Prospettiva EP gennaio aprile 2011

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Anno XXXIV n. 1 Gennaio-Aprile 2011

prospettiva EP Cittadinanza e Costituzione


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Quadrimestrale di Educazione permanente Rivista fondata da Mario Mencarelli gennaio - aprile 2011 - n. 1 Direttore: SIRA SERENELLA MACCHIETTI Comitato Scientifico: FERDINANDO ABBRI, GIUSEPPE ACONE, GABRIELLA ALEANDRI, SERGIO ANGORI, ROSSANA CUCCURULLO, FABRIZIO D’ANIELLO, ANNA GLORIA DEVOTI, ROSETTA FINAZZI SARTOR, FERDINANDO MONTUSCHI, LANFRANCO ROSATI, GIUSEPPE SERAFINI, BIANCA SPADOLINI, GIUSEPPE VICO Redazione: NICOLETTA BELLUGI, SIMONA BERTOLINO, FRANCA PUGNALINI Redazione e direzione: c/o Mencarelli – Via F.lli Bimbi, 20 – 53100 Siena Amministrazione: Armando Armando Editore Viale Trastevere, 236 - 00153 Roma Tel. (06) 5894525 Fax. (06) 5818564 ABBONAMENTI 2011 Abbonamento annuo per l’Italia Un fascicolo Un fascicolo doppio Abbonamento annuo per l’estero

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Autorizzazione del Tribunale n. 70/94 del 23.2.1994 ISSN-1125-39-75


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Quadrimestrale di Educazione permanente Rivista fondata da Mario Mencarelli gennaio - aprile 2011 - n. 1

Cittadinanza e Costituzione «La persona è sostanza di democrazia» (s.s.m.)

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Studi A. CATELANI, L’educazione del cittadino alla legalità A. GIAMBETTI, «Chacun» e «institution» nel pensiero socio-politico di Paul Ricœur S.S. MACCHIETTI, Etica e cittadinanza: le proposte di ieri e le prospettive pedagogiche di oggi N. BELLUGI, Scuola ed educazione alla cittadinanza nella scolarità dell’obbligo S. BERTOLINO, L’educazione alla cittadinanza in oratorio S. ANGORI, La fruizione del patrimonio culturale come elemento costitutivo della cittadinanza

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Ricerche O. AZZOLINI, Dissolvenza dei valori e doveri dell’educazione » C. PREZZOLINI, Arte ed evangelizzazione. Il Mistero dell’incarnazione, passione, morte e risurrezione nel Crocifisso romanico di San Salvatore al Monte Amiata »

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«LA PERSONA È SOSTANZA DI DEMOCRAZIA» Questo fascicolo si pone in un rapporto di coerenza con la ‘vocazione democratica’ di «Prospettiva EP» e con l’attenzione che il suo fondatore Mario Mencarelli ha testimoniato nei confronti dell’educazione alla democrazia, con la certezza che essa non è soltanto un bene acquisito da difendere ma una realtà da costruire e che ognuno è chiamato a costruire. All’educazione, infatti, chiedeva di aiutare l’uomo a conoscersi ed a conoscere e a sentirsi responsabile della propria vita e di quella comunitaria. Alla scuola, quindi, domandava di impegnarsi per rispondere ad una profonda esigenza di redenzione sociale, per evitare emarginazioni, alienazioni e strumentalizzazioni e di educare cittadini capaci di operare per l’affermazione della giustizia, della libertà e della pace e di promuovere il progresso, la civiltà e la cultura. Pertanto invitava gli insegnanti a ‘tradurre i principi di democrazia’ in formazione delle coscienze ed a proporre una cultura civica capace di consentire alla persona di conquistare la capacità «di vivere con sincera partecipazione la vita comunitaria». Oggi, a distanza di più di cinquanta anni dall’inserimento dell’insegnamento dell’educazione civica nella scuola, le attese di Mario Mencarelli sono ancora presenti ed è presente anche il bisogno di promuovere «una diffusa presa di coscienza della necessità di crescere e di vivere come cittadini», disponibili alla partecipazione democratica, capaci di prendere posizione, di testimoniare il coraggio di arginare i processi di deterioramento del tessuto sociale, non limitandosi a reagire perché profondamente convinti del fatto che «la vita democratica attende da ciascuno una capacità proattiva, cioè di progettazione originale e operativa». Pertanto «Prospettiva EP» ha ritenuto opportuno dedicare questo fascicolo alla riflessione sull’insegnamento denominato Cittadinanza e Costituzione (cfr. Legge 10-10-2008) il quale mira alla formazione di cittadini competenti, consapevoli, attivi, partecipativi e solidali. Da questa riflessione sono scaturiti vari articoli che consentono di ricomprendere il ‘valore’ della Costituzione e il significato della cittadinanza dal punto di vista giuridico, da quello filosofico e da quello pedagogico e di formulare proposte educative, coerenti con una antropologia personalistica che postula un’educazione personalizzata, eticamente solida e capace di ‘sostenere’ la formazione del cittadino democratico. Si tratta di proposte culturalmente e pedagogicamente legittimate che non si riferiscono soltanto alla scuola, che sono attente alle varie istituzioni educative e che si collocano nella prospettiva dell’educazione permanente. Pertanto la lettura di questo fascicolo, che presenta contributi che si fanno apprezzare per il loro spessore culturale, per il coraggio e per l’ori-

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ginalità delle loro proposte e per l’attenzione rivolta alle esperienze e ai progetti di educazione alla cittadinanza realizzati nella scuola, può rivelarsi utile agli effetti della formazione iniziale e in servizio degli insegnanti e può orientarli ad ‘autenticare… significati e valori’ ed a costruire un ethos comunitario. s.s.m.

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L’EDUCAZIONE DEL CITTADINO ALLA LEGALITÀ Alessandro Catelani 1. La cittadinanza come status che definisce l’appartenenza del singolo alla collettività statale. 2. L’attività educativa che deve essere svolta dalla collettività statale di appartenenza. 3. I valori morali garantiti dalla Costituzione. 4. Il significato dell’educazione alla legalità. 5. Carattere necessariamente diversificato dei singoli ordinamenti giuridici. 6. Carattere necessariamente diversificato della tutela dei diritti umani. 7. La tutela dei diritti umani nella loro dimensione associata. 8. La cittadinanza europea. 1. Ogni soggetto, in quanto appartiene ad una collettività statale, è dotato della relativa cittadinanza. La cittadinanza definisce la posizione giuridica di ciascun soggetto all’interno di tale collettività. Tale posizione giuridica necessariamente consta di lati attivi e passivi, di diritti e di obblighi, di poteri giuridici e di facoltà, che formano il contenuto di altrettanti rapporti giuridici, che si instaurano con gli altri componenti della comunità. Fra tutti gli status, la cittadinanza appare quello caratterizzato da un’importanza particolare, in quanto rende il soggetto che ne è partecipe, a pieno titolo, parte integrante di un’organizzazione fondamentale per la vita associata, quale è quella statale. La cittadinanza si identifica con l’appartenenza del singolo a tale collettività, dalla quale scaturiscono diritti e doveri di ciascuno nei confronti dei pubblici poteri e degli altri consociati. 2. Il cittadino deve avere coscienza sia dei diritti e dei doveri che gli spettano, sia, prima ancora, delle ragioni che determinano la sua appartenenza allo Stato, e dalla quale derivano queste conseguenze; ed a tale

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scopo deve essere compiuta una adeguata attività formativa ed educativa da parte degli organi statali. L’inserimento nella collettività obbliga la collettività stessa, attraverso i pubblici poteri che la rappresentano, a svolgere un’attività educativa e di formazione, la quale ha lo scopo di preparare il cittadino alla vita della comunità, rendendolo idoneo a svolgere al suo interno un’attività lavorativa che non solo gli è indispensabile per sopravvivere, ma che lo è anche altrettanto «per il progresso materiale e spirituale della società» (art. 4 della Cost., 2° comma). Prima ancora, l’attività educativa e formativa ha lo scopo di educare la persona al rispetto della civile convivenza; civile convivenza che è necessariamente condizionata dal rispetto della vita e della dignità degli altri esseri umani, che si trovano all’interno dello Stato. Ogni attività formativa corrisponde dunque, in primo luogo, ad un’esigenza etica, che è alla base del fondamento stesso della vita associata. L’attività educativa nei confronti dei cittadini deve essere indirizzata a far percepire e rispettare i valori morali della società nella quale essi sono inseriti. La scuola deve impartire un’istruzione che non solo sia culturalmente valida, ma anche che sia valida da un punto di vista formativo, in quanto impartisca un insegnamento conforme ai precetti morali fatti propri dalla Costituzione: alla scuola deve spettare il compito fondamentale di insegnare quei principi di tutela della persona nei quali si sostanziano, come valore assoluto, la libertà e i diritti umani costituzionalmente tutelati. 3. Ogni società si basa fondamentalmente su valori spirituali, e non su valori pratici, e sono quelli spirituali che ne condizionano la validità e la durata: ogni ordinamento giuridico deve fondarsi sul rispetto di certe regole morali, che in quanto non riguardanti la coscienza dei singoli, bensì le relazioni intersoggettive, sono comuni ad ogni cultura, sia religiosa che laica. La presenza, in una società organizzata, di un complesso di valori ideali, è esigenza insopprimibile della natura umana; perché attraverso la vita associata si proietta, si manifesta la personalità dei singoli in un più complesso corpo sociale, il quale non può sussistere su presupposti esclusivamente utilitaristici, ma ha proprie esigenze spirituali, che sono il riflesso di quelle connaturate ai propri componenti. Una società non può esistere garantendo solo il soddisfacimento di necessità materiali. Se mancano i valori spirituali, essa non può durare. Ogni società ha dunque una sua validità sul piano etico che è impossibile cancellare. Ogni espressione di stabile vita associata, l’esistenza di ogni società, si accompagna necessariamente ad un complesso di valori ideali. Non è accidentale che la vita associata sia impregnata di valori ideali; perché a

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fondamento di ogni civile convivenza non vi possono essere solo criteri pratici dettati da esigenze materiali, ma debbono esservi valori dello spirito e principi morali. I valori ideali sono garantiti attraverso la Costituzione. Nella nostra Costituzione, così come in qualunque altra, vi sono aspetti contingenti e valori assoluti. I valori assoluti sono quelli propri degli ideali che hanno ispirato i Padri della Costituente, e che la Carta Costituzionale ha assorbito e fatti propri, come cardine di tutta la vita associata. E tali valori vanno richiamati e resi ancor più vitali nella vita di ogni giorno, nonostante il mutare dei tempi, all’interno della società. Considerare gli aspetti fissi e immutabili della Costituzione, averne coscienza ed applicarli concretamente, è assolutamente indispensabile per garantire la tutela dei diritti umani dei consociati, ed il corretto svolgimento della vita associata, nella quale tale garanzia si traduce. Le norme costituzionali danno giuridica vincolatezza, nei confronti dei cittadini, a valori etici, allo scopo di assicurare un ordinato svolgimento della vita associata. A livello di principi giuridici costituzionalizzati, vengono enunciati espressamente criteri morali che sono alla base della civile convivenza ed a fondamento del diritto stesso. Ed anzi tali principi fondamentali sono – si direbbe – il meccanismo attraverso il quale il pregiuridico diventa giuridico, ossia diritto positivo. I principi giuridici trovano il loro contenuto, la propria giustificazione, in principi pregiuridici di giustizia sostanziale, quali sono appunto i valori etici. Mano a mano che le norme giuridiche da specifiche diventano generali, assumendo i caratteri di principi generali del diritto, esse rispecchiano sempre in maggior misura principi etici e valori assoluti, abbandonando correlativamente il contenuto tecnico insito nella loro particolarità. I principi generali dell’ordinamento, che sono entrati a far parte dei precetti costituzionali, riflettono valori spirituali e morali che sono da ricondurre ad una ben precisa concezione dell’uomo nei rapporti con i suoi simili. È così che l’uomo viene posto al centro dello Stato moderno, ed a sua salvaguardia operano le norme costituzionali. Al livello più alto, la coincidenza tra etica e diritto è necessaria e costante. A livello di principi generali dell’ordinamento, i valori spirituali convergono verso quella tutela della persona umana che può essere garantita soltanto attraverso un contemperamento delle contrapposte sfere giuridiche. In una struttura associata, ciascuno rinuncia ad una parte della propria personalità a favore della collettività nella quale è inserito, per garantire l’esistenza stessa di quest’ultima, la quale gli è indispensabile per sopravvivere. In tal modo, l’osmosi tra il giuridico e il pregiuridico si realizza pienamente nell’ordinamento al vertice della piramide normativa. La supremazia delle norme costituzionali viene fatta valere, all’interno della funzione normativa, attraverso una gerarchia delle fonti, la quale

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si incentra in una differenziazione formale degli atti nei quali le norme sono contenute. L’assorbimento, da parte dell’ordinamento, di norme extragiuridiche, avviene, al vertice della piramide normativa, attraverso i principi generali del diritto che ne fanno proprio il contenuto; così che essi si ripercuotono fino alla base del sistema delle norme, incidendo sulle specifiche disposizioni che ad esse si richiamano. La legge ordinaria che regolamenta i diritti di libertà, e che individua i fini supremi dello Stato – come, ad esempio, la salute delle persone, il benessere economico o la tutela dell’ambiente – si pone in rapporto con i precetti costituzionali, rispetto ai quali ha una funzione attuativa, appunto in quanto subordinata; ed è tale conformità rispetto alle norme superiori che garantisce l’osservanza dei precetti contenuti nella Costituzione, e quindi delle garanzie in essi insite. Le norme giuridiche positive subordinate, alle quali spetta concretamente la regolamentazione dei rapporti intersoggettivi, garantiscono i diritti di libertà dei consociati, in quanto devono essere necessariamente conformi alla Costituzione, e pertanto ai precetti morali che in quella sede sono positivizzati. I valori ideali fatti propri dalla Costituzione sono molteplici, ed ognuno di essi ha il massimo significato sul piano etico. Il rispetto dei diritti inviolabili dell’uomo è garantito dall’art. 2, e dalle molteplici norme sui diritti di libertà, che ne costituiscono altrettante specificazioni. La Costituzione garantisce la vita, l’integrità fisica e la dignità umana, nonché tutte le manifestazioni della personalità di ciascuno. La Costituzione garantisce altresì il lavoro, come elemento cardine e motore della civiltà e del progresso («L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro», art. 1, 2° comma), e tutela il lavoratore attraverso molteplici norme. Al profilo garantista si aggiunge lo Stato sociale, con tutte le sue molteplici previdenze. Viene altresì salvaguardata la cultura, i beni culturali e l’ambiente. Viene vietato ogni genere di discriminazione, ed è favorita la cultura della pace. In modo particolare la democraticità dell’ordinamento consente, attraverso la cittadinanza, la partecipazione alla gestione della cosa pubblica, così da assicurare, attraverso la volontà popolare, tramite gli istituti rappresentativi, la formazione di un indirizzo politico veramente consono alle concrete esigenze della collettività. Il cittadino deve essere educato al rispetto di questi valori, qui sommariamente enunciati, e quali risultano nella loro compiutezza dai precetti della Carta Costituzionale. 4. Ogni attività educativa deve dunque essere rivolta in primo luogo ad insegnare la comprensione e il rispetto di quei valori ideali che sono alla base della civile convivenza di ciascuna collettività statale, e che sono garantiti dalla sua Costituzione; il che non può avvenire che educando al rispetto del principio di legalità.

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Ciò deve accadere facendo da tutti avvertire la portata e il significato del principio di legalità nella vita di relazione. Il diritto si identifica con la legalità, con l’osservanza della legge: lo Stato è di diritto se garantisce la legge, la quale è lo strumento che assicura il rispetto dei diritti umani. Lo Stato assoluto disconosce la validità della legge, e si presta ad abusi, disconoscendo tali diritti. Quello libero e democratico garantisce il rispetto della legge, e con ciò stesso assicura la libertà di tutti. È l’osservanza della legge che garantisce i diritti fondamentali; è la legalità che in quanto tutela della sfera giuridica soggettiva si identifica con la salvaguardia dei diritti umani: il rispetto della legge equivale alla tutela dei diritti fondamentali della persona. Deve essere dunque riaffermata l’importanza, sia sul piano ideale che su quello pratico e concreto, del rispetto della legalità. A prescindere da norme di comportamento che siano giuridiche in quanto espressione della volontà collettiva, ciascuno sarebbe legittimato, dalla società alla quale appartiene, ad agire come meglio crede. Una società nella quale non ci sia la legge come espressione della volontà collettiva, che in quanto tale si contrapponga a quella dei suoi componenti, non è una società libera da ogni legge, nella quale la legge non esista; è una società nella quale domina la sopraffazione e la violenza, e quindi la legge del più forte, alla quale si dovrebbe attribuire il carattere della giuridicità, in contrapposizione al dato normativo tradizionalmente inteso. I più elementari diritti umani in una situazione del genere sarebbero irrimediabilmente compromessi, non essendo ad alcuno richiesto di agire secondo precostituiti precetti di comportamento. È soltanto il rispetto della legge, la quale è espressione della volontà collettiva, che rende possibile la tutela dei diritti fondamentali della persona. Forse mai, come nel periodo nel quale viviamo, è stato tanto messo in discussione il diritto positivo, come complesso di norme promananti dallo Stato o da altre pubbliche autorità. Il diritto positivo viene considerato puramente e semplicemente come un brutale atto di forza, al quale solo per necessità si debba ottemperare. Da ciò la tendenza a disattendere ogni complesso di regole che disciplinano l’agire dei consociati, ed a considerarle soltanto come il momento di un’oppressione che sarebbe doveroso evitare. Tutto ciò è potuto accadere in quanto, quando si parla del diritto positivo in contrapposizione al diritto naturale, ci si riferisce – come se fosse un dato indiscusso – unicamente ad un rapporto di forza. Il diritto sarebbe espressione unicamente di un’imposizione coattiva, che il singolo deve subire, senza che tale imposizione abbia alcun rapporto, che non sia puramente casuale e occasionale, con la morale. La critica che viene rivolta al diritto positivo, così come viene comunemente inteso, è quella di una assoluta estraneità ai valori morali. Come espressione – brutale

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– della forza, il diritto positivo si tradurrebbe unicamente in arbitrio e sopraffazione, e nulla avrebbe a che vedere con le regole di altra natura – quali le norme morali o del costume – che condizionano la vita umana. Tutto ciò denota – è doveroso dirlo – incomprensione del fenomeno giuridico nella sua più intima essenza; non solo perché questo, come complesso di norme, di astratti precetti di comportamento che promanano dagli organi esponenziali di una società organizzata, è una realtà ideale e non un brutale atto di forza, ma anche per i suoi rapporti con le norme morali, che sono infinitamente diversi da come vengono comunemente intesi. Il valore della norma morale non deve portare a svalutare la norma giuridica, perché questa adempie ad una funzione insostituibile nella società, della quale condiziona la stessa esistenza. A tale compito la norma morale istituzionalmente non è preordinata. La norma giuridica colma una lacuna – se così si può dire impropriamente – della norma morale; per cui, se una società non può fare a meno di un complesso di precetti morali, non può fare a meno neppure dei precetti di diritto positivo. La norma morale di per sé non è adatta a garantire un ordinato vivere civile, regolamentando le esigenze contingenti della società, perché corrisponde ad una diversa funzione. Se è vero che la norma morale è qualcosa di diverso dal diritto, in quanto tutela valori assoluti, essa non è idonea a soddisfare la funzione propria della norma giuridica. Essa non può sostituirsi a quest’ultima, perché è rimessa interamente agli uomini, e non alla Divinità, quella regolamentazione dei rapporti intersoggettivi, che è indispensabile per l’esistenza stessa della società. Si tratta di precetti che coprono settori che sono istituzionalmente sottratti ad una regolamentazione immediata e diretta da parte della morale. Il fatto che una società organizzata, per garantire la sua stessa esistenza, sia obbligata ad emettere una serie di norme, non è in contrasto con le esigenze della morale, ma anzi in perfetta aderenza ad essa, perché non si può richiedere alle norme morali di disciplinare, in relazione alle esigenze della vita associata, i rapporti contingenti fra gli uomini. Questo la morale non lo può fare, ed essa richiede che l’opera dell’uomo a ciò provveda. I rapporti intersoggettivi ed esterni sono, nei loro aspetti umani, sottratti alla regolamentazione della coscienza individuale, completando, sul piano delle relazioni intersoggettive, i precetti morali. Una società non si può reggere soltanto sulla base di precetti morali, ma necessita, quale condizione indispensabile della sua esistenza, di un complesso di norme positive. La morale non può risolvere tutti quei problemi della società, alla cui soluzione non è istituzionalmente preordinata. La volontà umana e collettiva è insostituibile, e non si presta ad essere scambiata con norme morali. Solo la volontà umana e collettiva ha questa attitudine.

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5. Il rispetto della legalità si identifica con quello del diritto positivo proprio di ciascun ordinamento giuridico, così come appare nella sua realtà diversificata in rapporto alle esigenze di ciascuna collettività della quale lo Stato, al quale il cittadino appartiene, abbia carattere rappresentativo. L’attività educativa è dunque collegata a quello status che ciascuno possiede in quanto cittadino. Ogni attività educativa deve essere rivolta in primo luogo ad insegnare il rispetto delle leggi dello Stato, nel quale il cittadino è inserito. La scuola deve impartire un’istruzione che non solo sia culturalmente valida, ma che sia valida altresì da un punto di vista formativo, essendo conforme ai precetti morali fatti propri dalla Costituzione. Alla scuola deve spettare il compito fondamentale di insegnare quei principi di tutela della persona, nei quali si sostanziano, come valore assoluto, la libertà e i diritti umani costituzionalmente tutelati. Le leggi che devono essere rispettate sono quelle proprie dell’ordinamento giuridico statale, nel quale il cittadino è inserito. Ogni Stato attua, con modalità destinate a variare a seconda delle circostanze, la tutela dei diritti umani costituzionalmente garantiti; mentre un disconoscimento di tale prerogativa verrebbe a violare i diritti delle popolazioni che, all’interno di ciascun ordinamento, sono rappresentate. Ogni Stato deve elaborare i propri precetti costituzionali, che tutelano tali diritti, con norme giuridiche che siano adatte alle varie situazioni, quali concretamente ricorrono in relazione alle mutate esigenze della propria collettività. Poiché quelli che vengono applicati sono necessariamente precetti giuridici propri del diritto positivo, norme che promanano dagli organi esponenziali dei singoli ordinamenti, e non norme morali in sé considerate, la tutela dei diritti umani, pur dovendo essere all’interno di ogni Stato piena e incondizionata, non solo non può, ma neppure deve essere uguale nei vari ordinamenti positivi, perché le modalità con cui essa avviene sono destinate a cambiare all’interno di ognuno di essi, in relazione alle caratteristiche culturali ed alle esigenze concrete di ciascun popolo, quali si manifestano nel corso del tempo. Ogni ordinamento deve provvedere con norme proprie in relazione all’entità dell’interesse collettivo, quale può essere correttamente valutato solo dagli organi esponenziali di ciascuna collettività organizzata. Tale diversità di regolamentazione giuridica non viola i diritti umani, qualora le norme adottate siano moralmente valide, ma si traduce in una flessibilità la quale deve ritenersi connaturata alla elaborazione dei precetti che si rinvengono in ogni Carta Costituzionale. Ogni tentativo rivolto a positivizzare in maniera univoca i precetti costituzionali è destinato a fallire, perché ogni norma positiva, pur se rigorosamente conforme a precetti etici, è condizionata dalle esigenze della società nella quale viene emessa; e quindi varia non solo a seconda della società alla quale inerisce,

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ma anche in rapporto alle esigenze di quest’ultima, quali si manifestano, nella loro mutevolezza, nel corso del tempo. 6. Svincolare l’attività educativa dalla cittadinanza significherebbe disconoscere le peculiarità culturali di ciascun popolo, il cui riconoscimento costituisce invece un loro diritto inviolabile. L’idea giusnaturalistica dei diritti connaturati alla natura umana può far pensare ad una struttura fissa ed immutabile, proprio perché universalmente valida, ad uno schema rigido che, in quanto tale, prescinda dalle particolarità dei singoli ordinamenti giuridici. In realtà i diritti umani non vengono tutelati attraverso norme morali, ma attraverso la legge. La norma morale non può essere applicata in quanto tale, perché essa è radicalmente e strutturalmente diversa da quella propria del diritto positivo: la norma morale può esistere soltanto in quanto si ritenga che vi sia la Divinità da cui essa promani. La norma morale non è diritto positivo, perché in essa l’intersoggettività esiste soltanto nei confronti di una realtà trascendente e non umana. La differenza, rispetto alla morale, è nella diversa fonte dell’imperativo, che in un caso promana da un’autorità umana, e nell’altro da un’autorità trascendente. La tutela dei diritti umani, pur dovendo essere all’interno di ogni Stato piena e incondizionata, non solo non può, ma neppure deve essere uguale per ogni ordinamento. Se le norme morali sono universalmente valide, il diritto positivo necessariamente varia a seconda delle differenti caratteristiche giuridiche di ciascun ordinamento; le quali sono a loro volta conseguenziali alle diversità culturali di ciascuna popolazione. E l’educazione alla legalità deve avere ad oggetto quel concreto e specifico complesso normativo che è proprio della collettività nella quale ciascuno è inserito. Sarebbe un grave errore ritenere che la tutela dei diritti umani si debba realizzare nell’uniformità. Tale tutela, per essere correttamente attuata, deve tenere conto non solo delle caratteristiche culturali e delle concrete esigenze di ciascun popolo, ma anche dell’interesse collettivo, quale cambia nel corso del tempo, e quale può essere correttamente valutato solo dagli organi esponenziali della collettività organizzata. La tutela dei diritti umani avviene con modalità che variano nel tempo e nello spazio, e che non sono per loro natura fisse ed immutabili. 7. Occorre sottolineare le modalità attraverso le quali deve essere garantito il rispetto della legalità, al quale devono essere educati i cittadini. Il diritto positivo, per essere compreso nella sua più intima essenza, non ha carattere fisso ed immutabile, ma è una struttura flessibile, che si presta ad essere adattata alle esigenze di ciascuna popolazione e, all’in-

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terno di questa, alle necessità mutevoli dei tempi. Esso ha lo scopo di soddisfare le necessità contingenti della popolazione, quali vengono interpretate dagli organi esponenziali della collettività. La corrispondenza rispetto ai precetti morali ammette una pluralità di soluzioni; e la contingenza e la flessibilità non sono concetti riduttivi, ma requisiti indispensabili perché vengano emesse leggi giuste, che corrispondano a criteri di giustizia sostanziale. Lo Stato, nella sua sovranità, in quanto rappresentativo di una sottostante popolazione, deve essere in grado, tramite i propri organi esponenziali, di gestire da sé i propri interessi, e segnatamente di tutelare i diritti fondamentali dei propri componenti. Ad ogni popolazione con una propria cultura, razza, lingua, religione, deve corrispondere uno Stato distinto, nel quale la popolazione rappresenti i propri interessi, secondo scelte che essa sia in grado liberamente di adottare. Ciascun popolo ha diritto ad una propria identità culturale. Ogni Nazione appare contrassegnata da caratteristiche culturali che le attribuiscono una inconfondibile identità, la quale deve essere salvaguardata, se si vuole tutelare la personalità dei singoli soggetti che la compongono, quale appare nella sua dimensione associata. L’identità culturale del singolo individuo trova, a livello collettivo e di organizzazione sociale, la sua proiezione in quella della Nazione alla quale appartiene. Si tratta di due concetti strettamente e inscindibilmente connessi: non si può tutelare nella sua pienezza la libertà dell’individuo, se non si salvaguarda contemporaneamente quella della formazione sociale, nella quale si manifesta la sua personalità. Tale formazione sociale, a livello di società caratterizzata da identici requisiti culturali, è la Nazione, della quale il singolo fa parte. La cittadinanza appare inscindibilmente connessa al complesso di valori ideali che sono propri della collettività alla quale ciascuno appartiene, ed è compito degli organi statali rendere i cittadini coscienti del significato e della portata di tale appartenenza, attraverso un’attività educativa la quale ha un significato etico ben preciso; perché la tutela dei diritti umani non può andare disgiunta dal rispetto di quelle norme positive che sono il prodotto della cultura e della civiltà del popolo al quale i singoli appartengono, e con il quale vengono ad identificarsi. La tutela della cittadinanza, per essere validamente compiuta, deve avere ad oggetto non solo i singoli componenti statali nella loro individualità, ma anche gli stessi soggetti nella loro dimensione associata. I diritti di ciascuno sono quelli della collettività alla quale appartiene, perché la sua personalità si riflette in quella di tale formazione sociale, della quale è parte integrante; così che la tutela di quest’ultima è quella dello stesso individuo, considerato nella sua dimensione associata. Il che, per il nostro ordinamento interno, è espresso efficacemente dall’art. 2 della Costituzione, che tutela i diritti umani non soltanto dei singoli individui, ma anche delle formazioni sociali nelle quali si manifesta la loro

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personalità. Lo Stato, come entità organizzata, è la proiezione, sul piano sociale, di coloro che lo compongono; così che la salvaguardia di tale formazione sociale si identifica con quella dei diritti fondamentali di coloro che ne fanno parte. 8. L’educazione alla cittadinanza, nel periodo in cui viviamo, non deve però avere ad oggetto unicamente quella che definisce l’appartenenza allo Stato, ma deve concernere anche la cittadinanza europea. Allo status di cittadino, che riguarda l’appartenenza ai singoli Stati, si è di recente sovrapposta, per il nostro ordinamento, quello di cittadinanza europea. Tale status al primo si aggiunge e con quello si cumula. Il cittadino che fa parte dell’Unione europea deve essere educato all’appartenenza ed ai valori di questa più vasta comunità. La cittadinanza europea è espressione dell’appartenenza ad un’unica civiltà europea. La collettività della quale il singolo fa parte, come componente dell’Unione europea, rispecchia indubbiamente una civiltà comune, i cui valori devono essere recepiti e rispettati da ciascuno degli Stati membri. È dunque compito di questi ultimi, e quindi anche del nostro ordinamento statale, educare i propri cittadini, che sono contemporaneamente cittadini dell’Europa unita, al rispetto di quei valori che sono propri della civiltà comune ai vari Stati che ne fanno parte.

Bibliografia Sulla cittadinanza cfr. P. Costa, Cittadinanza, Laterza, Roma-Bari, 2005; C. Bersani, Naturalizzazione (Aggiornamento 2008), in Dig. Pubbl., Utet, Torino, Tomo II, 501; M. Ambrosini-F. Buccarelli, Ai confini della cittadinanza, Franco Angeli, Milano, 2009; V. Onida, La tutela costituzionale del non cittadino, in Dir. e soc., 2009, 537; R. Ferrara-F. ManganaroA. Romano Tassone, Codice delle cittadinanze–Commentario dei rapporti tra privati e amministrazioni pubbliche, Giuffrè Editore, Milano, 2006; Aa.Vv., Lo statuto costituzionale del non cittadino, Atti del Convegno annuale di Costituzionalisti, Cagliari 16-17 ottobre 2009, Jovene, Napoli, 2010; S. Restuccia, La cittadinanza: origini, evoluzione e legge italiana vigente, in generale, in Stato civ. it., 2006, 741 e 824; S. Arena, La cittadinanza secondo la normativa italiana, Sepel Editrice, Minerbio, 2005; G. Crifò, Civis–La cittadinanza tra antico e moderno, Laterza, Roma-Bari, 2005; F. Manganaro-A. Romano Tassone (a cura di), Dalla cittadinanza amministrativa alla cittadinanza globale, Giuffrè Editore, Milano, 2005; M. La Torre, Cittadinanza e ordine politico-Diritti, crisi della sovranità e sfera pubblica: una prospettiva europea, Giappichelli Editore, Torino, 2004; C. Amirante, Cittadinanza (teoria generale), in Enc. giur. Treccani,

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«CHACUN» E «INSTITUTION» NEL PENSIERO SOCIO-POLITICO DI PAUL RICŒUR Andrea Giambetti «Occorre un’arringa in difesa dell’anonimo». P. RICŒUR «Solo la giustizia vede nell’uomo un lui». G. MADINIER

Senza volto ma non senza diritti «L’altro è anche l’altro dal tu»1, afferma icasticamente Ricœur; un altro senza volto ma non senza diritti, che appartiene in modo primitivo alla costituzione del Sé. Non tutti i legami possono giungere al vis-à-vis dell’amicizia; la grande maggioranza delle relazioni non sperimenterà mai le tonalità della philía, tuttavia ciò non significa che queste siano di natura inferiori a quelle. C’è un altro che mi sta di fronte ma che non ha volto: è il ciascuno (chacun) che prende visibilità soltanto per mezzo della giustizia e delle istituzioni del vivere associato. «Non affermerò – puntualizza Ricœur – che la categoria del “ciascuno” si identifica con quella dell’anonimo, sulla scorta di una identificazione affrettata con il “si” di Kierkegaard e di Heidegger. Il “ciascuno” è una persona distinta, ma la raggiungo solo attraverso i canali delle istituzioni»2. Dunque il ciascuno non è l’anonimo; anch’esso è, a pieno titolo, una ‘persona’. Su questo aspetto della riflessione ricœuriana occorre registrare il notevole scarto con la generalità del personalismo che, sulla scia di Mounier, ha inteso 1

P. RICŒUR, Soi-même comme un autre, Seuil, Paris, 1990, tr. it. a cura di D. Iannotta, Sé come un altro, Jaca Book, Milano, 1993, p. 290. 2 P. RICŒUR, Meurt le personnalisme, revient la personne, in Notes et Documents de l’Institut International “Jacques Maritain”, n. 2/3, Paris, 1983, p. 78. Il celebre articolo apparve in «Esprit», n. 1/1983, pp. 113-119; ora in P. RICŒUR, Lectures 2, Seuil, Paris, 1992, pp. 195-202, tr. it. a cura di I. Bartoletti, La persona, Morcelliana, Brescia, 2002, p. 43. Sottolinea ancora Ricœur: «Ma non si deve attendere dalla relazione di giustizia, in un sistema di distribuzione, lo stesso genere di intimità cui tendono le relazioni interpersonali suggellate dall’amicizia: il che, esattamente, fa della categoria del ciascuno una categoria irriducibile all’altro della relazione amorosa o amicale. Questa incapacità del ciascuno a farsi eguale all’amico non implica affatto una inferiorità etica: la grandezza etica del ciascuno è indiscernibile dalla grandezza etica della giustizia, secondo la celebre formulazione romana: attribuire a ciascuno il suo dovuto», ivi, pp. 45-46.

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connotare negativamente – nonostante alcuni scostamenti – la vita istituzionale della civiltà moderna. Si tratta di cogliere, dunque, un’alterità che non sia declinata sul versante ottativo della relazione ma su quello normativo dell’etica. «Differenziando chiaramente tra relazioni interpersonali e relazioni istituzionali, si rende piena giustizia alla dimensione politica dell’ethos. Nel contempo, si libera l’idea comunitaria da un equivoco che alla fine le impedisce di dispiegarsi pienamente in quelle regioni delle relazioni umane dove l’altro resta senza volto, senza per questo rimanere senza diritti. Differenziando in tal modo nettamente tra amicizia e giustizia, si conserva la forza del faccia a faccia, donando nel contempo un posto al “ciascuno” senza volto. Detto altrimenti, con il termine altro occorre intendere due idee diverse: l’altro e il “ciascuno”. L’altro dell’amicizia e il ciascuno della giustizia»3. Il ciascuno, benché irriducibile alla categoria dell’anonimato, giunge a visibilità soltanto attraverso il canale della giustizia. Il suo volto si delinea sui tratti della dike, pertanto la vita buona comporta un senso della giustizia che non si limita ai rapporti interpersonali ma si estende alla vita delle «istituzioni giuste», come ci ricorda la terza componente del tripode etico ricœuriano. Se già il rapporto io-tu segnava alcuni tentativi di simmetria attraverso il dare e ricevere nella mutualità dello scambio – anche quando il rapporto era minacciato dalla dissimmetria degli attori –, ora l’esigenza di uguaglianza diventa l’archetipo fondamentale dell’idea di giustizia, che rende ragione dell’uso del termine chacun per designare i partners di una relazione che tende ad obliare i nomi e i volti: «a ciascuno il suo diritto»4. Tuttavia, prima di compiere il passaggio fondamentale verso una morale del diritto, dell’obbligo e della norma, Ricœur ci avverte, facendo leva sulla riflessione di H. Arendt, di come le istituzioni del vivere civile non riposino essenzialmente sul potere di coercizione e 3

Ivi, p. 47. «L’esame deve vertere non soltanto sulla necessità di una mediazione, che possiamo chiamare mediazione dell’altro in generale, ma su quella di uno sdoppiamento dell’alterità stessa in alterità interpersonale e alterità istituzionale. In una filosofia dialogale, in effetti, è presente la tentazione di limitarsi alle relazioni con l’altro, che si usa collocare sotto all’emblema del dialogo fra “io” e “tu”… Solo queste relazioni meritano di essere qualificate come interpersonali. Ma, a questo faccia a faccia manca la relazione al terzo, che sembra altrettanto primitiva che la relazione al tu. Questo punto è della massima importanza se si vuol rendere conto del passaggio dalla nozione di uomo capace a quella di soggetto reale del diritto. Infatti, soltanto la relazione al terzo, situata sullo sfondo della relazione al tu, offre una base alla mediazione istituzionale richiesta dalla costituzione di un soggetto reale di diritto, in altri termini di un cittadino», P. RICŒUR, Le Juste, Esprit, Paris, 1995, tr. it. a cura di D. Iannotta, Il Giusto (2 voll.), Effatà, Torino, 2005, vol I, pp. 44-45. 4 P. RICŒUR, Soi-même comme un autre, cit., p. 290.

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sul modello del Leviatano, piuttosto sul primato etico di un’esperienza di vita associata che si basa su ‘costumi condivisi’5. Si evidenzia così un primato etico della vita sociale che domina sui sistemi giuridici; c’è un potere-in-comune che continua ad essere irriducibile al dominio degli apparati giuridico-statalistici. L’idea di un potere politico irriducibile a quello statale si fonda per la Arendt sui concetti di concertazione e di pluralità. «Il potere corrisponde alla capacità umana non solo di agire ma di agire di concerto. Non è mai proprietà di un individuo; appartiene ad un gruppo e continua ad esistere soltanto finché il gruppo rimane unito»6. Il potere, secondo il pensiero arendtiano, non deve essere mai confuso con la forza; mentre essa è una qualità tipicamente individuale, il potere è essenzialmente un’opera condivisa, un’esperienza di comunità. Di qui il suo carattere potenziale, quasi evanescente, fintantoché non venga a radicarsi in una tessitura di relazioni umane ove le parole e i gesti risultino significativamente condivisi. Sono gli uomini che agiscono, parlano, condividono simboli e culture, a costituire la sfera pubblica quale spazio dell’apparire e del condividere, mentre il potere è ciò che viene posto a tutela del mantenimento di questa esperienza di vita propriamente politica7. Il potere, dunque, si costituisce essenzialmente quale potenzialità implicita dell’essere-insieme; esso è subordinato all’incerto e temporaneo accordo di molteplici volontà e, perciò, corrisponde in primo luogo alla condizione della pluralità. È così che l’idea di concertazione richiama in Ricœur quella di pluralità e «con l’idea di pluralità viene suggerita l’estensione dei rapporti interumani a 5 Cfr. H. ARENDT, The Human Condition, University of Chicago Press, Chicago, 1958, tr. it. a cura di S. Finzio, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano, 19913. 6 H. ARENDT, Crises of the Republic, Harvest/HBJ Book, San Diego, New York, London, 1969, tr. it. a cura di S. D’Amico, Politica e menzogna, SugarCo, Milano, 1985, p. 196. 7 «Il potere è sempre, vorremmo dire, un potere potenziale e non un’entità immutabile, misurabile e indubbia come la forza o la potenza materiale. Mentre la forza è la qualità naturale di un individuo separatamente preso, il potere scaturisce fra gli uomini quando agiscono assieme, e svanisce appena si disperdono […] Il solo fattore materiale indispensabile alla generazione di potere è il vivere assieme delle persone. Solo dove gli uomini vivono in tale prossimità che le potenzialità dell’azione sono sempre presenti, il potere può restare con loro, e la fondazione di città, che come città-stato sono rimaste paradigmaticamente per ogni organizzazione politica occidentale, è quindi il requisito materiale più importante perché vi sia potere. Ciò che tiene unite le persone dopo che il momento fuggevole dell’azione è trascorso (quella che oggi chiamiamo “organizzazione”) e ciò che, nello stesso tempo, le persone mantengono in vita stando insieme, è il potere. E chiunque, per qualsiasi ragione, si isola e non partecipa a questo essere-insieme perde potere e rimane impotente, per grande che sia la sua forza e per quanto valide le sue ragioni», H. ARENDT, The Human Condition, cit., pp. 147-148.

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tutti coloro che il faccia a faccia tra l’“io” e il “tu” lascia al di fuori a titolo di terzi. Ma il terzo, senza giochi di parole, è immediatamente terzo incluso dalla pluralità costitutiva del potere […] La pluralità include dei terzi che non saranno mai dei volti»8. Si potrà notare come la concezione politica di Ricœur si giochi, essenzialmente, all’interno di un perimetro segnato da una parte dalla relazione diadica io-tu, e dall’altra dal potere coercitivo statalistico. Possiamo affermare, dunque, che tutto ciò che vive al di qua del rapporto diadico, e non corre al di là del potere condiviso da una pluralità, costituisca la vera esperienza del politico, secondo il noto aforisma potestas in populo, auctoritas in senatu. Da questa intuizione arendtiana Ricœur ricava l’idea che il potere istituzionale affonda le sue radici in una teoria del diritto che nasce dal basso, dal ‘senso della giustizia’ che risiede naturalmente nel vivere associato. Ancora una volta il piano etico e teleologico sovrasta la dimensione deontologica. C’è un’origine «quasi immemoriale dell’idea di giustizia» per cui «il senso della giustizia non si esaurisce nella costruzione dei sistemi giuridici». «Il giusto – sottolinea il Nostro – si apre su due versanti: sul versante del buono, del quale esso marca l’estendersi delle relazioni interpersonali alle istituzioni; e sul versante del legale, ove il sistema giudiziario conferisce alla legge coerenza e diritto di coercizione»9. Di più: si potrebbe affermare che l’istituzione nasce e si costituisce a causa dell’esperienza dell’ingiustizia che rende vulnerabile il senso della giustizia, innato e perpetuamente residente nelle comunità umane. «Noi siamo sensibili innanzitutto all’ingiustizia» e, proprio per riparare il vulnus arrecato al senso della giustizia, strutturiamo l’apparato istituzionale che, anche attraverso la coercizione, mira a confortare un sentimento vilipeso e a ristabilire un’equità infranta; «la giustizia, infatti, è più sovente ciò che manca e l’ingiustizia ciò che regna»10. È opportuno segnalare, su questo versante, la perfetta congruenza con la speculazione di G. Madinier secondo cui «si potrebbe dimostrare che la giustizia è essa stessa ‘sentimento’. Il risveglio di questa giustizia sentita precede, non solo nell’uomo che rivendica i suoi diritti, ma nel semplice spettatore di una qualsiasi ingiustizia, la nascita della riflessione. Vi è un esercizio spontaneo di questo 8

P. RICŒUR, Soi-même comme un autre, cit., pp. 291-292. Ivi, pp. 294-295. «Sul piano teleologico dell’auspicio a vivere bene, il giusto è quell’aspetto del “buono” relativo all’altro. Sul piano deontologico dell’obbligazione, il giusto si identifica con il “legale”. Resta da dare un nome al giusto sul piano della saggezza pratica, quello in cui si esercita il giudizio in situazione. Propongo la risposta: il giusto non è più allora né il buono, né il legale, ma l’“equo”. L’equo è la figura che l’idea del giusto riveste nelle situazioni di incertezza e di conflitto o, per tutto dire, nel regime ordinario o straordinario del tragico dell’azione», P. RICŒUR, Le Juste, cit., p. 39. 10 Ivi, p. 295. 9

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senso della giustizia, che è sentimento del valore eguale degli esseri, del rispetto che dobbiamo agli altri»11. È, dunque, l’infrazione di un’equità a chiamare in scena il sentimento di ‘uguaglianza’ ed aprire il varco alla mediazione istituzionale. Essa si pone quale centro distributivo d’uguaglianza, regolando la ripartizione di ruoli, funzioni, vantaggi e svantaggi fra i membri di una società. Ed è proprio il carattere distributivo del medio istituzionale che assicura la transizione tra il livello interpersonale della vita etica e quello propriamente sociale; così non vengono innalzati steccati tra individuo e società, e nemmeno tra Gemeinschaft e Gesellschaft, mentre l’istituzione appare un centro nevralgico della vita associata perché ne permette il suo pieno sviluppo nell’ottica della prospettiva etica. È così che «l’uguaglianza sta alla vita nelle istituzioni come la sollecitudine sta alle relazioni interpersonali. La sollecitudine offre al sé quale faccia a faccia un altro che è un volto […] l’uguaglianza gli offre come faccia a faccia un altro che è un ciascuno […] In questo modo, il senso della giustizia non toglie niente alla sollecitudine, esso la presuppone nella misura in cui questa ritiene le persone irrimpiazzabili. Di contro, la giustizia aggiunge qualcosa alla sollecitudine, nella misura in cui il campo di applicazione dell’uguaglianza è l’umanità intera»12. L’anonimo, pertanto, è senza volto, ma non senza diritti, mentre acquista visibilità solamente grazie all’istituzione che estende i rapporti interpersonali al di là del faccia a faccia. Si è passati così, quasi inavvertitamente, ad esplorare le diverse risonanze che il concetto e il termine stesso di ‘persona’ hanno assunto nel complesso itinerario delle società occidentali. Dal punto di vista antropologico, infatti, il passaggio che va dall’amicizia alla giustizia, dal tu al lui, dal volto al senza-volto, è assimilabile al passaggio semantico che accade al concetto di identità allorché venga definito mediante i significati che la grecità classica ha riservato al termine prósopon, o attraverso le accezioni che la latinità ha conferito al termine persona. Per i Greci, infatti, il volto è ciò che cade preliminarmente sotto il senso della vista, per cui elemento determinante dell’identità personale è il vedere e l’esser visti, diremmo il ‘faccia a faccia’. Così la relazionalità umana si gioca a partire da una reciprocità visuale fatta di sguardi e di punti di vista. L’identità personale, in questa direzione, non può prescindere dalla visibilità, specialmente da quella del volto e della mimica visuale che esprime, prima e meglio della parola, gli stati emozionali interiori. Questo calcare l’aspetto identitario legandolo alla visualità del volto permette il rapido accesso al senso del11

G. MADINIER, Conscience et amour, PUF, Paris, 1938, tr. it. a cura di E. Lombardi Vallauri, Coscienza e giustizia, Giuffrè, Milano, 1973, p. 73. 12 P. RICŒUR, Soi-même comme un autre, cit., pp. 299-300.

