “pensiero religiosamente orientato”; Riferimenti bibliografici

Raccontare l’esperienza religiosa: una ricerca esplorativa RITA GATTI

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1. Le ragioni della scelta; 2. Caratteri e tipologie dell’intervista; 3. Caratteri della ricerca; 4. L’analisi delle interviste; 5. Conclusioni; Riferimenti bibliografici


Il senso religioso e la psicologia della religione. Decostruire un concetto, elaborare un metodo, proporre strumenti MARIO ALETTI

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1. La psicologia della religione; 2. Nuove forme della religione nell’attuale contesto italiano; 3. Per una decostruzione, concettuale e metodologica, del “senso religioso”; 4. Metodo e strumenti di ricerca; Riferimenti bibliografici

Il bisogno religioso e la costruzione dell’identità personale nell’ottica della psicoterapia adleriana UMBERTO PONZIANI

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1. Il bisogno religioso e i confini della psicologia; 2. L’approccio adleriano; 3. La teoria adleriana e il bisogno religioso; 4. Le differenze individuali; 5. Le possibili influenze dei riferimenti religiosi sulla costruzione dell’identità; 6. Conclusioni; Riferimenti bibliografici

Senso religioso e nuova spiritualità nella prospettiva sociologica PINO LUCÀ TROMBETTA

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1. La “nuova spiritualità”; 2. La prospettiva del mercato; 3. L’habitus religioso; 4. Conclusione; Riferimenti bibliografici

Le esperienze religiose nella ricerca antropologica. Alcune riflessioni alla luce dello studio dei processi migratori BRUNO RICCIO

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1. Premessa; 2. Antropologia e religioni: una pluralità di prospettive; 3. Esperienze e organizzazioni religiose nella migrazione: il caso della Muriddiyya; Riferimenti bibliografici

Crescere tra vecchi e nuovi dei: l’educazione religiosa fra impliciti e consapevolezze MARIA TERESA MOSCATO

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1. La formazione religiosa nell’orizzonte attuale; 2. Un Dio cristiano rivisitato?; 3. Una fenomenologia ambivalente; 4. Fattori potenzialmente determinanti “nuclei germinativi” ; 5. Le narrazioni: miti, simboli e figure della mente; Riferimenti bibliografici

Gli Autori

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Introduzione MARIA TERESA MOSCATO – RITA GATTI – MICHELE CAPUTO

Questo volume costituisce il primo risultato dell’attività del Centro Studi Religione Educazione e Società, costituito nel 2009 presso il Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Bologna, su iniziativa di un piccolo gruppo di ricercatori, quasi tutti presenti fra gli autori di questo volume1. I presupposti fondamentali dell’iniziativa erano due: in primo luogo si trattava – soprattutto per i pedagogisti del gruppo – di riportare all’attenzione della ricerca l’oggetto religione/ religiosità e riprendere gli studi su di esso, in termini di comprensione, prima che di progettazione. Questa urgenza ci appariva sollecitata ulteriormente dalla nuova dimensione multiculturale delle società europee, in particolare nella situazione italiana, in cui i gruppi migranti e i loro figli vengono a radicarsi in un tessuto sociale segnato dal cattolicesimo e dalle sue strutture istituzionali da tempo immemorabile. La loro presenza comporta l’affermazione e rivendicazione di identità religiose altre, e ciò comporta nuove consapevolezze sociali, nuove esigenze di reciproca comprensione e di possibile dialogo interreligioso. Ci sembrava che lo stesso tessuto ecclesiale cattolico avesse reagito alle nuove situazioni con maggiore produttività, almeno rispetto alla ricerca pedagogica accademica, all’interno della quale ci si era fermati ad un dichiarato rispetto per le “religioni degli altri”, senza che questo comportasse una reale o rinnovata comprensione della religiosità umana in quanto tale. 1 Il gruppo costituente: Michele Caputo, Laura Cavana. Roberto Farné, Rita Gatti, Alain Goussot, Pino Lucà Trombetta, Stefano Martelli, Maria Teresa Moscato (con funzioni di Coordinatore), Bruno Riccio, Monica Rubini.

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Il secondo presupposto essenziale era costituito dalla riconosciuta esigenza di un confronto multidisciplinare effettivo, su un tema, come la religione, tanto complesso e comprensivo che ogni approccio disciplinare rischia perennemente di essere/ diventare riduttivo. Questo volume riflette concretamente quanto siamo riusciti a realizzare positivamente, ed insieme i limiti del confronto stesso. Si vedrà infatti che le linee di ricerca scorrono prevalentemente parallele, e solo parzialmente si intrecciano davvero in alcuni contributi. Siamo tuttavia consapevoli che l’ascolto reciproco costituisse già un risultato positivo, e in quest’ottica abbiamo realizzato un primo seminario (interno) nel febbraio 2010, un Convegno nazionale nel gennaio 2011 e un secondo Convegno nazionale nell’aprile 2012, sempre in una prospettiva multidisciplinare nell’ambito delle scienze umane e sociali. La partecipazione di colleghi e l’interesse del pubblico (fortemente cresciuti entrambi fra il 2011 e il 2012) ci hanno confermati positivamente nelle nostre scelte. Analogamente, tre laboratori sul tema offerti a studenti universitari (dell’Università e dell’ISSR) hanno sempre riscosso interesse, attiva partecipazione e disponibilità al coinvolgimento nella ricerca stessa. Il nostro primo progetto di ricerca era relativo al senso religioso, e venne avviato nel 2010, con il patrocinio e il sostegno finanziario dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Bologna, che ha mantenuto nel triennio forme di supporto e di collaborazione. Il progetto prevedeva inizialmente una articolazione inclusiva di una parte teorica e di una empirica da svolgersi nell’arco di un triennio. Lo sviluppo della parte teorica, a partire dalla rassegna di una letteratura smisurata ed eterogenea, presentò subito difficoltà superiori alla previsione, rallentando oggettivamente il passaggio alla fase empirica, e ciò a prescindere dalle inevitabili difficoltà materiali ed economiche (che comunque non ci sono mancate). Le difficoltà cominciano infatti dalla individuazione e definizione dell’oggetto di indagine, e dal confronto fra le nostre rispettive categorie concettuali. L’incontro e il dibattito hanno comportato, almeno per alcuni di noi, un continuo ripensamento delle proprie categorie interpretative. E giudichiamo che questo costituisca già un risultato importante. I testi che costituiscono il presente volume derivano solo in parte dalle relazioni (revisionate) presentate al Convegno del 28 e 29 gennaio 10


2011 (Aletti, Cavana, Lucà Trombetta, Ponziani, Porcarelli, Riccio). La relazione di Don Erio Castellucci, presentata invece al Convegno del 26-28 aprile 2012, è stata inserita qui nella logica del confronto fra le categorie interpretative delle diverse discipline, esteso doverosamente – nel nostro caso – alla teologia. I saggi restanti, dei curatori del volume e di Giorgia Pinelli, riflettono invece il percorso di studio ulteriore e di ricerca sviluppato nell’anno successivo al convegno del 2011, ed intrecciano in parte al loro interno le categorie multidisciplinari con cui ci si è confrontati, utilizzando anche i primi dati della fase di ricerca empirica nel frattempo avviata. Il volume, partito dalla difficile definizione dell’oggetto “senso religioso”, di cui si è ampiamente dibattuto, approda di fatto ad una ridefinizione della religiosità come esperienza vitale, dimensione qualitativa della persona, che come tale costituirebbe la matrice e l’esito, sia di processi educativi e formativi, sia delle trasformazioni della vita adulta. La conclusione apre la nuova fase di ricerca sul campo (in realtà già avviata nell’arco del 2012). Dalla ricerca empirica in corso ci aspettiamo conferme e dis-conferme delle letture operate in questo volume, e in primo luogo una maggiore comprensione della fenomenologia della religiosità umana. Si tratta di un oggetto di ricerca che non può mai prescindere da come le persone si rappresentino il loro essere/ non essere religiose, e quindi la ricerca esige di svolgersi con le persone interpellate, piuttosto che su di loro. In ultima analisi, l’interesse per la religiosità è un interesse per la persona umana. Pensiamo che di ogni essere umano si possa ancora dire, con le parole di Aiken: “Io, pastore e cacciatore di stelle, che non seppi catturare il segreto di me stesso…”. Ma si può sempre riprovare…

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Una lettura teologica del senso religioso ERIO CASTELLUCCI1

La nozione di “senso religioso”, notoriamente polisemantica2, ha attirato i riflettori della ricerca teologica specialmente in relazione a tre dei suoi possibili significati.

1. “Senso religioso” come a-priori antropologico La nozione, in questo primo significato così ampio da comprendere anche i due successivi, esprime l’apertura naturale, tipica ed esclusiva dell’uomo, alla totalità di senso dell’esistenza, alla “felicità”; il “senso religioso” è la naturale ricerca di pienezza che da sempre caratterizza l’esperienza e la ragione dell’uomo. La teologia ha letto in due maniere molto diverse questo fenomeno, che fanno capo alla tradizione protestante e a quella cattolica, intese entrambe nel senso più classico possibile ossia, rispettivamente, secondo il pensiero di Lutero e di Tommaso d’Aquino. a) La tradizione protestante-luterana La tradizione protestante, inaugurata da Lutero, ha visto nel “senso religioso” naturale un dato sostanzialmente illusorio e negativo. La natura umana, con il peccato originale, è distrutta e incapace di qualunque 1

Relazione presentata al Convegno “Religiosità e proecssi educativi: un incontro multidisciplinare”, Bologna 26-28 aprile 2012. 2 Cfr. M.T. MOSCATO, Una ricerca multidisciplinare su senso religioso e religiosità, in «Parola e Tempo», 10 (2011), pp. 167-170.

