Anno XXXV n. 3 Settembre - Dicembre 2012
prospettiva EP Terza etĂ ed educazione permanente
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Quadrimestrale di Educazione permanente Rivista fondata da Mario Mencarelli settembre - dicembre 2012 - n. 3 Direttore: SIRA SERENELLA MACCHIETTI Comitato Scientifico: FERDINANDO ABBRI, GIUSEPPE ACONE, GABRIELLA ALEANDRI, SERGIO ANGORI, WINFRIED BÖHM, ROSSANA CUCCURULLO, FABRIZIO D’ANIELLO, ANNA GLORIA DEVOTI, JUAN GARCIA GUTIERREZ, JOSÉ ANTONIO IBÁÑEZ-MARTIN, ROSETTA FINAZZI SARTOR, FERDINANDO MONTUSCHI, LANFRANCO ROSATI, GIUSEPPE SERAFINI, BIANCA SPADOLINI, GIUSEPPE VICO Redazione: NICOLETTA BELLUGI, FRANCA PUGNALINI Redazione e direzione: c/o Mencarelli – Via F.lli Bimbi, 20 – 53100 Siena Amministrazione: Armando Armando Editore Viale Trastevere, 236 - 00153 Roma Tel. (06) 5894525 Fax. (06) 5818564 ABBONAMENTI 2012 Abbonamento annuo per l’Italia Un fascicolo Un fascicolo doppio Abbonamento annuo per l’estero
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Autorizzazione del Tribunale n. 70/94 del 23.2.1994 ISSN-1125-39-75
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Quadrimestrale di Educazione permanente Rivista fondata da Mario Mencarelli settembre - dicembre 2012 - n. 3
Terza età ed educazione permanente Ricompondere la terza età (s.s.m.)
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Studi A.G. DEVOTI, Ambienti Web per una prospettiva differente di “invecchiamento” » G. SERAFINI, Educare ad invecchiare » S. ANGORI, Senza fretta di invecchiare » E. NOCENTINI, Politiche sociali per gli anziani: una lettura pedagogica » J-P. KIKONDA, Per una spiritualità della terza età. Riflessioni partendo dalla Bibbia (Antico e Nuovo Testamento) » Ricerche B.R. GRASSILLI, Scuola, ricerca, educazione ieri e oggi. La figura e l’opera di Duilio Gasparini L. MALUSA, Riflessioni sull’unità degli italiani in ricordo del “triestino” Duilio Gasparini O. ROSSI CASSOTTANA, La figura di Duilio Gasparini C. DESINAN, Su una “triestinità” della pedagogia triestina S.S. MACCHIETTI, Spiritualità ed etica nella pedagogia di Duilio Gasparini C. DESINAN, Interventi e testimonianze F. GOFFI, Aesthetic education as education to complexity: between mimesis and critical thought V. DOMENICI, Il corpo vulnerabile. Precarietà e responsabilità della vita in un esempio cinematografico recente: La Blessure (2005), di Nicolas Klotz
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Recensioni M. Piccinno, Coniugalità e genitorialità. Oltre le criticità, verso il progetto (G. Armenise) » C. Palazzini, Oltre l’emergenza, educare ancora. Il significato autentico, i problemi attuali e le risorse dell’educazione (M. Marchi) » Quinto Tullio Cicerone, Come vincere le elezioni. Un’antica guida per politici moderni (Gabriella Aleandri) » Maria Teresa Moscato, Rita Gatti, Michele Caputo (a cura di), Crescere tra vecchi e nuovi dei. L’esperienza religiosa in prospettiva multidisciplinare (Gabriella Aleandri) » Vittorio Possenti, Il nuovo principio persona (Gabriella Aleandri) » Raniero Regni, Il sole e la storia. Il messaggio educativo di Albert Camus (Gabriella Aleandri) »
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RICOMPRENDERE LA TERZA ETÀ Oggi quando si parla della terza età si tende prevalentemente a sottolineare ed a lodare la generosità degli anziani e particolarmente dei nonni, che è testimoniata dalla loro diffusa disponibilità a rendersi utili, a sostenere in modo notevole, spesso anche dal punto di vista economico, figli, nipoti ed amici che si trovano in situazione di difficoltà. Gli anziani a loro volta sono contenti di essere utili ai loro cari e alla loro comunità di appartenenza e spesso, grazie a questa loro generosità, non si riservano spazi e tempi personali per coltivare le loro risorse intellettuali, culturali e spirituali, per effettuare scelte libere e per organizzare autonomamente le loro giornate… Questo fascicolo, che è stato curato da Anna Gloria Devoti, confrontandosi con un’antropologia pedagogica, attenta al valore delle persone, alla loro capacità di conquistare e di produrre cultura, si propone di riflettere sulle risorse di umanità degli anziani e di indicare alcune prospettive di educazione permanente. Pertanto i contributi che presenta rivolgono l’attenzione alle politiche sociali per la terza età e sottolineano il significato di ogni stagione della vita. Inoltre gli Autori dei vari articoli, pur implicitamente, invitano ad esercitare in maniera appropriata l’“arte di invecchiare”, ad «alimentare…: l’intelligenza, la creatività, l’affettività» e la spiritualità il cui sviluppo accompagna l’intero corso dell’esistenza umana. Infatti con le loro riflessioni e con le loro argomentazioni vogliono incoraggiare, legittimando pedagogicamente le loro proposte, a vivere la terza età come un tempo di fecondità, in cui si può gustare la gioia di apprendere, di conoscere, di continuare a dar frutti ed a coltivare la propria umanità. Nella seconda parte di questo fascicolo vengono presentate alcune ricerche sulla produzione scientifica di Duilio Gasparini, il quale è stato un protagonista della pedagogia italiana del Novecento, che, con le sue pubblicazioni pedagogiche, alcune delle quali hanno visto la luce nell’ultimo anno della sua esistenza, ha testimoniato che nella terza età si può crescere e contribuire a far crescere la cultura. Questa testimonianza invita all’impegno ed alla speranza di poter vivere “in pienezza” tutte le fasi del nostro percorso esistenziale e quindi si pone in un rapporto di coerenza con gli intenti degli Autori degli articoli pubblicati in questo fascicolo ai quali va il sentito ringraziamento di “Prospettiva EP”. s.s.m.
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AMBIENTI WEB PER UNA PROSPETTIVA DIFFERENTE DI “INVECCHIAMENTO” Anna Gloria Devoti Abstract: The new information and communication technologies (ICT), if well used, can give effective learning models, focused on dialogue, meeting, partecipation and common activities. The desire of the elderly to feel useful, in these environments, can be well satisfied and transformed into an enriching resource. The “digital natives” are able to offer assistance to the elderly, to fill their lack of knowledge and inadequate use of the media. The collaboration between the different ages, could become an opportunity to strengthen mutual knowledge, useful to face in a more promotional way, the challenges posed by technology and life. The skills and creativity of the young would then merge with the wisdom of the elderly with a view to mutual growth. Riassunto: Le nuove tecnologie dell’informazione e comunicazione (le cosiddette TIC) se ben utilizzate, sanno regalare efficaci modelli di apprendimento incentrati sul dialogo, incontro, partecipazione e azioni comuni. Il desiderio dell’anziano di sentirsi utile, in questi ambienti, può essere benissimo soddisfatto e trasformato in un’arricchente risorsa. I “nativi digitali” sono in grado di offrire assistenza alle persone anziane, colmare la loro scarsa conoscenza e inadeguatezza di utilizzo dei media. La collaborazione tra le diverse età, potrebbe divenire l’occasione per rafforzare una conoscenza reciproca utile ad affrontare in maniera più promozionale le sfide lanciate dalla tecnologia e dalla vita. Le abilità e la creatività dei giovani andrebbero così a fondersi con la saggezza degli anziani in un’ottica di crescita comune. Parole chiave: educazione ai media, apprendimento cooperativo, educazione degli adulti, educazione permanente, formazione on line.
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Il benessere ha migliorato la qualità della vita, permesso di creare condizioni favorevoli alla crescita individuale e collettiva e promosso sperimentazioni in ambito scientifico, tecnologico e sanitario. Dalle tecnologie comunicative, l’uomo ha tratto il beneficio di nuove prospettive per un’efficace promozione. La possibilità di dialogare negli ambienti virtuali rafforza il sapere, la cooperazione e la collaborazione anche a distanza. Per le persone in età, il non accettare simili sollecitazioni diventa un rammarico, perché forte è la tendenza a lasciarsi trasportare per non rimanere indietro. La curiosità di immergersi nella vivacità dell’innovazione sembra che soddisfi il bisogno del “contatto” e delle emozioni continue. Gli “over 65” usano frequentemente Internet, perché nella navigazione on line, realizzano l’incontro con l’altro e perché affidano alla Rete il segreto vincente per invecchiare meglio e bene. In effetti, questo è il motivo, per cui numerose persone sono registrate nei più popolari Social Network. La letteratura di riferimento indica lo stato di disagio, di abbandono e di profonda solitudine quali cause principali di utilizzo da parte delle persone anziane. Motivazioni queste che, a mio avviso, dovrebbero servire per meglio orientare all’uso dei media, per conoscere le condizioni più idonee di accesso e quali software più indicati per una formazione continua, per uno sviluppo espressivo; per offrire informazioni e suggerimenti per come frequentare gli ambienti virtuali al fine di promuovere un coinvolgimento reciproco e una costruzione comune di conoscenza. L’idea di identificare certi strumenti a demoni disumani che de-personalizzano o che rendono i vari utenti vittime della dipendenza e dell’isolamento, dovrebbe lasciare spazio all’altra più promettente che sa cogliere nella Rete l’opportunità della cooperazione e collaborazione tra utenti, cui è consentito di esercitare all’interno della “comunità” di appartenenza, ruoli attivi negli scambi di risorse o di pratiche esperienziali. Dovremmo pertanto iniziare a smettere di ridicolizzare chiunque ne faccia uso e lottare, invece, per agevolare e favorire nuovi accessi on line più intuitivi e semplificati, affinché ogni utente, indipendentemente dall’età, possa trarre le stimolazioni più utili e necessarie a una crescita piena di soddisfazioni, di riconoscimento e di serena maturazione. Da promuovere è sicuramente l’educazione ai media, come strada migliore per un’alfabetizzazione vincente e perché incentrata non tanto sulle abilità tecniche da acquisire quanto su una visione antropocentrica della tecnologia medesima. È necessario porre l’attenzione su come, quando e perché certi media, sono usati. È fondamentale educare a un sano e corretto uso dei media per un’autorealizzazione ed espressione di sé sia cognitiva che emotiva.
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È auspicabile l’acquisizione di una competenza digitale e non una padronanza tecnica fine a se stessa. Se ogni utente è ben educato all’uso dei media ha la possibilità di valorizzarsi, di rimanere coinvolto in una partecipazione attiva e responsabile. Educare gli utenti a non cadere nel rischio delle dipendenze è essenziale, altrimenti da un tipo di emarginazione sociale si passerebbe a una soggettazione tecnica assai più grave. La scarsa considerazione che talvolta le persone anziane ricevono oggi dalle nuove generazioni, porta sempre più a credere alle chimere del Web, a sperare e rifugiarsi nel clima amicale dei mondi virtuali per vivere appieno le stimolazioni accattivanti. È importante, dunque, distogliere i nuovi aspiranti “digitali” da tali richiami, perché se non sono in possesso di una padronanza sicura delle strumentazioni, sono soggetti a cadere nel rischio di un’assuefazione ancora più certa. A mio avviso, dovremmo partire dalle curiosità e motivazioni che avvicinano alla tecnologia, aiutare le persone, comprese le più anziane, a un utilizzo più formativo per un completo loro sviluppo. La Rete è lo strumento in grado di garantire un’educazione continua, perché dunque non procedere nei percorsi di aggiornamento per tutto l’arco della vita? La possibilità di un’educazione permanente dovrebbe stimolare a progettare prospettive differenti di utilizzo di Rete, di Internet e degli ambienti Social network. Le “comunità di apprendimento on line”, sono degli ottimi modelli formativi per impostare forme di collaborazione fra utenti, per condividere risorse, metodi e obiettivi. Le nuove tecnologie dell’informazione e comunicazione (le cosiddette TIC) se ben utilizzate, sanno regalare efficaci modelli di apprendimento incentrati sul dialogo, incontro, partecipazione e azioni comuni. Il desiderio dell’anziano di sentirsi utile, in questi ambienti, può essere benissimo soddisfatto e trasformato in un’arricchente risorsa. Se, oggi, la Società non è sufficiente a colmare il vuoto che un anziano avverte intorno a sé, perché non pensare di ricorrere alla tecnologia per recuperare quel contatto e rapporto mancante? Il vasto mondo del Web apre a nuovi orizzonti, consente di uscire dall’egoismo più chiuso, stimola a narrarsi, a raccontarsi e a pubblicizzare anche le più personali intimità. Aiuta a conoscere e ad apprendere in tempo reale. Lo spazio di un sito personale, di un blog o di un profilo su Facebook, può divenire la vetrina e la palestra di un rafforzamento della propria identità e personalità. Se nel passato, gli anziani poco conoscevano la sofferenza della soli-
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tudine e dell’emarginazione, perché ben accetti e accolti in famiglia, oggi purtroppo non si può dire altrettanto, perché frequentemente abbandonati a se stessi e solo i più fortunati, si fa per dire, sono ospitati nelle case di riposo o godono in casa propria dell’assistenza delle badanti. L’accoglienza della persona anziana in famiglia, sta venendo meno per vari motivi, in primis per il ritmo frenetico della vita moderna che toglie spazio e tempo alle visite e agli incontri privati. Le persone anziane sono diventate, oggi, vittime della fretta e tradite negli affetti e sentimenti dai propri cari. Esse, pur comprendendo le difficoltà e le esigenze lavorative, non capiscono e non giustificano, preferiscono chiudersi in silenzio e nella rassegnazione di una calma apparente, come certi volti tristi e malinconici che incontriamo, fanno intravedere. Sono persone che sanno di dover vivere gli anni che restano in solitudine e umiliazione e che avvertono di essere un problema e anche un peso economico. Le politiche sociali avrebbero i loro compiti da svolgere con maggiore determinazione e sostegno, potrebbero meglio pensare alle cure dei più bisognosi, attivandosi con iniziative capaci di rendere la vita agli anziani più serena e felice. Le istituzioni potrebbero pensare a forme di aiuti più rispondenti, progettando interventi educativi rivolti maggiormente al recupero del valore dell’anzianità, della saggezza, della memoria storica e al diritto e al rispetto della dignità umana. C’è bisogno di iniziative in grado di generare nelle persone di età avanzata una certa autostima e certezza, al fine di restituire quel sorriso, ormai da troppo tempo perduto. Cerchiamo di sfruttare ogni mezzo possibile per attribuire valore alla persona, anche se occorre stare attenti al fatto che non tutti invecchiano nella stessa maniera e con gli stessi interessi e bisogni. C’è, per esempio, chi vive la propria anzianità nell’ignoranza più totale, disinteressandosi delle innovazioni, dei media, del mouse, dell’e-mail o Social network, perché timorosi di tali argomenti, chi invece vuol vivere l’attualità per non sentirsi tagliato fuori. Chi vuole conoscere o operare tramite e-mail, Skype o Facebook per rimanere in contatto con gli amici lontani; chi vuole usufruire di Internet per servizi postali, pagamenti bancari pensando al risparmio di tempo e a evitare code negli uffici pubblici. Chi, invece, non ama l’interazione virtuale e rimpiange il tempo degli incontri con le persone ritenuti più caldi e commoventi. Chi sostiene che: “Io non lo tocco proprio il computer”, “Non mi piace stare lì davanti”, “Mi dà fastidio di essere rintracciata in qualsiasi momento”, “Gli sms li so leggere, perché mia figlia m’ha insegnato, ma non so scriverli”, “Preferisco fare una telefonata e buonanotte”. “Quando ieri si poteva andare scalzi senza ciabatte si era più felici!”. Dalle espressioni sopra riportate di alcuni personaggi interpellati, appare chiaro come il progresso non sia vissuto da tutti in maniera uguale e come le problematiche della povertà, mal-
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governo, scarsa democrazia, solitudine, abbandono e perdita di valori, rendano il mondo contemporaneo ancora più incontrollabile. La vita si sarà anche “allungata”, ma i cittadini si sentono soli e ognuno soffre delle proprie amarezze economiche e affettive. Il problema dell’anziano, che non è semplice e risolvibile facilmente, va comunque affrontato diversamente, cercando di comprendere le molteplici esigenze e di aiutare i più deboli, recuperando quanto di buono c’è in loro. Certo è che il progresso ha tolto e ha fatto dimenticare il ruolo riconosciuto all’anziano nelle civiltà antiche, quale unico depositario del sapere, della saggezza e della memoria storica. Questo, per noi, dovrebbe essere un monito per tutelare il futuro e dare un insegnamento alle generazioni che verranno. La famiglia dovrebbe riappropriarsi del proprio ruolo e la politica ridistribuire gli aiuti per tutto l’arco della vita. La storia ci ha tramandato questi valori, perché, dunque, una Nazione civile e libera come la nostra non pone l’accento sul dovere etico del rispetto della persona anziana?
1.1. Il ruolo dell’anziano nel mondo antico e contemporaneo Nella società primitiva il ruolo dell’anziano, pur variabile da un popolo all’altro, è stato sicuramente invidiabile. La longevità gli conferiva prestigio e potere; il “vecchio” era ritenuto maestro ed educatore, giudice e sacerdote, quale elemento di congiunzione tra il mondo terreno e l’aldilà. I “vecchi” avevano un posto onorevole, forse anche perché erano poco numerosi, e la vecchiaia era sinonimo di saggezza ed era considerata superiore alla stessa bellezza. La donna “vecchia” non era di certo simbolo di bruttezza, come sarà invece più tardi. I libri dell’Antico Testamento rappresentano la prima testimonianza dell’inizio della degradazione del ruolo sociale. Il “vecchio” comincia a perdere la prerogativa di capo naturale del popolo ed il re inizia a rivolgersi ai giovani piuttosto che al Consiglio degli anziani. Con il diminuito peso sociale, diminuiva la longevità che era segno della benedizione divina. Da ricordare sono gli anni che vanno dai 969 di Matusalemme ai 147 di Giacobbe, ai 110 di Giuseppe. Ancora però si parlava di vecchiaia felice e i riferimenti al rispetto, obbedienza e all’affetto che si nutriva nei confronti del vecchio, sono frequenti nel Nuovo Testamento e negli Atti degli Apostoli. Mentre la civiltà greca classica, che si basava sulla ricerca della perfezione e della bellezza, non si mostrò affatto tenera nei confronti degli anziani. La vecchiaia fu considerata una maledizione divina e il “vecchio” un
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dissacrato, un uomo sofferente, deriso e disprezzato in attesa della morte. La bellezza, la felicità e l’amore si coniugavano solo con la giovinezza. Gli eroi del mondo omerico erano, invece, tutti giovani; i pochi “vecchi” che comparivano non venivano per lo più ascoltati. Solamente a Sparta si fece eccezione, forse perché pochi erano i “vecchi” sopravvissuti alle tante guerre e i rimasti avevano un ruolo di privilegio, come capi o giudici. Più lungimirante fu la mentalità ellenica maturata in una società aperta e cosmopolita, con pochi pregiudizi si guardava, infatti, più al valore e all’utilità degli uomini che alla loro età. Tutte le personalità di valore, giovani o “vecchie” avevano la stessa possibilità di riuscita. Nei confronti della vecchiaia c’era indifferenza, né partecipazione affettiva, né pietà, disprezzo o lode. Nel mondo romano il problema della vecchiaia, almeno dal II secolo a.C., costituì invece un problema demografico e nei due periodi, repubblicano e imperiale, il “vecchio” ebbe ruoli e considerazione differente. Il Senatus repubblicano era composto dai soli uomini in età matura ed era necessario esibire il cursus honorum per accedere a cariche pubbliche importanti, cosicché i giovani ne erano tagliati fuori. Il pater familias deteneva la potestas sugli altri membri della familia ed aveva un’autorità senza limiti. Con l’impero declinò, invece, la patria potestas e i membri della familia potevano denunciare ogni forma di abuso del pater ai magistrati, per cui i figli acquistarono una personalità giuridica propria e potevano avere un patrimonio loro intestato; come nella Famiglia, anche nello Stato, il potere degli anziani decadde, portandosi dietro i dolori, la sofferenza e la bruttezza. Dalla storia antica provengono modelli differenti di “ruolo degli anziani”, ma sufficientemente indicativi per cogliere quell’alternanza d’importanza e di potere che, a tutt’oggi, si continua a mantenere, se non addirittura, a diminuire con considerazioni e manifestazioni più amare. Nella cultura contemporanea il termine “vecchio” ha assunto un significato dispregiativo, quasi offensivo, da far avvertire la necessità di preferire il termine “anziano”, come più dolce, come più consono alla restituzione di quella piena dignità perduta. Parlando di vecchiaia, di anzianità, d’invecchiamento, di terza età ci accorgiamo quanto il senso di questi termini resti vago, quanto fluttuanti siano i contorni di questo periodo di età difficile da precisare. Il porre l’uomo entro rigidi schemi definiti è inesatto, perché ogni persona ha un proprio divenire e processo continuo di sviluppo fino alla fine. È limitativo far coincidere l’inizio dell’invecchiamento con i soli segni fisici, quando a determinarlo, sono ben altre forme di manifestazione. La vecchiaia non ha età, forse acquista la sua forma con l’inizio al disadattamento senile, quando cioè si viene
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a essere emarginati e a perdere quel ruolo sociale da protagonisti. È il momento in cui l’anziano avverte la sua inutilità e insufficienza. Avverte dolorosamente di essere considerato un peso per la famiglia e di non contribuire in maniera importante al bilancio familiare. Comincia a sentirsi minacciato, sui valori personali, su cui per lungo tempo, si è appoggiata la sua sicurezza. È, per questo, che tende a rifugiarsi nel ricordo struggente per superare meglio la frustrazione del presente.
1.2. Verso la riconquista di un ruolo significativo Il prolungamento della vita non dovrebbe essere avvertito come una condanna, bensì come una vera opportunità di completamento del proprio apprendimento. Oggi si preferisce nascondersi dietro l’alibi che l’anziano debba godersi il meritato riposo e se non da solo, in compagnia delle badanti. Non c’è attenzione nei confronti degli anziani e si tende a sminuire i rapporti affettivi continui. La vecchiaia non dovrebbe essere considerata come una malattia, ma una fase dell’esistenza che merita di essere vissuta nella maniera più dignitosa possibile e partecipata. È indispensabile per questo attribuire alla vecchiaia il valore della ricchezza e considerarla una risorsa da spendere e su cui investire. Diventa opportuno, in ogni azione di progettazione, tenere presente le persone anziane, perché non solo “esistenti” ma perché rappresentanti di una saggezza da recuperare, da salvaguardare se non da imitare. Occorrerà promuovere un’educazione a una vecchiaia attiva fin dalla giovane età, per essere poi pronti a reagire di fronte ai difficili momenti del cambiamento. Fare riferimento all’educazione permanente è la garanzia più idonea per una valorizzazione di sé e dei propri diritti e doveri. L’avanzamento della vecchiaia oggi è lasciato a se stesso, raramente si ricorre agli anziani con atteggiamento di ascolto, difficilmente ci rendiamo disponibili a ricevere o accogliere consigli e suggerimenti da essi. Si preferisce agire da soli, evitando di usufruire delle loro ricchezze. Il progresso tecnologico se da una parte ha migliorato la qualità della vita, dall’altro ha accentuato il venire meno dei contatti relazionali in presenza. I nuovi media, comunque, utilizzati a “dovere”, potrebbero ricreare quella calda e umana atmosfera venuta a mancare. Occorrerà supportare le persone ultrasessantenni, disorientate abbastanza per le trasformazioni in atto. È bastato il passaggio dal linguaggio “analogico al digitale” a mettere in crisi le persone di età avanzata. In effetti, frequenti sono i casi di persone che rimangono immobili con più telecomandi in mano, in attesa di anime buone che accendano loro
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il mezzo visivo. Capita di vedere un anziano seduto davanti al televisore scoraggiato per la sua incapacità e tristemente attendere il rientro a casa del figlio o del nipote. Con questo, non dobbiamo limitarci a descrivere le vicissitudini, cui vanno incontro gli anziani o soffermarsi inermi a osservare ma iniziare a intervenire, promuovendo progetti e indicando soluzioni per affrontare la problematica da troppi anni disattesa. L’Italia sta invecchiando, l’età media è cresciuta e ancora poco è stato fatto per una valorizzazione della saggezza dell’anziano, per un recupero delle sue esperienze e competenze, per un affiancarsi e camminare assieme alle persone anziane. Il progresso tecnologico promosso dalle ultime Tecnologie dell’Informazione e Comunicazione, potrebbe essere già sufficiente per iniziare a compiere dei passi in avanti verso un processo di apprendimento continuo (life long learning) e per favorire l’aging in place, cioè un processo d’invecchiamento presso la propria abitazione mediante la partecipazione e collaborazione tra pari (peer tutoring). Le nuove tecnologie hanno iniziato a svolgere un ruolo di primo piano nelle persone anziane; sono da loro richieste, perché divertenti, associative e rispondenti alle esigenze. Perché dunque non prenderle in considerazione? L’uso di Internet dilaga tra gli anziani e nessuno lo avrebbe mai detto. Stando alle ultime ricerche Istat sono più dell’81% negli ultimi quattro anni gli utilizzatori della Rete e dei servizi di nuova generazione, come Skype. Tutto questo perché Internet permette a un anziano di sentirsi meno solo e offre la possibilità di comunicare con amici lontani, di scambiarsi foto dei momenti felici, di telefonare (Skype) senza spendere e di vedersi con i propri cari a distanza mediante una normalissima webcam. Gli “over 65” anche se non abili ma interessati, potrebbero trovare un sostegno nei figli o nipoti più giovani. Già la stessa Tecnologica è venuta in aiuto, rendendosi più intuitiva e agevole in ogni azione mediante l’uso di “icone”, su cui “cliccare”. Esistono programmi specifici per gli “over 65”, come “Eldy”, che permettono di usufruire di Internet, posta elettronica, Skype e Social network senza problemi eccessivi. La riscossa dei “nonni” è cominciata e la Rete non è più terreno esclusivo dei giovani. Il software “Eldy”, made in Italy è scaricabile gratuitamente da www.eldy.org. Presenta una piacevole interfaccia grafica, facilmente interagibile e consultabile. Il prodotto ha varcato i confini nazionali e, a oggi, è stato già tradotto in ventidue lingue per la gioia dei molti anziani presenti nel mondo. Proporrei di ricorrere sempre più a queste nuove strumentazioni per incontrare il mondo degli anziani, per rivedere mediante esse il modo di porsi e di atteggiarsi con loro.
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Potremmo approfittare del coinvolgimento tecnologico, per instaurare un interessante scambio intergenerazionale di aiuto, di crescita e di arricchimento. I figli e i nipoti possono essere importanti nell’offrire informazioni e suggerimenti ai propri cari, trasformando così il Web in un “luogo” di contatto fra generazioni con benefici per entrambi. Certamente una passeggiata nel parco e in compagnia potrà essere migliore per tessere relazioni sociali autentiche, ma non occorre demonizzare le opportunità che la tecnologia offre per eliminare il senso di solitudine all’anziano o mantenere la mente allenata e viva. Più gli anziani si mantengono attivi navigatori del Web, più consolidano un ruolo sociale negli scambi e condivisioni esperienziali. Esistono ambienti virtuali, dove è possibile incontrarsi, cooperare e collaborare per progetti comuni da realizzare. Il poter aggiornarsi e apprendere continuamente consente all’anziano di promuovere ulteriormente il proprio processo di crescita personale. Ciò che rimane difficile nei percorsi formativi tradizionali, con la Rete diventa facile e maggiormente partecipato, perché avvincente, coinvolgente e formativo per la presenza anche dei tutors on line, capaci di fornire la propria competenza pedagogica, capacità progettuale e abilità comunicative. Si potrebbero prospettare iniziative interessanti e creare esperienze di sinergie generazionali tra giovani volontari e anziani. Potremmo ipotizzare un progetto e chiamarlo: “Giovani e Anziani uniti dalla Rete”, perché Internet è l’elemento vincente per favorire il contatto utile a entrambe le generazioni. La curiosità di navigare degli anziani, può essere sorretta dagli insegnamenti dei giovani esperti nella funzionalità dei media. I “nativi digitali” sono in grado di offrire assistenza alle persone anziane, colmare la loro scarsa conoscenza e inadeguatezza di utilizzo dei media. La collaborazione tra le diverse età, potrebbe divenire l’occasione per rafforzare una conoscenza reciproca utile ad affrontare in maniera più promozionale le sfide lanciate dalla tecnologia e dalla vita. Le abilità e la creatività dei giovani andrebbero così a fondersi con la saggezza degli anziani in un’ottica di crescita comune. Il progetto di supporto potrebbe nascere con l’intento di aiutare le persone adulte e anziane a usare il computer, la Rete e i nuovi mezzi di comunicazione, sempre se interessate e desiderose di conoscere le potenzialità formative degli strumenti. Nella programmazione progettuale è da consolidare la collaborazione, tra gli aspiranti ad apprendere e i giovani disponibili a insegnare, tra i tutors e le Istituzioni culturali, sociali ed educative presenti nel territorio. È ipotizzabile una struttura articolata in più fasi di Laboratorio-lavoro e
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una pianificazione di incontri tra momenti in presenza e a distanza (blended learning). Nei Laboratori di conoscenza e lavoro, le attività dovranno essere finalizzate al raggiungimento degli obiettivi previsti, riassumibili essenzialmente nella collaborazione, condivisione, crescita e costruzione di conoscenza. Struttura e analisi del Progetto: “Giovani e Anziani uniti dalla Rete” Finalità: Internet è la nuova opportunità da usufruire, per promuovere sinergie di crescita tra giovani e anziani, per unire aspiranti “digitali” con giovani esperti e sviluppare forme di costruzione comune di conoscenza. Metodologia: definire e procedere con: A. Un primo laboratorio di “conoscenza e ascolto” in cui le persone anziane (over 65) sono invitate a manifestare i propri interessi, bisogni, limiti, curiosità e motivi di utilizzo dei media. In cui raccontare aneddoti, episodi di vita o situazioni divertenti da loro vissute alle prese con l’informatica; dove i giovani volontari sono chiamati a presentarsi, mostrando disponibilità di supporto e garanzia per un clima amicale, di aiuto, di confronto e di conoscenza reciproca; in cui le Istituzioni formative, culturali e educative presenti nel territorio diventino un sostegno offrendo energie competenti e laboratori informatici. B. Un secondo laboratorio di “formazione pratica” in cui iniziare a compiere i primi passi di un approccio condiviso in ogni sua forma, definendo assieme calendario delle lezioni da svolgere, contenuti da trasmettere e metodologia da usare. Il clima amicale, creatosi nel Laboratorio di conoscenza, dovrebbe eliminare ogni tipo di esitazione da parte degli anziani coinvolti nel progetto, per cui dovrebbe essere facile passare alle più idonee strategie da usare; si potrebbe partire dal programmare incontri in presenza e a distanza, dall’attivare scambi on line fra Enti culturali e scolastici per costruire forme socializzanti e ricche di significato; dal programmare azioni che assicurino una continuità di un ruolo sociale all’anziano coinvolto. In questa fase l’incontro fra le due generazioni si traduce nell’aiuto dei giovani volontari ad avvicinare gli anziani ai software più funzionali alle loro esigenze e nell’offrire informazioni, per esempio, in merito ai pagamenti da poter eseguire on line, o a come spedire un’e-mail o a come richiedere un’amicizia in Facebook. Padroneggiare la Rete comporta l’opportunità di ricevere aiuto e di ridurre gli stati di ansia e di stress legati al disagio o al disorientamento.
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Con il sostegno dei giovani si può invecchiare in maniera differente e si può continuare ad agire in piena autonomia e consapevolezza anche utilizzando i media. La Rete è occasione, altresì utile, per creare reti di supporto per anziani con disabilità che, altrimenti, avrebbero relazioni sociali assai più limitate. C. Un terzo laboratorio incentrato sul recupero “dell’esperienza e della saggezza dell’anziano”, in cui mediante racconti e dialoghi si ottimizzino le esperienze personali di ciascuno, dove affiorino i segreti e le conoscenze degli antichi mestieri; dove dalle storie di vita e dai buoni consigli s’innesti la speranza di annullare la solitudine e si crei lo stimolo per ogni utente, coinvolto nelle E-Community, a credere ancora, a sentirsi utile e quindi a impegnarsi perché richiesto.
Considerazioni Credo che avvicinare gli anziani alla Rete con una maggiore dimestichezza e padronanza, rappresenti la strada vincente per ogni “over 65” che intenda continuare a vivere e a invecchiare in maniera diversa, che voglia ridurre quel senso di angoscia e di solitudine che spesso lo assale. In Italia, diversi sono stati i tentativi in tal senso e con successi confortanti. Le ultime indagini registrate dall’Associazione Italiana Psicogeriatrica (Aip), dimostrano un netto avanzamento di connessioni da parte della popolazione anziana, di cui circa un milione e mezzo già possiede un profilo Facebook; riesce a stringere contatti con i propri cari e sa usare Skype e gioire nel vedere i filmati dei nipotini su YouTube. Da recenti studi di alcuni medici geriatrici è stato evidenziato anche che, il collegarsi ogni giorno, produce effetti benefici sull’attenzione, memoria e isolamento. Risulta che gli anziani abbiano capito che con un semplice clic possono vivere rapporti con parenti lontani o ricevere risposte alle proprie richieste. La Tecnologia se ben utilizzata è in grado di costruire un ponte di vicinanza con gli anziani rimasti a casa o con quelli delle Case di Riposo o Residenze Protette. È necessario insistere nei corsi di alfabetizzazione e di educazione ai media per ridurre le difficoltà di accesso on line e delle problematiche riguardanti il Digital Divide1 ancora fortemente avvertito. Non è insolito difatti, come abbiamo già detto, constatare che alcune persone anziane incontrano difficoltà nell’uso del proprio cellulare, computer, Rete o televisore digitale. I giovani, gli studenti e gli stessi nipoti sono i più titolati a ridurre certi limiti di utilizzo, a focalizzare l’intervento sull’aiuto, apprendimento, ascolto e socializzazione tra pari.
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Incoraggiare la crescita di presenze anziane in Rete, diventa quasi un dovere per offrire anche ai meno fortunati gli aiuti indispensabili. La Tecnologia nonostante si sia resa intuitiva e semplificata, non è ancora sufficiente a un uso generalizzato senza sostegno. Gli stessi “nonni più audaci”, trasformatisi in “digitali”, hanno ugualmente bisogno di aiuto per un più efficace uso alla loro affermazione ed espressione. Da ipotizzare sono anche alcune forme di collaborazione tra Scuole, Istituzioni, Associazioni, per costruire reti trasversali d’interesse, di ricerca e di approfondimento del sapere e conoscenza. È auspicabile che le Scuole si aprano ancora di più alle nuove Tecnologie, e si rendano dei validi punti di forza per un’educazione digitale, per un’attivazione di percorsi di sostegno e di orientamento tra e con giovani studenti, insegnanti e genitori. Fortunatamente negli ultimi anni sta emergendo la figura di un anziano forte, curioso delle innovazioni, istruito, più ricco di tempo, di salute, di denaro e più voglioso di dare positività al proprio futuro. Non manca nella terza età la fiducia nel futuro e la propensione a progettarsi2 per cui l’utilizzo di Internet, come suggerisce Lawhon (1996)3 potenzialmente rappresenta per la persona anziana non solo un “luogo di ritrovo”, ma anche un valido strumento di partecipazione alla vita comunitaria e a forme di aggiornamento continuo e di condivisione delle proprie conoscenze4. È da sfatare la vecchia immagine del vecchietto che compra solo lo stretto necessario per sopravvivere e che non s’informa, quando nella realtà tende a evolversi e seguire attentamente i cambiamenti sociali5. L’anziano di oggi è in grado di fare emergere una nuova domanda di consumo e la disponibilità che pone a interagire on line, costringe la Tecnologia ad adeguarsi alle sue esigenze, se vorrà continuare a costituire e rappresentare lo strumento ideale se non essenziale alla sua crescita in autonomia anche in età avanzata. Presentazione dell’Autore: Anna Gloria Devoti insegna Tecnologie applicate ai contesti educativi e formativi nel Corso di Laurea Triennale in Scienze dell’Educazione e Formazione presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Arezzo dell’Università degli Studi di Siena. Studiosa delle problematiche connesse al rapporto tra educazione e tecnologia in ambito sociale, familiare e scolastico, esperta in applicazioni tecnologiche ai processi d’insegnamento e apprendimento, vanta una lunga esperienza in percorsi di e-learning e di didattica online in ambienti Web e Social Networking.
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Note 1 Gli anziani presentano problematiche di accesso on line non tanto dissimili ad alcune categorie di disabili. La senilità e le malattie sono le più indiziate a minacciare loro nelle abilità acquisite; i costi eccessivi, le problematiche legate alla sfera emotiva, la diversità di genere e la mancata alfabetizzazione dei mezzi informatici e degli strumenti di comunicazione e informazione costituiscono oggi le nuove barriere di separazione. 2 Si consiglia la lettura della ricerca Anziani e Internet: una relazione in via di sviluppo di Donzelli P.B., per conoscere la frequenza di utilizzo di Internet da parte degli ultrasessantenni, sui perché delle loro navigazioni, sull’accesso e accessibilità e sugli effetti prodotti, all’indirizzo: www.pensionatitaliani.it/wp…/ Internet e Anziani in via di sviluppo.pdf. Siti interessanti da consultare sono anche i seguenti: www.guidanonnisereni.it; www.enonni.it; www.somedia.it; http://parliamone.eldy. org; www.teatroterapia.it/Paolo.html. 3 Vedi www.guidanonnisereni.it. 4 Si consiglia la consultazione del sito www.seniornet.com in merito alla tematica: adulti e computer. 5 Muzzioli, L. (2002), Gli anziani sbarcano on line, in http://www.enonni.it/ giugno1Notizie/news9.htm.
Bibliografia e Sitografia di riferimento BERTOLDI, D. (2000), La differenziazione dei consumi per età e per generazioni: l’impatto dell’invecchiamento su consumi e fabbisogni di servizi, in http://somedia.it/terza_eta/ANZIA.htm. DONZELLI, P.B. (b), Un portale internet per gli anziani, Troina: HR handicap risposte n. 173, 20-22, ibidem (2004), L’utilizzo di Internet per vincere la solitudine in terza età. Ibidem (2003), Anziani e Internet: una relazione in via di sviluppo. LAWHON, T., ENNIS, D., LAWHON, D.C. (1996), Senior adults and computers in the 1990s. Educational Gerontology; vol. 22,2: 194-199. MUZZOLI, L. (2002), Gli anziani sbarcano on line, in http://www.enonni. it/giugno1Notizie/news9.htm. www.enonni.it www.somedia.it www.guidanonnisereni.it http://parliamone.eldy.org www.seniornet.com www.pensionatitaliani.it http://mondodigitale.org/cosa-facciamo/ict-terza-eta/breve-intro
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EDUCARE AD INVECCHIARE Giuseppe Serafini Abstract: The purpose of these pages is to support and demonstrate how an education (in the broadest sense of the word) – that begins from birth and continues into adulthood (relating on the subject strength ad desire of self-education) – is a promotion of authentic humanity and it is also a real education to age. Riassunto: Lo scopo di queste pagine è quello di sostenere e dimostrare come un’educazione (nel senso più esteso e comprensivo del termine) – che inizia sin dalla nascita e continua nell’età adulta (poggiando sicura sulla forza e volontà di autoeducazione del soggetto) – che sia promozione di autentica umanità sia anche vera educazione ad invecchiare. Parole chiave: Filosofia dell’educazione, pedagogia, educazione, autoeducazione, invecchiamento.
1. Il problema La questione, così come è posta, può suscitare forti perplessità. Oggi, però, nessuno può più stupirsi. Ma, a dire il vero, nessuno avrebbe potuto farlo da quando ci si è andati convincendo che l’educazione riguarda, o almeno dovrebbe, ogni essere umano dalla nascita alla morte. L’educazione – utilizzando l’espressione con accezione molto ampia e non solamente in relazione alle dimensioni morali, sociali, civili –, infatti, è evento che riguarda l’umanità di ciascuno: un’umanità che è data e che rimane permanentemente problema, non essendoci automatismi che garantiscano riguardo al suo pieno dispiegamento, alla sua più completa valorizzazione. Né questi sono traguardi che possano essere raggiunti definitivamente, tanto da poter star tranquilli, da vivere di rendita. Fissato un punto, perché mai dovrebbe esserci un educare ad invecchiare? E questa educazione quando dovrebbe avere inizio? L’invecchiare è evento inevitabile, se la vita non si chiude prima. Però, c’è invecchiare ed invecchiare. Questo (evento) può avvenire in molti differenti modi, al di qua di fatti patologici, e sul piano fisico e su quello psicologico, che spesso, assai poco o nulla, hanno a che fare con le intenzioni o i comportamenti del soggetto. La letteratura (conseguenza della ricerca scientifica da differenti ottiche ma anche frutto di particolari esperienze) ha a lungo approfondito
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e descritto questi fenomeni illustrandoci come la vecchiaia possa essere una stagione di pienezza e grande significato dal punto di vista umano ma anche, all’opposto, un tempo di rimpianti, di poche gioie, di pesantezze, di speranze perdute, di disillusioni, di condizioni difficili da sopportare, ecc. Se poco, o spesso niente, è possibile fare di fronte alle grandi patologie che possono sopraggiungere e che possono portare il soggetto a condizioni che poco sembrano avere di autenticamente umano, molto può esser fatto perché gli anni della vecchiaia possano essere, liberati dagli affanni delle stagioni precedenti, anni di pienezza e autenticità umana anche se, inevitabilmente, sul piano fisico, vanno perdute parte delle forze e di quella prestanza, che caratterizzano gli anni della giovinezza e della prima età adulta. L’autenticità umana, della quale vado parlando (in prima approssimazione, quasi in modo generico, che occorrerebbe far riferimento ad un vasto ed importante quadro di riflessioni e conoscenze in proposito), richiama la condizione di chi dispone delle forze e delle energie di un potenziale che ha avuto la possibilità di svilupparsi convenientemente in un rapporto caldo e vivo con gli altri (a cominciare dalle figure parentali) e con il mondo, in un impegno di conoscenza via via più profondo, che ha consentito di scoprire (gli altri e il mondo) e di scoprirsi, che ha concesso di far esperienza e di apprezzare (o criticare) ciò che vale o non vale, che ha permesso di elaborare un non superficiale, non banale, non equivoco progetto di vita, che ha messo in condizione di collocarsi attivamente nella vicenda umana, ecc. Già da questi pochi passaggi appare con una qualche evidenza come l’“educare ad invecchiare” non sia soltanto una trovata estemporanea ma non possa esser altro dall’educare in quanto tale, cioè dal promuovere quell’autenticità e pienezza umana, delle quali ho appena accennato. Autenticità e pienezza, che devono essere salvaguardate, protette e promosse negli anni dell’età evolutiva, come in quelli dell’età adulta. Ed esse sono condizioni decisive per un invecchiamento che sia altro da una maledizione.
