TEMPO PRESENTE N. 517-519

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TEMPO PRESENTE

UMANITÀ SENZA DIRITTI-2

Una modesta proposta a 75 anni

dalla Dichiarazione universale dell’Onu

Alberto Aghemo – Vittorio Pavoncello – Severino Saccardi – Paolo De Nardis

Salvatore Rondello – Lucia Visca – Maurizio Simoncelli – Blando Palmieri

Valentina Fabbri – Valdo Spini – Roberto Morassut – Francesco Verducci

Antonio Pileggi – Aldo Ferrara – Tito Lucrezio Rizzo – Enrico Cuccodoro

Sergio Venditti – Giuseppe Galzerano – Angelo S. Angeloni

Serie
N.517-519 gennaio-marzo 2024 -Anno 45° Nuova
euro 15,00

TEMPO PRESENTE

RIVISTADI CULTURAFONDATADAIGNAZIO SILONE E NICOLACHIAROMONTE

DIRETTO RESPONSABILE

AlbertoAghemo

La Nuova serie della rivista ha ripreso le pubblicazioni dal 1980 per iniziativa e sotto la direzione diA����� G. S������� †

COMITATO EDITORIALE

Italo Arcuri – Giuseppe Cantarano – Ester Capuzzo

Antonio Casu – Elio d’Auria

Mirko Grasso – Maria Teresa A. Morelli – Rossella Pace – Giorgio Pacifici

Gaetano Pecora – Vittorio Pavoncello - Sergio Venditti

COMITATO DEI GARANTI

Presidente: Emmanuele Francesco Maria Emanuele

Hans Albert - Alain Besançon - Natalino Irti - Bryan Magee

Hanno fatto parte del Comitato:

Enzo Bettiza - Karl Dietrich Bracher - Francesco Forte

Pedrag Matvejevic - Luciano Pellicani - Giovanni Sartori

REDAZIONE

Giuseppe Amari † - Angelo S. Angeloni - Patrizia Arizza

TEMPO PRESENTE aderisce al Cric Coordinamento delle riviste di cultura italiane

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ISSN 1971-4939

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Viale Ippocrate, 65 - 00161 Roma (RM)

Prezzo dei fascicoli: Italia € 15,00 - Estero € 20,00

Arretrati dell’anno precedente: il doppio

Abbonamento annuo: Italia € 60,00 - Estero € 80,00

Abbonamento sostenitore € 100,00

L’abbonamento non disdetto entro il 30 novembre si intende tacitamente rinnovato

Tempo Presente è una pubblicazione della

Fondazione Giacomo Matteotti ETS

in redazione il 31 marzo 2024
Chiuso
Parigi, 10 dicembre 1948, Eleanore Roosvelt mostra la Dichiarazione universale dei diritti umani

TEMPO

PRESENTE

Rivista di cultura fondata da Nicola Chiaromonte e Ignazio Silone N. 517-519 gennaio - marzo 2024

Anno 45° Nuova Serie

UMANITÀ SENZA DIRITTI-2

Una proposta a 75 anni dalla Dichiarazione universale dei diritti umani dell’Onu

INDICE SOMMARIO

ALBERTO AGHEMO

In questo numero…

Heri dicebamus: settantacinque anni portati assai male p. 9

VITTORIO PAVONCELLO

CALL FOR PAPERS: Umanità senza diritti

SEVERINO SACCARDI

La lezione dell’Onu

PAOLO DE NARDIS

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Qualora si ponga la libertà alla base… p. 36

SALVATORE RONDELLO

Diritti umani negati

LUCIA VISCA

I diritti dell’uomo e l’agenda della donna

MAURIZIO SIMONCELLI

Diritti civili e obiettivi militari

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BLANDO PALMIERI

Il ruolo del dialogo sociale europeo nella promozione dei diritti umani p. 58

VALENTINA FABBRI

Il lavoro sociale e la Dichiarazione universale dei diritti umani. L’esperienza di Programma integra p. 66

VALDO SPINI

Sono cadute le ideologie, non i valori e principi. Un’occasione per una presa di coscienza p. 70

ROBERTO MORASSUT

Diritti umani, cittadinanza e abolizione delle differenze. Come l’autonomia differenziata lede i diritti dei cittadini p. 72

FRANCESCO VERDUCCI

Diritti umani: costituzione civile, morale e materiale di una democrazia p. 80

DOCUMENTI

CARTADEI DIRITTI FONDAMENTALI

DELL’UNIONE EUROPEA

Proclamata da Parlamento, Consiglio e Commissione europei Nizza, 7 dicembre 2000 p. 84

LE STORIE E LASTORIA

ANTONIO PILEGGI

Benjamin Constant o della libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni p. 100

ALDO FERRARA

Salerno, il compromesso storico degli anni Quaranta p. 109

TITO LUCREZIO RIZZO

L’aspro sentiero della donna verso il traguardo della parità p. 114

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Guido Melis RIFLESSIONI CRONACHE RICORDI

ENRICO CUCCODORO

La scommessa del regime parlamentare, oggi

SERGIO VENDITTI

126

La Grande Bellezza della cultura e del sociale e il mecenatismo del Terzo Pilastro p. 137

GIUSEPPE GALZERANO

Addio a Ennio Calabria, il pittore rosso del Cilento p. 140

LETTURE

ANGELO S.ANGELONI

Antigone tra mito e personaggio

furore del potere

In copertina

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Maryam Pezeshki

Where is the revolution?

Scultura, 2007

L’Autrice, apprezzata pittrice scultrice iraniana da anni residente in Italia, è anche militante per i diritti umani nel suo Paese.

Una sua vibrante testimonianza è stata pubblicata nello scorso fascicolo di «Tempo Presente», anch'esso monograficamente dedicato al tema del rispetto diritti umani.

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In questo numero…

UMANITÀ SENZA DIRITTI-2

Heri dicebamus… settantacinque anni portati assai male

Heri dicebamus è forse un attacco troppo aulico per queste brevi note, ma l’espressione rende con efficacia l’idea. Licenziando il numero precedente di «Tempo Presente», appena una manciata di settimane fa, dovevamo considerare che la Dichiarazione universale dei diritti umani, approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni unite il 10 dicembre del 1998, portava tutt’altro che bene i suoi 75 anni. Oggi, con la scoraggiante consapevolezza del peggio che incombe e si invera, possiamo affermare senza timore di essere smentiti che quegli anni sono portati assai male.

I diritti fondamentali della persona continuano a essere ignorati e sempre più spesso brutalmente calpestati nella gran parte degli Stati del pianeta mentre una guerra mondiale diffusa seguita a mietere vittime, per lo più civili, in spregio non soltanto della Dichiarazione dell’Onu ma anche della IV Convenzione di Ginevra per la Protezione delle persone civili in tempo di guerra, sottoscritta il 12 agosto del 1949.

Il riscatto morale civile che gli orrori della Seconda guerra mondiale sollecitavano allora ai potenti del mondo è stato sì enunciato e quindi sottoscritto, ma è stato anche ampiamente disatteso nel tempo, mentre la capacità regolatrice delle istituzioni sovranazionali, Nazione unite in testa, mostra tutta la sua inadeguatezza a contenere le ondate di barbarie che si vanno stratificando sul palinsesto del secondo Novecento, sino a prefigurare nuove diffuse inciviltà unite ad antichi radicati interessi che alimentano e incoraggiano una terza

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“guerra mondiale diffusa” con una sinistra geometria che copre l’intero pianeta. Non ci stanchiamo di ricordare quanto autorevolmente testimoniato dall’ultimo Rapporto di Amnesty International che denuncia il mancato rispetto dei diritti umani in 156 paesi dei 200 che si spartiscono il mondo. Un mondo che sembra come non mai diviso in due blocchi, mossi da interessi confliggenti nelle pretese egemoniche, eppure convergenti nel sostenere diverse ma simmetriche economie di guerra che si alimentano di diseguaglianze, di radicalismi, di odi sapientemente coltivati, di brutale repressione e, soprattutto, di un numero crescente di inermi vittime civili.

Heri dicebamus che si parla molto, in questo mondo militarizzato, di nemici e poco di pace; si parla molto di doveri, pochissimo di diritti. Proprio questa considerazione ci spinge a tornare sul tema dell’umanità senza diritti. Un tema che continua a proporsi con drammatica urgenza e che ha sollecitato i nuovi appassionati interventi che vi proponiamo nelle pagine che seguono, muovendo dalle riflessioni e dalle provocazioni richiamate dalla Proposta di Vittorio Pavoncello che richiamiamo in apertura, a mo’di introduzione al dibattito e quale call for papers sulla quale si sono confrontati intellettuali, studiosi, esponenti della società civile, ricercatori, operatori sociali, esponenti della politica e delle istituzioni.Aloro «Tempo Presente» ha offerto le proprie colonne perché le loro idee e le loro testimonianze possano continuare ad alimentare la riflessione e la passione civile dei nostri lettori.