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operazione positiva; l’uomo aspira inutilmente ad una pienezza di senso e questa aspirazione lo porta lontano dal significato dell’esistenza, che può essere trovato solo nella croce di Cristo, passando attraverso la “disperazione” e il senso del peccato. Il significato della vita, quindi, va cercato e trovato in discontinuità rispetto alla spinta verso la felicità che ciascuno avverte naturalmente in sé. Solo poche volte – e quasi tutte nel 1518 – Lutero parla della theologia crucis, contrapposta alla theologia gloriae3. E tuttavia, anche se sporadica, questa prospettiva è una buona cifra complessiva della teologia luterana. Per Lutero Dio non si trova seguendo la traiettoria della ragione, che inevitabilmente condurrebbe ad un Essere supremo glorioso e potente, capace di imprimere le sue tracce nella natura; ma questo per Lutero è il Dio di Aristotele, non il Dio di Gesù Cristo. Il Dio cristiano si rivela sempre nella croce: “in Cristo crocifisso è la vera teologia e conoscenza di Dio”4; “solo la croce è la nostra teologia”5. Quando l’uomo sperimenta la sua incapacità di arrivare a Dio con le forze della ragione e della volontà e tocca il lembo della disperazione, Dio si rivela; non esiste alcuna continuità tra forze naturali umane e rivelazione divina. Non esiste dunque alcun autentico “senso religioso” nella natura umana; di autenticamente “religioso” esiste solo la rivelazione in Cristo. Dio non è riconoscibile nella creazione, ma solo nella croce: egli si manifesta nella “assenza”, “sub contrario”6 o “sub contrariis”7, è il “Deus absconditus”8, che si rivela non nella potenza della gloria ma nell’impotenza dell’incarnazione9 e della croce. b) La tradizione cattolico-tomista La tradizione cattolica, sintetizzata in modo particolarmente felice da San Tommaso, ha visto nella ricerca di significato da parte dell’uomo un primo passo verso la scoperta della felicità. La grazia, per Tommaso, 3

Cfr. WA (= Weimarer Ausgabe, Dr. Martin Luthers Werke, 120 voll., Weimar 18832005) 1,354,28; 1,613,22; 57,79,20. 4 WA 1,362. 5 WA 5,176,32-33. 6 WA 4,449. 7 WA 4,42. 8 WA 56,392. 9 WA 4,7.

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non distrugge la natura, ma vi si innesta e la porta a pienezza. È questa la prospettiva riassunta in uno dei passaggi più famosi del grande teologo: “gratia non tollit naturam, sed perficit”10. Per Tommaso, infatti, la natura umana dopo il peccato originale non è interamente corrotta, ma solo ferita. Perciò la legge naturale e i principi morali che ne derivano non sono distrutti dalla caduta, ma sono solamente distorti, per cui occorre la grazia perché possano essere riconosciuti. La natura umana conserva dunque anche dopo la caduta una certa integrità, tale da custodire la dignità dell’uomo come “persona”: infatti l’essere umano caduto è ancora in grado di pensare, volere, lavorare, scrivere, produrre arte e letteratura, e così via11. Quello di Tommaso non è comunque un ottimismo assoluto, perché l’uomo rimane per lui impotente rispetto al fine ultimo, ossia il conseguimento delle virtù teologali necessarie alla salvezza; per queste necessita – come si è detto – la grazia12. Questo equilibrio è stato fatto proprio dalla dottrina sul peccato originale del Concilio di Trento e da tutta la dottrina cattolica successiva. Basterà citare il seguente passaggio riassuntivo del Catechismo della Chiesa Cattolica: «Anche dopo aver perduto la somiglianza con Dio a causa del peccato, l’uomo rimane ad immagine del suo Creatore. Egli conserva il desiderio di colui che lo chiama all’esistenza. Tutte le religioni testimoniano questa essenziale ricerca da parte degli uomini»13. Per Tommaso, dunque, che cosa può raggiungere l’uomo con le sue forze naturali? Può arrivare alla felicità, ossia alla realizzazione della propria esistenza? Nel grande teologo permane a questo proposito una certa tensione tra due linee di pensiero non perfettamente coincidenti. Da una parte, infatti, egli afferma che solo la visione beatifica può realizzare completamente la felicità dell’uomo14; e dall’altra che la felicità piena è strettamente connessa alle esigenze e alle forze della natura

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S.Th. I, q. 1, a. 8, resp. 2. Cfr. S.Th. I-II, q. 109, a. 2. 12 Cfr. S.C.G. III, cc. 159-160. 13 CCC 2566. 14 Cfr. S.Th. I,12,1; I-II3,8. 11

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umana15. Di qui entrambe le linee seguite dagli interpreti di Tommaso: una che si potrebbe definire estrinsecista, e che giunge fino alla erronea attribuzione a Tommaso del concetto di “natura pura”; e l’altra che si può chiamare intrinsecista e che fa leva sull’affermazione del “naturale desiderium videndi Deum”16, una delle espressioni che meglio si avvicina al concetto di “senso religioso” nell’accezione ampia che stiamo esplorando. Si deve a H. de Lubac il chiarimento di questa vicenda17: nei suoi scritti sul Soprannaturale, egli dimostra che la teoria moderna della “natura pura” non si può attribuire a Tommaso, ma compare con Dionigi il Certosino (1402-1471), secondo il quale una conoscenza puramente naturale di Dio potrebbe riempire il desiderio umano di felicità; ne deriva che l’intervento della grazia non aggiunge elementi essenziali, ma in definitiva superflui e marginali. Il clima rinascimentale di esaltazione di un’umanità intesa in senso naturalistico, “etsi Deus non daretur”, favorisce il diffondersi della teoria della “natura pura” e la sua erronea riconduzione a Tommaso, specialmente ad opera del suo commentatore Gaetano (1469-1534). De Lubac dimostra che nel pensiero dell’Aquinate esiste nella natura umana, creata per un fine ultimo soprannaturale, un “naturale desiderium videndi Deum”, che non può essere colmato da alcun altro fine minore. La gratuità del soprannaturale, osserva de Lubac, può essere salvata anche ammettendo questo “naturale desiderium videndi Deum”, cioè ammettendo che nella natura, in questa concreta e storica natura, destinata di fatto alla visio Dei, sia stato inserito da Dio stesso non il soprannaturale, ma il desiderio del soprannaturale. Solo così viene garantito, senza confondere i piani, quel “ponte” tra ambito umano e cristiano, i quali altrimenti risulterebbero estrinsecamente giustapposti. c) La riflessione cattolica contemporanea Oggi la teologia cattolica si mantiene generalmente su questo tema 15

Cfr. S.Th. I,12,4-5; I-II 5,5; I-II 62; I-II 109. Cfr. S.Th. I-II, q. 3, a. 8; S.C.G. III, cc. 25,50; In Ev. Matth., Cap. 5, In Ev. Joh. I, Lect. X,I9. 17 Cfr. in particolare H. DE LUBAC (1965), Il mistero del Soprannaturale, trad. it., Milano, Jaca Book, 1978. 16

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nella linea tomista, seppure da sponde anche molto diverse tra di loro (es. Guardini, Montini, Giussani, Daniélou, Rahner, Benedetto XVI…). Qui diamo solo qualche esempio della riflessione di Montini, Giussani e Benedetto XVI18. A don Luigi Giussani si deve principalmente la diffusione della categoria di “senso religioso” nella prima generale accezione che stiamo esaminando. Giussani lanciò la riflessione alla fine del 1957, sull’onda della Lettera pastorale dell’allora card. Montini all’arcidiocesi di Milano durante la Quaresima di quell’anno e intitolata proprio Sul senso religioso19. Così si esprimeva il futuro Paolo VI: «Crediamo che la questione religiosa contemporanea vada principalmente studiata e risolta su questo piano, quello del senso religioso. Perché ove questo mancasse, che varrebbe la nostra religione esteriore? […]. È questo un punto capitale, a nostro avviso, per l’età in cui viviamo. Riportiamo perciò l’attenzione sopra il senso religioso, perché, sebbene esso non sia ancora religione, ne costituisce tuttavia la base soggettiva, senza la quale o la religione rimane esteriore, formalista, inoperosa e fragile – pericolo di ieri e di sempre – ovvero essa cade addirittura – pericolo di oggi». Montini definisce il senso religioso come «apertura dell’uomo verso Dio, l’inclinazione dell’uomo verso il suo principio e verso il suo ultimo destino; l’avvertenza indistinta, balenata intuitivamente alla sua coscienza, del proprio essere dipendente e responsabile; il pronunciamento informe e naturale dell’anima circa il proprio arcano rapporto verso l’Essere supremo; il nativo gesto della natura umana in atteggiamento di adorazione e di supplica; l’esigenza dello spirito verso un Infinito personale, come dell’occhio verso la luce, del fiore verso il sole». Giussani sviluppa e articola liberamente gli spunti di Montini, non solo nello scritto del 1957 ma in molti altri successivi. Nel primo scritto 18 Per accostare il pensiero su senso religioso degli altri autori menzionati, cfr. E. Diaco, Il valore della domanda di fronte al mistero di Dio. Senso religioso e percorsi teologici, in «Parola e Tempo», 10 (2011), pp. 209-220. 19 La Lettera pastorale di Montini è stata recentemente ripubblicata insieme al primo scritto di Giussani sul senso religioso: G.B. MONTINI, “Sul senso religioso. Lettera pastorale all’arcidiocesi ambrosiana per la Quaresima 1957”, in G.B. MONTINI, L. GIUSSANI, Sul senso religioso, Milano, Rizzoli, 2009, pp. 46-76. La Lettera pastorale si può inoltre scaricare dal sito dell’arcidiocesi di Milano, a questa pagina: www.chiesadimilano.it/polopoly_fs/1.24426.1307529606!/menu/standard/file/1957_Montini_Lett_Past.pdf.