2. Spunti dalla ricerca psicologica Un qualche sostegno e legittimazione all’ipotesi appena delineata mi pare che venga in modo significativo dalla ricerca psicologica sugli anziani degli ultimi decenni. Proprio a partire dagli anni sessanta e settanta del secolo appena trascorso, «la psicologia dello sviluppo lungo tutta la vita ha conosciuto un grande rigoglio» (Vanderplas-Holper, 2000, 3) e da quegli anni tutta
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una serie di ricerche ha contribuito a correggere non pochi stereotipi che legavano indissolubilmente invecchiamento e decadimento anche e significativamente a livello intellettuale (Poderico, 1993, 55). Proprio in relazione al decadimento, giova sottolineare come non sembra essere il «processo di invecchiamento in sé a determinare il decadimento della persona, bensì la sua interazione con una serie di altri fattori» (Cesa-Bianchi M., 2004, 30) tra i quali lo psicologo annovera quelli genetici, quelli di natura culturale-educativa (un livello culturale elevato pare migliorare l’invecchiamento), quelli economici (le difficoltà economiche influiscono negativamente sull’anziano), quelli relativi alla salute fisica, quelli di tipo caratteriale-personalogico (un positivo sviluppo della personalità facilita l’invecchiamento), quelli di natura sociale e quelli familiari, quelli legati a particolari eventi di vita (il cambio dell’abitazione, per esempio, influisce negativamente nella vita del soggetto anziano) (Ibidem, 31). Per quanto attiene, poi, la capacità intellettiva, le ricerche – soprattutto quelle longitudinali (Poderico, 1993) – dimostrano come «l’esercizio costante» permetta «di mantenerla operante anche in età senile», mentre la mancanza di questo tenda «a facilitarne un decadimento» (Cesa-Bianchi M., 2004, 30). Tra le condizioni che possono non favorire l’attività intellettuale c’è sicuramente la vita in un ambiente poco stimolante e poco motivante, quantunque non si debba dimenticare come il rendimento inferiore in talune prove, da parte dell’anziano, sia anche da addebitare più ad un calo o variazione di interessi relativamente a certe funzioni o prestazioni che a «depotenziamento delle capacità intellettive» (Poderico, 1993, 39). I soggetti anziani in buona salute «sono in grado di mantenere ed incrementare alti livelli di efficienza intellettiva» (Ibidem, 42). È stato dimostrato che «anche individui ultracentenari possono apprendere cose nuove, persino estranee alla loro cultura» (Cesa-Bianchi M., 2004, 30). Nelle pagine del contributo di M. Cesa-Bianchi, alle quali ho attinto, c’è un rilievo importante relativo alla creatività di e in soggetti anziani, che merita d’essere evidenziato perché conferisce ulteriore spessore alle sottolineature precedenti sull’intelligenza. Lo psicologo ricorda, richiamando molti personaggi celebri – da Tiziano a Rembrandt, da Goya a Picasso, da Michelangelo a Donatello, da Verdi a Stravinskij, da Wright a Le Corbusier, da Chaplin a Wilder, da Sofocle a Goethe, per fare qualche esempio –, come «la creatività possa manifestarsi anche in età senile», creatività che può «mettere l’anziano nella condizione di non perdersi nel vuoto esistenziale e di stimolare sia le funzioni cognitive in declino che quelle meglio conservate: l’attività creativa può aiutare a riprendere una funzionalità e a dare più senso ad un’età» (Ibidem, 49). Non aggiungo altro ai rilievi di una letteratura (quella psicologi-
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ca) oggi assai importante e che, ovviamente, non si limita alle funzioni e dimensioni intellettuali, ma ha indagato e indaga tutti gli aspetti della personalità dei soggetti che entrano in quest’ultima stagione della vita. Anche soltanto le fonti alle quali ho fatto riferimento considerano, oltre l’intelligenza, le motivazioni, le emozioni, il linguaggio, ecc., cioè i vari componenti e l’intera struttura della personalità dei soggetti indagati. A me, però, interessava, in modo particolare focalizzare l’attenzione sulle funzioni intellettuali perché paiono quelle che più delle altre soffrano dei pregiudizi ai quali ho fatto cenno. Pregiudizi che la ricerca psicologica dimostra ormai essere, in larga misura, soltanto tali. L’anziano, infatti, può conservare tutta la forza delle funzioni intellettuali e, dunque, la vecchiaia può davvero «rappresentare una nuova avventura della dimensione esistenziale», la stagione per effettuare «nuove scelte», l’«età liberata» nella individuale vicenda umana (Cesa-Bianchi G., 2004, 188).
3. Per un’educazione autentica A me sembra che questa debba essere la prospettiva (più che legittimata dai pochi rilievi colti dalla ricerca psicologica) a cui guardare proprio pensando ad un’educazione che aiuti ad invecchiare. L’espressione (“educazione autentica”) è sicuramente vaga, e per taluni aspetti equivoca, ma acquista altro spessore se la si collega a tutto un patrimonio di esperienza e di riflessione, che ci ha consegnato il secolo appena trascorso, ma che affonda le proprie radici in una vicenda secolare. Prima però d’inoltrarmi per questa strada (della riscoperta, del ritrovamento), mi corre l’obbligo di insistere e di sottolineare ancora (per quanto a questo punto dovrebbe non esserci proprio bisogno) come l’educazione ad invecchiare abbia da cominciare sin dalla prima infanzia, sin dalla nascita: da quando cioè l’essere umano comincia a gettare le fondamenta sulle quali progettare e realizzare una personale significativa vicenda (di essere umano). Venendo ora a rivisitare almeno alcuni aspetti e tratti di quel patrimonio che il Novecento ci ha consegnato – senza nulla perdere delle importantissime e decisive riflessioni precedenti, a cominciare da quelle delle grandi figure di educatori e pedagogisti dell’Ottocento (ma prima ancora, ovviamente), che altrimenti il secolo successivo non avrebbe potuto offrire tutto quel che di grande ed importante ha fatto e ha detto in fatto di educazione –, si devono anzitutto raccogliere le istanze del movimento (che dalle condizioni che si generano a fine Ottocento trae spinta e ragioni) dell’attivismo e delle esperienze che lo hanno caratterizzato. Esperienze (in modo sicuramente significativo le nostre che meno di
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altre hanno sofferto per taluni eccessi, riduttivismi, equivoci) che hanno ben giustificato, evidenziato e testimoniato la necessità di un’educazione che sia rivolta a tutto il soggetto: a tutti i suoi poteri e dimensioni e sia risposta a tutti i suoi bisogni più profondi (e non solo a quelli più bassi e primari – come da alcuni degli equivoci che ho ricordato – ma anche a quelli relativi al significato della vicenda umana e d’ogni vicenda umana, al progetto di sé che ognuno è chiamato a costruire). Quanto tutto ciò sia importante per i problemi che vado discutendo, è sin troppo ovvio, ma su questo tornerò più avanti. Quello che invece mi preme evidenziare subito (perché lo ritengo decisivo e giusto per questi problemi) è che proprio il movimento dell’attivismo ci ha consegnato un’idea di grande significato dal punto di vista dell’autenticità umana che non deve esser persa negli anni della vecchiaia. Mi riferisco all’idea di “autoeducazione” che è avvertita come scommessa da fare, come risultato da raggiungere perché ci sia vero successo educativo. Sull’idea di autoeducazione – che non può non apparire promettentissima proprio pensando anche all’ultima stagione della vita, che ha da essere vissuta come ulteriore nuova e significativa occasione della dimensione esistenziale, come sollecitava lo psicologo – pagine importanti e chiarificatrici ha scritto Schneider (rispetto al quale utilizzo, in senso più vasto e comprensivo, il concetto di educazione, per cui diventano irrilevanti certe distinzioni che invece egli fa) il quale apre quel suo volume sull’autoeducazione ricordando come questo compito (che è avvertito come tale non solo dalla tradizione e dalla cultura cristiana) è così «connaturato» all’essere dell’uomo che «l’uomo che non lo adempie diventa infedele a se stesso e degenera», ed è fedeltà alla quale ciascuno è chiamato sino alla morte (Schneider, 1956, 15). L’autoeducazione, che è quasi richiesta e necessità che prorompe dall’intimo dell’uomo, è «l’educazione di se stesso attraverso se stesso» (Ibidem, 38). E l’eteroeducazione ha significato autentico quando ha come «fine e conseguenza» proprio l’autoeducazione (Ibidem, 25), che se così non fosse essa formerebbe solo delle «abitudini esteriori che si perderanno» con la fine del rapporto educativo (Ibidem, 27). È sin troppo evidente come l’obiettivo dell’autoeducazione, perseguito nelle migliori esperienze di scuole nuove e approfondito e discusso da Schneider, esiga forze, volontà e consapevolezze non di poco conto. Perché l’essere umano possa prendere in mano la propria educazione, infatti, occorre ch’egli possa espandere e valorizzare a pieno i propri poteri attraverso rapporti ed esperienze che gli consentano di conoscere in profondità il mondo naturale, quello umano e quello sovraumano, che gli permettano di provare ciò che vale davvero e di decidere in proposito, che lo mettano in condizione di scoprirsi e di costruire un progetto non banale della propria esistenza.
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Dopo quel che ho detto credo che non sia difficile intuire quanto il concetto di autoeducazione sia coessenziale a quello di educazione permanente, che oggi ha bisogno di essere riscoperto e rimeditato dopo i molti equivoci degli ultimi venti anni, anche in documenti ufficiali nei quali quest’espressione è stata sostituita, quasi che siano sinonimi, con quella (priva di significato autenticamente umano) di “apprendimento per tutta la vita” (Serafini, 2011). Ben poca e significativa cosa sarebbe l’idea di educazione permanente se prescindesse dalla autonoma, volontaria, consapevole, libera decisione e iniziativa del soggetto. Le ultime sottolineature ci gettano nel bel mezzo di quel vasto patrimonio di riflessione – e di filosofia dell’educazione e pedagogica – del Novecento (ma non solo) nel quale le idee e i concetti precedenti sono da situare. È patrimonio che, dal mio punto di vista, trova significativa forza nel riferimento all’idea dell’uomo come “persona”, che conosce importanti approfondimenti anche nella nostra filosofia cristiana del secolo appena trascorso e sul cui tronco fiorisce quel personalismo pedagogico (quelle filosofie dell’educazione e quelle pedagogie d’ispirazione personalistica) che tanti contributi offre alla definizione del concetto di autenticità umana più volte richiamato e che dà senso e significato a quel che vado sostenendo. Farei torto alla ricerca, nel nostro Paese, di filosofia dell’educazione se non sottolineassi come ci siano personalismi pedagogici che crescono anche fuori dell’alveo della riflessione sull’educazione di ispirazione cristiana e come questi abbiano trovato e trovino significativa espressione anche nella ricerca di questi ultimi anni. Ho insistito e insisto sul personalismo perché da quest’orientamento (nel quale mi riconosco e al quale mi richiamo) proviene l’apprezzamento più pieno dell’essere umano, d’ogni essere umano, e una sottolineatura non equivoca sull’importanza per lo stesso dell’educazione. L’educazione che è – mi richiamo a Stefanini, che è uno dei padri del nostro personalismo filosofico ma anche pedagogico − «maieutica della persona» (Stefanini, 1955, 13) e ciò perché «l’uomo non si trova costituito, fin dall’inizio, nella sua unità personale, razionale, libera e morale, ma conquista la sua razionalità, la sua libertà, la sua personalità con uno sforzo diuturno, al quale può fallire, e spesso fallisce per neghittosità, per indolenza, per cattiveria, per matta bestialità. La personalità dell’essere è difficile a conseguire, perché l’uomo è libertà e può fare anche quello che non deve, cioè può corrompersi con le forze stesse della sua libertà» (Stefanini, 1952, 9). Lo sforzo richiamato (da Stefanini), e rinforzo nuovamente un concetto, mentre per lunghi anni ha bisogno di essere stimolato, assistito e diretto – eteroeducazione – deve poi diventare sempre più impegno consapevole, autonomo, libero del soggetto che ha preso in mano la propria educazione (autoeducazione).
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La prospettiva indicata da Stefanini – l’uomo razionale, libero, morale ma possiamo, senza far torto al filosofo, anche aggiungere: sociale, civile, democratico –, integrata e misurata sulle attese, le esigenze, le consapevolezze della stagione che viviamo, non può non diventare la prospettiva per quell’educazione totale ed autentica, che poi è anche la migliore educazione ad invecchiare. Tutto questo non può, poi, ulteriormente non specificarsi (ma di fatto compreso nelle indicazioni precedenti) anche come (e tocco la questione dei poteri del soggetto) educazione alla e della creatività, come (e questo riguarda gli oggetti dell’educare) educazione che promuove una conoscenza non superficiale (come risposta al bisogno di significato che prorompe dal profondo dell’essere umano, alla necessità ch’egli ha di definire un proprio progetto di vita, all’esigenza di trovare un posto non banale nella vicenda umana) degli universi naturali, umani (dentro il quale non può non esserci la galassia del Web), sovraumani, come educazione interculturale. Il tema dell’educazione alla creatività (che è anche inevitabilmente un educare la creatività) è stato uno tra i grandi (temi) della ricerca pedagogica anche nel nostro paese (in relazione al quale corre l’obbligo di ricordare almeno due linee di ricerca: quella di Mencarelli e quella di Bertin) e la complessità e quantità di approfondimenti esigerebbe un discorso non limitato (perché si rischia di banalizzarlo) a qualche cenno. Qui, tuttavia, mi preme sottolineare che il discorso sulla creatività riporta alla natura stessa dell’uomo, alle «sue risorse profonde e genuine», alla «sorgente prima dell’uomo, donde sgorga l’irrepetibile originalità individuale e quindi la forza di affermazione» di se stesso (Mencarelli, 1980, 55). Quanto su questa forza l’anziano debba poter contare, pare più che evidente perché questa è la stagione in cui può esserci bisogno di ripensare e riprogettare, almeno in parte, la propria esistenza. Se le forze di affermazione, che la ricerca sulla creatività ha svelato, vanno protette e salvaguardate, vanno, però, di pari passo e in ugual misura, sviluppate (ecco perché una educazione della e alla creatività). Al riguardo, un’educazione ad un impegno di conoscenza non banale, non superficiale degli universi che ho ricordato è, per un verso, condizione irrinunciabile per promuovere quelle forze che appartengono al soggetto, ed è, per altro verso, risposta autentica a quei bisogni di significato che emergono dal profondo dell’uomo proprio in conseguenza di quelle forze (poteri conoscitivi) di cui dispone (Nuttin, 1983). A questo proposito, i compiti della scuola sono insostituibili, perché nessun’altra istituzione può consentire un’esperienza tanto in profondità nei differenti universi culturali. E questa è condizione unica per capire la
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vicenda umana e la propria vicenda e per trovare risposte a quel bisogno di significato, che ho ripetutamente ricordato. Tra questi universi non può non esserci quello religioso (come quello degli atei). Un universo, anzi una molteplicità di universi da conoscere, nella loro specificità, non superficialmente. Universi (compreso quello delle ragioni profonde degli atei, ribadisco) nei quali possono essere trovate risposte alla propria avventura umana (pure nella vecchiaia). Universi che sono da conoscere seriamente (nelle loro differenti espressioni, manifestazioni, caratteristiche, opzioni) anche per conoscere e capire gli altri (compreso quelli che provengono da mondi, culture, esperienze molto distanti, profondamente differenti) e cercare di convivere fraternamente con essi. Quanto nelle ultime sottolineature ci sia pure una parte decisiva di quell’educazione morale, sociale e civile di cui dicevo, mi pare abbastanza scoperto. Un’educazione che non può non trovare nell’altro, in ogni altro e nel suo bene e nel bene di tutti il punto di riferimento. Presentazione dell’Autore: Giuseppe Serafini, Professore ordinario di Storia della pedagogia nella Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Siena, sede di Arezzo. La sua attività di ricerca si è mossa su alcune linee direttrici fondamentali: la filosofia dell’educazione, l’epistemologia pedagogica, la storia della pedagogia e dell’educazione, che di fatto taglia trasversalmente tutti gli altri ambiti. Tra i suoi principali scritti si ricordano: Critica pedagogica e educazione morale, Quaderni dell’Istituto di Pedagogia, Facoltà di Magistero, Arezzo, 1986; Questioni di filosofia dell’educazione. La ricerca italiana dal 1945 ad oggi, Euroma, 1988; Epistemologia pedagogica in Italia (1945-1995), Bulzoni, 1995; L’idea di pedagogia nella cultura italiana dell’Ottocento, Bulzoni, 1999; Laicità educazione scuola nella pedagogia italiana dall’Unità ai giorni nostri, Bulzoni, 2003; Pedagogie del Novecento in Italia, Bulzoni, 2008; Educazione morale. Pagine di storia di pedagogia dell’infanzia, in collaborazione con S.S. Macchietti, Armando, 2011.
Bibliografia CESA-BIANCHI, G. (2004), «La nuova immagine della vecchiaia», in M. Cesa-Bianchi, O. Albanese (a cura di), Crescere e invecchiare nella prospettiva del ciclo di vita, Milano, Unicopli. CESA-BIANCHI, M. (2004), «La psicologia dell’invecchiamento», in M. Cesa-Bianchi, O. Albanese (a cura di), Crescere e invecchiare nella prospettiva del ciclo di vita, Milano, Unicopli.
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MENCARELLI, M. (s.d., ma il volume è stato pubblicato nel 1980), Ricerca pedagogica: mappa lessicale e bibliografica (a cura di G. Serafini), Arezzo, Università degli Studi di Siena, Facoltà di Magistero di Arezzo, Quaderni dell’Istituto di Pedagogia. NUTTIN, J. (1983), Teoria della motivazione umana, trad. it. di M.D. Angelicola, Roma, Armando. PODERICO, C. (1993), L’anziano. Nuove prospettive in psicologia, Napoli, Liviana Medicina. SCHNEIDER, F. (1956), L’autoeducazione. Scienza e pratica, tr. it. di L. e C. Magliano e M. Laeng, Brescia, La Scuola. SERAFINI, G. (2011), «Fine di una illusione?», in Prospettiva EP, n. 2-3. STEFANINI, L. (1952), Personalismo sociale, Roma, Studium. VANDERPLAS-HOLPER, C. (2000), Maturità e saggezza. Lo sviluppo psicologico in età adulta e nella vecchia, trad. it. di M. Parizzi, Milano, Vita e Pensiero.
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SENZA FRETTA DI INVECCHIARE Sergio Angori Abstract: Because of the fact that many people under 75 and even some over 75, are still healthy and refuse to consider themselves “old”, we need to look to the third age by revising our paradigms, our conceptual models throught which we describe the process getting older. This contribution address the importance of education in the process of getting old. Who live the third age needs to begin – in time – to learn how to face experiences not related to the work life, how to re-design it own life and how to keep body and mind active. Riassunto: Il contributo muove dalla considerazione che molte delle persone under 75, ma anche una parte di coloro che superano tale età, se si sentono ancora in buone condizioni di salute rifiutano la definizione di “vecchi”. Tutto ciò va producendo una profonda revisione dei paradigmi e dei modelli concettuali con cui vengono analizzati e descritti i processi di invecchiamento della popolazione. Chi vive la terza età è chiamato a riprogettare in larga misura la propria vita, preparandosi ad affrontare attività ed esperienze diverse da quelle lavorative e soprattutto ha bisogno di “imparare ad invecchiare”. Orientarsi per tempo a mantenere attivi il corpo e la mente è un importante presupposto per una vecchiaia serena e l’educazione gioca un ruolo rilevante. Parole chiave: educazione all’invecchiamento, invecchiamento attivo, anziano, preparazione al pensionamento.
Longevità ed educazione all’invecchiamento Il titolo di questo contributo richiama in modo evidente quello di un saggio di Alessandro Cavalli e Olivier Galland (Senza fretta di crescere) pubblicato nel 1996, in cui si dava conto (Cavalli, Galland, 1996) del perché i giovani, già da allora, tendessero a rinviare il loro ingresso nella vita adulta e a guardare con diffidenza agli impegni derivanti da tale passaggio generazionale. La mancanza di fretta nell’invecchiare, da tempo rilevata dagli studi condotti sui mutamenti sociali e palesemente ostentata in un testo di Arrigo Levi (La vecchiaia può attendere), ha però motivazioni assai diverse (Levi, 1997). Buona parte dei sessantacinquesettantenni, classificati come “anziani” in ragione dell’età anagrafica, non si riconosce come tale e rifiuta una definizione che non fa distinzione tra
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coloro che sono ancora in piena efficienza e quanti denunciano invece un deterioramento delle funzioni fisiche e di quelle cognitive. La soglia che segna la transizione alla “terza età” non la si attraversa, d’altronde, al raggiungimento di una data predefinita: è qualcosa che ha a che fare con la genetica e con la biografia personale, con il contesto socio-culturale in cui si vive, con la rete di relazioni in cui si è immersi, con l’idea di sé che ciascuno si è costruito, oltre che con eventi fortuiti della vita (incidenti, infortuni, lutti familiari, ecc.). E, si badi bene, il fenomeno non può essere ricondotto a patetiche forme di giovanilismo: a parte frange limitatissime di persone di quest’età che non disdegnano di ricorrere alla chirurgia estetica o che si affidano all’azione miracolosa di palestre, cosmetici e integratori alimentari, molte altre avvertono, semplicemente, di essere ancora sufficientemente vigorose nel corpo, lucide di mente, ricche di curiosità da soddisfare, fortemente motivate da interessi che intendono coltivare e da progetti da realizzare. Non senza qualche ragione rifiutano, quindi, di considerarsi anziane e, men che meno, vecchie; quantomeno valutano prematuro adottare stili di vita e modi di pensare che ritengono propri di un’età della vita alla quale non pensano ancora di appartenere. Di ciò offre una testimonianza significativa Joan Erikson che, ricordando l’accurata ricerca – compiuta assieme al marito Erik – delle parole che meglio sintetizzano la specificità delle diverse età della vita (amore, cura, saggezza), nelle pagine introduttive ad una edizione de I cicli della vita uscita dopo la scomparsa del marito così scrive: «Sebbene avessimo iniziato ad ammettere il nostro status di anziani verso gli ottant’anni, credo che non ne affrontammo realisticamente le sfide fino ai novanta» (Erikson, 1999, 10). Questo non significa che gli anziani rifiutino l’idea secondo cui il processo di invecchiamento delle persone (come di tutti gli esseri viventi) costituisce un fatto naturale: sanno benissimo che tale processo non può essere fermato, ritengono tuttavia che ne possa essere rallentato il corso. Del resto, là dove essi continuano ad aver voglia di vivere, a svolgere una qualche attività che impegni il loro tempo, a mantenere stretti rapporti con i familiari e con il contesto sociale, le loro complessive condizioni di salute appaiono di gran lunga migliori di quelle di chi, a poco a poco, (a partire dal pensionamento) si lascia invece andare a stati di depressione che accentuano il senso di inutilità e di isolamento, o di chi coltiva forme di risentimento verso questo o verso quello (parenti, vicini, ex colleghi, datori di lavoro, stato sociale, ecc.). Anche a motivo di quanto appena annotato, un certo modo di considerare gli anziani esclusivamente come soggetti bisognosi di servizi specificamente loro dedicati, di cure e di tutele speciali sta lasciando il posto a concezioni che sottolineano la multidimensionalità della realtà rappresentata dal “pianeta anziani” (Dozza, Frabboni, 2010). Più che di
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anziano dovremmo parlare, in effetti, di anziani. Peter Laslett sottolinea, al riguardo, che la terza età rappresenta “una vera novità concettuale”, è una fase svincolata da rigidi riferimenti temporali e, al di là dei pregiudizi che l’accompagnano (agisme), costituisce il momento della realizzazione piena della persona, in quanto porta a compimento l’esistenza individuale consentendo a ciascuno di esprimere, in piena libertà, aspetti significativi della propria personalità (Laslett, 1992). Perché possa essere un’età non condizionata da gravi problemi di salute c’è però bisogno che sia preceduta ed accompagnata da diffuse forme di educazione sanitaria, da una maggiore formazione geriatrica dei medici di medicina generale, da politiche sociali che tengano conto delle esigenze di chi vive questa età. La promozione del “benessere” fisico, mentale e sociale dell’anziano costituisce un cambiamento, sul piano culturale, che non è affatto cosa di poco conto. Il paradigma socio-assistenziale-sanitario, fin qui strettamente associato alla condizione di chi è in là con gli anni, sta lasciando spazio a modelli di sviluppo che prevedono, tra i loro punti di forza, la capacità delle persone di “saper invecchiare” e che quindi incentivano la prevenzione, l’educazione, la disponibilità dei singoli a riprogettare costantemente la propria esistenza tenendo conto dell’età. La vecchiaia non è solo decadimento psico-fisico e, in ogni caso, non si possono mettere sullo stesso piano le condizioni di vita di chi sperimenta qualche momentaneo deficit cognitivo con quelle di chi presenta serie forme di compromissione delle funzioni mentali. È un’età che, al pari di quelle precedenti, chiede di saper attraversare nuovi “territori”, di ripensare il futuro, di far tesoro delle esperienze e delle capacità che si possiedono, di costruire le competenze di cui si ha bisogno. Ciò che ci proponiamo in queste pagine è di analizzare alcuni dei cambiamenti culturali che stanno investendo l’idea di vecchiaia e le implicazioni educative che tutto ciò comporta. In proposito, occorre considerare, innanzi tutto, che il rapporto con il lavoro sta cambiando: cresce il numero di coloro che, particolarmente nel settore terziario, intendono continuare a lavorare anche oltre l’età del pensionamento o che sono interessati, comunque, ad attività che impegnino il loro tempo (volontariato, cura dei nipoti, giardinaggio, ecc.). Così come aumentano gli anziani che dedicano una parte del loro tempo ad attività culturali (dalla lettura del quotidiano all’assistere a conferenze su temi di loro interesse, dalla visita a musei al viaggiare, dalla frequenza di corsi promossi da Università della terza età all’impegnarsi in associazioni che operano nel settore del no profit). Per non dire, infine, della sorprendente capacità che una parte di loro ha nel relazionarsi con le nuove tecnologie (dalla navigazione su Internet all’uso dei social media), smentendo luoghi comuni che spingono a considerarli pregiudizialmente refrattari a tutto ciò che si presenta come “moderno”.
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Un dato è certo: l’invecchiamento va preparato per tempo; chiede consapevolezza dei “compiti di sviluppo” che appartengono a questa età, necessita di essere pensato, progettato, realizzato giorno dopo giorno mantenendo attivo il proprio corpo e la propria mente. Marcello Cesa Bianchi, autorevolissimo studioso di tali questioni, sottolinea come l’“arte di invecchiare” abbia bisogno di essere esercitata in modo appropriato e come tale età sia capace di alimentare funzioni primarie: l’intelligenza, la creatività, l’affettività, il cui sviluppo accompagna l’intero corso della vita (Cesa Bianchi, 1998). L’adozione di corrette abitudini di vita (sana alimentazione, attività motoria, controllo periodico dello stato di salute), insieme ad una assistenza sanitaria efficiente, alla possibilità (quantomeno per coloro che lo desiderano) di rimanere più a lungo nel mondo del lavoro, all’adozione di politiche di inclusione sociale (permanenza degli anziani in famiglia, nel loro contesto di vita, possibilità di socializzare con coetanei e con giovani, ecc.) e al diffondersi di una cultura che responsabilizzi le persone, per quanto è in loro potere, ad “invecchiare bene”, rappresentano un presidio che presenta implicazioni non solo economiche. Occorre quindi che sia il sistema di welfare, oggi in vigore, ad essere ripensato ed è di tutta evidenza che la decisione, adottata dal Consiglio europeo, di fare del 2012 l’Anno Europeo dell’invecchiamento attivo e della solidarietà tra le generazioni, ha inteso stimolare, per l’appunto, una riflessione su questo tema. Un tema che chiede una pluralità di interventi: da quelli di natura socio-assistenziale e sanitaria a quelli che riguardano le politiche per la famiglia, da quelli finalizzati allo sviluppo sociale a quelli riguardanti la diffusione di un nuovo modo di guardare all’anziano. Sviluppare una cultura dell’invecchiamento attivo lungo tutto il corso della vita non è solo un impegno di civiltà, umanamente e socialmente apprezzabile; costituisce un fattore destinato ad incidere in modo rilevante sulla coesione sociale. La “sostenibilità” dell’invecchiamento, per più ragioni, va seriamente presa in considerazione: i dati Istat del 2007 (resi noti nel 2009) rivelano che nella classe d’età 55-64 anni, la popolazione italiana non attiva rappresentava, a quella data, ben il 65% del totale e la situazione nel frattempo non è cambiata in modo significativo. Ciò detto, in un momento di riduzione delle risorse economiche dobbiamo chiederci: è pensabile che possa crescere la quota dei bilanci destinata ad investimenti nei servizi per le persone di cui ci stiamo occupando? Previsioni affidabili ci dicono che la demografia (in particolare l’innalzarsi dei tassi di invecchiamento della popolazione) farà sentire i suoi effetti principalmente in ambito sanitario. Per render governabile la spesa in tale settore appaiono necessari, di conseguenza, interventi che riducano o almeno posticipino l’insorgenza di patologie serie, cui sono associate, in genere, cure che hanno costi assai rilevanti. La collaborazione dei cittadini nel mantenere più a lungo possibile il proprio stato di salute è, pertanto,
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di fondamentale importanza. Le condizioni perché ciò possa realizzarsi sembrano esserci: gli indici complessivi di salute degli anziani sono infatti enormemente migliorati rispetto al passato, il livello medio di istruzione – anche in tale fascia di età – si è innalzato (e ciò ha implicazioni anche sulla salute dei cittadini), l’attività di prevenzione finalizzata a ridurre i comportamenti a rischio (consumo di tabacco, di alcolici, sedentarietà, ecc.) sta dando i suoi frutti.
Lavoro e pensionamento: oltre una concezione sequenziale delle fasi del “corso della vita” Il lavoro, per la generazione che oggi si affaccia alla terza età (la generazione del baby boom), ha rappresentato un tratto dell’identità personale e sociale estremamente importante. Chi appartiene a tale generazione non ha incontrato, salvo casi eccezionali, particolari difficoltà nel procurarsi una occupazione lavorativa più o meno coerente con le proprie attitudini e competenze ed ha potuto beneficiare di una serie di tutele che oggi sono invece messe in discussione. Talvolta si è trattato di lavori gravosi, usuranti, ripetitivi, non gratificanti. In altri casi non sono mancate opportunità di carriera, soddisfazioni professionali, possibilità di occupare posizioni lavorative di crescente prestigio. È una generazione, per dirla con Aris Accornero, che ha vissuto il progressivo declino del vecchio mondo industriale e la vertiginosa espansione delle attività terziarie (Accornero, 2001), che ha dovuto confrontarsi con l’idea della fine del “posto fisso”e con la prospettiva di dover cambiare lavoro più volte nella vita (oltre che con quella, inquietante, della “fine del lavoro”), che ha assistito al venir meno della tradizionale classificazione delle attività lavorative (quelle proprie delle “tute blu” e quelle dei “colletti bianchi”), che ha visto crescere il numero dei “lavoratori della conoscenza” (tecnici, professional, manager, ma anche quadri, impiegati ed operai specializzati), figure che dispongono di un elevato grado di expertise e che «si guadagnano da vivere con il proprio pensiero». Alla società del lavoro si è andata gradualmente sostituendo la società dei lavori: alcuni di essi – quelli che richiedono bassi livelli di istruzione – continuano ad avere una forte impronta esecutiva, routinaria e una scarsa protezione (sono i lavori delle 3 D: dirty, dangerous, demanding), mentre altri abbisognano di competenze sempre più elevate. La brain economy, l’economia cognitiva, quella della mente, convive così con la sweat economy, con quella cioè della fatica fisica e del sudore. All’interno di questo scenario, caratterizzato da bruschi e radicali cambiamenti, i lavoratori anziani in molti casi hanno saputo adeguarsi ai nuovi assetti organizzativi e produttivi, sono stati capaci di riconfigura-
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re il proprio ruolo, sono riusciti ad aggiornare le competenze possedute ed hanno imparato ad avvalersi delle nuove tecnologie; in altri si sono invece sentiti “spaesati”, si sono scoperti impreparati a tenere il passo delle innovazioni che avanzavano. Se per i secondi l’uscita dal mondo del lavoro ha rappresentato e rappresenta la fine di una condizione esistenziale fatta di difficoltà e di stress, per i primi si stanno invece ampliando le opportunità di un allontanamento graduale dall’attività professionale svolta (attraverso l’utilizzo di istituti come il part time, i contratti di consulenza, l’affidamento di compiti di supervisione e via dicendo). Il “corso della vita” non appare più scandito da tappe rigidamente sequenziali: formazione, lavoro, collocamento a riposo. Quantomeno questo tipo di sequenzialità non opera per tutti allo stesso modo e con riferimento alla stessa età. L’opportunità di un allungamento dell’attività lavorativa riguarda principalmente – è doveroso precisarlo – lavoratori in proprio e figure professionali particolarmente qualificate, con elevati livelli di istruzione, che dispongono di un patrimonio di esperienza di cui le imprese fanno fatica a privarsi in modo repentino. Paola Nicoletti in Invecchiamento attivo e alte professionalità (Nicoletti, 2011) si sofferma su una indagine che ha coinvolto dirigenti di azienda ultracinquantacinquenni (parte dei quali pensionati ed altri ancora occupati) finalizzata a rilevare il modo in cui questi vivono o si apprestano a vivere il pensionamento, l’interesse che hanno (o non hanno) a prolungare la durata della vita professionale, il tipo di impegni che sono pronti ad assumersi con il pensionamento, la disponibilità che mostrano per attività formative che consentono di acquisire nuove competenze utili per svolgere l’attività che seguirà. Dalla ricerca emerge che gli anziani in questione, insieme al mantenimento di uno stretto legame con l’attività lavorativa (come esperti, come tutor nei confronti dei giovani manager e dirigenti, ecc.) sono disponibili ad assumere ruoli di responsabilità in strutture e servizi rivolti alla cittadinanza mettendo a disposizione le loro competenze organizzative e manageriali. In particolare ritengono di poter dare un contributo specifico nei settori della formazione del personale, della gestione amministrativa in strutture più o meno complesse, del coordinamento organizzativo. I dati raccolti attraverso la ricerca cui si è fatto riferimento forniscono importanti elementi di riflessione soprattutto sulla “preparazione al pensionamento” da parte di queste figure che, più di altre, vivono la conclusione dell’esperienza lavorativa come un evento segnato da un drastico mutamento di ruolo e di prestigio sociale. Sono infatti persone che vedono all’improvviso mutare la considerazione di cui avevano fino ad allora goduto e che devono sapersi ricollocare in altri contesti spesso con responsabilità e incarichi assai più modesti, se non “ritirarsi a vita privata”.
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La frenetica vita professionale che esse hanno svolto ha mirato, in genere, al conseguimento di profitti per l’azienda da cui dipendevano; ciò spiega, ad esempio, la loro iniziale scarsa propensione, come pensionati, ad impegnarsi nel mondo del volontariato e la preferenza per un eventuale coinvolgimento in attività in cui la dimensione “economica” sia invece rilevante. Nondimeno, quando “scoprono” i valori di cui le associazioni di volontariato sono espressione se ne fanno paladini convinti. Potrebbe allora essere opportuno, negli anni conclusivi della carriera lavorativa delle persone (e questo vale per chi occupa posizioni lavorative apicali come per chi è impegnato in mansioni prive di particolari responsabilità), affiancare all’attività professionale svolta altri impegni che facciano loro scoprire “mondi” sconosciuti (ai quali auspicabilmente dedicarsi dopo il pensionamento) e che implicano funzioni diverse da quelle abituali. La transizione “soft” verso il pensionamento, annota Nicoletti (Ibidem, 139), vede altri Paesi sperimentare modelli flessibili di disimpegno dal lavoro che, per un verso, consentono alle imprese di continuare ad avvalersi delle competenze dei loro dipendenti senior (se pure con un impegno ridotto e per un periodo limitato) e, per l’altro, mette questi ultimi in condizione di non trovarsi, da un giorno all’altro, a non aver nulla da fare. Che la preparazione alla transizione dalla condizione lavorativa al pensionamento abbia anche una dimensione educativa appare scontato. Lo conferma il fatto che nella progettazione del proprio futuro, anche in tale momento del corso della vita, ci sono condizioni di partenza da tenere presenti, obiettivi da fissare, attività funzionali al loro raggiungimento da prevedere, compatibilità da considerare. Tutto ciò chiede di riflettere, scegliere, decidere ed esige soprattutto capacità di esplorazione del proprio potenziale educativo.
Attività culturali e motorie: un contributo alla promozione della salute La drastica riduzione dei lavori che richiedono fatica fisica, insieme al miglioramento delle generali condizioni di vita (abitazioni dignitose, alimentazione migliore, igiene personale accurata, controlli sanitari frequenti, ecc.), all’innalzamento dei livelli di istruzione della popolazione e ad una efficiente rete di strutture socio-sanitarie, fa sì che la marginalità sociale (cittadini che vivono in stato di abbandono o che non sono in grado di provvedere a loro stessi), nonostante l’aumento nel nostro Paese del numero dei “poveri”, sia un fenomeno abbastanza contenuto. La presenza di capillari servizi impegnati in attività di prevenzione e di assistenza agli anziani, l’attivazione di forme di sostegno alla famiglia affinché possa farsi carico della loro “gestione”, il supporto offerto in questo ambito dal
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tessuto del volontariato, rappresentano questioni nodali di qualunque riflessione si intenda fare sul tema di cui stiamo discorrendo. All’elenco appena stilato riteniamo tuttavia di dover aggiungere almeno un altro elemento, non meno importante: la creazione di condizioni e di opportunità che consentano agli anziani di mantenere attive le loro capacità cognitive. Pensare ad un uso non “passivo” della televisione, con la messa in onda – in certe fasce orarie – di programmi di informazione dedicati a questa età, alla creazione di spazi informali (ne sono un esempio quelli creati, in alcune città, all’interno del servizio “Informagiovani”) in cui abbiano modo di incontrarsi tra loro per sfogliare un giornale, conversare, avere informazioni su questioni di comune interesse (pensione, tasse, benefici di cui avvalersi, ecc.), sul modo di occupare il loro tempo (strutture del territorio a cui rivolgersi per offrire collaborazione o ricevere aiuto), alla possibilità di partecipare ad iniziative culturali e ricreative (dalla visita ai monumenti della città alla partecipazione alle iniziative dei circoli culturali ivi operanti o a quelle promosse da organizzazioni sportive amatoriali), consente di aprire squarci su una possibile, diversa, condizione dell’anziano di gran lunga preferibile a quella che oggi è dato riscontrare. E questo a costi del tutto sopportabili, impiegando in attività di mutuoaiuto la preziosa risorsa costituita dagli anziani stessi. Le ricerche ci dicono che l’esercizio, continuo nel tempo, delle funzioni mentali attraverso esperienze ed attività di socializzazione, di stimolazione culturale, di coltivazione di hobby (dalla lettura al cinema, dal gioco delle carte a quello degli scacchi) giova a ridurre o ritardare in misura significativa il declino cognitivo dovuto all’invecchiamento nonché l’insorgenza di patologie come l’Alzheimer o le demenze senili, consentendo risparmi sul piano economico oltre che una riduzione della sofferenza dei singoli e delle famiglie. Dare la possibilità agli anziani, più di quanto accada oggi, di avere accesso, ad esempio, ai beni culturali (musei, biblioteche, siti archeologici, concerti, spettacoli teatrali, ecc.) risponde non solo ad esigenze di giustizia sociale (perché rappresenta una sorta di “risarcimento” di diritti di cui spesso non hanno potuto beneficiare), ma costituisce anche un modo per promuovere concretamente forme di cittadinanza attiva da parte di queste persone, per responsabilizzarle alla tutela del patrimonio culturale di cui il Paese dispone e soprattutto per far loro vivere – ci riferiamo in particolare a coloro che sono in possesso di modesti livelli di istruzione – esperienze gratificanti (l’incontro, ad esempio, con il bello), così che possano ricavarne il convincimento che tutti, senza distinzione, sono in grado di avvicinarsi alle più alte espressioni dell’arte. È del resto sintomatico che siano proprio gli anziani – una volta che hanno scoperto la possibilità (e la facilità) di accedere alle biblioteche pubbliche o che hanno vinto la ritrosia nel varcare la soglia di un museo – i frequentatori più assidui e più soddisfatti di tali istituzioni
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(Angori, 2011). E la ragione è semplice: «L’apprendimento in questo contesto – come è stato fatto rilevare – è allo stesso tempo intimo e collettivo, privato e pubblico. […]. Le gallerie, le mostre e i musei possono diventare dei catalizzatori di esperienze continue […] che hanno il potere di trasformarci» (Thinesse-Demel, 2004, 9). Si tratta di un apprendimento autodiretto, che chiama in causa la capacità di decidere sulle esperienze da compiere, sui modi e sui tempi in cui farle e, prima ancora, se, come, quanto e quando investire sulla propria autorealizzazione. Parallelamente alla coltivazione delle abilità cognitive l’anziano è chiamato a mantenere efficiente, per quanto gli è possibile, il corpo. Fare movimento, stare all’aria aperta, alimentarsi in modo sano e con moderazione sono suggerimenti che si sente ripetere continuamente. Perché essi si traducano in comportamenti c’è però bisogno che maturi in lui la piena consapevolezza dei vantaggi che ne conseguono. E questo assume un particolare rilievo in presenza di patologie come ad esempio il diabete, nelle quali il successo della terapia farmacologica è fortemente correlato all’adozione di corretti stili di vita. Studi condotti in materia evidenziano come la partecipazione del paziente ad attività formative, finalizzate ad illustrare la relazione, appunto, tra abitudini di vita e terapia seguita, sia determinante per il buon esito dell’intervento medico (Garista, Zannini, 2011). Da ultimo, e non è una cosa irrilevante, va detto che sul benessere psico-fisico degli anziani incidono in misura significativa la passione per la vita, la serenità personale, la fiducia nell’avvenire, il senso di autorealizzazione. Temi che Romano Guardini traduce in questa massima: «invecchia nella giusta maniera soltanto chi accetta interiormente di diventare vecchio» (Guardini, 1992, 99). Il filosofo e teologo annota poi che l’anziano, nella misura in cui compie questo tipo di accettazione, muta il suo rapporto con i giovani: «Perde l’astio nei riguardi della vita che gli scivola di mano e l’invidia per coloro che l’hanno ancora piena. Riconosce il valore dell’esistenza giovanile, anzi impara ad amare i giovani e cerca di aiutarli» (Ibidem, 101). Riprendendo questo concetto così scriverà Giovanni Paolo II, nel 1999, nella sua Lettera agli anziani: «Gli anziani aiutano a guardare alle vicende terrene con più saggezza, perché le vicissitudini li hanno resi esperti e maturi. Essi sono custodi della memoria collettiva, e perciò interpreti privilegiati di quell’insieme di ideali e di valori comuni che reggono e guidano la convivenza sociale. Escluderli è come rifiutare il passato, in cui affondano le radici del presente, in nome di una modernità senza memoria. Gli anziani, grazie alla loro matura esperienza, sono in grado di proporre ai giovani consigli ed ammaestramenti preziosi». E aggiungerà: «Mentre parlo degli anziani, non posso non rivolgermi anche ai giovani per invitarli a stare loro accanto» (Giovanni Paolo II, 1999).