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la ‘reciprocità’, che è il coronamento dell’identità personale, quando i partners di una relazione, guardandosi, si rispecchiano vicendevolmente l’uno nel volto dell’altro e si confermano reciprocamente di esistere. Al contrario la latinità ha colto nel volto soprattutto la possibilità di emettere suoni attraverso l’articolazione linguistica. Il volto acquisisce la sua pregnanza solo grazie alla bocca parlante: esso è ‘parola’ (os), capacità di inter-locuzione. È evidente come l’aspetto dell’orazione e dell’oratoria abbia profondamente influenzato i latini, che nella capacità di parlare hanno visto l’aspetto fondamentale dell’identità sociale di una persona. Lo stesso termine persona ci rammenta di come la maschera teatrale sia soprattutto elemento di amplificazione della voce. Questa svalutazione della dimensione visuale del volto, a tutto vantaggio dell’elemento locutorio, rende ragione di quell’aspetto dell’identità personale che, irriducibile alla visibilità dei volti, rimane strettamente legato all’incontro dialettico. Di qui l’agevole passaggio verso quella dimensione giuridica che verrà ad esplicitarsi nel forum, ove la persona assume la sua piena identità civile e sociale13.

Dalla prospettiva alla norma Nonostante Ricœur insista sul riconoscimento del primato etico rispetto a quello morale, sul primato della prospettiva rispetto alla norma, occorre comunque rilevare come ad un certo punto della riflessione si renda «necessario sottomettere la prospettiva etica alla prova della norma»14, per evitare lo scadimento della agatós bios in uno spiritualismo disincarnato dei buoni sentimenti. Soltanto attraverso la prova deontologica la stima di sé, che regnava sotto il regime dell’etica e conduceva il rapporto interpersonale, potrà divenire anche rispetto di sé e dell’altroda-sé. Così l’aspirazione a vivere bene deve essere sottoposta ad esame attraverso la norma; a questo proposito Ricœur parla di un «ancoraggio del momento deontologico nella prospettiva teleologica»15. Mentre il ‘desiderio’ guidava la prospettiva teleologica, ora tocca alla ‘volontà’ condurre il passaggio verso la prospettiva deontologica: «il desiderio si 13 Su questi temi è utile rimandare all’opera di M. BETTINI, Le orecchie di Hermes. Studi di antropologia e letterature classiche, Einaudi, Torino, 2000, in paritcolar modo alle pp. 313-356. 14 P. RICŒUR, Soi-même comme un autre, cit., p. 301. Dello stesso avviso anche G. Madinier secondo il quale «l’amore non è per nulla una regola; deve, al contrario, piegarsi a una regola; e si riassumerebbe abbastanza bene il pensiero di Renouvier dicendo che l’amore è una materia che la giustizia deve ad ogni istante informare», G. MADINIER, Conscience et amour, cit., p. 33. 15 Cfr. ivi, pp. 303 ss.

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riconosce dalla sua prospettiva, la volontà dal suo rapporto alla legge»16; il desiderio parla all’ottativo, il volere si esprime all’imperativo. È ancora con Madinier che, anche su questo fronte, si deve sottolineare una pressoché totale congruenza: «dobbiamo percorrere il cammino inverso e vedere come la carità produca la giustizia con il suo stesso espandersi e con la necessità di porre le condizioni del proprio instaurarsi […] Noi vorremmo mostrare che la carità, data la condizione umana, deve produrre la giustizia, se vuole realizzare se stessa […] La carità non è se stessa senza la giustizia»17. A questo proposito Ricœur non potrà sottrarsi al confronto con le esigenze di formalità e incondizionatezza della morale kantiana, che porta con sé l’idea della universalità e quella del dovere. Egli condivide con Kant l’ancoraggio della nozione di ‘volontà buona’ con quella di ‘dovere’: «una volontà incondizionatamente buona è, a titolo iniziale, una volontà costituzionalmente sottoposta a delle limitazioni. Per essa, il bene incondizionato riveste la forma del dovere, dell’imperativo, della coercizione morale»18. Ora è ben noto come in Kant la volontà buona deve essere provata alla regola di universalizzazione. Tuttavia il ‘dovere’, in Ricœur, non è declinato solamente sulle esigenze della morale kantiana, che pure rivestono un’importanza decisiva; esso è innanzitutto concepito per il suo valore sociale, per la sua capacità di strutturare le relazioni della vita civile. In molte delle sue pagine si può ancora percepire un’eco della philosophie de l’esprit di R. Le Senne, il quale afferma che, certo, «il dovere è un imperativo segreto, ma anche un ponte fra due uomini, fra tutti gli uomini, tra i quali favorisce la collaborazione e, più profondamente, l’unione, come la bacchetta di un direttore d’orchestra il concerto degli esecutori»19. Inoltre la posizione ricœuriana sembra risentire anche delle profonde influenze della filosofia riflessiva di J. Nabert, per cui – secondo l’interpretazione del Naulin – la funzione principale della legge «è quella di unificare la molteplicità delle coscienze. In un universo che favorisce la separazione delle coscienze, il dovere ha la funzione di istituire un ordine che determini intorno ad ogni persona una zona di protezione […] Col favore di quest’ordine, le coscienze possono lanciarsi, le une alle altre, un richiamo che procede ad un tempo da un desiderio d’unità e da un desiderio di trasparenza a se stessi che il dovere contribuisce a risvegliare senza poter soddisfare». Dunque «il dovere e la legge morale costituiscono un momento e una tappa ineludibili» per la realizzazione dell’essere 16

Ivi, p. 304. Ivi, pp. 113 e 121. 18 P. RICŒUR, Soi-même comme un autre, cit., p. 305. 19 R. LE SENNE, Traité de morale générale, PUF, Paris, 1942, 19675, p. 665 (traduzione nostra). 17

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sociale della persona, conducendola sino a percepire, però, la «necessità di procedere al di là del dovere e della legge stessa»20. Possiamo, così, interrogarci ulteriormente sul motivo per cui la prospettiva teleologica debba passare al vaglio della norma. Perché una volontà buona ‘deve’ misurarsi con l’obbligo e la coercizione? Una prima risposta, ancorché superficiale, potremmo fornirla affermando che, se così non fosse, l’afflato etico ben presto si esaurirebbe nel solo faccia a faccia della relazione interpersonale, escludendo dal suo alveo il terzo, che non sarebbe solo il distante, ma ben presto diverrebbe il nemico, colui che si incunea surrettiziamente nel rapporto ottativo dei partners, che rompe un’armonia stabilita, una «faccia da schiaffi» direbbe argutamente Lévinas. È, invece, soltanto attraverso il criterio di universalizzazione, insito kantianamente nel concetto di volontà buona, che è possibile attingere la presenza del terzo; infatti il rapporto ottativo esclude di principio la terzietà. Questa, mutatis mutandis, è sostanzialmente la tesi mounieriana, tutta tesa a ridurre quanto più possibile il campo della terzietà inglobandolo in quello della comunità ‘filetica’; il terzo deve diventare un tu per essere persona e divenire, così, membro attivo della comunità personalista. Tale è l’utopia orientatrice del pensiero del filosofo di Grenoble, alla quale Ricœur oppone la contestazione che si tratti, appunto, di un’utopia che non riesce a superare il vaglio della realtà effettiva. Un’ulteriore risposta alla nostra domanda può essere fornita anche facendo leva su un dato di fatto incontestabile: la presenza del male nell’uomo e nelle relazioni della vita associata. Con Kant, Ricœur assume la riflessione sulla radicalità (e non originarietà, ndr) del male: esso corrompe il fondamento di tutte le massime e, in quanto tendenza naturale, non può essere sradicato con le sole virtù umane. È proprio in forza della presenza del male, come affezione della libertà e della volontà dell’uomo, che diventa necessario per l’etica assumere i tratti della morale: «poiché c’è il male, la prospettiva della “vita buona” deve assumere l’esame dell’obbligo morale»21. La presenza del male, dunque, obbliga la transizione da un’etica del rapporto ottativo verso una morale deontologica; se così non fosse le relazioni interpersonali scadrebbero ben presto nel bellum omnium contra omnes, poiché soggette al fragility of goodness, secondo la nota teoria di M. Nussbaum. «Ogni volta – dunque – la morale fa da replica alla violenza. E se il comando non può fare a meno di rivesti20

F. ROSSI, Jean Nabert filosofo della religione, Benucci, Perugia, 1987, pp. 388-389. 21 P. RICŒUR, Soi-même comme un autre, cit., p. 318. Tale obbligo, secondo Ricœur, potrebbe essere riscritto come segue: «Agisci unicamente secondo quella massima che consente che tu possa volere, nello stesso tempo, che non sia ciò che non dovrebbe essere, e cioè il male», ivi, p. 319.

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re la forma dell’interdizione, ciò avviene precisamente a causa del male: a tutte le figure del male risponde il no della morale»22. È così che la sollecitudine, passata al vaglio della morale, si dispiega al di là del vis-à-vis, attingendo il ciascuno, poiché il tu, cui si riferiva nell’ottativo della relazione, può diventare un lui a causa della fragilità del bene, senza però perdere la sua qualificazione di persona; il terzo, pertanto, rimane un ‘simile’ anche quando cessa di essere un ‘prossimo’. A questo proposito Ricœur puntualizza come «la norma del rispetto dovuto alle persone resti connessa alla struttura dialogale della prospettiva etica, cioè precisamente alla sollecitudine»23. Questa posizione risulta ancora una volta straordinariamente affine a quella di G. Madinier, secondo cui soltanto attraverso la norma di giustizia è possibile cogliere l’alterità dei terzi. Egli afferma, in Conscience et amour, che «gli uomini sono “altri” e personalizzarsi non consiste nel distruggere questa alterità, ma nel trasformarla e conferirle un significato»; significato che viene attinto nelle radici della giustizia intesa come un «atto con il quale io affermo il valore dell’individualità». Solo «la giustizia vede nell’uomo un lui […] Nella giustizia vi è qualcosa in più che un’attitudine puramente negativa, vi è l’affermazione dell’altro come lui, come un essere individuale, e l’affermazione che questo lui ha un valore: affermazione che è rispetto, ma anche desiderio di consolidare e di confermare questa individualità che vale per se stessa. La giustizia è il riconoscimento del mio prossimo come altro»24. Il diritto, pertanto, sarà quello sforzo positivo di creazione di uno spazio sociale in cui l’io e l’altro possano muoversi in reciprocità e indipendenza. Il suo fine sarà quello di costituire l’autentica esperienza del ‘noi’ secondo la logica ricœuriana del «tra», intesa come possibilità di legami di mutualità e di scambio. È così che in Madinier, come in Ricœur, la giustizia è la positiva «consacrazione dell’individualità», perché «l’individualità è un momento indispensabile della nostra nascita spirituale […] La giustizia è uno sforzo per valorizzare l’individuo nell’uomo»25. Risulta interessante annotare come il passaggio dalla sollecitudine alla norma in Ricœur chiami in causa la Regola d’oro di evangelica memoria. Egli cita il celebre aforisma secondo due tradizioni diverse: quella 22

Ivi, p. 322. «Innanzitutto il divieto è la faccia severa che la legge ci rivolge. Il Decalogo stesso si enuncia in questa grammatica degli imperativi negativi: non uccidere; non dire falsa testimonianza, e così via. A prima vista, saremmo tentati di percepire soltanto la dimensione repressiva del divieto, anzi, se ci teniamo sul versante di Nietzsche, soltanto l’odio del desiderio, che in esso si dissimula. Rischiamo allora di non tener conto di quella che può essere chiamata la funzione strutturale dell’interdetto», P. RICŒUR, Le Juste, cit., vol. I, p. 214. 23 Ivi, p. 319. 24 G. MADINIER, Conscience et amour, cit., p. 63. 25 Ivi, p. 64.

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talmudica, risalente ad Hillel, che ingiunge di «non fare al tuo prossimo ciò che detesteresti che ti fosse fatto», e quella evangelica che in positivo raccomanda: «come volete che gli uomini facciano a voi, così voi fate a loro»26. Le due formule, l’una al negativo (non fare) e l’altra al positivo (fa’) si equilibrano e mantengono in tensione il rapporto tra sollecitudine e norma. La prima formulazione detta una norma in quanto interdice un comportamento; la seconda rivela il motivo di benevolenza che soggiace alla norma stessa. In entrambi i casi si tratta di una norma di reciprocità che, evidentemente, tende a stabilire una eguaglianza ove è possibile l’insorgenza di una dissimmetria. C’è, dunque, una dissimmetria possibile alla base di ambedue le formulazioni della Regola aurea. Si tratta, ancora una volta, della temibile apparizione della violenza nelle relazioni umane; violenza che è dissimmetria tra un agente e un paziente, tra colui che impone la sua volontà e un altro che la subisce smarrendo il suo valore di homme capable. La violenza è sempre diminuzione, o addirittura distruzione del potere di agire dell’altro, che può giungere, nei casi estremi, sino alla scomparsa della stima di sé nella vittima, come accade nel caso dell’umiliazione inferta dalla pratica della tortura, o nelle forme di violenza sessuale, o nel maltrattamento dei minori. Ed ecco perché la Regola aurea non può fare a meno di ingiungere, di interdire, di formalizzare il suo ‘no’. In questo senso l’imperativo kantiano del rispetto non è altro che la formalizzazione della Regola d’Oro: «la Regola d’Oro e l’imperativo del rispetto dovuto alle persone non hanno soltanto lo stesso terreno di esercizio, ma hanno inoltre la stessa prospettiva: stabilire la reciprocità laddove regna la mancanza di reciprocità»27. «Senza reciprocità – o per usare un concetto caro ad Hegel, senza riconoscimento – l’alterità non sarebbe quella di un altro da sé, ma l’espressione di una distanza indiscernibile dall’assenza. Altro mio simile: questa è l’aspirazione dell’etica nei confronti del rapporto tra la stima di sé e la sollecitudine»28. Se il confronto con E. Lévinas, relativo alla seconda persona, aveva fatto registrare una non coincidenza di fondo con la prospettiva ricœuriana, in merito allo statuto del terzo tale dissimmetria trova una sorta di ricomposizione, almeno su alcune tematiche centrali. Per il filosofo 26

Cfr. Shabbat, 31a, in Talmud di Babilonia. Cfr. Lc 6,31 e Mt 7,12. P. RICŒUR, Soi-même comme un autre, cit., p. 326. 28 P. RICŒUR, Lectures 2. La personne, cit., p. 42. Insiste altrove Ricœur: «Riconoscere l’altro significa obbligarmi in qualche modo. L’altro è un centro di obblighi per me e l’obbligo è una sintesi astratta di comportamenti possibili nei confronti dell’altro […] Il riconoscimento di una pluralità e di un’alterità reciproca non può non essere etico. Non è possibile che io riconosca l’altro in un giudizio di esistenza bruta che non sia un consenso del mio volere all’uguale diritto di un volere estraneo», P. RICŒUR, Simpatia e rispetto. Fenomenologia ed etica della seconda persona, in E. LÉVINAS, G. MARCEL, P. RICŒUR, Il pensiero dell’altro, a cura di F. Riva, ed. Lavoro, Roma, 1999, 20082, p. 25. 27

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lituano il terzo è di fatto l’irrompere della giustizia e dell’universalizzazione nell’ingiustizia asociale del rapporto diadico. Con il suo ingresso in scena i volti, finalmente, acquisiscono visibilità e reclamano giustizia. Il rapporto intimo, infatti, non ha nulla a che vedere con la giustizia perché fonde l’io e il tu in un noi indifferenziato ma assolutamente teso ad escludere i terzi: «il terzo uomo turba per essenza questa intimità». «Amare significa esistere come se colui che ama e l’amato fossero soli al mondo: il rapporto intersoggettivo dell’amore non è l’inizio, ma la negazione della società […] L’amore è l’io soddisfatto dal tu, l’io che coglie in altri la giustificazione del suo essere […] La società dell’amore è una società a due, società di solitudini, refrattaria all’universalità […] Un terzo assiste ferito al dialogo amoroso e nei suoi confronti la società stessa dell’amore ha torto […] La società chiusa è la coppia»29. Si giunge così ad un paradosso estremo: mentre il tu della seconda persona non aveva un volto determinato, ed insieme all’io costituiva l’ingiusta società indistinta del noi, il terzo assume un volto, sta di fronte, si incunea nel vis-à-vis e riconquista il ruolo di un vero tu; è così che il lui è in realtà l’autentico tu dell’altro, un «testimone incontestabile e severo che si inserisce “tra noi” e che con la sua parola rende pubblica la nostra clandestinità privata, mediatore esigente tra uomo ed uomo, è di fronte, è un tu»30. L’epifania del terzo, pertanto, è quella della Legge che ha un primato etico (e pertanto ontologico, ndr) sulla carità. L’Assoluto non è l’Amore ma la Legge e il suo modo di essere e di manifestarsi consiste nel rivolgere la sua faccia verso di me, nel suo essere volto. La morale si costituisce integralmente sulle esigenze di tutti quei terzi rimasti esclusi dall’amore; ma il terzo è «quell’altro che non è prossimo, il lontano, lo straniero»31. L’esigenza ricœuriana più volte manifestata di ricomporre la dissimmetria originaria tra l’io e l’altro, e che il filosofo aveva risolto entro le caratteristiche del rapporto duale mediante la logica della mutualità e dello scambio, viene ora soddisfatta da Lévinas con l’introduzione della ‘molteplicità’ dei terzi. Con la loro apparizione la dissimmetria originaria è, a nostro giudizio, in qualche modo obliata dal senso della giustizia che 29 E. LÉVINAS, L’io e la totalità, cit., pp. 48-49. Anche per Ricœur «l’amore rende singoli mentre la giustizia universalizza», cfr. E. LÉVINAS, G. MARCEL, P. RICŒUR, Il pensiero dell’altro, cit., p. 79. 30 Ivi, p. 50. Puntualizza ancora Lévinas: «il vero “tu” non è l’Amato, separato dagli altri: si presenta in un’altra situazione […] il vero dialogo è altrove», ivi, p. 49; «con l’unicità non c’è giustizia», Giustizia, amore e responsabilità, in Il pensiero dell’altro, cit., p. 78. È così che per Lévinas «ci sono due io: quello dell’amore in cui l’io non conta più, e quello della giustizia in cui comincia a contare», ivi, p. 82. 31 P. RICŒUR, Autrement. Lecture d’Autrement qu’être ou au-delà de l’essence d’Emmaneul Levinas, PUF, Paris, 1997, tr. it a cura di I. Bertoletti, Altrimenti. Lettura di Altrimenti che essere o al di là dell’essenza di Emmanuel Lévinas, Morcelliana, Brescia, 2007, p. 35.

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equipara medesimezza ed alterità. I molteplici altri costringono, infatti, alla reciprocità poiché impongono, parimenti, la giustizia: «è necessaria una giustizia tra gli incomparabili […] è necessario un paragone tra gli incomparabili e una sinossi»32. È agevole notare, a questo punto, che se per Ricœur la dissimmetria era obliata grazie alla logica dell’amore reciproco che dimenticava le differenze, in Lévinas la dissimmetria è obliata grazie alla logica della giustizia che impone la reciprocità. Amore e giustizia tornano qui a confrontarsi, logiche diverse ma assai vicine perché entrambe tendono all’oblio della dissimmetria originaria dell’io e dell’altro mediante l’un l’altro della relazione. Ma mentre per Ricœur è primariamente l’amore il luogo da cui parla la relazione, per Lévinas è la giustizia. Ma chi è veramente il terzo e perché mi è più prossimo del tu? In Lévinas egli è essenzialmente l’idea ‘dell’altro-dell’altro’ e ‘dell’altrodall’altro’; «prossimità raddoppiata a forza di essere sdoppiata»33. Egli è, al limite, il ‘tradimento’ dell’amicizia duale, che rivolge lo sguardo di uno dei due partners verso quel prossimo che sta alle spalle dell’amico. È sguardo distratto che si accorge di un altro. È caduta di quella contemplazione che garantiva la fusione con la seconda persona. Strano a dirsi ma è proprio da un tradimento (della dualità) che nasce la giustizia del terzo. L’illeità, che mi guardava all’accusativo senza mostrarsi, ora ha un volto: è lui che con l’epifania del suo volto è divenuto già prossimo del prossimo, mio prossimo. Si dà così piena giustificazione, secondo la nostra linea di riflessione, di quella «suprema astrazione e suprema concretezza del volto dell’altro»34 di cui parla Lévinas: suprema astrazione finché si rimane nel rapporto duale, suprema concretezza con l’entrata in scena del terzo.

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E. LÉVINAS, Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, Martinus Nijhoff Publishers B.V., La Haye, 1978, tr. it. a cura di S. Petrosino e M.T. Aiello, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Jaca Book, Milano, 1983, p. 21. 33 P. RICŒUR, Autrement…, cit., p. 37. Cfr. anche E. LÉVINAS, Autrement qu’être…, cit., p. 21, «La presa di coscienza è motivata dalla presenza del terzo affiancato al prossimo avvicinato; anche il terzo è avvicinato; la relazione tra il prossimo ed il terzo non può essere indifferente all’io che si approssima». Ancora: «Il terzo è altro dal prossimo, ma anche un altro prossimo, ma anche un prossimo dell’Altro e non semplicemente il suo simile», ivi, p. 196. Nella stessa direzione, ma in un contesto diverso di significati, si pone anche J.P. Sartre per cui il terzo è colui che «guarda l’altro che mi guarda» ma anche colui che «guarda l’altro che io guardo», cfr. J-P. SARTRE, L’être et le néant, Gallimard, Paris, 1943, tr. it. di G. Del Bo, rev. e cura di F. Fergnani e M. Lazzeri, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano, p. 479. 34 E. LÉVINAS, Autrement…, cit., p. 75.

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L’istituzione È sul versante istituzionale, come si diceva, che occorre registrare la netta presa di distanza di Ricœur dal personalismo storico di impianto mounieriano. Il giudizio di assoluta negatività che Mounier pronuncia a più riprese contro il mondo borghese semplicemente travolge nel suo impeto anche le istituzioni del vivere associato, depersonalizzanti, massificanti e funzionali al decadimento politico di una forma corrotta di civiltà. «Non vi è dubbio – sottolinea Ricœur – che la focalizzazione sullo spirito del mondo moderno abbia incoraggiato (in Mounier) una sottostima della dimensione istituzionale»35. Il mondo moderno è totalmente corrotto, malvagio; le sue istituzioni sono funzionali alla sua decadenza, esse perpetuano l’individualismo, la ricerca del profitto, la facilità automatica del denaro. In Emmanuel Mounier. Una filosofia personalista Ricœur sottolinea come il filosofo di Grenoble riduca i tipi di civiltà in «forme pure», in «dottrine limite», «che sono meno delle teorie che dei generi di vita», delle «maniere d’essere», dei «profili limite» o delle «direzioni d’esperienza». Il mondo borghese è «qualcosa che per essenza si disfà, come un movimento di dispersione». Il borghese è stile discendente: dai valori di creazione tipici del mondo medievale a quelli del confort del mondo moderno, dall’eroe al borghese. L’individuo è un polo di società, meglio un «contropolo», l’avarizia di fondo «di un essere senza generosità»36. Così la società contrattuale dell’individuo anonimo si ergerebbe contro la ‘comunità naturale’ del realismo personalista. Perciò Mounier «semplicemente assimila spiritualità a forma di civiltà»37, mentre la forma istituzionale della civiltà borghese rimane lo specchio fedele di un decadimento sociale e culturale. Istituzioni borghesi garantiscono all’individuo borghese quel mondo dell’apparenza e della considerazione, del denaro e dell’impersonale, del giuridicismo e dell’egoismo che sono il suo autentico terreno di coltura. È così che l’istituzione perpetua quei «giochi di maschere che a poco a poco si incarnano nel volto, fino a non distinguersi più dal viso dell’individuo»38. Il ‘tu’ di un volto reale è, 35 P. RICŒUR, Mounier e «Esprit» nel cuore del XX secolo, in P. RICŒUR, Emmanuel Mounier. L’attualità di un grande testimone, Città Aperta Edizioni, Troina, 2005, p. 61. 36 Cfr. P. RICŒUR, Emmanuel Mounier. Una filosofia personalista, in P. RICŒUR, Histoire et verité, Seuil, Paris, 1955, tr. it. a cura di C. Marco e A. Rosselli, Storia e verità, Marco, Cosenza, 1991, pp. 149-150. 37 P. RICŒUR, Mounier e «Esprit» nel cuore del XX secolo, cit., p. 60. 38 E. MOUNIER, Le personnalisme, PUF, Paris, 1949, tr. it. a cura di G. Campanini e M. Presenti, Il Personalismo, Ave, Roma, 1964, p. 58. Continua Mounier: «Un uomo astratto, senza relazioni né legami con la natura, dio sovrano in seno a una libertà senza direzione né misura, che subito manifesta verso gli altri la diffidenza, il calcolo, la rivendicazione; istituzioni ridotte ad assicurare la convivenza reciproca

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così, inesorabilmente perso attraverso il canale istituzionale; al posto della persona reale si è ormai installato l’individuo astratto. Perciò Mounier considera le istituzioni come un ‘riflesso’ della forma di civiltà borghese, mentre le osserva con lo sguardo obliquo col quale pietrifica l’individuo del confort; il suo angolo visuale non è mai rettilineo, tutto proteso a cogliere il profilo oscuro della civiltà moderna. «Mounier non ha direttamente guardato al lato istituzionale della civiltà cosiddetta borghese. Sotto il corollario dell’individualismo non viene preso in considerazione lo sviluppo contrattuale dell’individuo, ma soltanto il suo deficit rispetto all’appartenenza comunitaria […] Nel capitolo del Manifeste intitolato “La società politica”, l’inadeguatezza dell’analisi, per quanto riguarda la democrazia parlamentare, è totale; è il discredito del politico che viene trasmesso […] Per Mounier scrittore “lo stato non è una comunità spirituale, una persona collettiva nel senso proprio della parola. Esso non è al di sopra della patria, né della nazione, né a maggior ragione delle persone”»39. Ricœur sottolinea, non senza una vena di amaro dissenso, quanto le posizioni di Mounier non siano esenti da una qualche forma di responsabilità circa le difficoltà della democrazia parlamentare europea, il cui destino era quello di essere ben presto liquidata dai nascenti totalitarismi. Ma fu proprio il comunitarismo dell’utopia personalista, nutrito dalla non trascurabile influenza di Tönnies e di Gurvitch, che fece registrare, almeno in questo frangente, un autentico scacco al realismo personalista. Ma neppure dopo l’uragano totalitario e le rovine post belliche la posizione di Mounier subirà significativi scostamenti; il testo Que sais-je? (1949) fa registrare, anzi, una pressoché perfetta congruenza con le posizioni prebelliche: stesso attacco contro l’individualismo, stessa presa di distanza dall’istituzionalismo, occultato ancora dall’anelito verso la comunità personalista, stesso svilimento dello Stato se non nella sua funzione di servizio alla persona, stesso riferimento – forse ancor più ampio – all’‘istituzionalismo dei gruppi organizzati’ di Gurvitch. «Ne risulta la necessità di proteggere la persona contro l’abuso di potere e l’esigenza di un “pubblico statuto della persona e una limitazione costituzionale dei poteri dello Stato”»40. Al contrario, su una pista di riflessione opposta a quella di Mounier, si colloca l’‘istituzionalismo’ di Ricœur, che non intende rinunciare a ciò che A. Danese ha definito, con felice espressione, «lo sguardo alto dell’etidi questi egoismi, o a trarne il massimo rendimento associandoli fra loro in funzione del profitto», ivi, p. 59. Si comprende, dunque, come ancora per Mounier «le strutture della nostra vita sociale sussistono in dipendenza della nostra concezione della persona; altre strutture, sole, ci permetteranno di toglierne i residui dell’individualismo», ivi, p. 64. 39 P. RICŒUR, Mounier e «Esprit» nel cuore del XX secolo, cit., pp. 66-67. 40 Ivi, p. 86.

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ca»; si tratta, in definitiva, del doppio ancoraggio, tanto difficile quanto necessario, dell’etica alla politica e della politica alle istituzioni41. In effetti Ricœur rammemora, a più riprese, quel «nucleo etico irriducibile» che determina il «carattere non strumentale della relazione interpersonale»42 e che giustifica la cospicua serie di intersezioni che trovano il rispettivo luogo d’incontro nelle istituzioni della vita associata. «L’io, l’altro e l’istituzione costituiscono il triangolo di base dell’etica»43. C’è dunque un impersonale istituzionale che resta comunque legato a quel personale di natura etica del rapporto inter-personale. L’istituzione, pertanto, è sì un canale distributivo di giustizia, ma proprio per questo è anche un canale distributivo d’umanità perché in essa si determina per la persona «un’obbligazione non solo nei confronti di chi può incontrare faccia a faccia, ma tramite le istituzioni di distribuzione, anche con i tanti tu con cui non stabilirà mai una relazione d’amicizia, ma nei cui confronti avvertirà l’esigenza di una proporzionalità equa nella distribuzione dei beni, dei diritti e dei doveri»44. L’istituzione è finalmente il vero prósopon del terzo, che garantisce la relazione personale anche in regime di anonimato; essa è quello ‘sguardo da nessun luogo’ che intreccia gli sguardi dei distanti; è quella piattaforma neutrale che istituisce il confronto (anche giuridico) tra gli uomini; è quel sistema di riconoscimento che istituisce obblighi e ingiunge doveri; è quella sintassi che articola la grammatica dei rapporti interumani. Per questo la terzietà istituzionale fa parte di quella circolarità etica di cui tanto ha parlato Ricœur, sottolineando come essa non si aggiunga dal di fuori al rapporto diadico ma, anzi, sia contemporanea a quello; il terzo «è contemporaneo a qualunque rapporto io-tu, alla stima di sé e alla sollecitudine per l’altro, consentendo la possibilità stessa dell’incontro e impedendo che si instaurino relazioni di tipo duale, che sfociano nella fusione o nell’opposizione irriducibile»45. Tutto ciò che evita da un lato 41 Insiste, ancora, Danese: «la politica impregnata di eticità, lungi dallo scade-

re – secondo una moda razionalista e neutralista – nella fantasticheria, nello spiritualismo sterile e nella chiacchiera, è l’impegno principe per realizzare uno sviluppo più pienamente umano, per non cedere alla suggestione dei cinici, che ritengono abissale la separazione tra idealismo morale e realismo politico», in A. DANESE, Etica della responsabilità e politica, in P. RICŒUR, Persona, comunità e istituzioni. Dialettica tra giustizia e amore, a cura di A. Danese, ECP, Fiesole, 1994, p. 18. 42 Cfr. AA.VV., L’io dell’altro, a cura di A. Danese, Marietti, Genova, 1993, p. 268. 43 Cfr. P. RICŒUR, Avant la loi morale, l’éthique, in Encyclopaedia Universalis, II, Les Enjeux, Paris, 1985, pp. 42-45. Cfr. A. DANESE, Etica della responsabilità e politica, cit., p. 19. 44 A. DANESE, La struttura triadica dell’ethos della persona, in AA.VV., L’io dell’altro, cit., p. 18. 45 A. DANESE, Etica della responsabilità e politica, cit., p. 25.

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la fusione e dall’altro l’opposizione delimita, pertanto, l’autentico spazio della relazionalità umana. Con l’ingresso del terzo nel contesto della relazionalità umana si assiste, di fatto, in Ricœur, all’introduzione di un elemento ‘neutro’, di natura transpersonale – l’istituzione – che viene a collocarsi nel cuore stesso dell’etica. Come in S. Weil, così anche in Ricœur, l’impersonale è visto quale elemento di servizio alla persona. È opportuno sottolineare come, nel pensiero ricœuriano, il medio istituzionale non provenga per emanazione o per decadimento del rapporto interpersonale, come accadeva in Mounier. Non è propriamente la persona, nella sua ontologica apertura all’altro, a creare il medio istituzionale quale meccanismo di tutela e di salvaguardia del rapporto intersoggettivo; in altre parole, non è essa a fondare ed istituire l’impersonale. È, al contrario, il medio impersonale che in qualche modo fonda, istituisce e si rende necessario affinché due (o più) libertà si pongano, si relazionino, si personalizzino. La persona, dunque, diviene tale solo sviluppandosi in un alveo di natura istituzionale e, perciò, impersonale: «è necessaria la mediazione di un termine neutro “che faccia da terzo” tra due libertà»46. L’istituzione, propriamente parlando, non ha cominciamento. Proprio come il linguaggio, essa ci precede da sempre; «ne abbiamo la prova in questo: la storia e la sociologia etica non possono che risalire di istituzione in istituzione, verso istituzioni sempre più primitive, senza mai farci assistere a un cominciamento dell’istituzione». Ogni istituzione rinvia ad alcunché di ancestrale, sorta di «prima istaurazione mitica» (Urstiftung), che conferma il mio essere già istituito. È così che «ognuno di noi […] nasce in una situazione non eticamente neutra; sono già in gioco scelte, preferenze, valorizzazioni cristallizzate in valori che ognuno trova […] Ogni praxis si innesta sulle tracce di praxis anteriori»47. Ogni atto che possiamo compiere si innesta nella passività di un agire anteriore al nostro. 46

P. RICŒUR, Le problème du fondement de la morale, in «Sapienza», 3/1975, pp. 313-327, ora anche in tr. it. a cura di I. Bertoletti e D. Jervolino, Etica e morale, Morcelliana, Brescia, 2007, p. 84. 47 «Questa assenza di cominciamento – insiste Ricœur – fornisce un primo indizio, d’ordine semplicemente storico, della necessità di una mediazione attraverso il neutro: non sono mai davanti al cominciamento di una istituzione, giungo sempre a cose fatte […] Un tale cominciamento costituirebbe una sorta di finzione alla maniera del Contratto sociale di Rousseau. Rousseau lo sapeva bene: “eliminiamo i fatti”, diceva – e ci si è presi gioco abbastanza di lui. Questo vuol dire che si doveva entrare in una prospettiva altra da quella della storia, quella propriamente della finzione. Ogni cominciamento, in etica, non può che essere una finzione; e la comparazione con il linguaggio è tanto più pertinente in quanto il linguaggio è esso stesso un’istituzione. Nell’ordine del linguaggio non c’è alternativa a quella di produrre messaggi a partire da un codice. E in questa relazione codice-messaggio, il codice è sempre anteriore», ivi, pp. 84-87.

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Se l’istituzione, come abbiamo osservato, propriamente parlando non è fondata che in forma mitico-ancestrale, sarà invece opportuno osservare come essa si ponga al servizio della persona grazie al suo ruolo di istitutrice delle libertà individuali. «Detto altrimenti: non vi può essere storia della libertà e delle libertà senza la mediazione di un termine neutro, dotato di una inerzia propria, in breve di una libertà, oserei dire in terza persona, che è piuttosto la non-persona tra le persone»; occorre dunque il «passaggio attraverso una specie di termine neutro grazie al quale due libertà possono reciprocamente porsi»48. Qui si giunge, a nostro parere, al punto massimo di distacco tra Ricœur e Mounier. Se, infatti, per Mounier la relazione comunitaria io-tu ed io-noi poteva liberamente esprimersi anche in assenza del medio istituzionale, soprattutto grazie alla libera comunicazione delle coscienze, al mit-sein, per Ricœur l’io-tu dell’interlocuzione non può avvenire che entro la mediazione della terzietà istituzionale. Portando agli estremi l’argomentazione ricœuriana, potremmo forse giungere ad affermare che l’io, il tu ed ogni altra espressione identitaria-pronominale non potrebbe esistere se non mediata dall’elemento neutro: di qui tutti gli scacchi per «dedurre il sociale e il politico dalla relazione immediata dell’“io” e del “tu” e, conseguentemente, fare a meno del termine neutro»49. È così che l’immediato del rapporto comunitario, utopia orientatrice del pensiero mounieriano, per Ricœur è solo un «sogno», perché di fatto non coglie l’elemento strutturante l’incontro delle individualità, il terreno di appoggio su cui si possa costruire ogni relazione intersoggettiva, il medio che sottende ad ogni vincolo relazionale. La relazione alla seconda persona necessita di un sostrato che solo l’istituzione può garantire; il trait d’union tra la prima e la seconda persona è, appunto, l’elemento neutro. «Sappiamo bene – puntualizza Ricœur – come anche la relazione dialogica più intima, sia possibile solo su uno sfondo istituzionale, sullo sfondo di un ordine che assicura la tranquillità e protegge l’intimità del “faccia-afaccia”. Ma non si assicura questa tranquillità partendo dal “faccia-afaccia” stesso»50. Sono dunque le istituzioni del vivere associato che, partendo dall’ordinamento più fondamentale della lingua, ed esprimendosi attraverso gli istituti familiari, giuridici, economici, sociali, politici, valoriali e morali, rendono possibili i legami interpersonali, anche quelli di natura più intima. Perciò, anche se solo una piccola parte dei rapporti umani può essere 48

Ibidem. Ivi, p. 86. 50 Ivi, pp. 86-87. Ricœur si riferisce, in questo frangente, anche alla riflessione del sociologo A. Schütz «nel suo tentativo di passare dall’“io-tu” al “noi” e dal “noi” al “loro”. Propriamente, il “noi” stesso comporta l’“essi”, il “loro”, che è quello dell’istituzione», Ivi, p. 87. 49

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propriamente personalizzata, non se ne deduce che la rimanente e preponderante parte sia destinata all’anonimato dell’impersonale. Piuttosto sarà l’anonimato delle istituzioni che renderà possibile una personalizzazione, seppur parziale, anche di tutti quei rapporti che non possono giungere all’intimità del faccia a faccia. Ed è per questo motivo che l’istituzione, pur non essendo propriamente ‘istituita’, è per natura ‘istituente’, in quanto permette la nascita e lo sviluppo della relazione. Occorre dunque riconoscere un iniziale momento di esteriorità che è in grado di garantire l’instaurazione e l’interiorizzazione di un processo relazionale.

Il volto oscuro dell’istituzione Anche quando l’istituzione diviene istituto giuridico – e con esso compaiono la legge, la norma e la coercizione –, essa non perde mai il suo carattere istitutivo di libertà e di relazione. «La giustizia, ad esempio, non è un’essenza che io possa leggere in qualche cielo intemporale, ma lo strumento istituzionale grazie al quale più libertà possono coesistere. È quindi una mediazione di coesistenza […] La giustizia è, per così dire, lo schema di azione operante per rendere istituzionalmente possibile la comunità, la comunicazione delle libertà […] Quindi, giustizia in ultima istanza vuol dire “che la tua libertà sia”»51. Ma cosa pensare quando la giustizia si esprime attraverso l’imperativo, l’interdizione, l’elemeno costrittivo, allorché appare il «volto notturno dell’etica»? Questo volto tenebroso della dike si esprime innanzitutto all’imperativo negativo: “non fare!”, “non uccidere!”… Con la severità della morale la libertà sembra ormai lontana, obliata. «Comincia qui a trionfare il “si deve” come qualche cosa che mi è estraneo, come l’altro»52. L’interdizione si pone, allora, come autentica scissione tra l’affermazione di me stesso come libertà e la legge morale come divieto. Di più: a giudizio di Ricœur proprio qui ha inizio la scissione tra sé e sé, o meglio: qui ha inizio il gran detour da sé a sé. Come la fenomenologia ermeneutica del Sé aveva già sperimentato l’ampia digressione attraverso simboli, metafore, sedimenti culturali che a prima vista apparivano come elementi estranei all’identità individuale, così ora anche in etica il processo di riappropriazione del sé e della sua libertà avviene a partire da un’esperienza di estraneità. L’interdizione della legge, dunque, esprime questa frattura primitiva del Sé, entro cui risuona la voce estranea e negativa dell’interdizione53. Appaio a me stesso come un essere duplice, in una posizione ora 51

Ivi, pp. 89-90. Ivi, p. 93. 53 Si tratta, in definitiva, dell’heideggeriana Gewissen; di uno sdoppiamento coscienziale per cui una voce si rivolge a me dentro di me. 52

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di comando ora di obbedienza; una parte di me comanda sull’altra. Tuttavia la norma, nonostante si esprima all’imperativo negativo, sottende la funzione positiva di preservare l’unità del Sé contro la dispersione delle sue volizioni. La norma tutela l’unità del Sé contro la frammentarietà distruttiva che le volizioni e le disseminazioni dei desideri produrrebbero se lasciati in balìa non più della libertà ma dell’arbitrio. È così che anche l’interdizione, nonostante appaia quale elemento di esteriorità assoluta, è in realtà lo strumento interiore di tutela della libertà contro il proprio stesso arbitrio. Parallelamente, a livello sociale, la norma coercitiva tutela la libertà di tutti contro l’arbitrio di ciascuno54. Ricœur ripercorre, a questo proposito, la riflessione intorno al concetto di Herrschaft (dominio, autorità) che M. Weber ha analizzato in Economia e società. Si tratta di cogliere il momento in cui, in un gruppo sociale, si assiste «ad una sorta di scissione interiore in forza della quale il ceto di chi comanda e quello di chi ubbidisce divengono distinti». L’esperienza della Herrschaft nasce, dunque, dal fatto che «quanti comandano non sono quelli che ubbidiscono»; viene così a determinarsi un’autorità, che è funzionale al potere, per cui una struttura sociale assume un certo ordinamento basato su un sistema di legittimità in cui uno o più individui hanno il diritto e il compito di imporre l’ordine. Così il corpo sociale viene a scindersi in una Herrschaft e in un Verband. Forse proprio in questa esperienza archetipica di socialità possiamo rinvenire il nucleo essenziale sia della scissione interiore del Sé che della perentorietà della legge morale che si presenta nel Sé come assoluta estraneità. Altrimenti detto: la relazione di comando e di obbedienza che innerva la struttura etica del Sé sarebbe nient’altro che l’introiezione dell’esperienza primitiva di una relazione di origine sociale, legata alla distribuzione del potere in un gruppo. L’imperativo della legge sarebbe l’eco profonda dell’esperienza dell’Herrschaft e della perentorietà della voce del capo. L’ordine di valori che la legge morale, nelle sue forme istituzionali, impone a ciascuno, mirerebbe dunque ad educare la volontà di ciascuno grazie a strutture gerarchizzanti già interiorizzate che si esprimono nella forma dell’imperativo. È ovvio che dal weberismo si sarebbe così passati al freudismo; ma occorre notare la non trascurabile differenza che per Ricœur la norma che si istituzionalizza esprimendosi all’imperativo può essere interiorizzata dall’uomo soltanto in quanto esperienza di libertà. La legge è interiorizzata solo in quanto implicito e riconosciuto cammino di valorizzazione della propria identità. «Come potremmo mai interiorizzare un imperativo 54 Si sarà senz’altro notato come l’argomentazione ricœuriana si nutra, a questo proposito, di profonde tonalità hegeliane. È infatti Hegel «che distingue il Willkür (la volontà arbitraria) dal Wille (la volontà razionale), e mostra come attraverso il contratto, e quindi attraverso uno scambio tra volontà implicante un momento di universalità, la volontà si educhi alla razionalità», ivi, p. 95.

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estraneo se, alla fine, non fossimo in grado di riconoscervi il cammino della nostra liberta?»55. È così che l’istituzione, anche nel suo ‘lato oscuro’, «rende duraturo il vivere insieme nel tempo e dà stabilità alla società come tale. Non esiste infatti società senza riferimenti oggettivi comuni, di ordine giuridico, morale, culturale, di paradigmi di condotta legati a codici scritti o tradizioni orali»56. Grazie a questo terreno comune di genere neutro che l’istituzione rappresenta, il ciascuno non è ridotto all’anonimato impersonale dell’on heideggeriano. Certo rimarrà l’altro, lo sconosciuto, il lontano; ma continuerà ad essere un mio simile, un prossimo che non conosco ma per cui posso ancora esprimere la sollecitudine della giustizia. La portata etica delle istituzioni, allora, sarà quella di espandere l’esperienza della sollecitudine interpersonale al maggior numero, addivenendo di fatto ad una ‘sollecitudine istituzionale’ che trasformi «le differenze d’esclusione in alterità relazionali»57. «La persona perciò ha un’obbligazione non solo nei confronti di chi può incontrare faccia a faccia, ma tramite le istituzioni di distribuzione, anche con i tanti tu con cui non stabilirà mai una relazione d’amicizia, ma nei cui confronti avvertirà l’esigenza di una proporzionalità equa nella distribuzione dei beni, dei diritti e dei doveri»58. Se il volto dell’altro convocava a responsabilità, ora è l’altro senza volto che reclama l’assunzione di quella responsabilità.

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Ibidem. A. DANESE, La dialettica fra amore e giustizia, in D. IANNOTTA, a cura di, Paul Ricœur in dialogo. Etica, giustizia, convinzione, Effatà, Torino, 2008, p. 204. 57 R. SIMON, Étique de la responsabilité, Cerf, Paris, 1993, p. 91. 58 A. DANESE, La struttura triadica dell’ethos della persona, in AA.VV., L’io dell’altro. Confronto con P. Ricœur, a cura di A. Danese, cit., pp. 18-19. 56

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ETICA E CITTADINANZA: LE PROPOSTE DI IERI E LE PROSPETTIVE PEDAGOGICHE DI OGGI Sira Serenella Macchietti All’emergenza educativa di cui tutti parlano e che ognuno di noi può constatare sembra collegarsi una rinnovata attenzione per l’educazione alla cittadinanza, che oggi costituisce una disciplina di studio ‘autonoma’ indicata con l’espressione Cittadinanza e Costituzione, alla quale si chiede di promuovere nelle giovani generazioni la capacità di costruirsi come cittadini attivi e responsabili. Per comprendere le ragioni e il significato di questo insegnamento e le sue potenzialità educative sembra opportuno richiamarsi pur rapidamente alla sua storia, per conoscerne l’evoluzione e per renderlo storicamente puntuale, culturalmente ed eticamente produttivo e coerente con l’antropologia che è alla base della nostra Costituzione e della nostra democrazia.