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così definiva il senso religioso: «qualcosa che ci è dato con la nostra stessa esistenza, fa parte del dono dell’essere, è un elemento della struttura stessa della nostra natura»20. Nel saggio Il senso di Dio e l’uomo moderno così si esprimeva: «Il senso religioso sorge con l’emergenza, in quelle domande, di un aggettivo molto importante: qual è il senso esauriente dell’esistenza? Qual è il significato ultimo della realtà? Per che cosa in fondo vale la pena di vivere?»21. «Il senso religioso, quindi, coincide con quel senso di originale, totale dipendenza che è l’evidenza più grande e suggestiva per l’uomo di tutti i tempi, comunque sia stata tradotta, nella fantasia primitiva o nella coscienza più evoluta e pacata dell’uomo civile»22. Nel volume All’origine della pretesa cristiana, offre questa definizione di senso religioso: «quella natura originale dell’uomo per cui egli si esprime esaurientemente in domande “ultime”, cercando il perché ultimo dell’esistenza in tutte le pieghe della vita e in tutte le sue implicazioni»23. Nell’ultima edizione dello scritto sul senso religioso, Giussani così lo descrive: «la capacità che la ragione ha di esprimere la propria natura profonda nell’interrogativo ultimo»24. Benedetto XVI, nell’udienza generale del 11.05.2011 dedicata alla preghiera, inserisce questo lungo passaggio sul “senso religioso”, che in un certo senso riassume tutti gli elementi fondamentali della nozione intesa nella prima larga accezione: L’uomo è per sua natura religioso, è homo religiosus come è homo sapiens e homo faber […]. L’immagine del Creatore è impressa nel suo essere ed egli sente il bisogno di trovare una luce per dare risposta alle domande che riguardano il senso profondo della realtà; risposta che egli non può trovare in se stesso, nel progresso, nella scienza empirica. L’homo religiosus non emerge solo dai mondi antichi, egli attraversa tutta la 20 L. GIUSSANI, Il senso religioso, in G.B. Montini, L. Giussani, Sul senso religioso, Milano, Rizzoli, 2009, pp. 77-127; qui p. 81. 21 ID., Il senso di Dio e l’uomo moderno. La “questione umana” e la novità del cristianesimo, Milano, Rizzoli, 1994, pp. 11-12. 22 Ivi, p. 14. 23 ID., Il senso religioso. Volume primo del PerCorso, Milano, Rizzoli, 1997, p. 74. 24 ID., All’origine della pretesa cristiana, Milano, Rizzoli, 2011, pp. 3-4. Per ulteriori approfondimenti del pensiero di Giussani sul senso religioso, cfr. R. GABBIADINI, Il senso religioso. Alcuni autori di riferimento, in «Parola e Tempo», 10 (2011), pp. 171-183.

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storia dell’umanità. A questo proposito, il ricco terreno dell’esperienza umana ha visto sorgere svariate forme di religiosità, nel tentativo di rispondere al desiderio di pienezza e di felicità, al bisogno di salvezza, alla ricerca di senso. L’uomo “digitale” come quello delle caverne, cerca nell’esperienza religiosa le vie per superare la sua finitezza e per assicurare la sua precaria avventura terrena. Del resto, la vita senza un orizzonte trascendente non avrebbe un senso compiuto e la felicità, alla quale tendiamo tutti, è proiettata spontaneamente verso il futuro, in un domani ancora da compiersi […]. L’uomo sa che non può rispondere da solo al proprio bisogno fondamentale di capire. Per quanto si sia illuso e si illuda tuttora di essere autosufficiente, egli fa l’esperienza di non bastare a se stesso. Ha bisogno di aprirsi ad altro, a qualcosa o a qualcuno, che possa donargli ciò che gli manca, deve uscire da se stesso verso Colui che sia in grado di colmare l’ampiezza e la profondità del suo desiderio. L’uomo porta in sé una sete di infinito, una nostalgia di eternità, una ricerca di bellezza, un desiderio di amore, un bisogno di luce e di verità, che lo spingono verso l’Assoluto; l’uomo porta in sé il desiderio di Dio.

2. “Senso religioso” come ricerca implicita o esplicita del “sacro” In questo secondo significato, che approfondisce una delle implicazioni del primo, la nozione esprime l’apertura ad una realtà che è “di più” rispetto alla natura e alle sue promesse di realizzazione e di pienezza; una realtà che la storia delle religioni e la teologia definiscono genericamente “il sacro”. Si tratta di quella accezione bene espressa da Ada Prisco: «una qualità innata predisponente a percepire e concepire in qualche modo il divino»25. La teologia si è cimentata con la ricerca del “sacro” da parte dell’uomo a partire da diverse prospettive; ne cogliamo tre, che appaiono particolarmente incisive nel discorso teologico.

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A. PRISCO, L’oltre del senso religioso nel dialogo fra le religioni, in «Parola e Tempo», 10 (2011), pp. 196-208; qui p. 196.

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a) Teologia e scienza delle religioni di fronte alla tesi proiettiva L. Feuerbach inquadra l’apertura religiosa dell’uomo nella dinamica della proiezione: non è Dio ad avere creato l’uomo, ma l’uomo ad essersi creato Dio26. Il “senso religioso” altro non è che la proiezione esteriore del desiderio di infinito che c’è nel cuore dell’uomo. Dio non è altro che l’uomo liberato dai limiti dell’individuo ed oggettivato, cioè contemplato come se fosse un altro essere, distinto dall’uomo; tutti gli attributi del Dio cristiano sono in realtà attributi dell’uomo: ad es. Dio è amore perfetto solo perché l’amore è la realtà più importante nella vita umana; Dio è eterno perché l’uomo è mortale mentre vorrebbe essere immortale e così via. L’essenza divina è l’essenza umana purificata e liberata dai termini dell’uomo individuale, oggettivata, cioè mirata e venerata come se fosse un’altra essenza, una essenza diversa da lui, con propri caratteri – tutte le determinazioni dell’essenza divina sono quindi determinazioni umane. Dio è, in definitiva, il principio fantasioso della realizzazione totale di tutti i desideri umani. La religione è dunque secondo Feuerbach una forma di alienazione di carattere sovrumano; un processo di alienazione che implica l’impoverimento dell’uomo: per mettere in risalto l’infinità di questo essere l’uomo deve infatti accentuare la sua diversità da Dio e degradarsi, impoverirsi, proiettando tutte le perfezioni in Lui. Il processo di alienazione e di degradazione di se stesso ha termine solo quando l’uomo riesce a prendere coscienza di sé senza la mediazione fantastica della religione: l’uomo perciò – secondo Feuerbach – giunge a maturazione se riesce a prendere coscienza che Dio è solo una costruzione umana, trasformando la teologia in antropologia: questo fu per Feuerbach il grande compito dell’età moderna. Questa posizione è sostanzialmente già presente in modo germinale nel presocratico Senofane di Colofone, al quale dobbiamo la prima critica approfondita della mitologia omerica ed esiodea, in nome di una visione razionale della divinità. Egli critica l’antropomorfismo e il politeismo della mitologia con queste parole: «Omero e Esiodo hanno attribuito agli dèi tutto quanto presso gli uomini è oggetto di onta e di biasimo: rubare, fare adulterio e ingannarsi reciprocamente»; ma «i 26 Nella presentazione del pensiero di L. FEUERBACH seguiamo il pensiero espresso dall’autore nel volume L’essenza del cristianesimo (1841, 1941), trad. it., Bari, Laterza, 2012.

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mortali credono che gli dèi siano nati e che abbiano abito e linguaggio e aspetto come loro»; invece «è ugualmente empio tanto sostenere che gli dèi nascono come dire che muoiono»; «ma se i buoi (e i cavalli) e i leoni avessero mani e potessero con le loro mani disegnare e fare ciò che appunto gli uomini sanno fare, i cavalli disegnerebbero figure di dèi simili ai cavalli e i buoi simili ai buoi, e farebbero corpi foggiati così come ciascuno di loro è foggiato»; per lo stesso motivo «gli Etiopi dicono che i loro dèi sono camusi e neri, i Traci che sono cerulei di occhi e rossi di capelli»27. È difficile immaginare una critica più penetrante e “razionale” agli dèi del mito. La tesi del senso religioso come “proiezione” è stata valutata dai teologi in tre diverse maniere. In primo luogo come una tesi sostanzialmente vera per le religioni, cristianesimo compreso. È questa la prospettiva percorsa da alcuni “modernisti” – caduti nel «rischio che una vaga religiosità naturale assorbisse in sé il cristianesimo»28 – e rappresentata con particolare perspicacia da A. Loisy, la cui parabola personale come è noto, passando attraverso la scomunica, sfocia in una sorta di “deismo”. Il punto d’arrivo della riflessione di Loisy è così descritto da uno dei maggiori studiosi del modernismo, E. Poulat: «Il dogma è di essenza religiosa, fuori delle prese della storia, la quale, per converso, urta contro la teologia. La teologia cristiana, in fondo, è stata vittima di un equivoco a cui non è sfuggita la civiltà che l’ha prodotta. Poiché il suo oggetto è lo svolgimento della religione, cioè una storia religiosa che va dalle origini alla consumazione dei secoli, essa si è piegata a materializzare delle rappresentazioni simboliche sotto una forma di eventi che non resiste a un esame di un qualche rigore»29. In effetti Loisy approdò, già nel 1907, ad una concezione “simbolica” del cristianesimo, assimilato semplicemente al fatto religioso universale: «il dogma della divinità di Gesù non è mai stato e non è altro che un simbolo, più o meno perfetto, 27

Cfr. G. GIANNANTONI (a cura di), I Presocratici. Testimonianze e frammenti, Bari, Laterza, 1986, 21 B 11, p. 171; B 14, p. 172; A 12, pp. 150-151; B 15, p. 172; B 16, p. 172. 28 E. DIACO, Il valore della domanda di fronte al mistero di Dio. Senso religioso e percorsi teologici, in «Parola e Tempo», 10 (2011), pp. 209-220; qui p. 211. 29 E. POULAT, Storia, dogma e critica nella crisi modernista, Brescia, Morcelliana, 1967, p. 115.