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Diminuiscono digital divide e cultural divide Il Decimo Rapporto Censis/Ucsi sulla comunicazione (Censis-Ucsi, 2012) reca un titolo che invita a riflettere: I media siamo noi. La tesi che sviluppa è questa: «ognuno si costruisce una nicchia di consumi mediatici a misura di se stesso». L’espressione appena richiamata sintetizza l’evoluzione che si è registrata nei consumi mediatici: «siamo noi stessi a costruirci i nostri palinsesti multimediali personali, tagliati su misura in base alle nostre esigenze e preferenze». Su tutto ciò incidono, ovviamente, le competenze tecnologiche e l’età. Questo vale sia con riferimento alla possibilità di «costruirci percorsi autonomi di accesso alle informazioni, svincolati dalla logica top-down del passato che implicava una comunicazione verticale, unidirezionale, dei messaggi da parte delle fonti ufficiali», sia in relazione ai contenuti, di intrattenimento o di altro tipo, che sono di nostro gradimento. Affermare che “i media siamo noi” equivale a prendere atto, per un verso, della possibilità (offerta a tutti) di produrre contenuti digitali e, per l’altro, che le attuali tecnologie della comunicazione esaltano il “primato del soggetto”. Ciò significa che l’io, come si legge ancora nel citato Rapporto, «è al tempo stesso soggetto e oggetto della comunicazione mediale […] gli utenti della rete creano di continuo contenuti aggiornando il proprio status, postando commenti, pubblicando fotografie e video, immettendo in rete una quantità di dati personali impressionante, che rivelano in modo estemporaneo pensieri, emozioni, abitudini, opinioni politiche, orientamenti religiosi, gusti sessuali, condizioni di salute, situazioni sentimentali, amicizie, località visitate, preferenze di consumo, percorsi formativi, vicende lavorative e professionali, vizi e virtù personali, nonché informazioni che riguardano anche gli altri, familiari e conoscenti». Come si relazionano gli anziani con questa realtà, stimolante e disorientate al tempo stesso? Quanto pesa il difficile rapporto che molti di loro hanno ancora con le tecnologie? Al riguardo va osservato – è sempre il Decimo Rapporto Censis/Ucsi a darne conto – che più della metà del Paese ha compiuto stabilmente il salto oltre la soglia del digital divide: gli italiani “digitali” (dati 2012) sono infatti oltre il 62% della popolazione (erano il 27,8% nel 2002 e intorno al 50% nel 2011). Va però detto che non si tratta di una metà omogenea: la maggioranza dei “digitali”sono uomini e, preponderante, è il dato delle persone istruite (84%) rispetto a quelle con bassi livelli di istruzione. I giovani che, in misura più o meno ampia, hanno una alfabetizzazione informatica sono oltre il 90% del loro universo di riferimento, mentre il dato riguardante gli adulti è intorno al 50% e quello degli anziani si aggira sul 15%: dato che, peraltro, anno dopo anno fa registrare significativi balzi in avanti.
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Prosegue in particolare la diffusione dei Social network riscontrata negli ultimi anni, con una tendenziale sovrapposizione tra Internet e Facebook: è infatti iscritto a Facebook il 66,6% delle persone che hanno accesso a Internet (erano il 49% lo scorso anno). Quanto all’uso di YouTube, che nel 2011 riguardava il 54,5% di utenti tra le persone con accesso a Internet, arriva ora al 61,7% (pari al 38,3% della popolazione complessiva). Se i Social media registrano una rapida crescita, preoccupa invece l’emorragia di lettori della carta stampata e dei mezzi di informazione tradizionali. La fotografia del Rapporto Censis/Ucsi 2012 ci dice che le persone con “diete” basate solo su media audiovisivi (tv e radio) erano nel 2002 il 46,6% del totale, mentre gli italiani con diete che includevano Internet erano solo il 17,1%. In dieci anni la situazione si è capovolta: questi ultimi sono arrivati al 55,5% e i primi sono scesi al 25,2%. Il cultural divide – la condizione di marginalità vissuta da chi “si nutre” con una dieta mediatica costituita solo da tv e radio – «non è scomparso e coinvolge ancora un quarto della popolazione, però non rappresenta più il tratto distintivo degli italiani». In particolare, il cultural divide (se pure in calo) risulta ancora presente tra i più anziani, con 65 anni e oltre (43,2%), e tra le persone meno istruite. Su tutto pesa un livello di competenza alfabetica della popolazione che, nel nostro Paese, resta preoccupante (Angori, 2009). Concludiamo con una annotazione riguardante quanto emerge dal Rapporto Pew Internet & American Life Project 2009: tra le persone anziane che accedono ad Internet è il servizio di posta elettronica a riscontrare il maggior utilizzo ed il più alto apprezzamento da parte degli utenti. Il dato non stupisce: gli over 65, più di altri, sentono il bisogno di comunicare e di socializzare. La posta elettronica è un ottimo mezzo per poterlo fare: semplice nell’uso, è comoda, efficace, stimola il buonumore perché rivela attenzione da parte di altri e non ha alcun costo. Ad essa si affiancano altri strumenti: chat, blog, Social network che, oltre allo scambio di testi, consentono di conversare, di condividere foto e filmati, di coltivare passioni e interessi, di fare nuove amicizie, di chiedere e di fornire informazioni. Un impiego interessante delle nuove tecnologie potrebbe riguardare le videochiamate con Skype, in particolare quelle destinate a pazienti di strutture che ospitano soggetti con patologie mentali severe (accolti in case di riposo, RSA, ecc.): la visione del volto di un familiare è destinata a facilitare, in questi casi, il riconoscimento dell’interlocutore e a migliorare le capacità di comprensione del contesto molto più di una semplice telefonata. A mano a mano che le persone con i capelli bianchi si impadroniranno delle competenze tecniche per avvalersi di tali strumenti (e qui lo scambio intergenerazionale con i figli e i nipoti si rivelerà particolarmente
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utile) è certo che ne faranno un uso crescente. Aiutarle a saperli utilizzare in modo appropriato è un altro compito educativo che non può essere trascurato. In una società che riduce ogni giorno gli spazi urbani a misura di anziani anche i nuovi media possono dare una mano a rallentare il processo di invecchiamento delle persone. Presentazione dell’Autore: Sergio Angori è ordinario di Pedagogia generale e sociale presso l’Università di Siena, sede di Arezzo, dove insegna Educazione degli adulti e Pedagogia dei contesti educativi e formativi; fra i temi di ricerca ultimamente esplorati figurano: il rapporto tra educazione permanente e lifelong learning, l’educazione alla fruizione dei beni culturali, la formazione continua come espressione della cittadinanza attiva.
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POLITICHE SOCIALI PER GLI ANZIANI: UNA LETTURA PEDAGOGICA Erika Nocentini Abstract: This article deals with the theme of aging and seeks to identify and describe the actions that can be undertaken to promote active aging. In this paper the focus is on some associations in the town of Castiglion Fiorentino. The bottom line that inspires the contribution is to find in the vision of self-sufficient elder a valid help and support, especially for the new generations. The final part of this work contains a mention of the Tuscany Region Law No. 66/2008 containing the guidelines for interventions and services for not self-sufficient persons. Riassunto: Il presente articolo tratta il tema della senescenza e cerca di individuare e descrivere gli interventi che possono essere creati al fine di favorire un invecchiamento il più attivo possibile. A tal proposito vengono analizzate alcune realtà associative presenti sia a livello nazionale che, nello specifico, nel Comune di Castiglion Fiorentino. La linea di fondo che ispira il contributo è da rinvenire nella visione dell’anziano autosufficiente come ricchezza sociale, valido come aiuto e supporto soprattutto per le nuove generazioni. La parte finale del presente lavoro contiene un accenno alla Legge della Regione Toscana n. 66/2008 che dètta le linee guida per gli interventi e i servizi a favore delle persone non autosufficienti. Parole chiave: invecchiamento attivo, associazionismo, autosufficienza, politiche sociali, domiciliarità.
Senescenza e interventi educativi La parte “finale” del ciclo di vita di ogni persona è chiamata senescenza. Con invecchiamento o senescenza si intende «[…] il processo (o il meccanismo) attraverso il quale si diventa vecchi, modificandosi in alcune caratteristiche personali» (Cesa-Bianchi, Vecchi, 1998, 10). Inevitabilmente, lo scorrere del tempo porta con sé «[…] il progressivo e irreversibile alternarsi dei tessuti dell’organismo, il progressivo e irreversibile alternarsi delle funzioni, il progressivo e irreversibile ammalarsi dell’individuo» (Ibidem, 11). Autori del passato, come Cicerone nel De senectute, esaltano questa fase della vita non concentrandosi solo sugli aspetti negativi che presenta, peraltro innegabili, come il decadimento fisico e mentale, il trauma
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dell’abbandono della attività lavorativa (che hanno contraddistinto la fase precedente) e il timore della morte che si avvicina, ma enfatizzandone i lati positivi come la saggezza e la riflessività. Non sempre, tuttavia, a una vecchiaia anagrafica, biologica e fisiologica corrisponde una vecchiaia mentale (e viceversa). È, comunque, pur vero che la popolazione sta invecchiando a ritmi sostenuti. Dal Rapporto Nazionale 2009 sulle condizioni e il pensiero degli anziani. Una società diversa (Rapporto che nasce da una collaborazione tra Federsanità ANCI, Ageing Society, Osservatorio Terza Età e IRCCS INRCA, Agenzia Nazionale per l’Invecchiamento) (Inrca, 2009) emerge la previsione che nel 2050 il 34,6% della popolazione italiana supererà i 65 anni. Più in generale, le proiezioni demografiche per quella data mostrano che nel mondo gli anziani saranno quasi un miliardo e mezzo. Nel contempo si tende, sempre più frequentemente, a stabilire una distinzione tra “terza età” e “quarta età” (ovvero quella della dipendenza da un’altra persona, il cosiddetto caregiver). Purtroppo, non per tutti gli anziani questi anni rappresentano una fase ancora positiva della vita, ricca di opportunità per continuare ad autorealizzarsi. Spesso è una fase contraddistinta da precarietà (soprattutto in ambito economico) e da fragilità che non consentono di godersi appieno un momento dell’esistenza che dovrebbe essere sereno. Talvolta si assiste anche a casi di marginalizzazione della persona anziana che si ritrova a non essere sostenuta né moralmente né materialmente da quello che viene definito “stato sociale”. L’invecchiamento progressivo della popolazione porta con sé una necessità di vitale importanza: la focalizzazione dell’attenzione sull’educazione alla e nella terza età. Esiste in medicina un aspetto della gerontologia (che è essa stessa una branca della geriatria e che, sebbene si occupi dell’identificazione dei meccanismi biologici della senescenza, non tralascia di considerare gli aspetti sociali e psicologici della terza età), che, spaziando dall’approccio sanitario a quello formativo, manifesta un crescente interesse verso l’educazione degli anziani. Questo settore, denominato geragogia, trae le proprie origini dalla «[…] convinzione che un invecchiamento sereno sia un traguardo raggiungibile attraverso la messa in atto di comportamenti e atteggiamenti orientati verso la terza età» (Luppi, 2008, 52). In buona sostanza, quindi, per vivere in salute non basta curare l’alimentazione, stare attenti ai fattori di rischio o assumere i farmaci prescritti dal medico, ma significa anche porsi nuovi obiettivi esistenziali al fine di condurre una vita soddisfacente e il più attiva possibile. La geragogia, che si può definire una vera e propria educazione ad invecchiare, non si rivolge solamente agli anziani, ma anche ai giovani e agli adulti proponendosi, appunto, di educarli all’invecchiamento. In definitiva «ogni programma geragogico è un programma che si pone l’obiettivo di preparare ai cambiamenti
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che la vita comporta, in ogni sua fase, in modo da giungere, una volta anziani, a mantenere un’attività intellettuale intensa, che sia mezzo di ampliamento delle proprie conoscenze e fonte di arricchimento esistenziale» (Ibidem, 52).
Come favorire un invecchiamento attivo Le Associazioni di Volontariato – particolarmente diffuse e radicate nel nostro Paese – svolgono un ruolo importante nell’invecchiamento attivo. Il loro forte potere aggregativo è in grado di dare un nuovo scopo alla vita della persona anziana che, sebbene autosufficiente, si ritrova (dopo il pensionamento) priva del ruolo che le è sempre appartenuto. Ma non solo. Taluni avvenimenti nella vita di una persona (come, ad esempio, la perdita del coniuge o di una persona cara) possono sconvolgere il normale corso dell’esistenza. In questi casi avere un nuovo impegno, avere la possibilità di sentirsi “utili” agli altri può essere di grande beneficio psicologico. Le Associazioni di Volontariato operano in ambiti e contesti diversi. Per citare un esempio concreto, nel Comune di Castiglion Fiorentino (Arezzo), ove svolgo una attività lavorativa correlata ai temi qui trattati, è presente una Consulta Comunale del Volontariato Sociale, alla quale aderiscono le varie associazioni presenti nel territorio. Essa ha un proprio Statuto, ha organi di governo (l’Assemblea, il Presidente – eletto dall’Assemblea tra i membri designati dalle associazioni aderenti alla Consulta – e il Comitato operativo) ed è stata costituita nel 1996 dietro esplicita richiesta delle Associazioni presenti nel territorio. Come si legge nello Statuto, la Consulta, nel suo agire, segue tre linee guida: la prima è quella di dare forza e dignità propositiva al volontariato inteso come risorsa sociale che conosce i bisogni del contesto sociale in cui opera e sa affrontarli con efficacia; la seconda è quella di superare i vecchi steccati organizzativi per cui ogni gruppo finisce per chiudersi dentro la propria specificità operativa senza essere capace di guardare al disagio sociale in tutte le sue dimensioni con atteggiamento collaborativo; la terza è quella di essere interlocutore dell’Ente Locale nella elaborazione e attuazione di una politica sociale puntuale ed efficace con particolare attenzione alle categorie sociali più deboli. Avvalendosi dell’esperienza e della competenza delle Associazioni del Volontariato operanti da tempo nel territorio comunale, la Consulta attua annualmente piani di intervento sociale puntuali e aderenti alle esigenze del territorio castiglionese. Si preoccupa, soprattutto, di diffondere tra i cittadini una cultura della solidarietà organizzata per dare concreta realizzazione alla comunità sociale (intesa come capacità dell’intera realtà locale di valorizzare le risorse disponibili dando vita a
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una rete di protezione sociale capace di rispondere alle esigenze di tutti i cittadini, in particolare a quelle delle fasce più deboli). Oltre a creare momenti aggregativi (ad esempio, feste popolari, promozione e organizzazione di convegni e di incontri su temi di rilievo, ecc.), i volontari prestano il loro aiuto ai più bisognosi (visite agli ospiti della locale Casa di Riposo, telefonate e visite domiciliari ad anziani soli, ecc.). Sia a livello nazionale che a livello locale, esistono varie realtà associative che concorrono a realizzare politiche coerenti con l’invecchiamento attivo della popolazione. Ne sono un esempio i Centri di Aggregazione Sociale per Anziani, i Centri Diurni per Anziani, le Università delle Tre Età (UNITRE), l’Attività Fisica Adattata (AFA). Tra le numerose Associazioni che sono presenti nel territorio castiglionese merita un cenno, innanzitutto, il Centro di Aggregazione Sociale per Anziani. Il Centro è ubicato nel centro storico del paese, ha una propria sede, un Presidente, un Consiglio Direttivo e, per farvi parte, basta provvedere al pagamento della quota associativa annuale. Fino a qualche mese fa e grazie anche ai contributi che il Comune destinava al Centro Sociale, con un mezzo di trasporto di proprietà del Centro Sociale stesso, soprattutto il venerdì mattina, giorno di “mercato” a Castiglion Fiorentino, le persone anziane che vivono nelle zone periferiche del Comune hanno avuto la possibilità di raggiungere il centro storico del paese. Inoltre, i soci del Centro organizzano varie serate in cui le persone anziane possono giocare a carte, incontrarsi per programmare gite o periodi di vacanza, oppure attività di prevenzione della salute (come le cure termali). Il Centro Sociale diventa, per l’anziano, un punto di riferimento in cui poter passare il proprio tempo socializzando con altre persone e divertendosi. A differenza del Centro di Aggregazione Sociale, il Centro Diurno Anziani costituisce un servizio erogato direttamente dal Comune di Castiglion Fiorentino, ha carattere diurno (orario di apertura dal lunedì al venerdì dalle ore 11.00 alle 16.00) ed è gestito da una cooperativa che, attraverso un educatore professionale, pianifica le attività di socializzazione dei dieci ospiti autosufficienti. Il Centro Diurno si configura, da una parte, come momento aggregativo per le persone che accoglie e, dall’altra, come strumento di “sollievo” dato alle famiglie degli anziani. La presenza dell’educatore consente di strutturare le giornate in modo tale che gli ospiti possano passare momenti piacevoli ed educativamente significativi attraverso attività come il decoupage e altre esperienze manuali. Tra le Associazioni di promozione sociale è particolarmente attiva l’“Associazione Nazionale delle Università delle Tre Età”, la quale parte dal presupposto che la vita è un ciclo che si snoda attraverso tre età: la prima (0-30 anni) è l’età in cui si apprende e si impara a stabilire rapporti con il mondo esterno; la seconda (30-60 anni) è l’età in cui si mette a
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frutto ciò che si è appreso in precedenza, cercando di modificare il mondo esterno; la terza (60-75 anni) è l’età della riflessione, in cui si fa un bilancio di quanto avvenuto precedentemente. Esistono tuttavia – stando ai principi che ispirano tale Associazione – anche una quarta età (75-90 anni) in cui il decadimento si fa più marcato, e una quinta età (dai 90 anni in poi) in cui, ad esempio, le capacità cognitive si fanno più labili (cfr. Peirone). Di questa Associazione ci sono molte sedi in Italia e ogni UNITRE organizza, localmente, corsi di pittura, di lingua straniera, di informatica, ecc. Al fine di prevenire e curare le patologie proprie dell’età avanzata, l’attività fisica svolge un ruolo determinante per la conservazione della salute fisica e psichica della persona anziana (e non). L’AFA (Attività Fisica Adattata) è un programma specifico di esercizi svolti in gruppo (della durata di un’ora per due o tre volte a settimana) appositamente pensati per soggetti con malattie croniche e per anziani fragili, capaci di contribuire a migliorare il loro stile di vita e di prevenire o limitare la disabilità. Questo tipo di attività è un prezioso strumento per la prevenzione della non autosufficienza, limitando la disabilità che, con l’avanzare dell’età, si fa più frequente. La pratica di un’attività fisica regolare determina nei soggetti adulti e negli ultrasessantacinquenni effetti positivi sia a livello fisico che a livello psicologico (come la riduzione della depressione e dell’ansia), incentiva e facilita i rapporti socio relazionali e sollecita l’adozione di stili di vita che possono migliorare la qualità dell’esistenza. I programmi di esercizio AFA sono proposti dalle autorità sanitarie sulla base di evidenze scientifiche e sono applicati dagli istruttori omogeneamente in tutte le strutture territoriali. Ciascun programma AFA ha caratteristiche ed intensità adeguate alle condizioni funzionali dei partecipanti.
L’anziano è una ricchezza: una nuova visione di welfare Come si evince dal “Rapporto Italia 2012” di Eurispes (Eurispes, 2012), la persona anziana ha la possibilità di mantenere un ruolo attivo e produttivo all’interno della famiglia attraverso uno scambio ottimale di esperienza e di disponibilità di tempo. Il solo fatto che una persona vada in pensione e, quindi, non lavori più non significa che non possa avere ancora tanto da “dire” e da “dare” alla società. Esistono molti esempi in tal senso: basti pensare alle Associazioni di Volontariato su cui ci siamo appena soffermati. Tra le persone più disponibili a questo tipo di impegno nel “prendersi cura” di altri figurano gli insegnanti che, una volta andati in pensione, continuano a mettere a disposizione il loro “sapere” supportando volontariamente alunni stranieri che non conoscono la lingua italiana o che appartengono a famiglie culturalmente deprivate.
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Ma non vanno dimenticati anche gli anziani che si prestano a svolgere servizio di vigilanza negli scuolabus o negli attraversamenti pedonali all’ingresso o all’uscita dei bambini da scuola. Per non dire dei volontari ospedalieri che affiancano le persone che necessitano di un aiuto durante i pasti o di un po’ di conforto nella sofferenza. Nell’ambito delle politiche rivolte all’infanzia (che spesso risultano inadeguate rispetto alle esigenze emergenti) il welfare è costituito principalmente dall’aiuto di anziani (soprattutto donne, ma non solo), che rappresentano una grande risorsa per le giovani coppie che lavorano e che non possono accudire i figli durante la giornata. È proprio nella cura dei nipoti che gli anziani sopperiscono maggiormente, offrendo un prezioso contributo alla mancanza di servizi pubblici rivolti all’infanzia (Zanatta, 2003). Le attuali politiche sociali a favore degli anziani tendono a considerare tali persone come una ricchezza per se stessi e per l’intera società. Non stupisce allora che il citato “Rapporto Italia 2012” analizzi con molta attenzione servizi e settori che devono essere potenziati (e finanziati), individuando anche quelli che possano essere esternalizzati e affidati a imprese private. Ma, soprattutto, vi si denuncia il dislivello esistente tra i contributi versati e le prestazioni pensionistiche e assistenzialistiche (dislivello che è destinato a crescere visto il progressivo innalzarsi della vita media delle persone). Una soluzione considerata capace di apportare migliorie a questa situazione è quella relativa all’innalzamento dell’età pensionabile. Ciò però preclude ai giovani l’immissione nel mercato del lavoro. Dall’indagine Eurispes emergono, altresì, interessanti dati sugli interessi e le attività delle persone anziane. Più della metà degli ultrasessantaquattrenni vive con il coniuge (55,9%); il 17,6%, oltre che col coniuge, vive ancora con almeno un figlio, mentre il 14,1% vive da solo. Il 45,4% delle persone anziane vede e vive la terza età come un’occasione per dedicarsi in maniera più ampia a se stesse e ai propri interessi, anche se un buon 27,8% considera questa fase coma l’inizio del declino psicofisico. Il 19,4% considera, invece, la terza età come momento per potersi riposare dopo una vita di lavoro. Tra coloro che vedono la terza età come una fase di “sviluppo” personale, si possono cogliere delle differenze di genere: sono sopratutto gli uomini (48,5%) che vedono la “senescenza” come un periodo proficuo, adatto alla coltivazione dei propri interessi (a dispetto del 41,20% delle donne). Per le donne, questa fase rappresenta un momento della vita in cui è possibile concedersi un po’di riposo. Una visione rosea della terza età è più presente in soggetti che hanno un alto livello di istruzione; chi, al contrario, non possiede alcun titolo oppure ha solo conseguito la licenza elementare vive invece la terza età come un’età di preoccupazione, spesso accompagnata da difficoltà economiche. La terza età, stando a tale indagine, rappresenta, per le persone che
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la vivono, un momento in cui si fanno spazio le paure della malattia, della possibile perdita dell’autonomia, della solitudine, della sensazione di sentirsi non più utili e di non avere sufficienti risorse economiche per fronteggiare le esigenze della vita (cure mediche, assistenza, ecc.). Gli anziani preferiscono passare il loro tempo guardando la TV, incontrando gli amici e i parenti, accudendo i propri nipoti e dedicandosi alla lettura (libri o quotidiani). Una minoranza, invece, pratica qualche attività fisica, coltiva un hobby, frequenta mostre o musei, va al cinema, a teatro o a concerti o viaggia. Il 13,6% svolge attività di volontariato e il 13,2% frequenta centri e luoghi di ritrovo per anziani. In un momento di scarsità di risorse, quale è quello che stiamo attraversando, credo sia importante valorizzare la disponibilità e le competenze professionali e personali di ciascuno, soprattutto degli anziani che hanno tempo da dedicare agli altri. Questo potrebbe avere una duplice valenza: riassegnare loro un ruolo attivo e riuscire a offrire a tutta la popolazione una quantità di servizi sicuramente superiore, rispetto a quella che lo Stato potrebbe garantire attraverso i soli finanziamenti pubblici. Un esempio che va in questa direzione è quello della Presidenza del Consiglio dei Ministri (Dipartimento per le politiche della famiglia), che ha emesso un bando, per il 2012, che mette a disposizione finanziamenti per la promozione dell’invecchiamento attivo e la solidarietà tra le generazioni. Si tratta di progetti presentati da enti locali e da privati che operano senza scopo di lucro, diversi dalle persone fisiche (ad esclusione delle associazioni partitiche o sindacali). Devono prevedere iniziative volte a incentivare, ad esempio, l’alfabetizzazione informatica, l’apprendimento di una lingua straniera oppure l’essere di supporto didattico per alunni stranieri, lo svolgimento di attività di vigilanza all’interno degli scuolabus, ecc. Credo che debba essere sottolineato il passaggio da una visione “assistenzialista” dello Stato a una più “attiva”, intendendo con ciò la riscoperta della solidarietà, in un’ottica di mutuo aiuto. Secondo questa nuova prospettiva, il welfare lo fanno gli anziani. Le persone ultrasessantaquattrenni, ancora autosufficienti, rappresentano in effetti una preziosa fonte di aiuto “materiale” per i propri figli, oltre che un riferimento affettivo e valoriale. Se, da una parte, si devono proporre politiche sociali che incentivino la permanenza degli anziani nel loro contesto sociale anche dopo il pensionamento, dall’altra si devono anche educare i giovani allo scambio intergenerazionale. Il punto fondamentale è riuscire a mantenere la persona anziana il più possibile integra e ciò consentirà di considerarla, non solo come destinataria di interventi sociali, ma come soggetto utile alla società. Nel nuovo welfare l’anziano si configura come una risorsa attiva.
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Il Fondo per la Non Autosufficienza: la Legge Regione Toscana n. 66/2008 Se è doveroso prolungare il più a lungo possibile la terza età è, tuttavia, necessario tenere presente che è una fase della vita destinata comunque a finire. Vale quindi la pena soffermarci anche sulla quarta e quinta età, ovvero su quelle fasi del ciclo di vita che sono caratterizzate dalla necessità, per la persona anziana, di aiuto e sostegno. La Regione Toscana, con la Legge Regionale 18 dicembre 2008, n. 66, con l’istituzione del Fondo Regionale per la Non Autosufficienza, ha inteso intervenire per sostenere, estendere e implementare il sistema pubblico dei servizi sociosanitari integrati destinati a persone non autosufficienti, disabili e anziane ponendo l’attenzione sulla cura continuativa da destinare alla persona non autosufficiente e alla famiglia. Tre le finalità che vuole perseguire la Legge: miglioramento della qualità, della quantità e dell’appropriatezza delle risposte assistenziali; prevenzione della non autosufficienza e della fragilità; promozione di percorsi assistenziali che consentono la vita indipendente e la domiciliarità. Attraverso i “Punto Insieme”, che sono dei presidi dislocati in tutto il territorio della Regione Toscana (254 sportelli), i familiari, che devono occuparsi di una persona non autosufficiente, trovano risposte efficaci alle loro esigenze. Ogni “Punto Insieme” costituisce la “porta d’ingresso” ai servizi e alle prestazioni previsti in favore delle persone che non sono più in grado di provvedere autonomamente alle normali attività della vita quotidiana. A partire dalla segnalazione del bisogno assistenziale un’equipe di operatori qualificati (denominata UVM – Unità di Valutazione Multidisciplinare) provvede, entro un mese, ad effettuare una valutazione attenta del caso (individuando i livelli di gravità) e a definire il progetto personalizzato (denominato PAP – Progetto di Assistenza Personalizzato), nonché a individuare il pacchetto di prestazioni e interventi più appropriati per la persona non autosufficiente. Il PAP viene condiviso e sottoscritto tra i familiari dell’assistito e gli operatori del distretto socio-sanitario. Come recita l’art. 7 della sopra citata Legge Regionale n. 66/2008, le risorse del Fondo hanno il fine prioritario di assicurare la risposta domiciliare e la vita indipendente attraverso forme di assistenza domiciliare diretta; attraverso contributi monetari da destinare alla famiglie che si occupano dell’anziano (denominati assegni di cura per il caregiver) oppure da destinare al pagamento dei contributi fiscali delle persone che si occupano dell’anziano (denominati contributi badanti); attraverso inserimenti in strutture semiresidenziali; inserimenti temporanei o permanenti in apposite residenze (assistenziali o sanitarie). La cura di una persona non autosufficiente è sicuramente gravosa per la famiglia che se ne occupa, soprattutto sotto il profilo psicologico,
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anche se è certamente di vitale importanza incentivare la permanenza dell’anziano (o disabile) non autosufficiente nella famiglia e nei luoghi che sono per lui conosciuti e domestici.
Conclusioni Esistono oggi molti strumenti di cui gli anziani possono avvalersi per continuare a migliorarsi, per aggiornare le proprie competenze, per essere ancora di aiuto agli altri, per porsi nuovi obiettivi esistenziali. Ci sono tantissime realtà associative che curano sia la socializzazione che le opportunità ricreative ed educative della persona anziana. Dando per assodato che il welfare odierno non risulta in grado di far fronte, da solo, a tutte le esigenze che i cittadini hanno, appare di vitale importanza assumere una nuova prospettiva rispetto alla persona anziana, la quale è da vedere non tanto come un costo, ma come una ricchezza di cui avvalersi al fine di approntare servizi qualitativamente e quantitativamente migliori alla comunità sociale. Quindi, se da una parte le realtà associative svolgono un ruolo fortemente aggregativo e socializzante, dall’altra possono garantire una serie di servizi utili alla società. Nel momento in cui la persona anziana da autosufficiente e autonoma diventa non autosufficiente e dipendente dagli altri è di fondamentale importanza che possa continuare a vivere nella sua abitazione. Per favorire ciò, come si è visto, la Regione Toscana prevede una serie di aiuti (economici e non) al fine di sostenere la famiglia, senza perdere di vista il mantenimento della dignità della persona assistita anche in presenza di gravi malattie. Presentazione dell’Autore: Erika Nocentini ha conseguito la Laurea Magistrale in Programmazione e gestione dei servizi educativi e formativi presso l’Università degli Studi di Siena. Svolge attività lavorativa presso un ente pubblico dove si interessa di temi inerenti alla fragilità dell’anziano e del conseguente potenziale rischio di emarginazione sociale di tali cittadini.
Bibliografia CESA-BIANCHI, M., VECCHI, T. (1998), Elementi di psicogerontologia, Milano, Franco Angeli. EURISPES (2012), Rapporto Italia 2012, in: http//:www.eurispes.it/ [29.09.2012].
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LUPPI, E. (2008), Pedagogia e terza età, Roma, Carocci. INRCA, Ageing Society – Osservatorio Terza Età, Federsanità ANCI (ed. (2009), Rapporto Nazionale 2009 sulle Condizioni e il Pensiero degli anziani. Una società diversa. PEIRONE, L., Le Cinque età, in: http://www.unitre.net/cultura/cultura. html [04.10.2012]. ZANATTA, A.L. (2003), Le nuove famiglie, Bologna, il Mulino (ed.orig. 1997).
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PER UNA SPIRITUALITÀ DELLA TERZA ETÀ Riflessione partendo dalla Bibbia (Antico e Nuovo Testamento) Don Jean-Pierre Kikonda Abstract: The term “third age” embraces now a large proportion of the world population. The attention and the Church’s commitment to the elderly are not new. They were recipients of its mission and pastoral care through the centuries and in many different circumstances. The current situation, with the achievements of science and the resulting advances in medicine which have contributed significantly in recent decades, to lengthen the average duration of human life, challenges the Church to undertake a revision of the pastoral care of the third age. Riassunto: L’espressione “terza età” abbraccia ormai una considerevole fetta della popolazione mondiale. L’attenzione e l’impegno della Chiesa per gli anziani non datano da oggi. Essi sono stati destinatari della sua missione e della sua cura pastorale attraverso i secoli e nelle più svariate circostanze. La situazione attuale del mondo, con le conquiste della scienza e i conseguenti progressi della medicina che hanno contribuito negli ultimi decenni, ad allungare la durata media della vita umana, interpella tuttavia la Chiesa a procedere ad un aggiornamento della pastorale della terza età. Parole chiave: Terza età, popolazione mondiale, anziano, Chiesa, spiritualità. Si può individuare una spiritualità, ossia una serie di valori e di atteggiamenti umani e cristiani che vengono dalla Parola di Dio e dalla tradizione della chiesa, necessari per vivere costruttivamente la terza età.
Per elaborare una spiritualità della terza età Per quanto il processo d’invecchiamento e l’anziano non siano dei temi centrali nella Scrittura, è tuttavia possibile trovare nella Bibbia alcuni elementi per costruire una spiritualità della terza età. “Nella vecchiaia daranno ancora frutti, saranno vegeti e rigogliosi...” (Sal 92,15)
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A.
L’Antico Testamento presenta la terza età come tempo di fecondità e di attiva partecipazione al progetto divino: Abramo e Sara sono molto avanzati negli anni quando ricevono il figlio Isacco, il figlio della promessa e della benedizione (Gen 21,5). Una lunga vecchiaia è il segno della fedeltà di Dio alle sue promesse: «Poi Abramo spirò e morì dopo una felice vecchiaia, vecchio e sazio di giorni e fu riunito ai suoi antenati» (Gen 25,8). Così anche Isacco (Gen 35,29) e Giuseppe che morì all’età di centodieci anni (Gen 50,26). È nel corso della vecchiaia che Dio si rivela. Mosè riceve la rivelazione del Nome di Dio e la missione di liberare il suo popolo quando è già vecchio, forse proprio perché vecchio. Di lui è detto che era intimo di Dio con il quale parlava come con un amico (Es 33,11) e che era «molto più mansueto di ogni uomo che è sulla terra» (Nm 12,3).
Si riafferma il principio che Dio per realizzare i suoi piani di salvezza si serve non delle persone forti e prestigiose, ma degli anawim, di quel popolo umile e povero che lo cerca con fiducia (Sof. 2,2; 1Co 1,26-31). I libri sapienziali dell’Antico Testamento ci offrono un quadro realistico e inquietante della vecchiaia, presentata come il tempo dei “giorni tristi” ... gli anni in cui dovrai dire: «Non ci provo alcun gusto» (Qo 12,1-8). Ma più spesso ci offrono il ritratto dell’anziano invecchiato bene, segnato cioè dalla saggezza e dal timore del Signore (Sir 25,3-6). Nel secondo libro dei Maccabei è stata consegnata la vicenda indimenticabile del martirio dello scriba Eleazaro, «uomo già avanti negli anni» (2 Mac 6,18-31) che rifiuta le ingiuste imposizioni di Antioco IV e anche le pietose finzioni dei suoi concittadini che vorrebbero salvarlo dalle torture del tiranno e muore offrendo una memorabile testimonianza di fede e coraggio. La saggezza dell’anziano è il cammino preferenziale per comprendere il mistero della sofferenza. Giobbe, al massimo del suo splendore e ormai anziano, viene messo alla prova ed entra così nella fase delle diminuzioni, se ne lamenta con Dio, si vanta dei suoi meriti, ma Dio lo riporta alla saggezza e Giobbe alla fine saggiamente si rimette alla sapienza provvidente di Dio. Nel libro dei Salmi troviamo alcune preghiere proprie dell’anziano: il salmo 37(36) in cui la riflessione sulla retribuzione del giusto e la scandalosa fortuna dell’empio si fa preghiera in colui che è «stato fanciullo ed ora è vecchio» e può affermare di non aver mai visto il giusto abbandonato da Dio (v. 25); il salmo 71(70) che esprime la supplica fiduciosa dell’anziano che s’affida a Dio «rupe di difesa, baluardo inaccessibile, rifugio e fortezza» invocato «quando declinano le forze», oggetto della lode dell’anziano (vv. 3.9.17-18); e il salmo 92(91) un inno di ringraziamento in cui l’anziano contempla stupito l’opera di Dio e canta la certezza piena di ottimismo e speranza di «continuare a dar frutti» e di «essere vegeto e rigoglioso» fino alla fine della vecchiaia (vv. 13-16).
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Tutto il libro dei Salmi è adatto alla preghiera dell’anziano, ma questi tre salmi specificamente posti sulle labbra di un anziano ci ricordano che l’anziano ha un suo cammino preferenziale di preghiera fatto di memoria riconoscente, di fiducia e abbandono in Dio e soprattutto di lode riconoscente e ammirata per il suo amore gratuito. B.
Nel Nuovo Testamento, e in particolare nel Vangelo di Luca, ritroviamo un tema già visto nell’Antico Testamento: Dio sceglie degli anziani per essere testimoni degli albori dell’incarnazione e della redenzione. Zaccaria ed Elisabetta sono scelti per essere i genitori del Precursore del Signore quando ormai sono vecchi, e Simeone e Anna ricevono la rivelazione della venuta del Salvatore (Lc 2,25-26. 36-38). E come nell’Antico Testamento gli anziani sono delle colonne della verità e della giustizia, così nel Nuovo Testamento è ancora agli anziani (presbyteroi) che la Chiesa fa ricorso per la sua stabilità (Cfr.1Tm 4,14; 5, 17; 5,19 Tt 1,5).
Gesù, Maestro di sapienza, insegna all’anziano come trattare le paure che sono tipiche della terza età: la paura del futuro che, insieme con il pericolo della cupidigia, si cura solo con l’abbandono fiducioso nella Provvidenza (Lc 12, 12-21.22-31; Mt 6,25-34). E Paolo offre delle preziose prospettive sul valore della sofferenza e della morte: presenta la vita cristiana come condivisione delle sofferenze e della morte di Cristo (Rom 6,4; Col 1,5; 4,10; Fil 3,10), insegna a completare la passione del Messia (Col 1,24); considera la debolezza umana come epifania della potenza di Dio (2 Cor 12,9), e parla della vita nuova che comincia con il battesimo (Rom 6,1-11) prolungandosi in un’esistenza condivisa con il Signore nella vita e nella morte (Rom 14,7-9; Fil 1,21.23; 2 Cor 5,1-10). In conclusione la Parola di Dio ci mostra che la terza età è un tempo per crescere spiritualmente a condizione che noi guardiamo alla vita nella sua pienezza, senza escluderne la sofferenza e la morte. Consapevoli dei nostri limiti, della nostra povertà e debolezza noi ci abbandoniamo come Gesù «nelle mani del Padre» che è Colui che non ci lascia cadere nelle tenebre degli inferi, ma che ci conosce e ci considera preziosi (Is 43,4). Presentazione dell’Autore: Don Jean Pierre Kikonda, sacerdote dell’Arcidiocesi di Kinshasa nella Repubblica Democratica del Congo. Ha conseguito il Dottorato in Teologia Biblica presso la Facoltà di Teologia dell’Italia Centrale a Firenze. È nominato professore di Esegesi del Nuovo Testamento presso il Seminario di Teologia di Kinshasa. Esercita il ministero pastorale di vice-parroco a San Francesco, nella diocesi di Montepulciano-Chiusi-Pienza.
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Un Convegno di Studi a Trieste nel ricordo di Duilio Gasparini* L’iniziativa di ricordare Duilio Gasparini nacque a Genova, per volontà di alcuni colleghi ed amici. Quando la notizia giunse a Trieste subito si associarono i colleghi triestini e quelli di altre università. Venne così dato alle stampe il volume collettaneo Le dimensioni dell’educare e il gusto della scoperta nella ricerca. Studi in onore di Duilio Gasparini, curato con puntuale attenzione da Luciano Malusa ed Olga Rossi Cassottana. Uscito nell’estate del 2011, per i tipi dell’Editrice Armando, il volume fu presentato a Genova, con l’attenta organizzazione di Olga Rossi Cassottana, animatrice infaticabile di questa manifestazione, in un apposito Convegno di Studi, il 2 dicembre 2011, nell’Aula Magna della Facoltà di Lettere e Filosofia, ad un folto pubblico di professori, ricercatori e studenti. Una seconda presentazione, questa volta al pubblico triestino, ha avuto luogo il 18 Maggio 2012, nell’Aula Magna della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Ateneo di Trieste. Qui di seguito sono ora pubblicate le relazioni tenute a Trieste ed una sintesi degli interventi e delle testimonianze. Ai due Convegni ha sempre portato parole di ringraziamento la signora Giovanna Imperatori, moglie del Prof. Gasparini.
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L’Autore di questa Introduzione è il Prof. Claudio Desinan.