Dai ‘doveri’ ai ‘diritti’ del cittadino Nel nostro Paese fin dalla prima metà dell’Ottocento il compito di contribuire al «cemento dell’unità nazionale» è stato affidato alla scuola e particolarmente a quella primaria. Questa fiducia nella possibilità della scuola di formare la coscienza civile e nazionale dei cittadini dell’Italia unita è infatti già presente nella cultura risorgimentale e successivamente è testimoniata dai vari programmi scolastici per l’istruzione primaria, in cui figurava l’insegnamento dei Doveri dell’uomo e del cittadino, il quale, a seconda della varietà del clima politico, assumeva connotazioni diverse, rischiando anche di configurarsi come una proposta di morale laica, chiamata a sostituire quella legata alla religione cattolica1. Nel corso dell’Ottocento però l’attenzione è stata rivolta prevalentemente all’educazione ‘ai doveri’, come dimostrano, ad esempio, le Istruzioni ai maestri delle scuole primarie sul modo di svolgere i programmi approvati con R.D. del 15 settembre 1860 di Angelo Fava, Ispettore Generale degli Studi tecnici primari e delle Scuole normali2, che chiedevano agli insegnanti di ‘ammaestrare’ gli alunni in modo da renderli capaci di obbedire alle leggi dello Stato e di rispettare ‘le podestà costituite’3. 1 S.S. MACCHIETTI, La scuola elementare e l’educazione del cittadino tra l’ultimo Ottocento e primo Novecento, in «Prospettiva EP», n. 4, lug.-ago. 1985, p. 51. 2 Ivi, p. 52. 3 S.S. MACCHIETTI, Dai “doveri del cittadino” all’“educazione civica e costituzio-

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In questa prospettiva si collocavano anche le Istruzioni del Ministro Coppino (R.D. del 10 ottobre 1867) sui libri di lettura, che domandavano di educare ad «amare e a servire la patria» cioè «quella civile società alla quale ci stringono e l’origine e la lingua, le comuni leggi e gli interessi, le memorie e le speranze»4. Richieste analoghe a queste erano presenti nell’art. 2 della Legge sull’obbligo dell’istruzione elementare del 15 luglio 1877 che collocava nell’elenco degli insegnamenti «le prime lezioni dei doveri dell’uomo e del cittadino» e nelle Istruzioni Generali del 1888. Alla fine del secolo nei Programmi Baccelli del 1894, in cui si riaffermava la concezione della scuola elementare come «palestra di preparazione per tutti al vivere civile», la storia, la geografia, i diritti e i doveri costituivano un’unica ‘materia’ i cui insegnamenti dovevano «concorrere allo scopo di far conoscere ed amare la patria, svegliare le coscienze e scaldare il sentimento di italianità»5. In questi programmi venivano ribadite le istanze risorgimentali e si cercava di conferire un carattere culturale all’insegnamento dei diritti e dei doveri. Si suggeriva anche di riflettere sul rapporto che intercorre tra i doveri e i diritti dei cittadini. Inoltre si chiedeva di concedere un po’ di spazio ai diritti «desunti dallo Statuto del Regno», di cui si doveva far menzione partendo dalla III classe, ma «con discrezione e con accorgimenti particolari» e tali da evitare che gli alunni fossero obbligati «a ritenere quello che va oltre il loro intendimento». A questo proposito si affermava che la comprensione è possibile quando è saldamente fondata sull’educazione morale, la quale può consentire di capire il valore della lealtà, della giustizia, della cooperazione «alla prosperità e al decoro della patria»6. I Programmi Oristano del 1905 proposero l’Educazione morale e l’istruzione civile e, successivamente, forse per reagire al nozionismo dei programmi ministeriali, Cesare Abba, in occasione del 1° maggio 1908 per commemorare la Festa del Lavoro, dedicò «ai giovani alunni delle scuole primarie» un «Decalogo civile», in cui invitava ad amare i compagni, i genitori, i maestri, a rispettare tutti, a difendere i propri diritti, a non rassegnarsi alla prepotenza, ad essere amici dei deboli, a santificare nale”, in L. CORRADINI, G. REFRIGERI, a cura di, Educazione civica e cultura costituzionale, Il Mulino, Bologna, 1999, p. 141. 4 Cfr. S.S. MACCHIETTI, La scuola elementare e l’educazione del cittadino tra l’ultimo Ottocento e primo Novecento, in «Prospettiva EP», cit., p. 52. 5 S.S. MACCHIETTI, Dai “doveri del cittadino” all’“educazione civica e costituzionale”, in L. CORRADINI, G. REFRIGERI, a cura di, Educazione civica e cultura costituzionale, cit., p. 142. 6 Cfr. S.S. MACCHIETTI, La scuola elementare e l’educazione del cittadino tra l’ultimo Ottocento e primo Novecento, in «Prospettiva EP», cit., pp. 54-55.

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ogni giorno con qualche azione «utile e buona, con qualche atto gentile», a coltivare lo studio, «che è pane della mente», la giustizia «senza la quale non c’è che miseria» e ad operare per far sì che tutti gli uomini «cittadini di una patria sola» potessero vivere in pace da «buoni fratelli»7. Questo «Decalogo», che venne distribuito a tutti gli alunni delle scuole di Brescia (città in cui C. Abba trascorse gli ultimi anni della sua vita e dove morì nel 1910), divenne il vademecum dei maestri elementari desiderosi di promuovere la coscienza morale e civile dei loro alunni e dei ‘giovinetti’ che si preparavano ad entrare «nella vita produttiva…» o che ‘lavoravano’8.

Il cittadino ‘modello’ L’azione svolta dalla scuola per educare il popolo ai ‘doveri’ civili è stata sostenuta negli anni post-unitari da una vasta letteratura popolare che proponeva ai fanciulli vari modelli di cittadini onesti e laboriosi, ubbidienti alle leggi dello Stato e fieri di essere italiani. In questa prospettiva si collocò il concorso bandito dalla Società Pedagogica Italiana per la realizzazione del «Plutarco Italiano» cioè di un’opera che, ispirandosi alle Vite parallele di Plutarco, doveva rivelarsi capace di diffondere degli exempla di personaggi che si erano impegnati e sacrificati per il progresso della nazione. In un certo senso con questa proposta veniva a concretizzarsi la suggestione esercitata dal self-help9 che affidava ad ogni cittadino «il compito di contribuire alla nascita della responsabilità morale nell’agire in società»10. Su questa linea si poneva anche il testo di M. Lessona Volere è potere, pubblicato nel 1869, al quale seguirono il Giannettino di Collodi e Cuore di E. De Amicis, che proponevano esempi di «cittadini modello» 7

Cfr. S.S. MACCHIETTI, Dai “doveri del cittadino” all’“educazione civica e costituzionale”, in L. CORRADINI, G. REFRIGERI, a cura di, Educazione civica e cultura costituzionale, cit., pp. 143-144. 8 Cfr. P. PASQUALI, Il «Decalogo civile» spiegato ai giovani, Cooperativa Tipografica, Brescia, 1911. 9 L’ideale del self-help viene teorizzato nel testo omonimo di S. Smiles, tradotto in Italia e pubblicato, fra gli altri, da E. Treves a Milano nel 1865 con il titolo Chi si aiuta Dio l’aiuta, ovvero Storia degli uomini che dal nulla seppero innalzarsi ai più alti gradi in tutti i rami dell’umana attività. 10 A questo proposito S. Lanaro osserva che «l’adozione del self-help come asse di un’etica collettiva, in una cornice di riformulazione economistica del patriottismo, emerge anche dalle iniziative ufficiali» che mirava «all’italianizzazione del repertorio smilesiano di vite esemplari». S. LANARO, Il Plutarco italiano: l’istruzione del popolo dopo l’Unità, in Annali della Storia d’Italia, Einaudi, Torino, 1981, vol. IV, p. 560.

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ai ragazzi e al popolo «considerato come un fanciullo da educare» e spronato ad uscire dalla sua ‘minorità’ intellettuale e a ‘riscattarsi’ per poter contribuire al progresso morale e delle condizioni di vita dell’umanità e delle nazioni. Talvolta nella letteratura per i ragazzi e per il popolo era presente l’esaltazione del progresso scientifico ed implicitamente della cultura del positivismo. Significativo è, a questo proposito, il Viaggio per l’Italia di Giannettino del Collodi, in cui l’Autore sottolineava l’importanza della nuova civiltà industriale, il «fascino della conoscenza e della tecnologia», l’ingegno dell’uomo e ricordava le glorie del passato11. Comunque prevalentemente la più diffusa letteratura per i ragazzi e per il popolo rappresentava e prefigurava l’ordine composito della nuova società italiana, in cui ogni ceto sociale doveva rispettare i propri ruoli e le proprie funzioni ed accettare la propria condizione economicosociale. Inoltre era sempre celebrata l’etica del lavoro anche se in una versione ‘paternalistica’. A questo proposito possiamo ricordare anche un famoso testo di C. Cantù, dal titolo Portafoglio di un operaio, in cui l’Autore esprimeva la certezza che, ripristinando una morale dell’ordine e del rispetto, era possibile avere una crescita reale del popolo, ordinata e conforme alle regole dello Stato e della convivenza sociale. A suo avviso infatti «L’istruzione… ravvicina gli uomini e le classi e ne rende più gradevoli le comunicazioni»12 e dà alla società intera maggiore serenità. In questa prospettiva si era posto anche il Giannetto di Parravicini, pubblicato nel 1837, il quale raccontava la vicenda di un giovane, che grazie all’istruzione, da semplice garzone di bottega, era riuscito a raggiungere una migliore condizione sociale. In questa ottica si collocavano spesso i manuali scolastici13 i quali intendevano contribuire a migliorare le condizioni igienico-sanitarie del popolo ed a sradicare alcuni elementi della tradizione popolare giudicati inadeguati ad una società ‘civile’. Ma in alcuni testi si andavano affermando il culto della grandezza nazionale e l’esaltazione dell’appartenenza all’Italia e delle sue radici storico-culturali14. Negli anni ’30 del secolo scorso, come è noto, prese avvio nel nostro Paese un processo che doveva portare alla fascistizzazione della scuola, la quale si espresse particolarmente nei libri di testo, che, accanto all’esal11

Ivi, p. 563. C. CANTÙ, Portafoglio di un operaio, Bompiani, Milano, 1871, p. 16. 13 Cfr. ad esempio P. FORNARI, Tomaso o il Galantuomo istruito, Carrara, Milano, 1868. 14 Cfr. M. BACIGALUPI, P. FOSSATI, Da plebe a popolo, La Nuova Italia, Firenze, 1986, p. 117. 12

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tazione patriottico-risorgimentale, coltivavano ideali nazionalistici e celebrativi del regime15. Questo processo portò nel 1934 all’introduzione nella scuola dell’insegnamento della ‘cultura militare’, obbligatorio per tutti gli alunni maschi di quella secondaria. La militarizzazione della società e dello Stato infatti intendeva trovare nella scuola uno dei veicoli preferenziali: i programmi di ‘storia’ e di ‘nozioni varie’, in cui era compreso il diritto, ne sono una testimonianza16. Questa progressiva ‘avanzata’ verso la fascistizzazione trovò poi compimento nella Carta della Scuola del 1939 la quale, a causa degli eventi bellici, non si attuò.

Democrazia e ‘risveglio delle coscienze’ Negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale il nostro Paese visse una stagione di grande fervore educativo che si era già espresso in maniera significativa durante il periodo della Resistenza e che è testimoniato anche dal documento elaborato dalla Commissione didattica della Repubblica dell’Ossola17, il quale chiedeva alla scuola di contribuire alla ‘riedificazione’ dell’Italia, alla costruzione di un «nuovo ordinamento sociale e politico», a promuovere la disponibilità e la capacità di partecipare al ‘nuovo Risorgimento nazionale’ e «al rinnovamento in atto di tutta la civiltà»18. In questo documento, elaborato da una Commissione pluralistica, la democrazia era vista alla maniera di J. Maritain, come «un governo du peuple, pour le peuple et par le peuple»19. 15 Rappresenta in maniera significativa questa tendenza il libro Giovinezza (O. QUERCIA, Tanzanella (Ornella), Giovinezza, Industrie Riunite, Palermo, 1927), i cui personaggi sono ‘balilla’ orgogliosi della loro ‘grande patria’ per la quale si annunciavano ‘gloriosi destini’. 16 F.V. LOMBARDI, I programmi per la scuola elementare dal 1860 al 1955, La Scuola, Brescia, 1975, pp. 449-451. 17 Cfr. S.S. MACCHIETTI, Le istituzioni educative tra “tradizione” e democratizzazione nel biennio 1943-45, in AA.VV., Confronto Italiano: atti degli incontri di Cetona 1994-1995, Edizioni Regione Toscana, Firenze, 1997, pp. 273-286. 18 Cfr. il documento, Proposte della Commissione Didattica Consultiva approvate dalla Giunta Provvisoria di Governo, Fonte: La Repubblica dell’Ossola, 9 settembre-23 ottobre 1944, Domodossola, 1964, in G. CANESTRI, G. RICUPERATI, La scuola in Italia dalla legge Casati a oggi, Loescher Editore, Torino, 1976, p. 208. 19 Cfr. A. AGAZZI, Le prospettive della riforma democratica e di quella pedagogica della scuola italiana dopo il 1945, in S.S. MACCHIETTI, a cura di, Questioni di storia della scuola italiana (1945-1985), Quaderni dell’Istituto di Pedagogia, Facoltà di Magistero, Università degli Studi di Siena, Arezzo, 1986, p. 15.

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Questa visione della democrazia successivamente fu ampiamente condivisa dai padri della nostra Repubblica e determinò la diffusione della certezza che la democratizzazione delle istituzioni scolastiche «doveva espellere e superare i motivi più tipici, centralistici e totalitari del sistema e dell’ordinamento amministrativo e giuridico della scuola del periodo fascista»20. Emergeva pertanto un’attenzione specifica per il rapporto educazione-democrazia, la quale non era vista soltanto come un patrimonio da difendere ma anche e soprattutto come una realtà da costruire e da potenziare. Si affermava infatti che l’uomo ‘vale’ e può produrre cultura e che l’educazione, la quale coltiva e valorizza le sue potenzialità, lo rende capace di democrazia… A questo proposito nel 1948 Giuseppe Lazzati sosteneva che l’affermazione della democrazia «implica, come fondamento e come méta ad un tempo, lo sviluppo pieno della persona umana», il cui valore «è sostanza di democrazia». «Quindi se la personalità, come sviluppo armonico della persona in tutti i suoi aspetti, è frutto di educazione, appare subito evidente che l’azione educativa è indispensabile per la costruzione della “democrazia”»21. In questa prospettiva all’azione educativa si chiedeva di tener presenti le esigenze della persona e si domandava alla scuola di impegnarsi per tradurre «i principi di democrazia» «in vita delle coscienze…»22. La democrazia infatti era considerata «l’inizio della salvezza» la quale non poteva non venire dalle coscienze, dalle energie personali, dall’intelligenza e dall’amore pedagogico degli educatori23. La diffusione di questa cultura consentì alla fine della seconda guerra mondiale di dare avvio ad un processo di ‘ricostruzione’ sociale, etica e politica, «le cui idee regolatrici furono fondamentalmente quella di democrazia e democratizzazione e quella di socialità e socializzazione». Queste idee erano presenti nei Programmi del 1945 per la scuola elementare che prevedevano L’educazione morale, civile e fisica, alla quale si domandava di «svegliare nei fanciulli il senso individuale della responsabilità e di destare in essi il bisogno dell’ordine, del rispetto, dell’aiuto reciproco: in breve delle virtù civili, sociali e morali». 20

Ibidem.

21 Cfr. G. LAZZATI, Introduzione al saggio di A. BARONI, Per la formazione socia-

le civile e politica della gioventù, Editrice Studium, Roma, 1948, pp. 5-6. 22 S.S. MACCHIETTI, Valori etici ed educazione alla cittadinanza, in A. CATELANI, P. BAGNOLI, Valori etici e costituzioni moderne, Incontro di studio interdisciplinare (Arezzo, 15 marzo 2006), Dip. di Studi Storico-Sociali e Filosofici, Fac. di Lettere e Filosofia di Arezzo, Università degli Studi di Siena, Stampa Editoriale, Avellino, 2007, p. 48. 23 Cfr. A. BARONI, Per la formazione sociale civile e politica della gioventù, cit., pp. 9 e ss.

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A queste virtù si richiamavano anche i Programmi Ermini per la scuola elementare (1955), i quali (pur prevedendo formalmente l’educazione civile soltanto nel secondo ciclo), in coerenza con la «tradizione educativa umanistico-cristiana», cui si ispiravano, invitavano «ad avviare i fanciulli alla pratica acquisizione delle fondamentali abitudini in rapporto alla vita morale, al comportamento civile e sociale…»24.

L’educazione civica: inquietudini ed attese Nel 1958 in una stagione di grande ‘fiducia nella democrazia’ e nella possibilità di democratizzare il sistema scolastico, venne introdotto ufficialmente nella scuola l’insegnamento dell’educazione civica (D.P.R. n. 585 pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 143 del 17/06/1958). La prospettiva in cui il Decreto si collocava era quella di una scuola educativa che si proiettava verso la vita sociale, giuridica, politica ma l’insegnamento dell’educazione civica, che era collegato a quello della storia e della geografia, incontrò fin dalla sua attivazione qualche difficoltà forse anche per la mancanza di uno spazio autonomo. Una Circolare Ministeriale del 1968 ribadiva l’importanza di questo insegnamento, invitando a «superare il ristretto ambito disciplinare ed a prestare attenzione alla formazione del cittadino nella proposta di ogni disciplina scolastica». Su questo insegnamento si espressero autorevolmente alcuni pedagogisti (A. Agazzi, G.M. Bertin, L. Borghi)25 e M. Mencarelli, il quale nel 1969 rilevava che l’educazione civica costituiva un problema da risolvere e invitava a valorizzarla come disciplina di studio «aperta agli orizzonti della vita e dell’educazione familiare, ambientale e regionale». Sosteneva inoltre che essa «investe l’essenza dell’educazione contemporanea nell’impegno di aiutare l’individuo a risolvere i problemi connessi con la sempre più complessa vita di relazione»26. Questo problema non trovò una soluzione neanche nei Programmi didattici per la scuola elementare del 1985 che non concessero uno spazio specifico all’educazione civica anche se nella Premessa si precisava che «la scuola elementare ha per suo fine la formazione dell’uomo e del cittadino nel quadro dei principi affermati dalla Costituzione della Repubblica: 24

I Programmi del 1955, pubblicati nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, fasc. n. 146 del 27/06/1955. 25 G. SERAFINI, L’educazione civica nella pedagogia italiana, in «Prospettiva EP», n. 4, cit., pp. 29-35. 26 Cfr. M. MENCARELLI, Prospettive pedagogiche e didattiche dell’educazione civica, in AA.VV., L’educazione civica nella scuola italiana: storia, problemi e metodi, AIMC, Roma, 1969, p. 159.

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essa si ispira, altresì, alle dichiarazioni internazionali dei Diritti dell’Uomo e del Fanciullo ed opera per la comprensione e la cooperazione con altri popoli»27. In effetti non mancavano nel testo programmatico specifiche attenzioni alla promozione del ‘cittadino’ presenti in particolare nel paragrafo Educazione alla convivenza democratica e nel capitolo Storia-geografiastudi sociali. Riflettendo su questi programmi, Mario Mencarelli nel 1985 richiamò l’attenzione sul dovere di promuovere «una diffusa presa di coscienza della necessità di crescere e di vivere come cittadini», disponibili alla partecipazione democratica e consapevoli del suo profondo valore umano e umanizzante, capaci di prender posizione davanti agli eventi, di testimoniare il coraggio di arginare i processi di deterioramento del tessuto sociale, non limitando la propria iniziativa al reagire perché profondamente convinti del fatto che «la vita democratica attende da ciascuno una capacità proattiva, cioè di progettazione originale e operativa». Ricordava però che l’impresa non poteva essere affidata soltanto alla scuola e doveva coinvolgere «tutte le “agenzie” extra-scolastiche, a cominciare dalla famiglia e dalle associazioni, dai partiti politici ai sindacati fino alle “scuole parallele” (che dispongono di canali penetranti ed incisivi). Secondo la logica dell’educazione permanente infatti ogni “agenzia educativa” ha una sua funzione e una sua responsabilità nella progettazione e nella costruzione del futuro, visto in particolare sotto l’ottica della educazione civile…»28. Pertanto Mario Mencarelli invocava un impegno profondo e condiviso, e, ricordando che nei programmi della scuola media del 1979 «l’educazione civica era “intesa come finalità essenziale dell’azione formativa”» scolastica29, si chiedeva perché tali principi non avevano ancora trovato «vasta ed efficace realizzazione». Ai problemi dell’insegnamento dell’educazione civica negli ultimi anni del secolo scorso si cercò di dare varie soluzioni, sul piano della ricerca pedagogica e su quello istituzionale con il D.M. 1403, che prevedeva l’insegnamento dell’Educazione civica e cultura costituzionale, la cui proposta fu chiarificata con la Direttiva n. 58 del 8/02/1996, accompagnata da un allegato dal titolo significativo Nuove dimensioni formative, educazione civica e cultura costituzionale30. 27

Programmi Didattici per la Scuola Elementare, varati con D.P.R. n. 104 del 12/02/1985. 28 M. MENCARELLI, Un problema sempre più emergente (Editoriale), in «Prospettiva EP», n. 4, cit., pp. 1-2. 29 Ivi, p. 2. 30 Allegato alla Direttiva n. 58, 8 febbraio, in La scuola e didattica, n. 16/1996.

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In questo documento, che sottolineava il valore etico, sociale e giuridico della Costituzione Italiana31, si sollecitava la scuola «ad abilitare le nuove generazioni al saper essere, al saper interagire e al saper fare, in un mondo sempre più mobile e complesso». Si precisava inoltre che «lo specifico scolastico è chiamato a concentrarsi essenzialmente sulla trasmissione e per quanto possibile sulla elaborazione del sapere, inteso come conoscenza della realtà… ma anche come coscienza dei valori della vita». A causa della fine del Governo Dini l’insegnamento dell’Educazione civica e cultura costituzionale non entrò in vigore. Successivamente negli anni 2000 la ‘formazione alla cittadinanza’ è stata vista «come il cuore del sistema educativo…»32 e la Legge 53/2003 ha proposto l’educazione alla ‘convivenza civile’ che comprendeva sei ‘educazioni’ (alla cittadinanza, stradale, ambientale, alla salute, alimentare e alla affettività) ed ha richiamato l’attenzione sui valori che sono chiamati a ispirarla ed a sostenerla. Inoltre, opportunamente, nei «Profili» degli studenti si proponeva «una formazione spirituale e morale, anche ispirata ai principi della Costituzione» e si precisava che la dimensione culturale, quella etica, quella civica e quella ‘professionale’ sono pienamente e coerentemente collocate nella sfera dell’educativo33. Pertanto assumevano un particolare significato la complementarità delle quattro ‘aree’ alle quali i testi dei «Profili» facevano riferimento e la trasversalità di quella culturale, dovuta al fatto che la progressiva conquista degli alfabeti e degli ‘strumenti’ della cultura consente di «leggere e governare l’esperienza» e… «si intreccia, sia con lo sviluppo dell’identità/autonomia personale, sia con l’orientamento progettuale, sia con la capacità di “coesistere, condividere, essere corresponsabili”»34. In questa prospettiva tutta l’azione educativa della scuola era chiamata a promuovere la comprensione della necessità di darsi norme di comportamento e di relazioni indispensabili (e di riferirsi ad esse) per una convivenza umanamente valida e quindi ad educare al rispetto della vita, di sé, degli altri, della natura… e di quei valori ‘condivisi’, che sono 31 Cfr. L. CORRADINI, Educare e istruire nella scuola, oltre l’esamificio e il proiettificio, in La politica dell’USR Basilicata. Le Educazioni trasversali nell’ottica di Cittadinanza e Costituzione, pp. 6-10, MIUR-Ufficio Scolastico Regionale per la Basilicata-Direzione generale, maggio 2010, Report a cura di A. Granata, G. Campione, M. Amorigi, G. Coviello, L. Santoro. Cfr. anche L. CORRADINI, Cittadinanza e Costituzione. Disciplinarità e trasversalità alla prova della sperimentazione nazionale. Una guida teorico-pratica per docenti, Tecnodid, Napoli, 2009. 32 Cfr. Legge-quadro in materia dei cicli dell’istruzione, n. 30, 10 febbraio 2000, abrogata dalla Legge 28 marzo 2003, n. 53, artt. 7, 12. 33 Cfr. M.T. MOSCATO, Il Profilo educativo dello studente, in «Scuola e Didattica», n. 16, 1 maggio 2003, p. 14. 34 Ivi, p. 15.

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alla base dell’esistenza della comunità locale, nazionale ed internazionale. Collocare l’azione educativa in questa ottica significa quindi impegnarsi per l’educazione di un cittadino responsabile… capace di convivenza civile e ‘solidale’35. In coerenza con questi motivi e con questi principi si sono collocate anche le Indicazioni per il curricolo del 2007 in cui si parlava di «una nuova cittadinanza» e si chiedeva alla scuola di ricordare che è suo compito «insegnare le regole del vivere e del convivere, di valorizzare la sua natura comunitaria». Le si domandava pertanto di generare «una diffusa convivialità relazionale, e di promuovere la condivisione di quei valori che fanno sentire i membri della società come parte di una comunità vera e propria» e come costruttori della società stessa, in cui convivono uomini con diverse identità culturali che chiedono di essere valorizzate. Pertanto l’azione della scuola era chiamata ad educare ad una cittadinanza unitaria e plurale cioè a formare cittadini italiani capaci di essere nello stesso tempo cittadini dell’Europa e del mondo. Si precisava inoltre che «l’educazione alla cittadinanza viene promossa attraverso esperienze significative che consentano di apprendere il concreto prendersi cura di se stessi, degli altri e dell’ambiente e che favoriscano forme di cooperazione e di solidarietà». Si chiedeva dunque di far leva fin dai primi anni di età sull’esperienza che consente ai bambini ed ai fanciulli di conquistare la consapevolezza del valore di ogni persona, il rispetto di sé e degli altri, della natura e dell’ambiente, delle regole e delle norme, la cui presenza è indispensabile per vivere serenamente insieme, rendendosi utili e assumendo alcuni compiti ed alcune responsabilità che non raramente risultano gratificanti. Nei primi anni di età l’educazione alla cittadinanza infatti non si può realizzare senza sperimentare ed interiorizzare regole e norme, per rendersi conto delle ragioni della loro esistenza e della loro utilità, per sentirsi membri attivi e responsabili della vita della comunità familiare e di quella scolastica, per conquistare sicurezza e per mettersi alla prova. Queste esperienze, insieme alla conquista della cultura, costituiscono una condizione indispensabile per conquistare nel corso degli studi e della vita i valori «del senso civico, della responsabilità individuale e collettiva, del bene comune», per comprendere il significato della Carta Costituzionale, per adeguarsi ai suoi principi e quindi per diventare capaci di convivere con le diversità e rispettare la dignità di ogni persona.

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S.S. MACCHIETTI, Educare a una “comune cittadinanza”, in «Il Nodo – Scuole in rete», n. 25, 15 maggio 2004, pp. 45-46.

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Cittadinanza e Costituzione: precisazioni, proposte e prospettive Con la Legge 169 del 30/10/2008 è stato istituito l’insegnamento di Cittadinanza e Costituzione che è indirizzato alle scuole di ogni ordine e grado. A questa Legge ha fatto seguito la pubblicazione del «Documento di indirizzo per la sperimentazione dell’insegnamento di Cittadinanza e Costituzione» del 4/3/2009. Inoltre è stato pubblicato un Bando di concorso aperto a tutte le istituzioni scolastiche alle quali, nel rispetto della loro autonomia, è stato richiesto di presentare progetti «finalizzati a coniugare l’acquisizione di conoscenze, relative al tema di Cittadinanza e Costituzione, con esperienze significative di cittadinanza attiva» ed a promuovere negli studenti la conquista di competenze specifiche trasversali, capaci di concorrere alla formazione di un cittadino competente, solidale e consapevole36. Per conseguire questo traguardo il Bando chiede: – la promozione della «cittadinanza attiva, partecipativa, rappresentativa, consapevole e solidale»; – la realizzazione di iniziative e di esperienze in cui gli studenti sono chiamati ad essere diretti protagonisti ed a confrontarsi come ‘cittadini attivi’; – la ricerca di «modelli e strategie finalizzati a garantire congruenza tra curricolo esplicito della disciplina e curricolo implicito dell’organizzazione scolastica»; – l’interazione «tra la scuola e le istituzioni, agenzie ed enti del territorio, come modalità in grado di dare completezza al tema della cittadinanza quale sistema integrato di rete interistituzionale»; – l’attenzione per la continuità dei percorsi formativi tra le scuole dell’infanzia del primo e del secondo ciclo; – la documentazione dei progetti finali «per la realizzazione di un circuito nazionale di buone pratiche, quali modelli trasferibili a sostegno dell’innovazione»37. I dati attualmente disponibili consentono di rilevare che sono stati presentati numerosi progetti38 la cui proposta dimostra una condivisa attenzione per la disciplina Cittadinanza e Costituzione. La realizzazione di questi progetti potrà consentire alle scuole di produrre e di arricchire la cultura della cittadinanza, di facilitare la comunicazione e la condivisione di itinerari educativi, di instaurare alleanze, allargando gli orizzonti della comunità educante e di aprirsi ad altre istituzioni per confrontarsi e per collaborare…39. 36 Cfr. S. FICHELLI, Educazione alla cittadinanza ed alla Costituzione, in La politica dell’USR Basilicata, cit., p. 12. 37 Ibidem. 38 I progetti presentati da scuole singole o capofila di reti sono stati 3.202 per un totale complessivo di 4.366 di scuole coinvolte nelle reti. 39 Cfr. a questo proposito il contributo di N. BELLUGI, intitolato L’educazione alla cittadinanza nella scolarità dell’obbligo, pubblicato in questo fascicolo di «Prospettiva EP».

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Il conseguimento di questo traguardo può essere favorito dalla chiarezza di idee sulla cittadinanza e sui valori della Costituzione.

Cittadinanza, etica delle virtù e Costituzione È agevole constatare che la parola cittadinanza oggi ha assunto molti significati, inoltre si è intensificato il dibattito sulla cittadinanza ‘forte’ e quella ‘debole’ e si sono affermate le tesi comunitariste (MacIntyre, Arendt, Sanders, Taylor). Pertanto è stata riproposta anche l’idea classica di cittadinanza intesa come appartenenza alla comunità e collocata nella prospettiva del bene comune. In questa prospettiva la cittadinanza viene vista come ‘categoria politica’ e come ‘impegno educativo’, la cui assunzione incontra non poche difficoltà a causa del relativismo dilagante che pone ostacoli non lievi all’identificazione ed alla condivisione di valori comuni, intorno ai quali costruire un ethos comunitario40. A questa visione della cittadinanza sembra contrapporsi quella universalistica-individualistica, alla quale si collega la predilezione di prospettive educative ispirate alla tolleranza, più attente alle attese ed alle aspettative individuali che ai valori culturali e collettivi41. In questa prospettiva all’educazione alla cittadinanza si chiede soltanto di promuovere la capacità di rispettare i diritti umani, regole e leggi e le differenze inter-individuali per poter convivere democraticamente. Invece nella prospettiva della cittadinanza comunitaria è indispensabile un’educazione alla responsabilità personale e comunitaria, all’apertura all’altro, alla partecipazione, all’impegno, alla solidarietà… Questo traguardo può essere conseguito soltanto quando alla base dell’educazione alla cittadinanza si pone quella morale, la quale è strettamente connessa all’acquisizione della competenza etica e non può non mirare alla promozione della capacità di agire eticamente in tre direzioni (noi stessi, gli altri, le istituzioni). Nella competenza etica convergono le conoscenze morali, derivate ora dall’esperienza («conoscenza emotiva del bene») e ora dalla ragione («valori e norme oggettive»), combinate con abilità che sono il prodotto e l’applicazione delle medesime conoscenze («saper fare: abitudini e

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Cfr. S.S. MACCHIETTI, Valori etici ed educazione alla cittadinanza, in A. CATEP. BAGNOLI, Valori etici e costituzioni moderne, cit., pp. 47-48. 41 Cfr. G. CHIOSSO, voce Cittadinanza, in J.M. PRELLEZO, C. NANNI, G. MALIZIA, a cura di, Dizionario di Scienze dell’Educazione, Facoltà di Scienze dell’Educazione-Università Pontificia Salesiana, Elle Di Ci, LAS, SEI, Leumann (To), 1997, p. 178. LANI,

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virtù»)42. Essa, «alla maniera di ogni altra competenza, coincide non solo con le conoscenze, ma con un processo di apprendimento che trasforma il sapere oggettivo in un modo di essere del soggetto»43. Il conseguimento di questo traguardo conferisce significato e senso all’educazione alla cittadinanza e richiama l’attenzione sul compito della scuola di rilevare la dimensione etica della cultura, di superare le classificazioni rigide e la gerarchizzazione dei saperi e di favorire la conquista di capacità ermeneutiche, che consentano di mettere a confronto fatti e valori e di scegliere «ciò che vale per l’uomo e per far crescere l’umanità»44. La conquista di queste capacità consente all’uomo di impegnarsi per costruirsi come ‘buon cittadino’ durante l’intero corso della sua esistenza perché il vissuto etico si configura «come dinamismo di autorealizzazione della persona stessa»45, che si alimenta di cultura, si costruisce nel rapporto con gli altri, si esprime nella partecipazione, nel coraggio, nella responsabilità, nella corresponsabilità, nella progettualità e nella ‘comunità’. A questo proposito è opportuno ricordare che «la comunità è in primo luogo un’istanza morale, è la naturale espansione della persona, della sua strutturale relazionalità e socievolezza; è insieme il dato di partenza dell’esperienza morale e un compito e un progetto46, ed è connessa alle qualità morali della persona, alle sue virtù (e ai suoi vizi)»47. L’idea di comunità appartiene quindi alla dimensione etica della persona e rinvia comunque ad uno spazio pubblico48. 42

Cfr. F. D’ANIELLO, Per un’etica della responsabilità testimoniale, in «Prospettiva EP», n. 3, lug.-sett. 2003, p. 107. 43 Cfr. C. XODO CEGOLON, L’occhio del cuore. Pedagogia della competenza etica, La Scuola, Brescia, 2001, p. 232. 44 Cfr. S.S. MACCHIETTI, Valori etici ed educazione alla cittadinanza, in A. CATELANI, P. BAGNOLI, Valori etici e costituzioni moderne, cit., p. 49. 45 Cfr. M. MICHELETTI, Persona e comunità nella prospettiva di un’etica delle virtù, in S.S. MACCHIETTI, a cura di, Alla ‘scuola’ del personalismo. Nel centenario della nascita di Emmanuel Mounier, Atti del Convegno “Alla scuola del personalismo. Nel centenario della nascita di Emmanuel Mounier” (Arezzo, 9-10 dicembre 2005), Bulzoni, Roma, 2006, p. 281. 46 Cfr. S. PALUMBIERI, Postmoderno e persona. Sfide e stimoli, in M. TOSO, Z. FORMELLA, A. DANESE, a cura di, Emmanuel Mounier. Persona e umanesimo relazionale, LAS, Roma, 2005, vol. I, pp. 59-105 (in particolare, pp. 90-91). 47 Cfr. M. MICHELETTI, Persona e comunità nella prospettiva di un’etica delle virtù, in S.S. MACCHIETTI, a cura di, Alla ‘scuola’ del personalismo. Nel centenario della nascita di Emmanuel Mounier, cit., p. 283. 48 A questo proposito si può inoltre affermare che «l’etica costruita attorno al concetto di persona non può non guardare alla perfettibile reciprocità tra persone che esprimono la propria diversità nella singolarità del proprio essere e della propria storia». Cfr. F. D’ANIELLO, Per un’etica della responsabilità testimoniale, in «Prospettiva EP», cit., p. 100.

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L’educazione alla cittadinanza viene quindi ad emergere, come sosteneva E. Mounier, dallo svelamento del fondamento etico delle persone, nel cui cuore è iscritta la «vocazione alla comunione». Pertanto questa educazione non può non collocarsi nella prospettiva dell’etica delle virtù, che ‘sollecita’ la formazione di persone virtuose, buone nel loro carattere, desiderose e capaci di effettuare scelte giuste, che coinvolgono le disposizioni affettive, la vita interiore, il raccoglimento, l’originaria apertura all’altro e che non esclude il rispetto delle ‘regole’, le quali, tuttavia, pur essendo necessarie, non «possono costituire da sole una guida sufficiente per l’azione». Infatti il «sapere come agire virtuosamente implica sempre qualcosa in più del mero seguire una regola»49. L’etica delle virtù fa appello a tutta la persona e postula un’educazione personalizzata, attenta alle singole persone viste nella loro concretezza esistenziale, per aiutarle a costruirsi ‘moralmente’ ed evita la celebrazione astratta di valori non interiorizzati che non possono incidere nelle ‘scelte’ personali e comunitarie. L’etica delle virtù inoltre «non è un’etica privata più di quanto sia un’etica pubblica, puntando piuttosto al superamento della dicotomia pubblico/privato, perché è al tempo stesso personale e comunitaria»50. L’attenzione per l’educazione morale, che fa leva sul valore e sulle potenzialità di ogni essere umano, si pone in un rapporto di coerenza con l’antropologia personalista che è alla base della nostra Costituzione la quale prospetta «una teoria e un’etica pubblica» «in un quadro teorico normativo di etica “sostantiva”, non “procedurale”, di tipo giusnaturalistico». La Carta Costituzionale infatti fa «riferimento a diritti umani inviolabili (art. 2), […] (cioè a diritti preesistenti, che le persone umane possiedono non in virtù di qualche ruolo o status particolare all’interno della società, ma semplicemente in virtù della loro umanità)», «al cui servizio è subordinato lo stesso potere pubblico»51 «con un’accentuazione personalistica e comunitaria». Nella Costituzione inoltre «si precisa che tali diritti sono garantiti a ogni uomo “sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” (art. 2)»52. In effetti nella Costituzione si riconosce la preminenza della persona umana rispetto alla società e lo Stato, «inteso come forma di organizza49 A. MACINTYRE, Animali razionali dipendenti. Perché gli uomini hanno bisogno delle virtù, tr. it., Vita e Pensiero, Milano, 2001, p. 91. 50 Cfr. G. ABBÀ, Quale impostazione per la filosofia morale?, LAS, Roma, 1996, p. 12. 51 A. BARBERA, Le basi filosofiche del costituzionalismo, in A. BARBERA, a cura di, Le basi filosofiche del costituzionalismo. Lineamenti di filosofia del diritto costituzionale, Laterza, Bari-Roma, 1998, p. 4. 52 M. MICHELETTI, Principi costituzionali ed etica pubblica, in A. CATELANI, P. BAGNOLI, Valori etici e costituzioni moderne, cit., p. 60.

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zione della società stessa, come Stato-apparato», «si ferma di fronte a quella serie di diritti che si riconoscono come originariamente, naturalmente, appartenenti alla persona…»53, la cui natura è «intrinsecamente comunitaria… e sociale». Nella Costituzione inoltre «il principio personalistico, sviluppato in una direzione solidaristica, conforme a esigenze di giustizia, è riconoscibile» «in particolare, nella richiesta dell’adempimento di doveri “inderogabili” di “solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2), o laddove si parla di “pari dignità sociale” e di eguaglianza “davanti alla legge” di tutti i cittadini, o si giustifica, col riferimento implicito alla tipica esigenza» personalistica «della piena attualizzazione delle potenzialità della persona, compresa la sua intrinseca dimensione sociale, il compito della Repubblica di svolgere un ruolo attivo nel rendere effettiva tale pari dignità ed effettivo il diritto formale di libertà col “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale”». Questi ostacoli «limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini» «impediscono… il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese, chiaramente indicati come beni sociali primari o fondamentali (art. 3). La rimozione di ostacoli economici e sociali è quindi volta chiaramente ad assicurare il perseguimento del fine principale e fondamentale (“il pieno sviluppo della persona umana”), e a dare il maggior spazio possibile agli strumenti “politici” per la sua realizzazione (democrazia sostanziale fondata sulla libertà e sull’uguaglianza dei cittadini, ed “effettiva partecipazione”)54». Senza soffermarci ulteriormente a ricordare tutti i principi personalistici presenti nella Costituzione e tutti i diritti delle ‘persone’ (ad esempio quello al loro ‘pieno sviluppo’, quello al lavoro e all’inviolabilità delle libertà personali e di culto…) giova sottolineare il diritto e il dovere del cittadino di contribuire al progresso della società. Giova inoltre non dimenticare che «la garanzia costituzionale dei diritti civili, sociali, economici, politici, è concepita dalla nostra legge fondamentale non come un riconoscimento statico, ma come una realtà dinamica, in via di sviluppo»55. Se riflettiamo sulla prospettiva dinamica in cui si colloca il riconoscimento di questi diritti possiamo agevolmente comprendere l’importanza che può assumere l’insegnamento di Citttadinanza e Costituzione agli effetti della formazione di cittadini capaci di ‘vita buona’, di affron53

Ibidem. G. GARANCINI, I cattolici e la Costituzione. Segni di una storia di diritti, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano), 2005, p. 17. 55 G. DOSSETTI, Prefazione, in I valori della costituzione, Ed. San Lorenzo, Reggio Emilia, 1999, p. 72. 54

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tare «le sfide della vita sociale» e politica «con lo sguardo alto dell’etica», «di com-passione verso il simile degradato nella sua dignità…». Si tratta di cittadini che si danno cura del futuro del mondo e che «si impegnano concretamente nell’oggi, muovendosi nella complessità, anche istituzionale, della società odierna»56. Questi cittadini, capaci di esercitare la cittadinanza attiva, ‘virtuosi’, attenti al valore di ogni persona, potranno impegnarsi per far crescere la comunità con l’intento di andare oltre il pur nobile traguardo della ‘convivenza democratica’ e di contribuire alla realizzazione della ‘convivialità delle differenze’ e di costruire ‘un’unica famiglia umana’.

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Cfr. S.S. MACCHIETTI, Valori etici ed educazione alla cittadinanza, in A. CATEP. BAGNOLI, Valori etici e costituzioni moderne, cit., p. 52.


SCUOLA ED EDUCAZIONE ALLA CITTADINANZA NELLA SCOLARITÀ DELL’OBBLIGO Nicoletta Bellugi L’insegnamento della tradizionale educazione civica, fino alla più recente educazione alla convivenza civile, ha assunto all’interno della scuola un ruolo spesso debole e marginale. La novità introdotta dalla legge 169/08 non è tanto nei contenuti quanto piuttosto nello spazio reale che essa riuscirà ad avere nei curricoli scolastici a partire dalla scuola dell’infanzia, luogo privilegiato all’interno del quale la costruzione dell’identità e la costruzione dei rapporti tra pari cominciano ad essere strutturati. Avranno così un ruolo centrale piuttosto le modalità attraverso le quali questi contenuti potranno essere offerti. Su questo insegnamento, d’altra parte, si giocherà da qui ai prossimi anni la possibilità di costruire dei cittadini capaci di entrare in un rapporto di scambio reale con gli altri, considerati diversi, di dialogare e costruire società nuove nelle quali l’accettazione e lo scambio reciproco diverranno parte integrante del vivere civile. Ecco dunque l’importanza di costruire delle scuole capaci di configurarsi come ambienti aperti di apprendimento, dove l’educazione alla cittadinanza non si riduca ad una semplice elencazione di diritti e di doveri ma preveda attività strutturate e pedagogicamente legittimate. In questa prospettiva, la scuola si configura come luogo privilegiato nel quale è possibile fare concretamente esperienze significativamente vissute di democrazia. Sulla base di queste premesse è stato concordato tra vari istituti della Val di Chiana senese-aretina di valutare la possibilità di costruire una rete (resa possibile con la legge sulla autonomia scolastica) proprio per progettare e costruire insieme, condividendo principi e risorse, itinerari di educazione alla cittadinanza declinati in modo concreto in attività volte a contribuire alla formazione di cittadini capaci di costruire le proprie identità e di essere aperti al nuovo, al diverso, rispettosi degli altri e delle cose, ma anche consapevoli della propria cultura di appartenenza. È stata infatti convinzione comune che l’apertura all’altro vi possa essere solo dopo che il soggetto sa chi è, quali sono le proprie radici, imparando ad esercitare giorno dopo giorno un pensiero critico che non cede alle pressioni della omologazione o di facili demagogie. Nel settembre 2009 è stata dunque formalizzata la rete, che ha provveduto a costruire un progetto complessivo e unitario di educazione alla cittadinanza, che prevede percorsi curricolari che hanno attraversato i tre ordini della scolarità di base, nella convinzione che la costruzione del principio della responsabilità personale sia il risultato di un itinerario che ha bisogno di

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tempi lunghi per potersi affermare e chiede la realizzazione di una serie di esperienze che riescano ad incidere sull’intera personalità del soggetto in educazione. Il progetto su Educazione e Cittadinanza è stato promosso da 9 istituti scolastici delle province di Siena e di Arezzo, di cui cinque comprensivi, due scuole medie e due circoli didattici, con 3933 alunni, distribuiti in 73 sezioni dell’infanzia, in 116 classi di scuola primaria e in 80 classi di scuola secondaria di primo grado. Gli istituti partecipanti sono stati: l’Istituto Comprensivo (IC) di Lucignano (capofila), IC di Monte San Savino, IC di Foiano Della Chiana, IC di Castiglion Fiorentino, IC di Torrita di Siena, Direzione Didattica di Castiglion Fiorentino, Direzione Didattica di Terontola, Scuola Media di Camucia-Cortona, Scuola Media di Montepulciano. Questi istituti operano in un territorio molto vasto, rinomato per le splendide bellezze paesaggistiche, storiche ed artistiche, caratterizzato da forti tradizioni e da una cultura democratica che affonda le sue radici in un lontano passato. Negli ultimi anni però, anche questo territorio è stato interessato da forti cambiamenti sociali e culturali, che hanno determinato l’accentuarsi di comportamenti poco rispettosi della legalità e delle persone. L’iniziativa congiunta della rete, alla quale hanno dato la loro adesione le amministrazioni Comunali di riferimento, ha inteso promuovere nei ragazzi la costruzione di una solida identità personale, in grado di confrontarsi con la diversità, con modalità e strategie che fanno parte del gioco della democrazia: il dialogo, il confronto, lo scambio per cercare di raggiungere una convivenza segnata dal rispetto reciproco, nella prospettiva della convivialità delle differenze. Le finalità del progetto sono state le seguenti: – promozione del senso della identità personale; – costruzione di una relazionalità solidale rispettosa delle differenze; – sviluppo della capacità partecipativa nelle giovani generazioni; – conoscenza delle varie componenti sociali e istituzionali a livello locale, regionale, nazionale ed europeo dove si sviluppa la partecipazione democratica; – sperimentazione di modalità partecipative attive, utili a promuovere l’idea di democrazia; – assunzione di comportamenti responsabili verso se stessi e gli altri nel processo di costruzione della propria identità di cittadino. Il nucleo tematico sul quale ha poggiato il progetto è il legame stretto esistente tra lo sviluppo della identità personale ed una relazionalità positiva, rispettosa della diversità, della legalità, nella consapevolezza che le regole non costituiscono imposizioni ma riferimenti necessari all’interno del vivere civile in ogni comunità, nell’ottica della acquisizione della responsabilità personale, alla luce di valori interiorizzati. La costruzione di questa consapevolezza è partita dalla scuola dell’infanzia per procedere poi, in forma sempre più ampia ed articolata, nella scuola primaria e

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nella scuola media. Vari percorsi all’interno della scuola di base sono stati dunque fondamentali per declinare nei suoi diversi aspetti l’educazione alla cittadinanza attiva: conoscenza di sé come soggetto culturale, degli altri, delle regole e della organizzazione di varie istituzioni (sociali, amministrative, istituzionali, legate al mondo del volontariato) che contribuiscono al vivere civile, per sperimentare forme attive di costruzione di una società, nella consapevolezza che la scuola è ‘palestra di vita’, nella quale si vive ma si riflette anche sulle diverse realtà che ci circondano. Nello sviluppare dei percorsi educativi è stata considerata la specificità del pensiero dei nostri alunni, legato molto alla concretezza e a dei percorsi induttivi. La sperimentazione di forme di democrazia, vivendo, costruendo, elaborando insieme regole del vivere civile all’interno del proprio ambiente fisico ed umano, intende porre le premesse per la promozione di personalità realmente convinte che ognuno possa contribuire a rendere migliore il mondo in cui viviamo. L’obiettivo centrale che ha ispirato il lavoro della rete è stato quello di attivare negli alunni dei comportamenti partecipativi, rispettosi degli altri, responsabili nei confronti di se stessi, degli altri e delle cose, base di una futura cittadinanza democratica. Le diverse iniziative, graduate e specifiche, in ragione delle diverse età degli alunni, hanno previsto anche la collaborazione attiva delle famiglie, in modo da sollecitare costantemente la condivisione del percorso educativo. Per lo svolgimento delle varie attività è stata concordemente scelta una metodologia capace di promuovere costantemente l’operatività, la sperimentazione attiva, la didattica laboratoriale ed infine la riflessione sui percorsi avviati, in modo da favorire il conseguimento di apprendimenti realmente significativi. La scelta dei contenuti è derivata da una riflessione collegiale sia a livello di dirigenti scolastici sia dei vari insegnanti appartenenti ai diversi istituti, con l’obiettivo di considerare contemporaneamente vari tipi di problematiche: da quelle organizzative ed economiche a quelle più strettamente pedagogico-didattiche, che gli insegnanti dei vari ordini di scuola hanno bene messo in luce.