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destinato a significare il rapporto che unisce Dio all’umanità, personificata in Gesù»30. Non è dunque il dogma a rappresentare il criterio della morale ma, al contrario, il valore di una dottrina si misura sulla sua efficacia morale31. Negli anni che seguono, fino alla morte (nel 1940), Loisy sembra oscillare tra deismo, agnosticismo, panteismo e ritorno alla fede cristiana32. La tesi proiettiva di Feuerbach è stata interpretata dalla teologia, in secondo luogo, come tesi vera per le religioni, ma non per il cristianesimo che non è una religione. Alcuni teologi ritengono che la differenza tra cristianesimo e religioni sia di tipo qualitativo: le religioni esprimono il “senso religioso” come proiezione del desiderio di infinito presente nel cuore umano; il cristianesimo pur innestandosi su questo desiderio, percorre una vita diversa, anzi inversa: è risposta a Dio che si rivela; non dal basso all’alto, ma dall’alto al basso è il primo movimento della fede cristiana. La riflessione di J. Daniélou sul rapporto tra cristianesimo e religioni ha fatto scuola. La diversità tra rivelazione naturale e soprannaturale, per lui, risulta netta: la prima passa attraverso il cosmo e plasma, di fatto, una religiosità sul modello greco; la seconda passa attraverso la storia e plasma la fede cristiana. Sarà sufficiente richiamare le idee che Daniélou propone nel primo capitolo di Dieu et nous, un fortunato libro del 1956 che riprende e riassume i tratti salienti delle sue ricerche. All’inizio della riflessione egli osserva che molti oggi non percepiscono alcuna distinzione qualitativa tra il cristianesimo e le altre religioni, vedendo in tutti questi fenomeni «delle forme diverse della “unità trascendentale” della religione»33. Queste tesi evoluzionistiche e sincretistiche, diffuse a partire dalla fine dell’Ottocento, sono per lui inaccettabili: «il cristianesimo e il giudaismo non sono manifestazioni di una evoluzione immanente del genio religioso dell’umanità, di cui non sarebbero se non espressioni relativamente superiori. Sono interventi nella storia del Dio trascendente, che introduce l’uomo in un ambito per lui radicalmente 30 A. LOISY, Quelques lettres sur des questions actuelles et sur des événements récents, Paris, Nourri, 1908, p. 150. 31 Cfr. ivi., pp. 78-79. 32 Per una documentazione delle varie fasi attraversate dalla fede di Loisy, cfr. R. DE BOYER DE SAINTE SUZANNE, Alfred Loisy. Entre la foi et l’incroyance, Paris, Du Centurion, 1968. 33 J. DANIÉLOU, Dieu et nous, Paris, Bernard Grasset, 1956, p. 14.

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inaccessibile»34. Anche fuori del cristianesimo, certo, vi sono geni religiosi ed esperienze religiose ricche, dato che l’atteggiamento religioso è un dato antropologico: però ciò che salva non è l’esperienza religiosa, ma la fede nella parola di Dio. «La Provvidenza di Dio si estende dunque a tutte le razze. E attraverso questa Provvidenza tutti gli uomini possono pervenire a conoscerlo. Ma essi cercano a tentoni, senza l’appoggio della rivelazione positiva. E questo perché le loro idee su di lui sono incerte e confuse»35. Il loro approccio a Dio è mediato quasi esclusivamente dai ritmi della natura: «è degno di nota che la base delle religioni pagane sia in effetti la conoscenza di Dio attraverso i ritmi della natura, che si esprime liturgicamente nel ciclo delle feste stagionali»36. Questa rivelazione cosmica, di cui le religioni pagane sono altrettante espressioni, è in ogni caso una rivelazione imperfetta ed incompleta. La rivelazione mosaica e la rivelazione cristiana la sorpassano infinitamente: le religioni non cristiane rappresentano quindi momenti già sorpassati nella storia della rivelazione. Tra i non pochi teologi che hanno seguito e continuano a seguire l’impostazione di Daniélou, ricordiamo almeno G. Biffi, che ha sempre ribadito l’irriducibilità del cristianesimo alla categoria di “religione”. «I1 Cristianesimo, in sé, non è una concezione della realtà, non è un codice di precetti, non è una liturgia. Non è neppure uno slancio di solidarietà umana, né una proposta di fraternità sociale. Anzi, il Cristianesimo non è neanche una religione. È un avvenimento, un fatto. Un fatto che si compendia in una persona. Oggi si sente dire che in fondo tutte le religioni si equivalgono perché ognuna ha qualcosa di buono. Probabilmente è anche vero. Ma il Cristianesimo, con questo, non c’entra. Perché il Cristianesimo non è una religione, ma è Cristo. Cioè una persona»37. Un terza linea interpretativa ritiene la tesi proiettiva incapace di cogliere le origini del fenomeno di ricerca del sacro e del religioso, in quanto non spiega come da un essere totalmente chiuso nel mondo contingente possa formarsi il concetto di infinito (cfr. Otto), o come il sacro 34

Ibid. Ivi, p. 19. 36 Ivi, p. 20. 37 G. BIFFI, Gesù Cristo unico Salvatore del mondo, Torino, LDC, 1996, pp. 5-6. 35

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“cristiano” rivesta caratteristiche completamente diverse rispetto al “sacro” in generale (cfr. Eliade). Uscito nel 1917, Il Sacro di R. Otto38 riconduce il “senso del sacro” al “senso religioso”; infatti per Otto il senso del sacro nasce dal “sentimento di essere creatura”39 o “sentimento creaturale”40: questa categoria indica per lui ciò che noi chiamiamo “senso religioso”. Il sentimento creaturale coglie al di sopra dell’uomo una realtà “numinosa”, misteriosa, che ha la doppia caratteristica del “tremendo” e del “fascinoso”, sviluppandosi il primo nella linea della giustizia e il secondo in quella della misericordia e destando rispettivamente, nello stesso tempo, timore e attrazione. Otto combatte l’idea che il “sentimento creaturale” possa originare evoluzionisticamente dall’esperienza umana, come semplice prodotto proiettivo delle aspirazioni dell’uomo. Sarebbe infatti del tutto impossibile “organizzare” i dati esperienziali se già nell’uomo non vi fosse, a priori, una facoltà in grado di farlo compiendo così il salto dall’esperienza profana al sacro. Scrive Otto che il numinoso erompe dalla più profonda radice conoscitiva dell’anima stessa, senza dubbio non prima e non senza incitamenti e stimoli di dati e di esperienze empirici e sensibili, bensì in essi e frammezzo ad essi. Non emana da essi però: solo ha in essi il proprio mezzo. Essi rappresentano lo stimolo e le “occasioni” perché il numinoso si delinei, e delineatosi si incorpori, inizialmente con una certa ingenua immediatezza di reazioni, e si innesti sul mondo empirico sensibile e purificandosi a poco a poco lo elimini da sé e giunga perfino ad opporsi addirittura a esso. La prova che nel numinoso noi abbiamo a che fare con un momento conoscitivo puramente a priori, deve ricercarsi mercè l’introspezione e la critica della ragione. Noi troviamo soggiacenti in esso credenze e sentimenti sostanzialmente differenti da tutto ciò che la percezione sensibile “naturale” è capace di darci, credenze e sentimenti che nulla hanno a che vedere con le conoscenze empiriche, ma rappresentano peculiari interpretazioni e valutazioni, prima di dati sensibili e poi, ad 38

R. OTTO (1917), Il Sacro. L’irrazionale nell’idea del divino e la sua relazione al razionale, trad. it., Milano, Feltrinelli, 19925. 39 Ivi, p. 22. 40 Ivi, p. 31.

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un livello più alto, posizioni di oggetti e di essenze, le cui forme sono prodotti evidenti della fantasia, ma con peculiare significato e che per se stesse non appartengono più al mondo dell’esperienza empirica, bensì per mezzo del pensiero lo completano e lo trascendono. E poiché non sostituiscono affatto percezioni sensibili, non ne rappresentano neppure delle “trasfigurazioni” […]. Si riportano pertanto, come appunto “i concetti puri” dell’intelligenza di Kant e le idee e i giudizi di valore dell’etica o dell’estetica, ad una riposta scaturigine autonoma di nozioni e di sentimenti, che giace nello spirito, indipendente dalla percezione sensibile, ad una “ragione pura” cioè nel più profondo significato del termine, la quale, a causa della trascendentalità del suo contenuto, esige di essere distinta così dalla pura ragione teoretica come da quella pratica di Kant, come qualcosa di esse più alto e più profondo. Il buon diritto anche della odierna teoria evoluzionistica sussiste nel fatto che essa pretende “spiegare” il fatto religioso. E questo è infatti il compito della scienza delle religioni. Ma per poter spiegare, occorre pure avere a propria disposizione dei dati originari da cui possa ricavarsi la spiegazione. Dal nulla, nulla si chiarisce41.

Otto avanza poi un paragone tra il senso religioso e il senso estetico: quando un oggetto viene riconosciuto per “bello” o quando viene riconosciuto per “orribile”, pure i due casi convengono in questo: che io attribuisco all’oggetto un predicato, (cioè un predicato specificativo) che non mi viene conferito dalla esperienza sensibile, né me ne può venire e che io piuttosto gli assegno spontaneamente in virtù di un mio proprio giudizio. Palpabilmente io scopro nell’oggetto tanto per quello bello che per l’orribile solamente le sue qualità sensibili e la sua forma spaziale, null’altro. Che ad esso, in questo e per questo, vada assegnato quel particolare connotato che io esprimo col vocabolo “bello” oppure che un simile connotato si dia comunque, non è cosa che quei momenti sensibili mi possano in alcun modo dire o dare. Io debbo avere in anticipo una oscura nozione del “bello” stesso, e poi anche un principio 41

Ivi, pp. 114-115.

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di subordinazione, in nome del quale io l’attribuisco, senza di che anche la più semplice esperienza del bello è resa impossibile. Ed è lo stesso quando io percepisco un oggetto come un “orrido”42.

Nella sua ampia analisi del senso religioso e del fatto religioso, Eliade approfondisce tra l’altro l’analisi del sacro come categoria a-priori abbozzata da Otto, arricchendola con lo studio dell’archetipo e del simbolo. Ferma restando la validità dell’analisi di Otto, egli propone di completarla con un approccio più attento alla categoria dialettica del sacro, il profano. Nel corso della sua ricerca, Eliade offre una sorta di “definizione” del senso religioso: Il desiderio dell’uomo religioso di vivere nel sacro equivale al desiderio di sistemarsi in una realtà oggettiva, di non venire paralizzato dal relativismo senza fine delle esperienze puramente soggettive, di vivere in un mondo reale ed efficiente, non nell’illusione»43. Il bisogno di una realtà oggettiva, di una stabilità, dà origine nelle diverse religioni alla concezione di uno “spazio sacro”, così illustrata da Eliade: «a) un luogo sacro costituisce un punto di rottura nell’omogeneità dello spazio; b) questa rottura è rappresentata da un’“apertura” attraverso la quale è possibile il passaggio da una regione cosmica all’altra (dal Cielo alla Terra, e viceversa: dalla Terra al mondo inferiore); c) la comunicazione con il Cielo avviene indifferentemente per mezzo di un dato numero di immagini che si identificano con l’Axis mundi: pilastro (vedi l’universalis columna), scala (vedi la scala di Giacobbe), montagna, albero, liana, ecc; d) attorno all’asse cosmico si estende il “Mondo” (= “il nostro mondo”), ragione per cui l’asse è “al centro”, nell’“ombelico della Terra”, esso è il Centro del Mondo. Da questo “sistema del Mondo” tradizionale derivano, in numero considerevole, credenze, miti, riti vari44.