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SCUOLA, RICERCA, EDUCAZIONE IERI E OGGI. LA FIGURA E L’OPERA DI DUILIO GASPARINI Bianca Rosa Grassilli Abstract: After a brief presentation of the personal and scientific aspects of Duilio Gasparini’s life as a teacher and researcher, the essay focuses on certain aspects of his philosophy, especially the need to ensure that teaching activities are grounded in sound theory, and his ideas on the role of historical research in pedagogy as a tool in the construction of educational projects. This will be followed by a presentation of the multiauthor volume Le dimensioni dell’educare e il gusto della scoperta nella ricerca. Studi in memoria di Duilio Gasparini [The dimensions of teaching and the pleasure of discovery in research. Studies in memory of Duilio Gasparini] (2011), Rome, Armando, edited by Luciano Malusa and Olga Rossi Cassottana, which draws together accounts and contributions from Gasparini’s colleagues and friends from Genoa, Trieste, and other universities. Riassunto: Dopo una breve presentazione della vicenda umana e scientifica di Duilio Gasparini come insegnante e come ricercatore, il saggio si sofferma su taluni aspetti del suo pensiero, con particolare riferimento alla necessità di assicurare il fondamento teorico all’azione didattica, nonché alla funzione della ricerca storica in pedagogia ai fini della costruzione del progetto educativo. Segue una presentazione del volume collettaneo Le dimensioni dell’educare e il gusto della scoperta nella ricerca. Studi in memoria di Duilio Gasparini (2011), Roma, Armando, curato da Luciano Malusa e Olga Rossi Cassottana, che raccoglie contributi e testimonianze di colleghi e amici di Genova, Trieste ed altri Atenei. Parole chiave: persona, ricerca, pratica educativa, innovazione, microstoria. Sono lieta di porgere il più cordiale benvenuto a tutti i presenti a questo incontro su Scuola, ricerca, educazione ieri e oggi, che un gruppo di amici e colleghi della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Trieste ha voluto organizzare per ricordare la figura e l’opera di Duilio Gasparini, già docente presso questo Ateneo e studioso dei problemi della scuola e dell’educazione. Un saluto particolare al Preside della Facoltà di Scienze della Formazione, Prof. Giuseppe Battelli, che ha accolto con disponibilità ed interesse la proposta di organizzare la giornata presso la Facoltà dove Duilio
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Gasparini aveva insegnato e un ringraziamento alla Direttrice dell’Ufficio scolastico regionale ed agli Assessori alla Cultura e all’Istruzione della Provincia e del Comune di Trieste che, con la loro presenza, hanno voluto testimoniare il riconoscimento dell’attività che Duilio Gasparini aveva svolto a favore della scuola e sul territorio. Duilio Gasparini nacque a Trieste nel 1923 e qui trascorse l’intero periodo della sua formazione e svolse i suoi primi impegni di lavoro, prima come insegnante elementare, poi come direttore didattico e infine come docente universitario. Conseguito il diploma magistrale (1941) e uscito vincitore dal concorso per l’insegnamento (1942), fu insegnante elementare dal 1944 al 1957, dapprima presso la scuola “C. Suvich” di via Kandler e poi presso la scuola “R. Timeus”. Vincitore del concorso nazionale, dal 1959 fu direttore didattico nella scuola del rione popolare di S. Sabba e iniziò contemporaneamente il suo impegno universitario come assistente volontario presso la cattedra di Storia della Filosofia (occupata dal prof. Mariano Campo) della triestina Facoltà di Lettere e Filosofia e successivamente, dal ’65 al ’76, come incaricato dell’insegnamento di Didattica presso la Facoltà di Magistero del nostro Ateneo. Nel frattempo si era trasferito a Genova, dove sviluppò e portò a termine la sua carriera universitaria: nel ’90 divenne professore ordinario di Pedagogia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di quell’Ateneo, mantenendo la cattedra fino alla sua andata in quiescenza nel ’95. Allora rientrò a Trieste, dove continuò fino all’ultimo a lavorare ai suoi studi e alle sue ricerche. Morì dopo una lunga malattia nell’ottobre del 2008. Egli fu, quindi, uomo di scuola e attento studioso dei problemi della scuola e dell’educazione: passione e impegno nell’azione educativa, e gusto e paziente cura della ricerca, furono i due versanti tra i quali ha saputo alimentare un incessante e fondamentale dialogo. Ed è proprio questa la principale caratteristica di una visione pedagogica che egli è andato costruendosi su un costante intreccio fra indagine e ricerca scientifica e una sensibilità attenta e responsabile rivolta all’azione. Appaiono chiari, da qui, i motivi che hanno sollecitato l’orientamento che egli diede ai suoi interessi di studio: la sua ricerca è stata sostanzialmente di carattere storico e il suo discorso pedagogico ha avuto un chiaro orientamento nella prospettiva e nella dimensione della Didattica. A questo proposito non è difficile valutare quale significato abbia avuto anche la sua presenza nella prospettiva degli interessi e degli studi che tutto il gruppo triestino – quello “storico”, che si era formato fin dall’inizio con l’istituzione della Facoltà di Magistero a Trieste e che aveva costituito l’Istituto di Pedagogia e poi il Dipartimento dell’Educazione – avrebbe successivamente sviluppato in rapporto ai problemi della scuola e, in particolare, della formazione degli insegnanti. Nel suo lavoro di ricercatore Duilio Gasparini ha prodotto oltre 180
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pubblicazioni, alcune delle quali hanno lasciato il segno e meritano, seppur rapidamente, di essere qui ricordate, a cominciare con lo studio in tre volumi su Adolfo Pick. Il pensiero e l’opera (Gasparini, 1968-1970), il pedagogista che ha avuto il merito di introdurre in Italia i Giardini fröbeliani, un grande lavoro di archivio, a proposito del quale lo stesso Gasparini scrisse di aver avuto «l’occasione di scartabellare tutti i manoscritti e tutti i libri di questo pedagogista boemo trapiantato in Italia». E poi il lavoro Da Ickelsamer a Comenio. Il metodo fonico e il primo abbecedario illustrato (Gasparini, 1984), dove Gasparini riuscì a dimostrare che non era stato Comenio l’ideatore del metodo fonico – il metodo che pone il suono delle lettere, e non il loro nome, alla base dell’apprendimento della lettura – né del primo abbecedario illustrato, ma che il merito era da attribuire a Valentin Ickelsamer e a due suoi discepoli, vissuti più di un secolo prima, le cui opere – come ha documentato Gasparini – il Comenio ebbe modo di conoscere. E, ancora, il poderoso impegno nello studio del Grande Fröbel delle opere minori (1999), condotto in collaborazione con Massimo Grazzini, opera monumentale di 2.700 pagine che lo tenne impegnato per dieci anni in una ricerca minuziosa su testi originali, documenti, trascrizioni: un lavoro che ha richiamato in vita una folla di personaggi e che rappresenta un materiale unico di documentazione e di ricerca, nell’ambito di una microstoria di ampie dimensioni. Sul piano della didattica, vanno inoltre ricordate Le prospettive teoretiche della didattica (Gasparini, 1968), che mettono in evidenza la necessità di un disegno teoretico che diventi pratica didattica, tema che poi Gasparini svilupperà in vari ambiti, tra cui i saggi sulla didattica della storia, la valutazione, il gioco. Né può essere dimenticata, infine, la stesura di numerose voci per l’Enciclopedia pedagogica curata da Mauro Laeng, che documentano molto bene i tratti peculiari della sua scrittura precisa ed essenziale. Il suo è stato un lavoro costante e di grande impegno, solo apparentemente frutto di una ricerca d’archivio svolta nell’isolamento e nel chiuso di una biblioteca; il suo lavoro è, invece, opera di una personalità dotata di grande umanità, sempre disponibile e aperta al consiglio e al dialogo: era una persona schiva e non amava apparire, ma era sempre pronto ad aiutare, ad incoraggiare, a sostenere studenti e colleghi. In questa nostra giornata in suo ricordo viene anche presentato il volume curato, con puntuale attenzione, da Luciano Malusa e Olga Rossi Cassottana, Le dimensioni dell’educare e il gusto della scoperta nella ricerca. Studi in memoria di Duilio Gasparini, che raccoglie contributi di colleghi e amici di Genova e di Trieste, espressione della loro testimonianza di stima e di affetto. Il libro si presenta come una ricca raccolta di contributi alla quale hanno partecipato pedagogisti, filosofi, giovani studiosi, personalità della
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cultura e della scuola. Contributi diversi ed eterogenei per l’ampiezza e la problematica affrontata, raccolti per sezioni tematiche: una varietà di contenuti che, scorrendo con la lettura, portano a identificare, poco a poco, un nucleo accentratore. I singoli, specifici aspetti, di volta in volta affrontati si propongono uno dopo l’altro e, come altrettante tesserine di un mosaico, riescono a ricomporre, in una complessità crescente, i tratti più significativi della figura del nostro studioso. Ed è proprio la sua figura a rappresentare l’unità intrinseca di questo volume. Ne è risultato un libro che, con i numerosi contributi e le varie sfaccettature e articolazioni della sua composizione, permette di avvicinare, o di far conoscere meglio, Duilio Gasparini, anche a chi – come me, ad esempio – credeva di conoscerlo abbastanza bene, per aver collaborato con lui come collega, per parecchi anni negli impegni universitari, ma anche nei rapporti informali della quotidianità istituzionale; eppure io stessa ho trovato in questo libro l’occasione di avvicinarlo sotto una luce nuova, avendo modo di guardarlo in maniera più critica e da punti di vista particolari, con altri occhi e attraverso nuovi tagli interpretativi. Posso dire che il libro mi ha fatto incontrare un Gasparini nuovo. La pagina scritta è una, ma le letture che di quella pagina si possono fare sono molteplici: dipendono dal lettore e dal rapporto che egli intrattiene con il testo, dai motivi o dalle finalità che gli hanno fatto aprire proprio quella pagina, dal suo bisogno di trovare un chiarimento o dal suo interesse di operare un confronto. Sono considerazioni note, ma nel caso del nostro libro questo risalta con particolare evidenza: i singoli saggi che lo compongono – certamente alcuni in modo più esplicito, altri meno – si aprono su più piani di lettura. Si può cominciare con una lettura oggettiva, cioè rivolta ai contenuti immediati che il testo presenta: in questo senso il libro spazia su una varietà molto aperta di questioni e ne sollecita una lettura approfondita e puntuale, oppure offre sul tema trattato suggestioni o sollecitazioni per ulteriori approfondimenti personali. Ma i diversi saggi si propongono anche ad una lettura critica di alcuni scritti di Gasparini, filtrata attraverso l’interpretazione dell’autore del saggio; e, infine, il libro si presta ad una lettura con una predominanza emotivoaffettiva che porta, a tratti, lo sguardo più sull’uomo che sullo studioso e ne ricostruisce in modo molto vivo alcuni tratti della personalità. Tutto questo dà al volume su Duilio Gasparini una caratterizzazione unica che lo rende distinto da altri testi simili e per questo motivo il libro, più che costituire il segno di un ricordo – che spesso può rimanere solo un nostalgico sguardo al passato – testimonia, in realtà, una presenza, la viva presenza di un pensiero, dal quale ciascuno può cogliere uno spunto, un motivo di riflessione, una sollecitazione per un approfondimento critico, per un’analisi personale e certamente anche – perché no – per ravvivare la memoria.
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Ed è proprio un tale aspetto che in fondo può essere considerato come l’eredità del pensiero e dell’opera di Duilio Gasparini, una eredità che il lavoro in suo onore oggi presentato ha saputo cogliere, perché ci fa incontrare con alcune questioni che a tutt’oggi appaiono ancora di grande attualità e urgenza. Da qui anche il titolo dato a questa nostra giornata: Scuola, ricerca, educazione ieri ed oggi, con le relazioni e gli interventi che nel corso del Convegno seguiranno. Basti pensare al suo impegno nella scuola che non ha mai smesso di vedere e di sentire coinvolta nella vita sociale, una scuola che non può non essere accogliente, aperta, integrata, ieri come oggi. E questo Gasparini l’aveva fatto non a parole, sostenendo dei principi, ma lavorando concretamente sul campo: nella sua qualità di Direttore didattico aveva aperto una piccola scuola per i bambini zingari che nel rione di S. Sabba si erano stanziati con le loro baracche e roulotte, ed aveva avviato, nel suo Circolo, una sala di lettura per ragazzi, con una biblioteca di più di mille libri, perché era convinto che la scuola doveva assolvere una funzione fondamentale di riscatto culturale e sociale. Proprio per questo mise sempre in primo piano l’importanza della formazione di chi in questa scuola ha il compito di insegnare e di educare, sottolineando il significato e il valore della presenza dell’insegnante nella vita e nell’educazione dei ragazzi. In fondo il merito di Gasparini è stato quello di aver riconosciuto chiaramente che, al di là di ogni metodologia e di ogni tecnica didattica, il vero motore della scuola è comunque – ieri come oggi – l’insegnante con la sua umanità, la sua cultura, i suoi atteggiamenti sempre rispettosi dell’originalità e della dignità della persona umana, di ogni singolo ragazzo. In questa prospettiva, per lui, la didattica non è mai stata una questione tecnica, anche se certamente nella pratica – ieri come oggi – il possesso ricco e pieno di tecnologie, strumenti e soluzioni metodologiche aiuta l’operatività e la sostiene, ma non risolve, nella sostanza, il lavoro dell’insegnante: in didattica, la dimensione tecnica deve sempre interagire con quella valoriale e decisionale o, come egli ebbe a dire, riprendendo un pensiero di Aldo Agazzi, la didattica si configura come «una tecnica vissuta in spirito di artista» (Gasparini, 1968, 39). D’altra parte, per ogni pedagogista, il problema non è solo quello di stabilire il ruolo della pedagogia, ma anche di precisare il modo di concepire la funzione della ricerca storica, nel senso che essa – ieri come oggi – contribuisce anche a dare significato ad un progetto pedagogico. Perché la pedagogia è scienza progettuale, protesa verso il futuro, ed è tensione verso il futuro, in quanto l’educazione, come l’insegnamento, agisce sempre “qui ed ora” per produrre un cambiamento. Con il suo impegno e il suo lavoro di studioso, Gasparini ci ha fatto capire di essere stato profondamente convinto che cambiamento e innovazione si affer-
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mano solo in un rapporto dialettico con l’esistente e si innestano sempre sulla realtà e la sua storia: in altre parole il futuro non è solo davanti a noi, ma è anche “alle nostre spalle” e la nostra responsabilità di educatori si gioca proprio nella capacità di costruire oggi, nel presente, i raccordi fra passato e futuro nella convinzione che anche le nostre azioni cooperino a realizzarli. E vorrei concludere questa breve introduzione con un pensiero di Gasparini, ripreso dal Manifesto di presentazione del presente Convegno: «E raramente l’uomo fu più disarmato, come in quest’epoca, di fronte agli eventi che si svolgono in seno alla storia; raramente, cioè, egli fu così oggettivato e socializzato, sì che l’imperativo categorico d’oggi è quello di riabilitare la persona umana in campo teoretico al fine di produrre un rispetto e una valorizzazione della sua dignità in campo pratico», (Ibidem, 9). Presentazione dell’Autore: Bianca Rosa Grassilli, già professore ordinario di Didattica generale, è stata Preside della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Trieste e Direttore della Scuola di Specializzazione per l'Insegnamento Secondario presso lo stesso Ateneo. I suoi interessi di studio e di ricerca si sono rivolti in particolare alle questioni riguardanti la teoria della didattica, la formazione docente e la progettazione educativa. Fra le sue pubblicazioni: Nuova professionalità docente (a cura di) (2002), Padova, CLUEP; Didattica e metodologie qualitative (in coll.) (2003), Brescia, La Scuola; Nuovi contesti della formazione (in coll.) (2005), Milano, Franco Angeli e diversi saggi, fra i quali Il tirocinio: esperienza, conoscenza, formazione (1998), Milano, Franco Angeli; La ricerca in campo didattico (2003), Milano, Guerini.
Bibliografia GASPARINI, D. (1968), Le prospettive teoretiche della didattica, Università degli Studi di Trieste, Quaderni dell’Istituto di Pedagogia, 3, Firenze, Le Monnier. — (1968-1970), Adolfo Pick. Il pensiero e l’opera, 3 voll., Firenze, Centro Didattico Nazionale di Studi e Documentazione. GASPARINI, D., GRAZZINI, M. (1999), Il grande Fröbel delle opere minori, 2 voll., Brescia, Istituto di Mompiano, Centro Studi pedagogici “Pasquali-Agazzi”, Comune di Brescia.
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RIFLESSIONI SULL’UNITÀ DEGLI ITALIANI IN RICORDO DEL “TRIESTINO” DUILIO GASPARINI Luciano Malusa Abstract: Several circumstances of cultural character connect the experience and the development of pedagogic thought of Duilio Gasparini with the thought of Blessed Antonio Rosmini. In memory of Gasparini, and rediscovering some autobiographical memories of his, with regard to his love for the country of Trieste and for the great Italian home, it is meant to recall a distant episode of the first war of Italian independence, in 1848. Rosmini faced in his capacity as a charged with diplomatic mission the issue of the institution of the Italian Confederation, and placed the problem of the Trentino, of Trieste, of the Istria and the Dalmatia, discussing on the possibility that also these lands, for centuries subject to Empire of Austria, could meet peacefully in the Italian National State. Riassunto: Parecchie circostanze di carattere culturale legano l’esperienza e lo sviluppo del pensiero pedagogico di Duilio Gasparini al pensiero del Beato Antonio Rosmini. Nel ricordo di Gasparini, e riscoprendo alcuni suoi ricordi autobiografici, riguardo all’amore di lui per la patria triestina e per la grande patria italiana, si intende rievocare un lontano episodio della prima guerra per l’indipendenza italiana, nel 1848. Rosmini affrontò nella sua qualità d’incaricato di missione diplomatica la questione dell’istituzione della Confederazione Italiana, e pose il problema del Trentino, di Trieste, dell’Istria e della Dalmazia, discutendo sulla possibilità che pure queste terre, da secoli soggette all’Impero d’Austria, potessero confluire pacificamente nello Stato Nazionale Italiano. Parole chiave: Antonio Rosmini, nazionalità, indipendenza italiana, unità italiana, Trieste.
1. Duilio Gasparini e l’educazione alla nazionalità Si sono concluse con l’anno 2011 le manifestazioni per il centocinquantesimo anniversario della proclamazione dell’Unità d’Italia. Il convegno in ricordo di Duilio Gasparini organizzato dagli amici triestini viene celebrato quando la questione della formazione dell’unità italiana non è più all’ordine del giorno delle celebrazioni ufficiali. Il convegno genovese dedicato alla presentazione del volume Le dimensioni dell’educare e il gusto della scoperta, curato da Olga Rossi Cassottana e da me, si era
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invece tenuto il 2 dicembre 2011, sul finire del percorso che la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Ateneo ligure aveva intrapreso da mesi, nel quale erano stati approfonditi diversi aspetti del pensiero italiano del Risorgimento. Nel volume, che ora viene presentato agli amici triestini, destinato a lumeggiare i meriti del Gasparini pedagogista e storico della pedagogia, nonché studioso di diversi aspetti della dinamica educativa riguardo alla cittadinanza, avevo scelto, quale “argomento” per parlare delle tematiche della cittadinanza, il contributo dato da Antonio Rosmini alla formazione dell’unità italiana in un importante tentativo, svolto nel 1848, di accordare gli Stati italiani sull’idea di una Confederazione. Mi era sembrato allora che, in omaggio a Gasparini ed alle sue qualità di studioso e di storico della pedagogia, fosse interessante affrontare uno studio sul pensiero di Rosmini, fautore dell’unità italiana. Ora, a pochi mesi dalla chiusura delle manifestazioni ufficiali, di unità italiana si parla meno, forse anche perché incombono sul nostro paese situazioni di gravi ristrettezze economiche e di turbamento sociale che hanno fatto passare in secondo piano i ricordi sulle vicissitudini del nostro Paese nel suo organizzarsi ad unità. In molti è rimasta la sensazione che non tutti gli italiani impegnati nella cultura e nell’educazione abbiano riflettuto a dovere, in occasione delle celebrazioni, sulla necessità dell’educazione alla coesione nazionale sotto il profilo della consapevolezza e della responsabilità. Oggi come oggi si sente come non mai il desiderio che gli italiani sentano quale primario loro impegno uno sforzo di serietà nei comportamenti civici ed economici al fine di “stabilizzare” eticamente le forme di vita e di produzione. In questa sede di affettuoso ricordo dell’amico Duilio vorrei tornare a fare alcune considerazioni sui problemi cruciali dello spirito di coesione nazionale, quale ad esempio viene interpretato qui a Trieste, città che è stata, e forse è ancora, per molti versi, in prima linea nel rivendicare il valore di un’identità nazionale “forte”. L’educazione alla cittadinanza stava parecchio a cuore a Duilio, come pure il problema di come mantenere la consapevolezza dell’italianità. Alcuni interventi nel volume hanno ricordato la sua carriera nella scuola, a Trieste, in un periodo di passione civile e nazionale, in cui Duilio ha dato un suo contributo1. Duilio è stato con me schivo nel ricordare i tempi della passione patriottica dei Triestini, tra il 1945 ed il 1954. Abbiamo però talvolta ricordato i tempi tragici del periodo bellico e del secondo dopoguerra, ed io conservo chiaramente nella memoria il racconto da lui fattomi di alcuni episodi della sua vita. Capisco che è doloroso oggi parlare del sentimento forte di nazionalità dimostrato nel secolo XIX dagli italiani di Trieste, dell’Istria, del Quarnaro e della Dalmazia (e del Trentino ovviamente) alla luce degli eventi del secolo XX, che privarono il nostro Paese d’una quantità no-
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tevole di città e di territori che tanto avevano amato un destino di “congiungimento” nazionale. Talvolta è doloroso, talvolta è imbarazzante parlare di quanto è accaduto dopo il secondo conflitto mondiale nelle regioni di confine del Nord-Est d’Italia, in quanto le giovani generazioni, così lontane dalla dimensione storica, non sanno che Koper, Piran, Rjeka, Pula, Sjebenik, Split, Dubrovnik sono nomi di città della Slovenia e della Croazia che, ancora settanta anni or sono, avevano un altro nome e parlavano altra lingua da quella che parlano ora. Occorre per questo ricordare, e celebrare quindi un’apposita “Giornata della memoria” per non dimenticare eventi tristi e dolorosi per i nostri concittadini e per rivendicare dignità di ricordo per terre ormai perdute riguardo all’italianità. Terre che hanno dato origine a grandi ingegni nell’ambito del pensiero, come Pier Paolo Vergerio, Francesco Patrizi, Giuseppe Tartini, Gian Rinaldo Carli, Ruggiero Giuseppe Boscovich, Niccolò Tommaseo. Il trattato di pace di Parigi, del 10 febbraio 1947, ha privato la nazione italiana dell’abbraccio con tanti cittadini suoi, passati sotto altri Stati oggi esistenti (Slovenia, Croazia), col sacrificio quasi integrale della loro tradizione e della lingua. In particolare ha frustrato le aspirazioni all’italianità che nel secolo XIX erano state molto forti in regioni come Venezia Giulia, Istria, Dalmazia2. Ebbene: di quelle aspirazioni era stato testimone e protagonista il filosofo e pedagogista che ho posto in relazione ideale con Duilio: Antonio Rosmini. Prima di tutto mi si permetta di fare un raffronto tra l’animo di Gasparini e la figura di Antonio Rosmini, pedagogista ed educatore all’unità nazionale. Una volta poste in luce le consonanze tra Gasparini ed il grande pedagogista di Rovereto mi sarà più semplice trattare di un argomento piuttosto spinoso, che però vorrei affrontare con sincerità: l’amore per la patria italiana, sempre dimostrato dai triestini nell’Ottocento (come dai trentini, dagli istriani e dai fiumani) nonostante la situazione internazionale inibisse loro di sperare in una riunione con l’Italia. Intendo lanciare un “ponte ideale” tra il trentino Rosmini ed il triestino Gasparini. In termini di pubblicazioni Duilio ha lasciato intendere in alcuni suoi scritti la sua idea circa l’italianità, la triestinità, e l’educazione a questi sentimenti. La generosa militanza di Duilio nell’associazionismo magistrale cattolico (come testimoniano le belle foto in suo ricordo di alcuni Congressi dell’Associazione Italiana Maestri Cattolici, che sono riportate nel volume) mi ha indotto a pensare che uno dei temi più rilevanti della mentalità di Rosmini fosse entrato nella sua formazione: l’educazione alla cittadinanza come sfida pedagogica fondamentale. Ci troviamo oggi in un momento propizio per lo studio del pensiero rosminiano, sulla scia della proclamazione del filosofo roveretano quale Beato di Santa Romana Chiesa3. Poco prima dell’intensificarsi della militanza di Duilio nell’AIMC non era così, in quanto si ricordavano ancora le condanne che la Chiesa aveva
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inflitto al grande educatore. Il Congresso stresiano del 1955 per il primo centenario della morte del Roveretano4 aveva rimarcato una situazione anomala: mentre la quasi totalità degli studiosi aveva superato nettamente le problematiche relative alle condanne del 1887, la sola Università Cattolica del Sacro Cuore aveva mantenuto un atteggiamento riservato, confermando in un certo senso le accuse teoretiche all’ortodossia del sistema rosminiano. L’Università retta in modo ferreo da p. Gemelli aveva dedicato al Roveretano un proprio Convegno, nel corso del quale si erano levate considerazioni di severa critica alla metafisica ed alla gnoseologia del pensatore5. Insieme ai professori della Cattolica stava l’autorità ecclesiastica, che taceva sulle condanne, e manteneva un silenzio imbarazzato. I maestri dell’AIMC invece consideravano importante la pedagogia rosminiana e apprezzavano l’intero impianto teoretico di essa. Gli anni della militanza gaspariniana nell’AIMC sono proprio quelli che seguono le celebrazioni centenarie per la morte di Rosmini; non si ricordavano più tra gli educatori le condanne ricevute da Rosmini, ma si esaltava il ruolo di guida della pedagogia cattolica che il Roveretano aveva avuto. Chi vi parla conserva un precocissimo ricordo, del 1958: ad una riunione in Montevelo d’Arco, in Trentino, i pedagogisti che facevano capo alla Casa Editrice “La Scuola” (Vittorio Chizzolini, Angelo Colombo, Sergio Spini), impegnati nello sviluppo di una dinamica pedagogia cattolica, tennero delle lezioni agli studenti degli ultimi anni degli Istituti magistrali, ricordando il contributo dello spiritualismo pedagogico italiano, che a Rosmini faceva capo. Gasparini quindi non ebbe difficoltà ad apprezzare Rosmini e il suo insegnamento concreto per l’italianità. In quegli anni egli partecipava attivamente ai gruppi di lavoro e di iniziativa didattica dell’Editrice “La Scuola”, soprattutto impegnandosi nella ricerca sperimentale dei “Maestri di Pietralba” (dallo stupendo Santuario sulle Dolomiti) fin dal 1949, e poi partecipando agli incontri di “Scholé”. Gasparini insomma non poteva non apprezzare la pedagogia rosminiana, per la sua forte valenza personalistica. Ho appreso, preparando il volume in suo ricordo, che egli si laureò in Pedagogia nel 1952 con una dissertazione di laurea dal titolo Il concetto della persona come presupposto essenziale della pedagogia. Ma ho anche appreso della sua collaborazione nell’Ateneo triestino alla cattedra di Storia della filosofia, tenuta da Mariano Campo, studioso di grande valore della storia del kantismo e del neokantismo. Insomma, ho tutti gli elementi per immaginare una sintonia del pensiero di Duilio con il pensiero di Rosmini e con i presupposti personalistici della sua pedagogia. Quindi posso procedere a spiegare come Rosmini, in modo cauto ma essenziale, confermò le aspirazioni dei triestini all’unità politica e statuale con l’Italia in formazione.
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2. La “guerra” di Duilio Gasparini e gli eventi di Trieste tra il 1943 ed il 1954 Vorrei avviare queste riflessioni sulla nazionalità e sui sentimenti che sono così cari ai Triestini, tanto legati alla loro terra come terra italiana, con il ricordo delle conversazioni avute con Duilio. Da esse capii la forza dei suoi sentimenti sulla patria italiana. Egli, un giorno, mi raccontò della sua chiamata alle armi, nel 1944, nell’esercito della Repubblica sociale italiana, e del fatto che fu incorporato nel servizio del territorio del Litorale adriatico, controllato direttamente dalle autorità germaniche. Mussolini aveva preteso dall’alleato tedesco di procedere all’arruolamento dei giovani della classe di Duilio (1923) entro l’esercito della RSI, anche per i residenti del Litorale adriatico, cioè nella provincia di Trieste e nell’Istria, di fatto svincolate dall’amministrazione italiana. Non era riuscito a fare altrettanto per le terre del Tirolo, passate sotto l’amministrazione germanica, la quale procedette ad incorporare nella Wehrmacht i giovani dell’Alto Adige, che fino al giorno 8 settembre 1943 erano stati arruolati nell’Esercito italiano. In questo contesto i giovani arruolati a Trieste, a Pola ed a Fiume furono dislocati in reparti vicini e non furono inviati in Germania per l’addestramento previsto per le divisioni del generale Graziani. Duilio prestò il suo servizio presso il Battaglione Costiero di Fortezza, a S. Caterina, vicino a Fiume, in luoghi quindi non lontani da Trieste. Forte in lui era il disagio di questo servizio. Non aveva però alcun orientamento politico. Idealmente egli era ben lontano dal fascismo repubblicano, ma vedeva anche con preoccupazione avvicinarsi la fine dell’occupazione tedesca e il tracollo dell’esercito della RSI. Grave era la sua angoscia per il destino della sua città, minacciata dai successi dell’Esercito popolare di liberazione jugoslavo, in cui prevaleva l’ideologia comunista. Duilio fu ricoverato per una malattia grave agli occhi in ospedale a Fiume, per essere poi trasferito a Drenova. Il suo disagio aumentava. L’ultimo servizio Duilio lo prestò nel 1945, presso Gorizia, in un reparto ivi accantonato. La guerriglia dei partigiani jugoslavi si era fatta intensa e parecchi ormai pensavano che, con la rottura del fronte italiano, sugli Appennini, appena gli Alleati anglo-americani si fossero avvicinati a Trieste, sarebbero arrivati anche i Partigiani “titini”, cioè dell’esercito jugoslavo di liberazione. Il suo reparto costiero era quindi in grave pericolo. Di quell’esperienza sempre mi parlò come di qualcosa nella quale egli aveva sperimentato la speciale protezione divina, forse per le preghiere dei suoi genitori. Avvicinandosi il momento del tracollo delle forze italo-tedesche in Italia il suo comandante di compagnia, un capitano, di cui Duilio non ricordava il nome, lo chiamò a rapporto e gli consegnò
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una busta chiusa da portare con urgenza al comando triestino di Distretto militare. Stranamente, commenta Duilio, il capitano inviò per questa incombenza ben tre militari del suo reparto, tutti triestini. Compilò per loro un regolare foglio di viaggio, affinché non incontrassero difficoltà se fermati dalle pattuglie tedesche. Arrivati a Trieste il 1° maggio i giovani soldati si resero conto che in città erano arrivati i partigiani jugoslavi e che ormai non potevano assolvere il loro compito: non restava allora che rifugiarsi in casa e nascondersi, guardandosi bene di qualificarsi come militari della RSI. Duilio riuscì a restare nascosto fino alla fine dei drammatici “quaranta giorni” dell’occupazione jugoslava e poi poté riprendere la sua vita normale, ed il suo insegnamento elementare di ruolo, interrotto a cagione della guerra. Duilio considerava quel capitano un eroe. Di lui, che aveva allontanato i suoi soldati triestini dal reparto in procinto di essere attaccato dai partigiani titini con un pretesto, riuscendo quindi a salvarli da rischi gravi di morte, Duilio mi ha confessato di non aver più saputo nulla di lui. Ma questo gli dispiaceva. Inequivocabile il gesto protettivo nei confronti dei suoi soldati: infatti quella lettera affidata a lui con molta cura, quasi che la consegna di essa fosse stata un’importante missione, non conteneva che un foglio vuoto di scrittura. Forte era rimasto in Duilio il ricordo di questo ufficiale, che, pur militando dalla parte fascista, e magari avendo aderito liberamente al rinnovato esercito della RSI, aveva fatto scattare nel proprio comportamento considerazioni di umanità verso giovani da lui dipendenti, e li aveva salvati. Lui invece, probabilmente, aveva affrontato l’ultimo scontro, forse la prigionia jugoslava, forse la morte in combattimento o per mano dei partigiani. Quell’ufficiale era stato un buon italiano, e il suo esempio era veramente rilevante. Duilio mosse i primi passi della sua ripresa della carriera di educatore nel corso della situazione drammatica del Territorio Libero di Trieste, portando avanti con cura il suo compito educativo, studiando all’Università e lavorando pure nell’associazionismo cattolico, in attesa di tempi migliori, preservando sempre con l’azione e l’esempio l’italianità della sua città e lavorando nel silenzio, ma con efficacia, perché le scuole triestine fossero sempre fedeli alla cultura ed alla lingua italiana, e di silenziosa rivendicazione della necessità di un ritorno della città entro lo Stato italiano. Mi pare significativo il fatto che Duilio abbia allora avanzato proposta di intitolazione di una scuola elementare di quelle che sarebbero state del suo Circolo didattico, la scuola di San Sabba, di cui parla con efficacia nel volume di ricordo a lui Giordano Sattler, ad un pensatore ed uomo di cultura veramente importante, Domenico Rossetti. A questo esponente della cultura irredentistica ante litteram si deve la fondazione della Società Minerva e insieme anche la fondazione della rivista «L’Archeografo triestino»6. A lui si deve la conservazione di sentimenti di vicinanza alla
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cultura nazionale italiana da parte di una città che mai aveva fatto parte di Stati regionali italiani, e che quindi sembrava distaccarsi da pretese di italianità pura. Rossetti ed altri del suo tempo sentirono esattamente come il trentino Rosmini ed il dalmata Tommaseo la necessità di difendere con le argomentazioni filosofiche e giuridiche l’italianità di certe terre e la realizzabilità dell’unità politica delle genti della Penisola, dell’Istria e della Dalmazia. Dopo gli anni dell’occupazione alleata di Trieste, Duilio operò nella concretezza del suo impegno educativo e poi di dirigente scolastico per mantenere vivo il senso di appartenenza dei triestini e dei giuliani all’Italia, dopo un ricongiungimento del 1954, cui subentrò presto una sorta di crisi di identità. Infatti a molti in Trieste non apparve chiaro cosa avesse significato il ritorno della città come parte integrante dello Stato italiano, percorso da indifferenza patriottica, che divenne crescente negli anni successivi al 1960. Si cimentò anche nella preparazione di un volume per gli alunni delle scuole medie superiori dedicato alla Regione Friuli-Venezia Giulia, ricco di riferimenti storico-geografici aventi lo scopo di far amare ai giovani la regione che aveva Trieste come suo punto fondamentale di aggregazione, e nel far conoscere l’Istria, regione che ormai non era più italiana, ma la cui italianità non poteva essere cancellata dai trattati di pace7. L’impegno nella direzione didattica, e poi lo studio pedagogicosperimentale e storico-pedagogico intrapreso per la carriera universitaria di professore di Pedagogia, portarono Duilio lontano dall’occuparsi di problemi teorici e storiografici collegati alla “triestinità”, alla “istrianità”, ed all’amor di patria italiano. Il rispetto e l’incremento dei sentimenti di nazionalità, e pure lo studio della storia triestina ed italiana, portarono però Duilio ad essere, anche fuori dalla sua città, una specie di “ambasciatore” della triestinità. Tale io l’ho conosciuto, e per tale l’ho rispettato. La sua discrezione in questa sua triestinità è giunta al punto di non parlarmi mai di suo padre, che si arruolò come volontario, con gravissimi rischi per la sua vita, nell’esercito italiano, nella guerra 1915-18, al fine di liberare la sua terra. Un comportamento eroico e consapevole, che accomuna il padre di Gasparini ai tanti giuliani e trentini che si arruolarono nel Regio esercito italiano, i quali addirittura, se catturati in atti di combattimenti, sono stati giustiziati dalle autorità militari austriache come “traaditori”: il ricordo va ovviamente ai trentini Battisti, Filzi, Chiesa, ed all’istriano Sauro, ed al dalmata Rismondo. A questo punto considero un servizio reso alla memoria del caro amico il riandare mio, in questo consesso triestino, ai momenti cruciali della storia italiana, in quel 1848-49 nel corso del quale si manifestò il vigore dell’intervento di molti cattolici, ed in particolare di Antonio Rosmini. Cercherò in questo caso non tanto di ricostruire l’impegno per l’educazione degli italiani all’unità ed al patriottismo, quanto di individuare
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alcune prese di posizione del pensatore di Rovereto di forte adesione all’idea che nello Stato italiano, nazionale, che si doveva formare magari attraverso il processo dell’unificazione federale, dovessero trovare posto le città di Trento, Trieste, i territori dell’Istria e della Dalmazia. Vi sono significativi passaggi del filosofo trentino dedicati al principio di nazionalità ed alla sua applicazione alla complessa situazione italiana8.
3. Rosmini per l’unificazione di Trieste e Trento (ma anche Pola, Fiume, Zara) al nuovo possibile Stato nazionale italiano Ribadisco che il personalismo del filosofo di Rovereto ha avuto un certo peso nella preparazione filosofica del pedagogista Gasparini, se non altro come una presenza rilevante, una figura che poteva essere di esempio. Il raccordo tra le idee pedagogiche di Rosmini, molto note e condivise in Italia9, e le idee che egli manifestò sull’educazione degli italiani alla consapevolezza di essere una nazione, e di esserlo secondo una grande tradizione spirituale, quella cristiana, è molto forte. In occasione del 1848 il pensatore di Rovereto espresse importanti posizioni relativamente alle possibilità di realizzazione dell’unità italiana. La sua preoccupazione maggiore era evidentemente quella di un’educazione degli italiani, e di una formazione delle classi dirigenti delle diverse realtà regionali italiane, onde rendere capaci gli italiani di comprendere le ragioni dell’unificazione nazionale. A lui sembrava che senza un richiamo all’unità spirituale e culturale del nostro paese non si sarebbe potuta realizzare una vicenda di unificazione politica ed amministrativa delle genti italiane che rispettasse però l’individualità delle realtà regionali in cui si parlava italiano e le loro tradizioni. Il problema per Rosmini divenne cruciale quando si trattò di passare dalle parole ai fatti e di appoggiare concretamente il movimento patriottico, dopo le Cinque giornate di Milano, e dopo la liberazione di Venezia dagli Austriaci, con la presa dell’Arsenale. Perché non era accaduto altrettanto a Trieste? Oppure a Trento ed a Rovereto? Rosmini pare fornire una risposta anche a questo. Ho scovato tra le lettere di Rosmini un impegnativo passaggio in cui parla della nazionalità italiana che contraddistingue anche le genti di paesi che non si trovano in Stati italiani in senso pieno: intendo dire le regioni e le città abitate da italiani fuori dai confini degli Stati allora sicuramente riconosciuti per italiani (Regno delle Due Sicilie, Regno di Sardegna, Granducato di Toscana, Ducati padani, Regno Lombardo-Veneto, e pure Stato della Chiesa). Rosmini si riferisce alla popolazione italiana del Trentino, di Trieste e della Venezia Giulia, dell’Istria, del Quarnaro e della Dalmazia. Scrivendo il 17 maggio 1848 al cardinale Castruccio Castracane degli
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Antelminelli su questioni legate alle rivendicazioni nazionali degli Italiani, e spingendo il Principe della Chiesa a farsi partecipe delle sue idee presso Pio IX, Rosmini tratta del principio della nazione italiana, e del diritto degli italiani ad avere un loro Stato, i cui confini siano quelli della loro lingua e della loro cultura (e della loro religione). Da pochi giorni (29 aprile 1848) era uscita un’importante Allocuzione papale, la quale non accettava per lo Stato della Chiesa il ruolo di belligerante contro l’Austria. Il Papa aveva inviato un suo diplomatico, mons. Morichini, con un’appassionata lettera all’Imperatore Ferdinando II di Absburgo, in cui proponeva di mediare tra le esigenze contrastanti dei due paesi in guerra. Pio IX si manteneva come capo della Chiesa e come sovrano dello Stato Pontificio in posizione di neutralità, ma proprio per questo supplicava l’Imperatore a lasciare il Regno Lombardo-Veneto nella libertà di scegliere il proprio destino di Stato entro un’organizzazione federale italiana, accordandosi soprattutto con il Regno di Sardegna, che si stava battendo con le armi per una totale indipendenza della Penisola da controlli stranieri. Tale lettera era stata fatta conoscere riservatamente anche a Rosmini (cfr. Rosmini, 1998, 240-241). Quindi il Roveretano espone queste considerazioni sulle difficoltà della mediazione papale tra regno di Sardegna ed Impero d’Austria sulle rivendicazioni nazionali, allora impersonate da re Carlo Alberto: «La mediazione del Sommo Pontefice tra l’Austria e l’Italia va benissimo (…) Ma conviene pensare ancora che è cosa improbabilissima che riesca. La difficoltà non è il Regno Lombardo-Veneto: è Trieste, l’Istria, la Dalmazia e il Tirolo italiano, contrade tutte rivendicate dall’Italia. Come è possibile che l’Austria le voglia abbandonare? Ne sarebbe contenta l’intera Germania? Questo è il nodo dell’intera questione che io credo insolubile senza il ferro che lo tagli» (Rosmini, 1998, 233). Il brano che ho letto è stato prudentemente tolto dagli editori della Missione a Roma, del 1881, non volendo che a Rosmini si attribuissero le posizioni degli irredentisti, in un periodo quanto mai critico nei rapporti del Regno d’Italia con l’Austria (da poco era stata stipulata la Triplice Alleanza)10. L’atteggiamento di Rosmini comunque è lineare: secondo il principio della nazionalità italiana occorre che l’Austria pensi seriamente a dare la libertà e l’indipendenza anche a genti che vivono entro i suoi confini, ma che appartengono senza ombra di dubbio all’Italia come nazione. Su questo punto della nazionalità, principio chiarissimo e collegato al diritto della natura umana di essere libera e solidale con i propri simili secondo i vincoli del territorio e del sangue, Rosmini ha scritto pagine significative11, ed ha consegnato poi al progetto della Confederazione italiana, discusso in Roma tra agosto ed ottobre 1848, un significato di esaltazione dell’unità insieme e dalla pluralità degli Stati e delle situazioni12. Citerei una pagina significativa che si trova nel suo capolavoro di
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carattere giuridico-politico, la Filosofia del Diritto: «Se poi il popolo conquistato, al tempo della conquista è già ordinato a società civile, allora la signoria de’ vincitori ha due gradi; o ella distrugge affatto ogni vincolo civile fra le famiglie del nuovo popolo, e lo lascia in istato di società domestica. Ovvero se la signoria è più mite, il popolo conquistato mantiene qualche unità civile, anzi si stringe fra sé con i più stretti vincoli, e conserva tutte o in parte le sue leggi, i suoi costumi, la sua religione, solo manca del supremo potere civile. Riman dunque fra questo popolo soggiogato qualche rudimento di società civile, ma di una società civile serva e non libera; di società civile diversa da quella che fanno tra di loro i conquistatori» (Rosmini, 1844)13. Il riferimento agli italiani delle regioni sottomesse all’Impero d’Austria, multinazionale e multietnico, è chiarissimo. Rosmini teorizza che la società civile che si costituisce naturalmente tra i diversi capi-famiglia aventi le stesse tradizioni di lingua e di religione e consuetudini possa anche conservarsi nel mentre sono in atto procedure di dominio signorile su diversi popoli da parte di una monarchia egemone. Tale conservazione di una società civile di italiani, nel Trentino come a Trieste e nella Venezia Giulia (a queste situazioni pensa Rosmini), rende facile ad essi la richiesta di un riconoscimento preciso: l’adesione allo Stato-nazione italiano, che si sta organizzando a seguito delle aspirazioni del popolo italiano che vive in diversi Stati. Per Rosmini il principio di nazionalità ha una precisa connotazione: ove diviene cemento di una società civile, deve essere riferimento ad un’azione di autonomizzazione o di indipendenza. Se un popolo è disorganizzato e disunito in diversi Stati, allora questi Stati potrebbero dare luogo ad un’unione di essi entro una Confederazione. Se parti di questo popolo si trovano suddite in altri Stati multinazionali, come è il caso dell’Impero d’Austria, allora il principio di nazionalità applicato alle società civili organizzate e decise ad ottenere riconoscimento, deve prevalere. Rosmini naturalmente non affronta compiutamente il problema dell’irredentismo italiano nei confronti dell’Impero austriaco, limitandosi a portare esemplificazioni semplici, prese dal riconoscimento del principio di nazionalità. In un passaggio, questa volta non censurato, Rosmini parla delle discussioni nella Dieta di Francoforte per l’unificazione politica della Germania, e ritiene che il Papa Pio IX metterebbe a segno un grande gesto, andando in quella città tedesca a “benedire” il popolo tedesco e le sue aspirazioni ad un’unità nazionale organica e giusta. «Io credo che anche il solo far nascere il pensiero che il Papa sarebbe disposto a recarsi personalmente a Frankfurt per coronarvi di sua mano un Imperatore di Germania cattolico potrebbe avere una buona influenza sull’intera Germania e soprattutto sull’Austria: ma quello che so di certo si è che se
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potesse riuscire, che Pio IX andasse effettivamente in Germania per una tale occasione, ciò arrecherebbe incalcolabili vantaggi per la religione» (Rosmini, 1998, 234). Per Rosmini il principio di nazionalità, applicato alla Germania, si dovrebbe concretare nel porre insieme le diverse società civili degli Stati divisi, e nel fare di tanti staterelli un insieme di Stati vincolati in una Confederazione organica, che comprendesse tutti i tedeschi, austriaci compresi. In questo contesto Rosmini quasi vagheggiava una ripresa del Sacro Romano Impero, relativamente ai soli Stati tedeschi, alla cui guida fosse l’Imperatore d’Austria, un monarca cattolico, garante dell’unità tedesca e del ruolo pacifico di questo Stato nell’Europa. Spingendo Papa Pio IX a benedire questo nuovo Impero, proprio con una sua visita solenne alla Dieta francofortese, Rosmini riteneva che questa nuova situazione internazionale in Europa avrebbe favorito le speranze degli Stati collegati più o meno organicamente all’Impero austriaco e dei popoli in attesa di vedersi riconosciuti completamente, da società civili a società autorizzate ad aderire agli Stati nazionali di riferimento.