È, questo, un esercizio che potrà sembrare eccessivamente ambizioso o sostanzialmente inutile, ma abbiamo da tempo rinunciato alla prudenza per continuare a essere, come dicevamo in apertura di questo confronto collettivo, «imprudenti e ostinatamente civili», sempre animati dalla volontà di dare testimonianza. *

Questo secondo fascicolo monografico di «Tempo Presente» dedicato a una riflessione sui 75 anni della Dichiarazione universale di diritti umani dell’Onu

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RIVISTE D’ITALIA

PATRIMONIO

NAZIONALE

Un giacimento di idee e tradizioni da tutelareAlberto Aghemo

si apre dunque con la call for papers Umanità senza diritti di Vittorio Pavoncello che enuncia già nel suo Preambolo l’articolazione del progetto che, muovendo da profonde e complesse considerazioni di carattere etico, culturale e politico, propone l’inserimento dei principi e dei valori della Dichiarazione universale del 1948 nella Costituzione della Repubblica italiana e nello statuto dei partiti politici.

Il primo, autorevole intervento sul tema, dal titolo La lezione dell’Onu, è firmato da Severino Saccardi e muove da un duplice spunto: il riconoscimento, da una parte, della natura epocale della Dichiarazione del 1948 e, dall’altra, di come essa si inserisca nella travagliata storia di un Novecento che ha visto troppo spesso contrapposti diritti formali e diritti sostanziali. Ebbene, sottolinea Saccardi, ciò che fa del documento delle Nazioni unite un vero monumento all’umanità è proprio la capacità di superare tale distinzione e di proclamare diritti che sono al contempo civili e sociali, in grado di conciliare le ragioni della giustizia con quelle della libertà.

Paolo De Nardis, nel suo Qualora si ponga la libertà alla base…, introduce nella riflessione un registro solidamente filosofico e indaga il tema dei diritti umani nella cornice di un pensiero che impronta di sé l’intera storia dell’Occidente: un filo di ragionamento e di ethos sull’idea di uomo e di libertà che si dipana dagli albori del pensiero greco a Socrate, per approdare a Spinoza e Leibniz e, infine, a Weber e a Croce declinando un concetto moderno di libertà che, come si legge nella Dichiarazione, è in primo luogo il diritto alla libertà «dal timore e dal bisogno». Libertà, dunque, “moderna” in quanto si invera oltre che nella sfera etica, nella dimensione economica e sociale degli individui e delle comunità.

La dimensione immanente, concreta, violentemente conflittuale della riflessione contemporanea sulla Dichiarazione è al centro dell’intervento suc-

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cessivo, Diritti umani negati, firmato da Salvatore Rondello che ripercorre puntualmente l’analisi impietosa e la drammatica denuncia del presente che emergono dalle pagine dell’ultimo Rapporto di Amnesty International. Rondello riporta puntualmente e commenta l’implacabile requisitoria di Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty, che tira le somme di un tragico bilancio dei venti di guerra che spirano nel mondo e del diffuso, brutale soffocamento dei diritti umani in Paesi guidati da vecchie e nuove dittature e da teocrazie integraliste. A rendere più inquietante questa drammatica ricognizione dello “stato del mondo” è la denuncia che a pagare il prezzo di tanta violenza solo le popolazioni civili, sono gli inermi e sono, soprattutto e sotto ogni latitudine, le donne. Un’affermazione della Callamard, fra le tante, merita di essere integralmente riportata: «La brama con cui gli Stati vogliono controllare i corpi delle donne e delle ragazze, la loro sessualità e le loro vite lascia una tremenda eredità di violenza, oppressione e riduzione delle potenzialità».

Il tema dei diritti universali declinati al femminile è quindi ripreso e ulteriormente approfondito nel successivo intervento di LuciaVisca, che richiama il tema sin dal titolo: I diritti dell’uomo e l’agenda della donna. Tra le varie considerazioni acutamente critiche di Visca merita ricordare che, nonostante si ripeta con eccesso di enfasi che l’Italia è regolata dalla “Costituzione più bella del mondo”, il nostro Paese ha recepito la Dichiarazione universale soltanto nel 1955 e persevera, a livello lessicale non meno che nella realtà eco-

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nomica e sociale, a muoversi in un terreno minato da un pericoloso, radicato squilibrio di genere.

Torna sul tema della guerra quale radicale negazione dei diritti negati il successivo intervento firmato da Maurizio Simoncelli, Diritti civili e obiettivi militari. Le guerre contemporanee, ci ricorda Simoncelli, sono prevalentemente combattute non solo da eserciti regolari, ma spesso anche da formazioni irregolari, su un campo di battaglia che ormai non ha limiti territoriali, estendendosi all’interno degli spazi abitati, dei mercati, delle scuole e degli ospedali. In questo tragico contesto le grandi potenze – dell’Occidente non meno che dell’Oriente – sembrano conoscere un’unica risposta: l’aumento costante ed esponenziale delle spese militari.

Blando Palmieri, nell’ampio intervento su Il ruolo del dialogo sociale europeo nella promozione dei diritti umani, riporta l’attenzione sul ruolo di garanzia degli organismi sovranazionali e, prendendo spunto dalla Dichiarazione delle Nazioni unite in materia di diritti sociali, analizza genesi e sviluppo del dialogo sociale nell’Unione europea e il ruolo che le istituzioni comunitarie hanno avuto e hanno nella promozione dei diritti umani, in particolare di quelli socio-economici e connessi alla tutela e alla dignità del lavoro. Dagli accordi di Val Duchesse a Maastricht, sino alle più recenti direttive e linee guida espresse dalla Commissione europea sotto la guida di Ursula von der Leyen, Palmieri ci restituisce un quadro complessivo, articolato e ben docu-

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mentato, dell’attività del Dialogo Sociale Europeo orizzontale. Il lavoro, l’accoglienza ai migranti e la tutela dei diritti della forza lavoro che i flussi migratori globali immettono nell’Unione europea sono i temi al centro del successivo testo di Valentina Fabbri, dal titolo Il lavoro sociale e la dichiarazione universale dei diritti umani. L’esperienza di programma Integra, che riporta la testimonianza in materia di un qualificato operatore sociale.

Il che riporta al tema principale, Sono cadute le ideologie, non i valori e i principi, al centro dell’articolo diValdo Spini, che segue e che rinvia alla Proposta di Pavoncello, ovvero all’opportunità di un richiamo valoriale alla Dichiarazione in Costituzione e nello stuto dei partiti.Al di là dell’affermazione teorica, sottolinea Spini, l’esplicito richiamo del principio del rispetto assoluto della persona e della sua tutela da ogni minaccia, ivi compresa quella del timore – «della rooseveltiana paura» – servirebbe non poco a restituire smalto e vigore a organizzazioni politiche che, dopo la dissoluzione della tradizionale forma partito, stentano a uscire da uno status che oscilla fra movimentismo e burocratismo.

Da questa osservazione trae spunto anche Roberto Morassut per una considerazione che ci riporta all’attualità del dibattito politico interno sui diritti di cittadinanza e sul valore dell’uguaglianza: giudizi e valori oggi messi in discussione da un dibattito sull’autonomia differenziata che sembra ispirarsi a un malinteso federalismo che rinnega i principi di una tradizione filosofico

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politica che, da Carlo Cattaneo in poi, ha costituito un riferimento essenziale nel pensiero nazionale. Nel saggio Diritti umani, cittadinanza e abolizione delle differenze. Come l’autonomia differenziata lede i diritti dei cittadini Morassut argomenta la sua contrarietà, di metodo e di merito, nei confronti di una proposta che mina i principi di solidarietà, di pari trattamento e di eguale cittadinanza garantiti dalla nostra Carta costituzionale e rischia di distruggere il tessuto unitario del Paese.

Chiude la sezione monografica di questo fascicolo Francesco Verducci con l’articolo su Diritti umani: costituzione civile, morale e materiale di una democrazia. La democrazia – ricorda Verducci – vive nella libertà, nella pari dignità, nella non discriminazione, nel rispetto della persona, nella realizzazione del proprio progetto di vita; di forte all’attuale, drammatica emergenza della storia, serve riaffermare un più forte pensiero democratico, un risveglio, una consapevolezza delle nuove generazioni che reclamino per se stesse e per il futuro una stagione più avanzata di diritti civili e sociali, di diritti democratici: quei diritti umani che sono scritti nella Dichiarazione universale del 1948 e che parlano di una promessa di riscatto ed emancipazione per l’intera umanità.