L’attuazione del progetto Per la scuola dell’infanzia è stata privilegiata la fascia d’età dei 5 anni, in modo da operare in continuità con i bambini della prima classe della scuola primaria. I bambini dei due ordini di scuola, anche con l’aiuto dei genitori e di nonni disponibili, hanno sperimentato i giochi tipici della tradizione locale, osservandone le regole. In una fase successiva i bambini insieme ai loro insegnanti hanno provato ad inventare ‘nuovi giochi’ elaborando e condividendo le regole, per poter poi giocare senza

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litigare. Il motto è stato ‘regole certe per divertirsi’. A Lucignano questo progetto ha potuto collegarsi anche alla festa tradizionale della Maggiolata che quest’anno, nella costruzione dei carri di fiori, aveva come tema ispiratore proprio quello della ricostruzione di giochi tradizionali. La presenza nei cantieri delle diverse contrade della maggior parte dei genitori ha contribuito non poco a rendere il lavoro più coinvolgente per i bambini e le loro famiglie. Le diverse classi della scuola primaria hanno scelto, sulla base del progetto complessivo della rete ed in ragione della diversa età dei bambini, attività coerenti al diverso livello di sviluppo e di maturazione. Così per le classi seconde, visto che all’interno dell’insegnamento della disciplina storica si prevede di affrontare le categorie temporali attraverso la ricostruzione della storia dello stesso bambino e delle cose a lui familiari. Pertanto sono state proposte delle interviste ai genitori, ai nonni, agli anziani del paese sui giochi più frequenti della loro infanzia e successivamente è stata fatta una raccolta dei giochi tradizionali, che facevano divertire tanti anni fa, specialmente in contesti di paese. Di questi giochi i bambini hanno analizzato le regole interne, individuandone le costanti e, durante l’esecuzione del lavoro, le variabili presenti nei diversi paesi della Val di Chiana. Le classi dei diversi istituti, in coerenza con il progetto iniziale, dovevano comunicare, attraverso la posta elettronica, i risultati delle ricerche effettuate per operare via via la comparazione. In questo anno scolastico invece i singoli plessi hanno finito per lavorare separatamente, sia in ragione delle difficoltà legate alla carenza (o assenza) di mezzi informatici nei vari plessi, sia in ragione di orari non coincidenti tra gli insegnanti che ‘fanno informatica’, sia in ragione della difficoltà di legare iniziative che, partite con entusiasmo, hanno rischiato, con il passare dei mesi, di affievolirsi. Migliore si è rivelata la proposta avviata per le classi terze, quarte e quinte, impegnate su tre fronti: educazione stradale; conoscenza dei luoghi pubblici del proprio territorio come la biblioteca, l’ufficio postale, gli uffici del comune, la casa di riposo…; coscienza del proprio ambiente fisico, con l’attivazione di percorsi in luoghi diversi come il bosco, l’area ecologica, la diga… In particolare l’educazione stradale è stata effettuata, all’interno delle diverse scuole, in modo più approfondito, sia perché se ne è colta l’importanza, sia perché ha potuto realizzarsi non solo in modo teorico ma pratico. In una prima fase le attività svolte hanno mirato a promuovere la conoscenza dei principali segnali stradali e delle regole utili a pedoni e ciclisti. Sono stati poi promossi percorsi reali da fare a piedi ed in bicicletta e sono state organizzate alcune gare che si sono svolte in giornate in cui le classi di vari istituti si sono incontrate alla Cittadella della Sicurezza che è stata inaugurata quest’anno a Castiglion Fiorentino. Le attività relative alla conoscenza dei luoghi e degli uffici pubblici del

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proprio paese sono state svolte praticamente da tutte le classi dei vari istituti della rete ma con tempi, modalità e scelte diverse. D’altra parte è stata riconosciuta, già in fase di progettazione, l’esigenza, seppure all’interno di linee comuni, di un margine di scelte e di operatività rispondente ai limiti, alle risorse ed alle condizioni presenti nelle singole realtà. Molte classi hanno preferito esplorare i diversi uffici del comune, intervistando anche il sindaco, altri hanno elaborato delle vere e proprie proposte per realizzare una città a misura di bambini da presentare al Consiglio comunale, altre classi hanno effettuato alcune uscite dal paese per visitare i locali della Provincia ed essere accolti dal suo Presidente. L’obiettivo comune è rimasto comunque quello di avvicinare gli alunni alle Istituzioni ed ai loro rappresentanti, che operano più da vicino nel territorio. Alcune scuole hanno preferito invece rivolgere l’attenzione alle associazioni no-profit, assai presenti in tutto il territorio della Val di Chiana: dalla Misericordia alla Croce Rossa, alle associazioni culturali o di volontariato che si avvicinano agli anziani, ai disabili, a coloro che si trovano in situazioni di disagio. Interessanti sono state anche le esperienze relative all’educazione ambientale anche perché il territorio si presta molto bene ad esperienze di scoperta dei vari ecosistemi: il bosco, la macchia mediterranea, le colline, le colture intensive come i frutteti… Alcune scuole hanno sottolineato il problema dell’inquinamento, che si fa sentire anche in questo contesto, ed altre della esigenza della raccolta differenziata. All’interno delle scuole medie sono stati ipotizzati, al momento di stesura del progetto di rete, percorsi collegati ma progressivamente più complessi, capaci di chiamare in causa la sempre maggiore capacità di analisi e riflessione da parte degli alunni, invitati a vivere concretamente la cittadinanza. È emerso infatti nella analisi iniziale che nelle singole realtà si presentano, in forma sempre più ampia, situazioni di disagio personale e sociale che spesso hanno origine nel contesto familiare e che si manifestano con modalità violente sugli altri e sulle cose. È stata sottolineata l’importanza del gruppo dei pari nella strutturazione dell’identità del preadolescente e la possibilità di subire pressioni e condizionamenti che possono talora sfociare sia in fenomeni di bullismo che di vandalismo. Spesso i ragazzi accettano o subiscono tali atti per essere accolti e apprezzati all’interno del gruppo. Altre variazioni nel fenomeno del bullismo, in aumento rispetto agli anni passati, sono state registrate nel cosiddetto cyber bullismo (attraverso l’uso dei mezzi informatici con Youtube e Facebook) e nella componente femminile che ha manifestato forme solo apparentemente meno aggressive ma altrettanto dirompenti per la vittima di turno. Nelle tre classi delle scuole medie, prevalentemente all’interno dell’ora di Cittadinanza e Costituzione che la nuova normativa prevede,

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con frequenti progettazioni a carattere interdisciplinare, sono stati individuati percorsi differenziati, articolati sulla base del bisogno personale dei preadolescenti di conoscere la realtà sociale ed istituzionale che regola il vivere civile e di riflettere nello stesso tempo sulle regole di convivenza all’interno del contesto scolastico. L’adolescente ha bisogno però anche di conoscere e riflettere sulle modificazioni che il proprio corpo sta vivendo. Per rispondere a questa doppia esigenza, le diverse scuole si sono mosse con progettazioni tese a costruire la cittadinanza, attraverso la conoscenza delle istituzioni che sostanziano lo stato democratico e, nello stesso tempo, ad aiutare i soggetti a costruire delle personalità singolari, in grado di differenziarsi dal gruppo, di scegliere, di esprimere i propri talenti, di esercitare il pensiero critico, all’interno di una realtà dove è molto più semplice essere omologati. È stata ipotizzata la seguente scansione che, generalmente, le varie scuole hanno seguito, coerentemente con quanto prevedono i programmi delle diverse discipline e, soprattutto sulla base degli interessi più marcati che gli alunni manifestano. Così, nelle classi prime medie è stata approfondita la conoscenza delle istituzioni locali e provinciali, prevedendo anche l’incontro con gli stessi amministratori: sindaco, assessori e consiglieri. Sono stati privilegiati anche incontri con esponenti di gruppi di volontariato che operano in progetti relativi sia al territorio sia all’estero, e che vengono realizzati prevalentemente nei Paesi in via di sviluppo, i quali si sono rivelati utili per far riflettere gli alunni sulle realtà, sui bisogni e sulle urgenze molto diverse rispetto a quelle che i ragazzi possono riscontrare nella loro quotidianità. In tutti gli istituti è stata rivolta grande attenzione anche alla analisi del patto di corresponsabilità che le famiglie hanno firmato al momento della iscrizione alla scuola media ma che deve essere compreso nella sua valenza educativa in primo luogo dagli alunni, ‘vivendolo’ non come strumento di semplice repressione ma, piuttosto, come documento che, identificando i comportamenti che non possono essere tollerati nella comunità scolastica, detta delle regole alle quali attenersi. È stata sottolineata l’esigenza della assunzione di responsabilità personale nei confronti degli altri e delle cose. In alcuni istituti sono state previste mattinate di discussione, concentrate prevalentemente nei primi mesi dell’anno, nelle quali il patto è stato letto e commentato, soffermandosi soprattutto sui comportamenti che l’alunno può invece ritenere scontati, quali ad esempio l’uso del cellulare, divenuto purtroppo di ‘uso comune’ ad ogni ora del giorno per la quasi totalità degli alunni, o lo scrivere sul banco o nei muri dei bagni o delle aule o la gestione dei conflitti utilizzando la forza. Per quanto ha riguardato il problema della crescita dell’identità sono stati promossi più incontri e sono state progettate attività volte a promuovere la conoscenza dei disturbi alimentari… Questi ultimi stanno interessando una fascia di età sempre più precoce,

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con conseguenze rilevanti per la crescita complessiva dei ragazzi. In un istituto è stato svolto un progetto integrato con la ASL e l’Università di Perugia che ha coinvolto tutti gli alunni delle classi prime medie. Sono stati organizzati anche degli incontri con i genitori, per riflettere insieme sul fenomeno del disturbo alimentare e per rispondere ad alcune domande: come si annuncia? Come e se si manifesta? Come prevenirlo? Come affrontarlo quando si è già strutturato? Per quanto riguarda le classi seconde della scuola media le attività hanno continuato a mirare alla conquista della conoscenza delle istituzioni a livello regionale e nazionale (visite alla sede del Consiglio e della Giunta regionale, alla Camera dei Deputati ed al Senato della Repubblica). Inoltre sono state realizzate, in forma laboratoriale, simulazioni di percorsi utili alla approvazione delle leggi. Proseguendo l’impegno rivolto all’educazione ambientale alcuni istituti hanno attivato laboratori scientifici per ‘lavorare’ sui materiali raccolti durante le escursioni nel territorio. Sono stati ipotizzati anche alcuni itinerari naturalistici presentati anche alle stesse amministrazioni comunali o alla Pro-Loco dei paesi in cui sono ubicate le scuole. Collaborando con la provincia di Arezzo sono state organizzate anche uscite alle aree protette presenti nel territorio. Tali uscite, progettate nel corso dell’attività scientifica, sono state poi integrate attraverso l’intervento di esperti, come ad esempio le guide ambientali abilitate sempre dalla provincia o storici locali, in grado di avvicinare i ragazzi alla conoscenza del territorio ed alle sue specificità. Tutte queste esperienze hanno permesso successivamente di riflettere insieme sui rischi cui va incontro il territorio e sulle necessità della sua tutela. L’importanza della tutela dell’ambiente ha portato anche a scoprire piante ed animali tipici. In alcune scuole sono state allestite anche delle coltivazioni di piante a ciclo breve in modo che gli alunni potessero rendersi conto della possibilità di utilizzare prioritariamente nella propria alimentazione prodotti a Km zero. In altre scuole, collegando il discorso ambientale alla conoscenza dell’iter burocratico per l’approvazione di una legge, sono stati elaborati veri e propri modelli di legge, volti alla tutela del territorio che sono stati presentati in alcuni consigli comunali. All’interno delle classi terze, oltre alle visite a sedi istituzionali nazionali ed internazionali (alcune classi sono andate in visita al Parlamento Europeo, altre alla sede ONU di Ginevra, altre ancora alla FAO di Roma), l’attenzione si è concentrata sulla prevenzione. Infatti in tutti i singoli progetti è emersa l’esigenza di affrontare in termini educativi i problemi connessi ai tanti e rapidissimi cambiamenti fisici e mentali che gli alunni attraversano proprio negli anni della scuola media. In ciascun alunno (più precocemente nelle ragazzine) cambia l’equilibrio affettivo e l’esigenza di sentirsi parte integrante del gruppo spesso prevale su quelle che sono le regole date e vissute in famiglia ed

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insegnate e più volte discusse a scuola. Di fronte al manifestarsi di molteplici episodi, non solo tratti dalla stampa nazionale e locale ma talora accaduti in modo diretto, sono stati articolati progetti relativi alla conoscenza ed alla prevenzione delle tossicodipendenze, dell’alcool, del fumo. In particolare il consumo di alcool sta interessando fasce di età sempre più precoci. In alcuni progetti la prevenzione all’uso di alcool è stata legata alle lezioni di educazione stradale, utili per sostenere l’esame per il conseguimento del patentino. Interessanti sono stati alcuni incontri che hanno coinvolto classi di due istituti con le forze dell’ordine e con medici del servizio di prevenzione della ASL sui rischi ai quali vanno incontro coloro che guidano in stato di ebrezza. Sono state fatte anche dimostrazioni pratiche, utilizzando l’apposito apparecchio che polizia e carabinieri usano per controllare il tasso alcolico degli automobilisti. Grande interesse è stato rivolto anche ai fenomeni di bullismo. Vi sono stati vari approcci: dal lavoro sull’ascolto, all’attivazione di circle-time per far emergere i conflitti esistenti, alla riflessione sui diritti e doveri all’interno della collettività, alla definizione della parola salute. Alcune scuole hanno aderito ad un ulteriore progetto in rete, finanziato con i contributi regionali per la promozione della cultura della legalità democratica (legge regionale Toscana n. 11 del 1999), in collaborazione con un istituto superiore del territorio, volto a favorire la riflessione sul concetto di responsabilità, valutando le conseguenze di comportamenti a rischio: dall’alcool, alle tossicodipendenze al gioco d’azzardo. Le esperienze realizzate hanno dimostrato, a giudizio degli insegnanti referenti, come si desume anche dalle relazioni finali dei vari progetti, l’interesse che la scuola ha di educare e non solo di istruire i propri alunni.

Limiti, difficoltà e prospettive nell’attuazione dei progetti Negli incontri di monitoraggio è stata rilevata, praticamente da tutti gli istituti, la presenza di alcune difficoltà incontrate nella realizzazione del progetto. In primo luogo è stata segnalata la limitatezza delle ore a disposizione per portare avanti iniziative che non possono essere relegate, come talora avviene nella scuola media, all’ora di Cittadinanza e Costituzione. Il rischio è quello di una settorializzazione di problemi che toccano invece tutte le sfere della personalità degli alunni. Nella scuola primaria questo limite è avvertito con meno intensità, mentre si rileva l’esiguità delle ore e degli spazi, che sarebbero utili per attuare una didattica a carattere laboratoriale, particolarmente incisiva in un’età in cui il bambino apprende ed è motivato soprattutto operando. Sono state inoltre incontrate alcune difficoltà per coordinare le diverse iniziative e per l’utilizzazione delle ‘nuove tecnologie’, anche se non

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sono mancati il ‘confronto’ e la condivisione degli obiettivi. Altre difficoltà sono state incontrate a causa dell’esiguità dei finanziamenti. In particolare, proprio in ragione della esiguità dei finanziamenti, si è rilevata l’esigenza di avvicinarsi a progetti europei, molto vincolanti dal punto di vista della rendicontazione, ma di ampio respiro in merito alle tematiche da affrontare e con risorse più significative da poter utilizzare. Concordando sulla esigenza di una formazione più ampia ed approfondita da parte dei docenti, in merito alle diverse tematiche nelle quali si declina la cittadinanza, è stata ipotizzata anche la possibilità di usufruire di scambi con gli altri Paesi della Unione Europea, seguendo i progetti Comenius. Ciò permetterebbe, tra l’altro, di poter fare un percorso verso la cittadinanza più ampio, articolato ed approfondito, proprio in prospettiva europea. È stato inoltre deciso di continuare la realizzazione del progetto ed è stata espressa la volontà di incontrarsi, fin dai primi giorni, nei quali verranno a strutturarsi i singoli Piani dell’offerta formativa, per fare il punto della situazione ed attivare nuove iniziative insieme. Infatti è opinione condivisa sia del gruppo di progetto, formato dai dirigenti scolastici, che dagli insegnanti referenti, che la scuola è chiamata a dare un contributo determinante per la crescita di persone che, forti di un’etica personale, sappiano esprimere una cittadinanza attiva, in nome del bene comune.

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Crispiani P. (a cura di) Il management nella scuola Un insieme di saggi che illustra e sviluppa i problemi dell’istruzione e della formazione umana, toccando temi quali la gestazione politica, relazionale e pedagogica delle istituzioni scolastiche, con particolare attenzione alla figura dirigenziale. pp. 392

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L’EDUCAZIONE ALLA CITTADINANZA IN ORATORIO Simona Bertolino «Rilanciate gli oratori, adeguandoli alle esigenze dei tempi, come ponti tra la chiesa e la strada, con particolare attenzione per chi è emarginato e attraversa momenti di disagio, o è caduto nelle maglie della devianza e della delinquenza…». Giovanni Paolo II

Una voglia di oratorio percorre le chiese italiane. Fatti recenti lo confermano. Aumentano quelli appena inaugurati e riprendono i momenti di studio e di confronto sulle progettualità avviate. Non sono estranee a questo interesse le famiglie, praticanti e non, che ricercano luoghi di socializzazione umanamente e culturalmente validi ai quali affidare i propri figli. Di fatto l’oratorio, tra le varie iniziative che si occupano del tempo libero per i bambini e i ragazzi, si distingue perché si configura come un’istituzione allo stesso tempo religiosa e secolare, peculiare ed originale, e un’espressione di carità pastorale e di solidarietà umana1. Si presenta come spazio di azioni vissute e sperimentate nel quotidiano, azioni che concorrono a promuovere l’umanizzazione della persona onorandone l’identità unica, irripetibile e sostanzialmente comunitaria2. Pertanto l’oratorio, consacrato ai giovani – bambini, preadolescenti, adolescenti – ma sempre più aperto all’incontro tra e con le famiglie, è l’espressione di un’autentica e originale sinergia di fini dove l’azione educativa è simbiotica a quella evangelizzatrice e viceversa. In altre parole questa istituzione sembra capace di sollecitare una speciale attenzione ai valori umani e sociali dell’ambiente, ai dinamismi di crescita personale e di gruppo, al dialogo con i diversi universi culturali che vivono i giovani 1

J.E. VECCHI, Oratorio, in Dizionario di Pastorale, Istituto di Teologia Pastorale–Università Pontificia Salesiana Giovanile, Elledici, Leumann (To), 1989, pp. 663-689. 2 Suggestiva la definizione che ha dato Paolo VI dell’oratorio considerandolo luogo di «azione pedagogica pastorale della parrocchia per l’educazione della gioventù. È la palestra delle forze morali e religiose. È la scuola della bontà e della pietà. È laboratorio delle coscienze giovanili, è l’allenamento ai grandi doveri della vita. È la tessitura delle grandi amicizie, è un vivaio di uomini sani, onesti, intelligenti e attivi». Cfr. E. APECITI, L’oratorio ambrosiano da San Carlo ai giorni nostri, Ancora, Milano, 1998, p. 179.

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e, allo stesso tempo, di promuovere, con cura e premura, le grandi energie di umanizzazione che ha la fede cristiana3. Questo contributo intende porre attenzione intorno all’agire progettuale di questo luogo per scoprire le ragioni della sua attualità mettendo a confronto il modello educativo proposto con le questioni dell’educazione alla cittadinanza. Il discorso prenderà avvio dalla rilettura di alcune frasi celebri di don Bosco, educatore geniale e illuminato, dalle quali giungono, in questa direzione, le sollecitazioni e le suggestioni più forti. Ad onor del vero, sono proprio alcune di questi ‘celebri frasi’ – nelle quali si può sintetizzare il pensiero del Santo – che hanno stimolato le riflessioni che seguono e il confronto con l’attuale presenza degli oratori nel nostro Paese. Il contributo proseguirà spostando l’attenzione sul significato delle esperienze che si realizzano negli oratori e, di seguito, farà riferimento ad alcuni recenti fatti, come ad esempio l’emanazione della legge 206/2003 che sollecita l’analisi del rapporto che si crea tra educazione cristiana ed educazione alla cittadinanza e tra civile e religioso.

1. Per don Bosco soprattutto ‘buoni cristiani e onesti cittadini’ Riecheggiano, sincroniche per l’oggi e in perfetta armonia con il tema di fondo – volto all’approfondimento di attuali evidenze pedagogiche sull’educazione alla cittadinanza proposta e promossa in oratorio – le parole di don Bosco4 che, più di centocinquanta anni fa, affermava di voler aiutare i giovani a divenire onesti cittadini oltreché bravi cristiani. Sono ed erano certamente espressioni dense di significato – per la Torino di quel periodo in forte espansione industriale e in crescita demografica – le quali hanno trovato concreta testimonianza nell’opera dell’oratorio come luogo privilegiato per la realizzazione del progetto educativo del prete piemontese. Parole pronunciate e sostenute nei fatti, dunque, per aiutare i giovani a formarsi ad una spiritualità pratica come assunzione concreta e precisa di responsabilità non solo verso la fede, quindi verso se stessi, ma anche e soprattutto verso gli impegni quotidiani e della vita sociale. 3 Cfr. S. BERTOLINO, Scoprire l’oratorio… per un’educazione integrale tra fede e vita, in «Prospettiva EP», n. 1-2, gen.-ago. 2010, pp. 87-95. 4 Su don Bosco la letteratura è vasta. Per un approfondimento dell’oratorio e dello stile educativo si consiglia: E. BIANCO, Educhiamo con il cuore di don Bosco, Elledici, Leumann (To), 2003; P. BRAIDO, Don Bosco nella Chiesa a servizio dell’umanità, LAS, Roma, 1987; C. NANNI, Il sistema preventivo di don Bosco, prove di rilettura per l’oggi, LAS, Roma, 2003; J.M. PRELLEZO, Sistema educativo ed esperienza oratoriana di don Bosco, Elledici, Leumann (To), 2000.

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Vero è che il pensiero di don Bosco ha trovato nei fatti, più che nelle riflessioni teoriche5, la piena realizzazione e manifestazione: dall’oratorio, intuizione originaria, sono nate altre proposte con il fine di rispondere ai vari bisogni dei giovani come le case di accoglienza, la formazione professionale, le casse mutue, i laboratori, le scuole… «Questo prete piemontese – scrive Desramaut – che viveva con gli occhi al cielo ma con i piedi per terra»6, ha fatto dell’oratorio il luogo di sperimentazione della partecipazione e delle esperienze di vita che palesano in sé fondamenti sociali della democrazia. In questo senso nel sistema educativo ‘creato’ da questo pastore si promuove la formazione di una coscienza capace, in modo armonico e sinergico, di fare sintesi tra le virtù morali e le virtù civili, tra educazione alla fede e testimonianza di vita, tra maturazione personale e dono di sé nel servizio agli altri. Don Bosco ha intuito infatti che l’istruzione religiosa da sola non bastava e pertanto occorreva accogliere il giovane ed educarlo integralmente (nella dimensione sociale, culturale, religiosa e corporea). L’azione educativa non si poteva ridurre a pura assistenza sociale e neppure alla mera evangelizzazione. Il punto di partenza, che favoriva l’incontro, era il giovane concreto, di cui si poteva curare la promozione umana attraverso la ricerca di un posto di lavoro, di un salario equo, di una continua qualificazione professionale e, al medesimo tempo, si poteva curare la formazione cristiana attraverso l’annuncio evangelico, sostenuto da una catechesi appropriata e dalla personale testimonianza dell’educatore o del sacerdote7. Come si è detto, benché egli non abbia elaborato una sua concezione teo-antropologica, dalla prassi educativa si delinea un autentico discorso pedagogico fondato su una chiara visione della persona, creata ad immagine e somiglianza di Dio e chiamata a vivere questa somiglianza partecipando pienamente alla vita e alla realtà storica e sociale. In questo senso la persona umana realizza e compie il suo cammino di crescita nell’amore, come condizione imprescindibile, e nell’impegno quotidiano manifestato nell’esercizio della responsabilità verso se stessa e verso gli altri nella trama delle relazioni familiari, amicali e professionali e nella più ampia sfera sociale. La visione finalistica che soggiace pensa 5 Si può essere d’accordo nell’affermare che don Bosco, eminente educatore, non è stato un teorico poiché non ha lasciato scritti in questa direzione. Il suo pensiero e la sua pedagogia sono stati ricostruiti a posteriori basandosi sulle lettere che ha scritto, sui suoi discorsi e le osservazioni raccolte dai discepoli. Significativi sono i racconti delle proprie esperienze scritte da don Bosco stesso, raccolti nelle Memorie dell’Oratorio di San Francesco di Sales dal 1815 al 1855. 6 F. DESRAMAUT, Bosco, Giovanni, in Enciclopedia pedagogica, diretta da M. Laeng, La Scuola, Brescia, 1983, Vol. 1°, coll. 1929-1939, in particolare 1933. 7 Ibidem.

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all’uomo che mira nella vita terrena al proprio avvicinamento alla divinità e che si guadagna sulla terra, e con il corpo, la vita ultraterrena. Scrive ancora Desramaut: «Per d. B. l’uomo è composto di anima e corpo. Il corpo deve vivere sulla terra, nutrirsi, svilupparsi. La salute è buona cosa. L’apprendimento di un mestiere per guadagnarsi da vivere è in via ordinaria indispensabile. La vita sociale esige il rispetto reciproco fra le persone e la volontà di mantenere delle strutture indispensabili al bene comune»8. Il supremo principio pedagogico è pane, lavoro, salvezza. Dunque l’educazione mira necessariamente alla preparazione all’eternità attraverso la vita terrena nell’esercizio virtuoso del bene9. La chiave del metodo è la preventività per cui è meglio favorire occasioni per l’esercizio della buona morale che curare e guarire comportamenti che sono usciti dalla retta via10. «Infatti, la testimonianza del giovane cattolico nel contesto sociale non avrebbe potuto assumere l’auspicabile efficacia, se in lui non fossero rifulse anche le virtù morali e civiche indispensabili per una retta convivenza umana, come, ad esempio, probità, senso di responsabilità, laboriosità, consapevolezza dei doveri sociali e rispetto verso le istituzioni»11. Ciò nondimeno, l’oratorio, oggi come allora, è un costante invito a fare vita associativa e aggregativa proponendosi come luogo capace di proporre i valori fondamentali della fede senza mai dimenticare il contesto storico, sociale e territoriale in cui è inserito: il micro (quartiere) e il macro (la città-il mondo). In questa prospettiva la fede cristiana non rimane sterile e astratta, al contrario, prende vita e acquisisce quella forza di ethos pubblico tendenzialmente condiviso che è ispirazione e sostanza del vivere civile12. 1.1. L’educazione alla cittadinanza con i giovani, ‘l’onesto cittadino’ Don Bosco, come si è detto, non può essere definito un teorico dell’educazione tout-court. Aveva ben chiari i fini e li fondeva in formule semplici, sintetiche ma assolutamente efficaci. «Metteva insieme la dimensione bio-psichica con quella intellettuale e quella religiosa, in una sorta di umanesimo integrale ante litteram – scrive Carlo Nanni – e ciò permetteva in prospettiva sociale ed ecclesiale» di formare persone 8

Ivi, col. 1934. Cfr., AA.VV., Il sistema educativo di Don Bosco tra pedagogia antica e nuova, Elledici, Leumann (To), 1974. 10 Ibidem. 11 L. CAIMI, Cattolici per l’educazione, La Scuola, Brescia, 2006, p. 17. 12 Cfr. S. LANZA, Il soggetto dell’azione pastorale, in AA.VV., Pastorale giovanile. Sfide, prospettive ed esperienze, Elledici, Leumann (To), 2003, p. 155. 9

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capaci di «coniugare “lavoro, religione, virtù”, “pietà, moralità, cultura, civiltà”»13. Ed è anche in queste autorevoli parole che si può rilevare una felice sintesi di quella che don Bosco chiamava «la morale, civile e cristiana educazione» che permetteva di pensare ad un’immagine integrale di uomo che fosse al medesimo tempo, e senza ‘separatezza’, persona, lavoratore, cittadino, credente14. Buoni cristiani e onesti cittadini o potremo anche dire persone evangelicamente ispirate e storicamente situate: in questo modo, l’onestà si configura come la spina dorsale della legalità e della moralità vissuta dalla persona che è sempre essere sociale e comunitario. Don Bosco partiva dall’onestà – come senso della giustizia vissuto nell’intimità della propria coscienza – per portare i giovani ad essere (o provare a essere) più liberi, più solidali, più attenti anche alle piccole cose, educati a non mettere sempre il proprio io al centro del mondo ma aperti agli altri. Il modello educativo che ha lasciato ai suoi successori, i salesiani, mira a promuovere un uomo circolare in costante tensione e movimento tra sé e l’altro da sé, tra se stesso e l’essere parte di un tutto – la comunità e la società. Nel progetto d’uomo di don Bosco la persona è dunque chiamata alla crescita morale orientata al bene personale e, al contempo, al bene della collettività. L’educazione dell’uomo è allora da intendersi come opera di espansione e di orientamento attraverso la forma conviviale del vivere insieme nel rispetto e nel riconoscimento delle identità personali. Don Bosco mirava ad una relazione modulata, capace di allargarsi per cerchi concentrici, su un processo che iniziava dalla persona per procedere poi verso il suo ambiente, mirando all’inserimento costruttivo nel sociale, per realizzare ‘i sogni di futuro’. Quindi educazione cristiana ed educazione morale erano, e sono, il traguardo e la strada e, come ha affermato Riccardo Tonelli, nell’oratorio salesiano si sollecita una piena integrazione tra fede e vita15. Secondo questo Autore: «integrare fede e vita significa infatti lavorare sul piano educativo per formare nei giovani un’unica struttura di personalità i cui criteri valutativi e operativi (e cioè il modo di comprendere la realtà e di intervenire su essa) si rifanno a Gesù Cristo e al suo messaggio, non come ad un dato imposto dal di fuori, ma come ad un’esigenza connessa con l’esperienza della vita stessa, dei valori umani che la caratterizzano. […] La riunificazione dei contenuti della fede con le esperienze storiche della vita fa invece del dono della salvezza e dei contributi della fede, l’auten13 C. NANNI, Il sistema preventivo di don Bosco. Prove di rilettura per l’oggi, Elledici, Leumann (To.), 2003, p. 35. 14 Ibidem. 15 Cfr. S. BERTOLINO, Scoprire l’oratorio… per un’educazione integrale tra fede e vita, cit.

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ticità esistenziale di ogni umana esperienza, il suo significato più pieno e la fonte della sua responsabilizzazione»16. Ma è opportuno ricordare anche che l’ottimismo antropologico era l’altro elemento indispensabile del sistema educativo di don Bosco. La fiducia nell’uomo diviene coessenziale per avvicinarsi alle situazioni più umili, disagiate e di privazione socio-affettiva. Il prete piemontese soleva infatti dire che in ogni giovane c’è un punto accessibile al bene e proprio in virtù del riconoscimento di questo punto bisognava partire per promuovere la persona e la sua dignità. Era, in un certo senso, da questo punto ‘archimedeo’ che si poteva suscitare la volontà tesa al bene, «per stimolare verso forme di autorealizzazione positive, autentiche, umanamente degne per sé, per gli altri e per il mondo, in modo – come diceva il fondatore dello scoutismo Baden Powell – “da lasciare il mondo un po’ meglio di come lo si è trovato”: riconoscendo, apprezzando, stimolando ad andare oltre, ad essere e a fare di più»17. Egli scommise sulla forza creativa dei giovani, che, se preventivamente accompagnati, potevano rappresentare per la società una risorsa generatrice di trasformazione sociale. Si dedicò alla loro educazione seminando in essi i germogli della speranza per un mondo diverso, più umano e più accogliente, dove ci fosse posto e dignità per tutti. Don Bosco, infatti, guardava al giovane con simpatia: Basta che siate giovani perché io vi ami assai. Questo prete era ispirato da un ottimismo realista che teneva conto del positivo presente in ogni giovane per promuovere la formazione di una personalità armonica, capace di coniugare in se stessa i valori della vita e quelli della fede. Giova a questo punto, e in breve sintesi, portare l’attenzione allo strumento che apre alla comprensione più autentica e profonda del sistema educativo di don Bosco, l’esempio. E l’esempio altro non è che la testimonianza, coerente nel comportamento e nell’atteggiamento dell’educatore, delle virtù cristiane e civili cioè della fede, della speranza, della carità, del rispetto, della tolleranza, della responsabilità, della partecipazione, dell’amicizia, del dialogo, dell’ascolto che egli possiede… E in oratorio la testimonianza e l’esempio divengono la via maestra dell’educazione per cui i principi morali si trasformano in eventi e fatti educativi quotidiani a partire da piccoli gesti; i giovani vengono accolti con gioia e allegria e questo clima di entusiasmo sollecita la creazione di una relazione dialogica che permette col tempo la trasmissione di valori e, dunque, l’avvio di un autentico processo educativo. 16 R. TONELLI, Pastorale giovanile, in Enciclopedia pedagogica, diretta da M. Laeng, La Scuola, Brescia, 1989, V, coll. 8802-8809. 17 C. NANNI, Il sistema preventivo di don Bosco. Prove di rilettura per l’oggi, cit., p. 21.

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E ben si capisce perché il prete torinese al principio di tutto ponesse l’amorevolezza. E anche qui ritornano in aiuto ancora le sue parole: l’educazione è cosa di cuore e incitava i suoi collaboratori perché studiassero il modo di farsi amare dai giovani. In una lettera famosa di don Bosco, scritta ai Salesiani da Roma nel 1884, si legge: Chi sa di essere amato, ama; e chi è amato ottiene tutto, specialmente dai giovani. […] Non basta amare i giovani, bisogna che i giovani conoscano di essere amati. A questo punto si può dare forma e sostanza all’ideale di cittadino che ha ispirato don Bosco e ispira tuttora i salesiani in oratorio. Di nuovo chiarificatrici giungono, a questo proposito, le parole autorevoli di Carlo Nanni: «essere onesti cittadini significa fondamentalmente rispettare le leggi, essere corretti nei confronti delle norme e delle regole secondo cui è impostata la convivenza civile. […] Significa essere anche giusti nei rapporti sociali, collaborare alle esigenze richieste dalla vita comunitaria, pagare le tasse, rispettare i beni collettivi, non approfittarsi di ciò che è di tutti, interessarsi al bene comune, sentirsi responsabili del proprio paese e del mondo intero»18. Si può, infine, affermare che in oratorio la presenza delle leggi diviene opportunità per sollecitare un processo educativo teso alla promozione di una buona e valida formazione morale: «solo una libertà educata, una salda coscienza civile e un buon senso della responsabilità sociale potrà farci sperare su un futuro umanamente degno della nostra esistenza sociale. A sua volta ciò richiede un minimo di formazione e di riconversione della mentalità personale e comunitaria»19.

2. Oratorio oggi, dalla solidarietà al volontariato e dalla spontaneità all’impegno Nell’oratorio don Bosco seppe creare una comunità, un ambiente familiare nel quale vivere e gioire dei valori umani e cristiani. L’oratorio diveniva una casa, una famiglia vera e propria, nella quale venivano promossi i rapporti personali, il dialogo tra i giovani, la vita di gruppo e il protagonismo giovanile. Fedele alla sua lunga tradizione, l’oratorio oggi si caratterizza per l’attivazione e la compresenza di molteplici percorsi educativi sia specificatamente religiosi, come il catechismo, le esperienze spirituali, la preghiera, sia a carattere socio-educativo che possono spaziare in varie dimensioni. Si potrebbero sintetizzare i traguardi educativi: formare la spiritualità, prevenire il disagio giovanile, favorire lo sviluppo di un senso 18 19

Ivi, p. 37. Ivi, p. 40.

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civico consapevole e responsabile, educare alla convivenza civile e alla solidarietà, promuovere lo sport e avviare a forme di impegno e di volontariato. Queste finalità vengono perseguite attraverso le proposte quotidiane di attività culturali, teatrali, musicali, ludiche ed espressive in genere, nella pratica sportiva ma anche nei momenti di socializzazione spontanea o informale che nascono intorno al bar dell’oratorio o nel gioco libero. Tutto prende vita dall’incontro spontaneo tra i ragazzi. È, come direbbe don Baresi, il momento fondamentale del cortile, giocoso e decisamente informale20 poiché può essere l’inizio della creazione e della strutturazione del gruppo, indispensabile alla vita dell’oratorio. Mario Del Piano, salesiano, scrive a tale proposito che «il gruppo è il luogo privilegiato di apprendimento della fiducia nella vita e nella sua ispirazione evangelica»21. E aggiunge che «l’oratorio riconosce e valorizza le energie di apprendimento che il gruppo è in grado di scatenare. Ma non vi ricorre in modo subdolo, fino a creare condizioni di conformismo e di plagio, che invece rifiuta. Insegna ad utilizzare le energie formative del gruppo e a orientarle verso l’incontro critico e consapevole con le proposte culturali e religiose, fino ad abilitare i giovani in gruppo a compiere scelte personali»22. E oggi, come allora, in questo luogo la dimensione propria dell’educazione è nel gruppo inteso come scelta qualificante della pedagogia salesiana e più in generale di quella oratoriana. Don Bosco aveva intuito che questo meta-spazio di incontro era un luogo importante e ricercato nel quale i giovani vivevano e cercavano il proprio senso e dove costruivano e affermavano, nel bene e nel male, la propria identità. Se il gruppo è l’anima vivificante dell’oratorio, esso stesso diviene strada e processo per accompagnare ogni individualità a sperimentare i valori civili e cristiani e soprattutto la carità e la vicinanza umana. La formazione del gruppo diviene un obiettivo attraverso il quale si può promuovere la solidarietà che diventa, in un secondo momento, sollecitazione alla responsabilizzazione e, dunque, alla crescita umana. Dentro il gruppo, prima di tutto, si vive la solidarietà poiché questo sentimento si connette connaturalmente con il bisogno di conferma e di essere accettati e la conferma di sé è un evento, a sua volta, che genera la capacità di confermare l’esistenza degli altri. Secondo Guido Gatti «responsabilizzare è creare nell’educando il senso della sollecitudine per il destino degli altri […]»23 e compito prioritario dell’educazione è coscientizzare. Educare 20

V. BARESI, F. FORNASINI, I cortili. Progettare e gestire il cortile e la prima accoglienza in oratorio, Elledici, Leumann (To), 2005. 21 M. DEL PIANO, L’oratorio dei giovani, una proposta di animazione, Elledici, Leumann (To), 1992, p. 115. 22 Ibidem. 23 G. GATTI, Formazione della personalità etica, in AA.VV., Pastorale giovanile. Sfide, prospettive ed esperienze, cit., p. 280.

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alla solidarietà sollecita a rendere coscienti della responsabilità per la vita di tutti, considerati fratelli e sorelle di un’unica famiglia umana di cui è doveroso prendersi cura. Se i giovani sono pensati come risorsa, e sono essi stessi orientati a percepirsi al servizio degli altri, entrano facilmente in relazioni positive imparando a discernere tra ciò che ‘è buono e ciò che è male’, evitando di cadere nella rete di seduttivi e rinascenti ideologismi. Infatti sperimentare la capacità di prendersi cura e di essere capaci di generare solidarietà diviene l’antidoto alla noia e, al contempo, sollecita la crescita e l’umanizzazione. In questa prospettiva il volontariato diviene il traguardo successivo alla formazione e al consolidamento del gruppo. Diviene quindi la strada per agire la solidarietà, e dunque, per renderla vera, manifesta, visibile, ma anche tangibile. La forma più diretta di responsabilizzazione sociale è sostenuta in oratorio attraverso la promozione del coinvolgimento dei giovani in forme di intervento caritativo e assistenziale che spesso nascono da richieste spontanee degli stessi ragazzi e sovente si trasformano in organizzazioni o in associazioni di volontariato. Infatti (e non è mera casualità) nell’oratorio è quasi sempre presente un’associazione ecclesiale o di ispirazione cristiana che concorre alla realizzazione di alcuni obiettivi educativi e sociali (ad esempio Azione Cattolica, gli Scout con Agesci, il Centro sportivo italiano). È pur vero anche che non pochi oratori si avvalgono dell’opera di associazioni che esplicitamente ne promuovono e sostengono la vita e l’organizzazione, ad esempio l’Associazione San Paolo Italia (ANSPI), Noi Associazione, le ACLI. A livello educativo la molteplicità delle esperienze associative consente di sperimentare concretamente la ricchezza e la complessità della realtà ecclesiale e sociale. Al contempo, ciò rende evidente la necessità di esercitarsi in quel dialogo che non è solo strumento comunicativo ma veicolo di valore nell’ascolto, nella comprensione e nella condivisione. Per il giovane l’associazione può costituire il primo livello di istituzionalizzazione e divenire occasione valente per percepire il volto umano dell’istituzione nella misura in cui si aprono spazi di presenza e in cui, allo stesso tempo, si rendono visibili e percepibili i fini, i metodi e i ruoli. Si sperimenta che l’associazione e la stessa istituzione non sono fine a se stesse, ma tese alla ricezione di istanze, bisogni e difficoltà, proprie delle persone o dei gruppi che chiedono una risposta. Si è certi, in questa prospettiva, che in oratorio si può parlare di educazione alla democrazia, la quale non può non essere la prospettiva e lo sbocco naturale di qualsiasi progetto che voglia educare alla condivisione e alla partecipazione. Se, dunque, la condivisione educa alla comunione e alla solidarietà sul piano delle relazioni informali e interpersonali, la

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democrazia lo fa sul piano delle relazioni formali e istituzionali. E poi se la condivisione diventa uno dei frutti della comunione nell’azione sociale la democrazia lo diventa sul piano del governo della res pubblica nella costruzione del bene comune. Non può pertanto stupire che in oratorio le associazioni assumano il metodo democratico (coinvolgimento, partecipazione, protagonismo) e diventino esse stesse palestre di passione civile per esercitare il giovane a co-costruire la civiltà dell’amore nella città dell’uomo. 2.1. Tra le dimensioni dell’educazione alla cittadinanza in oratorio, res pubblica e funzione sociale È opportuno rilevare che in questi ultimi tempi di oratorio si parla sempre più in ambito ecclesiale e in ambito civile. Queste rinnovate attenzioni potrebbero essere confermate dal fatto che si registra un sensibile aumento delle presenze degli oratori in questo ultimo decennio, tanto è vero che sono stati censiti, in tutta la penisola, più di 6000 strutture24. Dunque l’oratorio vive una stagione di effettivo e largo consenso ecclesiale e civile. Anzi, attraversa un tempo di inusitata simpatia e di ripresa dopo un periodo incerto e al ribasso di tensione ideale e progettuale, accogliendo positivamente le istanze sociali attuali e sollecitando, al contempo, il rilancio della coscienza educativa della Chiesa25. A questo proposito giova fare ricorso ai dati emersi da una recente inchiesta pubblicata da «Famiglia Cristiana» secondo la quale i frequentatori dell’oratorio sarebbero, oggi, più di un milione e mezzo tra bambini, ragazzi e giovani. Circa duecentomila invece sarebbero i volontari coinvolti a vario titolo nella conduzione delle attività (catechisti, animatori, operatori pastorali…)26. Così anche oggi, in mancanza di strutture educative e sociali adeguate per il tempo libero, gli oratori si fanno carico del disagio manifestato 24 In particolare gli oratori salesiani censiti al 31 dicembre 2007 sono 161, di cui 121 annessi a parrocchie salesiane e 40 in zona pastorale. Il personale impegnato assomma a 183 confratelli a tempo pieno, 134 a tempo parziale e 4367 laici. Cfr. D.P. FRISOLI, Le parrocchie e gli oratori salesiani in Italia, in AA.VV., In parrocchia e con il cuore di don Bosco, Atti del percorso formativo per parroci e incaricati di oratorio, Roma Pisana (7-11 gennaio 2008), Tipolitografia Istituto Salesiano Pio XI, Roma, 2008. 25 Per un approfondimento sulle vicende storiche si consiglia: L. CAIMI, Cattolici per l’educazione, cit.; E. APECITI, L’oratorio ambrosiano, da san Carlo ai giorni nostri, cit.; G. BARZAGHI, Tre secoli di storia e pastorale degli oratori milanesi, Elledici, Leumann (To), 1985. 26 AA.VV., Ritorno all’oratorio, in «Famiglia Cristiana», n. 39, settembre 2009, pp. 56-63.