Il senso religioso è una profonda “nostalgia” del mondo divino, che porta l’uomo a desiderare uno spazio e un tempo sacri: «L’uomo religioso ha una profonda nostalgia del “mondo divino”, di avere una casa 42

Ivi, p. 132. M. ELIADE, Il sacro e il profano, trad. it., Torino, Boringhieri, 1985, p. 24. 44 Ivi, p. 29. 43

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che assomigli alla “casa degli dèi”, rappresentata più tardi nei templi e nei santuari. Questa nostalgia religiosa, infine, esprime il desiderio di vivere in un Cosmo puro e santo, così com’era in principio quando uscì dalle mani del Creatore. L’esperienza del Tempo sacro permetterà all’uomo religioso di ritrovare periodicamente il Cosmo com’era in principio, nell’istante mitico della Creazione […]. Per l’uomo religioso il Tempo non è, più dello spazio, omogeneo e continuo. Vi sono intervalli di Tempo sacro, cioè il tempo delle feste (per lo più feste periodiche); inoltre vi è il Tempo profano, ossia la normale durata temporale di tutti quegli atti che non hanno un significato religioso. Tra questi due tipi di Tempo è chiaro che vi è soluzione di continuità; tuttavia, per mezzo dei riti, l’uomo religioso può “passare” senza alcun pericolo dalla comune durata temporale al Tempo sacro»45. Il senso religioso, o “nostalgia del divino”, colloca dunque l’uomo entro coordinate spazio-temporali che rispondono al suo desiderio di sistemarsi entro una realtà oggettiva, di non essere travolto dal tempo e dallo spazio relativi e soggettivi. A questo punto della sua indagine, Eliade rileva la diversità profonda tra le religioni bibliche e le altre religioni, che emerge soprattutto a livello del tempo: Sia rispetto alle religioni arcaiche e paleo-orientali sia rispetto alle concezioni mitico-filosofiche dell’Eterno Ritorno, così come sono state elaborate in India e in Grecia, il giudaismo rappresenta una vera e propria innovazione. Per il giudaismo il Tempo ha un principio e avrà una fine. L’idea del Tempo ciclico è superata, Jahvè non si manifesta più nel Tempo cosmico (come gli dèi delle altre religioni) bensì in un Tempo storico irreversibile. Qualsiasi nuova manifestazione di Jahvè nella storia non è più riducibile a una manifestazione precedente. La caduta di Gerusalemme è l’espressione della collera di Jahvè contro il suo popolo, ma non è la stessa collera che Jahvè aveva dimostrato con la caduta di Samaria. I suoi gesti sono interventi personali nella Storia, e rivelano il loro profondo significato solo nei confronti del suo popolo, il popolo che Jahvè aveva scelto. L’evento storico assume a questo punto una nuova dimensione: diventa una teofania. Il cristianesimo va oltre 45

Ivi, pp. 46-47.

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nella valorizzazione del Tempo storico. Per il fatto che Dio si è incarnato assumendo un’esistenza umana storicamente condizionata, la storia è suscettibile di santificazione […]. Il cristiano contemporaneo che partecipa al Tempo liturgico, si riallaccia all’illud tempus in cui Gesù è vissuto, morto e risuscitato, tuttavia non si tratta più di un Tempo mitico, ma del Tempo in cui Ponzio Pilato governava la Giudea. Anche per il cristiano il calendario sacro riprende all’infinito gli eventi dell’esistenza del Cristo, ma questi eventi hanno avuto il loro svolgimento nella storia; non sono più fatti accaduti in origine, “in principio” […]. In breve, la Storia è la nuova dimensione della presenza di Dio nel mondo. La storia ridiventa la Storia Sacra, così come è stata concepita ma con una prospettiva mitica, nelle religioni arcaiche e primitive46.

b) La teologia di fronte alle scoperte della paleoantropologia In ogni caso, questa apertura al “sacro” appartiene all’uomo da quando esso si può definire tale: l’homo sapiens è inscindibilmente homo religiosus. In quest’ottica, la teologia è interessata alle ricerche della paleoantropologia. Studiosi contemporanei come J. Ries, Y. Coppens e F. Facchini, tra gli altri, hanno svolto delle indagini molto approfondite sulle origini dell’uomo, in rapporto anche al fenomeno religioso, riscontrando la connessione tra il “senso religioso” e la nozione stessa di “uomo”. Le tracce del simbolismo, riscontrabili in alcuni ritrovamenti fossili, indicano che siamo in presenza dell’“uomo”. Facendo riferimento anche alle ricerche del paleoantropologo Y. Coppens, J. Ries rileva in momento nel quale, durante il cammino dell’evoluzione umana, «l’uomo affida a un oggetto, o alla rappresentazione di un oggetto, il carico di un’idea. Così i segni, gli utensili simmetrici, la scelta del materiale e dei colori ci mostrano l’emergere dell’homo symbolicus. Scoperte simili provenienti dalla paleontologia e dalla paleoantropologia, sono cariche di felici conseguente per lo studio dell’homo religiosus. La documentazione raccolta consente di affermare che l’homo erectus era già un homo symbolicus […]. “Egli sa che sa”. Ha coscienza d’essere creatore. Non cesserà più di creare e di estendere il proprio territorio. Con la riflessione della coscienza appa46

28

Ivi, pp. 72-73.


re l’angoscia dell’esistenza. L’uomo sembra già porsi il problema della propria origine e del proprio destino»47. Il paleoantropologo F. Facchini pone la questione in termini molto precisi: «il problema è di vedere se il senso religioso e del sacro sia riferibile alla struttura originaria dell’esperienza umana o sia il prodotto di scelte culturali rese necessarie o comunque suggerite in una società via via più evoluta e complessa»48. Per Facchini «i presupposti essenziali per il simbolismo e il senso religioso sono presenti dove ci sono segni di un’attività astrattiva, di uno psichismo riflesso»49. La scarsità di documentazione sulla preistoria, che portava a ricostruire le origini della religione in modo ipotetico o arbitraria, è stata in parte colmata dalle scoperte degli ultimi decenni, relative specialmente alle pratiche funerarie e alle rappresentazioni artistiche. Disponiamo oggi di documenti sulle sepolture praticate già dai Neandertaliani, centomila anni fa, che dimostrano la presenza della domanda sul significato della morte e su un’eventuale vita oltre la morte50; sono state inoltre ritrovate molte testimonianze di pitture rupestri, che denotano la capacità di un pensiero astratto e simbolico, a partire da oltre trentamila anni fa. Ciò però non significa che anche prima non potessero sussistere forme di pensiero astratto, che denotano l’autocoscienza. E nel momento in cui ha avuto coscienza di sé, l’uomo non può non aver percepito la sua differenza rispetto agli altri esseri che gli erano attorno, non può non essersi posto domande su di sé e sulla realtà esterna. Ora, 47 J. RIES, L’uomo religioso e il sacro alla luce del nuovo spirito antropologico, in J. Ries (a cura di), Le origini e il problema dell’homo religiosus, Milano, Jaca Book - Massimo, 1989, p. 51. 48 F. FACCHINI, L’emergenza dell’homo religiosus. Paleoantropologia e paleolitico, in ivi, p. 141. 49 Ivi, p. 148. 50 «Probabilmente non ogni seppellimento aveva un effettivo contenuto mistico-religioso, così come non ogni sepoltura moderna può indicarlo […]. Ma il sentimento religioso può ritenersi presente quando, oltre all’attenzione verso il defunto, ci troviamo in presenza di documenti che hanno evidente contenuto simbolico, come trofei e parti di animali, selci, conchiglie, sostanze colorate, ecc., rimandano a credenze in forze ed entità che trascendono i bisogni vitali immediati […]. A noi sembra che, anche se non possiamo stabilire a quali convinzioni religiosi fosse legata la fede nell’“aldilà”, già con i Neandertaliani si osserva un comportamento che ha attinenza con il sacro e rimanda a una sfera soprannaturale» (ivi, pp. 155-156).

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quando emerge questa coscienza, c’è già la capacità di stupirsi di fronte alla volta del cielo e al movimento degli astri o a un tramonto infuocato o alle folgori che solcano il cielo o alla lava incandescente di un vulcano. E accanto allo stupore, la percezione di qualcosa che sovrasta e trascende l’uomo, di fronte alla quale egli si sente impotente o di cui ignora la natura. Sono questi sentimenti che ispirano il senso del sacro, cioè il riconoscimento e l’appello a forze superiori, comunque possano identificarsi, anche in forme mitiche o magiche51.

L’arte paleolitica rappresenta un campo affascinante per gli antropologi; le pitture rupestri, in particolare, sono oggetto di svariate teorie interpretative. È difficile negare una valenza anche religiosa a queste pitture. Le grotte possono ben considerarsi i “santuari” della preistoria nei quali i grandi artisti dell’epoca ci hanno lasciato soltanto alcuni frammenti della loro vita interiore e sociale. Alla religiosità cosmica, che l’uomo aveva ereditato dalle epoche precedenti, si aggiunge forse una nota più naturalistica e anche sociale, che idealizza e trascende le immediate esigenze biologiche. Non dobbiamo dimenticare che l’uomo che ha affrescato le caverne del Paleolitico superiore è quello che seppellisce i suoi morti e guarda all’oltretomba con timore misto forse a speranza52.

Facchini può così concludere la sua analisi affermando: «L’emergenza dell’homo religiosus non è un evento tardivo nella preistoria. Il senso del sacro appare piuttosto una dimensione costitutiva dell’essere umano nel suo atteggiamento di fronte a realtà e forze più grandi di lui e si ricollega alla capacità di pensiero e comunicazione simbolica, antica quanto l’uomo»53.