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A integrazione della prima parte nel fascicolo la sezione DOCUMENTI –che nello scorso numero aveva riportato il testo integrale della Dichiarazione universale dei diritti umani proclamata a Parigi dall’Assemblea generale delle Nazioni unite il 10 dicembre 1948 – propone ora ai lettori il testo integrale della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata da Parlamento, Consiglio e Commissione europei a Nizza il 7 dicembre del 2000, ovvero l’altro documento al quale si fanno larghi riferimenti nel dibattito in queste pagine avviato sulla Dichiarazione Onu.

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La successiva sezione, LE STORIE E LA STORIA, è anch’essa orientata ai temi della libertà e dei diritti umani e si apre con il saggio Benjamin Constant o della libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni: una puntuale e brillante rilettura, firmata da Antonio Pileggi, di una pagina fondativa del pensiero liberale contemporaneo. A seguire, Aldo Ferrara firma Salerno, il compromesso storico degli anni Quaranta, che rievoca la svolta politica che vide, del marzo del 1944, la nascita del secondo governo Badoglio e il conso-

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lidamento dell’ampio fronte antifascista chiamato a portare a termine la guerra di Liberazione nazionale.

Il saggio successivo, L’aspro sentiero della donna verso il traguardo della parità, firmato daTito Lucrezio Rizzo, è una puntuale e brillante ricostruzione giuridica e civile – dall’età giolittiana ai nostri giorni – del faticoso cammino, non ancora interamente compiuto, verso il pieno riconoscimento della parità di genere nel nostro Paese.

RIFLESSIONI CRONACHE RICORDI è il titolo della sezione successiva del fascicolo, che si apre con un’acuta analisi, dal titolo La scommessa del regime parlamentare, oggi, dello stato del sistema parlamentare in Italia condotta con taglio costituzionalista e passione civile da Enrico Cuccodoro.Aseguire, Sergio Venditti firma La Grande Bellezza della cultura e del sociale e il mecenatismo del Terzo Pilastro, una storia esemplare di impegno culturale e civile sul territorio. Chiude la sezione Giuseppe Galzerano con un vibrante ricordo di un grande che ci ha di recente lasciati: Addio a Ennio Calabria, il pittore rosso del Cilento. Anche in questo numero si chiude con le consuete LETTURE. Nelle ultime pagine Angelo S. Angeloni ci presenta – sotto i titoli Antigone tra mito e personaggio e Il furore del potere – originali riproposte della figura di Antigone e una recente edizione critica della manzoniana Storia della colonna infame

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Ci eravamo congedati, al termine del precedente editoriale, ricordando alcune iniziative condotte da «Tempo Presente» insieme al Cric, il Coordinamento delle riviste italiane di cultura. In quello stesso filone, che

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aveva visto la nostra presenza al Salon de la Revue di Parigi e all’ultima edizione di Più Libri Più Liberi alla Nuvola dell’Eur, si inserisce la partecipazione all’iniziativa Le riviste di cultura per l’ambiente, promossa a Roma lo scorso 22 febbraio dal Coordinamento e che ha visto «Tempo Presente» contribuire a un panel delle principali riviste culturali italiane congiuntamente intervenute sul tema dello sviluppo sostenibile e delle politiche ambientali. Per quanto ci riguarda ricordiamo il fascicolo monografico dello scorso autunno ANTROPOCENE Il museo della vita.

Da ultimo, avevamo ricordato la scomparsa di un appassionato cultore del diritto e della democrazia: l’amico, nonché nostro autorevole collaboratore Felice Besostri. In ricordo delle sue appassionate battaglie «Tempo Presente» ha di recente promosso il seminario Per una democrazia compiuta, al quale hanno partecipato autorevoli giuristi, costituzionalisti, politologi e storici. Ci piace segnalare che gli atti del seminario – la cui registrazione è disponibile online sul canale YouTube della Fondazione Matteotti al link https://www.youtube.com/watch?v=O54sollL9JI – saranno pubblicati per i nostri tipi.

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CALL FOR PAPERS

UMANITÀ SENZA DIRITTI

UNA PROPOSTA

PREAMBOLO

Considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali e inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo; Considerato che il disconoscimento e il disprezzo dei diritti umani hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità, e che l’avvento di un mondo in cui gli esseri umani godano della libertà di parola e di credo e della libertà dal timore e

dal bisogno è stato proclamato come la più alta aspirazione dell’uomo; Considerato che è indispensabile che i diritti umani siano protetti da norme giuridiche, se si vuole evitare che l’uomo sia costretto a ricorrere, come ultima istanza, alla ribellione contro la tirannia e l’oppressione; Considerato che è indispensabile promuovere lo sviluppo di rapporti amichevoli tra le Nazioni; Considerato che i popoli delle Nazioni Unite hanno riaffermato nello Statuto la loro fede nei diritti umani fondamentali, nella dignità e nel valore della persona umana, nell’uguaglianza dei diritti dell’uomo e della donna, e hanno deciso di promuovere il progresso sociale e un miglior tenore di vita in una maggiore libertà; Considerato che gli Stati membri si sono impegnati a perseguire, in cooperazione con le Nazioni Unite, il rispetto e l’osservanza universale dei diritti umani e delle libertà fondamentali; Considerato che una concezione comune di questi diritti e di questa libertà è della massima importanza per la piena realizzazione di questi impegni; L’ASSEMBLEA GENERALE proclama la presente dichiarazione universale dei diritti

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Vittorio Pavoncello

CALL FOR PAPERS

LE RIVISTE DI CULTURA

UMANITÀ

SENZA DIRITTI. UNA PROPOSTA

PATRIMONIO NAZIONALE

umani come ideale comune da raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le Nazioni, al fine che ogni individuo e ogni organo della società, avendo costantemente presente questa Dichiarazione, si sforzi di promuovere, con l’insegnamento e l’educazione, il rispetto di questi diritti e di queste libertà e di garantirne, mediante misure progressive di carattere nazionale e internazionale, l’universale ed effettivo riconoscimento e rispetto tanto fra i popoli degli stessi Stati membri, quanto fra quelli dei territori sottoposti alla loro giurisdizione.

biano raggiunto dei livelli inimmaginabili fino a qualche secolo fa, si deve altresì constatare che l’essere umano non è al centro di ogni attività economica e politica del mondo. E ancora in molti, troppi casi, l’essere umano è considerato un mezzo e non un fine.

Quanto segue è introduttivo alla proposta di istituire per legge che ogni nascente partito o qualunque altra forma politica inserisca nel proprio statuto la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Umanità del 1948. La legge dovrà avere valore per ogni realtà politica già costituita ed esistente, non escluse quelle che al momento dell’approvazione della legge siano al governo del paese.

INTRODUZIONE

Indubbiamente se gli Stati e le organizzazioni politiche avessero nella loro mission i diritti dell’umanità, invece, di seguire soltanto interessi nazionalistici, di cittadini patrioti, di iscritti ai partiti, di seguaci di ideologie, di corporazioni e sindacati, il mondo avrebbe un aspetto molto diverso. Ma così non è!

E sebbene i progressi nel campo dei diritti e della dignità umana ab-

Dobbiamo chiederci, quindi, se questo deplorevole comportamento continua ad accadere per una intrinseca impossibilità delle relazioni umane o per una negligenza nell’applicare quanto già esistente su molte carte che rivendicano il diritto alla dignità e alla vita per ogni essere umano?

E nel reclamare più attenzione alla vita dell’umanità si continua a negarlo per i più svariati motivi e con le più plausibili impunità, non ultime le stragi organizzate, chiamate altrimenti guerre.

A molti piace considerare che la società umana debba svolgersi come una lotta dell’uno contro l’altro, seguendo la massima del mondo classico romano: mors tua vita mea. E possiamo anche pensare che questo sia un principio valido e da applicare, da tenere in considerazione, se vivessimo in mondo puramente animale. Ma nel mondo animale, con la crudeltà che a volte lo contraddistingue, è la necessità che spinge a uccidere, ed è una necessità generalmente orientata verso delle prede specifiche, e il gioco non sconfina nel sadismo. L’uomo, invece, conosce, pur senza sconfinare nel più puro sadismo, una libido

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nell’eliminare ogni rivalità. Un gusto non solo nell’uccidere, ma nello schiacciare e costringere all’indigenza altri esseri umani per il solo piacere di trarne vantaggi, siano questi di potere o economici; e abbiamo altresì una libido che si scatena nell’annientare nemici per motivi ideologici o religiosi. La negazione dei diritti umani, con motivazioni ideologiche o religiose, merita degli approfondimenti che saranno trattati nel corso di questo testo, poiché due forme di diritto si scontrano, e a volte si riconosce la dignità di essere umano ai soli correligionari o seguaci di una medesima ideologia.