4. Rosmini interprete delle aspirazioni degli italiani delle terre dominate dall’Impero d’Austria Questa era la generosa prospettiva di Rosmini per le terre che saranno poi chiamate, dopo il 1870, “irredente”. Non poteva che essere lui, trentino, a pensare in quel modo. Molto interessante appare il fondamento della rivendicazione dell’unità italiana: un fondamento che ripudiava ogni gestione di tipo “signorile”, intendendo per tale la mentalità che faceva del governo pubblico un fatto di possesso senza delega alcuna. Per Rosmini il governo signorile austriaco non aveva accettato di dare alle società civili delle città e dei territori italiani che si trovavano nei suoi domini il carattere di libertà nella delega del governo che si sarebbe atteso da parte dei capo-famiglia congregati al fine di rendere funzionale l’esercizio dei loro diritti. Tuttavia il governo austriaco aveva accettato che in un certo modo ogni società civile dei paesi occupati, contrassegnata da propria lingua e da proprie tradizioni, mantenesse una sua autonomia relativa. Di tale libertà i triestini, i trentini e quasi tutti gli abitanti delle città una volta indipendenti e vicine a Stati italiani od a centri di cultura di lingua italiana, avevano fatto un uso sapiente e adeguato e quindi erano in grado di trovarsi pronti ad una prospettiva di unificazione con il costituendo Stato italiano. Rosmini capiva comunque che, nonostante avesse trovato una giustificazione teorica e pure politica per la richiesta di indipendenza nazionale da parte delle regioni italiane dell’Impero, non era facile convincere tutte le parti in causa ad un passo tanto rilevante,
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che pure avrebbe turbato tanti equilibri etnici entro le diverse nazionalità dell’Impero. Un esempio di possibili turbamenti lo troviamo nelle amicizie di Rosmini provenienti dalla Dalmazia. Pongo a confronto il comportamento di due persone diversissime: Niccolò Tommaseo e Antonio Bassich, entrambe conosciute all’Università di Padova. Da Sebenico l’uno e da Perasto, in quel delle Bocche di Cattaro, l’altro. Letterato era il Tommaseo, e scrittore di opere sulla lingua italiana che furono considerate esemplari. Quindi era fine scrittore italiano in tutto e per tutto, addentro ben più dei letterati toscani nella nostra lingua: era insomma un Dalmata esperto della lingua italiana al punto da indicare le regole della sua diffusione. Gioberti, che lo avversava politicamente, lo chiamò ingenerosamente «lo slavo» (Gioberti, 1848, 21-24)14. Il pensatore piemontese non voleva riconoscere che in lui il grande sentimento di italianità non escludeva una considerazione positiva della cultura dei popoli slavi con cui gli italiani della Dalmazia e dell’Istria erano sovente in conflitto. L’altro dalmata veniva dall’estremità della Dalmazia, era italiano, e venne aiutato da Rosmini negli studi sacerdotali. Divenuto sacerdote integerrimo, fu un cittadino di lingua italiana fedele al governo dell’Austria, titubante nel manifestare segni della sua italianità. Entrambe persone beneficate da Rosmini; da entrambe aveva ricevuto difficoltà e segni di incomprensione. Italianissimo Tommaseo, nel 1848 però aveva in mente la ricostituzione della Repubblica di Venezia, se il progetto federale di Rosmini non fosse andato a buon fine. Fedelissimo all’Imperatore Bassich, in quanto per lui non aveva senso distaccare la Dalmazia dall’Impero per farne un nuovo Stato (veneto od italiano). Ma si badi: Rosmini andò oltre i dispiaceri lasciatigli dal focoso e intemperante Tommaseo, come poi lo stesso dalmata ammise15. Inoltre Rosmini superò pure l’incomprensione che gli dimostrò Bassich, quando criticò l’impegno patriottico di Rosmini nella questione della Confederazione italiana16. L’italianità nel Tommaseo era carne e sangue, ed egli portava per l’Italia l’orgoglio di appartenere ad una regione di frontiera. In Bassich l’italianità era un dato importante, ma solo da attribuirsi alla famiglia, in cui si parlava italiano17. Occorre dare un chiarimento. Le genti di nazionalità italiana che abitavano in Cattaro, alla metà dell’Ottocento, parlavano di solito l’italiano in casa, e ritenevano quindi più rilevanti per i rapporti sociali e politici la lingua dell’Imperatore, il tedesco, e la lingua croata, prevalente ormai in quella parte estrema della Dalmazia, data la politica austriaca a favore di essa. Bassich, divenuto zelante sacerdote e quasi funzionario austriaco, aveva dimenticato di aver studiato a Padova e di essere stato sostenuto dall’italianissimo Rosmini. Certo, egli non poteva non sentirsi linguisticamente e culturalmente italiano: però era indotto ad aderire ad opinioni di stretta conformità alla volontà dell’Imperatore e della sua politica, che
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era avversa ad ogni manifestazione di rivendicazione nazionale italiana. Bassich era integrato nella burocrazia austriaca, come prete; e quindi sentiva prevalere in lui la fedeltà all’Imperatore sulla tensione nazionale italiana. Si realizzavano le due ipotesi che Rosmini aveva pensato: il dominio signorile dell’Austria in parte era riuscito a far regredire gli italiani della Dalmazia dalla condizione di persone costituenti una loro società civile, richiedente uno Stato, alla condizione di parlanti l’italiano solo in famiglia (questo specialmente a Cattaro e dintorni); in parte invece non era riuscito in questa diminuzione e doveva fronteggiare persone della preparazione e del carisma di Tommaseo, ed il ceto borghese italiano, da Ragusa a Trieste, nella loro rivendicazione di essere una società civile ben individuata, pronta a prendere quale proprio punto di riferimento uno Stato nazionale italiano. Alla fine, come è noto, trionfò in Dalmazia questa politica voluta dall’Austria riguardo ai diversi gruppi linguistici etnico-nazionali: lingua tedesca adoperata nella burocrazia, lingua croata favorita nella società civile dalmata, e lingua italiana permessa nelle famiglie solamente. Pertanto nessuna rivendicazione nazionale, rispetto tanto al gruppo etnico croato ed a quello italiano. La chiamata in causa dei Triestini, dei Trentini, e degli Istriani e Dalmati nella rivendicazione di indipendenza venne attenuata da Rosmini nel 1849, pressato dal timore di rappresaglie contro i sacerdoti del suo Istituto che erano in cura di anime nella città di Verona. Addirittura, pur di salvare dall’espulsione i suoi sacerdoti in Verona, Rosmini aveva dichiarato a Jacopo Molinari, parroco della chiesa di S. Zeno in Verona, la disponibilità a sostenere presso il Radetzsky, che aveva i pieni poteri militari sui cittadini di quella piazzaforte, che il progetto per la Confederazione italiana, di cui lui era considerato universalmente l’autore, non era stato avanzato in funzione anti-austriaca18. Il generoso filosofo-patriota addirittura aveva scritto in questo senso al Vescovo di Vicenza mons. Cappellari, suo antico professore di Teologia nell’Ateneo patavino19. La cauta “ritrattazione” di Rosmini, che avrebbe dovuto essere avanzata attraverso una lettera al generale austriaco, al fine di evitare le sanzioni sull’Istituto della Carità, prese per ritorsione di fronte al suo impegno patriottico, non poteva sostenersi. Rosmini aveva compiuto un’azione onesta a favore della Confederazione italiana, al cui progetto aveva sempre sostenuto che potevano aderire altri Stati ed altre comunità. Ma la proposta di comprendere l’Austria nel progetto per l’unificazione italiana non era stata mai contemplata. Se ne era parlato solo nelle trattative di Parigi durante la primavera del 1848, quando Francia ed Inghilterra avevano proposto una mediazione tra il Regno Sardo e l’Impero degli Asburgo. Il senso autentico della proposta della Confederazione era proprio al fine di favorire il passaggio dei domini austriaci in Italia alla nuova realtà politica nazionale.
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Non si verificò quindi una ritrattazione, che non avrebbe convinto nessuno, e che sarebbe stata sfruttata dagli avversari di Rosmini del partito filo-austriaco, mettendo completamente fuori causa le generose rivendicazioni sull’italianità di Triestini, Trentini ed Istriani. Da parecchie parti si capì che le considerazioni sull’Unità d’Italia e la stessa progettualità federale avevano uno spettro piuttosto ampio, e che da esse Rosmini non si poteva distaccare. L’unica reazione del Roveretano alle vessazioni del governo austriaco non poteva essere allora che il silenzio20. Rosmini accettò in spirito di umiltà e sopportazione l’espulsione da Verona dei suoi sacerdoti e l’ostilità del Vescovo di quella città, il benedettino Aurelio Mutti (poi Patriarca di Venezia), austriacante come Bassich, fortemente critico del Rosmini “riformista”21. Per tutti questi motivi ritengo che Rosmini vada considerato come colui che teorizzò la fondatezza delle aspirazioni ad un’unità italiana compiuta, che comprendesse tutti i territori dove vivevano italiani, e dove erano in maggioranza nonostante l’esistenza di un governo che non comprendeva le loro esigenze. Duilio Gasparini intese pienamente questa visione dell’unità nazionale fondata sul personalismo e sulla delega dell’esercizio dei poteri dello Stato. Dobbiamo quindi ricordare con gratitudine un impegno quale quello profuso dal saggio di Rovereto per creare un’atmosfera favorevole al movimento di amore di patria che portò alla fine alla liberazione di Trieste ed al suo congiungimento con la Patria italiana. Presentazione dell’Autore: Luciano Malusa (1942) ha insegnato storia della filosofia, storia del cristianesimo e storia della chiesa negli Atenei di Padova, Verona e Genova. Formatosi alle scuole del tomista Carlo Giacon e dello spiritualista Giovanni Santinello, si è indirizzato a studi di storia della filosofia, di storia della storiografia filosofica e di storia delle idee. Si è poi occupato del pensiero cristiano dell’Ottocento, delineando le vicende del neotomismo intransigente (1986-89), ed i conseguenti conflitti di esso con il rosminianesimo (vari studi tra il 1987 ed i più recenti anni). Si è quindi quasi naturalmente accostato al pensiero di Antonio Rosmini ed ha studiato le polemiche suscitate dalla sua produzione, e la sua fortuna, affrontando lo spinoso problema delle condanne pronunciate contro di lui e degli attacchi portati dalla Chiesa-istituzione in genere contro il pensiero cristiano di matrice spiritualistico-platonica (pubblicazione di molti inediti riguardanti l’intero arco della “questione rosminiana”). Si è ampiamente occupato dell’azione politica svolta da Rosmini nel periodo 1848-49, con un gran numero di pubblicazioni, e con diverse edizioni di testi rosminiani. Al presente si occupa della formazione del pensiero di Rosmini (1813-1824) attraverso la nuova edizione delle sue lettere e della
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storia del cristianesimo in età moderna e contemporanea in relazione alle tematiche del rapporto tra le grandi religioni mondiali. Note 1
Ricordiamo i saggi di Desinan, C. (2011); Crevatin, E. (2011). Tra gli studi in ricordo di Duilio ritengo molto interessante, al fine di una trattazione sulle terre che furono italiane, il contributo di Surdich, F. (2011), 296307. 3 Si indicano i repertori bibliografici per orientarsi nella produzione rosminiana e per ricercare gli studi più rilevanti e adatti dedicati al Beato di Rovereto: Bergamaschi, C. (1970-2011); Bergamaschi, C. (1967-2011). Si ricorda che le opere rosminiane sono pubblicate entro l’iniziativa dell’Edizione Nazionale e Critica, voluta da Michele Federico Sciacca nel 1977, e proseguita per le cure del Centro internazionale di Studi rosminiani (EC). L’Edizione Nazionale era stata iniziata nel 1934 per l’interessamento di Francesco Orestano ed Enrico Castelli (EN). L’insieme delle due edizioni nazionali costituisce l’omaggio della nostra comunità nazionale alla grandezza del pensatore di Rovereto. 4 I cui atti sono stati pubblicati presso Sansoni, Firenze, 1957, per le cure di Michele Federico Sciacca. 5 Cfr. il numero monografico della «Rivista di filosofia neoscolastica» (XLVII, 1955, n. 4-5), con la partecipazione di esponenti della scuola milanese come: Gemelli, Olgiati, Mancini, Severino, Aceti. 6 Cfr. sulla figura di Rossetti, Rossi Cassottana, O. (2011), 101-102; Sattler, G. (2011), 149-153. Debbo ricordare che nel periodo 1880-1914 la rivista di Rossetti fu aperta a diversi contributi di studiosi rosminiani, che ricostruivano diversi episodi della vita e dell’impegno culturale del grande Roveretano, in contesto trentino ed italiano. 7 Cfr. Gasparini, D. (1965a). Duilio dedica questo suo lavoro per i giovani «Alla memoria di mio padre che per la redenzione di queste terre combatté tra gli invitti della III Armata Volontario Giuliano nella guerra 1915-18». Cfr. le recensioni del lavoro da parte di Fragiacomo, A. (1965) (in questo articolo di un quotidiano in lingua italiana di Pola, si sottolinea che sono passati cinquant’anni dall’ingresso in guerra dell’Italia per liberare le regioni orientali italiane); e di Bressan, T. (1965) (la data di questa recensione, 3 novembre 1965, è significativa per i triestini!). La piccola monografia sul Friuli-Venezia Giulia, pubblicazione per la scuola, non è stata annoverata da Duilio tra i suoi scritti “alti”. Invece è un esempio interessante di un impegno accurato per l’educazione ai doveri civici e per dare interesse ai giovani per le proprie radici insieme regionali e nazionali. 8 Rosmini lasciò un’importante testimonianza storica, autobiografica e di dottrina politica nell’opera Della missione a Roma di Antonio Rosmini-Serbati negli anni 1848-49. Commentario, che viene oggi considerata non solo come la testimonianza dell’impegno e dei princìpi che sostennero Rosmini, ma come preziosa fonte documentaria delle vicende italiane del biennio della “rivoluzione italiana”. Dell’opera, lasciata deliberatamente inedita da Rosmini, per la delicatezza dell’argomento, si ebbe un’edizione incompleta nel 1881, UTET, Torino, curata dai padri dell’Istituto della Carità; e si è avuta un’edizione integrale critica, per le mie cure: Rosmini, A. (1998). 2
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Sulla pedagogia rosminiana ricordo il recente profilo: Muratore, U. (2010). Cfr. la lettera riportata integralmente tra i documenti di Rosmini, A. (1998), 240-241. Il curatore dell’edizione incompleta della Missione a Roma, cioè il p. Francesco Paoli, valente biografo di Rosmini, si sentì autorizzato a censurare questa lettera, pure censurata nell’edizione Rosmini, A. (1887-1894), 10. 11 In primo luogo cfr. il saggio Sull’unità d’Italia, pubblicato come appendice nell’opera La costituzione secondo la giustizia sociale, Milano, Pogliani, 1848, ora in Rosmini, A. (2010), Scritti politici, 249-265. 12 Cfr. Rosmini, A. (1998), 19-78. 13 La Filosofia del diritto era stata pubblicata a Milano nel 1841-43. La cito per comodità dalla ristampa napoletana. 14 Gioberti critica gli articoli scritti da Tommaseo per la rivista «La Speranza», del 1847, nei quali aveva auspicato provvedimenti liberali nei confronti dei diversi popoli dell’Impero austriaco. Di fronte al riconoscimento tommaseano della capacità del governo imperiale di mantenere tra di loro coese le diverse nazionalità, con una politica di riforme, Gioberti reagiva accusando Tommaseo di stare dalla parte degli “slavi”, cioè, per la Dalmazia, della popolazione di lingua e cultura croata, da sempre favorevole ad appoggiare la politica imperiale, in cambio di autonomie e concessioni anti-italiane. 15 Tommaseo ammise di avere esagerato nei confronti dell’amico anche nelle questioni politiche. Si veda l’importante testimonianza di uno scritto sul grande Roveretano composto nel 1856, subito dopo la sua morte: Tommaseo, N. (1958). 16 Di fronte all’atteggiamento negativo di Bassich verso il “patriottismo” degli italiani dell’Impero, Rosmini scrisse al suo amico e beneficato una lettera, il 14 novembre 1849. Cfr. Rosmini, A. (1889-1894), 10, 638-639. 17 Cfr. sui rapporti tra Rosmini e Bassich: Pagani, G.B. (1919), 42-45. 18 Sul progetto di una ritrattazione delle aspirazioni patriottiche, al fine di giovare alle sorti dell’Istituto della Carità cfr. alcune lettere tra Rosmini e Molinari, rettore della chiesa abbaziale di San Zeno in Verona, riportate in Malusa, L. (ed.) (1999), 94-98. 19 Lettera di Rosmini del 7 febbraio 1850, a mons. Giuseppe Cappellari, in Rosmini, A. (1887-1894), 13, 494. 20 Cfr. sulla vicenda della estromissione dei padri dell’Istituto della Carità da Verona: S. Langella, Le conseguenze della condanna del 1849 sull’Istituto della Carità: il “caso Verona”, in Malusa, L. (ed.) (1999), CLXXXVII-CCXII. 21 Aurelio Mutti inviò al clero della sua Diocesi un documento nel quale stigmatizzava la presa di posizione di alcuni sacerdoti i quali consideravano la condanna all’Indice delle Cinque piaghe della Santa Chiesa un episodio puramente politico e scagionavano Rosmini da accuse di eterodossia. Cfr. Rosmini, A. (1998), 178-179, e 457-458 (documento riportato da Rosmini in quanto fornitogli dal sacerdote veronese Carlo Ferrari). Cfr. anche Malusa, L. (ed.) (1999), 92-94. 10
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LA FIGURA DI DUILIO GASPARINI Olga Rossi Cassottana Abstract: This paper examines the role of Duilio Gasparini and the orginality of his research. Throughout his experiences in the school environment and a long, acclaimed academic life of endeavours in his native Trieste to be followed by the University of Genova, Gasparini embodied the ideal of a life lived for education. The issues dealt with in Le dimensioni dell’educare e il gusto della scoperta nella ricerca/The dimensions of educating and the taste of discovery in research, edited by L. Malusa, O. Rossi Cassottana (Armando, 2011), bear witness to the extent of the great educationalist’s studies. O. Rossi Cassottana identifies amongst Gasparini’s characteristics the study of “taste of discovery”, research as true adventure so as to bring to light even minor characters and to restore the heterogeneous, historicaleducational didactic mosaic with missing or misplaced tesseras. Riassunto: Il contributo investiga la figura e l’originalità della ricerca di Duilio Gasparini. Dal mondo della scuola alla lunga e prestigiosa vita accademica, Gasparini, con l’impegno profuso nella nativa Trieste e successivamente all’Università di Genova, incarna l’ideale di una vita spesa per l’educazione. I temi del volume Le dimensioni dell’educare e il gusto della scoperta nella ricerca, curato da L. Malusa, O. Rossi Cassottana (Armando, 2011), testimoniano l’ampiezza degli studi del grande educatore. O. Rossi Cassottana individua tra le peculiarità di Gasparini lo studio come “gusto della scoperta”, la ricerca come vera e propria avventura per riportare alla luce anche i personaggi minori e per restituire all’eterogeneo mosaico storico-educativo e didattico le tessere mancanti o fuori posto. Parole chiave: Duilio Gasparini, didattica tra teoria e pratica, storia della pedagogia e dell’educazione, pedagogia della persona, psicopedagogia dell’infanzia e della fanciullezza.
1. Dai Convegni di Genova al Convegno di Trieste: una prima delineazione dei significati della figura e dell’opera di Duilio Gasparini Porgo innanzitutto un ringraziamento vivissimo all’Università di Trieste e agli organizzatori del Convegno Scuola, ricerca, educazione ieri ed oggi. La figura e l’opera di Duilio Gasparini che, nel solco del Convegno di Genova del 2 dicembre 2011 Dalla ricerca alla scoperta: l’educazione sotto la lente. Il pensiero di Duilio Gasparini, vuole mettere a fuoco la figura del
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docente universitario, studioso approfondito e pedagogista, per un lungo arco temporale impegnato anche nella formazione scolastica primaria e nel più complessivo ambito educativo. Un ringraziamento speciale va al Preside della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Trieste, Giuseppe Battelli, alle Autorità e ai Colleghi, in particolare a Claudio Desinan che ha seguito con tanta intelligente solerzia questa giornata di studi e a Bianca Grassilli che ci ha introdotti all’incontro che vuole essere pure occasione di presentazione del volume che ho curato con Luciano Malusa, con il raccordo amichevole, continuo e solerte dei Colleghi triestini. La figura di Gasparini meritava certamente un convegno nella città natale, alla quale tanto egli aveva dedicato sia come maestro sia come dirigente scolastico, come docente universitario incaricato di Didattica, sia, negli ultimi tredici anni del percorso esistenziale, quale studioso che, ancora una volta, mise a disposizione della città il proprio sapere. Sino all’ultimo Duilio Gasparini, infatti, proseguì il “mandato” di offrire risposte alle questioni e alle richieste pedagogiche di qualsivoglia situazione e anche di quelle della sua Trieste. A tal riguardo scandagliò e rivalutò l’apporto educativo di personaggi che avevano illuminato con le proprie opere la vita culturale della città. Gli aspetti educativi, tuttavia, in alcuni casi, erano stati trascurati ed egli continuò a ricercare le peculiarità e l’incidenza pedagogica di varie personalità quali la grande figura di Domenico Rossetti (Gasparini, 2000, 2001), di Eleonora Torossi Sinigo (Idem, 2008), recentemente scomparsa centenaria, insignita di numerosi premi per l’impegno svolto per l’Anfass che trovò in Gasparini la spinta a pubblicare le proprie opere poetiche. Nell’ultimo decennio della sua esistenza Gasparini si pose in una prospettiva più ampiamente antropologica e scandagliò le condizioni di aspetti esistenziali legati alla malattia e quindi alla comunicazione medico-paziente, in ciò anticipando uno degli argomenti attualmente più sentiti e studiati in ambito pedagogico: il tema della cura. Tanto che lo stesso Dipartimento Cardiovascolare, diretto dal professor Gianfranco Sinagra, gli ha dedicato, come è noto, due aule attrezzate dell’“Area Didattica”, destinate alla formazione dei giovani ricercatori e degli specializzandi in Malattie dell’Apparato Cardiovascolare. La rivisitazione affettuosa con i primi illuminanti approfondimenti sulla figura di Gasparini nel panorama della pedagogia italiana era iniziata immediatamente quando egli aveva lasciato la vita accademica, in seguito al pensionamento a fine ottobre 1995. A distanza di un mese dalla messa a riposo, il 7 dicembre 1995, il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Genova nell’Aula della Meridiana di Palazzo Balbi, alla presenza del Magnifico Rettore Sandro Pontremoli, promosse con la nostra organizzazione un incontro di studio che ci vide riuniti: Claudio Desinan, Sira Serenella Macchietti, Luciano Malusa e la sottoscritta per cogliere i frutti e gli
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stimoli della ricerca pedagogica gaspariniana (Rossi Cassottana, 1997). Fu una prima carrellata di approfondimenti che tuttavia impresse un focus incisivo sulla valutazione dell’opera dello studioso. Serenella Macchietti mise in luce nello scandagliare il volume Le istituzioni scolastiche nel Settecento a Genova, fresco di stampa, la rivalutazione delle figure minori della storia della pedagogia, l’aver dato voce a chi sino ad allora non ne aveva avuto (Macchietti, 1997); Claudio Desinan ripercorse l’itinerario formativo gaspariniano, perlustrando gli aspetti salienti delle opere più significative, cogliendo la continuità e i collegamenti tra i diversi studi e soffermandosi, infine, sui tre volumi dedicati ad Adolfo Pick (Desinan, Ibidem). Luciano Malusa tratteggiò le caratteristiche della personalità di Gasparini, un collega leale e sincero che anche nella ricerca mostrava le caratteristiche di un’onestà intellettuale profonda (Malusa, Ibidem). Nel voler rintracciare lo stile della ricerca storico-educativa di Gasparini alla luce delle evoluzioni della ricerca storica in pedagogia, a mia volta, scandagliai le peculiarità di un ricercare come sotto microscopio, l’incessante approfondimento che egli svolse per cogliere i tasselli mancanti del mosaico delle conoscenze intorno a un autore, o il vero e proprio “riposizionare” le tessere di questioni pedagogiche che attendevano una risposta dirimente con quella che definii insieme a Serenella Macchietti una vera “passione educativa”. Giovanna Imperatori nel volume Le dimensioni dell’educare e il gusto della scoperta nella ricerca. Studi in memoria di Duilio Gasparini ha confermato con la propria diretta testimonianza di pedagogista e moglie di Gasparini lo stile di quello studio senza sosta, mai pago (Imperatori Gasparini, 2011). Emersero elementi di un’attività che sarebbe proseguita con intensità e impegno assoluto, superando con grande coraggio e serenità anche le difficoltà derivanti dalle condizioni di salute, a volte, problematiche. Nel realizzare con Luciano Malusa il II Convegno di Genova Dalla ricerca alla scoperta: l’educazione sotto la lente. Il pensiero di Duilio Gasparini (Genova, 2 dicembre 2011, Aula Magna, Palazzo Balbi) ho scelto questo titolo perché richiama il modo specifico di ricercare di Gasparini attento, minuzioso, pronto a smantellare conoscenze pregresse per ristabilire la verità o le verità e andare oltre, sempre spinto da un forte ideale. L’incontro scientifico ha avuto come fulcro cinque relazioni fondamentali incentrate su Duilio Gasparini secondo i diversi punti di vista: “Gasparini: gli esordi come maestro e come studioso nella realtà triestina” (Claudio Desinan), “La docenza e l’attività di ricerca nell’ambito genovese” (Olga Rossi Cassottana), “Ricerca pedagogia e vocazione educativa” (Sira Serenella Macchietti) che ha centralizzato il concetto di persona, Luciano Malusa con la rivisitazione dei collegamenti filosofia-pedagogia, la relazione di Mario Gennari a chiusura della prima parte. La seconda parte ha portato in scena l’autorevole apporto di Renza Cerri, ordinario
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di Didattica e Vice Preside della Facoltà di Scienze della Formazione, il significativo ricordo di Ferruccio Bertini, Preside negli anni della piena attività accademica di Gasparini, il contributo di Bianca Spadolini sia nella veste di professore ordinario di Pedagogia generale, sia di editore e, quale conclusione, le parole di ringraziamento e anche di investigazione pedagogica ulteriore di Giovanna Imperatori Gasparini, la quale ha offerto, sempre, una spinta propulsiva di grande energia e di ampio respiro per il prosieguo della ricerca sui lavori del pedagogista triestino. Gli indirizzi di saluto del Preside Surdich e del Prorettore Michele Marsonet, oggi Preside della “Scuola di scienze umanistiche”, sono andati oltre le presentazioni commemorative per sottolineare aspetti profondi della personalità di Gasparini. A premessa dell’incontro scientifico, attualmente in fase di elaborazione, ho portato l’attenzione sugli esponenti della cultura pedagogica che più recentemente hanno operato nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università genovese, di cui avevo scandagliato le origini nella Storia della Facoltà, tuttavia senza potermi soffermare se non per pochi cenni, secondo le direttive del curatore Giovanni Assereto, condivise da tutto il gruppo di lavoro, sugli autori più recenti (Assereto, 2003; Rossi Cassottana, Ibidem); avvertivo quindi forte l’esigenza di inquadrare e valorizzare un autore, quale era stato Gasparini, attivo nelle due realtà diverse, Genova e Trieste, comunità scientifiche che hanno trovato modo di collaborare armoniosamente e fattivamente portando sempre alla luce la serietà e la diligenza, accompagnate dal sereno rigore della persona e dello studioso. La mia relazione intende dunque premettere che nell’approdo genovese vi fu una svolta ulteriore nel modo di fare ricerca da parte di Gasparini. Dapprima egli instaurò un contatto con l’ambiente ligure fatto di incontri, conferenze, corsi di aggiornamento per poi incentrare il proprio impegno verso l’indagine, per lui allora preminente, sui fondamenti della didattica, sulla storia della didattica e sulla “costruzione” della personalità infantile nell’ottica di voler realizzare una vera e propria psicopedagogia. Questo è un aspetto che raramente viene ricordato, ma va posto in primo piano. Egli stesso lo riaffermò. Anche in riferimento alla storia dell’educazione approfondì i nessi con le scienze umane: «La storia della pedagogia, legata alla filosofia e alla filosofia morale sino al XIX secolo, se ne è poi gradualmente liberata, acquisendo una propria autonomia e divenendo una disciplina più aperta alle scienze psicologiche e sociali, rinnovando così totalmente la visione del suo oggetto di studio» (Gasparini, 1992, 48). Successivamente la storia della pedagogia e dell’educazione e delle istituzioni educative in specifiche, peculiari realtà divenne l’ambito privilegiato dei suoi studi. La storia della pedagogia e dell’educazione, pur nella problematicità (Gasparini, 1990, 1997a), offriva più certezze nelle
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fonti - poliedriche e molteplici - al ricercatore e consentiva di raggiungere dei risultati, capaci di far vincere vere e proprie battaglie tanto da “fare giustizia” nella ricerca, scalzando false credenze o errori tramandati e consolidatisi nel tempo (Rossi Cassottana, 2011). È da sottolineare come egli cercasse sempre, in ogni occasione, di offrire stimoli a noi giovani ricercatori di allora, assegnisti e contrattisti, in una realtà, quella genovese, che privilegiava il lavoro individuale. Egli aspirava a superare la solitudine della ricerca e del lavoro personale. In certo qual modo in lui conviveva il desiderio dello studio “a tavolino” nelle biblioteche (ne ha frequentate numerosissime e si è sempre fatto giungere libri da territori lontani) ovvero la ricerca personale, con la socializzazione della ricerca, “le gioie e i dolori” di un lavoro, costante e continuo che esigeva un raffronto e la condivisione di studi e progetti. In quei primi anni genovesi, Gasparini ci sollecitava e stimolava su ogni fronte per valorizzare i nostri studi e le nostre esperienze “sul campo”. Proprio la ricerca sul campo, oggi diremmo, ricerca-azione lo interessava vivamente e ci sollecitava a darne relazione collegiale. È stato fondamentale ritrovare l’apporto dei Colleghi triestini con i quali aveva percorso un lungo e fruttuoso percorso (sempre menzionava i Colleghi e i Collaboratori triestini), tanto che mi sono sempre chiesta e lo richiedo oggi perché non sia rimasto a Trieste. Certo, nell’incontro Genova-Trieste egli ha arricchito la propria visione, ha potuto spaziare in territori diversi, con somiglianze e profonde differenze. In questo modo Duilio Gasparini con la serietà, curiosità e onestà intellettuale e una forte componente progettuale, accompagnate dalla fondamentale bontà dell’animo, ha cercato di unire i percorsi di ricerca genovesi e triestini. Siamo, dunque qui uniti per onorarlo, ricordarlo e penetrare le sue linee di ricerca. Come ho sottolineato nell’Introduzione al volume Le dimensioni dell’educare e il gusto della scoperta nella ricerca mi pare opportuno mettere in evidenza questi aspetti della figura di Duilio Gasparini: «Dal mondo della scuola, alla dirigenza scolastica alla lunga e prestigiosa vita accademica, l’impegno profuso dal pedagogista triestino approdato a Genova nel 1973, segnalano una vita spesa per l’educazione, a tutti i livelli e nei diversi ambiti. Basta seguire il tracciato delle aree tematiche, da noi prescelte nel volume, per cogliere quanto ampio sia stato il ventaglio degli studi e delle ricerche in campo educativo. I molteplici contributi raccolti, tra loro eterogenei, stanno ad indicare gli interessi variegati dello studioso che commemoriamo, lo studio come “gusto della scoperta”, la ricerca come vera e propria avventura per riportare alla luce anche i personaggi “minori” e per risistemare i tasselli e le tessere di un mosaico molteplice e articolato, quale quello educativo, fatto di storia, di esperienze didattiche rivisitate, di riflessioni-interpretazioni e di perlustrazioni anche, oltre che
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nell’area mitteleuropea, nella pedagogia americana e nella letteratura per l’infanzia» (Ibidem, 17).
2. Le cifre di originalità del suo pensiero tra ricerca storica e ricerca didattica Preminenti risultano dunque nell’opera gaspariniana gli studi in ambito didattico-apprenditivo e le ricerche, sempre ponderose, nel settore della storiografia pedagogica. Gli interessi filosofici costituirono un richiamo che fa da sfondo con l’istanza di voler cogliere in questo o quel filosofo aspetti della personalità o dimensioni di operatività pedagogica. Egli stesso ritornò sugli apporti della filosofia al pensiero pedagogico e nel ruolo che essa può svolgere a livello fondativo (Gasparini, 1998a, 1998b). Certo, come ha sottolineato Sira Serenella Macchietti, già la tesi di laurea di Gasparini su Il concetto di persona come presupposto essenziale della pedagogia è espressione di un personalismo valoriale profondo che effettivamente fonda ogni momento della ricerca e dell’agire educativo. Egli scandaglia nei filosofi e in altre figure di studiosi e professionisti le matrici e i risvolti educativi delle loro riflessioni e le potenziali applicazioni. L’educazione e più complessivamente la formazione rappresentano per Gasparini un momento di riscatto profondo da sofferenze, soprusi, condizioni di minorità che segnano il percorso del vivere. Un elemento di originalità del suo modo di fare ricerca è certamente l’aderenza intima e profonda tra l’essere sempre rispettoso dell’altro e le proprie illuminazioni e argomentazioni: dimensione temperamentale-personologica e ricerca risultano strettamente interconnesse. La teoria della didattica (Gasparini, 1968) rappresenta la tensione verso la riflessione circa un percorso vissuto direttamente nella scuola per diciotto anni. Le esperienze scolastiche come maestro, direttore, animatore-educatore di centri educativi per bambini con particolari problemi e quale fondatore della stessa prima biblioteca scolastica a Trieste, accompagnate da una spinta motivazionale profonda a studiare ogni nuova problematica con scientificità – così da offrire risposte operative sempre consapevoli ed efficaci – lo seguirono per tutta la vita. Seppe sempre offrire una risposta teorica e prospettica, espressione di un’autentica teoria della didattica. La storia della pedagogia e/o dell’educazione diverrà poi una chiave di volta del proprio percorso culturale per penetrare il problema educativo e per offrire risposte seppur problematiche (Gasparini, 1990, Idem, 1997) a quesiti rimasti irrisolti nella didassi. Vi è un periodo in cui l’opera di Gasparini si concentra sulla ricerca pedagogica della prima e seconda infanzia. Ne è testimonianza il ripercorrere la storia dell’educazione attraverso le teorie-pratiche sull’educa-
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zione infantile (Gasparini, 1979). É una prospettiva originale che rivela anche la profondità di un desiderio di paternità sentito e certamente rivelato nei molti anni d’insegnamento. Gasparini andò al cuore della problematica formativa nella primissima infanzia con l’opera Il Filo di Ariella. Osservazioni pedagogiche sull’apprendimento linguistico: l’apprendimento del linguaggio, attraverso il diario quotidiano del rapporto dei genitori con la loro bambina (Gasparini, 1980). Come sottolineò Claudio Desinan nel I° Convegno di Genova (Desinan, 1997): un’opera unica e certamente originale nel proprio impianto. La definirei una sorta di situazione esperienziale, “monitorata” passo-passo secondo un metodo clinico e osservativo perfettamente realizzato e arricchito, come sempre nel caso di Gasparini, da una considerevole documentazione. Penetrare più generalmente nei temi della didattica, negli anni del II dopoguerra (Desinan, 2011) aveva significato vivere una stagione di grande innovazione. La fine del conflitto mondiale, la riannessione di Trieste all’Italia, i portati del grande Congresso Washburne (Convegno degli insegnanti della Venezia Giulia del 19-20 febbraio 1946) trovarono in Trieste una città sensibile e pronta a entrare in più stretto contatto con la pedagogia americana. Gasparini penetrò nel vivo di quello scandaglio e venne, poi, incontrando gli esponenti della pedagogia post-deweyana lungo tutto l’arco di vita. Tornò sempre su quei temi per riaffuocare autori e tematiche e per riposizionare i tasselli di conoscenza sulle questioni pedagogiche anche di una realtà, tanto lontana, quale quella statunitense e anglosassone, eppure così incidente sul Novecento pedagogico. Lo testimoniano le numerose voci enciclopediche (in tutto, tra le varie enciclopedie, ottanta voci) e ultimamente, per iniziativa culturale promossa dal “Corriere della sera” cui collaborò con grande entusiasmo, trovò modo di ridefinire il portato di quegli autori, esponenti del I e II attivismo che avevano fatto fare un salto di qualità alla scuola italiana, valorizzando le esperienze incentrate sull’apprendimento dell’alunno, così da realizzare il passaggio da una pedagogia dell’insegnamento a una pedagogia dell’apprendimento che, in tal modo, non sarebbe più stata peculiarità esclusiva delle scuole “sperimentali” (Gasparini, 2010a, 2010b, 2010c). A questo riguardo circa i rapporti di Gasparini con l’attivismo va aperta una parentesi significativa che mi pare possa far comprendere come nell’ambito della didattica egli abbia sempre aspirato e perseguito un processo di “decantazione” della didassi, per raggiungere una teoria della didattica e quindi un’epistemologia della didattica. In ciò si può rimarcare l’influsso diretto di Aldo Agazzi (Agazzi, 1985). Si aprì una stagione che resta siglata dalle opere di Gasparini: Struttura e organizzazione del sistema educativo complesso, lavoro di spessore anche socio-organizzativo che in termini pedagogici veniva definita scuola integrata. Anche in questo volume Gasparini coniugò elementi del passato attivistico con le prospettive più innovative degli
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studi sulla scuola come sistema complesso (Gasparini, 1977). Maestri Domani siglò, poco prima, la metà degli anni ’70 (Gasparini, Petracchi, Petrini et alii, 1976) e raccolse nelle varie edizioni le innovazioni a sfondo socio-didattico con una psicopedagogia che in quel periodo sembrò davvero realizzarsi, tanto che definirei quella stagione fortunata per la scuola: la II fase del “movimento psicopedagogico” vero e proprio. Il volume aveva colto nel segno di un sentire didattico e psicopedagogico condiviso dai docenti e da tutte le componenti della scuola: il testo voleva aiutare a realizzare quella democrazia in educazione che i Decreti Delegati intendevano conseguire. La collaborazione con l’IRRSAE Friuli-Venezia Giulia divenne, poi, per Gasparini, anche tramite la rivista “Bollettino dell’IRRSAE del Friuli Venezia Giulia”, il trait-d’union con il proprio territorio (dal 1973 era infatti giunto a Genova come incaricato e poi come titolare della Cattedra di Pedagogia B alla nostra Facoltà di Lettere e Filosofia, mantenendo per alcuni anni anche l’insegnamento presso la Facoltà di Magistero) e lo spazio culturale-operativo dove cimentarsi con le questioni didattiche, anche quelle più particolari. Furono quelli gli anni in cui Gasparini svolse con gli psicologi dell’età evolutiva della Facoltà di Lettere e Filosofia una ricerca sperimentale innovativa sull’inserimento dei soggetti portatori di handicap che permise, poi, a Genova di divenire una delle città-laboratorio per l’inserimento dei soggetti svantaggiati. Tutte le realtà dello svantaggio socio-culturale furono di grande interesse per Gasparini che ne studiò le caratteristiche, ponendo sempre al centro il linguaggio che diventa tramite di relazione e di apprendimento. I temi privilegiati sono certamente quelli dell’organizzazione didattica, della valutazione nei diversi risvolti, dell’educazione civica, della didattica della storia e dell’apprendimento di lettura e scrittura (Gasparini, 1975, 1985, 1990) con un approfondimento anche nella scuola dell’infanzia, ripreso secondo diverse angolazioni. La scuola è da rifondare e diviene davvero luogo di riscatto per Duilio Gasparini e per tutta la Nazione italiana. L’intreccio tra ricerca storico-educativa e ricerca didattica portò poi Gasparini al settore privilegiato dei suoi studi: gli studi storico-educativi. Il suo fare ricerca presenta sempre la modalità specifica di procedere dal generale al particolare per inoltrarsi progressivamente nelle questioni in gioco. Egli avvertì in ogni opera o contributo anche minore, si fosse trattato dello studio di una tematica o di autore o di istituzioni educative, l’esigenza d’inquadrare le situazioni oggetto di studio, a qualsiasi epoca fossero appartenuti, in una cornice generale, chiara e particolarmente efficace per poi procedere a sviscerare le singole problematiche. Mentre per la didattica il problema epistemologico era stato scandagliato in maniera esplicita da Gasparini, specialmente in Prospettive teoretiche della didattica (Gasparini, 1967) nell’ambito storico, come lucidamente sottolineò Serenella Macchietti «pur dimostrandosi attentissimo al dibattito episte-
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mologico che si è sviluppato in Italia dagli anni ’60 in poi che è ancora vivo e inquieto […] Duilio Gasparini ha risposto facendo storia» (Macchietti, 1977, 36). Se dunque non si inserì esplicitamente in quel filone di dibattito epistemico che percorse gli anni ’70-’90 tuttavia una delle mie prospettive di studio – nel mettere a fuoco particolarmente le opere minori della ricerca storica gaspariniana – è stata proprio quella di andare a scovare nelle diverse opere, saggi ed articoli, considerazioni, brevi frasi, riflessioni argomentate e prese di posizione che rivelano la sua visione epistemologica della storia della pedagogia e/o dell’educazione, come l’ha definita Franco Cambi (Cambi, 1990). Egli volle superare un’epistemologia formale perché interessarsi dell’educazione dell’uomo significava avere a che fare con problemi reali. Dunque la visione epistemica è presente come substrato, fonda i suoi studi, ma egli vi si sofferma solo in punta di penna per avanzare nelle ricerche. Ho trovato nei suoi lavori l’assunzione del senso di problematicità, la messa in guardia circa la soggettività delle valutazioni, la variegatezza delle possibili fonti letterarie, artistiche, materiali, oltre a quelle, certo privilegiate reperibili nei libri, negli scritti, con una vera “passione” per gli inediti e per gli scambi epistolari rivelatori (Rossi Cassottana, 2011). La scelta di Mario Gennari di un’ermeneutica delle opere d’arte del pittore Albert Anker sullo sfondo del “mondo elvetico dell’Ottocento pestalozziano”, quale ci è offerto nel bel saggio nel volume dedicato al pedagogista triestino-genovese, avrebbe certamente trovato profonda consonanza in Duilio Gasparini (Gennari, 2011). La mia ricerca ha colto in molte opere precisi riferimenti alla sua visione della storia della pedagogia da alcune preliminari considerazioni nello studio della didattica della storia (Gasparini, 1966) alle osservazioni, molto circostanziate, sulla soggettività dell’interpretazione che influenzerebbe sia la personalità dello storico sia l’ambiente socio-culturale di appartenenza: «Lo storico non può non operare una scelta personale e soggettiva, anche quando questa tende ad essere la più obiettiva possibile […]» (Gasparini, 1990). Egli contemplò l’utilizzo delle più svariate testimonianze da quelle artistiche a quelle letterarie (Gasparini, 1990, Idem, 1997a). Egli stesso portò alla luce la propria parzialità nel valorizzare certe figure e nelle scelte di campo nella storia dell’educazione infantile (Gasparini, 1979). Anche le considerazioni sulla didattica della storia presentano considerazioni pregnanti sul “nozionismo mnemonico che non può che dare sterili risultati” e sollecitano ad evitare “astrazioni universalizzanti” (Gasparini, 1968). Gli stessi grandi temi dell’utopia divennero occasione per riaffermare alcuni aspetti centrali e taluni condizionamenti della ricerca storica, influenzata dalla “contestualizzazione” (Gasparini, 1992a, 1992b). In ultima analisi, come riaffermò Desinan, quella di Gasparini è una “storiografia moderna” (Desinan, 1997). Egli era sempre alla “caccia” di scritti inediti, anche di una sempli-
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ce lettera che aiutasse a fare chiarezza e si rallegrava con me che approfondivo gli ambiti di ricerca con rigore. I portati dei suoi studi storici, come ho rimarcato nei precedenti saggi, dedicati in larga misura all’indagine delle modalità peculiari di fare storia da parte di Gasparini e al suo essere pedagogista che fonda la teoresi pedagogico-didattica nella ricerca storica, segnano delle pietre miliari in un arco di studi temporalmente molto vasto; gli esiti delle sue ricerche, anche sul piano antropologicoculturale-geografico rivelano un’ampia e sedimentata cultura, mai affidata alle proprie reminiscenze ma ad acquisizioni, continuamente rifondate. Ci sono due protagonisti sempre presenti negli studi gaspariniani il bambino e l’educatore, sia esso insegnante o genitore o animatore culturale che si prodiga per realizzare quella pedagogia dell’apprendimento di cui era acceso sostenitore. L’educatore è infatti presente, non è la figura “evanescente” di certo attivismo. Le pietre miliari della sua ricerca storica rivelano dunque anche la sua epistemologia. Il mio scandaglio, a tal riguardo, ha dato risultati tangibili, riconfermati nei diversi scritti: lo storico della pedagogia per Gasparini deve possedere la consapevolezza della fondamentale problematicità dei suoi studi, deve cogliere la soggettività ricorrente delle proprie valutazioni, ma dovrebbe tendere, sempre e comunque, verso le verità. Un afflato davvero liberale percorre le sue opere che rivelano sempre il gusto della ricerca e la passione educativa (Imperatori Gasparini, 2011; Macchietti, 1997; Rossi Cassottana, Ibidem). Le diverse latitudini – geografiche-storico-culturali – entro cui spaziano i suoi studi dall’antichità agli anni Duemila, gli interessi per le realtà educative del centro-Europa e per quelle anglosassoni-statunitensi ed infine per le due regioni italiane a cui ha appartenuto – a Genova e alla Liguria ha dato davvero molto con le ricerche sulle Istituzioni scolastiche a Genova e sull’educazione femminile – (Gasparini, 1995, Idem, 1996) ci conducono in anteprima verso una globalizzazione, per così dire del sapere di stampo educativo, convergono, in ultima analisi, verso un unico baricentro che trova sempre nuovi ambiti per riprogettarsi. Egli risalì alle costellazioni della storia della pedagogia e dell’educazione, ai nuclei che hanno dato origine alla pedagogia moderna, lasciando una grande eredità che potrà essere ulteriormente approfondita, cogliendo nuove “gemmazioni” e bracci dell’albero genealogico dei suoi studi, sia attraverso i portati delle grandi opere – gli studi sul Pick (Gasparini, 1968-1970), i monumentali volumi su Froebel con Grazzini – (Grazzini, Gasparini, 1999) sia sul fronte degli autori minori, o di aspetti minori di grandi autori che, con Duilio Gasparini, hanno rivissuto su un palcoscenico “vivacissimo” che ha avuto la “cabina di regia” nell’educazione autentica.