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dai giovani e giovanissimi e del loro bisogno di aggregazione, tanto nei quartieri dei centri urbani, quanto nelle micro-realtà più interne e periferiche. Se è pur vero che il progetto oratoriano mira alla promozione dell’umanizzazione della persona, tuttavia si può riconoscere, sollecitati anche dalle evidenze di fatto, che l’oratorio rappresenta un insostituibile strumento di politica sociale che, allontanando i giovani da comportamenti devianti, ne favorisce la crescita armonica ed equilibrata e l’inserimento positivo nell’ambiente sociale e professionale. E non è solo per caso che tale competenza sociale è stata riconosciuta recentemente anche dallo Stato italiano. Il Parlamento, infatti, il 1° agosto del 2003 approva la Legge n. 206 che ha come titolo Disposizioni per il riconoscimento della funzione sociale svolta dagli oratori e dagli enti che svolgono attività similari e per la valorizzazione del loro ruolo27. La legge demanda, come il principio di sussidiarietà vuole, alle singole Regioni l’attuazione concreta delle linee guida e offre già indicazioni precise per quanto interessa la regolamentazione dell’ambito amministrativo-fiscale. L’oratorio viene quindi considerato dallo Stato, agli albori del terzo millennio, come una risorsa importante per migliorare la qualità di vita e della convivenza civile. Tuttavia la vera novità ed incisività della legge consiste nel riconoscimento della funzione sociale ed educativa, poiché lo Stato riconosce all’oratorio la capacità di promuovere la realizzazione del giovane, e più in generale della persona, e la possibilità di contrastare l’emarginazione e la devianza nell’ambito minorile. Nondimeno però la legge, seppur velatamente, sembra riconoscere i valori che sono alla base del fondamento antropologico e pastorale dell’oratorio senza mettere in discussione la natura ecclesiale dalla quale trae origine e significato. Il legislatore, dunque, non solo lo riconosce come luogo educativo, per la formazione umana e sociale dei giovani, istituito e gestito dalla parrocchia, ma si mobilita per promuovere le sue finalità. Lo Stato si impegna in questo modo ad incentivare la funzione degli oratori o attività similari per «lo sviluppo, la realizzazione individuale e la socializzazione dei minori, degli adolescenti e dei giovani, di qualsiasi na27

Di questa legge ne dà un ampio commento Rino Gracili nel testo da lui curato Funzione educativa e sociale degli oratori nelle comunità locali. Commento alla legge Volontè «Disposizioni per il riconoscimento della funzione sociale svolta dagli oratori e dagli enti che svolgono attività similari per la valorizzazione del loro ruolo», Legge 1° agosto 2003, n. 206, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, 2005. Giova però ricordare che questa legge nazionale è stata preceduta da altre a livello regionale. La prima, alla quale hanno fatto seguito diverse altre, è stata quella della Regione Lombardia, 22 novembre del 2001, così titolata «Il riconoscimento della funzione sociale ed educativa degli oratori». Ad onor del vero già la Regione Lombardia nel 2001 aveva legiferato sulla funzione sociale svolta dagli oratori con la legge 22.

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zionalità residenti nel territorio nazionale. Esse sono volte, in particolare, a promuovere la realizzazione di programmi, azioni ed interventi, finalizzati alla diffusione dello sport e della solidarietà alla promozione sociale e di iniziative culturali nel tempo libero e al contrasto dell’emarginazione sociale e della discriminazione razziale, del disagio e della devianza in ambito minorile»28. Il riconoscimento dell’oratorio come risorsa collettiva assume un significato ancora più importante rispetto ai vantaggi economici e alle agevolazioni fiscali, poiché gli dona dignità e cittadinanza con tanto di diritti e di doveri. In altre parole, l’oratorio è considerato, a pieno titolo, uno dei soggetti privati che svolgono attività socio-educative per il tempo libero del territorio. Pertanto spetta all’oratorio «scegliere di assumersi o meno la responsabilità di questo riconoscimento e tradurla nell’ambito della propria operatività»29. Raccogliendo la sollecitazione, questa istituzione è invitata ad entrare nella logica del lavoro integrato di rete con le istituzioni e con le altre agenzie del territorio. Inevitabilmente e auspicabilmente, per l’oratorio aderire a questa logica chiede di avviare un dialogo, di farsi esso stesso tessitore di una rete di rapporti «e collaborazioni con gli altri soggetti, che si prendono cura dei minori e delle famiglie, progettando e realizzando interventi in risposta ai bisogni rilevati»30. Ma se l’oratorio ha a che fare con le leggi, ponendosi quindi in relazione dialettica con il territorio nel quale si trova, con lo Stato e le Istituzioni, è sollecitato con forza a realizzare ed a legittimare l’integrazione tra fede e vita, ed a formare il buon cristiano e l’onesto cittadino, a livello pratico. Di fatto la presenza di leggi diventa opportunità formativa nella prospettiva dell’educazione alla cittadinanza e della partecipazione democratica. In altre parole, il fatto che l’oratorio abbia a che fare con norme e regolamentazioni può offrirgli l’opportunità di aiutare i giovani, spesso insofferenti o addirittura indifferenti rispetto alla politica, a comprendere l’importanza del prendersi a cuore la cosa pubblica. Dunque l’oratorio è chiamato ad essere un soggetto attivo nell’individuare soluzioni e percorsi per il bene di tutti, a concorrere alla costruzione del bene comune ed a promuovere la sussidiarietà.

28

Ivi, p. 10. G. ROMANO, Lavoro di rete, riconoscimento istituzionale e sostenibilità economica: costruire e valorizzare “nel territorio” risposte adeguate, in AA.VV., Educare gratis. Oratorio e nuove progettualità educative per minori, EDB, Bologna, 2008, p. 27. 30 Ibidem. 29

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2.2. L’oratorio nel territorio, dalle parole ai fatti Si è ampliamente sostenuto che la legge 206 del 2003 rappresenta un evento significativo per l’oratorio che diviene, in un certo senso, il prolungamento dello Stato nell’ottica della sussidiarietà, mirando a promuovere e a sviluppare interventi attivi di cura nelle situazioni di svantaggio sociale ed economico. È facile fare un esempio (tra i tantissimi esempi possibili). La storia dell’oratorio salesiano di Corigliano Calabro prende avvio dalla volontà della Diocesi di abbracciare le problematiche di una realtà, come quella della Locride, caratterizzata da innumerevoli emergenze e carenze socioeducative con problemi legati alla sicurezza e alla minima vivibilità urbana. In questo contesto, come è noto alle cronache, la condizione di illegalità diffusa coinvolge i minori più disagiati creando terreno fertile al lavoro nero e allo sfruttamento. Nato a partire dalla strada circa dieci anni fa, l’oratorio di Corigliano Calabro, proprio come il primo oratorio di don Bosco, si è avvalso fin dalle sue origini dell’aiuto anche economico e della collaborazione e della rete costruita con l’ente pubblico comunale, con il Ministero di Grazia e Giustizia, delle risorse locali e regionali. Sono stati infatti utilizzati finanziamenti rivolti a progetti mirati a qualsiasi forma di prevenzione verso soggetti minori a rischio di cadere nelle reti della criminalità organizzata della malavita locale. Come il primo oratorio eretto dal Fondatore dei salesiani, l’oratorio di Locri aggancia nei luoghi informali, nelle sale giochi, nelle birrerie, nelle piazze del vecchio centro storico, nei campetti, i ragazzi nella fascia «dai 10-11 ai 16-17. Soggetti a rischio, espulsi ed esclusi dalla realtà della scuola, impediti nell’inserimento lavorativo, anche solo di apprendistato»31. A questo proposito Mario Del Piano si esprime in questi termini: «è qui che facemmo la convinzione che spesse volte, per questi ragazzi, il loro inserimento presso qualche artigiano o negoziante (non importa se in nero e in totale assenza di garanzie) risulta nonostante tutto l’unico salvataggio rimasto, realisticamente, per strapparli dai tentacoli della piovra criminale e mafiosa»32. Descrivendo la finalità e la valenza formativa dell’oratorio in contesti difficili, Mario Del Piano scrive che «il rilancio della capacità critica e della responsabilizzazione, declinata in termini di capacità di collocarsi e sviluppare una visione non piatta della realtà provocata dalla ultimità 31 M. DEL PIANO, Storia di un oratorio /1, in «Note di Pastorale Giovanile», n. 6/1999, p. 104. Vedi anche M. DEL PIANO, Storia di un oratorio /2, in «Note di Pastorale Giovanile», n. 3/2004, pp. 55-66. 32 Ibidem.

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e dalla marginalità»33 ha rappresentato l’emergenza dalla quale siamo partiti per poi, successivamente, promuovere l’educazione cristiana. Pare ovvio che l’oratorio non può combattere la mafia ma può prevenire formando le coscienze delle singole persone per renderle capaci di fare scelte di vita giuste e buone. Nell’oratorio infatti si realizza un progetto educativo integrale capace di promuovere la coscienza della consapevolezza della propria dignità attraverso il riconoscimento e il rispetto dei diritti inalienabili dell’uomo. Si ricuce, o si ricostruisce, in questo luogo la fiducia verso le istituzioni, si sollecitano i giovani a vestire i panni della cittadinanza attiva, a credere nella giustizia, nella capacità personale e collettiva di edificare il bene comune. L’oratorio, in effetti, assicura quella vitalità e quella tensione esistenziale che fungono da elementi dinamici irrinunciabili per neutralizzare ogni forma di cristallizzazione, di impoverimento e di manipolazione della personalità dei più giovani. L’educazione in oratorio è così finalizzata alla persona sia nella sua dimensione umana, storica, sociale, incarnata e situata, sia nella sua dimensione spirituale per realizzare, nella prospettiva dell’Assoluto, l’integralità e l’organicità del processo permanente di umanizzazione.

Per concludere… Lungo la parabola delle trasformazioni socio-culturali in atto, l’oratorio rimane solido sulle proprie certezze, ormai sorrette da più di cinque secoli di storia, a partire dal riconoscimento del valore della vita umana e della dignità della persona. Così è pure chiaro che, in particolare, questo luogo sembra assicurare ‘quell’antidoto’ alla crisi dell’uomo – resosi incapace di essere e di agire moralmente e responsabilmente. Infatti «l’oratorio può essere il luogo dove il giovane – secondo Domenech – ripensa, ciclica, ridimensiona, completa integra e ristruttura i messaggi e le esperienze che riceve altrove (famiglia, scuola, parrocchia, con gli amici…), in vista di una sintesi vitale che può dare senso e unità alla sua esistenza»34. Ecco, allora, che l’oratorio è l’espressione più autentica dell’amore della comunità cristiana verso i giovani. È lo sbilanciamento autentico e gratuito verso loro e un investimento a fondo perduto di energie per il futuro. In oratorio, infatti, i giovani non sono mai considerati un proble33

Ivi, p. 109. A. DOMENECH, Il don Bosco dell’oratorio: il dinamismo nella fedeltà, in «Note di Pastorale Giovanile», n. 2/2002, pp. 29 e ss. 34

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ma o un fenomeno da studiare e classificare ma una risorsa, portatrice di creatività e di speranza. E tuttavia, nello smarrimento etico che permea questo tempo, c’è ancora, e per fortuna, la flebile richiesta di trovare punti fermi che non vacillino e che siano in grado di testimoniare coerenza, costanza, fermezza, presenza e coraggio. Forse è proprio per questo che oggi la società civile riscopre l’oratorio e le famiglie, che lo considerano un luogo sano di educazione per i propri figli, tornano con vigore e rinnovata speranza a parlarne ed a viverlo. Infatti, girando negli oratori, si scopre con piacere che, sempre più, è considerato anche dalle famiglie un luogo di aggregazione e di incontro.

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Alvaro F., Re P., Vicini S. (a cura di) Percorsi e figure di garanzia per l’infanzia Con un’ottica multidisciplinare, il presente testo intende sollecitare il confronto sulla delicata funzione del tutore di minori, raccogliendo le riflessioni e le relazioni che docenti di diverse professionalità ed esperienza nel campo hanno tenuto durante il Corso per tutori volontari. pp. 192

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Epstein J. Comprendere il mondo del bambino L’Autore propone al lettore di esplorare il mondo dei bambini fatto, oltre che di ingenuità e spensieratezza, anche di fragilità, paure, dubbi e sensi di colpa. Adulti e bambini fanno parte di due mondi simili e diversi, che trovano un equilibrio nel rispetto reciproco. pp. 144

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LA FRUIZIONE DEL PATRIMONIO CULTURALE COME ELEMENTO COSTITUTIVO DELLA CITTADINANZA Sergio Angori 1. Ripensare la relazione con il patrimonio culturale Con Anna Maria Luisa, nel 1743, si estingueva la linea primogenita della casata fiorentina dei Medici, che per oltre tre secoli aveva retto le sorti di Firenze e dell’Etruria e ne aveva fatto un modello ed un centro di riferimento, a livello europeo, negli scambi economici e finanziari, nello sviluppo delle arti, nell’amministrazione accorta della cosa pubblica. Sopravvissuta al fratello Gian Gastone, ultimo Granduca di Toscana, morto privo di eredi legittimi nel 1737, la nobildonna decise di lasciare ai Lorena, nel frattempo subentrati nel governo della regione, la grande collezione di oggetti artistici che era appartenuta alla propria famiglia, non senza aver però posto, attraverso una clausola testamentaria, precise condizioni: che nessuna parte di quel patrimonio venisse alienata e che non si potessero «levare fuori della Capitale e dello Stato del Granducato […] Gallerie, Quadri, Statue, Biblioteche, Gioje ed altre cose preziose […], affinché esse rimanessero per ornamento dello Stato, per utilità del Pubblico e per attirare la curiosità dei Forestieri». Attraverso questo ‘patto’, la nobildonna fiorentina risparmiava a Firenze, in un momento particolarmente delicato della sua storia, la sorte toccata in precedenza a Mantova e Urbino quando, venute meno rispettivamente le casate dei Gonzaga e dei Della Rovere, erano state spogliate di molti dei loro straordinari tesori accumulati da principi che avevano mostrato un eccezionale gusto collezionistico. Le raccolte di opere d’arte – le mirabilia delle corti principesche, ma analogo discorso può essere fatto per le naturalia e le antiquaria promosse da Società botaniche, da Accademie e da istituzioni similari – iniziavano in tal modo a perdere il carattere di ‘beni privati’, che avevano avuto fino ad allora; cessavano cioè di essere destinate al solo godimento del loro detentore, del collezionista, del committente, di una cerchia ristretta di persone, per assumere un carattere ‘pubblico’, per contribuire alla formazione culturale di quanti avevano modo di osservarle e ammirarle. Il riferimento storico consente di osservare che tanto l’idea di patrimonio culturale1 quanto quella della fruibilità da parte dei cittadini di 1 Il Codice dei beni culturali e del paesaggio (D.L. 42/2004) stabilisce che il patrimonio culturale è costituito dai beni culturali e dai beni paesaggistici. I primi sono rappresentati dalle cose mobili e immobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico; i secondi da-

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tale patrimonio, se pure da inquadrare entrambe in un contesto storico e socio-culturale molto diverso dall’attuale, sono presenti già nel modo di sentire e di pensare del Settecento. Ed anche se l’amore per l’arte e la lungimiranza politica delle menti più illuminate del periodo non basteranno ad evitare che, per effetto di occupazioni straniere, di soppressioni di enti religiosi, di incuria e malgoverno, un’ingente quantità di capolavori artistici (insieme a preziose ed irripetibili espressioni della cultura) finisca esposta al rischio di dispersione o distruzione, nondimeno gioveranno a far germinare l’esigenza di disporre di una normativa capace di stabilire, in materia, vincoli di tutela sempre più stringenti. Sarà comunque solo in anni recenti che comincerà a costituirsi, non senza difficoltà, una graduale consapevolezza dell’importanza di raccogliere, conservare e rendere accessibili a tutti i tesori ereditati dal passato, che la natura, la storia, l’arte, la cultura sono state capaci di produrre e di metterci a disposizione. Quanto appena affermato rende superfluo precisare che la funzione di musei, pinacoteche, archivi, biblioteche, teatri, siti archeologici, parchi naturalistici non è sempre stata quella di oggi e che la ‘risignificazione’, nel tempo, del ruolo e dei compiti di tali ‘luoghi’ di testimonianza e conservazione della memoria e della cultura ha comportato l’introduzione di cambiamenti sostanziali nelle modalità di ricerca e raccolta dei materiali di pregio da proporre ai visitatori e agli estimatori della cultura e dell’arte, nei criteri di catalogazione di tali materiali e in quelli espositivi, nell’attività di studio e ricerca dei singoli oggetti, nella differenziazione delle offerte di fruizione, nei rapporti stabiliti dagli istituti di conservazione con il pubblico2. E proprio l’idea di ‘istruire dilettando’ che, come si è visto, ad essi si associa fin dal Settecento, insieme all’affermarsi di nuove concezioni espositive, organizzative e fruitive del ‘bello’, avrebbe dovuto consentire di intercettare agevolmente la domanda di accesso alla cultura da parte dei cittadini – nei modi in cui questa si è andata via via ponendo nel tempo (spesso in forme ‘oblique’, non esplicite, in ogni caso facilmente decifrabili) – e di dare ad essa soddisfacenti risposte di carattere formativo, come auspicato con vigore da figure eminenti di ‘apostoli laici’ che si sono adoperati per la crescita culturale del Paese: Umberto Zanotti gli immobili e dalle aree costituenti espressione dei valori storici, culturali, naturali, morfologici ed estetici del territorio. 2 Per quanto riguarda i grandi musei, a conferma della diversità di intenti che, nel tempo, ha portato al loro costituirsi, va detto che il British Museum (1753) risponde all’esigenza di ‘conservare per studiare’, mentre il Musée du Louvre (1792), nelle intenzioni dei fondatori, ha come scopo quello di ‘esporre per comunicare’ favorendo così nei cittadini «il senso di appartenenza alla giovane repubblica francese» (E. NARDI, a cura di, Musei e pubblico. Un rapporto educativo, Franco Angeli, Milano, 2004, p. 9).

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Bianco, Giuseppe Lombardo Radice, Adriano Olivetti, don Zeno Saltini; ma, per una molteplicità di ragioni, ciò non è accaduto. Gli effetti di questa ‘disattenzione’ sono stati disastrosi: lo confermano in modo incontrovertibile le numerose indagini condotte da diversi e qualificati istituti di ricerca e che concordano nel rilevare il fatto che i consumi culturali, in Italia, si attestano stabilmente a livelli piuttosto bassi, inferiori a quelli di altri Paesi sviluppati3. È d’altronde un dato di fatto che il profilo culturale della popolazione adulta presenti seri elementi di criticità, a cominciare da una diffusa ‘regressione delle competenze alfabetiche’ riscontrabili anche in strati di popolazione che, formalmente, dispongono di buoni livelli di istruzione. E questo non favorisce certamente il costituirsi ed il manifestarsi di interessi culturali, né il loro soddisfacimento4. A lungo ci si è illusi che l’aumento degli anni di scolarizzazione, di cui hanno potuto beneficiare le generazioni più giovani, potesse determinare una rapida e significativa crescita della cultura della popolazione. Così non è stato: intanto perché si tratta di processi di lungo periodo ma, soprattutto, perché è improprio stabilire un rapporto di consequenzialità tra l’attività formativa del sistema di istruzione e di formazione professionale e le competenze culturali della popolazione adulta, sulle quali influiscono molteplici variabili: motivazionali, socio-ambientali, lavorative. Una nuova configurazione della missione delle istituzioni e delle strutture che raccolgono il patrimonio culturale di cui disponiamo (e quindi della loro organizzazione e gestione) dovrebbe allora mirare a ridisegnare – senza alterarne le specifiche identità – la funzione educativa che queste sono chiamate ad assolvere. Funzione che, nella ridefinizione dei compiti loro assegnati, non potrà che assumere un carattere più incisivo e più avvertibile che in passato proprio sul terreno della promozione delle competenze culturali dei cittadini e dell’esercizio della cittadinanza attiva da parte loro. Entro tale cornice, l’intento di questo contributo è quello di discutere le ragioni che depongono a favore di un significativo cambiamento nel modo di considerare il patrimonio culturale: si tratta di farne, realmente, 3

Cfr. ISTAT, Annuario statistico, cap. VIII, Roma, 2010; R. GROSSI, a cura di, Crisi economica e competitività. La cultura al centro o ai margini dello sviluppo?, VI Rapporto Annuale Federculture, RCS Etas Libri, Milano, 2009; MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI, Statistiche culturali anno 2006, Roma, 2008; REGIONE TOSCANA, Monitoraggio delle biblioteche pubbliche toscane 2006-2008, Firenze, 2010. 4 Cfr. V. GALLINA, B. VERTECCHI, Il disagio, l’alfabeto, la democrazia, Franco Angeli, Milano, 2007; V. GALLINA, Letteratismo e abilità per la vita. Indagine nazionale sulla popolazione italiana 16-65 anni, Armando, Roma, 2007; S. ANGORI, Le competenze alfabetiche: componenti fondamentali della cultura della popolazione, in G. MALIZIA, S. CICATELLI, Verso la scuola delle competenze, Armando, Roma, 2009, pp. 179-188.

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una opportunità di crescita culturale per tutti – e non solo per quanti sono culturalmente avvantaggiati e quindi in grado di cogliere a pieno il significato e il valore che esso ha – capace di integrarsi con altre esperienze formative che le persone vivono nei vari contesti in cui sono inserite e di concorrere allo sviluppo di ciascuno sul piano umano, sociale, civico, oltre che cognitivo. Si tratta, in sostanza, di passare da una logica che ha come riferimento i beneficiari del patrimonio artistico, gli spettatori di eventi culturali, i destinatari (per non dire gli utenti) dei servizi culturali, e che quindi guarda ai cittadini come soggetti sostanzialmente passivi (perché le decisioni sono prese da altri), ad una logica che intende invece considerarli fruitori consapevoli e partecipi di un complesso di beni potenzialmente a disposizione di tutti e capaci di innescare processi di autoapprendimento e di educazione permanente5. Di qui la necessità di creare le condizioni perché ogni persona possa avvertirsi titolare del diritto ad incontrarsi e a relazionarsi con un patrimonio che, al pari della lingua, della storia, delle tradizioni, è costitutivo della identità sociale e culturale di ciascuno. Ed anche se tale patrimonio, per essere convenientemente apprezzato in tutta la sua ricchezza, complessità e varietà di significati, richiede il possesso di differenziate competenze (si pensi a quelle necessarie per avvicinarsi con un minimo di perizia interpretativa alla pittura, alla scultura, alla musica, alla danza, per citare alcune delle forme più comuni dell’espressività artistica), è non meno vero che, nei suoi confronti, tutti quanti siamo degli stakeholder, dei ‘portatori di interesse’, dei soggetti titolati a conoscerlo, goderne e ad avvalercene come opportunità di crescita personale (ovviamente nelle forme e nelle modalità consentite)6. Questo fa sì che l’auspicio con cui Joseph Folliet chiudeva il suo appassionato incoraggiamento, rivolto a Calibano, ad accostarsi alla cultura e ad avvertirne la forza emancipatrice appaia oggi meno utopistico di quanto poteva sembrare ieri: «Giorno verrà – scriveva l’educatore francese – in cui privare gli uomini della cultura parrà tanto vergognoso quanto privarli del pane, e accaparrare egoisticamente la cultura sarà cosa ignobile quanto l’accaparramento dei cereali, e sarà infamia vendere illusioni o svaghi scurrili quanto il vendere alimenti guasti e adulterati»7. Pensare ai visitatori di un museo, di una mostra, di un sito archeologico, ovvero ai lettori che frequentano una biblioteca o agli studiosi che accedono ad un archivio storico, agli spettatori di un’opera teatrale, di un concerto, di un film, ecc. non più come soggetti per i quali ‘confezionare’ 5

C. MEDEL-AŇONUEVO, Integrating Lifelong Learning Perpesctives, UnescoInstitute for Education, Hamburg, 2002. 6 E. HOOPER-GREENHILL, I musei e la formazione del sapere, Il Saggiatore, Milano, 2005. 7 J. FOLLIET, Popolo e cultura. A toi Caliban, tr. it., Armando, Roma, 1963, p. 210.

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ed offrire un prodotto da consumare (poco importa che si tratti, come invero spesso accade, di un prodotto di qualità) ma come dei cittadini che, con diversi livelli di competenza specifica, di sensibilità artistica e/o estetica, di capacità di intuirne il valore simbolico, si relazionano – nei diversi campi – con opere dell’ingegno umano del passato e del presente riuscendo a farne una occasione di arricchimento delle conoscenze personali, significa impegnarsi a far sì che ciascuno di loro possa avvertire il senso ed il significato dell’esperienza culturale che sta compiendo, la sua portata formativa, ma soprattutto la sua funzione generativa in termini di processi di umanizzazione e di condivisione di un patrimonio che è di tutti. «Esiste una cultura umana – annota ancora Folliet – a cui tutti gli uomini hanno diritto […]. Di questa cultura ogni uomo prende la sua parte, a modo suo, secondo la sua vocazione personale, quale è determinata dal temperamento, dalla posizione, dalla professione, dall’ambiente»8. E se è indispensabile che tutti possano disporre di un minimo di strumenti conoscitivi ed interpretativi per avvicinarsi a questi ‘mondi’ (sta all’istruzione scolastica mettere a disposizione gli strumenti necessari per farlo) è altrettanto doveroso che chi è preposto alla organizzazione e gestione dei beni culturali debba nel contempo adoperarsi per assicurare quei supporti che possono facilitarne la piena comprensione e fruizione (la comunicazione, sotto questo aspetto, riveste un ruolo essenziale) anche da parte di chi possiede modesti livelli di istruzione. A partire dal 1995, il Consiglio d’Europa, facendosi interprete di esigenze largamente avvertite, ha introdotto l’espressione educazione al-conattraverso il patrimonio, ripresa ed illustrata in un documento del 20069 in cui viene proposto non tanto l’inserimento nei curricula scolastici di una specifica disciplina di studio (l’educazione al patrimonio, appunto) quanto piuttosto l’adozione di un approccio, di una forma di educazione – ‘simile all’educazione ai diritti umani’ – mediante la quale aiutare i giovani a prendere coscienza del valore dei beni culturali e paesaggistici e con cui evidenziare che il patrimonio culturale è un lascito delle generazioni passate che chiede di interagire con quelle di oggi (venendo interpretato e concettualizzato alla luce delle conoscenze di cui attualmente disponiamo), per essere quindi trasmesso, ulteriormente arricchito, a quelle future. Con tale forma di educazione, si legge in una pubblicazione che commenta la posizione assunta dal Consiglio d’Europa su questo punto, si intende fare riferimento ad «un’attività formativa formale o informale che, mentre educa alla conoscenza e al rispetto dei beni con l’adozione 8

Ivi, p.15. CONSEIL DE L’EUROPE, Le patrimoine culturel et sa pédagogie: un facteur de tolérance, de civisme et d’intégration sociale, Actes de le Séminaire de Bruxelles (Belgique), 28-30 août 1995, Strasburg, 1998; COUNCIL OF EUROPE, European democratic citizenship, heritage education and identity, Strasburg, 2006. 9

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di comportamenti responsabili, fa del patrimonio [un] oggetto concreto di ricerca e interpretazione adottando la prospettiva della formazione ricorrente e permanente alla cittadinanza attiva e democratica di tutte le persone»10. In ragione di ciò, spetta alla scuola promuovere attitudini e competenze idonee ad alimentare la disponibilità di ciascuno ad apprendere lungo l’intero corso della vita, mentre alle istituzioni culturali è chiesto di dar vita – avendo come riferimento i cittadini di tutte le età e di tutte le condizioni socio-culturali – ad esperienze di educazione alcon-attraverso il patrimonio (a cominciare da quello che ‘appartiene’ alla intera umanità e che costituisce la culture-patrimoine, su cui si costruisce il ‘sentire comune’) avvalendosi dei saperi esperti di cui esse dispongono (di qui, come vedremo, la necessità di dotare le istituzioni culturali di figure professionali, alcune delle quali in possesso di specifiche competenze educative). E ciò non potrà che contribuire a contrastare la tendenza alla regressione alfabetica sopra segnalata. Quanto alla pedagogia del patrimonio culturale va detto che, nelle intenzioni del Consiglio d’Europa, essa prevede «metodi di insegnamento attivi, una proposta curriculare trasversale, un partenariato tra i settori educativo e culturale, e che impieghi la più ampia varietà di modi di comunicazione e di espressione»11. Per questo, in una prospettiva di lifelong learning, merita di essere sostenuta e fatta oggetto di riflessione anche in contesti extrascolastici. Non potendo compiere, nello spazio a disposizione, una disamina esauriente del contributo che, singolarmente, i diversi settori del patrimonio culturale sono in grado di offrire in ordine allo sviluppo della cittadinanza attiva, ci soffermeremo su due realtà, che incontestabilmente occupano un posto di rilievo nel panorama degli ‘oggetti culturali’ potenzialmente fruibili da tutti: musei e biblioteche pubbliche (per biblioteche pubbliche qui intendiamo tutte quelle aperte al pubblico, indipendentemente dall’istituzione da cui dipendono). La scelta è dettata dal fatto che si tratta di istituzioni presenti su tutto il territorio nazionale, nei grandi come nei piccoli centri, con le quali generalmente si relaziona una gamma di pubblico piuttosto ampia, distinta per età, grado di cultura, condizione sociale. Né va poi sottaciuto che la frequentazione dei musei e la pratica della lettura di libri e giornali costituiscono due dei tratti più significativi con cui, abitualmente, viene definito il profilo della popolazione dal punto di vista culturale12. 10 A. BORTOLOTTI, M. CALIDONI, S. MASCHERONI, I. MATTOZZI, Per l’educazione al patrimonio culturale. 22 tesi, Franco Angeli, Milano, 2008, p. 10. 11 CONSEIL DE L’EUROPE, Le patrimoine culturel et sa pédagogie: un facter de tolérance, de civisme et intégration sociale, cit.; L. BRANCHESI, a cura di, Il patrimonio culturale e la sua pedagogia per l’Europa, Armando, Roma, 2006. 12 E. NARDI, Illetteratismo e museo: dall’ossimoro all’analogia, in V. GALLINA, B. VERTECCHI, Il disagio, l’alfabeto, la democrazia, cit.; T. DE MAURO, La cultura degli italiani, a cura di F. Erbani, Laterza, Bari, 2004.

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2. Superare la difficoltà a varcare la soglia di musei e biblioteche L’International Council Of Museums (ICOM), organismo affiliato all’UNESCO e preposto a promuovere e ‘comunicare’ il valore del patrimonio culturale, dà del museo questa efficace definizione: «una istituzione senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che compie ricerche sulle testimonianze materiali e immateriali dell’uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva, le comunica e soprattutto le espone a fini di studio, di educazione e di diletto»13. Finalità e compiti riproposti in un documento, redatto a cura della sezione italiana della stessa ICOM, in cui si sottolinea che i musei «hanno una responsabilità sociale nei confronti della comunità territoriale di riferimento»; devono quindi essere capaci di porsi, nei suoi riguardi, «in una posi14 zione “aperta” e “di ascolto’’» . Nel testo in questione si precisa, inoltre, che il patrimonio culturale è destinato a svolgere un ruolo importante sia nel combattere ‘fenomeni di esclusione’ sia nel proporsi come «terreno di sperimentazione per nuove forme di cittadinanza culturale promuovendo e sostenendo coesione sociale e appartenenze territoriali». La sfida che i musei si trovano oggi ad affrontare è allora quella di ripensarsi come beni di interesse pubblico, come testimonianza della storia di una comunità (locale, nazionale, sopranazionale poco importa) che condivide valori, cultura, tradizioni, modi di sentire e che vede rappresentare negli oggetti, nei documenti, nelle testimonianze, nelle opere d’arte che custodisce e che propone ai visitatori, se stessa e la propria identità15. In questa prospettiva, l’obiettivo cui mirare non è tanto l’incremento, in meri termini quantitativi, del numero di accessi alle raccolte quanto rendere possibile, come già detto, una partecipazione dei ‘pubblici’ (al plurale, ne vedremo successivamente le ragioni) alla vita del museo stesso e a quella di ogni altra istituzione culturale. L’idea che il fruitore di tali strutture possa essere considerato non un soggetto che guarda alla cultura nella sua dimensione statica di conservazione ma che, invece, partecipa a pieno titolo alla ‘produzione culturale’16 (con le sue scelte, il suo gusto, la sua sensibilità, la sua interpretazione, 13

Art. 2.1 dello Statuto della ICOM. ICOM ITALIA, La funzione educativa del museo e del patrimonio culturale: una risorsa per promuovere conoscenze, abilità e comportamenti generativi di fruizione consapevole e cittadinanza attiva, 2009. 15 K. GIBBS, M. SANI, J. THOMPSON, a cura di, Musei e apprendimento lungo tutto il corso della vita. Un manuale europeo, Edisai, Ferrara, 2007. 16 Cassirer e Kroeber sottolineano come l’uomo sia un soggetto ‘produttore di cultura’ perché capace di creare ed usare simboli e concetti (cfr. E. CASSIRER, Simbolo, Mito e Cultura, tr. it., Laterza, Bari, 1981; A.L. KROEBER, La natura della cultura, tr. it., Il Mulino, Bologna, 1974). 14

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avendo la possibilità di dare un giudizio su ciò che è esposto, di seguire percorsi di visita non predeterminati, di approfondire la conoscenza di certe collezioni o oggetti piuttosto che di altri, di integrare le informazioni su quanto esposto con la lettura di schede illustrative, con l’ascolto di nastri audio-registrati, con la possibilità di vedere filmati, immagini, grafici proiettati su appositi schermi, ecc.) è meno pretenziosa ed astrusa di quanto possa apparire a prima vista. George E. Hein, in un celebre saggio del 1998 (Learning in the Museum), passando in rassegna le più accreditate teorie sull’apprendimento in età adulta, annota del resto che i musei dovrebbero favorire un approccio di tipo costruttivista alla conoscenza: è auspicabile, egli scrive, che «l’apprendimento [da promuovere] consista nella costruzione di significati da parte dei visitatori e che questi significati siano mediati non solo dagli oggetti museali e dal modo in cui sono presentati, ma anche e fortemente dalla cultura del visitatore, dalla sua precedente esperienza personale e dalle condizioni in cui avviene la visita»17. Fino ad oggi i luoghi di conservazione del patrimonio culturale hanno ritenuto di doversi rivolgere ad un pubblico indifferenziato (ieri il pubblico, più tardi il popolo, attualmente i visitatori) e di seguire – nell’‘ordinare’ i materiali da esporre – l’idea secondo cui il sapere, per il suo carattere cumulativo ed evolutivo, avrebbe bisogno di essere predigerito e mediato dagli ‘esperti’ (da chi organizza le singole collezioni, da chi ne cura i relativi allestimenti, da chi redige le schede informative, da chi si occupa di comunicazione, ecc.), ovvero dovrebbe avere come suo fine quello di stupire, di sorprendere, di meravigliare (il discorso vale soprattutto per i musei della scienza e della tecnica). Sappiamo invece che, in molti casi, le conoscenze in questo campo (sia che riguardino l’archeologia quanto l’arte figurativa, la biologia o la fisica) nascono dal confronto/ scontro di teorie e punti di vista diversi, sono esposte a scacchi, sono soggette a continue revisioni, si giovano dell’intreccio spesso fruttuoso di intuizioni talvolta brillanti talaltra fortuite, di modelli esplicativi e interpretazioni inusuali; ma di questo processo generativo, che è all’origine del sapere riguardante i materiali esposti, raramente c’è traccia nei musei. Così come non c’è traccia delle ‘domande’ che il visitatore si pone o che vorrebbe porre alla struttura museale, a chi ha curato l’esposizione dei materiali, e magari ai singoli oggetti contenuti nelle teche. I criteri espositivi più diffusi continuano a prevedere una organizzazione delle raccolte distinte per temi, per generi, per periodizzazioni storiche, per provenienza, per omogeneità dei materiali delle collezioni, 17

G.E. HEIN, Learning in the Museum, Routledge, London-New York, 1998, cit. da L. FALOMO, Musei, collezioni e science education, in «Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni educative», n. 15, 2008, p. 38.

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con l’intento (per certi aspetti lodevole, per altri limitativo dell’iniziativa personale) di facilitare la comprensione di ciò che viene proposto. Chi può dire, però, che questo modo di allestire il museo e di proporlo ai diversi ‘pubblici’ sia, oggi, effettivamente il migliore (senza aggiungere che la nozione stessa di pubblico appare, quantomeno ‘molto ampia ed ambigua’18)? Si dà, inoltre, per scontato che chi visita tali istituti abbia bisogno di essere condotto per mano, guidato, istruito (e, certamente, una parte di essi ne ha effettivamente bisogno), anziché lasciato libero di scoprire, formulare ipotesi, stabilire connessioni. Che i ‘fruitori’ del museo, diversamente dai ‘visitatori’, siano gli uni diversi dagli altri è un dato da dover tenere costantemente presente: hanno motivazioni, attese, livelli di istruzione, capacità di conoscere che variano da uno all’altro, da contesto a contesto. Come sostenerli nel soddisfare le loro personali curiosità ed esigenze culturali? «Il pubblico dei visitatori [dei musei], annota in proposito Emma Nardi, non coincide con la popolazione tout court, perché esiste un divario quantitativo enorme fra non visitatori e visitatori» e, tra coloro che li frequentano, c’è comunque una forte disparità nelle motivazioni: «c’è chi vi si reca per passione, per interesse, per cultura, ma c’è anche chi insegue stimoli di tipo consumistico e, in ultima analisi, di immagine»19. Per non dire delle differenze che riguardano il sesso, l’età, la provenienza, la professione, gli universi culturali di riferimento, ecc. Una didattica museale, finalizzata a soddisfare le esigenze conoscitive di un pubblico generico, ‘comune’, indistinto, rischia di conseguenza di non intercettare i bisogni e gli interessi delle persone cui è rivolta. Ecco perché va reimpostata ponendo al centro i ‘pubblici’, tenendo conto della varietà di situazioni che li caratterizzano. Se è innegabile che numerosi visitatori varchino ancora la soglia dei musei (e altrettanto possiamo dire per le biblioteche) con titubanza e diffidenza perché si ritengono inadeguati culturalmente (e in questi casi disporre di ‘suggerimenti’ su come compiere il percorso e di ‘spiegazioni’ su quanto esposto, o su quanto disponibile per consultazione, può rivelarsi utile) è anche possibile pensare il museo e la biblioteca come luoghi in cui è dato ai visitatori e ai lettori di avvicinarsi al patrimonio culturale avendo l’opportunità di apprendere secondo le personali potenzialità, utilizzando tempi diversi e strategie differenziate20. Crediamo, in sostanza, che possa esserci un modo di ‘costruire’ le conoscenze diverso 18

E. NARDI, L’esperienza del museo. Un’indagine sul pubblico in Italia, in E. NARDI, a cura di, Musei e pubblico, cit., p. 11. 19 Ibidem. 20 M. TRIMARCHI, P. BARBIERI, a cura di, Strategie e politiche per l’accesso alla cultura, Quaderni Formez, n. 63, Roma, 2007; R.G. MAZZOLINI, Andare al museo. Motivazioni, comportamento, impatto cognitivo, Quaderni Trentino cultura, n. 6, Provincia Autonoma di Trento, Trento, 2002.

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sia da quello preordinato ed eterodiretto, previsto per un pubblico senza pretese, sia da quello rivolto a visitatori colti, specialisti, esperti della materia. Interrogarsi su ciò, costringe ad affrontare alcune questioni cruciali: che cos’è che spinge le persone a visitare un museo o a frequentare una biblioteca? Quali ostacoli (reali o presunti) impediscono a molti di farlo? Quali barriere psicologiche o culturali vanno rimosse? Quale posto occupa il godimento estetico e quello spirituale nella gerarchia dei bisogni essenziali delle persone? Che cosa si aspettano da esperienze come queste? Perché dovrebbero investire il loro tempo libero in attività culturali? Quanto il costo del biglietto svolge una funzione frenante nell’accesso ai musei o a strutture analoghe? Come renderli più accoglienti ed attraenti? In sostanza, costringe ad ‘ascoltare’ i visitatori e a tener conto delle loro esigenze, capacità e aspettative. Rimuovere le barriere psicologiche, o di altra natura, che tengono lontani dai ‘luoghi’ della cultura molti cittadini non è un compito facile: occorre un progetto educativo che, con riferimento al tema in esame, preveda una educazione al museo, ai codici specifici attraverso i quali esso ‘parla’ al visitatore/fruitore, e che sono diversi da quelli propri del libro, del giornale, del cinema, della televisione, nonché l’acquisizione della capacità di ‘vedere’ e capire le cose, di decifrare i ‘sistemi simbolici’ con cui la cultura si dà, di interpretare lo spazio, di orientarsi nel mondo che ci circonda e degli artefatti che lo popolano, scoprendone i significati ed i messaggi impliciti. Ma migliorare l’accessibilità alle strutture e i servizi museali di accoglienza, per quanto attività necessaria, non è sufficiente: occorre rendere i cittadini partecipi attivi dell’opera di conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale. Di un patrimonio che come vedremo meglio appartiene, prima di tutto, alla comunità e che la comunità deve imparare a sentire suo. La storia ci dice che non sono mancati accesi dibattiti su come razionalizzare e rendere più funzionali i percorsi dei depositi della memoria collettiva21. Il solo fatto che il museo sia aperto al pubblico ha indotto, in passato, a classificarlo come una struttura educativa. Oggi, perché possa essere veramente tale, si ritiene che abbia bisogno anche di altro: occorre che esponga materiali interessanti e con criteri ‘leggibili’ da tutti, susciti curiosità, invogli a vedere, conoscere e capire, fornisca informazioni adeguate, soprattutto che tenga conto della varietà di persone che lo visitano. Le iniziative ‘collaterali’, promosse ormai da tempo dalle strutture museali più importanti, ed i servizi offerti (a cominciare dalle biblioteche 21 L. MARINO, I luoghi della memoria collettiva, in P. ROSSI, a cura di, La memoria del sapere, Laterza, Roma-Bari, 1988. Cfr. anche A. CIOFFI, Educare ai beni culturali, Liguori, Napoli, 2009, pp. 19-25, nonché E. CIOFFI, Educazione e Beni Culturali, Arte Tipografica, Napoli, 2003.

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annesse di cui alcune di esse si sono dotate22), possono contribuire non poco ad avvicinare i cittadini alle collezioni d’arte e alle raccolte scientifiche: mostre, esposizioni, convegni di studio, conferenze, presentazioni di libri, «che si rivolgono non più ad un popolo genericamente inteso, ma a tipi di pubblico ben determinati, da interessare, informare, animare, insomma educare»23 sono sempre più spesso espressione dell’attività di animazione promossa da tali istituti culturali. Ovviamente c’è anche da tener conto che un ecomuseo richiamerà un tipo di pubblico e implicherà forme di coinvolgimento dello stesso assai diverse rispetto ad un museo tradizionale; per non parlare della differenza che inevitabilmente si riscontra tra i potenziali frequentatori di un museo del giocattolo o degli attrezzi agricoli ed uno di storia della miniatura, a conferma ancora una volta che il termine visitatore, come quello di pubblico, risulta generico. Non sono molti, ad oggi, gli studi condotti sul pubblico che frequenta le diverse tipologie di strutture museali24: già sul numero dei visitatori annui si fa fatica a disporre di indicazioni certe, visto che sono disponibili principalmente dati disaggregati: quelli che riguardano gli accessi ai musei statali e a quelli non statali, quelli relativi a strutture con ingresso gratuito e quelli di siti a pagamento. Ancor meno sappiamo sul profilo e sui flussi di tali visitatori, sulla loro composizione, sulle modalità di visita preferite (individuale, collettiva, programmata, occasionale, guidata, preceduta o seguita dall’acquisto di una ‘guida’ cartacea o di un catalogo, dalla consultazione del sito internet di quella struttura, ecc.), sulle ragioni che portano a scegliere un museo d’arte piuttosto che uno di storia della scienza, una mostra piuttosto che una collezione permanente, sul grado di soddisfazione che essi manifestano a conclusione della visita, sui giudizi che danno degli allestimenti, dei supporti informativi, della pulizia dei locali, dell’efficienza dei servizi di vigilanza. Quello che sappiamo è che il numero complessivo di quanti visitano musei è rimasto negli ultimi anni sostanzialmente invariato (nel 2009, complice la crisi economica, si è 22 Valga per tutti il lavoro svolto dal Beaubourg (Centre George Pompidou) di Parigi, attivo dal 1977, con l’allestimento di mostre e di eventi culturali, oltre che con la creazione di una sua Biblioteca Pubblica d’Informazione (BPI). 23 A.M. BERNARDINIS, Pedagogia al museo o pedagogia del museo?, in «Rassegna di pedagogia», n. 1-4, 2007, pp. 215-222. 24 Ci limitiamo a segnalare il noto lavoro P. BOURDIEU-A. DURBEL, L’amore dell’arte. Le leggi della diffusione culturale: i musei d’arte europei e il loro pubblico, tr. it., Guaraldi, Rimini, 1972 e alcuni studi italiani: L. BALDIN, a cura di, Il museo dalla parte del visitatore, Ed. Canova, Treviso, 2001; A. BOLLO, Il museo e la conoscenza del pubblico: gli studi sui visitatori, IBC, Regione Emilia Romagna, Bologna, 2004; A. BOLLO, I pubblici dei musei. Conoscenza e politiche, Franco Angeli, Milano, 2008; F. DE BIASE, L’arte dello spettatore. Il pubblico della cultura tra bisogni, consumi e tendenze, Franco Angeli, Milano, 2008.

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registrato negli ingressi a pagamento addirittura un calo di quasi il 6%25) ed il fatto deve indurre a compiere qualche riflessione sul non-pubblico – sulle persone, cioè, che non hanno l’abitudine di visitare il museo ma che, opportunamente stimolate, potrebbero farlo – realtà che meriterebbe di essere attentamente analizzata perché destinata a fornire indicazioni utili ad avvicinare ai musei un numero molto più elevato di cittadini di quanto accada oggi. Appunto che vale anche per le biblioteche pubbliche, i cui frequentatori continuano ad essere in prevalenza costituiti da studenti e da studiosi impegnati in ricerche, mentre il grande pubblico – a cominciare dagli anziani – non sempre si sente a suo agio nell’accedere ai servizi che esse offrono26. Delle biblioteche pubbliche, in verità, non è il numero a fare difetto (sono infatti oltre 12.000, più della metà di Enti locali); gli aspetti critici sono costituiti piuttosto dalla loro disomogenea localizzazione sul territorio (il 50,7% si trova nelle regioni del Nord dell’Italia, il 20,6% nel Centro ed il 28,5% nel Mezzogiorno e nelle Isole), dall’esiguità delle risorse loro assegnate che non consente un congruo incremento annuo del patrimonio librario e della dotazione documentaria (quotidiani, riviste, dvd, ecc.), dal mancato turnover del personale che vi opera (l’età media dei bibliotecari è di oltre 55 anni), peraltro caratterizzato da elevati livelli di professionalità. I dati ISTAT evidenziano una progressiva preoccupante disaffezione degli italiani per la lettura, che cresce con l’età27. Il 43% dei cittadini adulti legge non più di un libro all’anno (sono i cosiddetti lettori ‘deboli’: sicuramente quelli che dovrebbero essere seguiti con maggiore cura); quelli che ne leggono più di uno al mese sono solo il 33%, molto meno di quanto accade in altri Paesi, ma anche bambini e ragazzi leggono in misura inferiore dei loro coetanei europei28. Altre indagini, ripetute a distanza di tempo, attestano che un terzo della popolazione italiana adulta presenta un livello di competenza nella lettura, come in altre abilità culturali ‘funzionali’, del tutto insoddisfacente29. Di contro si avverte la presenza di una forte sete di sapere da parte di cittadini appartenenti anche alle classi sociali più umili e un accentuato interesse, da parte loro, 25 ISTAT, Annuario statistico, 2010, cit. 26 Nondimeno cresce il numero di persone

anziane che frequentano spazi pubblici (circoli culturali e ricreativi, centri civici, sale gestite dai servizi di ‘Informagiovani’, ecc.) in cui è possibile leggere giornali e riviste, accedere alla rete internet, disporre di spazi per discutere di problemi di comune interesse. 27 ISTAT, La lettura di libri in Italia, Roma, 2007. 28 A. MORRONI, M. SAVIOLI, La lettura in Italia. Comportamenti e tendenze: un’analisi dei dati ISTAT 2006, Editrice Bibliografica, Milano, 2008. 29 Cfr. V. GALLINA, a cura di, La competenza alfabetica in Italia. Una ricerca sulla cultura della popolazione, Franco Angeli, Milano, 2000; Idem, Letteratismo e abilità per la vita, cit.