Serve, quindi, per riportare l’umanità verso se stessa, una educazione più capillare che deve iniziare dalla politica, o meglio dalla proposta, che è l’argomento di questo libro, di compiere un adeguamento degli statuti dei partiti verso la Dichiarazione Universale dei Diritti umani depositata all’ONU nel 1948. Chi, oggi, decida di entrare in politica, e anche chi in politica c’è già da molti anni, siano questi partiti, movimenti o altre forme giuridico-politiche, devono sottoscrivere la UDHR.

La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani è del 1948 e fu voluta fortemente da Eleanor Roosevelt, nelle appendici si potranno trovare i 30 punti trattati e sostenuti dalla Carta, insieme ad altre dichiarazioni che riguardano altri aspetti della vita umana.

La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani ha un valore più o meno

morale e non etico da parte degli Stati che nel 1948 furono firmatari e da parte di coloro che, oggi, li governano. Riteniamo, invece, molto importante che i punti espressi dalla Dichiarazione del 1948 siano inseriti e diventino legge, almeno in Italia e poi in altre parti del mondo, per qualunque nuovo partito che voglia costituirsi e per coloro che sono già organizzati in partito o in una qualunque altra struttura politica.

Non ci può essere, oggi, alcuna politica o alcuna visione politica, e altresì nessuna ideologia o religione, che non riconosca validi e fondati i punti espressi nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, e, quindi, che non faccia opera affinché questi principi siano applicati e perseguiti nel proprio paese e nel mondo intero.

Diritti, razzismo, schiavitù

Può sembrare strano che in un’epoca come la nostra si debba tornare a parlare di schiavitù, questa pratica, che la parola commercio definisce meglio, sembra appartenere a molti secoli fa, quando le barche per la traversata atlantica erano ancora di legno e le automobili e gli aerei ancora non esistevano. In realtà i secoli che ci separano dalla tratta degli schiavi sono poco più di due, ma questi 200 anni che ci separano in realtà sono solo le dichiarazioni di abolizione a livello internazionale del commercio degli schiavi, mentre la pratica della schiavitù è durata fino al XX secolo e dalle attuali stime persiste,

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CALL FOR PAPERS

UMANITÀ SENZA DIRITTI. UNA PROPOSTA

sebbene in forme e modi diversi, ancora oggi.

La Mauritania, ad esempio, nel 1980 è stato l’ultimo paese ad abolire ufficialmente ogni forma di schiavitù, ma nel 2000 ha visto nascere un nuovo movimento politico, l’Iniziativa per la Rinascita del Movimento Abolizionista, creato da Biram Dah Abeid. Ma se in Mauritania le cose si chiamano ancora schiavitù, nel resto del mondo c’è una discriminazione razzista dai mille colori e sfumature. Cosa dobbiamo intendere per schiavitù in epoca contemporanea?

Quelle forme di segregazione che impediscono a una persona di disporre nell’arco della sua vita della propria libertà, libertà di avere diritti, di scelta della propria vita e del proprio tempo. Le attuali forme di schiavitù variano dalla schiavitù sessuale, alla schiavitù per debiti che si tramanda anche per discendenza, alla schiavitù matrimoniale, alla schiavitù imposta ai minori sia nell’ambito del lavoro sia nello sfruttamento e traffico sessuale, e tutto questo sostenuto da ideologie o forme religiose che giustificano e fanno della schiavitù una attività sorretta da leggi naturali. Si deve anche considerare che alcune forme di schiavitù a tempo marcano le persone da un punto di vista psicologico e sociale non garantendo loro, una volta liberate o non più adatte alla prestazione alla quale erano obbligate, una possibilità di riavere una vita normale.

La riduzione in schiavitù non sareb-

be possibile se non fosse supportata dal razzismo (superiorità dell’uomo verso la donna e del bianco verso altri colori di pelle). Poiché il razzismo è alla base di ogni discriminazione fra esseri umani e vuole rendere lecito e naturale ciò che è illegale.

La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Umanità del 1948 (che si vorrebbe sia immessa nello statuto di qualunque partito o forma politica) è molto chiara in proposito:

Articolo 2

A ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione. Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico o internazionale del paese o del territorio cui una persona appartiene, sia che tale territorio sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi altra limitazione di sovranità

I motivi che, oggi, destano preoccupazione e impongono vigilanza per contrastare razzismo e schiavitù sono molteplici e vengono da più parti del mondo. Intanto, dobbiamo notare che un teorico come Alexandre Dugin, al quale si devono molte delle costruzioni filosofiche delle imprese espansioniste putiniane, non disdegna di affer-

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mare nella sua disanima e lotta al progresso con la freccia del tempo già scoccata, che queste sono pure costruzioni ideologiche e che per esempio la schiavitù potrebbe tornare.

Gli fa da eco il candidato repubblicano Ron DeSantis in corsa per le prossime presidenziali, il quale in campagna elettorale ha affermato che la schiavitù permise agli schiavi di avere dei benefici (risuonano ancora le parole del defunto Berlusconi che nel confino propinato dal fascismo vedeva una “villeggiatura”). Ma quella del candidato repubblicano Ron DeSantis non è solo una boutade da campagna elettorale (negli Stati Uniti, dopo Black Lives Matter – la vita di un nero vale – vedrà la questione razziale entrare nei temi e nei voti delle prossime presidenziali) perché l’affermazione che: “gli schiavi trassero benefici personali dal loro status, sviluppando particolari abilità” sarà inserita nel nuovo programma scolastico per gli alunni delle medie, approvato una settimana fa dal Florida Board of Education. È questa una forma primordiale di negazionismo molto blanda e iniziale ma che mira a screditare e sostituire la narrazione storica. Non bisogna dimenticare che, per i teorici dei razzismi, la suddivisione in razze dominanti e razze dominate o da dominare corrisponde a una ecologia della disuguaglianza, per la quale i dominati devono le loro possibilità di esistenza ai dominanti. Negli Stati Uniti non sarebbe stato possibile un fenomeno come il presi-

dente Donald Trump se prima di lui gli Stati Uniti non avessero espresso un presidente nero. Una scelta, quella di eleggere Obama, che si può paragonare a ciò che i nazisti definivano “l’onta nera”, chiamando così i soldati dalla pelle nera che i francesi stanziarono in Alsazia dopo il trattato di Versailles del 1919. E senza doverci allontanare troppo dall’Italia, basta ricordare le parole che nel 2013 l’on. Calderoli, durante un suo comizio per la Lega, indirizzò all’allora Ministro dell’Integrazione Cecile Kyenge, dicendo che il vederla gli faceva venire in mente un orango, e che avrebbe fatto meglio a fare il Ministro nel suo paese. Quale dovesse essere, per l’on. Calderoli, il paese dell’on. Kyenge, sebbene questa avesse ormai la cittadinanza italiana dal 1994, non lascia dubbi in proposito: l’Africa.

E così come “l’onta nera” o avere un presidente degli Stati Uniti nero –in uno dei paesi che fece una guerra civile a causa della schiavitù – generano reazioni estreme, le forme di Diritto già acquisite sono sempre in pericolo di tornare indietro di secoli, poiché l’acquisizione di dare dignità a ogni vita senza discriminazioni, per molti non è un valore universale né perenne. E, per coloro che negano questi diritti, l’essere nati in una posizione di privilegio non fa vedere loro il mondo “con gli occhi della fortuna”, che è solitamente bendata, ma li pone in un privilegio di casta e di classe, di religione, di ideologia, e di colore della pelle.

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INTERVISTA CON IGNAZIO SILONE DIALOGO TEATRALE

E non saremmo troppo preoccupati se i casi citati, che possono essere marginali, non fossero inseriti in un contesto di guerre attive nel mondo e che vedono agire: Suprematisti Bianchi attivi e bellicosi, insieme ai Fondamentalisti Islamici e insieme alle nuove caste del denaro. Tutti agenti in un mondo dove la vita fra poco varrà meno di un sorso d’acqua, e il proprio vicino per sopravvivenza, con la logica dei lager nazisti, può diventare il proprio aguzzino.

Le nuove forme di produzione non hanno più bisogno di pace e di sistemi politici in pace, ma essendo nate e prolificate nei conflitti hanno bisogno di questi, perché da tempo si sono innescate delle economie di guerra, siano queste reali o finanziarie, che non sanno più uscire da se stesse, e che vivono della disparità e della discriminazione. E presto, come si possono bruciare milioni di danaro si potranno bruciare milioni di persone.

C’è, quindi, bisogno, affinché l’essere umano non risprofondi in uno stato animale al quale i cambiamenti climatici non darebbero alcuna possibilità di sopravvivenza, che ogni struttura politica abbia come riferimento la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Umanità, inserita nelle proprie dichiarazioni statuali. E questo obbligo deve essere una conditio sine qua non, senza la quale ogni accesso a una qualunque attività politica deve essere preclusa.