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Presentazione dell’Autore: Olga Rossi Cassottana è professore associato di Pedagogia generale all’Università di Genova ed è docente di Pedagogia generale e Psicopedagogia. I suoi studi spaziano dall’orientamento all’investigazione teorica sui concetti di identità e progettualità, dai temi scolastici attuali a quelli storici inerenti a realtà educative “sperimentali”, con particolare attenzione alle relazioni scuola e famiglia e ai rapporti genitori figli, anche in riferimento a figure storiche. È autrice di numerosi saggi e volumi e collabora con quotidiani e riviste scientifiche. Ha ricoperto ruoli istituzionali in Commissioni di Facoltà e di Ateneo dove è stata promotrice di Progetti innovativi sulla Qualità Didattica. Svolge un consolidato impegno culturale, collaborando con numerose Istituzioni e ha rapporti di ricerca internazionali.
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SU UNA “TRIESTINITÀ” DELLA PEDAGOGIA TRIESTINA Claudio Desinan Abstract: The essay presents the pedagogical paradigm, research activities, and intense teacher training activities of the “core group” of pedagogy docents from the former Institute of Pedagogy of the Faculty of Education in Trieste between 1961 and 1976. The group’s characteristics included its attention towards teacher training and the practical side of education, as well as its conviction that pedagogy should be understood as the “conceptuality of concreteness”, because an approach to pedagogy limited to the mere enunciation of principles is implicitly incomplete. Riassunto: Il saggio presenta il paradigma pedagogico, le attività di ricerca e l’opera intensa di formazione insegnante svolte dal “gruppo storico” dei docenti di pedagogia dell’ex Istituto di Pedagogia della Facoltà di Magistero di Trieste, nel periodo 1961-1976. Erano caratteristiche del gruppo: l’attenzione verso la formazione degli insegnanti e la dimensione pratica dell’educazione, nonché la convinzione che la pedagogia deve svilupparsi come una “concettualità della concretezza”, perché una pedagogia che ritiene che il proprio compito debba consistere nella sola enunciazione dei principi è implicitamente incompleta. Parole chiave: pedagogia triestina, sperimentazione didattica, formazione docente, rapporto teoria-pratica.
Il “gruppo storico” dell’ex Istituto di Pedagogia Nel volume a più mani Le dimensioni dell’educare e il gusto della scoperta nella ricerca, scritto dai colleghi di Genova, Trieste ed altri Atenei in onore di Duilio Gasparini ed uscito, nel 2011, per i tipi dell’Editrice Armando, a cura di Luciano Malusa ed Olga Rossi Cassottana, io avevo tentato di presentare il periodo della formazione giovanile di Gasparini nella fase del Territorio Libero di Trieste, tra il 1945 ed il 1954. In questa mia relazione mi propongo di continuare la stagione triestina di Duilio Gasparini, quella che va dal 1954 al 1976, anno del suo definitivo trasferimento a Genova. In particolare cercherò di presentare l’orientamento di pensiero e l’attività formativa del “gruppo storico” di pedagogisti che facevano capo all’ex Istituto di Pedagogia del Magistero di Trieste e di cui Gasparini fu uno dei membri più rappresentativi. La Facoltà di Magistero era nata a Trieste nel 1956, subito dopo
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il ritorno dell’Italia. L’insegnamento della Pedagogia era stato affidato, agli inizi, al fiumano Giorgio Radetti, professore di Filosofia morale e di Storia della Filosofia nella Facoltà triestina di Lettere e Filosofia, una delle personalità più insigni della cultura fiumana, e poi ad Antonio Santoni Rugiu. In quegli anni Gasparini aveva dato inizio alla sua carriera universitaria come assistente volontario alla cattedra di Storia della Filosofia (1957) per assumere, nel 1965, l’incarico di docente di Didattica. Nel 1961, su suggerimento di Duilio Gasparini, per l’insegnamento della Pedagogia era stato chiamato Enzo Petrini (1916-2008), che sarebbe rimasto a Trieste per trent’anni, fino al pensionamento nel 1991. Ex professore di Liceo, affascinante conferenziere, scrittore per l’infanzia, studioso attento di storia delle letteratura infantile, allievo e collaboratore di Giovanni Calò, oltre che docente a Trieste di Pedagogia Petrini era Direttore del Centro Didattico Nazionale di Studi e Documentazione di Firenze ed in questo suo ruolo aveva portato a Trieste tutte le conoscenze e le attività del Centro fiorentino. A questi due docenti, Petrini e Gasparini, nell’ex Istituto di Pedagogia erano di corona Silvano Pezzetta, insegnante elementare comandato per le esercitazioni, uomo di una intelligenza rara e penetrante (Desinan, 2011), e tre giovani e disorientati assistenti, Bianca Grassilli, Claudio Desinan ed Annamaria Griselli, esperta di didattica della lingua straniera, ai quali si sarebbero aggiunti poco più tardi, Elena Valenti, che si era costruita una solida competenza nella didattica della matematica, e Gianfranco Spiazzi, direttore didattico a Trieste, nonché valoroso studioso di Storia medioevale. Si sarebbe costituito così un gruppo compatto di lavoratori dell’educazione e della scuola, che non esito a definire “gruppo storico” dell’ex Istituto di Pedagogia. L’ossatura psicologica del gruppo era poi rappresentata da Giorgio Tampieri e Loredana Czerwinsky Domenis, studiosi ineguagliabili di Psicologia dell’età evolutiva.
Il “Programma AZ” Nella sua storia e nella concezione delle funzioni e dei compiti della pedagogia che il gruppo aveva via via elaborato, compaiono, a mio avviso, elementi di ordine e di concettualità che fanno di questo gruppo un tutto unitario ed un’esperienza unica. La vicenda del gruppo triestino si è concordemente svolta su quattro settori di ricerca e di azione. Il primo è costituito dal “Programma AZ”, che dopo un iniziale abbozzo nella Marca Trevigiana, con la collaborazione dell’Ispettore scolastico Ermanno Crevatin, era approdato a Trieste nel 1965. Si trattava di un piano di ricerca sull’insegnamento-apprendimento della lettura e della scrittura, che coinvolse l’intero gruppo triestino, con
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puntate diverse sulla storia dei metodi di insegnamento – dal metodo alfabetico di Dionigi da Alicarnasso alle esperienze più recenti di adattamento del metodo global – e poi sulla conversazione in classe, la raccolta di un vocabolario infantile di base, le procedure effettive di insegnamento della lettura e della scrittura colte nei loro passaggi e confrontate tra di loro, con lo scopo di coglierne gli elementi qualificanti e ineliminabili, la preparazione di prove oggettive di lettura di vario livello, dalla decodificazione della parola alla comprensione del testo scritto, ed altri filoni ancora. Il “Programma AZ” richiamò varie collaborazioni esterne e coinvolse un folto numero di insegnanti sperimentatori triestini e regionali, i quali si incontravano regolarmente con i docenti triestini in appositi corsi di formazione in servizio, organizzati dal Centro fiorentino, per discutere i risultati della loro attività, incontri che cominciavano come una narrazione ed una verifica sperimentale, ma diventavano poi una libera palestra di analisi pedagogica e concettuale. La ricerca ebbe un altro merito, meno appariscente e più di sostanza: quello di cementare nei partecipanti una visione della scuola e dell’educazione in cui mondo della ricerca e mondo dell’insegnamento dovevano procedere strettamente uniti per assicurare alla scuola qualità e grinta innovativa. Il “Programma AZ”, insomma, generò, o consolidò nei partecipanti, la convinzione che una corretta ricerca pedagogica non poteva non svolgersi se non in stretta aderenza ai problemi concreti dell’educazione e dell’insegnamento, quale che fosse il settore e l’argomentazione trattati.
I Quaderni dell’Istituto di Pedagogia Il secondo settore è costituito dalla collana dei Quaderni dell’Istituto di Pedagogia, tra il 1966 ed il 1984. La collana ebbe inizio con Il discorso pedagogico di Ippolito Nievo, di Enzo Petrini, che richiamò l’attenzione sul fatto che la dimensione pedagogica poteva essere ricuperata anche nei ricchi scaffali della letteratura, preziosi tesoretti di vite e di esperienze umane; seguì il Programma AZ 1965-1966, a cura di Enzo Petrini e Giorgio Tampieri, dove vennero presentate le linee guida del progetto sperimentale e riportati i primi risultati dell’esperienza. Il terzo volume della serie furono le Prospettive teoretiche della didattica di Gasparini, nelle cui pagine veniva ricordata la necessità che ogni esperienza didattica doveva tener conto della natura e dei processi di apprendimento, così come venivano delineati dalle scienze dell’educazione, ma doveva anche avere come proprio riferimento una visione dell’uomo come persona integrale. Subito dopo comparve il saggio Società contemporanea ed esigenze pedagogico-morali, un volumetto che raccoglieva alcuni saggi di Romeo Crip-
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pa, professore di Storia della Filosofia a Genova. In particolare diventava patrimonio comune del gruppo triestino un pensiero di Crippa che ben sintetizzava il rapporto tra educazione e società: «Il mondo e la società ritornano sempre alla responsabilità che compete l’uomo» (Crippa, 1968, 5), perché da qui rinascono comunque le speranze di costruzione di un futuro migliore. Seguirono le Lettere a Marina di Raffaello Lambruschini. Si tratta delle lettere inedite scoperte da Enzo Petrini nella Biblioteca Civica di Bassano, scritte a Marina Baroni dal pedagogista toscano con dati rivelatori sugli ultimi anni della sua vita. Nella seconda parte del volumetto è poi riportata un’ultima lunga lettera del Lambruschini, diretta probabilmente ad un suo scolaro, Norme di condotta per un giovane che è per divenire regolatore di se medesimo. La serie dei Quaderni continua con uno studio di Claudio Desinan che rientrava nel “Programma AZ”, dove venivano riportati i risultati di una ricerca nazionale sulle operazioni di insegnamento della lettura e della scrittura. Il volume successivo fu il saggio di Petrini Giovanni Calò: dal realismo spiritualista all’umanismo cristiano. Per il gruppo triestino questo studio ebbe un particolare significato, perché Petrini, nel momento in cui tracciava le linee del percorso pedagogico del Calò, segnalava, contemporaneamente, il solido nucleo degli atteggiamenti concettuali condivisi dai pedagogisti triestini. Il Calò insegnava al gruppo triestino che l’essenza dell’educazione è sempre costituita dal cammino, che non ha mai conclusione, che ogni essere umano percorre da una condizione umana, colta nel suo momento attuale, ad una condizione meglio compiuta. Per ogni soggetto umano l’educazione, nella sua essenza, è sempre un “da farsi”, una tensione verso un “dover essere” e verso un più ed un meglio rivolti a partecipare ed a costruire un mondo di valori. Ma l’educazione è anche e sempre un “processo culturale” ed un essere nel mondo e quell’approdo del Calò ad un “umanismo cristiano” segnalato da Petrini, altro non era che una nuova esplicitazione del concetto di persona. Nel frattempo i Quaderni dell’Istituto di Pedagogia erano stati presi in carico dal Centro Europeo di Ricerca e Documentazione per la Formazione degli Insegnanti di Trieste. In questa veste vennero pubblicati i due libri di Annamaria Griselli sull’insegnamento della lingua straniera, nei quali veniva data dimostrazione che una lingua straniera può essere correttamente insegnata anche a partire della scuola elementare. Successivamente comparve il rendiconto critico di un’esperienza didattica del tutto originale condotta nella propria classe da un valoroso insegnante triestino, Marino Coretti: La calcolatrice programmabile nella scuola elementare. La serie dei Quaderni si concluse con un saggio di Bianca Grassilli, Problemi e prospettive di un’educazione all’ascolto, che rientrava sempre in quella scelta di concretezza che è stata tipica del gruppo triestino. In una stagione in cui l’ascolto – come del resto la copia per il disegno – era ritenuto
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una forma di passività dello scolaro, la Grassilli spiegava che l’insegnante non doveva aver paura di far ascoltare i suoi allievi e che una pedagogia dell’ascolto non era in contrasto con una pedagogia della partecipazione, ma era, anzi, un’occasione di libera iniziativa e di creatività.
I teacher’s books Il terzo settore di ricerca del gruppo triestino è costituito dalla fortunata serie di libri per la formazione degli insegnanti elementari e materni, i teacher’s books, iniziata nel 1975 dalla editrice fiorentina Le Monnier e proseguita fino alla fine del secolo con riedizioni ed aggiornamenti. Con il D.M. 5 marzo 1975 erano stati pubblicati dal Ministero P.I. i nuovi programmi per il concorso magistrale. Si trattava di un documento fondamentale perché, per suo mezzo e senza clamori, il Ministero rivoluzionava la preparazione dell’insegnante elementare italiano e con esso l’impostazione e la natura dell’intera scuola elementare nazionale. I programmi concorsuali precedenti richiedevano all’insegnante di presentare tre autori, uno di pedagogia, uno di didattica ed uno di letteratura. Inoltre il futuro maestro doveva dimostrare di conoscere un’opera della letteratura per l’infanzia e di saper commentare criticamente un libro di testo, scelto tra libri di lettura e sussidiari. Con i programmi del 1975 le cose cambiarono radicalmente. Il nuovo insegnante doveva dar prova di possedere una serie di argomenti del tutto originali, quali la composizione e le attribuzioni degli organi collegiali della scuola, istituiti da appena un anno, le attrezzature e gli strumenti didattici strutturati e non, le tecniche di gestione e di conduzione dell’insegnamento, la programmazione educativa e didattica, le tecnologie educative, le metodologie della ricerca didattica e della sperimentazione, l’individualizzazione dell’insegnamento, l’intero apparato della docimologia didattica, le classi aperte e la metodologia delle diverse discipline di insegnamento. In particolare, poi, il futuro insegnante doveva dimostrare di saper affrontare i problemi del bambino “portatore di handicap” e della sua integrazione nella scuola comune, nonché le questioni del disadattamento scolastico e dei condizionamenti socio-familiari che «influenzano negativamente lo sviluppo della personalità dell’alunno e il suo rendimento scolastico». Su questi tre ultimi temi, così particolari e specifici, l’insegnante doveva dimostrarsi capace di procedere a “rilevazioni empiriche e riflessioni valutative”, in modo da progettare “adeguati interventi di ricupero”. In sintesi il testo ministeriale operava una vera e propria rivoluzione della scuola e proponeva una figura di insegnante-sperimentatore e professionista operativo del tutto nuova, rispetto a quella precedente, prevalentemente teorica e letteraria, di non tanto lontana origine gentiliana.
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Il testo ministeriale era ancora fresco di stampa quando Gasparini suggerì una cena di lavoro per commentarlo. Si ritrovarono così, nella trattoria “Le Barettine”, oltre al proponente, Enzo Petrini, Silvano Pezzetta, Bianca Grassilli, Annamaria Griselli, Elena Valenti ed il sottoscritto. Qualcuno notò che l’editoria italiana era stata colta impreparata da un simile programma. E fu così che venne l’idea di un volume di orientamenti per il concorso ed in breve, su un tovagliolino di carta, ne venne steso l’indice. Al gruppo iniziale delle Barettine si aggiunsero i direttori didattici triestini Gianfranco Spiazzi, Sigismondo Zamborlini ed Ervino Gregoretti e l’ispettore scolastico ministeriale Giovacchino Petracchi. L’editrice Le Monnier si dichiarò pronta alla stampa. Venne proposto anche il titolo Maestri domani, un nome fortunato. In sei mesi il libro fu scritto e pubblicato, ed uscì in tempo, prima della prova scritta. Il testo ebbe un successo imprevisto e per tre settimane di seguito comparve in testa alla classifica della saggistica più venduta in Italia, che regolarmente veniva pubblicata dal quotidiano “La Stampa”. Le successive edizioni furono arricchite da ulteriori argomenti, ma la chiarezza del linguaggio, la rigorosità scientifica degli scritti e la esemplare correttezza dell’impostazione rimasero quelle della prima edizione.
La formazione iniziale ed in servizio degli insegnanti L’ultimo, ma non meno importante, settore di applicazione del “gruppo storico triestino” era costituito dalla lunga serie di incontri e di corsi di formazione docente, tenuti in varie località della regione e fuori regione, con puntate a Bellinzona, Merano e Catania, a cura del Centro di Firenze, del Centro Didattico Nazionale per la Scuola Materna, l’IRRSAE, i Provveditorati agli Studi, le Direzioni didattiche, i Comuni, la Comunità Montana, lo IAL/CISL. Fu un lavoro intenso e continuato: già nella tarda primavera noi eravamo prenotati per partecipare ai corsi programmati dalle scuole per l’inizio dell’anno scolastico successivo. Gasparini aveva riportato fedelmente in un suo diario di bordo, oggi custodito dalla moglie, la sig.ra Giovanna, l’elenco dei Convegni ai quali aveva partecipato e Giordano Sattler, Direttore didattico, amico fedele di Gasparini, quando ebbe nelle mani questo documento, non poté trattenere un’espressione di meraviglia per il numero impressionante di manifestazioni raccolte. Tutti questi corsi non erano qualcosa di estraneo al nostro modo di pensare la pedagogia. I nostri studi in merito erano orientati dalle segnalazioni delle scuole, che erano parte attiva di ciascun corso. È interessante soprattutto il fatto che gli argomenti che ci venivano richiesti rappresentavano altrettanti segnali delle tendenze metodologiche in atto. Si erano così susseguiti, uno dopo l’altro, i momenti della docimologia, della crea-
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tività, la corrispondenza interscolastica del Freinet e il lavoro di gruppo. Poi vennero i prerequisiti, la programmazione, l’insiemistica, il tempo pieno, le grammatiche generative, la continuità educativa e didattica, la psicomotricità e l’integrazione scolastica. Tra gli altri c’erano anche gli insegnanti “impegnati”, che chiedevano di fare matematica prendendo spunto dal sociale. Ma, per noi, questo voleva dire che a Trieste era presente una scuola viva che non si tirava indietro, ma soprattutto che non riteneva di dover rincorrere, ad ogni costo, ogni tendenza didattica che compariva all’orizzonte, ma chiedeva di vederci chiaro. Un solo esempio: in quegli anni, l’insegnante Carmen De Bianchi si era interessata di educazione psicomotoria, ma non si era limitata ai soli testi di Picq e Vayer stampati in Italia e per poter far meglio si era procurata il libro di Lapierre e Aucouturier sulla psicomotricità relazionale, non ancora pubblicato in Italia, e se l’era tradotto da sola dal francese. Per noi del gruppo pedagogico era poi particolarmente significativo il fatto che nei vari corsi le domande degli insegnanti, quando l’argomento trattato era il medesimo, si ripetevano e questo rappresentava il segnale che la nostra preparazione a tavolino era stata insufficiente e che la pratica scolastica presentava problemi che la ricerca teorica non si era posta. Tutti questi incontri o corsi non avvenivano a caso, ma avevano luogo attraverso una intesa molto stretta con un gruppo valoroso e preparato di direttori didattici locali, molti dei quali erano usciti dal severissimo concorso Volpicelli del 1958, che su 4000 candidati ne aveva ammessi all’orale solo 400. Da quella prova Gasparini era riuscito IV assoluto per merito nella graduatoria nazionale, poi sceso al VII posto per una questione di titoli. Altri vincitori triestini erano stati Renato Casini, Rodolfo Unterweger-Viani, Emilio Zamola, Omero Zerqueni. Ad essi va aggiunto Sigismondo Zamborlini, che però, prima di arrivare a Trieste, avrebbe iniziato il suo servizio in un Circolo didattico friulano. Il rapporto tra Gasparini e questi suoi colleghi era rimasto strettissimo fino al suo pensionamento ed era stato lui a premere perché Giordano Sattler e Gianfranco Spiazzi si presentassero al successivo concorso per direttore. In questo contesto vanno ricordate le collaborazioni continuative (poi pubblicate) con le scuole materne dell’ex ONAIRC, dirette dalla Prof.ssa Livia Scrosoppi e seguite dalle vigilatrici Daria De Zorzi, per le scuole italiane, e Vincenza Canziani per le scuole slovene. Con l’IRRSAE avevamo condotto una prima ricerca sull’educazione alimentare, con Odorico Serena e Rosalba Perini, ed una seconda sulla organizzazione e struttura della scuola materna regionale, con pubblicazione a cura di Antonietta Micalessin e la collaborazione di Odorico Serena e Antonio Cobalti. Il “gruppo storico” triestino aveva preso parte regolarmente ai corsi annuali di formazione per le scuole materne comunali di Trieste ed ai seminari di Ervino Gregoretti, presidente triestino della FISM, tutti
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regolarmente seguiti dagli Atti. Continuativa era stata poi la partecipazione del gruppo triestino ai corsi magistrali ortofrenici guidati da Duilio Gasparini, ai corsi per insegnanti di sostegno dell’Istituto Villa S. Maria della Pace di Medea, dell’Istituto per ciechi Rittmayer di Trieste e dell’Istituto per sordomuti di Gorizia, nonché ai corsi di preparazione ai concorsi magistrali dell’AIMC, sempre diretti da Gasparini, grazie ai quali sarebbe salito in cattedra un gran numero di frequentanti: erano corsi caratterizzati da numerose ore di lezione e dalla correzione puntuale dei temi scritti ed ancora oggi, di quando in quando, incontro per strada una qualche collega, che sorridendo mi dice di avere ancora, nel cassetto, gli appunti di quelle lezioni. Né va dimenticata la partecipazione ai Convegni annuali di educazione musicale tenuti a Gorizia, a partire dal 1985, per oltre vent’anni, a cura dell’Associazione corale goriziana “C.A. Seghizzi”, magistralmente organizzati da Italo Montiglio, convegni affollati, che riempivano di insegnanti della regione e della vicina Slovenia la grande sala delle Fiere di Gorizia. Infine, il gruppo storico ha preso parte ai seminari annuali di formazione degli insegnanti delle scuole italiane in Istria tenuti dall’Università popolare di Trieste, ed ha costituito, il nucleo delle discipline pedagogiche e didattiche che, tramite l’Università Popolare e attraverso una Convenzione tra Università di Trieste ed Università di Pola, ha dato origine ai corsi accademici per educatrici prescolari e per insegnanti di classe tenuti dall’Università di Pola per le scuole della minoranza italiana, corsi iniziati nel 1990 e tuttora attivi.
Su una triestinità della pedagogia triestina Mettendo insieme tutte queste cose mi azzardo a sostenere la presenza di una triestinità della pedagogia triestina nel periodo ’61-’76. Prendo a prestito il termine da Carlo Stuparich, il fratello più piccolo di Giani, una delle quattro grandi S della letteratura triestina, assieme a Saba, Svevo e Stalaper. Carlo aveva scritto, quando aveva vent’anni, due saggi brevi di natura pedagogica, nei quali si proponeva di rispondere alla domanda “Che cos’è la pedagogia moderna”. Il termine triestinità si ritrova nel primo di questi saggi (febbraio-marzo 1914, «L’educazione come attualità», in La voce degli insegnanti, 64-65). Venivano qui discussi i due assiomi tradizionali della pedagogia: il principio che la scuola doveva essere “una preparazione alla vita” e la concezione che l’insegnamento doveva rappresentare una sorta di “ammaestramento dei novizi”. Al contrario, per il giovane Stuparich, tutto doveva essere fatto rientrare nella vita e l’educazione non poteva essere che arte maieutica, gestita nell’ottica della “triestinità” e cioè dei valori propri della tradizione locale.
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La triestinità del “gruppo storico” Gasparini-Petrini è stata qualcosa di diverso. Era nata da un gruppo di lavoro molto unito, che parlava una medesima lingua ed era saldamente ancorato ad una particolare concezione del ruolo e delle funzioni della pedagogia. A Trieste questa intensa attività di studi, pubblicazioni e formazione docente sul campo confluiva in una concezione della pedagogia e dei suoi compiti caratterizzata da una strettissima unità tra ricerca teorica e dimensione pratica. La nostra pedagogia era nettamente distinta da una filosofia dell’educazione, ma era anche diversa rispetto ad una pedagogia ermeneutica o ad una pedagogia relazionale. Ed era anche diversa nei confronti di quello sforzo intenso di valorizzazione della pratica rispetto alla teoria che trova oggi validi sostegni in autori di alto prestigio come D.A. Schön, J.-M. Barbier e Ph. Perrenoud. Noi eravamo fermamente convinti che l’azione educativa aveva bisogno di solidi principi generali e di finalità educative originate dai valori. Ma eravamo anche altrettanto saldamente convinti che il semplice enunciato di questi principi non garantiva poi, in nessun modo, la loro presenza nella quotidianità dell’agire docente. Per noi la distinzione tra una pedagogia pura ed una pedagogia impura, e cioè contaminata dalla pratica, privava la pedagogia di una componente essenziale, quella dell’operatività. Ma eravamo, ugualmente, solo parzialmente soddisfatti della definizione che il Mialaret aveva dato in Francia e che era largamente condivisa anche in Italia, e cioè che la pedagogia altro non era che “scienza ed arte dell’educazione”. Una tale definizione non rispecchiava il nostro modo di pensare e non ci pareva sufficiente per spiegare il rapporto tra le due cose, perché quella “e” congiunzione, anche grammaticalmente, si limitava a collegare le due entità, ma non ne spiegava i rapporti: le accostava, ma le manteneva distinte. Per il nostro modo di ragionare e per i contenuti che la pedagogia del gruppo triestino assumeva nella sua opera di formazione e nei suoi scritti, la teoria pedagogica non poteva essere ritenuta contermine alla pratica, ma doveva essere interamente intessuta di pratica. Pur restando solidamente concettuale, la pedagogia del gruppo triestino era costituita da una “concettualità della concretezza” che trasudava pratica da ogni poro. Questa nostra modalità di intendere la pedagogia ci distingueva dalla pedagogia nazionale, che per il gruppo triestino era o tutta tesa alla difesa dei grandi principi – con il rischio, però, di restare bloccata su di un piano enunciativo – oppure interamente impostata su una concezione che ci pareva limitativa e non ci convinceva, perché riteneva di poter trarre le proprie motivazioni unicamente da un esame antropologico-sociale della condizione umana. D’altra parte, l’operatività, nelle nostre relazioni e nei nostri discorsi pedagogici, non consisteva in una elencazione di modalità esecutive. Sintetizzando il pensiero del gruppo, nella Conclusione delle sue Prospettive teoretiche così scriveva Gasparini: «E nessuno, leggendo queste righe,
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potrà dire che noi gli abbiamo voluto proporre o imporre ciò che deve fare, giorno per giorno, materia per materia, con la sua classe, a seguire pedissequamente le nostre opinioni e le nostre convinzioni». Soltanto, speriamo che, leggendo quanto abbiamo ritenuto dover esporre, e se è d’accordo con noi, «ogni insegnante voglia liberamente calare nella realtà quotidiana dei suoi alunni questi principi, tradotti in pratica realizzazione della sua iniziativa personale, secondo le sue capacità e le effettive possibilità della sua scolaresca» (Gasparini, 1968, 124). La nostra “praticità” consisteva nel presentare lineamenti di riflessione che mettevano gli insegnanti nella condizione di trarre gli elementi operativi più adeguati per la propria scuola e la propria modalità di lavoro e, non di rado, di scoprire come nella loro operatività era già implicitamente presente quanto andava proponendo la ricerca teoretica. Con la dolorosa scomparsa, per legge di natura, di Petrini, Pezzetta e Gasparini e con i successivi pensionamenti il “gruppo storico” si è sciolto, ma il suo modo di intendere la pedagogia non ha perso nulla della sua capacità propositiva e la sua esperienza resta patrimonio della storia della scuola triestina. Presentazione dell’Autore: Claudio Desinan dopo un periodo di insegnamento nella scuola elementare e media è diventato assistente di ruolo (1969) e professore associato confermato nell’ex Facoltà di Magistero di Trieste e, infine, (1994) ordinario di Pedagogia Generale e Sociale nella Facoltà di Scienze della Formazione, sempre dell’Ateneo triestino, dove ha continuato fino al pensionamento (2004). È anche stato, per due tornate e fino al 2003, Direttore del Dipartimento dell’Educazione dell’Università di Trieste. Si è interessato di formazione docente, pedagogia interculturale e pedagogia della comunicazione ed ha al suo attivo un centinaio di pubblicazioni, tra cui Orientamenti di educazione interculturale (1997), Milano, Franco Angeli; Discutere la scuola. Ipotesi, contenuti e prospettive a confronto (a cura di) (1998), Milano, Franco Angeli; Formazione e comunicazione (a cura di) (2002), Milano, Franco Angeli e “L’intelligenza emotiva nella scuola” (2006), in Novi komunikacijski izazovi u obrazovanju, Pula, Sveučilište u rijeci Visoka učiteljska škola u Puli, 81-94.
Bibliografia DESINAN, C. (2011), «Silvano Pezzetta esploratore appassionato dell’immagine e della parola», in Archeografo Triestino, Serie IV – Volume LXXI (CXIX della raccolta), Trieste, Società di Minerva, 431-439. GASPARINI, D. (1968), Le prospettive teoretiche della didattica, Università
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degli Studi di Trieste, Quaderni dell’Istituto di Pedagogia, 3, Firenze, Le Monnier. CRIPPA, R. (1968), Società contemporanea ed esigenze pedagogico morali, Università degli Studi di Trieste, Quaderni dell’Istituto di Pedagogia, 4, Firenze, Le Monnier.
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SPIRITUALITÀ ED ETICA NELLA PEDAGOGIA DI DUILIO GASPARINI Sira Serenella Macchietti Abstract: This paper is articulated in two segments. The first concerns the cultural and pedagogical education of Duilio Gasparini, and focuses on the opportunity of growth that has been offered to him by the accession to the Fraternal Community of Pietralba. The second examines two early writings (unedited) of D.G., paying special attention to his vision of ethics, religion and spirituality of the person, and his pedagogical anthropology, which is based on the Word of God. The results of the research allow to emphasize the fruitfulness of the Faith of D.G., which has allowed him to cultivate his spirituality, which is reflected in all his scientific production, to place his life and his pedagogy in a horizon of meaning, and to testify the ethics of forgiveness. Riassunto: Questo contributo si articola in due segmenti. Il primo ha come oggetto di studio la formazione culturale e pedagogica di Duilio Gasparini e riflette sulle opportunità di crescita che gli sono state offerte dall’adesione alla Comunità Fraterna di Pietralba. Il secondo prende in esame due scritti giovanili (inediti) di D.G., rivolgendo una specifica attenzione alla sua visione dell’etica, della religiosità e della spiritualità della persona e alla sua antropologia pedagogica che si fonda sulla Parola di Dio. Gli esiti della ricerca consentono di sottolineare la fecondità della Fede di D.G., che gli ha permesso di coltivare la sua spiritualità che si riflette in tutta la sua produzione scientifica, di collocare la sua esistenza e la sua pedagogia in un orizzonte di senso e di testimoniare l’etica del perdono. Parole chiave: persona, personalità, religiosità, spiritualità, etica. Questo contributo si colloca in un rapporto di continuità con un altro studio già effettuato sulla pedagogia di Duilio Gasparini (D.G.)1 e si propone di integrare quanto è stato scritto, facendo tesoro della lettura di due documenti inediti2 in cui il Nostro presenta il suo personalismo, offrendo una significativa testimonianza della sua spiritualità e della sua tensione axiologica che gli hanno consentito di costruirsi come pedagogista. Pertanto il contributo presenta rapidamente l’itinerario formativo di D.G., accenna alle sue prime esperienze professionali e riflette sulla sua spiritualità e sulla sua concezione della persona e della sua educazione.
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La centralità dell’Amore Alla formazione culturale e pedagogica di D.G. fa un rapido e prezioso riferimento Claudio Desinan nel saggio intitolato Scuola ed educazione a Trieste dal 1945 al 1954, ricordando che il Nostro alla fine della Seconda guerra mondiale riprese la sua attività di maestro3 e partecipò «al movimento di rinnovamento della scuola triestina» e fu presente al «prestigioso Congresso degli insegnanti della Venezia Giulia (19-20 febbraio 1946), noto come il Congresso Washburne. Stabilì i primi contatti con gli esponenti più in vista della pedagogia nazionale, tra cui V. Chizzolini, G. Ugolini, M. Agosti, A. Agazzi e nel 1949 con Ermanno Crevatin». Nello stesso saggio Claudio Desinan afferma anche che il periodo 1945-1954 fu fondamentale nella vita di D.G. «perché rappresentò la fase in cui si costruì, con uno studio intenso, una solida cultura pedagogica» (Desinan, 2011, 49). In quel periodo, particolarmente fecondo agli effetti della sua formazione, il Nostro «si convinse che la scuola doveva assumersi il compito di una grande e diffusa opera di umanizzazione, che poteva essere promossa solo dalla cultura e dai valori cristiani» e che questa istituzione «doveva proporsi un compito fondamentale di emancipazione sociale e civile nei confronti di ogni forma di svantaggio socio-culturale che colpiva le categorie più emarginate della società del suo tempo e del territorio triestino, un compito che egli non delegava ad altri, ma che avvertiva di doversi assumere di persona, senza tirarsi indietro di fronte alle difficoltà» (Ivi, 49-50). Questa sua disponibilità ad impegnarsi direttamente era un’espressione del suo senso di responsabilità ed una testimonianza della sua fiducia «piena e totale nel valore formativo della scuola e nella capacità di redenzione sociale esercitata dagli insegnanti attraverso la loro opera di formazione» (Imperatori Gasparini, 2011, 143-144) e della sua preoccupazione per la crisi in cui vedeva le istituzioni scolastiche. Queste convinzioni e le sue preoccupazioni costituiscono una significativa testimonianza della sensibilità educativa, dell’intelligenza pedagogica e della sua coscienza della necessità di rispondere “pedagogicamente” ai bisogni di crescita culturale, sociale e civile della società e di consentire a tutti i cittadini di concretizzare il loro diritto all’educazione. A queste convinzioni ed al suo desiderio di crescere umanamente, culturalmente e professionalmente si debbono la sua iscrizione all’Università e la convinta adesione al Gruppo dei Maestri Pietralbini, avvenuta nel 1948, che gli offrì l’opportunità di confrontarsi con altri colleghi che, come lui, amavano lo studio, la ricerca e la scuola e si impegnavano per renderla capace di educare integralmente le giovani generazioni e di favorire la formazione di “cittadini democratici e responsabili…”.
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In seguito all’adesione alla Comunità fraterna di Pietralba4 il Nostro partecipò assiduamente agli incontri di questa Comunità che si proponeva di – elaborare organicamente una teoria dell’educazione coerente con la tradizione cristiana, – conoscere e valutare il pensiero pedagogico straniero, – promuovere studi storiografici e un’attenta ricerca storica, – sviluppare un’attività rinnovatrice, – muoversi in prospettiva sperimentale, – illustrare e testimoniare il significato della pedagogia personalista e arricchirla con le esperienze educative e didattiche, – “approfondire” la vita interiore degli educatori (Mencarelli, 1972, 6). I promotori di questa Comunità miravano inoltre a «svegliare e aiutare le vocazioni all’attività scientifica», a «scoprire intelligenze e coscienze vibranti e mature disponibili a dedicarsi agli studi con alto senso apostolico e capaci di costituire “la forza direttrice” di un movimento vivo e vivace», rivolto a costruire una scuola dell’educazione integrale di ogni uomo «attuante la centralità dell’Amore». Di fatto questa Comunità si configurò come un fecondo luogo di formazione e di autoformazione pedagogica e spirituale dei suoi membri i quali volevano rendersi capaci di assolvere il “dovere augusto” della loro missione e di “dare testimonianza” della loro fedeltà alla legge fondamentale dell’educazione cristiana ed all’esempio dell’unico vero Maestro. Ai Maestri Pietralbini si chiedeva di impegnarsi nello studio, nella ricerca e nell’attività sperimentale e quindi di porsi «sulle due linee della pratica e della teoria, delle esperienze educative e delle esperienze pedagogiche» e si offriva l’opportunità di confrontarsi con il pensiero dei pedagogisti del passato e del presente. Grazie a Marco Agosti, che coordinava ed animava il Gruppo dei Pietralbini, le attività di studio e quelle di sperimentazione realizzate dalla Comunità si polarizzavano intorno a un modulo epistemologico che è risultato particolarmente “fecondo”. Questo «modulo che si incardina sul concetto di persona e si articola nella antropologia pedagogica e nella teleologia pedagogica, le quali trovano nella metodologia didattica e educativa la propria chiave di volta» costituisce la struttura del “discorso pedagogico” che ha consentito ai Pietralbini «di approfondire continuamente le conoscenze intorno al potenziale umano e educativo della persona» (AA.VV., 1952). L’adesione di D.G. all’A.I.M.C. (Associazione Italiana Maestri Cattolici) alla quale il Nostro si iscrisse nel 1950, come testimoniano i suoi scritti giovanili, gli offrì l’opportunità di arricchire ulteriormente la sua cultura pedagogica e la sua competenza didattica e di coltivare la sua spiritualità. Nel corso degli anni il Nostro ha continuato ad impegnarsi nello studio e nella ricerca con l’intento di contribuire a far crescere la “pedagogia”, la qualità e l’integralità dell’educazione…
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Se riflettiamo sulla sua ampia produzione scientifica5 possiamo agevolmente constatare che i suoi studi hanno costantemente tenuto presenti tutti gli elementi che costituiscono e sorreggono la struttura del discorso pedagogico delineata da Marco Agosti. Si sono inoltre collocati nelle prospettive di ricerca6 in cui era chiamato ad impegnarsi il Gruppo Pietralbino caratterizzandosi per la coerenza delle sue proposte con l’antropologia e con la teleologia pedagogica personalista. Questa coerenza è testimoniata anche dalle numerose pubblicazioni a carattere didattico di D.G., le quali non indulgono mai al didatticismo e sono attente a tutte le potenzialità educative che l’essere umano custodisce ed ha il diritto e il dovere di coltivare e di attuare. In effetti la persona “cristianamente concepita” costituisce il Deus absconditus di tutta la sua produzione scientifica e la sua educazione integrale è il traguardo che la ricerca e l’azione di D.G. si propongono di conseguire…
Persona ed educazione Le prime pagine in cui D.G. ha presentato la sua concezione dell’essere umano sono quelle della sua tesi di laurea, intitolata Il concetto di persona come presupposto essenziale della pedagogia, che prende avvio da queste parole di Pio XII: «chi vuole che la stella della pace spunti e si fermi sulla società, concorra da parte sua a ridonare alla persona umana la dignità concessale da Dio fin da principio». In questa tesi, ricchissima di riferimenti alle diverse visioni dell’uomo e della sua educazione, ai filosofi ed ai pedagogisti italiani e stranieri, D.G. delinea la sua antropologia pedagogica personalista che fa tesoro anche dei contributi offerti dalle psicologie, «più disparate, dalla psicanalisi, dalla sociologia, dalle esperienze realizzate dalle scuole nuove», dai loro metodi e dalle teorie sulle quali si fondano per legittimare la sua proposta di costruire una “scuola integrale cristiana” capace di attuare «un ideale di integralità e di armonia». In questa prospettiva «il fine ultimo dell’educazione» non può «che essere unico, come unico è il fine ultimo della vita». «Questo fine non può essere che Dio, principio e fine di tutto l’essere, Causa efficiente e Causa finale, dal Quale tutto ha origine e al Quale tutto tende, per trovare in Lui spiegazione e giustificazione» (Gasparini, 1952, 104). Pertanto «l’educazione…, se deve formare l’uomo secondo il suo fine», deve «formare l’uomo per Dio». E, poiché Dio è Amore, l’educazione deve mirare ad «affermare e a condurre a vivere la centralità dell’Amore». Nel decennio successivo al conseguimento della laurea il Nostro ha
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continuato a riflettere su queste questioni ed ha elaborato un breve saggio intitolato Persona ed educazione in cui affermava che «l’educatore è chiamato ad essere il cooperatore nello sviluppo della persona del fanciullo teso alla realizzazione dei valori per la formazione della sua personalità spirituale». E, per precisare il significato di questa affermazione, presentava analiticamente la differenza che intercorre tra i termini individuo, uomo e persona che comunemente ed erroneamente vengono considerati sinonimi. Ricordava pertanto che «con il termine individuo possiamo indicare sia l’uomo, sia un animale, o una pianta, o un oggetto». Inoltre affermava che quando usiamo il termine individuo per indicare l’uomo intendiamo «mettere in risalto ciò che nell’uomo è specificamente suo», aggiungendo che l’individuo è «l’essere preso nella sua determinatezza esistenziale…» (Gasparini, 1961, 2). In merito alla parola uomo denunciava anche la scorrettezza di alcuni significati che vengono dati a questo termine. In particolare sosteneva che quando si dice che «l’uomo è una unità psico-fisica» (Ivi, 1) si dimentica di porre l’accento sulla sua spiritualità, «limitandoci a sottolineare soltanto la sua fisicità e la sua psichicità rischiando di considerare l’essere umano soltanto come un animale superiore». In realtà l’uomo è uno «spirito incarnato» e questo «spirito è condizionato non nel suo essere, ma nella sua funzionalità dagli organi fisici e psichici con cui forma una unità» (Ivi, 2). A proposito del termine persona ricordava che in filosofia e in pedagogia è usato per indicare ciò che è più caratteristico dell’uomo e ciò che lo distingue e fa “risaltare” la sua spiritualità7. La persona umana infatti ha dei caratteri e dei valori che sono i tratti che la differenziano «da qualunque altra creatura di questo mondo» e che costituiscono la sua spiritualità (Ivi, 3), la cui prima e principale caratteristica «o almeno la più evidente» è la razionalità (Ivi, 7). Un’altra caratteristica è la moralità…. Infatti «se mediante l’intelletto l’uomo tende alla realizzazione del vero, mediante la volontà tende alla realizzazione del bene» e quindi anche alla conquista della libertà, della responsabilità, della dignità, del senso del dovere, del diritto e della giustizia… (Ivi, 8). Inoltre l’uomo ha la capacità «di dare a sé stesso la legge morale o, meglio, di “scoprirla” in sé, fermo restando il principio che la legge morale» ci «è data da Dio» (Ivi, 9). Tra le altre categorie della spiritualità il Nostro ricorda l’esteticità, la socialità, la produttività e la religiosità la quale è intesa «come senso della nostra finitezza, della nostra caducità ed imperfezione di fronte ad un essere infinito, eterno, perfetto e assoluto: Dio, che è l’Essere, mentre l’uomo ha l’essere, essere ricevuto, essere partecipato…».