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anche verso attività di ‘divulgazione’ su varie materie30: non si spiegherebbero altrimenti il successo di pubblico che registrano manifestazioni culturali come i Festival della filosofia, della matematica, della creatività, dell’economia e gli elevati indici di ascolto da parte di trasmissioni televisive a carattere scientifico, storico, artistico, ecc. Due, secondo Tullio De Mauro, le iniziative cui porre mano con urgenza per arginare le deriva dell’‘illetteratismo’ degli italiani che rischia di avere gravi ripercussioni anche sul piano sociale ed economico31: dar vita ad una funzionale rete territoriale di biblioteche modernamente intese e sviluppare un efficace sistema di educazione degli adulti32. Non si può continuare a pensare le biblioteche pubbliche come ‘teche di libri’ allineate le une alle altre; vanno piuttosto considerate dei ‘centri di informazione e di formazione’, luoghi da frequentare abitualmente, avvicinabili anche da quanti presentano (sul piano delle competenze culturali e della familiarità con gli strumenti del sapere) bassi requisiti di ingresso, in cui poter soddisfare interessi conoscitivi da condividere con altri (partecipando a conferenze, dibattiti, ‘circoli di studio’, o da coltivare singolarmente). Soprattutto è necessario che ‘leggere, poter leggere, avere il gusto di leggere’, annota ancora De Mauro, non siano più considerati un privilegio33. L’educazione degli adulti – si tenga presente che il 12% delle famiglie italiane non ha in casa neanche un libro – costituisce, sotto questo aspetto, un’area di intervento in cui non sono tollerabili ulteriori ritardi e che, anzi, esige un quadro normativo che consenta di riordinare l’intero ‘sistema’ dell’educazione non formale, definendo gli obiettivi da perseguire, gli interventi intenzionali da attuare e le risorse su cui poter contare34. Nel contempo, occorre avere piena consapevolezza del fatto che non saranno le nuove tecnologie a porre rimedio, da sole, al problema dell’illiteracy diffusa tra la popolazione adulta del nostro Paese. È infatti impensabile che le esperienze legate alle pratiche lavorative, la disponibilità ad acquisire sempre nuove competenze o motivazioni di varia natura siano capaci di produrre un rapido superamento del deficit di competenze alfabetiche che un elevato numero di cittadini ancora presenta. Le tec30

Cfr. S. ANGORI, La divulgazione scientifica: considerazioni pedagogiche, in «Prospettiva EP», 2-3, apr.-sett. 2004, pp. 129-171. 31 Sulle conseguenze economico-produttive del basso livello di alfabetizzazione degli adulti si veda A. STAJANO, Research, Quality, Competitiveness. European Union Technology Policy for Information Society, Sprinter, New York, 2006. 32 A. GALLUZZI, Tullio De Mauro e le biblioteche, in «Bollettino AIB», n. 1, 2002. 33 T. DE MAURO, La cultura degli italiani, intervista a cura di F. Erbani, Laterza, Roma-Bari, 2004. 34 ISTAT, La lettura di libri in Italia, cit. Si veda inoltre A. ALBERICI, Imparare sempre nella società della conoscenza, Mondadori, Milano, 2002.

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nologie in questione consentiranno senz’altro di cercare e reperire informazioni con modalità vantaggiosissime rispetto al passato, permettendo di accedere a banche dati, fonti informative, cataloghi on line e di compiere una molteplicità di tipologie di ricerca, ma la presenza di libri in formato digitale, di audiolibri o di strumenti simili è destinata, almeno in tempi brevi, a cambiare solo marginalmente il rapporto del pubblico con la lettura e quindi anche con la biblioteca. Quello che invece deve cambiare – e, in parte, sta già cambiando – è la sua funzione: al bibliotecario, per limitarci alla figura che abbiamo appena ricordato, che un tempo si occupava di reference, cioè di assistenza alla ‘ricerca bibliografica’ del lettore, in particolare al momento del suo primo accesso alla struttura, oggi è chiesto di saper affrontare problematiche che riguardano il reperimento e la utilizzazione appropriata degli strumenti bibliografici relativi a più aree del sapere (bibliographic instruction o information literacy) ma anche di costituire un supporto per l’apprendimento degli adulti, rendendoli sempre più autonomi nella ricerca delle informazioni e delle conoscenze che loro interessano35. Egli deve saper fare uso dei nuovi strumenti tecnologici per reperire tali conoscenze e per educare l’utenza a saper trovare e valutare le informazioni di cui necessita, deve provvedere ad una alfabetizzazione di base, in questo ambito, delle ‘utenze vecchie’ (gli adult learners), ma soprattutto ha da sentirsi impegnato a promuovere iniziative che consentano di ‘animare’ la vita della biblioteca (organizzazione funzionale del patrimonio che questa possiede, presentazione di novità editoriali, attivazione di circoli di lettura, di dibattiti su temi di interesse generale e via dicendo) e di fare di essa qualche cosa di più e di diverso rispetto ad un luogo di lettura e consultazione di libri e giornali. Occorre, in sostanza, che le biblioteche, più ancora dei musei, ripensino il loro modo di essere a servizio dei cittadini. Operazione non facile in quanto, come osserva Paola Nicoletti, molte di esse «pur svolgendo attività di educazione permanente, non si sentono attori del sistema di lifelong learning, in quanto riconoscono il proprio campo di intervento come prettamente culturale, non rilevandone l’aspetto educativo»36. Ed è su questo terreno che c’è molto da fare. Ciò che possiamo affermare è che se è vero che l’insufficiente padronanza di ‘competenze alfabetiche funzionali’ necessarie alla comprensione di testi scritti (document literacy) e indispensabili per trovare informazioni, integrarle, valutarne la rilevanza, impedisce ancora a molti cittadini di avvicinarsi alle biblioteche pubbliche, di utilizzarle per documentarsi e per formarsi opinioni personali, è altrettanto vero che tali istituti culturali 35 Cfr. M. LINE, The lifelong learner and the future library, in «The new Rewiew and lifelong learning», n. 1, 2000, p. 65. 36 P. NICOLETTI, L’impegno delle biblioteche nella formazione permanente, in «Professionalità», n. 82, 2004, p. 65.

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«svolgono [o possono svolgere] un ruolo importante nello sviluppo e nel consolidamento di una società democratica» aiutando le persone «ad arricchire e sviluppare la loro vita e quella della comunità in cui vivono»37. L’‘accesso per tutti’, in questo ambito, è però al momento un auspicio non un dato di fatto; in troppi, come accennato, ritengono che per poter frequentare una biblioteca occorra ‘essere istruiti’. Allo stesso tempo, non possiamo non concordare con chi rileva che «Il binomio biblioteca-lifelong learning inizia ad imporsi come una delle strategie innovative per quelle politiche educativo-culturali che intendano dare una concreta risposta alle nuove esigenze di formazione dettate dalla società contemporanea»38. Il Manifesto IFLA/Unesco su tali istituti sottolinea fin dal 1994 che «la biblioteca pubblica, via di accesso locale alla conoscenza, costituisce una condizione essenziale per l’apprendimento permanente, l’indipendenza nelle decisioni, lo sviluppo culturale dell’individuo e dei gruppi sociali». E che ci sia uno stretto legame tra biblioteche ed educazione permanente è sottolineato nella Dichiarazione di Amburgo del 1997, votata a conclusione della V Conferenza internazionale sull’educazione degli adulti voluta dall’UNESCO, in cui si riconosce nel lifelong learning uno strumento particolarmente efficace per il rafforzamento dell’identità culturale dei cittadini e si fa delle istituzioni culturali, tra cui biblioteche e musei, i luoghi ideali per sostenere processi di apprendimento al di fuori di contesti formali e strutturati. Di qui la necessità di valorizzare tutto il potenziale che tali strutture hanno come ‘agenzie’ capaci di svolgere attività formative che riguardano l’intero corso della vita. Tesi che ritroviamo nel Memorandum sull’istruzione e la formazione permanente predisposto dall’Unione europea nel 2000 e, prima ancora, nel Report on the Role of Libraries in the Modern World, redatto per il Parlamento Europeo nel 1998, su cui non possiamo qui soffermarci.

3. Coltivare la cittadinanza culturale Ciò che è emerso consente di osservare che tanto i musei quanto le biblioteche e le altre istituzioni culturali, di fronte alla riconfigurazione della missione che sono chiamati a compiere, hanno bisogno di ridisegnare le loro funzioni, di ripensare la propria immagine, di riorganizzare l’offerta di servizi per un pubblico vario, certamente più colto e più esigente che in passato. I modelli di fruizione di tali strutture, che 37 INTERNATIONAL FEDERATION OF LIBRARY ASSOCIATION AND INSTITUTIONS (IFLA - ASSOCIAZIONE ITALIANA BIBLIOTECHE - AIB), Il servizio bibliotecario pubblico: linee guida IFLA/UNESCO, AIB, Roma, 2002. 38 M. BRUNELLI, L’educazione tra i libri. Il ruolo della biblioteca pubblica nell’orizzonte del Lifelong Learning, Eum, Macerata, 2007, p. 37.

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al momento appaiono più promettenti, sono quelli in cui è previsto un coinvolgimento del visitatore/fruitore del servizio, quelli che pertanto prevedono attività interattive che consentono di ‘dargli la parola’, di ribaltare in sostanza la posizione di passività che ha sin qui caratterizzato il suo rapporto con questo tipo di istituzioni. La didattica che ne consegue, come si può intuire, non ha niente da spartire con quella degli apprendimenti scolastici. Le esperienze di educazione informale – e tali sono quelle che i musei offrono – appaiono molto diverse dalle esperienze di tipo formale proposte dalla scuola. Le problematiche che si incontrano nell’ambito di cui stiamo discutendo hanno infatti a che vedere «con il campo dell’educazione degli adulti, a cominciare da quello della fruizione del tempo libero», oltre che con l’informazione, la comunicazione, la multimedialità, le nuove tecnologie39; in gran parte diverse sono invece quelle che riguardano le biblioteche (fatta eccezione per quelle storiche e di conservazione, frequentate prevalentemente da studiosi e ricercatori), dove il pubblico è in maggioranza giovanile ed è motivato ad utilizzarle da ragioni di studio (scolastico o universitario) piuttosto che da interesse personale, curiosità, passione per il sapere. Ma anche in queste ultime l’utenza sta modificandosi o, quantomeno, pone domande di fruizione diverse dal passato: la lettura va proponendosi come una pratica più diffusa tra le donne – dall’infanzia alla giovinezza ed anche oltre – che tra i maschi; ed è una pratica in crescita anche tra gli anziani (più istruiti che in passato), i quali in non pochi casi ‘scoprono’ per la prima volta la possibilità di frequentare sale di lettura, di avvalersi del servizio di prestito di libri, di trarre vantaggio, sul piano intellettuale e dell’esercizio della cittadinanza, da esperienze culturali a lungo ritenute sovradimensionate rispetto al loro livello di istruzione. Qualcuno, di fronte alle istanze di ‘democratizzazione della cultura’, proprie di una ‘società della conoscenza’ che, come si è visto, chiede ai musei e alle biblioteche – tra le altre cose – di rivedere le loro funzioni e che invita a tener conto anche di chi dispone di basso livello di competenza alfabetica, potrà restare perplesso, temendo che per star dietro a potenziali visitatori o ‘utenti’ tali istituti possano essere indotti a stravolgere la loro tradizionale missione. Certamente, come ogni processo innovativo, anche quello su cui ci stiamo soffermando presenta dei rischi e dei costi, ma i vantaggi che potranno conseguire dall’ampliamento del numero dei potenziali accessi e dalla qualità delle esperienze culturali dei cittadini appaiono senz’altro rilevanti. L’aver a che fare con pubblici diversi (giovani, adulti, anziani, scolaresche, turisti, gruppi familiari, disabili, cittadini di altre lingue e culture) 39

E. MAZZA, Didattica museale e ricerca educativa, in E. NARDI, a cura di, Musei e pubblico, cit., p. 85.

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e la varietà di interessi che muovono i visitatori di un museo o i frequentatori di una biblioteca sono elementi che non possono essere trascurati nella scelta dei criteri espositivi delle collezioni o nella organizzazione del materiale librario e documentario; men che meno nel decidere il tipo di approccio didattico da utilizzare, nel predisporre i servizi collaterali a quelli istituzionali e nell’approntare gli strumenti con i quali monitorare la qualità dell’offerta. Prevedere, soprattutto all’interno di musei, attività commerciali e ricreative (bookshop, spazi espositivi o di vendita di prodotti di varia natura, bar, ristoranti) è un’idea che incontra consensi, anche se non vanno ignorate le ragioni di chi, al contrario, rifiuta ogni tipo di contaminazione tra cultura e business40. Il problema ancora una volta, al di là della ‘misura’ e del buon gusto che anche in questo caso non possono mancare, è quale immagine di museo (o di biblioteca) si ha in mente: luoghi di conservazione di oggetti di valore o luoghi di vita? Luoghi che chiedono alle persone di sostare in religioso silenzio o in cui è possibile fare esperienza di educazione non formale, all’interno della quale il momento ‘istruttivo’ può felicemente convivere con quello ‘ricreativo’? Che la cultura sia esposta ad una progressiva ‘mercificazione’ (nel senso che i prodotti culturali vengano sempre più assimilati a ‘cose’ e, soprattutto, trattati come tali) è un dato difficilmente contestabile; ancor più preoccupante è che nel tempo libero il ‘tempo culturale’ si vada contraendo a vantaggio del ‘tempo commerciale’. Ciò non può tuttavia indurre a misconoscere che gli stili di vita delle persone stiano profondamente cambiando (il tempo della formazione, nella biografia personale, non è più cronologicamente distinto da quello del lavoro, da quello del divertimento, da quello del riposo, ecc.), che il momento dell’occupazione lavorativa non è da ascrivere ad una precisa porzione del ‘corso della vita’ o della giornata, che le nuove tecnologie siano in grado di assicurare una sorta di ‘anticipazione’ (attraverso visite ‘virtuali’ di musei e biblioteche) di quanto si potrà successivamente vedere materialmente, consentendo di selezionare, preventivamente, ciò che effettivamente interessa, così da poterne cogliere il significato41. Che ci sia una connessione tra beni culturali, turismo, attività economiche e commerciali è innegabile ma questo non può rappresentare un ostacolo nell’ammodernamento delle forme di fruizione del patrimonio di cui stiamo discorrendo. Più preoccupante appare invece il funzionalismo che orienta e condiziona i consumi culturali. Jeremy Rifkin vede in esso il maggior responsabile della crisi della postmodernità: «quando l’intera vita è un’esperienza a pagamento, egli annota, la cultura si atrofizza e 40 A. BOLLO, L. SOLIMA, I musei e le imprese. Indagine sui servizi di accoglienza nei musei italiani, Electa, Napoli, 2002. 41 NOMISMA, a cura di, Mercurio e le Muse. Indagine sui comportamenti dei visitatori nei punti vendita dei musei d’Italia, Nomisma, Bologna, 2001.

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muore, lasciando i soli legami economici a tenere insieme la civiltà»42. E se la denuncia del sociologo ed economista americano può essere in larga misura condivisa, poco convincenti ci sembrano invece i rimedi che egli propone – promozione di forme di ‘empatia’ e sviluppo di una ‘coscienza biosferica’ – perché caratterizzati da un elevato utopismo. Per stare al tema trattato in queste pagine, ci sembra di poter dire che la fruizione del patrimonio culturale, da parte di un crescente numero di persone, costituisce un’esperienza che, anche se non sempre al riparo da interessi e condizionamenti economici, è comunque sicuramente parte costitutiva del diritto di cittadinanza: un diritto oggi da più parti evocato ma che deve ancora esser reso pienamente esercitabile. Nel nostro caso significa riconoscere alla cultura, a cominciare dai luoghi in cui essa si produce, si organizza, si conserva e si rende accessibile al pubblico, un peso maggiore rispetto al passato (quando non di rado è stata considerata un lusso, un ‘per di più’, una opportunità per pochi privilegiati) sia sul piano sociale che civile. Perché ciò si realizzi occorre però che alle enunciazioni di principio seguano interventi operativi, occorre in particolare che possa trovar credito una felice intuizione di Andrew Kenneth Ottaway: le ‘tecniche’ (costituite, per quanto riguarda la fruizione del patrimonio culturale, dalle attività promosse dalle istituzioni entro le quali la cultura si codifica e si rende accessibile) devono potersi costantemente alimentare – egli annota – di ‘valori’. Si tratta quindi di far incontrare i cittadini con la produttività e con la creatività umana, mostrando che cosa l’immaginazione, l’ingegno, la perizia tecnica sono stati e sono in grado di produrre, in modo che sia possibile discernere ciò che è espressione dei poteri dell’uomo, ed è congruente con il suo sviluppo, da ciò che non lo è perché effimero o perché dettato da istanze di efficientismo o da mero tornaconto economico43. Questo nuovo modo di guardare al patrimonio culturale implica, da parte delle strutture che le gestiscono, una premura particolare per la comunicazione, per la mediazione didattica, per la creazione di supporti e sussidi didattici (le tecnologie, da questo punto di vista, sono in grado di mettere a disposizione soluzioni ingegnose e molto efficaci) che possano effettivamente accrescere le competenze del visitatore, del lettore, dello spettatore. E un terreno sul quale tanto i musei quanto le biblioteche hanno cominciato ad investire è proprio quello delle professionalità per l’educazione e la mediazione44. 42

J. RIFKIN, L’era dell’accesso. La rivoluzione della new economy, tr. it., Mondadori, Milano, 2000, p. 14. Sullo stesso tema si veda del medesimo Autore: La civiltà dell’empatia. La corsa verso la coscienza globale nel mondo in crisi, tr. it., Mondadori, Milano, 2009, pp. 484 e ss. 43 A.K.C. OTTAWAY, Educazione e società, tr. it., Armando, Roma, 1963. 44 L. SOLIMA, Il pubblico dei musei. Indagine sulla comunicazione nei musei

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Tali istituzioni – quantomeno le più grandi e le più sensibili al problema – da quando hanno preso a confrontarsi con l’esigenza di avere un più marcato ruolo educativo e una ben definita funzione sociale (in termini di valorizzazione delle risorse locali, di stimolo per la crescita culturale delle comunità, di contenimento dell’esclusione sociale, di promozione del senso di appartenenza dei cittadini, ecc.) si sono poste il problema di disporre non solo di personale dotato di specifiche conoscenze e abilità tecnico-scientifiche ovvero amministrative ma anche di figure professionali (educatori, mediatori, animatori) capaci di far sentire il visitatore del museo o il lettore della biblioteca ‘a casa propria’, accolto con premura e discrezione, incoraggiato a farsi artefice dei propri apprendimenti, assistito con competenza nei personali percorsi di crescita culturale che intende compiere45. Oltre a ‘possedere saperi e abilità esperte, al fine di realizzare un corretto passaggio di informazioni e conoscenze’, tali figure debbono allora essere capaci di «promuovere e sostenere il diritto di ogni persona a partecipare alla vita culturale e ai processi di patrimonializzazione [del sapere]», che è un impegno certamente di non di poco conto46. La cittadinanza culturale, in questa prospettiva, costituisce una delle tante declinazioni del più ampio concetto di cittadinanza: termine che designa uno status giuridico, una titolarità di diritti e di doveri, che richiama in particolare l’appartenenza ad una comunità, la condivisione – con chi ne fa parte – di lingua, storia, cultura, tradizioni. Nell’uso comune, il termine esprime una condizione (si parla, a seconda dei casi, di cittadinanza globale, inclusiva, plurima, ovvero negata, invisibile, breve, minore); non di rado – come in questo caso – l’aggettivazione indica anche un proposito. E si tratta di un proposito che non nasce tanto da istanze risarcitorie quanto di tipo emancipativo: una serie di fattori concomitanti (sviluppo economico, quadro politico, risorse tecnologiche) consentono oggi, quantomeno nei Paesi più industrializzati, di poter ridurre sensibilmente la distanza che separa i cittadini che ‘sanno’ da quelli che ‘non sanno’. Rinunciare ad un riequilibrio sociale in tale ambito rivelerebbe miopia e incapacità di valorizzare quanto abbiamo a disposizione per evitare le situazioni che ostacolano l’inclusione culturale di tutti i cittadini. Certo, la cittadinanza culturale, al pari di quella sociale, di quella democratica, statali italiani, Gangemi Editore, Roma, 2000; L. LONGAGNANI, a cura di, Museo in pubblico. Qualità pubblica e ruolo sociale del museo, Provincia di Modena, Modena, 2002. 45 CONFERENZA PERMANENTE DELLE ASSOCIAZIONI MUSEALI ITALIANE, La carta nazionale delle professioni museali, Milano, 2005. 46 ICOM ITALIA, La funzione educativa del museo e del patrimonio culturale, cit. Cfr. anche M. NEGRI, Porte aperte. L’accesso al patrimonio europeo dei musei, Olschki, Firenze, 2003.

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attiva, partecipativa, è destinata per molti aspetti a restare incompiuta in quanto non può essere fissato, a priori, uno standard da raggiungere e da considerare soddisfacente, ma questo non deve impedire di vedere in essa qualcosa in grado di sfidare permanentemente tanto le istituzioni (nel creare condizioni per poterla esercitare in modo congruo da parte di tutti) quanto i singoli (in termini di disposizioni personali e di volontà di autorealizzarsi da coltivare) e che quindi esige una utilizzazione appropriata di tutte le risorse disponibili. Parlare di ‘cittadinanza culturale’ significa, com’è ovvio, interrogarsi anche sul suo contrario: l’‘esclusione culturale’; fenomeno un tempo molto diffuso, legato all’analfabetismo, che aveva come conseguenza quella di relegare ampi strati della popolazione ai margini della vita sociale e culturale. Esclusione che, nell’era dell’accesso – per riprendere il pensiero di Rifkin –, sarebbe destinata a produrre conseguenze ancora più gravi. Musei e biblioteche pubbliche sono istituti di conservazione e di comunicazione del patrimonio. Per essere quasi sempre ospitati nei centri storici delle realtà urbane, all’interno di edifici di pregio, rappresentano un simbolo della storia e del tessuto sociale della ‘città’ e quindi della comunità che vi è insediata47. Il fatto che vengano identificati e percepiti, con orgoglio, come ‘patrimonio’ comune non fa che rimarcare la loro ‘appartenenza’ alla totalità dei cittadini. Per converso, avere ‘familiarità’ con tali strutture, frequentarle, criticare eventuali inefficienze, sentirle proprie, significa esercitare il diritto a fruire di qualche cosa che appartiene a ciascuno. Il loro ‘aprirsi’ al pubblico assume allora un duplice significato: da un lato si configurano come degli ‘acceleratori culturali’ consentendo a tutti l’accesso alle ricchezze culturali che conservano48 e, dall’altro, hanno modo di proporsi come strutture impegnate a valorizzare non solo i ‘beni’ che custodiscono nei propri scrigni ma anche quelli presenti nel territorio e nell’ambiente circostante (beni archeologici e paesaggistici, storico-artistici, librari, archivistici, culturali in senso lato, ecc.) di cui, peraltro, sono espressione perché è da lì che provengono gran parte dei materiali che possiedono e che mettono in mostra49. Favorendo la conoscenza e la comprensione della realtà si propongono come ‘luoghi di cittadinanza’, come ‘spazio pubblico’ in cui ci si incontra, ci si confronta con le differenze, si prende atto della varietà e 47

A. GALLUZZI, Biblioteche per la città. Nuove prospettive di un servizio pubblico, Carocci, Roma, 2009. 48 Cfr. B. LORD, a cura di, The Manual of Museum Learning, Alta Mira Press, Lanhan, 2007. 49 H. De VARINE, Le radici del futuro. Il patrimonio culturale al servizio dello sviluppo locale, CLUEB, Bologna, 2005.

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molteplicità di percorsi lungo i quali si è sviluppata la civiltà umana, si apprende50. In conclusione, crediamo di poter dire che ‘riappropriarsi’, da parte dei cittadini, del patrimonio culturale della comunità di cui essi fanno parte possa contribuire a responsabilizzarli, rendendoli partecipi dell’impegno a conservare con cura quanto il passato ci ha lasciato e, nel contempo, a stimolare il loro desiderio di conoscere, capire, sentirsi partecipi dell’avventura della conoscenza. Va in tale direzione, tra le tante iniziative avviate, una interessante esperienza promossa a livello europeo, in cui sono stati coinvolti 1650 musei di Austria, Irlanda, Lussemburgo, Portogallo, Svezia, Regno Unito e che si è proposta di formare dei keyworkers (educatori, mediatori culturali, studenti di storia dell’arte, stagisti, ecc.) il cui compito era quello di «sviluppare modelli di buona pratica per l’inclusione dei non-partecipanti [alle attività sociali e culturali della comunità di appartenenza]»51. L’idea di fondo di tale iniziativa è stata che il museo (o istituzioni culturali simili) ha un ruolo decisivo nel sollecitare i cittadini – compreso minoranze etniche, persone disabili, anziani – a partecipare alla vita della comunità, chiedendo loro di collaborare alla vigilanza delle opere d’arte, all’allestimento di mostre e spettacoli, alla diffusione di informazioni, alla animazione di momenti comunitari capaci di innescare processi di partecipazione e di coinvolgimento, oltre che di consolidamento della propria identità sociale.

4. Avvalersi del patrimonio culturale per promuovere l’apprendimento in età adulta In numerosi documenti di organismi internazionali, a cominciare dalle citate conclusioni della V Conferenza dell’UNESCO sull’educazione degli adulti (Amburgo 1997), si insiste nel sottolineare che le moderne società del sapere hanno bisogno di cittadini attivi e creativi, capaci di apprendere lungo tutto il corso della vita e dotati di spiccate disposizioni al cambiamento e alla adattabilità. Gli istituti in cui è raccolto il patrimonio culturale rappresentano, sotto questo aspetto, degli straordinari ‘luoghi di apprendimento’: luoghi cioè di elaborazione e sedimentazione di idee e di espressioni del sapere (un sapere in grado di incuriosire, intrattenere, divertire, istruire il visitatore), nonché luoghi di sintesi del gusto artistico di culture e di epoche storiche diverse, luoghi polifunzionali capaci di 50 R. BORGHI, La biblioteca di tutti e la sua funzione educatrice, in L. LUATTI, a cura di, Educare alla cittadinanza attiva. Luoghi, metodi, discipline, Carocci, Roma, 2009, pp. 116-123. 51 D. GRAY, A. CHADWICK, Museums, Keyworkers and Lifelong Learning: a European Survey, in «International Review of Education», n. 3-4, 2003, pp. 343-362.

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soddisfare le esigenze e gli interessi conoscitivi personali, luoghi che attraverso efficaci forme di comunicazione si fanno strumento di comprensione del cammino compiuto dalla civiltà umana e dei molteplici volti che questa ha assunto nel tempo e nello spazio. L’idea che l’apprendimento sia attività che ha a che fare con contesti formali (aula, docente, contenuti da acquisire, abilità da esibire a conclusione del percorso formativo, ecc.) è ancora molto forte ma, come si è visto, è anche ampiamente superata52. Le conoscenze che nascono dall’apprendimento non formal e informal – come nel caso del museum learning – non sono qualitativamente diverse da quelle che emergono da altri percorsi formativi più strutturati; anzi la loro forza, osserva Barry Lord, sta nel fatto di essere frutto di apprendimenti voluntary (cioè scelti liberamente da chi apprende) e affective (gratificanti sul piano emotivo)53. Quello che musei, biblioteche e istituti analoghi offrono è, in effetti, un sapere che ha peculiarità particolari: risponde a bisogni e forme del conoscere che, in senso stretto, attivano competenze che non possono essere classificabili né come ‘utili per la vita’, né per il lavoro, né per i rapporti sociali, ma che tuttavia sono avvertite come fortemente desiderabili e capaci di generare autogratificazione ed autostima. «L’apprendimento in questo contesto, è stato fatto rilevare, è allo stesso tempo intimo e collettivo, privato e pubblico. […] Le gallerie, le mostre e i musei possono diventare dei catalizzatori di esperienze continue […] che hanno il potere di trasformarci»54. Si tratta di un apprendimento autodiretto che, viene precisato, chiama in causa la capacità di decidere sulle esperienze da compiere, sui modi e sui tempi in cui farle e, prima ancora, se, come, quanto e quando investire sulla propria autorealizzazione. In questa ottica, il patrimonio culturale può costituire una stimolante risorsa per attività di educazione degli adulti che, come si è detto, non ricalchino modelli scolastici55. Ma, proprio per questo, occorrono politiche, strategie, progetti, forme di empowerment che consentano di non banalizzare il contributo che su questo versante le ‘agenzie di diffusione culturale’, come i musei e le biblioteche, possono offrire. Limitarsi a constatare l’aumento, negli ultimi anni, della partecipazione degli adulti ad attività culturali sarebbe riduttivo, annota con acume 52 ISFOL, L’offerta di formazione permanente in Italia. Primo rapporto nazionale, Vol. I Risultati dell’indagine, Vol. II Approfondimenti settoriali, Roma, 2003. 53 B. LORD, a cura di, The Manual of Museum Learning, cit. 54 J. THINESSE-DEMEL, Un mondo che cambia, in M. SANI, a cura di, Musei e lifelong learning. Esperienze educative rivolte agli adulti nei musei europei, Istituto per i Beni Artistici, Culturali e Naturali della Regione Emilia Romagna, Bologna, s.d. 55 L. LAURENTI, F. SCALCO, R. SIMONETTI, Apprendere l’arte. L’educazione degli adulti nella fruizione dei beni culturali, EDUP, Roma, 2005.

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Paul Bélanger già direttore dell’Istituto per l’Educazione dell’UNESCO con sede ad Amburgo, «non solo a causa della tendenza delle disuguaglianze culturali a riprodursi ma anche a causa delle visioni conflittuali sulle emergenti società della conoscenza e sulla democratizzazione della cultura, fra la democratizzazione della cultura e la realizzazione di democrazie culturali»56. Sulla funzione dell’educazione degli adulti nelle società della conoscenza e dell’apprendimento, egli prosegue, va preso atto che pesano numerose ipoteche e non c’è affatto concordanza di vedute sugli obiettivi che essa dovrebbe perseguire. Emergono anzi, in materia, ‘visioni contrastanti’: alcuni ritengono che le attività formative del settore debbano essere principalmente destinate ad assicurare un «continuo adattamento dei lavoratori alle nuove tecnologie», altri invece vi scorgono promettenti opportunità per fare della ‘creatività degli individui’ una chiave utile «alla sopravvivenza e allo sviluppo sostenibile» e soprattutto alla ‘valorizzazione del potenziale umano’. Le priorità, per alcuni, sono costituite dai saperi professionali, dagli skills, dalle ‘abilità per la vita’, dalla padronanza di strategie che consentono di risolvere i problemi che ci troviamo ad affrontare; per altri – scrive Bélanger – giocano un ruolo altrettanto importante gli apprendimenti e le pratiche riflessive che riguardano «il nostro passato, la nostra memoria, le nostre esperienze intellettuali ed estetiche e, talvolta, l’estasi». Gli apprendimenti maturati attraverso la visita a mostre o musei «fanno parte della nostra sfera più intima» e quando i ‘luoghi’ della cultura si mostrano ‘amichevoli’, annota ancora Bélanger, aiutano le persone a comprendere il senso della storia, della civiltà, dell’arte, dell’ingegno umano; soprattutto sollecitano a impegnarsi, a non autoescludersi dai circuiti di produzione del sapere. E sul punto aggiunge: «non si può parlare di apprendimento significativo senza riconoscere l’intimità dell’atto dell’apprendimento e del corso di vita dell’apprendimento. Quando affermiamo che la motivazione è alla base dell’apprendimento, che la curiosità è il principale motore che spinge gli individui ad imparare e, ancora, quando affermiamo che dobbiamo riconoscere l’importanza dell’apprendimento sulla base dell’esperienza e che le transizioni di passaggio della vita di ognuno di noi rappresentano dei momenti olistici di apprendimento, quando critichiamo le carenze dell’attuale approccio all’apprendimento, ecco che è proprio in quel momento che cominciamo a riconoscere l’intimità dell’atto dell’apprendimento»57. La fruizione del patrimonio culturale, attivando processi in cui la dimensione cognitiva si lega a quella emotiva, la motivazione al piacere di 56

P. BÉLANGER, Nuove visioni sul ‘Lifelong learning’, in M. SANI, a cura di, Musei e lifelong learning, cit. 57 Ibidem.

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imparare e di conoscere, il desiderio di sapere e la scoperta di poterlo fare autonomamente, fa del patrimonio culturale una delle esperienze che più garantiscono tale ‘intimità’. E qui pare superfluo precisare che intimità è sinonimo di readness, prontezza, disponibilità ad apprendere, ma anche di autostima, soddisfazione nel fare cose piacevoli, possibilità di personalizzare i percorsi cognitivi. Si ha conferma di ciò leggendo l’epigramma che introduce lo scritto di Bélanger da cui abbiamo appena tratto alcune citazioni: Imparare è una gioia, un diritto, uno strumento utile e una responsabilità condivisa. Allo stesso tempo, lottare contro le ‘iniquità’ di cui sono vittime settori ancora consistenti della società (persone poco istruite, anziani, immigrati, disabili) è, per Bélanger, un modo per contribuire alla ‘affermazione della creatività umana’, mencarellianamente intesa come espressione del potenziale educativo di ciascuno58. Avviandoci a concludere, per quanto non manchino incertezze e contraddizioni, se ci guardiamo attorno non è difficile cogliere la presenza di processi che, in modo più o meno intenzionale, si propongono di contrastare le tante forme di anomia sociale che si riscontrano in questo nostro tempo; processi che possono essere letti come risposta al bisogno di dar vita ad una democrazia sostanziale, come fattore generativo di nuove forme di cittadinanza, come esigenza di conoscere, di partecipare, di contribuire alla crescita della comunità di appartenenza. I fenomeni attraverso cui tali processi si manifestano segnalano un lento ma progressivo costituirsi di una ‘cultura emergente’59 caratterizzata dal moltiplicarsi della richiesta di apprendimento, dall’affermarsi del diritto ad ‘imparare sempre’ e a disporre delle competenze per essere cittadini della learning society, dal costituirsi di ‘sensibilità’ per questioni cruciali che investono il futuro dell’umanità (diritti, sviluppo sostenibile, ambiente, salute, lavoro, istruzione, equità sociale, accesso al patrimonio culturale). Ed è incontrovertibile che tale ‘cultura’ vada nutrendosi di grandi idee che la riflessione pedagogica è chiamata a tenere costantemente presenti (potenziale educativo, creatività, autoeducazione); idee che negli ultimi anni, in nome dell’efficientismo produttivistico, hanno registrato un pericoloso depotenziamento. Il primato assegnato al ‘mercato’, alla ‘occupabilità’, alle ‘competenze’, alla ‘inclusione’ e la priorità data alla difesa dell’assetto esistente piuttosto che alla sperimentazione di modelli inediti di convivenza sociale hanno indotto a pensare che la crescita 58

1972.

Cfr. M. MENCARELLI, Potenziale educativo e creatività, La Scuola, Brescia,

59 M. MENCARELLI, Educazione permanente come cultura emergente, Quaderni dell’Istituto di Pedagogia dell’Università degli Studi di Siena, Tipo-Stampa, Città di Castello, 1982; S.S. MACCHIETTI, a cura di, Democrazia e educazione. La formazione del cittadino responsabile nella pedagogia di Mario Mencarelli, GESP, Città di Castello, 2009.

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culturale dovesse essere un fatto lasciato all’iniziativa personale, anziché considerarla, come suggerito da Bélanger e da Bauman60 una ‘responsabilità condivisa’. Musei e biblioteche sono strutture destinate ad avere un ruolo importante nel continuare ad alimentare, nei singoli e nelle comunità, l’engagement civile che ha sostenuto la breve ma significativa storia dell’educazione permanente61 e che ha portato a costruire sia un inventario delle necessità più pressanti del nostro tempo, alle quali c’è bisogno di rispondere con iniziative di carattere educativo, che ad offrire una profonda impronta umanistica nel modo di affrontarle. Basti pensare al carattere ‘regolativo’ di alcuni dei principi da essa proposti: l’uomo costituisce una ‘unità’ inscindibile – viene prima del cittadino, viene prima del lavoratore, prima dell’utente di servizi – l’uomo ha diritto ad autorealizzarsi in ogni dimensione e ad incrementare il proprio sapere lungo tutto il corso della vita (lifelong and lifewive learning). Gli ‘alfabeti di cittadinanza’ su cui, a ragione, oggi molto si insiste (competenza digitale, estensione delle opportunità di e-laerning, di e-democracy, di formazione continua, di inclusione sociale) sono destinati, in questo quadro, ad aver senso solo se coerenti con una antropologia che accrediti una concezione olistica dell’uomo, solo se visti, cioè, in una prospettiva che dia atto della correlazione ‘reciproca e vitale’ esistente (come ha insegnato Dewey) tra educazione e democrazia62, solo se interpretati come condizione per stabilire una circolarità feconda tra sviluppo personale, etica, partecipazione alla vita sociale e a quella culturale.

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2010.

Cfr. Z. BAUMAN, Modernità e ambivalenza, Bollati Boringhieri, Torino,

61 J-C. FORQUIN, L’idea di educazione permanente e la sua espressione internazionale a partire dagli anni ’60, in «Focus of Lifelong Lifewide Learning», n. 2, 2006 (rivista elettronica). 62 J. DEWEY, L’educazione di oggi, La Nuova Italia, Firenze, 1961.

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Gomà J. Esemplarità pubblica Da sempre uno dei termini di riferimento essenziali della vita morale e politica, l’esemplarità non è stata fino ad ora oggetto di riflessione teorica. L’Autore propone la sua analisi partendo dal considerare l’esemplarità come principio organizzatore della democrazia moderna. pp. 320

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Ferrarotti F. La strage degli innocenti Anche là dove è ammessa l’esistenza di una “questione giovanile”, spesso i giovani non sono ascoltati. Questo lavoro prende in esame ciò che ruota attorno ai giovani e che genera la loro emarginazione dai processi sociali e produttivi, che sempre meno li vedono coinvolti. pp. 128

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DISSOLVENZA DEI VALORI E DOVERI DELL’EDUCAZIONE Orfeo Azzolini Wolfgang Brezinka, nel 2008, in un incontro tenuto con alcuni dottorandi presso l’Università Cattolica di Milano ha parlato di educazione ai valori in una società ‘dai valori incerti’. Credo che si possa convenire con molte parti dell’intervento in questione, in particolare sulle indicazioni dell’intervento educativo necessario, meno su alcuni aspetti delle con-cause da lui individuate come responsabili della crisi valoriale contemporanea nelle «società liberali, illuminate e secolarizzate»1. È interessante tuttavia sottolineare la realtà di questa crisi, la sua profondità, la sua diffusione. Partiamo dalla constatazione che ad essere in crisi non sono tanto gli autentici valori che dovrebbero guidarci nel governare noi stessi e le nostre relazioni con il mondo, la crisi, piuttosto, riguarda la percezione che abbiamo, individualmente e collettivamente, di ciò che vale: ad essere incerti siamo noi e non i valori. Infatti molti di quelli ‘nuovi’, assunti nell’epoca in cui viviamo, sono disvalori. I valori autentici risultano, per molti, come accantonati, sovente misconosciuti, sostituiti da insensati orizzonti di senso. Una certa rivoluzione copernicana in negativo si è prodotta e sembra prender corpo, almeno in parte, quel rovesciamento dionisiaco auspicato da Nietzsche, i cui aspetti peggiori abbiamo visto realizzarsi nella prima metà del secolo scorso. Su alcuni piani, ormai da decenni, assistiamo ad un generale allentamento di molti freni inibitori – per quel che riguarda i comportamenti sessuali, ad esempio – giustificati con il necessario superamento di arcaiche ed innaturali censure. E se è vero che il passato ci ha lasciato 1

Questo il titolo originale dell’incontro: Education in a Society uncerten of its Values, il resoconto del quale è stato tratto dalla relazione-sintesi fattane da Ornella Gelmi e reperibile nel WEB e nel n. 41/2009 della «Rivista di teologia morale».

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in eredità censure e tradizionalismi soffocanti, è altrettanto vero che, in molti casi, abbiamo superato il confine della ragionevolezza con contraccolpi comportamentali fuori misura. Sulla sessualità torneremo più avanti con alcune precisazioni. Per evitare generalizzazioni, è bene precisare che la caduta del piano dei valori non interessa l’intero corpo sociale delle nostre realtà occidentali. Non di poco conto è la frazione di chi – individualmente e collettivamente – tenta percorsi esistenziali umanisticamente fondati e giustificati. Tuttavia è indubbio che un sentire e un vivere al di sotto e al di fuori di paradigmi di ‘umana pienezza’ siano diffusi, si siano fatti cultura condivisa. L’orizzonte di tali sentire e vivere riguarda sì alcune latitudini più di altre, ma è indubbio che ormai i veicoli che li diffondono possiedono una capacità di penetrazione e di persuasività che li orienta verso la globalizzazione. Proviamo, più in concreto, ad esaminare alcuni di questi valori negativi, a dare loro un nome come direbbe Paulo Freire. Al primo posto credo si possa individuare il possedere, attribuendo una categoria valoriale positiva alla ricchezza. Mammona, l’idolo siriano che la rappresenta è cosa evidentemente antica e ancor più antico è l’umano cedimento verso il possesso. È sempre stato così, quindi nulla di nuovo sotto il sole. E ancora, è in sé un male essere ricchi? Si può rispondere a quest’ultima domanda sostenendo che un male è sicuramente diventarlo attraverso la sottrazione di beni ad altri. È noto un modo diverso per arricchire? Ovvia è la risposta. Lungo l’intero arco storico si è tentato in vario modo di giustificare la ricchezza. C’è persino chi si è spinto, ‘cristianamente’, ad attribuirle il significato di forma di manifestazione della predilezione divina (Calvino). Il liberismo ha individuato ed individua nel merito e nelle capacità personali una giustificazione-validazione dell’arricchimento, dimenticando l’insieme delle condizioni economico-finanziarie, giuridiche, politiche che favoriscono i gruppi sociali dominanti facilitandone l’acquisizione di ricchezze, e le condizioni imposte da quegli stessi gruppi. Per quanto riguarda invece il ‘nuovo’ rispetto al passato nel percepire il ‘valore’ ricchezza, vi è da dire che mai come nell’epoca attuale i modelli sociali e culturali che lo interpretano hanno avuto la possibilità di affermarsi in maniera persuasiva e pervasiva attraverso i media elettronici. La televisione, in particolare, affermatasi quale validatore del vero e del condivisibile, si è rivelata, in tal senso, un potente manipolatore delle coscienze. Le sue immagini, vivide e suadenti, inducono il ‘villaggio globale’ a conformarsi rispetto al paradigma di valori che propone. Tra questi, sicuramente, spicca ancora quello della ricchezza, interpretata dai personaggi di successo, i vip di varia grandezza, le cui esistenze, più o meno dorate, ci inducono ad invidiare e ad assumere come modelli umani condivisibili. Tutto ciò che sta sotto, in quanto a ruoli sociali, risulta

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svalorizzato, scarsamente ambito anche quando tali ruoli siano in modo evidente di chiara utilità sociale. È veramente una «cattiva maestra, la televisione»2. Quanto considerato si intreccia fortemente con un’altra caratteristica negativa del nostro tempo, quella del primato dell’apparenza. Sono ormai stati consumati fiumi di inchiostro in critiche rispetto a questo comportamento e, tuttavia, esso non pare minimamente intaccato. Vi è anzi da rilevare la sua tendenza a generalizzarsi sempre più e a coinvolgere fasce d’età e strati sociali in precedenza restii o poco interessati ad uniformarvisi. È il caso dell’infanzia, ad esempio, indotta dal martellante battage della pubblicità – che, al riguardo, non condiziona solo gli adulti3 – ad omologarsi a specifici stili di abbigliamento o al possesso di oggetti resi fortemente desiderabili. Ancora una volta l’apparire è stato oltremodo potenziato dai media elettronici. Diversamente non poteva essere poiché, per definizione, essi sono l’amplificazione massima di ciò che si vede, la ulteriore dimostrazione, rispetto agli esiti ottenuti, che il medium è il messaggio4. Il contemporaneo successo dei falsi d’autore sottolinea il forte impatto sul conformismo sociale dell’apparire: se non posso permettermi un certo originale, ripiegherò su una sua imitazione poiché non riesco a sottrarmi dal dover mostrare che anch’io posseggo quel determinato oggetto. Tornando al ruolo svolto dalla televisione quale traghettatrice dell’apparenza sulla sponda della sostanza: l’essere comparsi in televisione attribuisce spessore al personaggio che vi compare. Più vi si compare e maggiore risulta il riconoscimento. È vero che ai vari programmi televisivi sono talvolta invitati soggetti di indubbio valore. Ciò che qui preme sottolineare è che una non meritata fama risulta comunque attribuita per il semplice fatto di essere stati validati, pressoché televisivamente ‘consacrati’. L’edonismo è un altro tratto connotativo preoccupante del nostro tempo, un edonismo senza paludamenti filosofici. Né Aristippo, né Epicuro approverebbero la tendenza contemporanea alla ricerca del piacere. Quella attuale pare infatti una sua ricerca indiscriminata, ricerca che coinvolge giovani e meno giovani e che conforma le coscienze ad un 2 Questo il titolo di un interessantissimo libretto edito da Donzelli, Milano, nel 1996 e che contiene contributi di K. Popper, R.J. Condry, K. Wojtyla. 3 Un importante pubblicitario francese, J. Séguéla, ha segnalato come nel 1985 il 50% degli acquisti fatti in Francia fosse stato suggerito alle famiglie da ragazzi al di sotto dei 15 anni. In F. DOLTO, Adolescenza, Mondadori, Milano, 1990, pp. 128-129. 4 È questa una delle più famose e condivisibili tesi di McLuhan. Di questo autore, si veda, Gli strumenti del comunicare, Garzanti, Milano, 1986.