La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e l’Intelligenza Artificiale Potrà sembrare strano che in un testo che ha per oggetto l‘umanità e i suoi diritti si parli di A.I, l’accostamento però è tutt’altro che irrilevante, poiché sebbene l’Intelligenza Artificiale sia un prodotto della cultura e del progresso dell’umanità, e quindi come tale avrebbe diritto alla sua analisi, nel caso specifico dell’A.I. i campi di applicazione e le modalità dell’Intelligenza Artificiale generano, anche, non poche domande in relazione alla definizione di essere umano e di robot.

Da sempre l’essere umano si è servito di macchine, usando le forze elementari in sostituzione del lavoro umano arrecando così sollievo alla fatica ma contemporaneamente aumentando l’alienazione generale che il lavoro alla macchina produce. Non è questa la sede, però, per discutere del complesso rapporto di essere umano e macchina nei processi produttivi e conseguentemente dell’interazione di lavoro uomo/robot.

Sicuramente, poiché la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani attesta che ogni essere umano debba poter aver un lavoro e svolgerlo nelle condizioni che ne rispettino la sua dignità di essere umano, la relazione fra A.I. e la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani ha una sua importanza e rilevanza, ma altresì non può essere impugnata la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani per contrastare l’Intelligenza Artificiale.

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La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e l’Intelligenza Artificiale potrebbero, però, avere dei punti di contatto nella scelta delle priorità e, quindi, immaginare delle società distopiche dove esistono delle macchine con diritto di cittadinanza di serie A ed esseri umani con diritti di cittadinanza di serie B. Questa ipotesi distopica potrebbe non essere così irreale, e il costo di una produzione o di riproduzione di una macchina-robot potrebbe essere così elevato da preferire la scelta di vita di una macchina a quella di un essere umano, fino al punto di preferire delle città abitate da macchine a delle città abitate da esseri umani, che potrebbero avere delle spese di gestione ritenute inutili rispetto a società costruite e organizzate da robot. Città in cui un ristretto cerchio di esseri umani potrebbe beneficiare di tutti i comfort senza i rischi dell’imprevedibilità umana, qualunque sia questa imprevedibilità, anche quella della rivolta per una maggiore equità sociale.

Ciò che, invece, potrebbe essere centrale nel rapporto fra A.I. e la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani è la vita umana in sé e il diritto alla vita. Posta in questi termini la questione non può che riguardare l’uso dei robot in guerra che pongono tanti problemi agli stessi militari che se ne servono.

Di recente un generale americano ha messo in luce, sebbene ancora sul piano teorico, che un robot potrebbe uccidere il suo stesso costruttore, se

questo volesse modificare l’ordine di un attacco che è stato impartito al robot. Immaginiamo che un drone abbia il compito di eseguire una missione e di distruggere chiunque si opponga a questa, se colui che ha dato il via all’attacco dovesse ripensarci e cercasse di modificare l’ordine, il robot percepirebbe questo tentativo di modifica come una interruzione e disturbo dal suo obiettivo e di conseguenza farebbe tutto ciò che è in suo possesso per distruggere colui che ha impartito l’ordine di modifica. Questo è un caso limite, che ha destato riflessioni e preoccupazioni in un generale americano, ma già da alcuni anni gli stessi creatori di A.I. stanno mettendo in guardia sui rischi di una possibile estinzione del genere umano causata dalla Intelligenza Artificiale.

I robot sui quali ci si sta concentrando maggiormente, poiché gli scopi dell’A.I. non sono solo di: auto senza pilota con riduzione degli incidenti dovuti alla umana fallacia o distrazione da cellulare, interventi chirurgici sempre più precisi e sofisticati da agire da remoto con luminari medici/ ingegneri che potranno impostare interventi chirurgici da far eseguire dai loro assistenti, cure su ogni possibile malattia da trattare geneticamente e con campionature eseguite da computer, costruzioni di edifici e città con stampanti in 3D, computer che potranno, rilevando impercettibili cambiamenti, pronosticare possibili cataclismi naturali salvando così migliaia di persone dalla morte… ma gli scopi

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per i quali si progettano Intelligenze Artificiali sono anche quelli di distruggere il maggior numero di nemici con la minor perdita di forze umane del proprio esercito. Così l’A.I. è molto studiata in ambiti militari per colpire i nemici in luoghi impervi o che comporterebbero missioni pericolose per i soldati, e i droni sono ottimi per questi scopi.

I droni non sono delle armi, ma trasportano armi. Anche le armi che i droni trasportano possono essere altamente preparate tecnologicamente per impattare e distruggere con la maggiore violenza e distruttività possibile il nemico, ma i droni sono mezzi che potrebbero avere anche l’autodistruzione come scopo ultimo della missione, insomma dei kamikaze dal cuore di microchip.

L’uso dei droni per azioni militari fu autorizzato da George Bush jr. per sconfiggere il terrorismo dopo l’attacco delle Torri Gemelle e fu esteso e implementato da Obama. Attualmente i droni sono utilizzati nel conflitto russo ucraino. Sebbene la loro specialità sia quella di interventi chirurgici tesi a colpire solamente i soggetti interessati, spesso, poiché gli obiettivi primari vivono spesso in ambienti con altre persone, l’intervento chirurgico si risolve più verso l’ambiente in cui il nemico vive che verso il nemico stesso. Ovviamente, quando si è in guerra è assai difficile distinguere o colpire solo elementi militari, ma quest’argomentazione, che rientra nella crudeltà della guer-

ra stessa, ci permette di accostare ulteriormente e con diverso significato l’Intelligenza Artificiale con la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.

Sarà utile, quindi, associare un punto della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani con altre leggi come quelle stilate da Isac Asimov in merito al comportamento dei robot verso gli umani.

Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, Articolo 3 Diritto alla vita Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona.

Le tre leggi della robotica di Asimov recitano:

1. Un robot non può recar danno a un essere umano né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, un essere umano riceva danno.

2. Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non vadano in contrasto alla Prima Legge.

3. Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché la salvaguardia di essa non contrasti con la Prima o con la Seconda Legge».

Confrontando le leggi di Asimov con quelle della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani appare evidente che, se le leggi di Asimov che dovrebbero regolare il comportamento e l’uso dei robot, fossero applicate i dro-

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ni a scopo bellico non potrebbero esistere né essere usati nei conflitti.

La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e la regolamentazione che Asimov propone per i robot hanno la vita dell’essere umano come bene primario e da salvaguardare.

Ovviamente, non possiamo altresì eludere il problema che, se si è a conoscenza di un possibile attacco terroristico che comporterebbe la morte di innocenti, l’utilizzo di un drone potrebbe essere la risposta più adeguata a fermarlo. Tutto ciò non risolve però la questione generale sui rapporti fra robot e umanità. E le attuali problematiche inerenti all’Intelligenza Artificiale vertono su come dotarla dei nostri valori, sia per costruire robot che siano di vero ausilio a tutta la nostra vita sul pianeta sia per evitare che alcuni ordini impartiti alle macchine arrivino a distruggere la vita umana, e non solo questa sul pianeta Terra. E, quindi, ci si chiede quali debbano essere i valori da dare alle macchine dotate di Intelligenza Artificiale. La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Umanità ci appare, quindi, come un codice etico di cui dotare i robot e al quale dovrebbero attenersi nei casi di dubbio.

Fai per il prossimo tuo come per te stesso

Siamo obbligati nella nostra situazione attuale a dover fare confronti tra le religioni e i diritti dell’uomo. Interrogativi troppo spesso ricorrenti, perché vediamo che in Stati dove un fondamentalismo religioso è al potere, troppo spesso i diritti umani sono negati. Anzi, non soltanto i diritti contenuti nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani sono negati ma vengono applicate sanzioni e pene derivate da leggi basate su presunti ordini religiosi o divini.

Anche nelle società occidentali l’influenza religiosa è, se non coercitiva da un punto di vista dei diritti e doveri imposti dalla religione, molto presente. Si fanno passare come leggi di natura realtà che sono soltanto applicazioni di leggi religiose. Il riferimento è immediato alle discriminazioni che avvengono verso quelle persone che decidono di vivere una sessualità diversa da quella che si vorrebbe impartita da leggi divine, e che ancora, oggi, si tramutano in ordinamenti sociali e fondamenti dello Stato tesi a discriminare tutto ciò che non si orienta in una coppia eterosessuale o in una costituzione di famiglia.