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Alla religiosità si collega pertanto anche «l’ansia di radicarsi in Dio, di ritornare…» al Creatore, «di amarLo, di adorarLo, di pregarLo» (Ivi, 14). Coltivare la religiosità significa quindi soddisfare il bisogno dell’essere umano di pervenire al suo dover essere, di diventare persona, di costruire la propria personalità, di soddisfare il bisogno di collocare la propria esistenza in un orizzonte di senso. Infine D.G. rivolge l’attenzione alla personalità, precisando che con questo termine si intende «la realizzazione dei valori della persona in quanto questi possano essere realizzati…»8. L’uomo quindi quando nasce «è persona, in quanto possiede tutti i valori, tutte le categorie della spiritualità: razionalità, moralità, socialità, ecc.; non è personalità perché non ha ancora realizzato questi valori, nemmeno in quella parte in cui potranno essere realizzati nel corso della vita umana» (Ivi, 16). All’educazione D.G. affida il compito di aiutare la persona a costruire la sua personalità, liberando le sue potenzialità e coltivando la sua creaturalità9. E, a questo proposito, ricorda che «Signatum est super nos lumen vultus Dei…» ed afferma che il compito dell’educatore, il quale è chiamato ad essere il cooperatore nello sviluppo del fanciullo, è veramente meraviglioso e che la sua azione educativa deve ispirarsi «alla natura e al fine dell’uomo», «considerato nella sua unità di persona, appartenente all’ordine naturale e all’ordine soprannaturale»10.
Spiritualità ed “etica” del perdono Duilio Gasparini dopo gli anni ’60 ha arricchito la sua “cultura della persona” ed ha testimoniato con la sua vita la sua fedeltà al Messaggio cristiano che ha costituito la luce della sua esistenza. Si è dedicato con gioia e con passione alla sua attività di docente ed a quella di ricerca che ha forse svolto con la speranza di poter collaborare con il suo lavoro «al compimento del mondo in Cristo ed alla costruzione della civiltà dell’amore». La sua interiorizzazione del Messaggio evangelico infatti gli ha consentito di vivere “la vita buona del Vangelo” e lo ha reso capace di donare il perdono, di comprendere e di aiutare l’altro a ri-comprendere ed a ricomprendersi. Ha quindi superato anche “l’ordine della moralità” e si è collocato “nell’ordine della carità”, rispettando «il comandamento d’amare i propri nemici» che «è legato ad una economia del dono, in cui la logica della sovrabbondanza supera la logica della reciprocità…» (Ricoeur, 1994, 102-103). In effetti l’interiorizzazione del Messaggio cristiano ha consentito
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a D.G. di impegnarsi nel perfezionamento di sé, di “coltivarsi”, di realizzare “opere virtuose”, di costruirsi come persona capace di “buona volontà”. Gli ha permesso inoltre di produrre una pedagogia “edificata su principi spirituali” e quindi attenta alla cultura educativa ed alla formazione spirituale11 e che trova il suo fondamento nell’Amore… (Gasparini, 1952, 108). Per la sua testimonianza, per la coerenza con la sua fede, per il vigore della sua spiritualità, coltivata nel corso del tempo e capace di dialogare con il cambiamento della cultura ma sempre fedele alla sua identità cristiana, chi ha a cuore l’uomo e la sua educazione non può non dirgli grazie. Presentazione dell’Autore: Sira S. Macchietti, già professore ordinario di pedagogia generale presso l’Università degli Studi di Siena, ha effettuato un lungo percorso di ricerca che è iniziato nel 1959. Fin dagli inizi si è posta in un rapporto di coerenza con la cultura del personalismo sulla quale ha costruito la sua antropologia pedagogica. La sua produzione scientifica ha preso avvio con alcuni studi storicopedagogici ed ha successivamente affrontato le questioni di pedagogia scolastica, quelle relative all’educazione dell’infanzia, alla formazione degli insegnanti e all’educazione permanente, quelle di filosofia dell’educazione e del rapporto tra pedagogia e teologia pastorale. È autrice di 15 monografie, di circa 600 articoli di pedagogia, di storia e di filosofia dell’educazione e di numerosi saggi presentati in circa 280 opere collettanee pubblicate in Italia ed all’estero. Inoltre è autrice di 340 “Voci” di enciclopedie e di dizionari pedagogici e di 120 “editoriali”. Note 1 A questo proposito cfr. Macchietti, S.S. (2011), «Cultura ed educazione nella pedagogia di Duilio Gasparini», in L. Malusa, O. Rossi Cassottana (a cura di), Le dimensioni dell’educare e il gusto della scoperta nella ricerca. Studi in memoria di Duilio Gasparini, Roma, Armando, 70-78. 2 Si tratta della tesi di laurea di Duilio Gasparini, intitolata Il concetto di persona come presupposto essenziale della pedagogia, discussa nell’a.a. 1951-52 e del dattiloscritto di diciannove pagine, datato Trieste 2 ottobre 1961, intitolato Persona ed educazione. 3 Giova ricordare che D.G. aveva conseguito il diploma di maestro elementare nel 1941 ed aveva iniziato ad insegnare nello stesso anno. Interruppe questa attività nel 1944 perché richiamato alle armi e, a conclusione del conflitto, riprese il suo posto di insegnante di ruolo nella scuola “R. Timeus” di Trieste. Cfr. Imperatori Gasparini, G. (2011), «Il viaggio nella scuola e nell’Università» (25) ed anche Crevatin, E. (2011), «In memoria del Prof. Duilio Gasparini. L’inizio di una sincera
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Ricerche e profonda amicizia» (121-125); Sattler, G. (2011), «Dieci anni a S. Sabba», in L. Malusa, O. Rossi Cassottana (a cura di) Le dimensioni dell’educare e il gusto della scoperta nella ricerca, cit. 4 Questa Comunità che era formata da un gruppo di maestri detti “Pietralbini” nacque (cfr. 1956, Pietralba, Lettere e itinerari, Brescia, La Scuola) nel 1948, dall’esperienza di Paedagogium, il cui primo incontro aveva avuto luogo nell’agosto 1942 a “Fonteviva” di Luino. Il Gruppo era composto da giovani maestri particolarmente partecipi degli ideali dell’educazione cristiana che si erano raccolti intorno alla rivista Scuola Italiana Moderna. Cfr. AA.VV. (1952), Pedagogia della persona, Brescia, La Scuola, 5. 5 Cfr. Rossi Cassottana, O. (2011), «Bibliografia degli scritti di Duilio Gasparini», in L. Malusa, O. Rossi Cassottana (a cura di), Le dimensioni dell’educare e il gusto della scoperta nella ricerca, cit., 33-46. 6 Infatti D.G. ha fatto ricerca nei settori della filosofia dell’educazione, della pedagogia comparata, della storia della pedagogia e dell’educazione. Ha effettuato inoltre numerosi studi di carattere didattico e si è dedicato con passione e costanza alla ricerca storico-pedagogica e storico-educativa. Cfr. Rossi Cassottana, O. (2011), «L’approdo genovese: una nuova rotta tra teoresi educativa e ricerca storica», in L. Malusa, O. Rossi Cassottana (a cura di), Le dimensioni dell’educare e il gusto della scoperta nella ricerca, cit., 79-102. 7 A questo proposito D.G. così si esprime: «… di solito, quando si parla di uomo, di “composto” umano … si fanno … solo queste due distinzioni: l’anima e il corpo, la parte immateriale e la parte materiale; il che non è del tutto esatto, perché noi nell’uomo possiamo distinguere non tanto una materialità da una immaterialità, quanto piuttosto una naturalità da una spiritualità». Cfr. Gasparini (1961), 3-4. E, per quanto riguarda la spiritualità sostiene che l’uomo ha queste caratteristiche spirituali: la razionalità, la moralità, l’esteticità, la socialità, la produttività e la religiosità. 8 Per comprendere il significato di questa affermazione può essere utile riflettere su questo passo di Marco Agosti: «L’idea esemplare che Dio ha posto nella persona, liberata nel duro travaglio dell’educere, ha la sua manifestazione nella personalità intesa come l’essere cosciente nella sua unificazione interiore, avente il sentimento della propria concentrazione come spirito e unità». Cfr. Agosti, M. (1955), «Premesse e contributi alla elaborazione di una pedagogia integrale secondo il personalismo cristiano», in AA.VV., La pedagogia cristiana, Atti del I Convegno di Scholé (Gargnano, 9-11 settembre 1954), Brescia, La Scuola, 247. 9 È opportuno ricordare che D.G. condivide la teleologia pedagogica di Marco Agosti il quale affermava che «al termine del processo educativo integrale vi è … la manifestazione della idea esemplare che Dio ha posto in ciascuno di noi». E con Marco Agosti condivide anche la certezza che «con tale manifestazione si attualizzano nell’individuo i caratteri della persona: esso non solo è conscius sui… e della propria vocazione ma è pure … conscius sui temporis, è … compos sui, è … auctor sui, è … largitor sui, è … adorator Dei». Ibidem. 10 Cfr. Manifesto di Pietralba. 11 Cfr. Gasparini, D. (1991), «Il concetto di cultura in Marcello Peretti», in AA.VV., Educazione, valori, cultura. Studi in onore di Marcello Peretti, Padova, Alfasessanta, 58-69.
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Bibliografia AA.VV. (1952), Pedagogia della persona (note di M. Agosti, A. Agazzi, M. Laeng, P. Viotto, G. Santomauro, M. Perini), Brescia, La Scuola. DESINAN, C. (2011), «Scuola ed educazione a Trieste dal 1945 al 1954», in L. Malusa, O. Rossi Cassottana (a cura di), Le dimensioni dell’educare e il gusto della scoperta nella ricerca. Studi in memoria di Duilio Gasparini, Roma, Armando, 49-69. GASPARINI, D. (1952), tesi di laurea dattiloscritta, Il concetto di persona come presupposto essenziale della pedagogia, a.a. 1951-52. — (1961), Persona ed educazione, dattiloscritto di diciannove pagine, datato Trieste 2 ottobre. — (1991), «Il concetto di cultura in Marcello Peretti», in AA.VV., Educazione, valori, cultura. Studi in onore di Marcello Peretti, Padova, Alfasessanta, 58-69. IMPERATORI GASPARINI, G. (2011), «La “passione educativa” e il “gusto della scoperta”», in L. Malusa, O. Rossi Cassottana (a cura di), Le dimensioni dell’educare e il gusto della scoperta nella ricerca. Studi in memoria di Duilio Gasparini, Roma, Armando, 136-145. MENCARELLI, M. (1972), «Prefazione», in E. Damiano, M. Mencarelli, C. Scurati, Orizzonte culturale contemporaneo e pedagogia cristiana, Quaderni di “Pietralba”, Brescia, La Scuola, 5-9. RICOEUR, P. (1994), «Quale nuovo ethos per l’Europa», in A. Danese (a cura di), Persona, comunità, istituzioni, Firenze, ECP, 95-106.
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INTERVENTI E TESTIMONIANZE Claudio Desinan Abstract: Several Triestine colleagues discuss some of the aspects of Duilio Gasparini’s research in the field of pedagogy: Giorgio Tampieri presents the topic of “diseducation”; Loredana Czerwinsky Domenis that of the “absence of constriction”; Gianfranco Spiazzi examines the issue of “utopia” and highlights the novelty of D. Gasparini and M. Grazzini’s monumental historical research on the minor works of F. Fröbel; Annamaria Griselli discusses the question of “teaching languages”; Matteo Cornacchia delves into school “organization” matters; and Anna Rosa Stalio tackles the problem of “evaluation”. Gasparini’s personal side is sketched through accounts provided by Maria Clotilde Giuliani and Gasparini’s wife Giovanna Imperatori. Riassunto: Parlano ora i colleghi triestini che segnalano alcuni tratti del lavoro di ricerca pedagogica di Duilio Gasparini: Giorgio Tampieri presenta il tema della “diseducazione”, Loredana Czerwinsky Domenis quello della “assenza di costrizione”, Gianfranco Spiazzi mette in evidenza la novità del lavoro storico monumentale di D. Gasparini e M. Grazzini sulle opere minori di F. Fröbel ed esamina il tema dell’“utopia”, Annamaria Griselli discute la questione dell’“insegnamento della lingua”, Matteo Cornacchia segnala l’aspetto dell’“organizzazione” della scuola, Anna Rosa Stalio affronta il problema della “valutazione”. Infine, il profilo umano di Gasparini viene tratteggiato nelle testimonianze di Maria Clotilde Giuliani e della moglie dello scomparso, Giovanna Imperatori. Parole chiave: diseducazione, costrizione, utopia, apprendimento del linguaggio, organizzazione, umanità. La serie degli interventi è iniziata con Giorgio Tampieri, docente emerito di Psicologia dell’età evolutiva e già Preside della Facoltà triestina di Scienze della Formazione. Tampieri racconta che, aiutato dal ricordo, si era messo a cercare tra le voci che Gasparini aveva scritto per l’Enciclopedia Pedagogica di Mauro Laeng ed era rimasto colpito da quella su “diseducazione”. Gasparini aveva ricuperato un sostantivo già usato da pedagogisti autorevoli, che egli cita, come il Lombardo-Radice e lo Spranger, per il quale, però, la “diseducazione” era intesa come un comportamento involontario di genitori ed insegnanti. Tampieri nota che per Gasparini, al contrario, il fenomeno odierno della diseducazione è intenzionale e per questo diventa più preoccupante e va quindi contra-
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stato con maggiore energia. Come precisa Gasparini, si può verificare che «una data società abbandoni volontariamente il ruolo che le compete di favorire la promozione dello sviluppo della persona umana, nei suoi aspetti fisici, psichici, razionali, morali, sociali, ecc. Questo abbandono viene proclamato in nome di un benefico spontaneismo, dimenticando che la via per la conquista della libertà passa attraverso la disciplina, e che la libertà non va confusa con l’assenza di ogni regola» (Gasparini, 1989, 3942). Ma può anche accadere che un tale lassismo nasca da un malinteso senso dei diritti del bambino, o ancora da una concezione della libertà tipica delle pedagogie libertarie estreme, nelle quali tutto è permesso. Diventa pedagogicamente preoccupante il fatto che questi atteggiamenti genitoriali non sono dovuti a una scarsa attenzione da parte dei genitori, quanto piuttosto ad un malinteso senso di protezione, o ad una volontà malamente applicata di educare all’autonomia del giudizio. «Però carenze educative – sostiene Gasparini – possono prodursi più frequentemente anche senza una base teorica, ma per cause diverse: situazioni sociofamiliari, famiglie disunite, genitori iperprotettivi, troppo arrendevoli ai desideri dei figli. In tal modo non si rinforza il loro carattere. Per crescere il bambino deve invece imparare ad ubbidire, a rinunciare ad un gioco, ad un divertimento, dev’essere indotto al giusto superamento delle difficoltà, perché solo in questa maniera gli si possono offrire occasioni per un corretto esercizio della volontà. Le conseguenze di questi comportamenti si noteranno subito, ma saranno più gravi in seguito, quando gli incontri con i coetanei diverranno veri e propri scontri». Infatti «non esiste educazione senza limitazione degli impulsi e non esiste sviluppo senza rinuncia o sacrificio». Modelli educativi lassisti generano bambini fragili e di carattere debole. È stato anche merito di Gasparini aver redatto questa voce in un periodo in cui l’influenza delle idee libertarie dei “sessantottini” era ancora forte: oggi fortunatamente da più parti si stanno levando voci autorevoli per richiamare l’attenzione di genitori, insegnanti, ma anche mezzi di comunicazione di massa sulla necessità di guidare, certamente con dolcezza, ma se necessario con fermezza, la formazione dei giovani, perché altrimenti essi crescono con una personalità debole. Loredana Czerwinsky Domenis, già associata di Psicologia dello sviluppo e dell’educazione e ordinaria di Pedagogia Sperimentale all’Università degli Studi di Trieste, ha intitolato il suo intervento Due note per ravvivare un ricordo. La Domenis spiega di aver conosciuto il professor Gasparini da studentessa e di averlo poi apprezzato come collega, sempre attento e partecipe, nei primi anni della sua carriera universitaria. Erano gli anni in cui affrontava le sue prime ricerche sperimentali che si incentravano sui processi psicologici coinvolti nella lettura. Ricorda di aver acquisito, in quegli anni iniziali, da una parte il rigore della precisione della ricerca in laboratorio, grazie soprattutto a Giorgio Tampieri, ma
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nel contempo di aver imparato a non trascurare mai il senso della concretezza dei problemi esaminati e questo lo dovette in buona parte al suo confrontarsi con le osservazioni sempre puntuali di Duilio, che – grazie alla sua esperienza diretta nella scuola – poneva sempre questioni concrete di bambini e insegnanti nel contesto inscindibile di apprendimento/ insegnamento tipico della quotidianità scolastica. La Domenis dice anche che avrebbe scoperto, in quei primi anni, che la ricerca non doveva essere intesa come conferma di una ipotesi già precostituita. Soprattutto avrebbe acquisito il gusto per la scoperta del nuovo e dell’inaspettato che trasformano la ricerca da un’attività di scrupolosa verifica in un’attività stimolante e creativa. Passando all’oggi, proprio grazie a quell’esperienza lontana, la Domenis dichiara di essersi trovata in piena sintonia con il titolo – Le dimensioni dell’educare e il gusto della scoperta nella ricerca – che i colleghi di Genova avevano scelto di dare al libro in memoria di Gasparini. Per preparare questo suo intervento aveva riletto il contributo sui pedagogisti del gioco che Duilio le aveva inviato alcuni anni prima per il libro in onore di Giorgio Tampieri. Già dalle prime righe di quello scritto si era ritrovata subito in sintonia con Duilio – come nel vecchio Istituto – quando affermava che «fondamentale nel gioco deve essere l’assenza di costrizione e che il bambino deve credere di giocare senza che nessuno lo costringa». La Domenis racconta che queste affermazioni sul gioco relative all’assenza di costrizione, le avrebbe utilizzate come sue quando dovette affrontare il tema della “disponibilità alla lettura”, dimenticando che le aveva già trovate in Gasparini, e aveva dovuto spiegare che per creare un rapporto di amicizia con il libro è sempre necessario che il bambino lo scelga, lo sfogli, lo legga in piena libertà. Da questo ricordo la relatrice trae una riflessione: ognuno di noi ha delle idee, dei convincimenti che ritiene propri e che costituiscono il proprio essere intimo e profondo, mentre invece la loro origine va cercata in altre persone. E questi altri sono i nostri veri maestri, perché ci hanno dato qualcosa che è diventata nostra, ma poi si sono ritirati dal nostro ricordo. Annamaria Griselli, ricercatrice di Didattica delle lingue straniere, allieva di Gasparini, ricorda il lavoro di ricerca che aveva dovuto svolgere per la preparazione della propria tesi di laurea. Per merito dei suoi studi all’estero la Griselli conosceva bene la lingua inglese e Gasparini, le aveva proposto, come argomento di tesi, di tradurre e commentare gli scritti inediti di un educatore italo-americano, discepolo di John Dewey, Angelo Patri, originario del Salernitano, ma profondamente radicato nella cultura pedagogica degli Stati Uniti del suo tempo. Entrata a far parte dell’Istituto di Pedagogia era sempre stato Gasparini a spronarla verso le lingue ed in particolare l’insegnamento delle lingue straniere. La Griselli ricorda, a questo proposito, che Gasparini aveva sempre
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dimostrato interesse per la lingua, che per lui rappresentava il veicolo principe della comunicazione interpersonale e lo strumento ineliminabile dell’insegnamento e della formazione, e la lingua straniera costituiva una possibilità unica di ampliamento di tale capacità di comunicazione e di rapporto ed un mezzo insostituibile di arricchimento del pensiero. Nel suo intervento ricorda anche un libro poco noto del suo maestro, Il filo di Ariella. Osservazioni pedagogiche sull’apprendimento linguistico (1980, Genova, Bozzi), dove Gasparini, presentando il processo di apprendimento della parola di una bambina, Ariella, registrato puntualmente dalla sua mamma per 18 mesi, fino ai due anni di età, dimostra l’importanza (già dai primi anni di vita) di una adeguata e ben strutturata educazione linguistica, nonché il ruolo dell’ambiente e quello dell’eredità genetica per potenziare lo sviluppo mentale del bambino. La Griselli segnala anche l’attenzione che Gasparini aveva posto su due aspetti della comunicazione verbale, per lui fondamentali ai fini dell’apprendimento del linguaggio: il dialogo e la conversazione e ricorda la sua difesa del dialetto nei confronti di quanti ne condannavano l’uso, non tanto per motivi di ricupero, quanto piuttosto per ragioni psicologiche, nel senso che il bambino, se lo ha imparato in casa e se ne serve, «ne trae un senso di stabilità e di sicurezza essenziale per uno sviluppo equilibrato». Gianfranco Spiazzi, già docente a contratto di Storia della Pedagogia e Storia della scuola nell’Ateneo triestino, inizia con un ricordo personale e racconta che era stato Gasparini a spingerlo a fare domanda di partecipazione al concorso per Direttore didattico, fornendogli preziose indicazioni per la preparazione. Eppure più che la sua insistenza era valsa a convincerlo la sua stessa figura di uomo colto, competente, sicuro nella conduzione della scuola, autorevole, capace di indirizzare il lavoro degli insegnanti e di incidere positivamente sulla vita socioculturale del rione, allora povero e depresso, affidato alle sue cure. Venendo poi ai lavori di ricerca di Gasparini, Spiazzi dichiara di ritenere che la sua opera storiografica non abbia uguali nel panorama italiano di storia della pedagogia della seconda metà del secolo scorso e che il monumentale lavoro su Fröbel (Grazzini, Gasparini, 1999) sia l’unico che abbia tutte le carte in regola per essere accolto come punto di riferimento imprescindibile oltre i confini patri. Per Spiazzi possiamo solo accennare ai molti vincoli che affliggono la ricerca di storia della pedagogia in Italia, sostanzialmente riportabili alla marginalità odierna di tale disciplina, sia nei piani di studio delle università che nei programmi dei concorsi per insegnanti. Questa tendenza contagia un po’ tutti e nemmeno Duilio Gasparini ne era stato esente quando, vent’anni prima, aveva prodotto un lavoro, pubblicato in due diverse versioni su altrettante riviste cattoliche, incentrato sulle utopie e sui loro risvolti educativi (Gasparini, 1992 a, b; 1993 a, b; 1994 a, b) e proprio a quel lavoro Spiazzi
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aveva dedicato il contributo che egli aveva preparato per il libro Le dimensioni dell’educare e il gusto della scoperta nella ricerca. «A chi leggerà quel mio articolo – continua Spiazzi – risulterà evidente la mia diffidenza verso qualunque forma di utopia in cui vedo la matrice delle ideologie totalitarie che hanno insanguinato il ventesimo secolo e si sono tutte concluse con uno spaventoso fallimento. Quanto ai risvolti educativi, trovo nella letteratura utopica il germe di quelle idee, a mio giudizio sbagliate, che hanno improntato la politica scolastica italiana dopo il 1970 e per almeno un ventennio». Assai diverso e molto più complesso risulta l’atteggiamento di Gasparini: egli non era affatto attratto dalle utopie e dalle ideologie otto-novecentesche che le avevano continuate in forme più mature. Ciò che gli piaceva era l’anelito utopico di tanti giovani, spesso i più generosi e vivaci, e la loro volontà di costruire un futuro più giusto, più pacifico, più in armonia con la natura. Il suo discorso non si rivolgeva direttamente ai giovani, ma ai loro educatori: professori, guide spirituali, animatori della vita associativa, il cui compito – pensa Gasparini – è di riuscire ad instaurare un dialogo senza ritrarsi dinnanzi agli eroici furori giovanili. In questo quadro la storia dell’utopia serve a mostrare che il desiderio di edificare un mondo migliore percorre quanto meno tutta l’età moderna e dovrebbe – aggiunge Spiazzi – rendere evidente lo scarto che sempre c’è tra la bontà delle aspirazioni e l’inadeguatezza dei mezzi (ordinamenti, forme di governo, indirizzi educativi) che vengono proposti per realizzarle. Anna Rosa Stalio, docente a contratto a Trieste di Pedagogia della scuola e delle istituzioni educative, ritiene di dover mettere in evidenza una tematica particolarmente cara a Gasparini: quella della valutazione. Per lui era importante non fermarsi alla prima fase della valutazione, cioè alla verifica, ma capire il senso di quel risultato e decidere cosa si valuta: il prodotto o il processo. L’insegnante, ricordava spesso Duilio Gasparini, non è un giudice ma un educatore che deve rilevare il cambiamento e trarne le debite conclusioni per le sue scelte future di progettazione e di programmazione. In quest’ottica il voto o il giudizio non diventano il riconoscimento dell’autorità di un docente. Significative le riflessioni di Duilio Gasparini quando affermava che la problematica della valutazione non si risolve con il promuovere o con il bocciare uno scolaro, quanto piuttosto con il favorire, lo stimolare e l’aiutare il suo sviluppo e la sua promozione culturale e sociale. La valutazione non va utilizzata quindi come classificazione di un prodotto finito, ma si realizza come impegno e ricerca continua in riferimento agli obiettivi formativi di ogni alunno, perché non si tratta di realizzare una scuola facile, ma una scuola migliore. Matteo Cornacchia, ricercatore confermato di Pedagogia generale e sociale, mette in luce un altro aspetto della ricerca di Gasparini e segnala
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di aver colto, non senza sorpresa, che in un saggio poco conosciuto del docente triestino, Struttura e organizzazione del sistema educativo complesso (1977, Lecce, Milella), erano già presenti spunti e osservazioni sul problema dell’organizzazione della scuola che solo oggi sono all’ordine del giorno della ricerca. Gli ultimi tre interventi a chiusura del Convegno sono le testimonianze di un ispettore scolastico, Ermanno Crevatin, amico di Gasparini, e di due signore di grande nobiltà d’animo: Maria Clotilde Giuliani Balestrino, ordinaria di Geografia a Genova, e la moglie di Gasparini, Giovanna Imperatori. Per la Giuliani «Duilio era lo specchio della città da cui proveniva e di cui tanto bene incarnava lo spirito, la cultura, l’onestà e il nitore intellettuale. Si sentiva in lui la gioia della ricerca, delle puntualizzazioni, delle interpretazioni più lucide, profonde e aderenti allo spirito degli autori, di cui con pazienza certosina sviscerava riga per riga i testi». Racconta di aver conosciuto Gasparini a Genova, dov’era appena approdato, nei primi anni settanta, e lei era da poco libera docente. Ne ricorda la rara signorilità della figura ed il tratto fine ed ironico, pronto alla battuta: persona cara che aveva saputo lasciare il segno nella propria disciplina, ma soprattutto nel cuore dei suoi amici, «dove con “intelletto d’amore” ha guadagnato un posto privilegiato». Racconta anche che a Genova, nei primi anni settanta, durante i Consigli di Facoltà, gli scontri con i professori sessantottini erano violenti e che, con lei, egli era stato il solo ad alzarsi in piedi e uscire per protesta, nel corso di un duro confronto, quando, inaspettatamente, era stata data lettura di una lettera ingiuriosa di un gruppo di giovani che si erano dichiarati studenti, ma che non erano poi neanche tali. Commossa per le testimonianze di stima e di riconoscenza rivolte al marito, Giovanna Imperatori ringrazia tutti i relatori e ricorda l’affetto di Duilio per Trieste, sua città natale, e per Genova, città adottiva. In particolare rivolge il suo grazie ai due curatori del volume in onore del marito, Luciano Malusa e Olga Rossi Cassottana. Li ringrazia anche per il Convegno di Genova, che aveva preceduto quello di Trieste. Il libro ed i due Convegni, insieme, avevano saputo ben presentare l’itinerario umano, culturale e pedagogico-didattico di Duilio. La signora Giovanna ha rammentato che il marito, nel suo lungo lavoro di ricerca, aveva analizzato «storie di identità e di confini che convergono verso un medesimo orizzonte educativo» spaziando in culture altrettanto differenti, sia del mondo classico sia di quello mitteleuropeo. Ha poi continuato il suo intervento con un cenno «all’eredità scientifica ed umana del marito, illuminata da valori spirituali, lontano dalla pubblicità e ricco di umanità». Infine rammenta «la signorilità del suo comportamento: lontano della pubblicità, rispettoso delle persone e dei valori della loro individualità, disponibile all’ascolto e al dialogo, pronto a incoraggiare e aiu-
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tare, sempre coinvolto con scrupolosità negli studi e nelle ricerche nelle biblioteche di tutto il mondo». Rivela, infine, che egli, per il suo carattere sempre gioioso e allegro, si ritrovava nella preghiera per il buonumore di S. Tomaso Moro, il grande umanista inglese del 1500, che teneva appesa vicino al letto: «Signore, donami la salute del corpo con il buonumore necessario per mantenerla. Donami un’anima che non conosca la noia, i brontolamenti, i sospiri e i lamenti e non permettere che io mi crucci eccessivamente per quella cosa troppo invadente che si chiama “io”. Signore, donami il senso del ridicolo. Concedimi la grazia di comprendere uno scherzo, affinché conosca nella vita un poco di gioia e possa farne parte anche agli altri».
Bibliografia GASPARINI, D. (1989), «Diseducazione», in M. Laeng (diretta da), Enciclopedia pedagogica, n. 2, Brescia, La Scuola, 3942. — (1990), «I paradossi della valutazione», in Scuola Italiana Moderna, 99, 21. — (1992a), «Educazione e utopia da Th. Moro a F. Bacone», in Pedagogia e vita, n. 4, 24-38. — (1992b), «Educazione e utopia da Fénelon a B.F. Skinner», in Pedagogia e vita, n. 5, 24-48. — (1993a), «Viaggio nell’utopia pedagogica: Thomas More», in Cultura e educazione, n. 1, 29-33. — (1993b), «Viaggio nell’utopia pedagogica: Tommaso Campanella e Francis Bacon», in Cultura e educazione, n. 2, 21-33. — (1994a), «Viaggio nell’utopia pedagogica: F. Fénelon e E. Canet», in Cultura e educazione, n. 5, 33-37. — (1994b), «Viaggio nell’utopia pedagogica: B.F. Skinner – Conclusioni», in Cultura e educazione, n. 4, 35-38. GRAZZINI, M., GASPARINI, D. (1999), Il grande Fröbel delle opere minori, 2 voll., Brescia, Istituto di Mompiano, Centro Studi pedagogici “Pasquali-Agazzi”, Comune di Brescia.
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AESTHETIC EDUCATION AS EDUCATION TO COMPLEXITY: BETWEEN MIMESIS AND CRITICAL THOUGHT Federica Goffi Riassunto: L’educazione estetica in un’epoca di esteticità diffusa è un utile strumento per educare alla complessità e per affrontare la sfida della globalità. La dimensione dell’aisthesis intrattiene uno stretto rapporto con la corporeità, consentendo applicazioni didattiche incentrate sulla narratività e sull’espressività gestuale. Inoltre, rivisitando l’antico concetto di mimesis, anche alla luce delle più recenti teorie sulla didattica, è possibile introdurre la tematica dell’esemplarità del maestro, a partire dal concetto kantiano di esemplarità del giudizio di gusto. Il fondamento biologico della stessa azione didattica risulta particolarmente significativo in un’epoca in cui l’Art Education si sta assimilando sempre di più alla Media Education, in seguito alla diffusione delle moderne tecnologie anche nel panorama artistico contemporaneo. Abstract: Aesthetic education, in a widespread aesthetic age, is a useful tool for the education to complexity and for the facing of the global challenge. The aesthesis dimension entertains a tight relationship with corporality, allowing didactic applications based on narration and on gestural expressivity. Moreover, revisiting the ancient concept of mimesis, also under the light of more recent theories on didactics, it is possible to introduce the theme of exemplarity of the educator, starting from the kantian concept of exemplarity of judgment of taste. The biological root of the didactic action itself results particularly meaningful in an age in which Art Education is getting more and more similar to Media Education, consequently to the spreading of modern technologies even in the contemporary artistic scenario. Key words: complexity, aesthetic education, example, mimesis, media education.
1. Aesthetics and complexity: what relationship? Postmodern age, after the spread of mass media, is characterized by what we can define as widespread aesthetics, a feature which appears to be typical of our complex society. As E. Morin states, the typical developments of our century and of our planetary era make us face, more often and more inevitably, the challenge of globalism, which is at the same time the challenge of complexity. Complexity can be found wherever there
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is the necessity to keep together all the different components of a given whole, and from this point of view even the subject in formation can be read as a complex phenomenon, rooted in the Lebensewelt, in the living and concrete experience where body and mind, cognitions and affections result as dividable components exclusively in the abstract. J. Dewey had already stressed on the power the aesthetic experience has to “fade” the distances between subject and object, between the self and the environment, in order to transmit the meaning of the concept of experience itself. Taking into consideration what he writes in Art as experience, we can say that during the aesthetic experience something happens to what concerns the motor perception, so that the entire body has perceptions. Dewey underlines that in regard to an expressive subject, the perception is made more intense by the existence of pre-formed complex engines, of pre-made indirect response channels: «there must be indirect and collateral channels of response prepared in advance in the case of one who really sees the pictures or hears the music. This motor preparation is a large part of the esthetic education in any particular line» (Dewey, 2006, 103). On the one hand, these motor reaction ways are innate and present since birth, on the other hand, they are due to the education through experience. Intelligent actions are based on organic actions, and it is in this very bound that the relationship of the mind with the nature and body can be identified, so that the philosopher and pedagogist can conclude that often the interconnection becomes tighter in those decisions or actions which, instead, the subject reckons as the product of a high level of awareness. Meaning, in order to achieve a high level of awareness, needs to hold tight relationships with the physical dimension too. The latter seems to evoke the concept of intentionality of phenomenology, for which the moment of perception is fundamental: every conscience is to some extent a perceptive conscience, as M. Merleau-Ponty states, and it is a belonging to things through the body. M.R. Strollo affirms that since the beginning of the 70’s pedagogy has consisted of two approaches, the philosophical approach and the psycho-cognitive one, calling into question the classical question of the domain of what is biological and what is cultural into human action. Particularly popular is now the enactive approach which gives a central role to intentionality even in the field of cognitive processes. According to this approach, perception cannot be explained independently from the subject which perceives, from its sensory-motor structure and from the environment around. Perception is not just limited to representation, but it contributes to the enaction/production of the world around. Moreover, with the theory of the mirror neurons, which recalls names such as V. Gallese, G. Rizzolatti, D. Freedberg, we can reconnect with phenomenology. In fact, although the meaning of an action
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equals its interior simulation, through a mechanism which is non conscious, automatic and pre-linguistic of embodied simulation, the point of higher difficulty lays in the explanation of the transition from meaning to sense, and this demonstrates the coherence of the discourse faced so far. The context comes into play given that the meaning of a gesture, in fact, also depends on the observer’s answer and on the receiver’s interpretation; Rizzolatti and Sinigaglia, indeed, discuss the influence of the context. Neurosciences resolve this impasse breaking down the context into small elementary gestures, identifying it with the sum of discreet elements. Phenomenology, instead, resolves everything with the concept of intentionality, which allows the sense to be transmitted in the act of communication. From Autopoiesi e cognizione by F. Varela and H. Maturana, we can deduce that if poiesis is living, everyone’s productive moving, the autopoietic world is a project of reconciliation with the world of life which influences the project because through symbols it unreels the man into the future, where his choices are influenced by the environment in which he belongs. According to Varela without this emotional dimension, for too long barely taken into consideration, practiced pedagogy is that of an abstract individual, without an emotional project. Therefore, the unapproachable sense to the intellect completes and addresses itself through aesthetics. Dallari argues that «[…] from the doors and windows that identity can open up on the universe, not only can an eventuality of relationship with the other individual be born, but also the possibility to feel isopoietically in relation with everything which is other from the self […]» (Dallari, 1995, 3). Individual actions and future projects of the subjects in formation should, therefore, emerge from a type of relationship between the individual and the environment which favours originality, rather than a passive adjustment to social and cultural norms of a given society. Studies by M. Mencarelli, L. Rosati and J.S. Bruner, show how creativity consists of the resolution of the contrast between two cultures, the humanistic and the scientific one, in other words it shows how the adoption of an interdisciplinary attitude is central to an education to creativity. It is not random that this contributes to the epistemology of complexity, which should have the reorganization of knowledge as an objective, putting in place that reform of thought, mentioned by Morin, which would allow the full employment of intelligence and the alliance of two loose cultures. What is meant by cognitive democracy then, also based on the concept of cultural imprinting by Morin, is the subject’s capacity and possibility of a critical projection of his own self, independently from historical and cultural influences or pressures. It is within this context that the
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role of the virtual and the possible stands out. G.M. Bertin argues that «intensifying ghoulishness means dominating and strengthening the psychological anxiousness in which it reflects itself (in the temporal dimension of the inner duration – meant in a bergsonian way), so that, denying inaction and the spirit of adaptation and compromise, it can dilate (in a direction which has its symbol in the open space) beyond individual or group egocentricity, in all aspects in which this threatens to close personal life» (Bertin, 1974, 227). Moreover, Giambalvo connects creativity to the discovery of the self: «it follows that creativity can emerge especially from the quest for the self in the self, from the interior maceration, from the progressive conquest of the own singularity, which is historical formation» (Giambalvo, 1984, 100). Autobiography, consequently, gains a fundamental importance in an age like the postmodern one which exposes subjects to an adventure which is always open to the discovery of one’s identity. The autobiographical practice concerning both autobiography and self portrait is also examined by D. Demetrio in the moment in which it tries to make the relationship between reality and fiction stand out: in the narration of one’s self experience the subject could encounter a form of protective shield of the real self, therefore turning into mystification. The pedagogist therefore talks about a self reflecting and self reflective game, which leads to invention and he himself defines as pedagogy of caution, operation of mimesis and tricks of mirrors. This is how a further connection between pedagogy and aesthetics is created. According to Dallari «the meta cognitive dimension which is generated in the educational context characterized by narration proves to be the capacity to exert and use a symbolic, metaphorical, lateral thought and to think and communicate in a story telling way» (Dallari, 2005, 11).
2. Didactic perspectives on aesthetic education: a revaluation of the concept of mimesis Reflecting on the concept of aesthetic education, meaning with this a transversal methodology of teaching, and not just education through art, it is visible that a certain interest for the body, for the autobiographical discourse and for a narrative methodology have a central role. From here stems the interest for the figure of the educator, which makes an entrance with his own body also recurring to an affective rhetoric, therefore giving an example of authenticity. Using the contribution of G. Peters, an interesting concept of aesthetic education can be found since I. Kant and F. Schiller. The latter for the power conferred to body language, and Kant for the productive role given to judgment of taste. In the Appendix on the methodology
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concerning taste, starting from the fact that judgement of taste is not based on concepts, Kant claims that «so in fine art there is only manner (modus) and method (methodus)» (Kant, 1987, 230), and in the following sentences he states that the educator has to show the pupils what needs to be done and how to do it, but he should not impose rules which would asphyxiate the genius. Art, in fact, tends to an ideal but will never be able to fully reach it with practice, therefore «the master must stimulate the student’s imagination until it becomes commensurate with a given concept; he must inform the student if the latter has not adequately expressed the idea, the idea that even the concept cannot reach because the idea is aesthetic; and he must provide the student with sharp criticism. For only in this way can the master keep the student from immediately treating the examples offered him as if they were archetypes, models that he should imitate as if they were not subject to a still higher standard and to his own judgment […]» (Ibidem, 231). Since Kant, in fact, judgment of taste, with the concept of exemplary necessity, is an important moment of the intersubjective community but at the same time it educates on autonomy of judgment. The model we have just discussed, the one offered by the educator and compared to the kantian concept of “example”, consists in the possibility for the student to follow the reflexive model of the teacher. The pupil should receive from the work of art and not from what others have received from it. The repetion of artistic products then results as fundamental for the production of the difference, and this is where the importance of the concept of hermeneutic appropriation by P. Ricoeur can be placed. Having recalled hermeneutics, we can see that H.R. Jauss considers the concept of the kantian exemplar that element which allows the connection to aesthetics. It is associated with ambiguity of the aesthetic experience as it includes two possibilities: the free and active comprehension through the example and the servile execution of a rule. Free emulation would then be very different from servile imitation. From here it emerges that the influx which the products of exemplary authors can have on others is the following and not the imitation: following is the manner which they had in the production of the work of art, drawing from their own sources. The exemplar can then be defined as the living representation of the moral principles which arouses the interest in following certain actions. Now, the interesting aspect is that we can talk about mimesis even for what concerns narrative methodology, which we have seen to central for aesthetic education. As highlighted by A. Marà, society is based on the individuality of the mimesis, that poietic/practical margin in respect to the context in which we belong which demonstrates its singular productivity. Expanding the relationship between the subject and its own nar-
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ration to the educative relation, comparison made possible by the great attention given to one’s personal experience in this context, «[…] the relation becomes centred not just on the transmission of knowledge, but on the imitative relation which would underline its asymmetry» (Marà, 2004, 109). The learning reader retraces the teacher’s narration and since then a new quest for sense and authenticity begins, but what he experiences is “unspeakable” as it consists of the belonging to one’s own. The quest for the self, in fact, takes place between universality and singularity. «The experience of the quest for the self aims to stability, to the universal which in the same way can be called soul or conscience. Creativity as it belongs to everyone’s life, although it remains untranslatable, sends back to the fate of one’s own as its origin» (Ibidem). Narrative methodology allows us, therefore, to face the relation between the formation of the self and cultural reality: the creative drive is the remaining of one’s own, it consists of the unshakeable individuality to one’s own cultural context, even if linked to it as the possibility of comprehension. Images and narrations prove to be, then, masks of one’s own, means to express the unspeakable related to an authentic aspect but unknown to our own identity. In this sense, the concept of mimesis1 means making experience of the self through the teacher’s figure: it means to follow the example and, therefore, the judgment of the teacher to reach one’s own autonomy of judgment. The concept of mimesis acquires a rather productive role, instead of an imitative one. It is important, though, that the educator comes into scene with his own corporality, offering the pupil a language, a voice which becomes body and nevertheless evidence. Primarily on these aspects it seems to take place an application of mimesis in the educative field as studies by G. Scaramuzzo show; from an analysis of the mimesis’ laboratory, it emerges that «mimesis is the bridge which connects experience to imagination, allowing man to try the living there where he has not lived» (Scaramuzzo, 2011, 73). It is through the body and a word2 which becomes body which the man is formed, and so becomes a unique and unrepeatable being. Man’s mimetic vocation, is present since birth; the child who plays “as if”, or who communicates conjugating words and gestures, proves to own an innate predisposition towards mimesis, which according to Scaramuzzo could become a device to know the other, a meeting which starts from a deep corporal movement which nearly becomes feeling. The matter now is to understand whether an innate anthropologic expressivity, with a pedagogic aim and which could use the relationship between body and word, exists. Becoming similar with gestures and/or voice to someone or something is mimesis for Plato, as for the theorists of the mirror neurons movement is the place for comprehension. Education is, therefore, the creation of that alliance of logic
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and rational part which can be verified in art. With mimesis3 there is the possibility of real assimilation to someone in order to understand them, privileging especially in the age of complexity the revaluation of human dimension as a holistic component which can be placed before any strict distinction. Moreover, mimesis has the power to transform itself into “poietic action”, encouraging the pupil to become a protagonist of his own personal intention. Within the concept of “exemplary causality” there is the affirmation of educative effectiveness of the example, because «congruous stories, confidences and “ideas” of the educator have to reach the pupil vivified through his person in order to be educationally effective: this is in the concept of exemplary causality itself» (Di Vita, 2009, 173). Drawing all the strands together, the genre of the mirror neurons reintegrates «the theme of fiction, of “as if”, of the complexity of the subject in relations to which empathy is a way of access» (Cappelletto, 2009, 155), and this allows us to go back, once again, to the body and the concept of mimesis, with various consequences on the educative sector. Simulation of actions from observation, a phenomenon on which studies on neuroaesthetics are based, is not an unreflected mechanism, nor a voluntary imitation, «but the mental representation of motor programmes without the production of an effective and explicit movement» (Ibidem, 130). Mirror neurons explain the sensible nature of imitation in a way to “embrace” the concept of husserlian intentionality itself. We can, in fact, talk about a motor imagination which is focused on the aim or on the intentionality of an action. «Recognising that the subject’s identity is constructed through mediated and median ways, means introducing a third element between me and the other […]» (Ibidem, 136), which we can identify with desire; the subject waits for another to tell him what to desire: desire has got an imitative nature, we can define it as a model desire. The identity of the subject is, therefore, participated and participative; the act of the observer is constructed as a potential act, and empathy has the capacity to generate metaphors; we can once again affirm that the construction of identity lends itself to the execution of the narrative theme. We can therefore conclude that the imitation is an aesthetic principle4 but also exceedingly formative, so that it is also mentioned in recent researches on didactics5. For what concerns the aesthetic education, we can recall the matter of the loss of exemplarity of the work of art caused by the development of modern technologies and the mass media. In reality, that given factor, which has provoked several changes in contemporary art, is generating more and more the approach of Media Education and Art Education, two tools recognised as equally useful and current to form the subject in the planetary age, justifying the pertinence of aesthetic education as education to complexity.