51

Ivi, pp. 149-150. Ivi, p. 162. 53 Ivi, p. 164. 52

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c) La teologia di fronte al “sacro impazzito” G. Filoramo nota con acutezza come oggi l’accostamento al sacro, in molti casi, non avvenga più per rispondere al proprio senso religioso, o per trovare delle sicurezze sociali: «Oggi, infatti, è all’opera un altro modo di intendere il sacro, più rispondente alla natura post-cristiana della nostra società. Secondo questa linea interpretativa, la sacralità costituisce, in una società moderna in via di secolarizzazione, una delle modalità possibili per dare ordine e coerenza ai significati socialmente condivisi. Più precisamente, il processo di sacralizzazione scatta là dove singoli soggetti o gruppi umani, per dare senso alla loro esistenza individuale o collettiva, conferiscono a oggetti e simboli un valore assoluto (li consacrano, appunto, con ciò separandoli)»54. Sembra proprio che gran parte delle persone che tornano a rivolgersi al sacro, lo facciano in seguito al senso di frammentarietà, confusione e spaesamento oggi così diffusi, nella nostra società complessa e talvolta anonima. Per questo vengono sacralizzati dei punti di riferimento facilmente riconoscibili come elementi di sicurezza sociale: il corpo, la sessualità, il denaro, il potere; fino al desiderio di controllare e determinare gli eventi, sfuggendo così alle contrarietà e agli imprevisti, attraverso pratiche magiche, superstiziose e persino sataniche. Si possono rilevare due grandi interpretazioni teologiche relative alla sacralizzazione disordinata o impazzita: la prima, più generale, riguarda la sacralizzazione del potere, del piacere e dell’avere; la seconda, più specifica, l’incanalamento del senso religioso nella superstizione e nella magia. La teologia rileva, in primo luogo, un segnale positivo nel fenomeno della sacralizzazione disordinata, fino ad essere interpretata come una ricerca “implicita” del divino e quasi un grido verso di esso. Così Agostino, nel Libro II delle Confessioni, vede nel perseguimento della felicità sotto qualunque forma, una ricerca nascosta di Dio, il quale possiede in misura somma ogni felicità. Scrive: l’orgoglio simula l’eccellenza, mentre il solo Dio eccelso al di sopra di tutte le cose sei tu. L’ambizione a che altro aspira se non a onori e gloria, mentre tu solo sopra tutto meriti onore e gloria eterna? La crudeltà dei 54

G. FILORAMO, Le vie del sacro. Modernità e religione, Torino, Einaudi, 1994, p. 28.

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potenti mira a incutere timore; ma chi è davvero temibile se non Dio solo, al cui potere cosa si può strappare o sottrarre, e quando, dove, come, da chi? Le seduzioni delle persone lascive, poi, mirano a suscitare amore, ma nulla è più seducente della tua carità, né vi è amore più salutare di quello della tua verità, tanto è bella e splendente oltre ogni cosa. La curiosità si atteggia a desiderio di conoscenza, mentre chi conosce tutto e in sommo grado sei tu; persino l’ignoranza e la scempiaggine si coprono col nome di semplicità e innocenza, poiché si trova nulla più semplice di te e c’è cosa più innocente di te, se ai malvagi stessi nuocciono le opere loro? La pigrizia dal canto suo sembra cercare quiete, ma esiste quiete sicura senza il Signore? Il lusso vuol esser chiamato soddisfazione e copiosità di mezzi; sei tu però la pienezza e l’abbondanza inesauribile d’incorruttibili bellezze. La prodigalità si copre con l’ombra della liberalità, ma il più copioso dispensatore di ogni bene sei tu. L’avarizia aspira a possedere molto, mentre tu possiedi tutto. L’invidia disputa per eccellere, ma cosa eccelle più di te? L’ira vuole vendetta, ma quale vendetta è più giusta della tua? La pavidità trema, nella sua ricerca di sicurezza, dei pericoli insoliti e repentini che incombono sugli oggetti d’amore; a te infatti riesce qualcosa insolito, repentino? O qualcuno ti può privare degli oggetti del tuo amore? E dove si è saldamente sicuri se non al tuo fianco? La tristezza si rode per la perdita dei beni, di cui si dilettava la cupidigia, poiché vorrebbe che, come a te, così a sé nulla si potesse togliere. In queste forme l’anima pecca allorché si distoglie da te e cerca fuori di te la purezza e il candore, che non trova se non tornando a te. Tutti insomma ti imitano, alla rovescia, quanti si separano da te e si levano contro di te55.

In secondo luogo, la teologia rileva l’incompatibilità assoluta tra fede cristiana e incanalamento superstizioso del “senso religioso”: la magia e i suoi annessi si fondano sul tentativo di ingabbiare, controllare e determinare il “sacro”; la fede cristiana, al contrario, mette al centro l’atteggiamento dell’affidarsi e del consegnarsi a Dio. Magia e fede cristiana percorrono un movimento opposto. La magia, 55

AGOSTINO, Le confessioni, II, 6,13-14; trad. it. di C. CARENA, Roma, Città Nuova, 1965 (= NBA 1).

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come degenerazione del sentimento religioso, è il tentativo dell’uomo dal basso di arrivare a un controllo universale, di salire fino a sostituirsi a Dio. La fede invece è la risposta a Dio che viene verso l’uomo, gli parla e lo vuole salvare. La magia è, dunque, il tentativo di controllare gli altri, gli avvenimenti, il tempo, lo spazio, le cose. Invece la fede è il tentativo di accogliere nel miglior modo la rivelazione di Dio che si offre all’uomo amandolo. È difficile immaginare un contrasto più profondo: la magia mette le mani su Dio, la fede apre le mani per accogliere ciò che Dio dona all’uomo. La magia poi respira la logica del Fato. Sarebbe lungo inoltrarsi in questo concetto che noi ereditiamo addirittura dall’induismo e, in maniera più diretta, dal mondo greco; il fato è una sorta di volontà impersonale che decide tutto. La magia dovrebbe infiltrarsi nel fato e cercare di volgerlo a proprio favore. Invece la teologia respira la logica della Provvidenza. Provvidenza non significa che compia tutto Dio (questo sarebbe appunto il fato), ma significa che Dio attiva la libertà dell’uomo. Questo comporta un diverso atteggiamento esistenziale in chi si dà alla magia e in chi crede. La magia arriva ben presto a creare nella persona un clima di timore/terrore, perché è tutto legato a questo automatismo, che potrebbe anche non funzionare. Invece la fede crea, quando è autentica, un senso di affidamento e di liberazione. Nella magia valgono le formule; nella coltivazione della fede vale la preghiera. Le formule sarebbero delle condizioni con cui imbrigliare il sacro; la preghiera invece non pone condizioni, ma implora. Il linguaggio della magia è la condizione, il linguaggio della teologia è l’implorazione. Si potrebbe certo infiltrare una mentalità magica anche nel vivere la fede cristiana, perché non è automatico che il “senso religioso” del credente si attivi nella direzione giusta. È significativo che il CCC, al n. 2111 parli del possibile uso superstizioso dei sacramenti e degli atti di culto: «per esempio quando si attribuisce un’importanza in qualche misura magica a certe pratiche, si attribuisce alla sola materialità delle preghiere o dei segni sacramentali la loro efficacia prescindendo dalle disposizioni interiori che richiedono. In questo caso – conclude – si cade nella superstizione». La pratica superstiziosa è infatti più facile e attraente di quella della fede. 33


La teologia, in definitiva, valuta in maniera decisamente negativa l’approccio magico al sacro – per non parlare di quello satanico, che indurrebbe ad altre riflessioni eccedenti i limiti di questo contributo – e rileva che l’attivazione del “senso religioso” insito nell’uomo richiede una educazione, per non rivolgersi a questi dannosi surrogati.

3. “Senso religioso” come atteggiamento che si esprime nelle diverse tradizioni religiose Nell’ambito della “teologia delle religioni” – un cospicuo capitolo dell’attuale teologia sistematica – viene dedicata una particolare attenzione al rapporto tra il “senso religioso” espresso nelle diverse religioni e nel “cristianesimo”56. Si registrano in merito tre grandi interpretazioni, a volte intrecciate in uno stesso autore: 1) Le religioni non cristiane sono espressioni puramente “naturali” e non hanno nulla a che vedere con il cristianesimo, che è di natura “soprannaturale” o addirittura sono fenomeni empi e fuorvianti. 2) Le religioni non cristiane e il cristianesimo sono espressioni sostanzialmente equivalenti, e comunque eventualmente differenti solo per grado e non per essenza, dell’unica ricerca del “sacro” che connota l’umanità. 3) Le religioni non cristiane e il cristianesimo sono espressioni in parte omogenee e in parte disomogenee dell’unico “senso religioso” che accomuna gli uomini e li spinge a cercare Dio. Il cristianesimo non distrugge quanto di buono e di vero incontra nelle altre religioni, ma vi si innesta, lo purifica e lo porta a compimento con la rivelazione e la salvezza di Cristo. a) Incompatibilità tra cristianesimo e religioni Mentre il teologo cattolico J. Daniélou, come è emerso, ritiene che cristianesimo e religioni seguano due traiettorie inverse e pur tuttavia esistano elementi positivi, frutto di ricerca sincera, nelle religioni non cristiane, il teologo calvinista K. Barth prospetta la più netta inconcilia56 Per la documentazione puntuale di questa sezione, rimando al mio volume Annunciare Cristo alle genti. La missione dei cristiani nell’orizzonte del dialogo tra le religioni, Bologna, EDB, 2008.

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bilità tra le religioni e la fede cristiana. Merita riportare alcune righe del suo commento alla Epistola ai Romani: riferendosi a Rom 1,18 («l’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell’ingiustizia»), Barth identifica l’empietà con la religione: Questi sono i segni caratteristici della nostra relazione con Dio, come si configura al di qua della risurrezione. Essa è empia. Noi crediamo di sapere quello che diciamo, quando diciamo “Dio”. Noi gli assegniamo il posto più elevato del nostro mondo. Cioè lo poniamo in fin dei conti, sopra una stessa linea con noi e con le cose. Noi pensiamo che egli ha “bisogno di qualcuno” e pensiamo di poter regolare la nostra relazione con lui, come regoliamo altre relazioni. Noi ci spingiamo importunamente nella sua vicinanza, e lo tiriamo inavvertitamente nella nostra vicinanza. Noi ci permettiamo di avvicinarci a lui in una relazione di dimestichezza. Noi ci permettiamo di calcolare con lui come se in questo non vi fosse nulla di straordinario. Noi osiamo darci importanza come suoi confidenti, fautori, agenti, fiduciari. Noi scambiamo l’eternità col tempo. Questa è l’empietà della nostra relazione con Dio […]. L’uomo ha imprigionato e incapsulato la verità, cioè la santità di Dio, l’ha ridotta alla sua misura e così facendo l’ha privata della sua serietà e del suo peso, l’ha resa triviale, inoffensiva, inutile, l’ha trasformata in falsità. Questo verrà alla luce nella sua empietà e la sua empietà non mancherà di cadere in una sempre nuova insubordinazione. Quando l’uomo è Dio a se stesso, deve necessariamente sorgere l’idolo. E quando l’idolo è in onore, l’uomo deve per forza sentirsi il vero Dio, il creatore di questa sua creatura. Questa è la ribellione, che ci rende impossibile la visione del piano della nuova dimensione, che significa il limite del nostro mondo e la nostra salvezza. Sopra questa ribellione può rivelarsi soltanto l’ira di Dio57.