Tutte le religioni, quantunque dicano di porre al centro della loro attenzione e finalità l’essere umano, nei convegni interreligiosi convergono su di una umanità abbastanza astratta e alla prova pratica inesistente. Questo perché ogni religione inevitabilmente privilegia il proprio credo, il proprio

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punto di vista, la propria fede e la propria appartenenza. Gli altri sono equiparati e/o tollerati, ma se si trovano in una situazione di potere, sono combattuti o altrimenti annientati se costituiscono una minaccia per la fede ufficiale. L’uomo, l’essere umano, per ogni religione è in primis l’adepto, il fedele, il professante la religione di origine o quella scelta (laddove la scelta o la conversione sono ammesse e garantite dalla religione al potere o di maggioranza). A quest’uomo, a questo essere umano, il correligionario, vengono conferite tutte le qualità e tutte le virtù, compresa quella della giustizia, della equità, e le virtù che in generale possiamo considerare positive.

Inevitabilmente, tutto ciò determina che gli altri, benché non siano considerati immediatamente come degli esseri umani che sbagliano, siano considerati esseri umani diversi. Su questa diversità, che esiste ovviamente antropologicamente, socialmente, culturalmente, le religioni pongono delle asserzioni di differenza incommensurabile. E meglio sarebbe, per ogni religione, avere un mondo uniprofessante, una medesima religione per tutti, e a tal fine e scopo la struttura delle diverse confessioni si organizza.

Su quale debba essere questa religione unica la storia dell’umanità è ricca di eventi e guerre.

Certo, oggi siamo lontani dal mors tua, vita mea dei romani ma spesso vediamo, anzi, troppo spesso vediamo

che questa regola di vita gestisce i nostri comportamenti anche se ciò avviene in ambito economico.

I conflitti che ancora oggi dirigono e gestiscono la vita degli esseri umani possono sembrare qualcosa di intollerabile e di ipocrita in chi predica il bene e lotta religiosamente per il bene del mondo.

Assistiamo perciò ai macabri rituali e alle crudeli leggi dei fondamentalisti islamici, a cui si affacciano ora i fondamentalisti ebraici, così come fondamentalisti sono coloro che vedono la loro vita come una missione tesa all’evangelizzazione del mondo intero, dove per rendere più efficace e contemporaneo non il messaggio ma il mezzo del messaggio si benedicono gli influencer cattolici che operano ora attraverso il mondo digitale.

E i diritti?

I diritti contenuti nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Umanità?

Per chi sono questi Diritti?

A quale essere umano parlano e si riferiscono?

A quale società si rivolgono?

Non sono questi diritti espressione di una umanità che non ha più bisogno di divinità per darsi delle leggi?

Quante volte i diritti contenuti nelle Costituzioni, nelle Carte e nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Umanità sono visti come abomini da chi professa religioni che troppo

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spesso si nascondono dietro la democrazia per poi potersi affermare in tutta la loro intolleranza che nasce e perpetua i conflitti delle loro origini?

Tutte le religioni sembrano creare oasi di perfetta vita nell’amore, nell’amare… ma per amore si uccide, per amore si è gelosi fino allo stalking, per amore si è invidiosi, e per amore si può commettere qualunque azione! E spesso si dice che queste estremizzazioni dell’amore non sono il vero amore, che il vero amore è sacrificio per l’altro, offerta di sé all’altro, ma noi troppo spesso siamo stati costretti a vedere i lati oscuri dell’amore, poiché è questo un sentimento e come tale ambiguo e sfaccettato, per cui diventa difficile volerci costruire, edificare i rapporti di una organizzazione sociale.

La definizione, forse, più esatta non è tanto nell’ama il prossimo tuo come te stesso, poiché nelle nostre società è l’odio di sé, e l’alienazione da sé che gestiscono i nostri comportamenti di amore. E meglio sarebbe tradurre con fai per il tuo prossimo come per te stesso, la famosa frase biblica di amare il prossimo come se stesso. Poiché questa interpretazione meglio si accorda ai recenti studi, esegesi e riflessioni sulla scrittura originale del testo biblico.

Giacché in questa definizione è implicita l’azione, l’agire per il prossimo, come se si trattasse di se stessi. Ognuno per se stesso vorrebbe la dignità di essere umano e di essere rico-

nosciuto come tale, e fare in modo, quindi, che altri lo siano è conferire loro un diritto che si vuole per se stessi, facendo per il prossimo ciò che si fa come per se stesso. Riconoscere l’altro essere come essere umano è, quindi, riconoscersi come essere umano, e conferisce valore e significato alla parola universale, che vale per tutti e per se stessi.

L’amore può spingere a fare il bene, mentre il fare, di per sé, viene prima dell’amore ed è immediato, perché la dignità umana prima ancora di essere amata sia riconosciuta.

Gli stranieri siamo noi

Per parlare di un caso italiano ma che è comprensivo delle più ampie realtà sovraniste europee, dobbiamo considerare che in ambito europeo –continuando con delle politiche che trascurano o applicano in maniera discriminatoria i diritti dei cittadini –gli stranieri siamo noi o saremo noi per le nostre politiche nei confronti degli stranieri a essere considerati tali e non europei. Appare paradossale, quindi, che le politiche che non riconoscono i diritti degli stranieri rendano stranieri coloro che le pensano e applicano in ambito europeo.

Questa impasse è evidente, ed esiste fintanto che l’Unione Europea continua ad avere una sua capacità di governo e capacità di coesione fra gli Stati. Qualora la forza dell’Europa venga meno, a tutto vantaggio degli Stati già sovranisti, noi assisteremo a una politica europea discriminatoria

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e che non applicherebbe i punti della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Umanità. Una Europa così fatta diciamo che verrebbe a essere snaturata dai suoi principi costituenti e fondativi, ma dobbiamo altresì riconoscere che con l’Unione dell’Europa si è iniziato a parlare e a definire persone come extracomunitarie. L’extracomunitario può essere chiunque, ma un cittadino degli Stati Uniti è considerato differente da un extracomunitario africano, anche perché non c’è una migrazione dagli Stati Uniti come quella che arriva dall’Africa.

L’Unione Europea ha a sua volta stilato una carta dei diritti che presenta alcune incongruenze o anomalie:

(2000/C 364/01)

Articolo 21

Non discriminazione

1. È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza a una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali.

Perché inserire la parola “razza”?

Per l’Unione Europea dopo aver

fatto tutti i distinguo su colore della pelle, origine etnica, caratteristiche genetiche, esiste una razza?

Per l’Unione Europea la parola razza ha un valore che per gli scienziati non ha?

È vero che l’Unione Europa non fa distinzione fra le razze umane ma ciò significa che per l’Unione Europea le razze umane esistono?

La dichiarazione dell’Unesco del 1950 riconosce alle razze una valenza in ambito fenotipico:

Una razza, dal punto di vista biologico, può essere definita come uno dei gruppi di popolazioni che costituiscono la specie Homo sapiens. Questi gruppi sono in grado di ibridarsi l’uno con l’altro, ma, in virtù delle barriere isolanti che in passato li tenevano più o meno separati, manifestano alcune differenze fisiche a causa delle loro diverse storie biologiche. In breve, il termine “razza” indica un gruppo umano caratterizzato da alcune concentrazioni, relative a frequenza e distribuzione, di particelle ereditarie (geni) o caratteri fisici, che appaiono, oscillano, e spesso scompaiono nel corso del tempo a causa dell’isolamento geografico.

Questa definizione di razza è stata rivista in una nuova conferenza e dichiarazione dell’Unesco l’anno successivo. E nel 1951, a causa delle proteste che la prima dichiarazione aveva suscitato, pur facendo delle correzioni, la commissione dovette annun-

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ciare il proprio fallimento nel trovare una parola che sostituisse la parola razza.

Since race, as a word, has become coloured by its misuse in connection with national, linguistic and religious differences, and by its deliberate abuse by racialists, we tried to find a new word to express the same meaning of a biologically differentiated group. On this we did not succeed, but agreed to reserve race as the word to be used for anthropological classification of groups showing definite combinations of physical (including physiological) traits in characteristic proportions.

Fra le due dichiarazioni che sarà possibile consultare in appendice esistono molti punti di convergenza, e indubbiamente la Dichiarazione Europea entra maggiormente nel dettaglio di ciò che deve essere il lavoro e le possibilità associative, ma la Dichiarazione del 1948 resta la pietra miliare di ogni possibile codicillo o integrazione. È, quindi, importante che ogni Stato che fa parte dell’Europa riconosca nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Umanità, e in quelli che sono i suoi principi fondativi, la punta più avanzata del riconoscimento della dignità di ogni essere umano.

Il genoma umano è la prova dei diritti

La libertà, la dignità e il diritto alla vita, non sono solo una prerogativa

del macrorganismo e dell’individuo ma questi diritti nella nostra epoca interessano anche il mondo infinitamente piccolo della cellula e del DNA. Indubbiamente, con il rispetto della dignità umana si arriva all’essenza di ciò che la costituisce da un punto di vista materiale, e così come non si può danneggiare un arto di un essere umano non si può ferire o alterare il DNA che li forma. Ognuno è proprietario di sé, ognuno è proprietario della propria malattia. Anche se le possibilità che ogni individuo ha di accedere al proprio DNA non sono le stesse con le quali si accede a muovere un braccio, oppure nell’articolare e formulare un pensiero.