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percepire quasi irrealisticamente l’esistenza. Necessariamente la realtà umana è caratterizzata dal dolore o da una lunga serie di ostacoli che si frappongono tra noi e il conseguimento di ciò che crediamo realizzi la nostra felicità. Pensiamo, ad esempio, agli inevitabili lutti che tutti subiamo, agli altrui desideri contrari alle nostre mire, talvolta ai vincoli dell’età, della condizione economica personale, ecc. Se il piacere, nelle sue innumerevoli espressioni, diviene la dominante che ci orienta, ogni ostacolo al suo raggiungimento può innescare frustrazione e corsa più o meno frenetica verso quelle che individuiamo come alternative compensative. Credo, ad esempio, che un tale comportamento possa essere considerato una delle concause non secondarie del fallimento di molti rapporti sentimentali. Strettamente collegati a questo spirito edonistico, forse una delle sue massime espressioni, sono il percepire e il praticare la sessualità in modo coattivo e compulsivo. Il nostro è un tempo che potremmo definire di permeabilizzazione diffusa alla sessualità. Essa è sfruttata per gli scopi più diversi – e ancora una volta sono i media elettronici a renderla invasiva – come mai in precedenza e, come mai, ampiamente tollerata, accolta, giustificata. Per non incorrere in critiche di superato moralismo, precisiamo subito che è da condividere lo sdoganamento definitivo operato da Freud e da tutta la psicoanalisi rispetto a questo nostro vitale istinto. Madre natura – per chi crede Dio stesso – ad esso hanno consegnato le chiavi della vita. La liberazione dai molti tabù che lo hanno vincolato è sicuramente uno dei maggiori meriti del ’900 psicologico. Ciò detto, si può rilevare una significativa devianza – e non mi sto riferendo a precisi comportamenti sessuali – rispetto al compito primario di riproduzione della specie. Certo i modi di vivere la sessualità andavano e vanno ancora liberati da tutto ciò che induce a negarle o a limitare il suo carattere di atto gioioso in un rapporto amoroso. Non sono tuttavia certi paradigmi ricorrenti attuali dei comportamenti sessuali ad offrire questa liberazione, essi anzi sono il sintomo di un negativo conformismo che vincola. Si sono infatti affermati modelli di relazione sessuale che marginalizzano eccessivamente – sarebbe meglio dire oscurano – la dimensione riproduttiva degli atti sessuali e, quel che più conta, finiscono per soffocare, svuotare tale relazione. La sessualità, sovente, è così precocemente praticata che giovani di diciotto, vent’anni, mostrano una già marcata saturazione del proprio desiderio. C’è un altro aspetto preoccupante rispetto a questo negativo idolo contemporaneo. Con l’allentamento dei filtri censori nei media elettronici e nella carta stampata e con una percezione inadeguata da parte degli adulti rispetto a ciò che sia più o meno adatto al mondo dell’infanzia, accade sempre più sovente che i bambini siano costretti a confrontarsi con varie espressioni della sessualità. Assistiamo, nell’infanzia, a quella che è

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già stata rilevata come una precocizzazione di caratteri impropri5 della sessualità. L’esempio seguente è quanto mai significativo al riguardo. Un bimbetto di quattro anni d’età, guardando uno spettacolo televisivo pomeridiano – uno sceneggiato ‘rosa’ – seduto accanto alla zia adolescente, le si è rivolto con le seguenti parole: «Zia, come mai quando vedo in televisione due che si baciano mi diventa duro il pisellino?». Ciò che aveva colpito quel bambino era l’implicito di quello che vedeva, implicito che coglieva correttamente anche se così piccolo. Al di là del sorriso che può muovere la sua ingenua affermazione, credo si debba riflettere su questi fenomeni e, soprattutto credo che occorra, per quanto possibile, intervenire per non negare ad infanzia ed adolescenza la possibilità di vivere con serenità le proprie stagioni evolutive. Il nostro tempo e le nostre latitudini, con il fenomeno della contemporanea e massiccia povera immigrazione che lo caratterizza, conosce poi fenomeni preoccupanti di razzismo e xenofobia. Le nostre contrade, che si dicono cristiane, spesso respingono nei modi peggiori chi cerca speranze di vita migliore. E ciò avviene sia culturalmente sia de facto. Come sempre, su chi mostra differenze religiose, etniche, culturali, si scaricano le contraddizioni delle nostre società, come quelle determinate dalle ricorrenti crisi economiche, i livori delle ideologie politiche, la robusta imbecillità di troppi. Coinvolti, incolpevolmente, vi sono anche bambini ed adolescenti che così precocemente, nella vita, sono indotti a valutare come nelle loro classi scolastiche vi siano presenze in qualche modo ingombranti. Così ingombranti da non poter superare il 30% di chi frequenta le aule scolastiche6. Questo per gli alunni italiani. Per i discriminati, in più, si determina la penosa percezione di una diversità che li obbliga ad essere minoranza non ben tollerata anche nei luoghi dell’educazione. Ma quale educazione può essere mai quella che viene impartita dove si innalzano siffatti steccati? Razzismo e xenofobia ben allignano in un tempo e in un mondo connotato da contrapposizioni forti di tipo economico ed ideologicoculturale. Una delle cartine di tornasole di questo sentire è quella del confronto-scontro religioso. Anche se sovente si tratta di comportamenti 5

Il termine impropri è qui utilizzato per significare l’esito di una stimolazione che può indurre i bambini a percezioni e manifestazioni della sessualità non coincidenti con quelli dell’età cronologica. 6 Il riferimento, ovviamente, va alle recenti norme per le quali, appunto, in ogni classe delle nostre scuole la presenza di ragazzi stranieri non potrà superare il tetto ricordato. Non riesco a non vedere in tali norme, con la palese ignoranza di molte delle concrete realtà scolastiche, anche una non velata accondiscendenza al sentire discriminatorio che si va diffondendo nei confronti dell’universo immigrazione. Il tutto proposto, con buona dose di ipocrisia, come razionalizzazione che qualifica in meglio gli apprendimenti scolastici di italiani e non.

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surrettiziamente giustificati e che mascherano ben altri intenti, è indubbia la valenza negativa di cui sono portatori. Sono, senza alcun dubbio, elementi di divisione delle comunità umane agenti con particolare forza, forse uno degli ostacoli maggiori al possibile incontro tra culture. Queste difficoltà vivono di un odio alimentato da non nobili fini e che è urgente fermare. Le stesse religioni invece, se vissute in modo autentico, avrebbero in loro stesse gli anticorpi necessari per superare le divisioni ricordate. Al riguardo risultano illuminanti e condivisibili alcune note di Tahar Ben Jelloun, il quale, rispondendo ad una domanda della propria figliola, ricorda che «Tutti i libri sacri sono contro il razzismo. Il Corano dice che gli uomini sono tutti uguali davanti a Dio e sono differenti secondo l’intensità della loro fede. Nella Thora si dice: “… se uno straniero viene a stare con te, non recargli molestia, sarà per te come uno dei tuoi compatrioti … e tu l’amerai come te stesso”; la Bibbia insiste sul rispetto del prossimo, cioè di qualsiasi altro essere umano, sia esso il tuo vicino, tuo fratello o uno straniero. Nel Nuovo Testamento è detto: “Vi ordino di amarvi l’un l’altro”. Tutte le religioni predicano la pace tra gli uomini»7. Un’altra causa della contemporanea opacizzazione dei valori credo vada ascritta all’attuale carenza di giudizio critico. È una omologazione di basso profilo quella che determina il sentire diffuso, dovuta ad una manipolazione delle coscienze che determina, tra l’altro, molti dei comportamenti riprovevoli cui in precedenza s’è fatto cenno. Quello che viene sempre più definendosi è un circuito vizioso per il quale, all’assopimento delle coscienze ricordato, non può non correlarsi una caduta della capacità critica la quale, a sua volta, costituisce l’humus adatto alla dissolvenza di ciò che maggiormente conta per l’uomo e per le sue relazioni.

Il campo dei valori Nelle pagine precedenti ci si è riferiti per tracce alla crisi contemporanea. Prima di passare ad esaminare quali siano i compiti dell’educazione per contribuire al superamento di questa crisi, credo sia importante argomentare brevemente sul tema stesso dei valori: cosa sono, come se ne è dibattuto filosoficamente, è possibile individuarne di validi per tutti? Innanzitutto cosa sono i valori? Una possibile definizione mi pare la seguente: la percezione di condizioni esistenziali condivisibili ed auspicabili poiché ritenute adatte a qualificare al meglio la vita degli uomini sia nella dimensione intrapersonale, sia in quella delle relazioni interpersonali in senso lato. Ovviamente c’è subito da osservare che una tale perce7

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T. BEN JELLOUN, Il razzismo spiegato a mia figlia, Bompiani, Milano, 1998,


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zione è sempre frutto dei nostri percorsi storico-culturali. Viene declinata a seconda del tempo che si vive, di ciò che si è conosciuto e si conosce, insomma della sedimentazione dei vissuti individuali e collettivi per i quali risulta determinante un insieme lato di fattori, da quelli strettamente materiali a quelli spirituali che con questi si intrecciano. Da questo punto di vista è indubbiamente corretto riferirsi ai valori come ad alcunché di relativo: dipendono da e mutano nel tempo8. Se, ad esempio, consideriamo la cura del proprio aspetto – come valore minore, inerente al rispetto che ognuno ha di sé per l’immagine che si offre al prossimo e di un aspetto dell’idea di bello –, in molti quartieri delle nostre città osserviamo ormai una estetica plurale e sovente variopinta: indiani con il turbante, africani con lunghe e vivaci vesti, donne con il capo velato ed altre con i capelli raccolti in infinite treccine. Si tratta di un bel mondo a colori che purtroppo molti rifiutano e nel quale, anzi, vedono una invasione che vorrebbero respingere. Tornando alla riflessione precedente, tuttavia, l’esempio riportato è solo uno dei tanti possibili rispetto al relativismo cui s’è fatto cenno. Possiamo rintracciarlo infatti anche in ambiti molto più significativi, ad esempio in quello religioso o in quello giuridico. Per coniugarli entrambi si pensi a come diversamente è valutata la vita umana, in campo cattolico, ai nostri giorni rispetto ad un passato non troppo lontano. Le leggi dello Stato pontificio nel XIX secolo prevedevano ed applicavano la pena di morte per determinati gravi 8

Il relativismo al quale ci si riferisce va ascritto ai limiti che ci caratterizzano come esseri umani. Non ha quindi molto senso parlare di valori assoluti, valori in sé e valori relativi. I nostri valori sono ciò che umanamente sappiamo esprimere. Ogni epoca ha potuto riferirsi a dei valori e vi sono stati e vi sono tempi e luoghi nei quali il campo valoriale ha conosciuto e conosce elevati profili. Sono state le diverse culture a costruire, modellare e talvolta abbattere valori, i più elevati ed infimi dei quali risultano quindi essere un umano prodotto che, dell’umano, ha pregi e difetti. È questo il senso che possiamo attribuire al relativismo, solo questo e non quello di un riduttivismo che ingrigisce ed uniforma indistintamente l’insieme delle possibilità di scelta che ci siamo dati per orientare le nostre esistenze. In altre parole, il fatto che gruppi umani diversi, in tempi differenti, abbiano definito, accolto, perseguito scelte valoriali disomogenee per tassonomie ed intensità, non toglie spessore a queste stesse scelte, non svuota i valori. Rispetto ad un relativismo così concepito, nemmeno chi guardi a valori religiosamente ispirati può parlare di valori assoluti poiché l’assoluto, per chi crede, va ricondotto alla fonte di ogni religione, a Dio. I credenti hanno sempre rielaborato tale assoluto filtrandolo attraverso le loro capacità di intenderlo e viverlo, sovente contaminandolo nell’incontro con le culture all’interno delle quali, o contiguamente, si sono sviluppate le loro visioni religiose. Per i cristiani, ad esempio, si pensi all’indicazione di Gesù che invita ad essere perfetti come lo è il Padre. Come e quando potranno mai essere capaci della sua bontà infinita e del suo infinito perdono? O, ancora, quanto hanno essi ceduto dei comandamenti ricevuti dalla cosiddetta secolarizzazione? Riflessioni simili sono state elaborate da Meinecke e più avanti vi si farà cenno.

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reati, cosa oggi inconcepibile anche se i papi detenessero ancora un potere temporale. In un altro ambito religioso, quello islamico, assistiamo, in alcune aree del mondo, alla attuazione di una mal interpretata legge coranica che ha come risultato l’applicazione di pene aberranti anche per comportamenti altrove assolutamente non valutati come colpe. Molte nazioni, poi, attualmente applicano la pena di morte per reati quali l’omicidio, mentre altre non lo fanno e si battono perché un tale modo di ‘fare giustizia’ venga superato. La vita degli uomini è la stessa, in Europa come negli Stati Uniti, sia quella delle vittime di omicidi, sia quella di chi si macchia di questi crimini. In questo caso sono due i valori relativizzati, quello della giustizia e quello della vita. Gli uomini, tuttavia, al di là di un tale relativismo, in ogni tempo sono stati capaci di pensieri e di comportamenti memorabili, hanno agito orientandosi sulla scorta di grandi idealità alle quali hanno attribuito una dimensione di imperativi categorici. Si salvano queste idealità dalla dimensione relativistica? Ancora una volta sembrerebbe difficile rispondere positivamente e anche i più memorabili pensieri parrebbero faticare nel superare il condizionamento storico-culturale. Non esiste quindi un orizzonte valoriale in sé validabile, che sappia superare tempo e spazio mostrandosi adatto all’intera specie umana, sono individuabili valori per tutti e per sempre? Il dibattito, al riguardo, è stato intenso e vasto ed ha interessato, praticamente, la filosofia di ogni tempo anche se il termine valore, nella riflessione moderna, ha assunto una particolare rilevanza a partire da Nietzsche, dalla reazione suscitata dal suo preteso sovvertimento del campo dei valori tradizionali. Più in generale si può considerare come ogni visione filosofica sia stata visione di valori, dai presocratici agli ultimi epigoni dell’esistenzialismo e dei vari razionalismi e pragmatismi contemporanei. Trascurando, per ovvi motivi, l’insieme della storia della filosofia e riferendoci al dibattito contemporaneo, possiamo individuare, sostanzialmente, tre posizioni rispetto alla discussione sui valori. La prima individua il valore come preferenza, ovvero con ciò che è desiderabile o, ancora, come l’anticipazione di una regola. Per la seconda, invece, si sarebbe in presenza di un criterio di giudizio delle norme. Infine, per la terza, il valore è da considerarsi una possibilità di scelta, una disciplina intelligente delle scelte da privilegiare in relazione a determinate norme. Queste, in sintesi, le risposte tentate alla rivoluzione di Nietzsche, rivoluzione particolarmente orientata alla contestazione dei valori cristiani, di una morale che egli riteneva centrata sul risentimento, sulla rinuncia e su un vuoto ascetismo. Queste posizioni rivelano quanto gli fosse sconosciuto il fondamento autentico del cristianesimo e della sua etica e, semmai, alzano il velo su quella che fu, forse, la sua fatica di crescere accanto ad un padre, pastore luterano, dai rigidissimi costumi. La logica

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del cristianesimo è quella dell’amore e l’amore è il fondamento della sua visione morale e la sua grande forza. È il cristianesimo a determinare, storicamente, il rovesciamento di valori tradizionali, ad esempio quelli secondo i quali giustifichiamo egoismi e prevaricazioni. Quale sia stata la ragione che indusse Nietzsche a formulare la sua tavola dei valori, la risposta che ne scaturì fu plurima ed articolata secondo alcune visioni relativistiche ed altre aspiranti alla fondazione-identificazione di valori universali non influenzabili da storia e cultura. Nell’ambito dello storicismo, è da ricordare la posizione di Dilthey, per il quale regole e valori nascono e si sviluppano nella storia e mai al di sopra o al di fuori di essa. Ogni civiltà avrebbe una sua Weltanschauug ed una sua visione filosofica9. Simmel, scosso dalla barbarie della prima guerra mondiale che ha messo in discussione la civiltà europea, afferma che non esistono valori assoluti, ma solo valori riconosciuti come tali a seconda delle diverse situazioni. Vi sarebbe quindi separatezza tra la sfera della realtà e quella dei valori, separatezza determinata da una qualificazione categoriale e non sulla scorta di una dimensione ontologica. Questo spinto relativismo mette in allarme altri storicisti e Troeltsch vi risponde postulando l’antitesi tra relatività storica e campo dell’assolutezza dei valori. L’antitesi sarebbe risolta facendo coincidere i due termini contrapposti: «Ogni punto della storia è in rapporto diretto con la sfera dei valori assoluti e contiene in sé tali valori, senza relativizzarli alla propria mutevolezza». Anche Meinecke sosteneva che la relazione con l’Assoluto è costitutiva del divenire storico, ma tale relazione ‘scende’ dall’infinito al finito e non viceversa. Ne conseguirebbe che la storia si fonda sui valori che realizza e che il modo d’essere di tali valori non è riducibile alla relatività storica e conserva un suo incondizionato fondamento. La storicizzazione di un valore, quindi, non ne intaccherebbe la sua dimensione assoluta, essa rappresenterebbe ciò che gli uomini, di volta in volta, riescono a realizzare del suo assoluto. Nella sua peculiare visione, Bergson, interpreta la storia come creazione continua: tutto si crea e si distrugge nel medesimo istante. Egli farà riferimento a due morali, una chiusa ed una aperta. La prima che coinvolge i membri di una determinata società, centrata sull’abitudine, la seconda, indirizzata all’intera umanità, figlia di uomini eccezionali e sulla scorta dell’elance vitale, origina nuovi comportamenti e tutti chiama ad uno slancio d’amore. Anche Max Weber insiste sulla pluralità di valori e sfere di valori. Tuttavia non vede nel divenire storico una continua creazione di valori 9

Per le posizioni filosofiche di Dilthey e degli altri autori che seguiranno, si veda N. ABBAGNANO, Dizionario di filosofia, UTET, Torino, 1964, pp. 886-887.

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relativi a specifici momenti storici o in rapporto sfuggente con valori assoluti. La storia, secondo questo filosofo, sarebbe il luogo della lotta tra diversi valori che si offrono alle scelte dell’uomo. In Dewey è rintracciabile il riferimento alla molteplicità dei valori e alla conseguente, ineludibile, importanza della scelta. Egli definì la filosofia come ‘critica dei valori’ e sostenne che «La confusione che tutte le teorie del valore hanno fatto tra una determinata posizione nel rapporto causale o successivo e il valore vero e proprio, è una indiretta testimonianza del fatto che ogni valutazione intelligente è anche critica, cioè giudizio, della cosa che ha valore immediato. Ogni teoria del valore è necessariamente un ingresso nel campo della critica». La critica dei valori, tuttavia, in questo senso, altro non è se non la disciplina intelligente delle scelte dell’uomo ed implica, innanzitutto, la valutazione del rapporto esistente tra mezzi e fini: non è possibile giudicare i fini senza valutare, nel contempo, i mezzi necessari per conseguirli. La connessione tra valore e situazione è stata indagata da R. Frondizi anche per validare efficacemente la critica dei valori. In questa visione si sostiene che se i valori non possono essere esclusivamente derivati da elementi di fatto, tuttavia non si può prescindere da una loro connessione con la realtà. Chi assumesse questa separazione si troverebbe a giudicare «sul piano disincarnato delle essenze». N. Abbagnano, anche sulla scorta dell’insieme delle posizioni ora richiamate, sul valore propone la seguente sintesi: 1° – «Il valore non è semplicemente la preferenza o l’oggetto della preferenza stessa, ma è piuttosto il preferibile, il desiderabile, l’oggetto di una anticipazione o di una attesa normativa […]. 2° – Dall’altro lato esso non è un mero ideale da cui le preferenze o le scelte effettive possano completamente o quasi completamente prescindere, ma è piuttosto la guida o la norma (non sempre seguita) delle scelte stesse e in ogni caso il loro criterio di giudizio. 3° – Conseguentemente la migliore definizione di esso è quella che lo considera come una possibilità di scelta cioè come una disciplina intelligente delle scelte, che può condurre ad eliminarne alcune o a dichiararle irrazionali o dannose, e può condurre (e conduce) a privilegiarne altre, prescrivendone la ripetizione ogni volta che certe condizioni si verifichino. In altri termini, una teoria del valore, come critica dei valori, tende a determinare le autentiche possibilità di scelta cioè quelle scelte che, potendosi sempre ripresentare come possibili nelle stesse circostanze, costituiscono la pretesa del valore alla universalità e alla permanenza»10. L’esame delle diverse posizioni filosofiche ora considerate evidenzia, a un tempo, la difficoltà e l’esigenza di definire un campo certo dei valori. 10

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Ivi, p. 887.


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Difficoltà poiché è indubbio che vari fattori, nel tempo e nello spazio, abbiano contribuito a definire diversi paradigmi valoriali e, per questa ragione, è fuori discussione una relativizzazione più o meno ampia di diversi valori. Nel medesimo tempo proprio gli accadimenti storici, la dimensione fattuale dell’esistenza con il suo carico di tragedie, di sofferenze, di difficoltà, le più diverse negli umani rapporti, reclamano un comune riconoscimento dei fini ai quali mirare e dei mezzi adatti al raggiungimento di tali fini. In nome di che cosa l’uomo potrà riappacificarsi con se stesso e con i suoi simili, come riuscire a realizzare un mondo di pace nel quale prenda corpo l’utopia di una terra di nessuno e dei suoi frutti per tutti? Come, ancora, riuscire a realizzare la dimensione di tutta la felicità possibile per ciascuno, alla quale ogni essere umano aspira? Come livellare le differenze e le fatiche di vivere che la impediscono? Guidati da che, incanalati da quali scelte? Sono domande al di fuori di ogni retorica che non meritano risposte filosofiche formali, arzigogoli del pensiero11. Sono problemi che ineriscono al senso profondo dell’esistenza, alla sua qualità. E si tratta dell’esistenza di uomini fatti di carne e spirito (o dimensione intellettiva ed affettiva per chi non crede nello spirito), che da sempre hanno sperato, sognato, desiderato, ma che più spesso hanno sofferto. È a questa esistenza concreta che occorre fornire risposte valoriali forti e che gli uomini, tutti gli uomini, possano condividere. Credo che in questo, nella possibile condivisione, risieda uno dei caratteri principali del solo assoluto valoriale possibile, probabilmente il suo carattere fondamentale. È così difficile individuare un luogo comune nel quale incontrarsi, una costellazione di valori nei quali stabilmente ed universalmente potersi riconoscere? Con ogni probabilità continuerà ad essere impossibile se la logica che ci guiderà sarà quella di sempre, ovvero quella che fatica a guardare agli altri senza pregiudizi, quella che misura l’altrui punto di vista solo a partire dal proprio. Sarà sicuramente difficile uscire da quegli steccati che nel tempo abbiamo costruito ma impossibile non è. Ciò che occorre è il superamento delle caratteristiche storico-culturali che ci dividono. Meglio ancora, occorre comprendere che tali caratteristiche sono un prodotto umano e, in quanto tali, non possono pretendere di essere pensate come le migliori per sempre – anche del loro farsi temporale, sovente, non abbiamo chiara percezione – e per tutti. Non esiste e non è mai esistita una cultura, in assoluto, migliore delle altre. Esistono culture differenti frutto di luoghi diversi, delle tante possibilità incrociate dagli uomini, di un insieme lato di fattori e dello stesso caso. Tutte però sono 11 Con la definizione di ‘arzigogoli filosofici’ non mi riferisco alle riflessioni qui ricordate di storicisti e pragmatisti ma ai dibattiti centrati su apriorismi di diversa natura e cultura che si dimostrano sterili e che contribuiscono alla divisione tra gli uomini.

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un nostro prodotto, è bene ribadirlo, quindi modificabili e da rendere capaci di confronti e di incontri. Se è vero che le gabbie storico-culturali hanno in generale condizionato, relativizzandolo, il campo dei valori, è altrettanto vero che è possibile uscirne, che è anzi necessario farlo in risposta all’umano disagio cui s’è fatto cenno. E oggi, volendolo, è più facile poiché il mondo nel quale viviamo è assai più piccolo che in passato. Sono più facili gli spostamenti, anche quelli, ormai innumerevoli, dei migranti che fuggono dalle loro terre per tentare migliori opportunità di esistenza12. Le distanze sono ancora ridotte, potremo dire pressoché annullate, dalla comunicazione elettronica, comunicazione che mette altresì in contatto culture differenti. E anche se a quest’ultimo riguardo, purtroppo, occorre registrare che tale contatto è spesso di vera e propria invasione culturale e di manipolazione, come direbbe Paulo Freire13, al di là di un tale rilievo ciò che conta sottolineare è che, come uomini, siamo oggi assai più prossimi che in passato e che il confronto tra culture è possibile come mai lo è stato in precedenza. Alcuni valori per tutti Riuscire a delineare una lista più o meno completa dei valori ai quali gli uomini hanno ispirato ed ispirano i propri comportamenti è cosa assai ardua, così come tratteggiarne una tassonomia adeguata e condivisa. Quanti sono, ad esempio, i valori riconducibili al campo dell’etica? E cosa consideriamo moralmente prioritario oggi rispetto al passato in un dato luogo del mondo? Credo che, a questo riguardo ed in questa sede, sia sufficiente elencare i grandi quadri valoriali tentando successivamente di individuarne qualcuno, nello specifico l’uguaglianza e i suoi corollari, con possibilità di riconoscimento universale. Oltre al campo dell’etica, quindi, possiamo accennare a quelli dell’estetica, della religione, all’insieme dei valori democratici e civici, osservando che se li si incrocia se ne ottengono, per così dire, delle sovrapposizioni (il valore etico dell’onestà, ad esempio, può coincidere con il ‘non rubare’ di ispirazione religiosa o civica) dovute all’amalgama culturale che contribuisce a definire i diversi 12 Costoro sono stati individuati da Z. Bauman come il popolo dei vagabondi, contrapposto a quello dei turisti. Turisti o vagabondi, sono ormai milioni gli individui che ogni anno si spostano tra le diverse contrade del mondo. Di Bauman si veda, al riguardo, il bel Dentro la globalizzazione, Laterza, Roma-Bari, 1999, p. 99. Sui medesimi argomenti, assai interessante è il volume di S. GANDOLFI, Educazione e conflitti sociali, La Scuola, Brescia, 2002. Per l’argomento in questione ci si riferisca alle pp. 19-20. 13 Del grande pedagogista brasiliano, si veda, al riguardo, La pedagogia degli oppressi, Mondadori, Milano, 1980, pp. 180 ss.

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valori. Ciò che conta, tuttavia, anche in risposta ad alcuni dei problemi ricordati in apertura, è il tentativo di verificare sia la possibilità di definire fini comuni che sappiano trascendere le tante differenze umane, sia se tali fini siano efficacemente trasmissibili. Un grande valore avvertito da ognuno, e sempre come un bisogno fondamentale da soddisfare, è sicuramente quello dell’uguaglianza. Alla sua definizione concorrono altri valori secondo una trama che potremmo definire di multiunivoco intreccio, nel senso che, posta al centro l’uguaglianza, essa viene caratterizzata da qualità le quali, a loro volta, secondo differenti prospettive, possono risultare il fuoco di un’altra costellazione valoriale14. Tornando all’uguaglianza constatiamo che viene sostanziata dalla pari dignità, dalla reciprocità, dal rispetto, dalla condivisione, dalla giustizia15, dalla libertà. L’essere considerati uguali significa infatti veder riconosciuta, alla pari con tutti gli altri, la propria dignità, non essere discriminati per una qualche caratteristica – fisica o psichica, religiosa, di adesione ad una certa ideologia politica, linguistica, etnica, di genere, di nascita – che può distinguerci da coloro in mezzo ai quali viviamo. La dignità che ci riguarda è data da un solo elemento, che nessuna differenza può scalfire, quello del rappresentare degli esseri umani con medesimi bisogni da soddisfare. Siamo uguali, tutti uguali, di un’uguaglianza che trascende ogni differenza – salvo quella delle caratteristiche individuali di ognuno – e non bastano le differenze che abbiamo prima richiamato e tutte le altre che si possono elencare per intaccare la fondamentale uguaglianza di tutti. Queste differenze, semmai, rappresentano modi diversi di declinarla, dei suoi abbellimenti. Non è possibile mettere in discussione questo dato di fatto, questa nostra radice comune, se non attraverso apriorismi forzati. Ai contesti sociali che si richiamano al cristianesimo conviene ancora ricordare che, in proposito, la pari dignità alla quale fare 14 Ciò vale per tutti i valori, i quali possono essere intesi come cerchi i cui centri sono i valori stessi presi in considerazione – non solo teoricamente parlando, poiché un valore richiede soprattutto di essere vissuto – e le cui circonferenze risultano definite da un insieme di altri valori i quali, a loro volta, possono trasformarsi in altri centri di analoghe costellazioni valoriali. 15 N. Bobbio, discutendo di uguaglianza, libertà e giustizia, ha sostenuto che uguaglianza e giustizia finiscono pressoché per coincidere. Egli definisce la giustizia, come già fece Aristotele, in termini di bene sociale per eccellenza. Non sono d’accordo con lui quando, nelle stesse pagine, argomenta che l’uguaglianza non sarebbe in sé un valore ma soltanto una condizione necessaria ma non sufficiente «di quell’armonia del tutto, di quell’ordine delle parti, di quell’equilibrio interno di un sistema, che merita il nome di giusto». Risulta infatti evidente che quanto maggiore risulta il livello di uguaglianza in un dato contesto, tanto maggiore sarà, di conseguenza, quello della giustizia. Al riguardo si vedano di N. BOBBIO, Eguaglianza e libertà, Einaudi, Torino, 1995, p. 8 e di O. AZZOLINI, Egalité. Pensare apprendere, vivere l’uguaglianza, Il Segnalibro, Torino, 2005, p. 83.

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riferimento è quella definita dall’essere tutti figli di Dio, fratelli, quindi, e non solo in spirito. L’accenno mi pare quanto mai opportuno poiché talvolta sono anche le nazioni dell’occidente cristiano(?)16 a faticare non poco nel riconoscere questa pari dignità. Per i cristiani, il credere fortemente nell’uguaglianza ed il perseguirla caparbiamente, non costituisce una possibilità ma un comandamento. Evidentemente inclusa nell’idea di pari dignità, è quella di reciprocità e, ancora, quella di rispetto. In particolare è da osservare come il rispetto sia stato motivo di riflessione fin dall’antichità. Platone, ad esempio, ragionando sull’origine della società umana mette in bocca a Protagora le seguenti parole: «Zeus, temendo che l’intera nostra stirpe si estinguesse, mandò Ermes a portare tra gli uomini il rispetto reciproco e la giustizia affinché fossero principi ordinatori delle città e creassero tra i cittadini vincoli di benevolenza»17. E Nicola Abbagnano ci ricorda come per rispetto si debba intendere «l’impegno a riconoscere negli altri uomini, o in se stesso, una dignità che si è in obbligo di salvaguardare»18. L’uguaglianza è anche condivisione, ovvero il comportamento che induce a dividere con altri dei beni, e non solo quelli materiali. È un comportamento che più facilmente sappiamo esibire se gli altri in questione rappresentano un prossimo a noi vicino: figli o genitori, amici, talvolta colleghi di lavoro o vicini di casa. Le cose si complicano se gli altri non rappresentano questo prossimo diretto. E se è comprensibile che chi direttamente conosciamo sappia maggiormente accendere la nostra empatia, non per questo possiamo sentirci giustificati dal trascurare, anche su questo piano, coloro che da noi sono, per diverse ragioni, più o meno lontani. Si tratta, tra l’altro, di un sentire che se vogliamo si può facilmente superare. Quello contemporaneo, vi si è già accennato, è infatti un mondo nel quale facilmente possiamo conoscere molte cose anche di chi vive lontano dalle nostre città e dalle nostre nazioni. Non solo possiamo leggerne sui giornali poiché sono le immagini che ce ne parlano, oggi, anzi, sono soprattutto le immagini che ci dicono di ingiustizie, bisogni, gioie e patimenti, disgrazie e cataclismi interessanti tutti i luoghi della terra. Quante volte proprio queste immagini reclamano la nostra condivisione poiché mettono a nudo fatiche di vivere che riconosciamo simili 16 Cercando di scrivere questo passaggio mi rendo conto di quanto sia improprio parlare di occidente cristiano individuando con tale espressione delle nazioni del Nord del mondo con un grande carico di colpe per le diseguaglianze contemporanee e passate imposte a miliardi di esseri umani. E che dire di quelle forze politico-culturali che utilizzano il richiamo al cristianesimo per discriminare tanta parte dei poveri del mondo, il più delle volte da noi resi poveri, che premono ai nostri confini nella speranza di sfuggire alla fame, alle guerre, ad altre discriminazioni? 17 Protagora, 322c. Cit. in N. ABBAGNANO, op. cit., p. 736. 18 Ivi, p. 737.

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alle nostre. Ho scritto queste pagine all’indomani del terribile terremoto che ha colpito Haiti e che, immediatamente, ha richiamato in noi italiani la recente analoga tragedia abruzzese. Il parallelo tra due vicende come queste chiaramente sottolinea l’uguaglianza che, nei fatti, ci caratterizza, e dovrebbe aiutarci altresì a comprendere che essa è un dato permanente della nostra connotazione umana, anche in assenza di fatti che evidenziano che si muore allo stesso modo sotto analoghe macerie, che si piange con le stesse lacrime per medesimi dolori. Per quel che concerne il rapporto intercorrente tra uguaglianza e giustizia c’è chi sostiene che si tratta di entità valoriali sovrapponibili19 poiché è impossibile pensare l’una senza includere l’altra e viceversa: solo una società di eguali è una società giusta, solo una società giusta considera tutti uguali. Se consideriamo la giustizia nel suo orizzonte giuridico dobbiamo dire che l’uguaglianza di fronte alla legge è l’aspetto egualitario che gli uomini hanno storicamente conquistato per primo. In precedenza la giustizia non ha avuto che scarsi contatti con l’uguaglianza. Platone, ad esempio, considerava giusta una società di diseguali. Nella sua visione dello Stato, ad ognuno, per nascita, competeva uno specifico ruolo al quale era bene rimanesse per sempre ancorato. La sua nota metafora «prevedeva umani contesti all’interno dei quali le gerarchie da rispettarsi erano costituite da uomini nati impastati di polvere di bronzo, altri con polvere d’argento, ed infine coloro che il caso aveva voluto plasmati con polvere d’oro. L’idea che guidava una tale visione era quella di un ordine – ciò che è ordinato è di per sé anche giusto –, idea che ha attraversato i secoli giungendo a legittimare le più grandi disuguaglianze»20. Dopo Platone, molto a lungo la giustizia ha coinciso con il privilegio dei potenti di tutte le epoche rimanendo lontana da ogni criterio di uguaglianza21. L’uguaglianza di fronte alla legge è stata una conquista della rivoluzione francese. Il significato che in questa sede si intende attribuire al concetto di giustizia è tuttavia assai più lato delle sue valenze giuridiche. Esso include l’idea che si debba pensare e vivere con giustizia in tutti gli ambiti delle umane relazioni: nelle famiglie, tra amici, negli ambienti di lavoro, nel confronto tra i più diversi contesti sociali. L’uguaglianza ha evidentemente stretti legami anche con la libertà22, con una libertà i cui significati sono almeno tre: come autodetermina19

Si veda la nota 14. O. AZZOLINI, op. cit., p. 82. Questa idea di giustizia è quella che hanno sempre addotto tutte le dittature per giustificare la loro istaurazione. 21 Ibidem. 22 L’evidenza è individuabile nella constatazione che la privazione o la limitazione della libertà ha come conseguenza la nostra dipendenza più o meno stretta dalla volontà di qualcun altro il quale, per ciò stesso, ci considera e tratta da una posizione di superiorità. Solo uomini liberi possono ambire ad essere uomini uguali. 20

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zione, ovvero come assenza di costrizioni sia a livello individuale, sia in riferimento a delle totalità – lo Stato, ad esempio –; come possibilità di scelta23. La libertà, come possibilità di scelta, deve fare i conti con i condizionamenti che forzatamente ci caratterizzano, con il nostro percorso storico-culturale, come individui e come collettività. Per essere liberi di scegliere occorre infatti saper discernere con sufficiente indipendenza di giudizio, ma tale giudizio non può essere avulso da ciò che abbiamo vissuto, appreso, condiviso. Questi ed altri sono i condizionamenti che vincolano la libertà, concepirla in sé coincide con l’essere preda di illusioni o cedere a luoghi comuni. Pur con questi limiti, v’è da dire che senza libertà la vita può risultare insopportabile e l’aspirazione all’uguaglianza una meta assai lontana. Abbiamo accennato ad alcune qualificazioni valoriali dell’uguaglianza ma resta da considerarla ancora dal punto di vista delle opportunità e come uguaglianza ‘di fatto’. L’uguaglianza delle opportunità è un principio che si è affermato nelle società come le nostre, nelle quali i rapporti umani sono regolati da una competizione sociale concepita come criterio indiscutibile ed è condizionata dalla quantità di beni disponibili, beni non sufficienti per tutti. Sul piano teorico, quando un tale principio risulti praticabile, si dovrebbe assistere ad un livellamento, in partenza, per tutti coloro che tale competizione debbono affrontare. Si tratta, in sostanza, di un principio che viene codificato in conseguenza di un compromesso tra chi rappresenta le tante anime delle società, laddove si sia affermata la democrazia sociale. La nostra Costituzione, ad esempio, prevede che tutti coloro che risultino meritevoli, ma privi di mezzi, possano accedere ai vari gradi degli studi contando sull’elargizione quasi di beneficenze. Si tratta quindi di una deminutio dell’uguaglianza sostanziale, di una sua inadeguata compensazione24. A proposito dell’uguaglianza di fatto, per individuarne i contorni Bobbio propone una serie di precisazioni su cosa si debba intendere per bisogni da soddisfare, sui criteri per definirli e sui modi di tale soddisfazione. Senza dubbio si può e deve convenire con lui su questa esigenza poiché è necessario poter definire la giustezza, ai fini dell’uguaglianza, del campo dei bisogni, compresi quelli spirituali e culturali. Dopo ciò, non si può che convenire con chi, per uguaglianza di fatto, ha inteso sostanzialmente riferirsi a quella economica. È infatti un dato storico – e non filosofico – che la più importante causa di disuguaglianza nel soddisfacimento dei fondamentali bisogni degli esseri umani, sempre e ovunque, sia stata quella riconducibile agli scarti economici che li dividono. È a Marx che Bobbio si rifà, alla formula «a ciascuno secondo i suoi bisogni», formula 23 24

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O. AZZOLINI, op. cit., p. 69. Ivi, p. 66.


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difficile da respingere anche da parte di chi, pur condividendo l’ideale di una indiscutibile uguaglianza di tutti gli uomini, avversa il marxismo e il socialismo non marxista che l’ha fatta propria25. Ma a quali bisogni è necessario dar risposta per sostanziare un’uguaglianza di fatto? In primo luogo, fondamentalmente, a quelli materiali. Solo se a tutti sono accessibili il cibo necessario, abitazioni decorose, abiti con i quali coprirsi, la possibilità di cure adeguate in presenza di malattie, si realizza infatti il principio basilare di uguaglianza. È dal soddisfacimento di tutto ciò «che si può partire per dar risposta ad altri livelli di quest’ultima, ovvero alle esigenze di formazione, comunicazione, e a tutte le altre di carattere culturalespirituale. La storia di ogni essere umano, da questo riguardo, è simile a quella dell’affermazione economica delle classi sociali o a quanto è accaduto nei più vasti contesti umani ispiratisi a conquistati principi di equità: si è potuto investire, ad esempio, in formazione e cultura solo quando si è riusciti ad accantonare un surplus spendibile in tali direzioni»26. Altri valori per tutti Oltre l’uguaglianza che abbiamo considerato in alcune sue declinazioni, credo sia ora opportuno riflettere brevemente su alcuni valori dei quali ogni epoca ha evidenziato il bisogno e che potrebbero rivelarsi una profonda, significativa, risolutiva rivoluzione positiva per gli esseri umani e per i loro rapporti. Mi riferisco ad alcuni valori la cui dimensione universale è evidente e facilmente comprensibile ovvero 1) all’agire dialogico; 2) all’accoglienza; 3) all’amore e alla capacità di perdono. La scelta è altresì dovuta alla prossimità di questi valori con le prospettive di una educazione umanizzante. 1) Il valore dell’azione dialogica27, tipica di ogni realtà egualitaria, deve la sua universalità alla constatazione che, purtroppo, ovunque nel mondo e lungo tutto l’arco storico, sono state presenti forme di oppressione che mortificano la dignità degli esseri umani. Questa oppressione, per dirla con Paulo Freire, è 25

Si veda, al riguardo G.M. BRAVO, a cura di, Il socialismo prima di Marx, Editori Riuniti, Roma, 1966. 26 O. AZZOLINI, op. cit., pp. 67-68. 27 Ci si rifà alle concezioni di Paulo Freire, indimenticabile pedagogista, intellettuale democratico, cristiano autentico, frutto della sua esistenza e della sua riflessione, messaggio il cui valore e la cui attualità sono indiscutibili per chi abbia a cuore le sorti di una umana convivenza valorizzante ogni essere umano, convivenza sempre ostacolata da tutti coloro che da oppressori mortificano l’essere umano nei suoi vari rapporti. Di Freire, al riguardo, si veda La pedagogia degli oppressi, Mondadori, Milano, 1971, cap. 4°.

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la diretta conseguenza dell’agire antidialogico che caratterizza i comportamenti di chi, nelle diverse sfere dei rapporti umani, tende a dominare gli altri in soddisfazione di una qualche forma d’esercizio e di mantenimento di un potere che non ha giustificazioni. La condizione di chi subisce un tale stato di cose rappresenta una sorta di denominatore comune dell’umano sentire quando si patisce questa prevaricazione. Da qui discende anche l’universalità dell’azione dialogica, comportamento opposto a quello dell’oppressione, di un’azione che è liberatoria e che si determina quando si sa cogliere la pari dignità di ogni singolo essere umano con i suoi simili. L’ultimo degli uomini, se mai fosse possibile considerare ultimo qualcuno, per chi sa agire dialogicamente rivestirebbe in sé lo stesso valore dei più potenti della terra. Queste le caratteristiche dell’azione dialogica: la capacità di collaborare, quella di unire in vista di una comune liberazione da ogni dominio, il saper organizzare le masse popolari con la prospettiva della loro liberazione, il perseguire delle sintesi culturali (mentre gli oppressori di ogni tempo hanno insistito per l’invasione culturale ovvero per l’imposizione di culture capaci di mantenere l’azione di dominio). Al suo opposto, antidialogiche sono la conquista, il dividere per dominare, la manipolazione e l’invasione culturale. In riferimento a queste caratteristiche dei comportamenti oppressivi, come non rilevare la loro prepotente azione e diffusione nel nostro tempo? Dall’antidialogo autoritario delle dittature che ancora mortificano centinaia di milioni di nostri simili, a quello più subdolo di chi utilizza strumenti di persuasione non cruenti ma che manipolano le coscienze, invadendole con la loro visione culturale (i media elettronici, ad esempio). Dalle prevaricazioni esercitate in famiglia da mariti-padri autoritari, a quelle delle tante forme di ricatto esercitate nei più disparati contesti sociali (una delle più ricorrenti è individuabile nella trasformazione dei cittadini in clienti e, conseguentemente, dei diritti in elargizioni). Chi sa agire riconoscendo nell’altro un se stesso, invece, cerca il confronto leale, lo scambio dialogico autentico «che non impone, non manovra, non addomestica, non fa slogan»28. Quello dell’accoglienza è un altro valore che tutti possono comprendere e condividere poiché ognuno di noi patisce per il respingimento e, al contrario, gioisce nel sentirsi accettato. Chi non ha mai provato il peso di un qualche rifiuto o di una qualche marginalizzazione del proprio punto di vista, del ruolo P. FREIRE, op. cit., p. 204.


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sociale rivestito, della cultura e delle scelte di cui si è portatori, persino, talvolta, dell’aspetto fisico o dell’età che ci caratterizzano (si pensi alla scarsa considerazione nella quale sovente vengono tenuti bambini, anziani, disabili o persone di etnia o nazionalità diversa29). L’urgenza di un saper accogliere mi pare molto ben evidenziata dal prodursi di tanti comportamenti a questo riguardo quantomeno inadeguati e dal contemporaneo prodursi di una mobilità umana come mai era accaduto in passato. Quello dell’accoglienza è un dovere che trova il suo fondamento nelle autentiche radici cristiane delle nostre culture e non solo in queste. Vi abbiamo già accennato (si veda quanto richiamato nella nota n. 7) ma è il caso di ribadirlo, è un dovere che dovrebbero avvertire tutti ed in particolare noi italiani che con i nostri poveri migranti – di tutte le regioni – abbiamo popolato il mondo30. Se ci riferiamo poi alle realtà umane più circoscritte e più prossime è possibile cogliere le positive conseguenze educative dell’accoglienza: genitori accoglienti favoriranno una formazione più equilibrata dei propri figli e non solo nella dimensione affettiva; insegnanti ed educatori accoglienti, aumentando il grado di fiducia nei propri simili da parte di coloro che si vedranno affidati, potranno rappresentare dei punti importanti di riferimento affiancando la famiglia nell’aiutare la formazione di personalità mature ed autonome; quartieri accoglienti nelle nostre città, non solo potranno favorire una reciproca integrazione con i nuovi concittadini (conoscersi vicendevolmente significa anche dilatare gli spazi culturali, comparare quanto si è e ciò che si sa con il portato degli altri, significa arricchirsi complessivamente), ma anche compensare in qualche modo nostalgia e rimpianti di chi ha dovuto abbandonare le proprie contrade. La capacità d’amare e quella di perdonare, intese nei loro più vasti significati, sono probabilmente uno dei lasciti maggiori della rivoluzione cristiana ed hanno, nel contempo, valenza universale per ragioni analoghe a quelle ricordate per l’accoglienza e per l’azione dialogica. Nel caso dell’amore, soprat-

29 Per quanto riguarda queste ultime categorie di soggetti, come non rilevare, ad esempio, la consuetudine diffusa ed odiosa di rivolgersi a loro con il ‘tu’, si tratti di bambini o di adulti. Non ci comporteremmo in questo modo accogliendo altri soggetti con i quali non si condividano forme di conoscenza o di intimità. 30 La maggioranza della popolazione dell’Argentina, ad esempio, è costituita da discendenti delle nostre correnti migratorie. Milioni sono ancora le analoghe presenze riconducibili a quei flussi in molti Paesi europei, in Australia, Brasile, Nord America.

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tutto nelle relazioni interpersonali più dirette, l’importanza della sua carenza o della sua presenza, prima ancora di essere compresa dall’intelligenza, è avvertita dal profondo del nostro essere con una immediatezza ed una chiarezza che accomunano tutti gli esseri umani fin dal ventre materno e dai primissimi mesi di vita. L’essere accolti con amore ha effetti positivi di grande significato per lo sviluppo psico-fisico di ogni bambino. Il poter contare su persone che ci amano qualifica al meglio le nostre esistenze in ogni fase della vita e in ogni circostanza. Al contrario, carenza o assenza d’amore determinano sofferenze che interessano tutti gli aspetti del nostro essere e, ribadiamolo, agiscono in ogni uomo allo stesso modo, esprimendo un bisogno profondo che tutti accomuna: come il nostro corpo ha bisogno di cibo, il nostro spirito, la nostra affettività, hanno bisogno di amore. Senza amore o, anzi, in sua carenza, il cibo e ogni altra cura possono non bastare alla stessa sopravvivenza o a vivere pienamente. Conviene ancora sottolineare che l’amore si esprime con una lingua la cui universalità è senza pari: anche se nelle diverse culture lo si può manifestare in modi differenti, si tratta di un linguaggio che non ha bisogno di traduttori. Si potrebbe obiettare che l’amore è un sentimento più che un valore e proprio la nostra peculiare sensibilità – quasi visceralità – nel percepirlo sembrerebbe confermarlo. Così non è poiché, superata l’infanzia, l’essere capaci d’amare richiede l’intervento della volontà, molto spesso anche nel rapporto con chi più ci dovrebbe essere caro. Ciò che qualifica al meglio ogni relazione d’amore è infatti il disinteresse e non sempre è facile superare i nostri egoismi. Talvolta, ancora, amare significa essere in grado di esprimere trasporti non facili. Si pensi, ad esempio, alla relazione genitori-figli quando si ha a che fare con degli adolescenti particolarmente difficili o quando i nostri interlocutori ci ricambiano con sufficienza, disprezzo o odio. L’amore, in questi casi, può diventare una virtù eroica o quasi. Le estensioni dell’amore, come qui lo si intende, vanno tuttavia bel oltre i nostri rapporti con chi ci è più vicino. L’amore è infatti anche pietas e caritas, assai più vaste, che anzi, tutti devono coinvolgere, compreso il prossimo più lontano. Un amore così inteso trascende il sentire cristiano31 anche se il cristianesimo su un 31 La storia intera, vivaddio, è costellata di esempi luminosi della capacità di amare anche nelle situazioni più drammatiche da parte di uomini che pietas e caritas hanno saputo vivere senza essere cristiani. Si pensi agli atti di grande altruismo manifestatisi all’interno dell’universo concentrazionario nazista durante la seconda guerra mondiale e che hanno avuto per protagonisti non credenti o atei dichiarati.

