Francesco Campione_Lutto e desiderio

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Di queste tre teorie del lutto che ho illustrato solo le prime due, la teoria biologica e la teoria psicoanalitica, possono dirsi appartenenti al bagaglio culturale della nostra epoca, mentre la teoria esistenziale è la teoria del lutto valida per quelle epoche in cui ancora si sapeva come dimenticare i propri morti. In questo senso il rapporto tra teoria biologica e teoria psicoanalitica, da una parte, e la teoria esistenziale, dall’altra, rappresenta la contraddizione, a cui abbiamo fatto cenno all’inizio di questo paragrafo, tra una cultura che tende a non porsi più il problema del senso della vita e un individuo che deve porselo se vuole vivere. Infatti, se seguiamo nell’interpretare i modi in cui viene affrontata la morte di un caro la teoria biologica o la teoria psicoanalitica, cioè le teorie che non si pongono il problema del senso, incontriamo paradossi evidentissimi ed eloquentissimi. Molto in sintesi, l’uomo evocato dalla teoria biologica del lutto è un uomo che non può dimenticare, l’uomo evocato dalla teoria psicoanalitica è un uomo che non può ricordare. L’uomo biologico non può dimenticare poiché nel lutto sostituisce un attaccamento puramente biologico ad un altro attaccamento puramente biologico, come se non si accorgesse che il tempo passa, come se supponesse un futuro illimitato, come se vivesse, al pari dell’animale, in un eterno presente senza storia, completamente identificato con i destini della specie, senza la doppiezza individuo-specie che caratterizza specificamente l’uomo di fronte alla morte6. L’uomo psicoanalitico, d’altro canto, non può ricordare, perché non può far passare il suo passato ma può tentare solo di farlo rivivere. Come è bene illustrato dalla intervista a Sting che ho già citato. La risposta completa di Sting è questa: «Perché loro sono sempre lì con me, io canto insieme a loro e per loro. Ciò che è terribile è ricordare, ricordare mio padre sul letto di morte che mi prende la mano e riconosce finalmente che ho fatto qualcosa di buono nella musica». Poiché l’oggetto d’amore interiorizzato non è un ricordo ma una presenza, dover far rivivere vuol dire precisamente non poter collocare nel passato ciò che è passato, ma rendere il passato presente, restare nel passato, edificare il presente sui morti mai morti che si sono interiorizzati. E così l’uomo senza futuro non sa più dimenticare e perciò non può più ricordare perché è in crisi la sua storia e il senso di questa storia. 6

E. Morin, L’homme et la mort, Seuil, Paris 1970.

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