Nel 1997 l’UNESCO ha sentito l’esigenza di pronunciarsi con una Dichiarazione universale dei diritti umani e il genoma umano. Nel preambolo nel quale si ripetono e ripassano tutte le dichiarazioni compresa la carta del 1948 è scritto:

Ricordando che il preambolo dell’Atto Costitutivo dell’UNESCO invoca «l’ideale democratico di dignità, di uguaglianza e di rispetto della persona umana» e rifiuta ogni «dogma dell’ineguaglianza delle razze e degli uomini» precisa che «la dignità dell’uomo che esige la diffusione della cultura e l’educazione di tutti per il raggiungimento della giustizia, della libertà e della pace, comporta sacri doveri per tutte le nazioni da adempiere con spirito di reciproca assistenza».

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INTERVISTA CON IGNAZIO SILONE DIALOGO TEATRALE

Appare, quindi, evidente che ciò che viene formulato anche in sede UNESCO non può rimanere solo una Dichiarazione sulla carta poiché comporta “sacri doveri per le nazioni” e, quindi, ci appare sempre più evidente che qualunque realtà politica debba inserire la Dichiarazione Universale dei diritti dell’Umanità nel proprio statuto e perseguirne le finalità.

Chi vuole il bene della nazione non può non inserire questo bene nella più ampia comunità e famiglia umana, e questo si deve tradurre in programmi che siano il più possibile rivolti a forme di cooperazione e solidarietà, poiché la ricerca genetica e le attuali scoperte del microcosmo ci hanno mostrato in modo inequivocabile che il genoma umano è unico! È su questa identità comune che si basa la famiglia umana!

In questa comune identità genomica non ci sono ineguaglianza e differenze razziali! Poiché è più importante come la struttura che dà luogo alla vita si formi nel suo insieme generale, piuttosto che rilevare diversità (che si vogliono marcare come indissolubili differenze) biogeografiche.

Il genoma umano, la sua mappatura, vanno visti come prove che le razze non esistono, e che questa parola andrebbe eliminata come una inesattezza. E poiché, ahinoi, il razzismo si è voluto anche scientifico, il genoma umano mostra l’infondatezza dei presupposti scientifici di qualunque razzismo, sia questo genetico, culturale,

di genere. Si dovrà mantenere la parola razza solo come fatto storico, che ha segnato un momento della civiltà umana, un suo momento non certo esaltante, ma tuttavia che ha avuto una sua esistenza storica nella vita umana, sebbene questa esistenza sia stata nefasta e non sia stata coincidente con la verità. Ed è per questo che i razzisti, oggi, come ieri e come domani, vanno combattuti poiché vogliono fare di una menzogna una realtà. E vogliono che uno sbaglio dell’umanità costituisca la sua verità fondamentale.

Il genoma umano è là, a mostrare con la sua mappatura che tutti gli esseri umani sono inequivocabilmente uguali, e che come tali lo devono essere, anche in accordo con i principi e valori della Dichiarazione del 1948. Appaiono, allora, sempre più attuali le parole di Shylock che sono adatte a ogni essere umano e gravide di conseguenze per ogni relazione fra esseri umani:

…E dunque?

Non ha forse occhi un ebreo?

Non ha mani, organi, membra, sensi, affetti e passioni?

Non si nutre egli forse dello stesso cibo di cui si nutre un cristiano?

Non viene ferito forse dalle stesse armi?

Non è soggetto alle sue stesse malattie?

Non è curato e guarito dagli stessi rimedi?

E non è infine scaldato e raggelato dallo stesso inverno e dalla stessa

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estate che un cristiano?

Se ci pungete non versiamo sangue, forse?

E se ci fate il solletico non ci mettiamo forse a ridere?

Se ci avvelenate, non moriamo?

E se ci usate torto non cercheremo di rifarci con la vendetta?

Se siamo uguali a voi in tutto il resto, dovremo rassomigliarvi anche in questo. Se un ebreo fa un torto a un cristiano, a che si riduce la mansuetudine di costui?

Nella vendetta.

E se un cristiano fa un torto a un ebreo, quale esempio di sopporta-

zione gli offre il cristiano?

La vendetta.

La stessa malvagità che voi ci insegnate sarà da me praticata…

Con la mappatura del genoma umano, l’essere umano ha acquisito una parte importante della propria esistenza e vita. Può vedere se stesso in una immagine e somiglianza che è quella della propria vita. E parlando di vita, è evidente che si parli di dignità, tutela e rispetto di questa, in conformità con i principi della Dichiarazione Universale dei diritti dell’Umanità.

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LALEZIONE DELL’ONU

Lo scorso 10 dicembre era il settantacinquesimo anniversario della Dichiarazione Universale dei diritti umani. Non una ricorrenza come un’altra. Una data davvero, e non retoricamente, significativa, che fa memoria di un evento di enorme portata storica. In un mondo appena riemerso dalle macerie fumanti della Seconda guerra mondiale, dalle Nazioni Unite giungeva un messaggio forte1, che poneva al centro il valore fondamentale, e insopprimibile, della dignità della persona umana. Di ogni singola persona umana. Non tutti votarono a favore della Dichiarazione, anche se

nessuno votò contro. Si astennero Arabia Saudita (per la quale donne e uomini non potevano essere titolari degli stessi diritti), Sudafrica (che allora praticava l’apartheid) e i Paesi dell’Est europeo, per motivi evidentemente diversi. Per realtà statuali che proclamavano di star realizzando i diritti «sostanziali» promossi dal «socialismo» soffermarsi su questioni «formali» di libertà (come quelle riaffermate solennemente in quel documento) doveva apparire cosa, evidentemente, superflua o superata dal corso della storia. Ma la storia ha poi ampiamente dimostrato che, senza il rispetto dei diritti «formali», anche quelli cosiddetti «sostanziali» deperiscono, declinano o vengono fortemente limitati o, addirittura, soppressi.

È la lezione che può essere ricavata dalle vicende, ambivalenti e complesse, del Novecento, il «secolo breve» che, in troppi contesti e in tante occasioni, ha sofferto della drammatica contrapposizione (spesso messa in atto per motivi ideologici) fra i valori della giustizia e quelli della libertà. Ma, intanto, andrebbe detto che nella Dichiarazione Universale del 1948 tale scissione non c’è. È un testo che,

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nei suoi articoli, propone e sostiene, insieme, diritti politici, diritti civili e diritti sociali. L’insegnamento che si può trarne è chiaro ed esplicito. Invita a rispettare la libertà di pensiero, di espressione, di stampa e di culto, ma anche la libertà di movimento (si pensi all’importanza di tale riferimento in un’età, come quella attuale, caratterizzata da forti migrazioni) e il diritto di asilo per sfuggire a persecuzioni, il diritto all’istruzione, al lavoro e al rispetto della dignità del lavoro e a un salario equo.

Oggi, poi, come tanti studiosi (si pensi a Marcello Flores) ricordano, è importante rileggere la Dichiarazione, coglierne il significato profondo e aggiornarne l’interpretazione alla luce dei diritti di «nuova generazione», dell’importanza (dell’urgenza, bisognerebbe anzi dire) che ha assunto la questione ecologica o della rilevanza che va data, in un’ottica davvero planetaria, al tema della parità di genere e dei diritti delle donne. Le enunciazioni contenute nei trenta articoli allora approvati e i principi in essi proclamati non sono fatti per rimanere sulla carta. Ai nostri giorni, tutti, a parole fanno, del resto, riferimento ai diritti umani. Ma si creano talora situazioni non poco paradossali. Come è stata quella dell’occasione in cui la presidenza di un importante organismo internazionale delle Nazioni Unite, che di diritti umani dovrebbe occuparsi, è stata affidata a un Paese come l’Iran. In realtà, in larga parte del mondo, come è purtroppo noto, il rispetto dei

diritti (di tutti i tipi: civili, politici e sociali) è prospettiva di là da venire. Basta consultare il mappamondo o il planisfero (come faceva abitualmente don Milani, con i suoi ragazzi, nella sperduta scuoletta di Barbiana, tenendo sempre idealmente le finestre aperte sulle vicende del pianeta) per rendersi conto di quanto e di come la libertà, per non parlare della giustizia, siano merce rara. Questo è vero, naturalmente, a vari livelli, negli stati autoritari o autocratici, nei Paesi illiberali e sotto le dittature, comunque connotate dal punto di vista ideologico. Di nomi e di «casi»

ne vengono in mente tanti: Afghanistan, Iran, Arabia Saudita, Yemen, Siria, Myanmar, Sud Sudan, e così via seguitando. Il proliferare delle guerre, d’altra parte, mette tragicamente in discussione (come avviene in Ucraina, Israele-Palestina, ma anche e ancora nello Yemen o in Siria) il diritto primario all’incolumità fisica e alla vita. Detto questo, intendiamoci: non è che nelle nostre democrazie, attraversate spesso da preoccupanti segni di destabilizzazione e di crisi, siano tutte rose e fiori. Sappiamo che non è così. Sperequazioni sociali, ingiustizie e situazioni di

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LALEZIONE DELL’ONU

scarsa considerazione della dignità della persona sono presenti, eccome. Basti pensare a come, nel nostro Paese, si presenti, troppe volte e in troppe realtà e situazioni, la «questione carceri».