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tale sentire pone le sue fondamenta più sicure e profonde. È nei confronti con i più lontani che l’amore si pone indiscutibilmente come valore poiché manifesta con chiarezza le sue caratteristiche di scelta: posso soltanto scegliere di amare chi non ho mai incontrato e mai incontrerò anche se sono a conoscenza della sua esistenza. Nel caso della visione cristiana, poi, questa scelta risulta ancora maggiormente evidente, faticosa ed ineludibile in quanto tale, poiché il comandamento prescrive di amare i propri nemici e chi ci vuol male. Questo è l’amore che più vale, una delle peculiarità che fa del cristianesimo una rivoluzione impegnativa con buona pace di Nietszche e dei suoi epigoni. È un valore che dissolve ogni improprio relativismo ascrivibile ai tempi ed agli spazi diversi, che supera ogni ostacolo culturale. Se seguiamo quel comandamento nell’incontro con gli altri, con tutti gli altri, vedremo in loro dei fratelli, nulla di meno, e non ci disturberanno le loro differenze. Proprio l’amore disinteressato sovente sa esprimersi attraverso quell’altra possibile scelta rappresentata dalla capacità di perdonare. Credo anzi che si possa parlare di perdono autentico soltanto in presenza di comportamenti influenzati da una qualche forma di amore. Come il saper amare, anche il saper perdonare richiede sempre un saper andare oltre se stessi. Il più delle volte non è infatti facile superare le offese ricevute, anche a distanza di molto tempo. Lungo l’intero arco dell’esistenza possono riaffiorare tracce più o meno significative di antichi torti subiti, in particolare quando si sia trattato di umiliazioni. Comprendiamo il valore del perdono e la sua dimensione universale ancora una volta riferendoci a noi stessi, a ciò che proviamo quando siamo perdonati. Anche se vi sono state culture che hanno inteso come debolezza non accettabile il perdono, anche se siamo consapevoli della difficoltà con la quale si perdona, non può sfuggirci il senso di liberazione che si prova ad essere perdonati. Il perdono è ancora a fondamento del cristianesimo: il «perdonate i vostri nemici e pregate per loro» è un altro dei cardini della sua visione degli umani rapporti, ribadito nella preghiera insegnata dal Cristo «rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori». È questo un comandamento che i cristiani, storicamente, hanno poco praticato se si pensa ai tanti conflitti che li hanno divisi e visti impegnati tradendo l’insegnamento evangelico. Il nostro tempo ha un profondo bisogno di perdono, di vivere ed insegnare questa capacità di superare i più diversi contrasti, di questa uscita di sicurezza che porta alle tante conciliazioni

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che ci necessitano. Ogni epoca ne ha avuto bisogno ma noi viviamo questo tempo: è adesso che dobbiamo saper perdonare nelle relazioni interpersonali che ci riguardano così come nei più vasti orizzonti che ci vedono impegnati come comunità, come nazioni. A fronte del pericolo delle guerre attuali, vi è da dire che nessuna epoca come la nostra ha saputo produrre strumenti tanto potenti di distruzione. E non bastano accordi tra Stati o aree del mondo con comuni interessi a garantire la pace poiché, come ci insegna il passato, gli interessi possono mutare e l’amico di oggi può trasformarsi in un futuro nemico. Occorre garantirla con altro la pace, con il riconoscimento della comune umanità anche attraverso la capacità di saper superare torti eventualmente subiti. Di amore e di perdono ha bisogno, profondo bisogno, ognuno di noi e l’intera umanità. Vivere queste dimensioni arricchisce l’esistenza, ne rivela anzi il suo unico autentico significato. Siamo esseri di desiderio, sosteneva F. Dolto, che ambiscono alla maggiore felicità possibile nelle occasioni di vita che ci sono date. Sicuramente l’aspirazione a questa meta è favorita dai valori che abbiamo ricordato. Educare ai valori Rispetto al quadro di valori positivi cui s’è accennato e a tutti quelli trascurati ma che umanizzano le nostre esistenze, rendendole degne d’essere vissute, per famiglie, scuola, associazionismo, istituzioni culturali e religiose, media, si apre un orizzonte di impegno che in molti casi ha indubbiamente bisogno di riprendere vigore. È al mondo adulto nel suo insieme che compete la responsabilità di trasmettere orizzonti di senso positivi alle nuove generazioni smascherando i falsi valori e dissolvendo la nebbia delle ipocrisie che circonda quelli autentici. È una responsabilità ineludibile, un compito al quale le generazioni adulte non possono sottrarsi poiché in gioco c’è il futuro di quelle esistenze che si affacciano alla vita o che ne hanno percorso un breve tratto. Chi nasce reca con sé un fascio di possibilità, è aperto a tutto ciò che verrà, non è buono o cattivo ma si orienterà a seconda dei sentieri che troverà tracciati. Ciò che potrà scegliere, poi, non condizionerà soltanto la sua esistenza ma, in solido, la sua con quella di chi incontrerà e, in qualche modo, anche con quella di coloro che mai conoscerà. Se la responsabilità d’educazione è di tutti, è indubbio che alcune realtà ed istituzioni debbano maggiormente avvertirla poiché sono anche quelle che in grado più alto possono incidere sui nostri orientamenti: la

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famiglia, la scuola e l’insieme delle istituzioni formative. È al loro interno che riceviamo i nostri imprinting più significativi poiché sono i luoghi dove le relazioni, così prossime, possono rivelarsi determinanti per profondità ed efficacia32. Per ciò che riguarda le famiglie, v’è da dire che attualmente scontano un diffuso disagio a partire dalla loro costituzione. Sono infatti sempre più numerose le esperienze di separazione che tale disagio sottolineano. Altri fattori condizionano poi in negativo la vita familiare contemporanea, in primo luogo le incertezze del quadro economico di gran parte del mondo che generano disoccupazione, lavoro precario e mal retribuito, contribuendo sia a definire diffuse difficoltà per le famiglie già costituite, sia a renderne difficile la formazione di nuove. Per quanto attiene alla costituzione delle famiglie non si può non cogliere la frequente impreparazione dei giovani nell’affrontare la vita di coppia nella prospettiva di arricchirla con la presenza di figli. La costituzione delle famiglie deve infatti preoccuparci poiché soltanto soggetti adeguatamente maturi e sicuri negli affetti potranno vivere esperienze coniugali e genitoriali responsabili e felici. Il deficit formativo, al riguardo, è veramente notevole ed è disarmante come molti giovani individuino pressoché soltanto nella maturità biologica la ragione della procreazione mentre scontano all’avvio e nel prosieguo delle loro relazioni una diffusa diseducazione sentimentale. È indubbio che le famiglie fragili non si trovino nelle condizioni più favorevoli allo svolgimento di compiti educativi. Poco sopra si è fatto riferimento al fatto che ciò che siamo si riverbera, in positivo o in negativo, sul nostro prossimo, quello più vicino, innanzitutto, ma anche quello più lontano, poiché è all’interno dei vincoli esistenti tra gli individui costituenti via via famiglie, piccole e grandi comunità, nazioni, che si determinano le culture e le tante visioni politico-sociali. I diversi gradi di questa complessità sociale si influenzano circolarmente e quindi 32

Sui compiti educativi di famiglie e scuola, W. Brezinka suggerisce che: «…l’“educazione ai valori” contiene solo un accenno molto generale ai compiti educativi che la stessa prassi educativa deve determinare; i vettori educativi, genitori e stato, hanno compiti diversi; da un lato i genitori nella società liberale hanno un grande potere discrezionale nelle scelte individuali, dall’altra lo stato, con le scuole pubbliche, deve curarsi soprattutto di quegli atteggiamenti verso i valori che debbono essere comuni a tutti i cittadini, poiché da essi dipendono l’ordinata convivenza e il futuro della nazione. L’educazione ai valori statale, pertanto, attraverso gli insegnanti delle scuole pubbliche, deve essere soprattutto educazione a quei beni normativi di orientamento definiti come valori fondamentali. Poiché la scuola non è solamente azienda di servizi a favore degli interessi privati degli studenti per la formazione e la carriera ma deve allo stesso tempo servire agli interessi pubblici […] non può, rispetto ai valori fondamentali, essere neutrale, gli insegnanti devono farsi garanti di questi valori e gli studenti non solo devono conoscerli, ma anche imparare ad orientarsi su essi». O. GELMI, «Rivista di teologia morale», cit. alla nota 1.

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i mutamenti necessari al fine di cambiare in positivo i quadri valoriali che ci orientano sono mutamenti che dovrebbero riguardare i più vasti corpi sociali33. Questa realtà, tuttavia, non può giustificare che in parte per le responsabilità che ci competono come individui e come famiglie rispetto alle scelte che compiamo. E vi è anche da considerare che ogni cambiamento, ogni miglioramento, ha un qualche punto di partenza. Senza sottovalutare il peso delle influenze esercitate dalle istanze sociali maggiori su quelle minori, si può pensare che proprio la profondità dei vincoli e degli umani interessi esistenti in queste ultime riesca ad operare gli opportuni cambiamenti valoriali. Ben altre attenzioni meriterebbe la riflessione su questi problemi ma ciò ci distrarrebbe dall’obiettivo primario di queste pagine, per cui, al di là delle difficoltà accennate, vi è comunque da considerare che ogni nostra educazione, almeno per la maggior parte degli individui, inizia in famiglia. È questa una realtà relazionale all’interno della quale gli scambi avvengono ‘nell’impasto’ degli affetti e nel quadro di una reciproca conoscenza profonda come raramente si determina nell’insieme dei rapporti che incrociamo nel corso dell’esistenza. Questo patto così profondo rafforza le opportunità educative e, prima tra tutte le altre istanze formative, la famiglia può e deve orientare alla condivisione dei valori umanizzanti. Vi è tuttavia una condizione imprescindibile al fine di realizzare una corretta condivisione dei valori, una condizione che vale in tutti i luoghi d’educazione ovvero comprendere che esiste una dimensione pedagogica del vivere «nel senso che tutto, nel modo di organizzarsi e di muoversi di una società e innanzitutto della famiglia, ha un valore educativo. Non basta che i genitori si affannino a ricordare ai figli determinati valori di responsabilità, di sobrietà, di serietà, ecc., se nell’impianto quotidiano della vita familiare i messaggi di fatto sono diversi»34. I valori, infatti, si trasmettono attraverso quella efficacissima lingua che è il comportamento. Alla frequente tipica ridondanza comunicativa nella educazione ai valori occorre contrapporre l’unica comunicazione che ‘comunica’ valori, che educa ai 33 Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova, così si esprimeva all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2007 del Tribunale Ecclesiastico Regionale Ligure: «È necessario mettere in luce il fatto che ciò che è personale non è separabile dal sociale, cioè da una dimensione comunitaria. Dobbiamo far scoprire il “vincolo” come valore: i vincoli che derivano dai rapporti con gli altri e con il mondo. […] Essendo l’uomo “relazione” per natura, non solo si costruisce sempre con gli altri, ma ogni sua scelta non è mai totalmente privata perché ha comunque risvolti comunitari». Sempre nella medesima occasione egli aggiungeva che: «Sarebbe […] grave per una società preoccuparsi dell’educazione solo a livello di gruppi e momenti specifici, senza rivedere se stessa nel suo insieme…». L’intervento in questione, intitolato, Educazione e valori, è rintracciabile sul sito dell’Arcidiocesi di Genova – Tribunale ecclesiastico. www.diocesi.genova.it. 34 Ibidem.

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valori, ovvero un comportamento adeguato a ciò che si intende far passare: vivere da giusti per comunicare la giustizia; vivere pacificamente per comunicare spirito di pace; vivere rispettando gli altri per comunicare il senso del rispetto; ecc. Solo così un genitore si rende credibile, aggiungendo che una tale credibilità trova fondamento anche nella spontaneità, nella naturalezza degli atteggiamenti e delle parole che utilizza. Infatti diseducativo e suscitatore di resistenze è l’atteggiamento che si assume e le parole che si utilizzano quando si ‘vuole’ educare. Meglio tacere, meglio vivere ciò in cui si crede e così mostrarsi vivere. Di questo hanno bisogno bambini, giovani (e non solo), di vederli incarnati i valori umanizzanti. In questo modo, oltretutto, si favorisce un altro passaggio importante per l’acquisizione profonda di valori: l’esercizio del valore intravisto. Solo attraverso un tale esercizio infatti «il valore riconosciuto mette radici nelle profondità della persona e parla dentro di noi. […] Provando il valore se ne scopre la verità»35. Per quanto concerne l’educazione in famiglia occorre riflettere sul fatto che l’imprinting fa sì che bambini e ragazzi introiettino gli intravisti vissuti e, nel bene e nel male, gli insegnamenti ricevuti permangano in loro. È necessario quindi creare un clima adatto in famiglia in modo che chi è in formazione possa individuare punti di riferimento importanti centrati, essenzialmente, sull’esempio buono e sulla coerenza tra comunicazioni e comportamenti. Possiamo sintetizzare e concludere questo riferimento al ruolo educativo della famiglia dicendo che esso «è fondamentale e ciò che ha effetto positivo o negativo dipende dall’esempio, dall’organizzazione della vita, dalla cultura della famiglia e non esiste alcun sostituto extrafamiliare che abbia una simile efficacia. Per questo il più importante contributo di politica educativa consiste nel rafforzare le famiglie e nell’incoraggiare i genitori a fare ciò che solo loro sono in grado di fare per i propri figli invece di delegare gli educatori professionali»36. La scuola, a tutti i suoi livelli, è un’altra realtà formativa che non può esimersi dall’affrontare il problema dell’educazione ai valori: lo deve fare offrendo curricola dei valori adatti e comuni a tutti in quanto cittadini37. È essenziale puntare sulle capacità di rappresentare figure valoriali significative da parte dei docenti e su una relazione credibile di questi ultimi centrata su di un dialogo autentico con gli allievi. Pensato per un progetto di educazione per i ‘ragazzi difficili’, il contenuto del bel volume di Piero Bertolini e di Letizia Caronia38, ad esempio, 35

Ibidem. O. GELMI, op. cit. 37 Al riguardo, si veda il contenuto della nota n. 32. 38 P. BERTOLINI, L. CARONIA, Ragazzi difficili. Pedagogia interpretativa e linee di intervento, La Nuova Italia, Scandicci, 1993. 36

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può offrire numerosi spunti sia per la costruzione dei curricola cui si è fatto riferimento, sia per le strategie pedagogiche da utilizzare. L’universo d’umanità per il quale l’opera è stata pensata può essere dilatato e comprendervi anche coloro che ‘difficili’ non sono. Gli accenni che vengono fatti a strategie pedagogiche indirette costituiscono valide indicazioni per una seria educazione ai valori39: il costituire attorno ai ragazzi con i quali si opera ambienti dignitosi, la valorizzazione dei progressi compiuti, il curare con sensibilità ogni aspetto della relazione educativa, l’attenzione ai temi d’educazione (tra gli altri, l’educazione al bello), il perseguimento della costruzione di un ottimismo esistenziale. Anche Howard Gardner offre valide indicazioni intorno alla educazione al vero, al bello e al bene, tematiche impegnative e che, dal suo punto di vista, possono anche essere trasmesse attraverso i contenuti scolastici. In un’intervista comparsa sul web egli sostiene: «Quello che sto facendo è di scegliere cose alle quali i conservatori non potranno assolutamente opporsi: il vero, il bello, il bene. Quando parlo di verità, parlo di scienza, ma anche di conoscenze popolari; quando parlo di bellezza, parlo di arte, ma potrebbe essere anche la natura; quando parlo del bene e del male, parlo dell’etica. Il mio argomento tipo per trattare della verità è la teoria dell’evoluzione; quello per trattare della bellezza è la musica di Mozart, quello per trattare della moralità è l’Olocausto. Per entrare più in dettaglio: il mio esempio per l’evoluzione sono i fringuelli di Darwin; per la musica il trio nel matrimonio di figaro – il tredicesimo pezzo del primo atto; e per l’Olocausto la Conferenza di Wannsee, dove i nazisti decisero la Soluzione Finale. Queste tre cose – i fringuelli, il trio e la Conferenza di Wannsee – rispondono realmente alle domande alle quali sono interessati i bambini […]. Sono quelle che io chiamo punti d’accesso agli argomenti cruciali che permettono di pensare in termini scientifici, storici o estetici. Quello che io farei come insegnante sarebbe di spendere settimane, mesi, ed anche anni, per andare a fondo in queste cose così che le persone riescano a sviluppare quegli abiti mentali che permettono di ragionare sugli argomenti in modo scientifico, storico o estetico»40. Al di là delle tracce ora fornite, le indicazioni suggerite dagli autori ricordati, in particolare Bertolini e Caronia, sono utili per la messa a punto dei percorsi di formazione che ci interessano anche per le sottolineature circa la necessità di instaurare con i ragazzi un rapporto dialogico autentico. A questo riguardo occorre considerare quanto sia importante, per un docente, l’autorevolezza, dimensione il cui riconoscimento si ascri39

Ivi, pp. 122-132. Di H. Gardner si veda il recentissimo Sapere e comprendere. Discipline di studio e disciplina della mente, Feltrinelli, Milano, 2009. Il testo riportato è rintracciabile sul web digitando il seguente titolo: Il vero, il bello, il bene: le basi dell’educazione di tutti gli esseri umani. 40

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ve totalmente a come si viene percepiti dagli interlocutori e riconduce, particolarmente, alle qualità umane mostrate. È questa lo sfondo di ogni credibilità ed è fondata sulla dimensione valoriale degli individui. Non è un luogo comune l’affermare che una persona autorevole è una persona di valore. E solo insegnanti autorevoli possono favorire l’instaurazione del clima dialogico adatto. Vi è un’altra precondizione di rilievo che può contribuire alla costruzione dell’autorevolezza e dell’insieme delle caratteristiche umane e professionali di un insegnante: la passione per il proprio lavoro. Un lavoro che dovrebbe essere sempre il frutto di una scelta consapevole e mai una professione di ripiego rispetto a mete alternative fallite. La frustrazione di molti insegnanti, con le sue ricadute negative su chi è loro affidato, è in molti casi conseguenza di un tale negativo approccio alla professione. Il rapporto dialogico è condizione essenziale perché si realizzino accoglienza e rispetto. Proprio la scuola contemporanea, con le sue crescenti presenze multiculturali, rappresenta un luogo privilegiato per il superamento dei comportamenti razzisti delle nostre società. La scuola ha il dovere e insieme l’opportunità di favorire un tale superamento: è l’educazione ad avere il compito più importante in tal senso41, sono i bambini e i ragazzi in formazione, la nuova generazione, ad aver diritto di vivere superando ogni odiosa contrapposizione. L’esito di una indagine in alcune scuole elementari romane ci dice che i bambini non sono razzisti, che non sanno neppure bene cosa significhi esserlo42: «Certo, i bambini piccoli da sempre sanno anche essere feroci e le differenze sono il primo strumento di offesa: il più grasso, il più povero o il più basso sono sempre stati i più bersagliati, figurarsi ora chi non parla l’italiano o ha un altro colore. Però costretti nello stesso acquario, dopo i primi morsi imparano a nuotare assieme. Se si fa un fermo immagine a quell’età, se ne ricava una sensazione incoraggiante: si vogliono bene, si divertono, si proteggono, sono affiatati e non fanno caso alle diversità. La società mista del futuro, abituata fin dai primi passi al miscuglio, sembra più possibile dell’attuale». Damian, bambino romeno di dieci anni, intervistato nell’indagine in questione, così risponde: «Secondo me i bambini, se non sapevano che erano nati tutti in paesi diversi, era più facile andare d’accordo. Anche da grandi». Dopo la scuola dell’infanzia più facilmente può affiorare il razzismo, poiché gli adolescenti risultano più sensibili al confronto, a riconoscersi nel gruppo che include ed esclude, ad imitare i più grandi e gli adulti. Occorrerebbe quindi rafforzare nei più piccoli il loro naturale antirazzismo ed attrezzarsi convenientemente affinché la scuola divenga 41 Sui doveri e le possibilità dell’educazione per il superamento dei comportamenti razzisti, si vedano le ripetute indicazione di T. Ben Jelloun nell’opera citata. 42 «Il Venerdì di Repubblica», n. 1142 del 5-2-2010.

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un luogo di accoglienza e di rispetto anche nei suoi gradi superiori. Importante, in tal senso, è il coinvolgimento delle famiglie poiché sovente è al loro interno che l’educazione all’accoglienza ed al rispetto è deficitaria e tale deficit, ovviamente può vanificare quanto si apprende a scuola43. In un altro modo ancora la scuola potrebbe favorire, con l’educazione religiosa, attraverso un approccio interculturale, accoglienza e rispetto. Abbiamo già ricordato come il dato religioso sia un dato sensibile, in positivo ed in negativo, nel definire specifiche identità. Perché non trasformarlo in una possibilità di incontro nel confrontare i fondamenti delle diverse religioni, il loro impatto storico nel definire culture e stili di vita? Per l’acquisizione di valori positivi, rivestono un ruolo importante le istituzioni religiose e una parte rilevante dell’associazionismo. Per quanto riguarda quest’ultimo sono da ricordare sia quello sindacale, sia le tante forme del volontariato che operano in campo sociale. A partire dalla seconda metà del XIX secolo la storia sindacale è infatti stata, soprattutto in Europa, storia di organizzazioni che, con le rivendicazioni salariali e con quelle inerenti più in generale le condizioni lavorative, hanno favorito l’affermarsi di diritti-valori quali il solidarismo e l’uguaglianza. Con la contemporanea globalizzazione dell’economia e l’attenuarsi delle spinte ideali sulle quali hanno potuto in passato contare, il ruolo dei sindacati e il loro appeal non sono più incisivi come lo furono un tempo. Malgrado questa crisi essi possono ancora rappresentare delle grandi opportunità per la riflessione, il dibattito e la diffusione dei valori ai quali s’è fatto cenno. In particolare se sapranno ‘globalizzarsi’ nella difesa degli interessi di chi lavora come hanno saputo fare la finanza e l’imprenditoria nel promuovere il profitto. Si pensi, ad esempio, al contributo che potrebbe da loro venire – ancor più marcatamente di quanto già non accada – in favore del superamento del razzismo, diffuso anche tra le classi lavoratrici in un periodo come quello che stiamo vivendo, contrassegnato da crisi economiche profonde che innescano ed amplificano resistenze e contrapposizioni nei confronti dei migranti approdati sulle sponde europee. Per quanto riguarda il nostro Paese, sono da ricordare i precedenti importanti rappresentati dalla nostra migrazione interna dal sud al nord, dalle campagne alle città industriali, migrazione che interessò milioni di nostri connazionali e che, come oggi, alimentò diffusi comportamenti razzisti da parte di chi si sentì ‘invaso’. Vi è anzi da aggiungere che un tale sentire, lungi dall’essere completamente supe43 Al riguardo, Giuseppe Caliceti, un insegnante di Reggio Emilia, sostiene che: «…mio padre, ex maestro, mi diceva: “Prendi il peggior alunno che ti sia mai capitato e appena conosci i suoi genitori, la sua storia famigliare, ti rendi conto che è meglio di loro, ti rendi conto della bontà della natura”. Sono convinti che sia così». Ibidem.

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rato, ha rappresentato uno dei collanti per le fortune di forze politiche oggi presenti numerose in parlamento. Si deve però ricordare il ruolo decisivo svolto dai sindacati operai di pressoché tutte le ispirazioni nel favorire la necessaria integrazione allora necessaria, nel far comprendere che le fatiche e gli sfruttamenti erano gli stessi, per settentrionali come per meridionali, per ex contadini come per chi aveva conosciuto il solo lavoro in fabbrica. Il sindacato svolse un vero e proprio ruolo educativo, un sindacato rappresentato da operai che accoglievano altri lavoratori e che insieme crescevano nella comprensione delle comuni sorti e degli stessi diritti. Perché sia possibile rivivere una analoga stagione è tuttavia necessario superare le separazioni interessate che dividono il movimento sindacale sia in campo nazionale, sia in quello internazionale: è necessario affrettarsi nel perseguire, come s’è accennato, la globalizzazione dei diritti e, in tale senso, è tempo di recuperare e di diffondere gli importanti valori ideali alla base della nascita del sindacato. Le istituzioni religiose e quelle del volontariato sono fondate su valori fondamentali e il loro ruolo educativo ha dei potenziali notevoli. Oltre ai benefici sociali che offre, il volontariato, almeno quello che rende servizi importanti alle comunità, è, per due riguardi, una importante palestra d’educazione alla solidarietà. Innanzitutto forma in modo profondo poiché coinvolge direttamente nell’aiuto agli altri coloro che lo hanno scelto e, in secondo luogo, rappresenta per le stesse comunità che ne beneficiano un esempio credibile di comportamenti disinteressati. È la pedagogia del vivere quella che così si esplicita, quella di maggior valore in termini di credibilità e di capacità di penetrare le coscienze. Il volontariato mette in evidenza una gamma veramente vasta di bisogni ai quali, in molti casi, altre istituzioni dovrebbero rispondere positivamente. Esso tuttavia sa generalmente esprimersi con spirito di grande generosità sempre, anche laddove non vi è richiesta di supplenze, con una generosità che sa essere contagiosa. Un altro elemento da tenere in grande considerazione per il valore educativo implicito sono le tante esperienze solidaristiche che coinvolgono volontari e fruitori d’aiuto di diverse fasce d’età. Si pensi, al riguardo, a come diversamente possono così confrontarsi adulti ed adolescenti rispetto a quanto accada comunemente in famiglia o a scuola. L’adulto ‘volontario’ più facilmente non viene vissuto solo come un antagonista pedante, ma può esserlo come un compagno di strada più facile da imitare su cose che valgono. L’assistenza ad adulti e agli anziani, in questi casi, favorisce un confronto tra età differenti con analoghe conseguenze formative. Le istituzioni religiose, come abbiamo detto, hanno anch’esse radici valoriali rilevanti e conseguenti possibilità educative di grande spessore.

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Le condizioni perché ciò accada in maniera significativa – ed in risposta alla loro ragion d’essere – vanno tuttavia individuate in discriminanti di non poco conto. Innanzitutto tali istituzioni debbono essere autenticamente fedeli alle religioni che le ispirano e, per fedeltà, si intende il vivere lo spirito autentico di tali religioni e non una sua interessata interpretazione. Il discorso, al riguardo, sarebbe lungo e sicuramente meriterebbe competenze che non posseggo. Tuttavia ritengo che non pochi ed evidenti siano stati i ‘tradimenti’ dello spirito ricordato e che molto laicismo contemporaneo sia anche ascrivibile a questi tradimenti, alla caduta di credibilità e all’opacizzazione che hanno comportato per i messaggi religiosi. In secondo luogo occorre che si palesi sempre una adeguata manifestazione di coerenza tra principi proclamati e comportamenti, la cui carenza o assenza tra l’altro, per le istituzioni religiose, significa svuotamento o allentamento del senso della loro stessa esistenza e perdita del ‘mordente’ educativo: «… Il compito educativo richiede che l’altro senta che l’educatore non è fuori dal sentiero educativo»44. Infine è necessario che le istituzioni in questione sappiano parlare al nostro tempo, sappiano coglierne i segni, le direzioni, i bisogni autentici. Per questa ragione è vitale superare ogni tradizionalismo improprio che risulti d’ostacolo alla comprensione delle realtà umane ed al dialogo con esse. È lo spirito fondante delle visioni religiose che non va tradito, mentre la fedeltà a tradizionalismi vetusti comporta il tradimento delle possibilità di trasmettere quello spirito. Uno dei segni di questo nostro tempo, un segno importante, si palesa nella compresenza sempre più diffusa nelle contrade europee di diverse religioni: il cristianesimo, l’ebraismo, l’islam, il buddismo, l’induismo, ecc… Questa presenza potrebbe trasformarsi in opportunità di grande significato per favorire un confronto propositivo di reciproca conoscenza tra le diverse etnie. A tal fine sarebbero auspicabili incontri e scambi frequenti ai più diversi livelli, tali da aprire al reciproco rispetto tra credenti e uomini che guardano al divino in modi diversi e che del trascendente avvertono simili desideri. La coerenza dei comportamenti che è stata richiamata per le istituzioni dovrebbe anche valere per le comunità dei credenti: nel caso del cristianesimo è soltanto il vivere i comandamenti fondamentali che ne qualifica i seguaci. E il vivere e il mostrarsi vivere secondo le indicazioni evangeliche è anche il loro dovere educativo. Ma credo che tutto ciò valga anche nelle altre visioni religiose. 44

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Intervento ricordato di Angelo Bagnasco.


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Molteplici sono i luoghi religiosi nei quali si può realizzare la trasmissione di valori, dai luoghi di culto alle scuole di carattere confessionale, dai centri culturali agli oratori della tradizione cattolica. Ciò che conta è che tali luoghi non si separino dalle realtà in cui sono presenti ma che sappiano conoscerle e con queste dialogare. Si tratta di offrire ed accogliere ogni modalità del vivere secondo valori capaci di migliorare le nostre esistenze e le nostre relazioni. Alcuni suggerimenti di lettura: BENEDETTO XVI-J. HABERNAS, Ragione e fede in dialogo, Marsilio, Padova, 2005; P. BERTOLINI-L. CARONIA, Ragazzi difficili. Pedagogia interpretativa e linee di intervento, La Nuova Italia, Scandicci, 1993; N. BOBBIO, Elogio della mitezza ed altri scritti morali, Net, Roma, 2006; E. BONCINELLI, L’etica della vita, Rizzoli, Milano, 2008; F. DOLTO, Il gioco del desiderio, SEI, Torino, 1987; P. FREIRE, La pedagogia degli oppressi, Mondadori, Milano, 1971; S. GANDOLFI, Educazione e conflitti sociali, La Scuola, Brescia, 2002; J. HABERMAS, Morale, diritto, politica, Einaudi, Torino, 2007; I RAGAZZI DI BARBIANA, a cura di, Lettere di Don Lorenzo Milani priore di Barbiana, Mondadori, Milano, 1970; I. ILLICH, La convivialità, Mondadori, Milano, 1974; H. JONAS, Il principio di responsabilità, Einaudi, Torino, 2002; R. MORDACI, Una introduzione alle teorie morali, Feltrinelli, Milano, 2003; F. NIETZSCHE, La volontà di potenza e il passato, Bompiani, Milano, 2005; ID., L’anticristo, Newton Compton, Roma, 1993; M. NUSSBAUM, Diventare persone, Il Mulino, Bologna, 2000; P. RICOEUR, Etica e morale, Morcelliana, Roma, 2007; J.J. ROUSSEAU, Origine delle disuguaglianze, Feltrinelli, Milano, 1990; P. SCOPPOLA, La democrazia dei cristiani, Laterza, Bari, 2006; F. VOLPI, Il nichilismo, Laterza, Roma-Bari, 2004.

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Aleandri G. Educazione permanente nella prospettiva del lifelong e lifewide learning L’attuale idea di lifelong e lifewide learning e education pone, secondo l’Autrice, le sue basi su un concetto di educazione volto alla crescita globale e integrale della persona, coinvolta in un processo continuo di costruzione della propria identità e personalità, in quanto pienamente inserita nell’ambiente familiare, comunitario, nonché planetario. pp. 192

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Malo A. Cartesio e la postmodernità Il testo fornisce un’analisi delle principali idee filosofiche cartesiane che ruotano attorno al concetto di certezza. Di fronte all’insicurezza dell’uomo postmoderno, l’Autore propone la riscoperta del senso della vita personale come punto di partenza per affrontare il nichilismo attuale. pp. 256

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ARTE ED EVANGELIZZAZIONE Il Mistero dell’incarnazione, passione, morte e risurrezione nel Crocifisso romanico di San Salvatore al Monte Amiata. Carlo Prezzolini Il Dio in cui crediamo è il Dio della relazione con l’umanità e con il creato, è esso stesso relazione nella sua essenza costitutiva: è un Dio trino e unico. È un Dio che vuole costruire una amicizia con le sue creature, che ‘parla’ con l’uomo nella storia, che per questo diventa storia della salvezza. Particolarmente significativo, a questo proposito, è il prologo della Lettera agli Ebrei: «Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo» (1,1-2). Per noi cristiani il Figlio incarnato è il vertice insuperabile della storia della rivelazione di Dio all’uomo: Gesù ci racconta, ci mostra con la sua vita l’amore del Padre per ogni uomo e per ogni donna di tutti i tempi e ci invita a raccontare anche noi questa storia di amore, di relazione e ad attualizzarla, renderla credibile per gli uomini e le donne del nostro tempo, con le nostre parole, con i nostri gesti, con la nostra vita. Il popolo di Israele ha espresso la sua fede non con astratte formule teologiche ma narrando una storia, narrando la sua storia del rapporto con Dio, partendo da Abramo e raccontando la discesa in Egitto, la schiavitù e la liberazione; particolarmente significativo è il testo del Deuteronomio 26, 5-10. Anche Pietro, nel suo discorso il giorno di Pentecoste, racconta una storia, la storia di Gesù: «Uomini d’Israele, ascoltate queste parole: Gesù di Nazaret – uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e segni, che Dio stesso fece tra voi per opera sua, come ben sapete –, consegnato a voi secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio, voi, per mano dei pagani, l’avete crocifisso e l’avete ucciso. Ora Dio lo ha risuscitato, liberandolo dai dolori della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere» (At 2,22-24). Possiamo dire che la Bibbia non sia che il racconto scritto della storia dell’amicizia, della relazione fra Dio e l’umanità, in particolare con il popolo di Israele; i Vangeli, raccontando la storia del Figlio incarnato, contengono la definitiva e più profonda parte di questa storia. La Chiesa apostolica, guidata dallo Spirito Santo, consegnò la memoria viva dell’incarnazione del Figlio nei Vangeli, negli Atti e nelle Lettere degli apostoli, componendo quello che chiamiamo il Nuovo Testamento. Gli evangelisti ci narrano, con la storia di Gesù, la storia degli uomini e delle donne che il Signore incontrò, che ascoltò e di cui si prese cura

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ed ebbe compassione nelle strade della Palestina di 2000 anni fa: sono storie di incontri che hanno cambiato la vita di tante persone. Gesù, vero Dio e vero uomo, era un grande conoscitore della natura umana, sapeva far emergere nelle relazioni che intesseva le paure, i bisogni, i dolori, le gioie e le speranze più vere, più profonde delle persone di tutti i tempi: per questo nel Vangelo io posso trovare la mia vita, me stesso. La Chiesa è stata fondata dal Cristo per scrivere, essere custode e interprete della storia del suo Signore, per raccontarla ed incarnarla, farla comprendere nella storia dell’umanità di tutti i tempi. Partendo da questi racconti scritti, le Comunità cristiane li hanno attualizzati rinarrandoli anche attraverso forme artistiche, dalla letteratura alle sacre rappresentazioni alle immagini, cioè attraverso forme espressive che sollecitano la nostra comprensione e la nostra partecipazione non solo attraverso la ragione ma, soprattutto, con le emozioni. Per questo fine, particolarmente importante è stata l’arte figurativa cristiana, la pittura e la scultura che nei secoli hanno raccontato la storia del Signore, dei suoi amici e degli eroi del cristianesimo, i Santi. Storicamente l’arte cristiana si è sviluppata seguendo due grandi fini: fare entrare il fedele nel Mistero di Dio, attraverso forme e contenuti simbolici, attraverso le sante Icone, e questo è stato lo scopo tipico dell’arte dell’Ortodossia; raccontare le storie del Signore e dei Santi per educare alla fede, attraverso un linguaggio mimetico ripreso dall’arte classica, finalità che ha caratterizzato l’Occidente cristiano a partire dal XIII secolo. Le nostre chiese, oggi anche i nostri musei d’arte sacra, non solo formano una enorme miniera di memoria e di storia delle Comunità che le hanno costruite e ornate di arte ma possono essere utilizzate anche oggi, nella civiltà delle immagini, per narrare, raccontare, far comprendere la storia di Gesù e dei suoi amici, che poi è storia di relazioni che possono cambiare la nostra vita. Per questo scopo è necessario comprendere queste opere d’arte, collegandole non solo alla storia delle Comunità che le hanno volute per esprimere la loro fede ma anche allo scopo culturale per cui sono state realizzate, ai brani scritturistici o agli scritti agiografici che le hanno ispirate. Dobbiamo riconoscere che spesso questo non avviene, spesso le pubblicazioni sulle opere d’arte cristiana contengono solo riferimenti storico-artistici e quindi non solo non risultano del tutto comprensibili ma non possono essere utilizzate per raccontare il Mistero di Dio. Ancora oggi tanti musei d’arte sacra non sono organizzati come tali, ma come semplici raccolte d’arte. Ritengo anche che sia importante, per comprendere un’opera d’arte cristiana, un atteggiamento di preghiera e di meditazione. È con questo atteggiamento che ho potuto fare delle piccole scoperte su una importan-

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te opera d’arte conservata nell’abbazia del Santissimo Salvatore al Monte Amiata: il grande Crocifisso romanico, opera lignea del XII secolo. La scultura raffigura l’iconografia del Christus triumphans, vivo, vincitore sulla morte, con il corpo e la testa eretti, non segnati dalla sofferenza della passione e della crocifissione, ricordata dalla cinque piaghe. La statua è alta 2,26 m e larga 2,20, mentre la croce supera i 3 m di altezza e i 2,50 di larghezza. Il Cristo è scolpito in un unico tronco di legno di noce1, mentre la croce, sempre quella originaria, è composta da due assi di abete bianco. La scultura presenta una solenne e robusta frontalità, attenuata da un sensibile scarto verso destra della testa eretta e protesa in avanti, movimento equilibrato dalle ginocchia leggermente volte verso la direzione opposta; gli occhi sono aperti, la bocca è socchiusa e le orecchie sono ben visibili, le mani sono stese, le gambe erette, solo con le ginocchia leggermente curve, i piedi non accavallati. Un prezioso ed elegante perizoma, curatissimo nelle pieghe e nel nodo, scende fino alle ginocchia. I recenti restauri, effettuati fra il 1998 e il 2000 a cura della Soprintendenza per il patrimonio storico, artistico ed etnoantropologico di Siena, hanno rinnovato l’interesse per questa importante scultura. Sono state avanzate due ipotesi; una è quella di Nadia Bertoni e Stéphane Cren, restauratori dell’opera: il Crocifisso sarebbe stato scolpito poco prima della metà del XII secolo da un artista itinerante francese, che pochi anni dopo scolpì anche quello dell’abbazia di Sant’Antimo. Questa ipotesi è motivata storicamente dalle profonde relazioni fra le due più importanti abbazie della Toscana meridionale e dal loro rapporto con le sorelle francesi2. L’altra ipotesi, avanzata dallo storico dell’arte medievale Andrea Del Grosso, colloca il Crocifisso amiatino nella seconda metà del XII secolo e lo attribuisce ad uno scultore ispirato da piccoli manufatti in bronzo, provenienti da officine attive nell’area germanica e ad alcune immagini presenti in codici della biblioteca di San Salvatore, e probabilmente com1 Sant’ Agostino propone il frutto della noce, formato da tre parti, come simbolo di Cristo: il mallo esterno rinvia alla carne, che ha provato l’amarezza della passione, il gheriglio, che nutre e rende possibile la luce con l’olio che ci si ricava, rinvia alla divinità ed il guscio ligneo alla croce. Si vedano, alla voce noce, G. HEINZ-MOHR, Lessico di iconografia cristiana, Istituto Propaganda libraria, Milano, 1984, p. 242 e L. IMPELLUSO, La natura e i suoi simboli. Piante, fiori e animali, Electa, Milano, 2003, pp. 172-174. Agostino parla della simbologia della noce nel Discorso 341 Sul Salmo 21 e sulle accezioni del Nome di Cristo in uso nella Scrittura: Sua Divinità, natura umana assunta, dignità di Capo della Chiesa. I tre ramoscelli di Giacobbe, nn. 24 e 25, si veda www.augustinus.it/italiano/index.htm (ultima consultazione XX/XX/XXX). 2 N. BERTONI CREN, Il Crocifisso romanico di Abbadia San Salvatore, in «Amiata storia e territorio», n. 53, dicembre 2006, pp. 30-40.

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posti nel suo scriptorium. Questa ipotesi storicamente si collega all’importante governo di Rolando, che resse l’abbazia amiatina fra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo, e alle costanti relazioni di San Salvatore con la corte imperiale e con l’alta nobiltà germanica3. La scultura suscita forti emozioni, sia per le monumentali dimensioni sia per la forte espressività del suo volto. Ho avuto la fortuna di contemplarla faccia a faccia, di pregare davanti a lei, di mettere i miei occhi nei suoi, subito dopo il restauro, quando stava per essere appesa nuovamente alla croce. Ne ho ricavato sensazioni molto forti, mi sono sentito interrogare, nel profondo, sul senso che volevo dare alla mia vita di uomo, di cristiano e di presbitero. Il Crocifisso di San Salvatore è vivo, è come se volesse instaurare con l’interlocutore una comunicazione sensoriale: ti guarda con i suoi grandi occhi spalancati, si tende verso di te con la sua testa, ti parla con la sua bocca socchiusa, ti ascolta con le sue orecchie completamente scoperte dai lunghi capelli, ti vuole abbracciare con le sue braccia dritte e le sue mani completamente aperte, ti vuole venire incontro con i suoi piedi non sovrapposti. È la piena umanità del Risorto, vincitore della morte, in origine accentuata anche da un grande vigore dei muscoli del petto e delle braccia, successivamente ridotti per attenuare la vitalità della scultura. Mi sembra che queste caratteristiche non siano presenti in altri Crocifissi, almeno per quanto posso conoscere io. Il Volto del Cristo di San Salvatore è una risposta alla preghiera del salmista che invoca per tre volte il Volto di Dio: «Il mio cuore ripete il tuo invito: “Cercate il mio volto!”. Il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto [… ]» (Sal 27,8-9a). È l’aspirazione del popolo d’Israele, di Mosè (Es 33,18-23) e di Elia (1 Re 19,9-14). Mi viene spontaneo riandare al Mistero, al mistero del nostro Dio che contempla le sue creature, in particolare l’Uomo e la Donna appena creati (cfr. Gen. 1), che ascolta il grido di dolore del suo popolo schiavo in Egitto e scende a consolarlo e liberarlo attraverso Mosè (Es 3,7-9); un 3 A. DEL GROSSO, Il Crocifisso romanico di Abbadia San Salvatore. Restauro e precisazioni critiche, Ali edizioni, Asciano, 2008. L’autore, alle pp. 47-49, ricorda il Codice amiatino 3 della Biblioteca Laurenziana di Firenze, proveniente da San Salvatore, ms. miscellaneo con l’opera «Carmina figurata in honorem Sanctae Crucis» di Rabano Mauro, dove nella c. 176v. è dipinto un Crocifisso vivente senza la croce e l’immagine analoga presente nel Missale amiatinum, conservato nella Biblioteca Casanatense di Roma, ms. 1907, f. 193. Ulteriori approfondimenti sulla biblioteca di San Salvatore, sull’eventuale scriptorium monastico e sulla cultura e spiritualità dell’abbazia potranno approfondire questa ipotesi.

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Dio che ascolta i dolori, i problemi dell’uomo, lo consola e lo guida alla fonte della vita con il Figlio incarnato, che ci rivela il suo vero Volto (cfr. Gv 1,18; 12,45; 14,9). Il Volto di Dio che Gesù ci rivela è un volto pienamente e veramente umano, perché l’Uomo e la Donna sono stati fatti ad immagine e somiglianza di Dio (Gen 1,26). Una grande spiritualità deve esserci stata in San Salvatore per guidare con tanta sapienza la mano dell’ignoto scultore del XII secolo, perché rappresentasse nel Crocifisso il mistero dell’incarnazione, passione, morte e risurrezione del Signore; e una grande sensibilità e spiritualità deve aver avuto anche l’ignoto scultore, forse anche lui monaco. L’iconografia del Christus triumphans ha come riferimento biblico l’interpretazione che propone l’evangelista Giovanni: la croce come il compimento dell’ora di Gesù, come trono della sua gloria (cfr. il racconto della passione e morte del Signore in Gv 18-19); Cristo stesso aveva annunciato questo nel dialogo con Nicodemo: «E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna» (Gv 3,14-15); e, dopo l’ingresso a Gerusalemme, aveva affermato solennemente «E io, quando 4 sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32) . Alle origini il Crocifisso doveva essere collocato in una posizione centrale della chiesa abbaziale, probabilmente fra la parte alta del tempio, dove si trovava il coro riservato ai monaci, e la parte bassa, aperta al popolo. Durante la celebrazione della Messa, nella memoria viva della santa Cena del Signore, le generazioni di monaci, di abitanti di Abbadia e del monte Amiata che si sono succeduti dall’XII sec., hanno contemplato nell’azione liturgica il Mistero dell’amore di Dio, si sono cibati della sua Parola, si sono cibati del Corpo e sangue del Signore. E hanno contemplato nel Crocifisso risorto il vero volto del Padre, che il Figlio ci ha rivelato, nella sua vita e nel suo volto, come un amore totale che arriva al dono della vita sulla croce per poi risorgere; e questo per noi, per guidarci nell’esodo da questa vita alla Casa del Padre dove lui ci attende: morti con lui e con lui risorti. La scultura di San Salvatore racconta la passione, morte e resurrezione del Signore ma è anche una santa icona che rende visibile il Mistero di Dio. 4

Sulla lettura teologica del Crocifisso di San Salvatore si rinvia a P. IACOBONE, Il Crocifisso di San Salvatore: una lettura teologico-spirituale, in Il Crocifisso di Abbadia San Salvatore e il Mistero della passione, morte e resurrezione del Signore, a cura di C. Prezzolini, Thesan e Turan, Montepulciano, 2010, pp. 43-47. Si veda anche C. PREZZOLINI, Il Mistero di Dio nel Crocifisso romanico e nel reliquiario di san Marco papa dell’abbazia del Santissimo Salvatore al Monte Amiata, in «Rivista liturgica», 97/2, marzo-aprile 2010, pp. 318-327.

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