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Presentazione dell’Autore: Federica Goffi is a doctoral student attending the third year at the doctorate school of the University of Macerata, curriculum Theory of education. Her doctoral dissertation is about the role of the aesthetic experience and education in the phenomenology pedagogy. Notes 1 See
also Castoriadis, C. (1998), L’enigma del soggetto. L’immaginario e le istituzioni, trad. it., Bari, Dedalo, 197, where it is stated that the work of the genius poses new norms and therefore even a model to imitate, but not in the strict sense of the word, given that art, and with it the reception of great art, cannot be explained. Similar concepts are also stated by C. Wulf, Formazione come compito interculturale, in Borrelli, M., Ruhloff, J. (eds.) (1999), La pedagogia tedesca contemporanea, vol. 3, trad. it., Cosenza, Pellegrini Editore. At p. 264 it is written that each individual sends back to a community, or better, to a society in which he, with the help of mimesis, accepts a lot in order to re-elaborate it during the course of his life and to transmit it to other human beings. 2 On poetic word see d’Aniello, F. (2009), Per educare alla poesia, Macerata, EUM. At p. 99, the magic thought is discussed, meaning with it the metaphoric interpretation of the rational and logic thought. Moreover, coherently with the ends of our discours is also the theme, faced by the Author (83-99), of the relationship between divergent thought and social homologation. 3 See Wulf, C. , Mimesis in Early Childhood: Enculturation, Practical knowledge Performativity, in M. Kontopolis, C. Wulf, B. Fichtner, Mimesis. Children art and development, Dordrecht, Springer, 2011, where it is stated that the imitative experience, in infancy, characterizes the development of learning itself; the imitative appropriation of places, rooms and objects is crucially important for the development of the subject. Through this process, accompanied by symbolic representations, the external world becomes part of the internal world, the basis of the emotional and sensory activity of the adult is also constructed here, influencing the aesthetic sensibility and so empathy, affection, pity and love. 4 See Pareyson, L. (1974), Estetica. Teoria della formatività, Firenze, Sansoni. At page 120 we can read that according to the philosopher finding a model always means, deeply, finding one’s own model. 5 See De Santis, M., Morganti, A., Rosati, A., Scerbo, L., Smeriglio, D. (2010), Quale didattica, Perugia, Morlacchi Editore. At pp. 46-48 learning through imitation is discussed, in relation to the mechanism of mirror neurons. Imitating the completed acts of others happens in the learning of a new pattern of action, through the mobility of cortical areas with cognitive functions of judgment; Bottero, E. (2003), Il sapere didattico, Bologna, Clueb. In the latter, the Author puts in relation the concept of mimesis with the didactic strategies of laboratory which, as focused on experience, recur to the communicative efficiency of rational gestures of the educator and prove to be particularly suitable for the teaching of poietic knowledge such as art, music, etc.
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IL CORPO VULNERABILE. PRECARIETÀ E RAPPRESENTABILITÀ DELLA VITA IN UN ESEMPIO CINEMATOGRAFICO RECENTE: LA BLESSURE (2005), DI NICOLAS KLOTZ Valentina Domenici Abstract: Starting from the concept of vulnerability theorized and proposed by the feminist philosopher Judith Butler, this essay face the question of the body and corporeality in contemporary western societies – dominated by the obsession of the control and video surveillance – through the analysis of a recent French film, La Blessure (2005). Riassunto: Partendo dal concetto di vulnerabilità teorizzato e proposto dalla filosofa femminista Judith Butler, questo saggio affronta la questione della corporeità nelle odierne società occidentali – caratterizzate dall’ossessione per la videosorveglianza e il controllo – attraverso l’analisi di un film francese recente, La Blessure (2005), che affronta tali argomenti. Parole chiave: Corpo, vulnerabilità, biopolitica, violenza, cinema francese. «Chi conta come persona? Qual è il mondo che viene legittimato come reale?». Judith Butler, Undoing gender
La questione della corporeità concepita come sede dei meccanismi di controllo e delle pratiche identitarie si presenta oggi come qualcosa che continua ancora a “fare problema” e che si intreccia, inevitabilmente, con dinamiche politiche che hanno a che vedere con i diritti umani e la libertà concessa o negata, e con le derive dell’odierna biopolitica. Con l’aumento costante dell’immigrazione verso le zone più ricche del mondo il corpo, inteso come luogo e marca di differenziazione culturale, non è più solo vittima dell’esclusione dai confini di uno Stato, ma diventa anche l’oggetto privilegiato di meccanismi di potere che coinvolgono l’immaginario definendone la costruzione, e stabilendo quindi quali categorie di persone siamo o non siano in grado di accettare all’interno dei nostri quadri epistemologici di riferimento. Il cinema, come del resto i media in generale e le istituzioni scolastiche e formative, è evidentemente coinvolto in tali meccanismi, e può contribuire a modificare in un senso o nell’altro i quadri di percezione attraverso e a partire dai quali osserviamo,
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giudichiamo, valutiamo e sentiamo emotivamente l’attualità che ci circonda. Come è noto, è soprattutto a partire dai “discorsi” di Michel Foucault che il corpo si è fatto lentamente protagonista di una serie crescente di considerazioni riguardanti sempre più le pratiche normative e di normalizzazione. Le principali riflessioni portate avanti su questo soggetto così ampio e così ambiguo hanno evidentemente sorpassato l’idea del corpo concepito secondo una «unità metafisica postulata sull’equilibrio di opposizioni dualistiche contrapposte» (Braidotti, 2002, 150) e hanno gettato luce sulle antinomie discordanti che caratterizzano il corpo considerato come «superficie libidinale, campo di forze, schermo di proiezioni dell’immaginario, luogo di costruzione dell’identità». (Ibidem). Nelle odierne società occidentali il corpo è l’oggetto di un potere non più (solo) repressivo, ma piuttosto coercitivo poiché «“costringe proteggendo” da quelle possibilità che, giudicate svantaggiose per fini che il potere si propone, vengono presentate come pericolose» (Galimberti, 2009, 440) attraverso una politica che sconfina in una retorica sempre più pubblicitaria indirizzata, oggi, soprattutto al rafforzamento dei confini e delle barriere tra un paese e l’altro. L’aspetto protettivo, come aveva già sottolineato Foucault, è anche l’aspetto seducente del potere, con cui esso adduce a sé uomini e cose, garantendo solo apparentemente l’incolumità dei corpi, che per essere controllati devono essere visti continuamente, poiché «solo il fatto di essere visto incessantemente, o di poter comunque essere visto, mantiene il corpo nella disciplina del potere» (Ibidem, 441). Nell’idea di potere formulata da Foucault è implicita, come è noto, una radicale decostruzione del corpo così come era stato tradizionalmente inteso, e una sua ricostruzione come realtà innanzi tutto storica e discorsiva, come sede privilegiata di una serie di pratiche normative di gestione, controllo e correzione. A questo proposito, come è stato messo in evidenza da molti teorici provenienti dagli Studi Culturali quali Stuart Hall, il lavoro di Foucault ha fornito una riflessione critica profonda e imprescindibile ma a volte unidimensionale del soggetto, in quanto ha attribuito al potere una forza per alcuni aspetti monolitica e non suscettibile di grandi cambiamenti1; eppure, ci ricorda Hall, nel corpo è sempre presente anche la possibilità di uno scarto, di una resistenza al potere, che sono alla base di ogni attività di ribellione e di risposta alle pratiche di assoggettamento. È proprio a partire da tale questione che una studiosa come Judith Butler ha proposto in anni recenti una serie di riflessioni relative al rapporto tra soggettività, violenza e norme coercitive nell’attuale epoca post-Undici Settembre, allo scopo di analizzare criticamente il modo in cui si costruisce e si mantiene oggi la legittimazione della violenza da parte degli Stati occidentali. Il punto di partenza e anche di approdo del discorso della Butler2 è esattamente
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quello relativo alla vulnerabilità del corpo, che si traduce nella sua inevitabile esposizione all’esterno e agli altri, e introduce quindi il rischio continuo di venire asserviti, dominati e sfruttati. Judith Butler, che si occupa ormai da tempo dei rapporti e degli scambi tra soggetto, corpo e identità integrando, in particolare, la prospettiva foucaultiana con quella psicoanalitica, trova nella vulnerabilità del corpo l’elemento strutturale dell’essere umano, ciò che lo condanna e nello stesso tempo ciò che può diventare il luogo della sua sopravvivenza, anche in condizioni di estrema e drammatica precarietà. Partendo da un’acuta analisi del libro dell’antropologo Talal Asad dedicato alla questione degli attentati suicidi visti come un fenomeno sociale, J. Butler si sofferma insieme a lui sui diversi tipi di reazione morale che si manifestano solitamente di fronte a tali gesti: la reazione occidentale è spesso di orrore e condanna per atti simili, e invece di maggiore comprensione per la violenza delle guerre di Stato. Vi è indubbiamente uno scarto tra quelle che sono percepite come due distinte tipologie di violenza, di cui la prima risulta ingiustificabile, perché non messa in atto da agenti che si oppongono allo Stato, mentre la seconda più accettabile perché “istituzionale”. La reazione morale occidentale è evidentemente filtrata dai media e quindi culturalmente e socialmente costruita, e spiega perché ci si accosta ad alcune forme di violenza con maggiore o minore orrore, e perché alcune vite (e quindi morti) ci sembrano più importanti e degne di attenzione e partecipazione emotiva di altre. Secondo la Butler la critica alla violenza tout court dovrebbe iniziare con la questione della rappresentabilità della vita stessa, dal momento che è solo a condizione che una vita sia realmente percepibile che si può dare ad essa un certo valore e significato. La studiosa è ben consapevole del fatto che la sola percezione visiva della vita non basta a creare un presupposto necessario per la comprensione della sua precarietà, e che si tratta piuttosto di una sfida aperta a tutte interpretazioni dominanti, che non si limitano a distorcere la percezione, ma prendono forma come percezioni esse stesse. Questo discorso conduce anche verso una riconsiderazione generale del modo in cui viene concettualizzato il corpo nel campo della politica: esso, secondo la definizione di Butler, è sempre «fuori da se stesso, nel mondo degli altri, in uno spazio e in un tempo che non controlla (…)» ma anche «libero nel suo agire, nella sua ricettività, nella sua parola, desiderio e mobilità» (Butler, 2008). Il modo in cui si è percepiti e visti dagli altri, quindi, dipende innanzi tutto dalle reti sociali e politiche in cui il proprio corpo vive e si muove, che tuttavia non possono mai predeterminare totalmente o sotto ogni aspetto la libertà del corpo che si esprime attraverso il suo reagire al mondo e agli altri. Tuttavia, mette in guardia la Butler, alcuni corpi appariranno sempre più precari di altri
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anche a seconda di quali varianti del corpo sostengono o meno quell’idea di vita che è meritevole di essere protetta e salvaguardata e, in caso di morte, compianta adeguatamente. Risuona a questo punto pertinente ed efficace la definizione di vita nuda proposta da Giorgio Agamben, la quale rimanda a tutte quelle vite che restano (per motivi diversi) prive dei diritti umani fondamentali che dovrebbero invece accomunare tutti gli individui, e che spesso sono percepite come una minaccia alla democrazia liberale incentrata sullo Stato e sulla legittimazione della propria violenza. Come denuncia la Butler, infatti, oggi si tende sempre più ad affermare un’idea “normativa” del noi (in riferimento allo Stato-Nazione), che concede un vero riconoscimento solo sulla base della conformità culturale, in assenza della quale si è implicitamente considerati al di fuori dell’umano. Questo procedimento era già stato intravisto da Foucault con la comparsa stessa della popolazione come moderno soggetto politico e rappresenta, nella sua ottica, uno degli eventi cruciali per la definizione del biopotere: il concetto di popolazione, infatti, rimanda a un insieme di individui il cui statuto è, prima che giuridico, biologico; ecco perché la popolazione va continuamente “assicurata”, controllata e rafforzata dagli Stati, evidentemente non attraverso la legge esplicita, ma facendo appello, piuttosto, alla norma implicita di cui parla la Butler. Tornando alla specifica questione del corpo e della sua vulnerabilità e precarietà, è soprattutto nel caso della guerra e della violenza della tortura, in casi quindi di situazioni estreme, che emerge veramente ciò che vuol dire essere esposto agli altri, ma anche, nello stesso tempo, emergono le possibilità di resistenza e le potenzialità del corpo-vita. Judith Butler si serve dell’esempio tristemente noto e recente della guerra statunitense post-Undici Settembre e in particolare della questione dei detenuti afgani a Guantanamo Bay, che durante la prigionia e momenti di torture e soprusi hanno scritto delle poesie che il Ministero americano della Difesa è riuscito a censurare solo in parte. Come ha osservato Slavoj Žižek (Žižek, 2005, 138-143) questi uomini, considerati dei “combattenti illegali” in opposizione ai prigionieri di guerra “regolari”, hanno fatto emergere palesemente la distinzione fatta da Agamben tra i cittadini di pieno diritto e coloro i quali, morti o vivi, non sono nemmeno considerati parte della comunità politica, e per questo vengono ridotti a mero oggetto della biopolitica. Lo statuto che i loro corpi e le loro vite ricoprono è quindi paradossale, così come per Žižek è paradossale, del resto, la guerra stessa contro il terrorismo, definita spesso una guerra umanitaria. Lo studioso parla addirittura dell’avvento di una “post-politica”, che si afferma nel momento in cui la politica tradizionalmente intesa è meramente ridotta alla biopolitica, indirizzata a governare e amministrare la vita nuda. Eppure, proprio in queste vite nude esiste, secondo la Butler, anche la possibilità di una sovversione radicale, di una risposta efficace a ogni
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gestione politica dei corpi. La lettura delle poesie di Guantanamo porta la studiosa ad analizzare la capacità di sopravvivenza della vita nuda, lo sforzo e l’esigenza che questa ha di lasciare non tanto una testimonianza, ma prima di tutto una traccia di umanità anche in condizioni sub-umane. Le parole scritte dai detenuti diventano allora un «segno tracciato da un corpo, un segno che assume su di sé la vita del corpo»(Butler, 2008); è nelle parole, infatti, che il corpo trova una provvisoria sopravvivenza, la possibilità di autodefinirsi come umano anche quando le condizioni non lo permettono e, anzi, minacciano ogni residuo di umanità possibile. Se si cerca un esempio cinematografico che riesca a restituire altrettanto bene visivamente lo sforzo dell’uomo di affermare se stesso in condizioni di precarietà, il lavoro di un cineasta come Nicolas Klotz si distingue all’interno del panorama non solo francese ma anche europeo contemporaneo, non tanto per il coraggio nel denunciare impietosamente i limiti e le contraddizioni di molti degli Stati che si autodefiniscono democratici, quanto per la capacità di raccontare la forza e la dignità di quei corpi esposti alla violenza di cui parla la Butler. Un film, in particolare, La Blessure (2005), segna una linea spartiacque nella filmografia del regista francese, sia per la violenza del tema scelto che per lo stile del film, la cui lunga durata mette già in crisi le abitudini normali di fruizione cinematografica del pubblico. La ferita a cui il titolo fa riferimento è quella fisica e interiore della protagonista, Blandine, una donna africana che lascia la Repubblica democratica del Congo e tenta di entrare in Francia per riabbracciare il marito, un immigrato sans papiers che sta chiedendo asilo, ma che si scontra con un paese che non accoglie e che, anzi, esclude con la violenza. La donna viene letteralmente presa in ostaggio al suo arrivo all’aeroporto di Roissy insieme ad altri immigrati ed è vittima di un abuso di potere da parte della polizia: dopo essere stata colpita e rinchiusa per ore in una stanza di detenzione viene finalmente rilasciata, anche se la vita che l’aspetta negli squat di Parigi non si rivelerà migliore. A partire dal titolo, il film ruota attorno al trauma della protagonista, vittima di una violenza insensata e brutale, che la porta a chiudersi in un mutismo che si scioglierà solo verso la fine; l’oltraggio e l’umiliazione subiti dal corpo di Blandine, infatti, causano un’iniziale assenza di comunicazione tra lei e il marito. Alle domande dell’uomo che vorrebbe sapere cosa le è successo durante quelle ore di detenzione, Blandine non risponde, dimostrando l’impossibilità di testimoniare con parole adeguate quello che le è accaduto. La sua non è una condizione individuale, poiché la accomuna a tanti altri immigrati irregolari costretti come lei a vivere nell’ombra e nell’illegalità, i cui corpi e le cui vite sono particolarmente esposti a una violenza ancora più indicibile perché “istituzionale”. Il silenzio in cui si rinchiude Blandine è rotto un giorno all’improvviso, quando la protagonista riesce finalmente ad esprimere
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tutte le sue emozioni in un lungo monologo, fatto con lo sguardo rivolto emblematicamente verso la macchina da presa e quindi allo spettatore, nel quale descrive ciò che le è accaduto all’aeroporto. Attraverso il racconto e le parole, la donna riesce a esorcizzare le sue paure e inizia ad affrontare per la prima volta il suo trauma; il suo corpo trova nelle parole una sopravvivenza almeno provvisoria, che gli permetterà di andare avanti nella vita quotidiana e di riaprirsi gradualmente al mondo esterno, dal quale si era isolato. Come ha osservato la Butler, l’espressione verbale e soprattutto quella poetica rappresentano dei tentativi di ristabilire la socialità del mondo anche in condizioni precarie e insostenibili, e manifestano l’esigenza umana di lasciare un segno che possa farsi anche testimonianza. La Blessure, del resto, non mostra altro che questo: la lotta tra il potere, che come insegna Foucault è ovunque ci sia innanzi tutto un corpo, e le resistenze del corpo, o meglio dei corpi, che sono nello stesso tempo sia atomi e strumenti del potere, sia oggetti esposti direttamente ai suoi effetti. Tali resistenze del corpo si mostrano nel film non tanto nelle scene particolarmente violente, ma in quelle in cui c’è una sospensione temporale e dell’azione vera e propria. Il corpo di Blandine, ferito e umiliato, diventa la prigione in cui la donna decide di rinchiudersi una volta liberata, poiché conserva la ferita dolorosa di un trauma irrimediabile, da cui si può uscire solo attraverso l’astrazione delle parole che la donna ripete a se stessa, nel gesto dell’auto-raccontarsi cosa le è accaduto. La reazione che la protagonista riesce finalmente ad avere dimostra la capacità di risposta del corpo oltraggiato, la sua perseveranza a vivere nonostante tutto: il corpo, ci ricorda la Butler, esiste e trova un senso proprio nella sua esposizione agli altri, e quindi in alcuni casi anche nella sua vulnerabilità alla violenza, ma ciò non significa che la vulnerabilità possa essere ridotta alla dimensione dell’essere oltraggiato. Lo stato di precarietà diventa in molti casi il presupposto dell’abuso ma anche la condizione di una «capacità di risposta, della formulazione di un’emozione, colta come atto radicale (…) di fronte all’asservimento non voluto» (Butler, 2008). Il monologo di Blandine è anche un dialogo tra lei e lo spettatore, e dimostra il tentativo di Klotz di chiamare in causa il pubblico non come semplice fruitore, ma piuttosto come testimone di ciò che si dipana davanti a lui; si tratta, come ha dichiarato più volte il regista, di lottare contro un certo regime di estetizzazione della politica, che ridurrebbe i corpi feriti all’anonimato di una sofferenza generale e generalizzata. Il suo obiettivo, quindi, è anche quello di superare quella spaccatura tra una violenza giustificabile e una inaccettabile, tra vite nude anonime e “intercambiabili” e vite degne di essere compiante e ricordate in caso di morte, e porre invece l’attenzione sulla questione della violenza come violazione, che può essere attuale, quando si manifesta in modo diretto e in senso corporale, o strutturale, quando si sedimenta nelle
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norme amministrative discriminatorie. Il corpo ferito di Blandine si pone esattamente a metà tra i due tipi di violenza: da un lato è oggetto di una vera e propria aggressione fisica, che si consuma nel silenzio di uno “stato di eccezione”3 senza testimoni esterni, e dall’altro è anche territorio di appartenenza e marca di differenziazione, e per questo subisce le conseguenze della discriminazione e della segregazione che si celano dietro le dinamiche del potere disciplinare. Eppure, nel corso del film, nonostante debbano continuare a condurre una vita precaria ai margini del benessere sociale ed economico, Blandine e suo marito riescono gradualmente a ricostruirsi uno spazio di libertà personale, che inizia là dove si ricrea un sentimento condiviso utile per una riaffermazione del sé, precedentemente negata. È emblematico che le scene che mostrano questa libertà riconquistata, in particolare un lungo piano sequenza che vede la coppia passeggiare e sorridere per la prima volta per strada, siano caratterizzate dalla presenza della musica, che per il resto è quasi completamente assente nel film; è nell’espressione musicale, infatti, così come in quella poetica, che si trova quello che Butler definisce l’appello alla vita e alla sopravvivenza. L’altra sequenza del film in cui è presente una colonna sonora (in questo caso intra-diegetica) è girata in uno degli squat in cui vivono Blandine e altri immigrati africani irregolari, e mostra uno di loro intento a suonare la chitarra e a cantare una canzone araba; la scena, particolarmente suggestiva, rappresenta un momento di sospensione poetica della diegesi, che si rallenta poiché l’azione lascia spazio alla forza poetica della canzone. La musica e la lingua araba del cantante rimandano alle origini lontane degli immigrati, che ascoltano in silenzio la canzone scambiandosi tra loro degli sguardi che mostrano un’appartenenza e un’origine culturale comuni, e quindi un riconoscimento reciproco, con cui riescono nonostante tutto a condividere la precarietà della loro condizione. Questa parentesi musicale rappresenta quella che Butler chiamerebbe il tentativo di formulazione di un’emozione, che prende corpo proprio tra le pareti buie degli squat in cui sono costretti a vivere questi nuovi esclusi delle democrazie occidentali, e che risuona come il loro tentativo di sopravvivere, la loro capacità di risposta alla condizione di moderna “schiavitù”. Se è vero, infatti, che la vulnerabilità dell’uomo comporta sempre in sé il rischio di essere asserviti e sfruttati, è altrettanto vero che essa non pre-determina mai «la forma politica che assumerà tale asservimento» (Butler, 2004, 40). Come nei suoi film successivi, da La question humaine (2007) fino al più recente Low life (2011), Nicolas Klotz ci mostra ancora le vite invisibili delle odierne società occidentali, ma lo fa presentandoci un’umanità forte e vibrante che reagisce combattendo la propria battaglia quotidiana con dignità e consapevolezza.
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Presentazione dell’Autore: Valentina Domenici è dottoressa di ricerca in Cinema presso l’Università degli Studi Roma Tre e l’Università Paris Ouest Nanterre - la Défense. I suoi assi di ricerca vertono prevalentemente sul cinema francese postcoloniale e il cinema europeo contemporaneo, soprattutto in relazione alla questione della diversità culturale. Da tre anni è direttrice artistica di Abstracta, Festival internazionale di cinema sperimentale.
Note 1 Seppur, come è noto, in opere come Surveiller et punir. Naissance de la prison
e Histoire de la sexualité, Foucault ha toccato anche la questione della resistenza all’interno della teoria del potere. 2 Analizzato e sviluppato a più riprese in diversi saggi contenuti soprattutto in due testi fondamentali: Precarious Life: The Powers of Mourning and Violence e Giving an Account on Oneself. 3 La definizione, utilizzata in anni recenti da G. Agamben, designa ogni sospensione temporale del sistema politico e giuridico normale di uno Stato, che si consuma spesso clandestinamente, e della quale sono vittime soprattutto i rifugiati, gli immigrati irregolari, i sans papiers, e chiunque si trovi nella condizione di non poter entrare legalmente in un determinato paese.
Bibliografia AGAMBEN, G., (2003), Stato di eccezione, Torino, Bollati Boringhieri. — (2005), Homo Sacer. Il potere sovrano e la vita nuda, Torino, Einaudi. BRAIDOTTI, R., (2002), Nuovi soggetti nomadi, Roma, Luca Sossella Editore. BUTLER, J. (2004), Vite precarie, Roma, Meltemi. — (2005), Giving an Account on Oneself, New York, Fordham University Press. — (2009), Frames of War: When Is Life Grievable?, New York: Verso. — Vulnerabilità, capacità di sopravvivenza, in: http://www.kainos.it/ numero8/emergenze/butler.html [15/12/2012] GALIMBERTI, U., (2009), Il corpo, Milano, Feltrinelli. ŽIŽEK, S., (2005), Bienvenue dans le désert du réel, Paris, Flammarion.
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M. Piccinno, Coniugalità e genitorialità. Oltre le criticità, verso il progetto, Lecce, PensaMultimedia, 2012. Il volume di Marco Piccinno, strutturato in cinque capitoli e contenente, nell’ultimo, a chiaro completamento ed arricchimento della sua opera, la disamina critica di due casi di disagio mentale connesso alle relazioni familiari, ben affronta il tema della coniugalità e della genitorialità, andando oltre la descrizione teorica della questione oggetto di valutazione. Attraverso uno stile di scrittura lineare e coinvolgente, l’autore sviluppa le dinamiche dominanti della vicenda esistenziale dell’uomo, la quale si invera e realizza nella progettualità, giacché ogni persona è fondamentalmente radicata nel divenire, nella possibilità di diventare altro, secondo una precipua tensione che si profila, come giustamente ricorda Piccino, quale processo di compimento o, meglio, trasformazione che trova il proprio esito naturale nella possibilità dell’individuo di forgiare una forma compiuta di se stesso. Il cambiamento, allora, inteso come luogo generativo dell’umano, finisce con il declinarsi in termini di progettualità. Questa la parola chiave, il termine attorno al quale si muove tutta la riflessione dell’autore, passando attraverso un’acuta descrizione delle tre direttrici mediante le quali si svolge la tensione della progettualità indirizzata al divenire (tensione verso: il dover essere, il poter essere e voler essere). Si tratta di direttrici, che, ovviamente, devono essere considerate come dimensioni intrinsecamente correlate all’atto del progettarsi; tra l’altro, esse, si presentano quali tensioni di imprescindibile valore sotto il profilo evolutivo poiché possono essere funzionali alle ragioni dello sviluppo non solo se tutte presenti, e al contempo, ma anche, e soprattutto, se reciprocamente connesse tra loro. Non è da sottovalutare, infatti, che la loro concomitanza si riveli estremamente utile alle istanze dell’integralità e dell’integrazione (consentendo all’individuo di ancorare la propria esperienza a quelle che, in definitiva, risultano essere le dimensioni cardine del divenire soggettivo – ovvero, quella valoriale, quella esistenziale e quella personale –). Ovviamente, la tensione insita nella progettualità finisce con il coinvolgere i
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sistemi motivazionali del soggetto poiché trova i suoi riscontri nei vissuti di gratificazione, pienezza e autenticità, che accompagnano l’impegno e rendono concrete le scelte del singolo (in termini di corrispondenza tra il rispondere ai valori, il rispondere al mondo ed il rispondere a se stessi). Emerge, chiaramente, che tanto i valori quanto i significati che ciascun individuo attribuisce all’ambiente di appartenenza, a se stesso, agli altri ed al contesto in cui vive ed opera o, ancora, alle situazioni che esperisce, non dipendono certamente da variabili di natura soggettiva, ma piuttosto, dalla qualità delle relazioni che il soggetto pone in essere nell’alveo dei legami parentali. Si capisce, allora, il notevole rilievo attribuito al ruolo delle transazioni familiari nella strutturazione dell’identità di un soggetto, che, ovviamente, si riscontra in ogni stadio dello sviluppo (coinvolgendo tanto le differenti fasi del processo evolutivo quanto i processi di definizione del sé propri dell’identità adulta). La famiglia è giustamente rappresentata come sistema avente i suoi elementi costitutivi non solo nei singoli, ma anche nei raggruppamenti strutturali e funzionali posti al suo interno (si pensi, per questo, ai sottosistemi – coniugale, genitoriale e dei fratelli – puntualmente descritti all’interno del volume), dei quali si esige una chiara definizione dei confini per non inficiare l’equilibrio di quel dinamismo relazionale che è proprio del contesto familiare. D’altro canto, la situazione di equilibrio sussiste nel momento in cui tali sottosistemi sono adeguatamente differenziati, e, al contempo, si presentano in una situazione di interconnessione reciproca. Ben delineata è la descrizione del compito evolutivo dello svincolo (derivante dal comportamento “oppositivo” del figlio in fase adolescenziale, atto a mostrarsi capace di volere qualcosa di “diverso”, se non opposto, alla volontà genitoriale o, meglio, “opposto” a quanto i suoi genitori ritengono debba essere il contenuto legittimo della volontà), che si sostanzia in un processo transazionale attraverso il quale il soggetto può finalmente uscire dal contesto familiare e proiettarsi, quindi, verso la costruzione di nuovi e differenti legami elettivi. Se la famiglia, nell’intento di mantenere vitali assetti relazionali ormai consolidati, utilizza modelli comunicativi “intrusivi” o, ancora, non riesce a sostenere i processi di definizione identitaria del figlio, anche riorganizzandosi secondo modalità e funzioni idonee ad accompagnare il giovane nella sua proiezione “extradomestica”, allora, possono crearsi le condizioni per l’affermarsi di gravi disturbi psichici e mentali (delineati con perizia dall’autore, nel quinto capitolo, a proposito del caso di “Maria” e di quello di “Luisa”). In tal caso, non solo diventa problematico l’assolvimento dei compiti di sviluppo connesso alla specificità delle differenti fasi evolutive, ma si crea una “generica sofferenza” che induce il figlio allo stato di “paziente designato”, sottoposto, quindi, a “patologie cliniche conclamate”. Occorre, a questo punto, definire il compito della coppia sposata
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per adempiere in modo appropriato al proprio ruolo nella tensione relazionale: stabilire connessioni positive con le famiglie di origine (passato) e proporsi come “punto di snodo” (presente) per rilanciare alle nuove generazioni il valore della storia nella quale il nuovo istituto familiare è inserito (futuro); ma, come giustamente rileva Piccinno, tale compito è più arduo di quel che sembri, giacché diventa determinante attivare al contempo la focalizzazione sul passato, quella sul presente e quella sul futuro (evitando degli sbilanciamenti verso una focalizzazione, piuttosto che l’altra), al fine di riattualizzare il legame tra il presente ed il passato, distinguersi dalle famiglie di origine – senza recidere i legami con esse –, e, infine, costruire una relazione equilibrata con la prole sulla base del riconoscimento (fattore caratterizzante la cosiddetta focalizzazione sul futuro). In tale caso specifico, l’atto del riconoscimento non può che sostanziarsi nella disponibilità della coppia “coniugale” a riconoscere nell’altro tanto una realtà distinta e autonoma quanto una “soggettività positiva” e ben connotata in termini di valore (ovvero, intrinsecamente orientata e capace di svilupparsi secondo uno specifico progetto evolutivo, forte del sostegno genitoriale, che ha ancorato la prospettiva del riconoscimento su una duplice polarità – affettiva ed etica –). Questi ed altri sono gli spunti di riflessione proposti dall’autore, con dovizia di particolari e alla luce di una ben ricca e documentata bibliografia. Si pensi al valore della prospettiva temporale (la cui perdita è causa generativa delle insufficienze relazionali) e della lealtà in termini distributivi – e non selettivi – nel processo di valutazione della natura sistemica della famiglia o, ancora, al giusto rilievo da attribuire alla storia familiare (da codificare come fondamento di quelle sicurezze che, poi, consentiranno al giovane di elaborare il proprio modo di “essere nel mondo” in termini di autonomia e di creatività), e, ancora, al ruolo familiare nel compito di prendersi cura dei figli (che trova il suo punto di origine nella prospettiva del dono). Il volume, nel suo complesso, offre utili indicazioni, a volte anche indirette, ma certamente efficaci, al lavoro educativo, tanto per le parti in causa (genitori e figli) quanto per coloro che si occupano della famiglia e delle problematiche ad essa annesse (come i disturbi mentali dovuti ad un rapporto relazionale non equilibrato tra genitori e figli). Del resto, è importante conoscere o, meglio, “riconoscere” le caratteristiche del peculiare profilo assunto nel tempo dalla relazione genitori-figli per “privilegiarla” e, quindi, giustamente “orientarla” nella pratica educativa, e il merito dell’autore risiede, indubbiamente, nell’aver saputo fornire, agli specialisti di settore – e non solo –, lodevoli spunti di riflessione, al riguardo. Gabriella Armenise
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C. Palazzini, Oltre l’emergenza, educare ancora. Il significato autentico, i problemi attuali e le risorse dell’educazione, Assisi, Cittadella Editrice, 2011. Le pagine di questo limpido e profondo volumetto di Chiara Palazzini dedicato all’attualissimo tema dell’“emergenza educativa” – fin troppo declinato nella saggistica contemporanea, che rischia di ridurlo ad un trito e altrettanto inutile e stucchevole luogo comune – costituiscono veramente, per dirla con le parole stesse dell’Autrice, «un piccolo, sincero invito all’impegno, alla fiducia e alla speranza, sorretto da una valida progettualità pedagogica» (p. 101). Impegno, fiducia, speranza sono valori e atteggiamenti irrinunciabili per chi voglia assumere responsabilmente il compito educativo «inteso come atto d’amore verso se stessi, verso gli altri, verso la vita stessa» (p. 100). Da questo punto di vista, «l’urgenza, allora, sta nel ritrovare lo stupore […] per la bellezza della vita ed essere capaci di testimoniarlo ogni giorno» (p. 101). Ma è un’urgenza che richiede di essere tradotta in una progettualità concreta, innervata nel presente, nella realtà quotidiana con tutti i suoi problemi, le sfide, i disvalori, ma allo stesso tempo esplorata e valorizzata nelle sue risorse positive così spesso dimenticate, sommerse, disattese. I tre agili capitoli in cui si articola la trattazione vogliono condurci, “oltre l’emergenza”, ad “educare ancora”. Il sottotitolo del volume indica i passi fondamentali da compiere, senza i quali, nonostante le intenzioni contrarie, rimane forse solo il moralistico “educare si deve”, ma svanisce l’“educare si può”. Occorre anzitutto: riscoprire continuamente il significato autentico dell’educazione, evitando il pericolo di darlo per scontato, oscillando nella prassi tra permissivismi ed autoritarismi di pessima lega o cedendo alla rinuncia e al disorientamento; decifrare con sensibilità e competenza pedagogica gli aspetti problematici dell’educare oggi, in un mondo che cambia a ritmi vertiginosi; puntare sulle risorse più genuine ed efficaci dell’educazione, oggi messe in crisi da una cultura che insensibilmente conduce alla dimenticanza dei valori fondanti: l’amore, soprattutto, il genuino amore educativo, capace di tradursi anche, quando occorra, in norme e regole, a salvaguardia di quel “gioco” estremamente delicato e decisivo che è appunto l’educazione. Ne risulta un piccolo, leggibilissimo trattato sull’educare oggi, scevro di tecnicismi, metodologismi, moralismi, sbavature psicologistiche e quant’altro. Un discorrere sobrio, che si avverte nutrito di competenza pedagogica e di esperienza educativa (nonché clinica), agganciato alla vita e capace di disvelare orizzonti possibili di reale ri-motivazione all’educa-
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re, di una sua radicale ri-fondazione all’interno e attraverso un’autentica rete di collaborazione fra tutte le istituzioni educative. Di particolare pregio, nell’insieme, anche il sagace e puntuale riferimento dell’Autrice al magistero ecclesiale, specie a quello pontificio, che sta arricchendo il discorso sull’educazione con contributi a dir poco sapienti e illuminanti. Maria Marchi
Quinto Tullio Cicerone, Come vincere le elezioni. Un’antica guida per politici moderni, Roma, Armando, 2013, pp. 64. Questo breve ma interessante quanto efficace libro, attribuibile al fratello del più noto Marco, rappresenta un piccolo manuale per condurre, e vincere, una campagna elettorale. A proposito di quest’ultima, ad esempio, in considerazione della sua breve durata, l’Autore mette in guardia il fratello candidato sull’importanza dell’efficacia della comunicazione ai possibili elettori, su come far giungere il messaggio di rappresentare l’homo novus, la novità e il cambiamento, e di come sia necessario mettere tutto il proprio impegno in ogni occasione di discorso pubblico per mettere bene in luce tutte le proprie qualità. I temi trattati sono molteplici, spaziando dall’importanza della capacità di apparire, come abbiamo appena detto, tema quanto mai attuale ancor oggi nella contemporanea società dei massmedia (anche in versione 2.0), alle doti naturali, nonché alle varie strategie da adottare e alle amicizie da consolidare o acquisire e su come difendersi dai nemici. Altri argomenti affrontati concernono il consenso popolare, l’importanza dell’opinione pubblica, cercando appoggi illustri alla propria candidatura e l’importanza in sé della candidatura alla guida di una città come Roma e quello che rappresenta. Le parole dell’Autore, a una rilettura attenta ai giorni nostri, tra l’altro freschi di campagna elettorale appunto, sono quanto mai calzanti, attuali, appropriati. Gabriella Aleandri
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Maria Teresa Moscato, Rita Gatti, Michele Caputo (a cura di), Crescere tra vecchi e nuovi dei. L’esperienza religiosa in prospettiva multidisciplinare, Roma, Armando, 2012, pp. 352. In questo testo viene riportata l’attività di ricerca svolta dal Centro Studi Religione Educazione e Società, attivato nel 2009 presso il Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Bologna. I presupposti di partenza sono stati: la ricerca in merito alla comprensione della religione/religiosità, alla luce anche dell’importante attuale dimensione multiculturale delle società europee e un confronto multidisciplinare in merito. Gli autori dei numerosi saggi presenti nel testo scandagliano da molteplici punti di vista il significato e le declinazioni del senso religioso: da quello teologico e antropologico, a quello filosofico, a quello pedagogico e educativo, a quello psicologico e psicoterapeutico, a quello sociologico. Dopo aver scandagliato tali diverse prospettive, la Moscato, nel saggio conclusivo, ha sottolineato il passaggio da una difficile definizione di “senso religioso” a quella, più praticabile, di “religiosità”, intendendo con essa innanzitutto “un insieme di orientamenti e atteggiamenti, di convinzioni intime e profonde, tali da determinare le costellazioni motivazionali, i criteri di giudizio e le scelte etiche della persona religiosa” (pag. 321). Sebbene l’autrice sia consapevole della non esaustività delle possibili definizioni di religiosità, chiarisce comunque che si riesca in tal modo a distinguere dalle forme di “spiritualismo”, delimitando in tal modo l’oggetto di indagine. Interessanti i dati ricavati dalle analisi delle interviste e questionari somministrati, soprattutto per quel che concerne il rapporto con Dio e con la preghiera. Ultimo spunto di riflessione e stimolo a ulteriori ricerche è rappresentato dalle possibilità offerte dalla narrazione ai fini della formazione della coscienza religiosa e di immagini del divino. Tali analisi hanno offerto informazioni preziose per stimolare una “riflessione sulla possibile riprogettazione di percorsi intenzionali di educazione religiosa” (pag. 346). Gabriella Aleandri
Vittorio Possenti, Il nuovo principio persona, Roma, Armando, 2013, pp. 352. Questa nuova edizione rinnovata, ampliata e integrata rispetto alla prima del 2006, ripercorre i principi e le riflessioni fondamentali
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del personalismo ontologico e del concetto persona, concetto che ha rappresentato un momento fondamentale nella riflessione filosofica e nella storia umana. L’Autore analizza il personalismo attraverso la storia, gli interpreti, le varie declinazioni e sfaccettature. Vengono proposte alcune delle più attuali questioni bioetiche, tra le quali spiccano quelle relative alle nozioni di malattia e terapia, agli scopi della medicina, al concetto di embrione, al ruolo delle tecnologie e delle biotecnologie, al rapporto tra personalismo e pace, tra personalismo e democrazia, per un rinnovato dialogo e incontro tra civiltà, ponendo l’interrogativo se il principio persona sia in grado di dar vita a un nuovo assetto e a una nuova forma di globalizzazione politica che vada oltre gli stati nazionali. Il volume è corredato, inoltre, di due capitoli nuovi che analizzano sia il rapporto tra anima, mente e corpo nella sfida posta dal naturalismo, sia l’apporto dell’antropologia per la democrazia, attraverso la biopolitica: infatti, l’Autore pone il quesito se l’essere umano sia producibile attraverso un’antropotecnica genetica. Infine, ulteriore sfida della contemporaneità è di natura antropologica: la nozione di persona non è forse politicamente importante al pari dell’etica? Gabriella Aleandri
Raniero Regni, Il sole e la storia. Il messaggio educativo di Albert Camus, Roma, Armando, 2012, pp. 192. L’Autore vuole, in questo testo, tracciare una lettura biografica di Camus attraverso i suoi scritti, considerati appunto una sorta di autobiografia interiore, mettendo in luce spunti educativi e possibili suggestioni pedagogiche. La prima immagine che rimane scolpita nel lettore è quella di Camus bambino, povero, ma felice, nella soleggiata Algeri. Pertanto, l’infanzia del filosofo e scrittore francese, così come quella degli altri bambini, è corroborata dalla potenza della luce del sole. L’infanzia viene considerata un periodo fondamentale nella vita di un uomo, come “la presenza dell’avvenire”, che ci accompagnerà sempre nel nostro percorso di vita, nella sua assolutamente peculiare e non delimitabile dimensione spazio-temporale. Tuttavia, poi, la biografia di Camus si dipana lungo il Novecento, secolo ricco di trasformazioni, di contrasti, di guerre, delle grandi ideologie, dei grandi autoritarismi, delle grandi crisi, delle battaglie sociali e culturali. Ma Camus trova nei valori il limite e la difesa dalla distruzione e autodistruzione dell’uomo. La natura umana va rispettata di per sé. E la sfida educativa maggiore,
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secondo il filosofo e scrittore francese, è rappresentata dal suo porsi oltre la secolarizzazione, quale educazione nella modernità, multipla, dal suo porsi oltre la naturalizzazione dello spirito e la biologizzazione della coscienza, quale educazione dell’anima. Infine, Camus, nella sua non longeva vita, lascia incompiuta parte della sua opera e delle sue riflessioni. Tuttavia, alla domanda se ci siano soltanto il sole e la storia, egli risponde che si può andare oltre la storia, oltre e prima della natura; celebre è la sua affermazione: “Si vive nella storia ma si muore fuori di essa”. Gabriella Aleandri
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Francesco Susi
SCRITTURE ADULTE
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L. D’Alonzo V. Mariani G. Zampieri S. Maggiolini (a cura di)
dalla riforma Gentile ai Decreti delegati
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Pedagogisti in azione pp. 256 – € 21,00
Raniero Regni
Francesco Bossio
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M.T. Moscato R. Gatti M. Caputo (a cura di)
Itinerari educativi tra identità alterità e riconoscimento
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Finito di stampare nel mese di dicembre 2012 dalla Tipolitografia CSR - Via di Pietralata, 157 - 00158 Roma Tel. 064182113 (r.a.) - Fax 064506671