La polemica antireligiosa riesplode laddove il teologo, commentando Rom 1, 23-24 (“Essi hanno scambiato la gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile”), sostiene che l’uomo ha perduto il senso di quello che è specifico in Dio, cioè l’abis57

K. BARTH, L’Epistola ai Romani, Milano, Feltrinelli, 2002, pp. 19-21.

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sale distanza che ci separa da Lui. Tra l’uomo e il Totalmente Altro si è infiltrata la religione, cioè l’illusione che la creatura abbia la capacità di stabilire una qualche forma di unità e di alleanza con il suo Creatore, senza che Egli intervenga dall’alto, verticalmente: «L’esperienza religiosa, a qualunque grado di altezza si compia, non appena è qualche cosa di più che spazio vuoto, non appena intende essere contenuto, possesso e godimento di Dio, è la sfrontata e inetta usurpazione di ciò che può essere e diventare vero, soltanto a partire dal Dio sconosciuto. Nella sua storicità, materialità e concretezza, essa è sempre un tradimento verso Dio. Essa è la nascita del non-dio, dell’idolo»58. Questa visione teologica, così netta, non lascia alcuno spazio al dialogo tra cristianesimo e religioni, poiché non permette di rilevare nessun elemento sano, buono e vero, al di fuori della fede cristiana. La posizione di Barth, se coerentemente assunta, spinge ad una interpretazione molto stretta, di tipo rigoristico, dell’assioma “Extra Ecclesiam nulla salus” e chiude ogni accesso alla verità e alla salvezza al di fuori dell’appartenenza esplicita alla Chiesa di Cristo. b) Piena omogeneità tra cristianesimo e religioni Trattando del “senso religioso” come ricerca del “sacro” è già spuntato un riferimento al fenomeno modernista e al suo principale rappresentante, A. Loisy, che finisce per abbracciare una visione “deista”, dove la dottrina cristiana altro non è che l’espressione della dimensione religiosa e “divina” dell’uomo. Cristianesimo e religioni non sono su due piani diversi – se non magari in senso quantitativo – ma sono perfettamente omogenei tra di loro. Questa interpretazione non è però originale della riflessione di Loisy ma, come è noto, risale ad almeno due secoli prima. Il grande ideale illuminista di una “pace universale e perpetua” passava anche attraverso l’eliminazione delle differenze tra le diverse tradizioni religiose – troppo spesso fonte di conflitti e di guerre – per arrivare ad una “religione razionale”, accettabile da tutti, basata su alcune dottrine fondamentali: Dio, la libertà umana e l’immortalità dell’anima. Questo grande progetto, che verrà svolto sistematicamente nella poderosa riflessione di 58

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Ivi, p. 25.


E. Kant (1724-1804), trova una delle espressione letterarie più incisive nell’opera L’Emilio o dell’educazione (1762) di J.-J. Rousseau (17121778). Basterà richiamare, del romanzo pedagogico di Rousseau59, qualche passaggio dalla quarta parte, che inizia con la famosa “Professione di fede del vicario savoiardo”, per avere un’illustrazione fedele dell’impostazione illuministica a riguardo delle religioni. Verso la fine della sua esposizione, il vicario difende come unica religione valida quella “naturale”, che si ottiene attraverso l’esercizio della ragione e l’uso della coscienza individuale. «Di che cosa posso essere colpevole servendo Dio secondo i lumi ch’egli dà al mio spirito, e secondo i sentimenti che ispira al mio cuore? Quale purezza di morale, quale dogma utile all’uomo e onorevole al suo Autore posso io trarre da una dottrina positiva, ch’io non possa trarre senza di essa dal buon uso delle mie facoltà?»60. Che cosa aggiungono di importante, continua il vicario, le rivelazioni particolari a quella naturale? Esse, anzi, «non fanno che degradare Dio, dandogli le passioni umane. Anziché chiarire le nozioni del grande essere, vedo che i dogmi particolari le ingarbugliano; che, lungi dal nobilitarle, le avviliscono; che ai misteri inconcepibili che lo circondano aggiungono contraddizioni assurde, rendono l’uomo orgoglioso, intollerante, crudele; invece di stabilire la pace sulla terra, vi portano il ferro e il fuoco. Io mi domando a che cosa serva tutto ciò, senza sapermi dare un risposta. Non vi vedo che i delitti degli uomini e le miserie del genere umano»61. Le rivelazioni, continua il vicario, sono frutti dannosi della fantasia umana: «mi dicono che occorreva una rivelazione per insegnare agli uomini il modo con cui Dio voleva essere servito; allegano in prova la diversità dei culti stravaganti che hanno istituiti; e non vedono che questa stessa diversità proviene dalla fantasia delle rivelazioni. Appena i popoli hanno immaginato di far parlare Dio, ciascuno l’ha fatto parlare a modo suo e gli ha fatto dire quello che ha voluto. Se non si fosse ascoltato altro che ciò che Dio dice al cuore dell’uomo, non ci sarebbe stata che una sola religione sulla terra»62. Dopodiché attacca direttamen59

J.-J. ROUSSEAU, L’Emilio, in ID., Opere, trad. it., Milano, Sansoni, 1993, pp. 349-712. Ivi, p. 562. 61 Ivi, pp. 562-563. 62 Ivi, p. 562. 60

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te ogni pretesa di possedere la verità assoluta ed esclusiva da parte delle singole religioni: «non trovavo, nei dogmi della religione naturale, che gli elementi di ogni religione. Consideravo quella diversità di sette che regnano sulla terra, e che si accusano reciprocamente di menzogna e di errore; io domandavo: “Qual è la buona?”. Ciascuno mi rispondeva: “È la mia”. Ciascuno diceva: “Io solo e i miei partigiani pensiamo giustamente; tutti gli altri sono nell’errore”. “E come sapete che la vostra sètta è buona?”. “Perché Dio l’ha detto”»63. Si potrebbero citare molti altri autori, tra i quali Lessing, ma il passo di Rousseau è sufficiente a documentare l’assimilazione totale del cristianesimo al fenomeno religioso. Una versione contemporanea e più direttamente “teologica” di questa posizione è stata assunta, negli ultimi decenni, dagli autori che si riconoscono nel cosiddetto “teocentrismo” e nell’orizzonte del “pluralismo religioso”. Anche in questo caso è sufficiente menzionare il pensiero di un teologo, J. Hick, cristiano presbiteriano, che dà voce a questa posizione teologica. La sua opera più nota esplicita già nel titolo la teoria che vuole sostenere: Dio ha diversi nomi 64. Quando il volume uscì, nel 1980, Hick aveva già sperimentato quella che chiamò una rivoluzione copernicana: così come gli scienziati sostenitori della teoria tolemaica avevano escogitato i complicati “epicicli”, per non essere costretti ad ammettere che non la terra ma il sole è al centro dell’universo, i teologi cattolici, a suo parere, hanno escogitato tante complicazioni (le idee della fede implicita, del battesimo di desiderio, delle vie ordinarie e straordinarie di salvezza, dei cristiani anonimi, ecc.) per non essere costretti ad ammettere che non Cristo, ma Dio stesso è al centro della teologia. Occorrerebbe dunque passare da un cristocentrismo che ormai, a causa delle innumerevoli eccezioni, sembra non tenere più, ad un deciso teocentrismo, che ammetta l’esistenza e l’azione di un unico Spirito o Realtà divina dietro a tutte le religioni. I cristiani, così, possono bensì continuare ad aderire a Cristo come Salvatore, ma senza pretendere che sia l’unico Salvatore. La teologia neotestamentaria, a suo avviso, non porta necessariamente a concludere per il modello (o “mito”) dell’incarnazione: oggi i cristiani possono tranquillamente 63

Ivi, p. 563.

64 Cfr. J. HICK, God has many Names. Britain’s New Religious Pluralism, London, Mac-

millan, 1980.

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lasciare da parte il mito dell’incarnazione e continuare a proclamare la centralità di Gesù per loro: purché si astengano dall’affermarla anche per tutti gli altri uomini. Postuleremo, dunque, un Reale ultimo, la cui natura trascende la rete dei concetti umani: personale/impersonale, unità/molteplicità, sostanza/processo, intenzionale/non intenzionale, buono/cattivo, ma è pensato ed esperito umanamente mediante il concetto di una divinità personale o di un assoluto impersonale, e in ogni caso reso concreto nelle forme particolari di Jahveh, Santa Trinità, Vishnù, ecc. o di Brahman, Dharmakaya, Tao, ecc. […]. Le dottrine cristiane, ebraiche, mussulmane, induiste, buddiste esprimono il modo in cui questa Realtà è stata pensata ed esperita attraverso la “lente” umana di quelle tradizioni. Sono descrizioni non del Reale in se stesso, ma del Reale qual è colto attraverso un particolare complesso di idee e pratiche religiose: in termini cristiani a noi familiari, non di Dio a se ma di Dio pro nobis. Così intese, le dottrine delle diverse religioni non sono in conflitto tra loro. Il fatto che queste persone esperiscano il Reale in questo modo non è incompatibile col fatto che quelle persone lo esperiscano in quel modo65.

c) Dimensione religiosa del cristianesimo e sua originalità Il magistero cattolico contemporaneo e buona parte della teologia odierna prendono le distanze dai due estremi precedenti: sia dall’affermazione di incompatibilità tra cristianesimo e religioni sia dalla loro omologazione piena. In continuità con la tradizione tomista, aggiornata e arricchita, questa posizione vede da una parte l’innesto della fede nel “senso religioso” che è alla base di ogni ricerca di Dio, dovunque venga svolta e prenda corpo; e dall’altra il superamento della base religiosa da parte della fede cristiana, i cui contenuti non sono assimilabili a quelli delle altre religioni, sia naturali sia rivelate. Sulle orme del Concilio Vaticano II, che ha rilevato nelle religioni non cristiane “semi del Verbo” (AG 17 e 18), “elementi preziosi” (GS 65

J. HICK, Il Cristianesimo tra le religioni del mondo, in «Filosofia e Teologia» 6 (1992), pp. 13-24; qui pp. 21-22-23.

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92) di verità e bontà, “raggi di verità” (NA 2), e così via, Giovanni Paolo II si è impegnato più volte e con decisione nel dialogo interreligioso, convinto che lo Spirito soffia dovunque un uomo ricerca sinceramente il vero e il buono, e quindi Dio. È proprio questo il motivo per cui il cristianesimo cerca prima di tutto il dialogo: perché riconosce anche in se stesso una base ”religiosa” comune alle altre tradizioni, un “senso religioso” sul quale si innesta la rivelazione. Afferma Giovanni Paolo II nel n. 28 dell’enciclica Redemptoris Missio: «La presenza e l’attività dello Spirito non toccano solo gli individui, ma la società e la storia, i popoli, le culture, le religioni»66. Ricordando la teologia patristica dei “semi del Verbo”, l’enciclica, sulle orme del Vaticano II, non la riferisce solo alle ispirazioni di singoli, ma – coerente con il tenore del paragrafo – alle iniziative religiose e agli sforzi tesi al bene, ai riti e alle culture. Giovanni Paolo II non adotta in questo paragrafo una netta distinzione tra cristianesimo e religioni naturali; sembra anzi prenderne le distanze, quando afferma che lo Spirito Santo «è all’origine stessa della domanda esistenziale e religiosa dell’uomo, la quale nasce non soltanto da situazioni contingenti, ma dalla struttura stessa del suo essere»67. Azione dall’alto e risposta dal basso, pneumatologia ed antropologia, non sono qui ricondotte a tradizioni religiose differenti, ma considerate come due momenti di un unico processo – quello della ricerca di comunione con Dio – a cui tutte le religioni, a livelli diversi di verità, danno voce. Proseguendo poi sullo stesso argomento il n. 29, dopo aver ribadito che l’universalità dell’opera dello Spirito «ci induce ad allargare lo sguardo per considerare la sua azione presente in ogni tempo e in ogni luogo», presenta l’originale riferimento all’incontro interreligioso mondiale che il papa convocò il 27 ottobre 1986 ad Assisi. “Esclusa ogni equivoca interpretazione”, afferma Giovanni Paolo II riferendosi alle accuse di relativismo che affiorarono in quell’occasione, quell’incontro ha voluto ribadire la convinzione che l’autentica preghiera è suscitata dallo Spirito Santo68. L’apprezzamento degli elementi veri e buoni presenti in ogni religione – basato sulla convinzione che vi è un unico “senso religioso” che 66

EV 12/605. EV 12/604. 68 Cfr. EV 12/606. 67

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viene attivato in diverse maniere dallo Spirito – non conduce tuttavia ad una omologazione tra fede cristiana e religioni. Il magistero e buona parte della teologia cattolica sottolineano nel contempo l’originalità del cristianesimo, che – sulla base della rivelazione – attiva il senso religioso nella direzione di Cristo, il Figlio di Dio incarnato, morto e risorto. I contenuti essenziali della fede cristiana non sono deducibili a priori dal “senso religioso” e nemmeno assimilabili a posteriori con le altre religioni. Con un intervento nuovo e originale, Dio prepara e realizza il suo progetto di amore in Cristo, pienezza della rivelazione e della salvezza. Di qui l’altro elemento inscindibile – insieme al dialogo – della missione cristiana: l’annuncio esplicito del Vangelo.

4. Considerazioni conclusive Le diverse accezioni di “senso religioso” hanno rivelato la ricchezza di questa nozione e la sua capacità di interrogare e stimolare la teologia. La prima e più ampia accezione – il senso religioso come ricerca di senso, di felicità e di pienezza – rappresenta un terreno comune tra la filosofia e la teologia, segnate entrambe dalla questione del significato dell’esistenza umana. Mentre nell’interpretazione protestante classica la nozione è inutilizzabile, in quella cattolica classica indica il punto di contatto tra la ricerca naturale di Dio e la sua rivelazione soprannaturale, tra la natura e la grazia. Dopo infinite discussioni, che hanno corso il doppio pericolo di cadere nel naturalismo dei neo-tomisti – la “natura pura” in grado di raggiungere la felicità senza Dio – e nel soprannaturalismo dei giansenisti – la grazia come elemento sostitutivo della natura decaduta – il Novecento teologico ha registrato una sostanziale convergenza sulla proposta di de Lubac: non è il soprannaturale in se stesso, ma il desiderio del soprannaturale ad essere stato inserito da Dio nella natura umana. In definitiva, dunque, dal punto di vista teologico il “senso religioso”, nella sua accezione più ampia, è il desiderio naturale del soprannaturale. La seconda accezione sopra esaminata è in piena continuità con la prima, ma restringe l’obiettivo ad uno degli sviluppi possibili: il “sacro”. Il “senso religioso” è apertura al sacro e si incanala nella ricerca 41


del sacro. Su questo terreno, la teologia incontra non più solo la filosofia, ma anche la scienza delle religioni e la paleoantropologia: dell’uomo in quanto tale, infatti – come dimostra la ricerca scientifica sulle origini – fa parte l’apertura al sacro, la domanda religiosa. La teologia, invece, non può dialogare con quel corto-circuito che è costituito dalla magia e dalla superstizione, le quali capovolgono il senso stesso della fede cristiana, pretendendo di controllare e manipolare il divino anziché affidarvisi. Il grande elemento di paragone, in questa seconda accezione, è la tesi proiettiva accennata nell’antichità da Senofane e lanciata nella contemporaneità da Feuerbach. Le risposte teologiche alla tesi proiettiva, come si è visto, sono diverse. Vi è pieno accordo da parte della teologia “modernista”, che sfocia in una interpretazione simbolica e puramente “religiosa” del cristianesimo; vi è accordo anche da parte di quei teologi che, sulla sponda opposta del modernismo, contrappongono fede cristiana e religione e considerano la tesi di Feuerbach vera per la religione, ma in nessun modo per il cristianesimo. Vi è disaccordo da parte di quei fenomenologi delle religioni che rilevano da una parte l’impossibilità di spiegare l’esistenza di un “senso religioso” solamente come risultato di deduzioni a-posteriori dai fenomeni naturali e dall’altra l’irriducibilità della struttura del cristianesimo a quella delle altre religioni. In effetti, in linea con queste ultime osservazioni, si deve dire che l’innegabile corrispondenza tra Dio e il desiderio di pienezza dell’uomo può essere ugualmente e forse meglio spiegato nella direzione inversa rispetto a quella individuata da Senofane-Feuerbach: con la prospettiva agostiniana del “cor inquietum”. La teologia risponde alla tesi proiettiva rovesciandone la direzione. La corrispondenza rilevata da Feuerbach tra le speranze umane e gli attributi divini può essere razionalmente spiegata, infatti, non solo nella direzione da lui stabilita, ma anche in quella inversa. Il meccanismo proiettivo – dall’umano al divino – può essere capovolto – dal divino all’umano – e la corrispondenza funziona altrettanto bene; in altre parole, questa corrispondenza può esistere perché l’uomo crea Dio a sua immagine, ma può esistere anche perché Dio crea l’uomo a sua immagine, imprimendogli quella traccia di sé, quella tensione verso la pienezza, che spinge l’uomo verso l’alto. Per motivare con la ragione la corrispondenza tra speranze umane e natura divina si può dunque legittimamente utilizzare Feuerbach, ma si 42


può altrettanto legittimamente utilizzare Agostino: «ci hai fatti per te, e il nostro cuore è inquieto fino a quando non riposa in te»69. Se siamo immagine di Dio, se portiamo la sua impronta, allora per questo desideriamo conoscere, amare, vivere per sempre con lui. La direzione agostiniana, diversamente da quella feuerbachiana, rende intelligibile l’esistenza nel cuore umano di un “senso religioso” che si apre a-prioristicamente al sacro, come faceva notare acutamente R. Otto. La terza accezione di “senso religioso” – atteggiamento di fondo che si esprime nelle diverse religioni – introduce nell’attuale e aperto dibattito sul rapporto tra cristianesimo e altre religioni. Di nuovo si registrano due posizioni estreme: da una parte la pura e semplice omogeneizzazione della fede cristiana alle religioni, secondo il progetto illuminista che eliminava tra di esse ogni differenza qualitativa; e dall’altra la pura e semplice contrapposizione tra fede e religioni, che esclude la possibilità di trovare dei punti di contatto. La teologia cattolica, sulle orme del magistero, si muove entro il binomio dialogo/annuncio: da una parte, ammettendo nel cristianesimo delle forme religiose, in quanto la rivelazione si innesta nell’umano; dall’altra, ritenendo il cristianesimo nei suoi contenuti irriducibile al concetto di “religione” e sottolineando come Cristo, rivelazione e salvezza piena, porta a compimento il “senso religioso” dell’uomo in maniera nuova e originale. In definitiva, anche su questo versante la nozione di “senso religioso” indica felicemente l’incrocio tra Dio che imprime nell’uomo la nostalgia della felicità, che è lui stesso, e l’uomo che – assecondando questa nostalgia – cerca sinceramente la verità della sua esistenza, rimanendo aperto ad una eventuale rivelazione e salvezza dall’alto. La nozione di “senso religioso”, come è emerso, risulta feconda per la teologia sistematica e capace di farla interagire efficacemente con la filosofia, la scienza delle religioni, la paleoantropologia, la filosofia della religione e la teologia delle religioni. In questo confronto emerge sia lo spessore “umano” e “religioso” del cristianesimo, che si innesta nelle strutture antropologiche fondamentali – ossia nelle grandi domande di senso, di felicità e di pienezza – sia l’originalità del cristianesimo stes69 “Fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te” (AGOSTINO, Le

confessioni, I,1,1; NBA I, pp. 4-5).

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so, che annuncia e propone una risposta a queste grandi domande; una risposta sorprendente, sperata ma non esigibile: la rivelazione e salvezza in Cristo, figlio di Dio fatto carne, morto e risorto.

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