Dunque, riprendere in mano la Dichiarazione Universale non è solo un compito per studiosi (che, certo, è importante che ne parlino e ne riprendano, approfondiscano e diffondano lo spirito). Da lì si ricava anche un autentico programma, culturale e politico, per la pratica diffusa della cittadinanza attiva. È a partire da un tale riferimento che può essere anche ricostruita e promossa la «buona politica». Tutto il sostegno, dunque, agli amici che ritengono che i partiti politici, non a parole, ma nella so-

NOTE:

stanza, dovrebbero riconsiderare sé stessi alla luce della cultura dei diritti umani. C’è un importantissimo capitolo di educazione civica, nel senso più alto del termine, che, su questa base, potrebbe essere concepito, strutturato e scritto. È questione che riguarda tutti noi, ogni cittadino e cittadina.

Diceva Eleanor Roosevelt (di cui tutti ricordiamo la foto emblematica in cui ha in mano un gigantesco rotolo con il testo della Dichiarazione) che il rispetto dei diritti si valuta a partire dalla situazione concreta, e specifica di ogni singola persona, del singolo e specifico caseggiato, del singolo quartiere o della singola fabbrica. È proprio a partire dal particolare, dunque da quello che si muove strettamente attorno a noi (e di cui siamo chiamati a prendere responsabilmente coscienza) che si pongono i fondamenti e si riconoscono i tratti della caratteristica di fondo della dimensione dei diritti umani, che è la loro universalità. Un’universalità che nel 1948 fu solennemente proclamata e che oggi, al di là di ogni fuorviante relativismo, siamo chiamati a riscoprire e a riaffermare nel nostro mondo della complessità.

1 Sulla forza e, soprattutto, sull’attualità di questo messaggio, la rivista «Testimonianze» ha proposto una riflessione (a cui hanno dato il loro contributo autorevoli amici, attivisti e studiosi) nel volume (nn. 552-553) di carattere monografico (realizzato in collaborazione con Amnesty International Italia) dal titolo Per un «atlante» dei diritti umani (a cura di Miriana Meli, Riccardo Noury, Martina Ucci, Severino Saccardi). Il volume è stato presentato il 10 dicembre 2023, alla manifestazione Più Libri Più Liberi, nel corso di una manifestazione promossa dal Cric (Coordinamento riviste italiane di cultura), da Amnesty International e da «Testimonianze».

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QUALORASI PONGALALIBERTÀALLABASE…

Appare evidente che nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 l’intero impianto, in linea con la tradizione razionalistica del pensiero occidentale, prenda le mosse nello stesso Preambolo da un incipit di base che, dopo le esperienze totalitarie della prima metà del ’900 e gli eventi più tragici del dramma del secolo costituiti dalla catastrofe della Seconda guerra mondiale, non possa non risiedere proprio nel principio di libertà. Esso viene a costituire invero la Grundnorm da cui si sviluppa tutto il discorso e il connesso articolato.

D’altra parte, muovendosi nel solco di una prospettiva politica che può essere definita anche se in maniera stenografica come liberaldemocratica secondo i principi costitutivi dell’Onu nella loro genesi postbellica non potevano non fondarsi anch’essi su un piano che si potrebbe definire, anche qui in maniera alquanto sintetica, della legalità (come del resto appare esplicitamente dichiarato nel terzo capoverso dello stesso Preambolo).

Ora, se si assume la libertà come principio appunto universale, la correlazione tra libertà e legalità non sempre può apparire immediatamente

evidente, se concettualmente non viene situato in maniera chiara il primo termine nell’autonoma provincia di significato in cui lo si intende assegnare. Ciò vuol dire che si è di fronte a una tipologia differenziata a più posizioni del concetto di libertà e, una volta che queste siano state definite, occorre capire quale tipo scegliere per proseguire l’analisi.

Nel presente scritto si parte dall’assunto che in tutta la storia del pensiero occidentale, dai presocratici fino ai nostri giorni, il concetto di libertà sia stato sempre al centro della

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QUALORASI PONGALALIBERTÀALLABASE…

LE RIVISTE DI CULTURA

PATRIMONIO NAZIONALE

riflessione secondo due direttrici ben precise: 1) la libertà intesa come prerogativa dell’individuo astratto, ovvero ente metastorico ed extratemporale; 2) la libertà intesa come prerogativa dell’individuo sociale.

Chiaramente è da questa seconda accezione che si intende partire per sviluppare uno specifico discorso anche se la prima può servire a meglio creare il chiaroscuro tra le due forme e perciò qui valere come sfondo concettuale dal quale si staglierà più nitidamente la seconda.

Quando si afferma che fin dalle scaturigini del pensiero occidentale si sia posto il problema della libertà, questa affermazione in effetti può riguardare finanche i primissimi filosofi, gli ilozoisti, che attraverso gli Ionici Talete, Anassimandro,Anassimene hanno inteso trovare il principio, l’arché, di tutte le cose visibili e invisibili. E tale principio in tutti e tre i casi, e rispettivamente acqua, apeiron e aria, ha sempre la connotazione dell’infinito. A fortiori l’apeiron anassimandreo considerato come inizio di tutte le cose viene declinato e tradotto pro-

prio come infinito. Gnomiche e lapidarie le parole che si trovano nel frammento di Simplicio e attribuite al pensatore greco:

Ἄναξίμανδρος ... ἀρχήν....εἴρηκε

E tale infinito una volta che entrerà nel discorso morale di Socrate diventerà libertà. Da ricordare come secondo il giovanissimo Marx nella sua dissertazione dottorale del 1841 già la dottrina del clinamen di Epicuro, pur da filosofo dell’astratta coscienza individuale, proromperebbe in un concetto di libertà con una forza tale da trascendere l’atomismo meccanicistico di Democrito.

Ma è con Socrate che si ha la scoperta che il conoscere non possa essere disgiunto dal fare, come ebbe a notare il giovane Antonio Labriola nel 18711 e che pertanto la libertà sia coscienza della necessità di costruire al di là delle passioni il proprio cammino attraverso la responsabilità delle scelte. Il concetto di libertà come principio infinito permeerà di sé il pensiero fino all’interno della più complessa riflessione speculativa della modernità che si apre con il grande razionalismo di Baruch Spinoza e GottfriedWilhelm von Leibniz per arrivare all’ultimo, in ordine storico, degli allievi dello stesso Leibniz e cioè Christian Wolff.

La causa sui come causa causante e non causata in Spinoza si presenta nella sua sostanzialità proprio come l’infinito concetto di libertà che si

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ὄντων τὸ ἄπειρον ... ἐξ ὧν δὲ ἡ γένεσίς ἐστι τοῖς οὖσι…
τῶν

esplicita nella complessità delle forme del mondo mantenendo la propria identità e non divenendo mai qualcosa di altro da sé.

Si tratta di un’identità sostanziale che rimanda appunto allo stesso concetto di sostanza, come la definisce lo stesso Spinoza nella sua Ethica: «Per substantiam intelligo id quod in se est et per se concipitur» e che riconoscendosi immediatamente come tale non ha necessità di trasmigrare nell’altro da sé, come l’avrebbe vista successivamente Hegel il quale non poteva concepire immediatamente un concetto già in sé e per sé dovendo il suo λὀγος oggettivarsi alienandosi proprio nell’altro da sé per riconoscersi, alla fine del viaggio dialettico, come Spirito. A questo proposito bisognerebbe notare come lo stesso Hegel, che aveva scritto «o si è spinoziani o non si è filosofi», di fatto una volta apprezzato Spinoza per la nozione di “infinito” dimenticava lo stesso presupposto della iniziale causa sui per elaborare il grande romanzo dell’alienazione e della risoluzione dialettica delle contraddizioni attraverso la mediazione tra l’in sé e l’altro da sé. Ma il punto è che il concetto di libertà è infinito perché universale, ma proprio per questo non può esaurirsi nella gabbia dell’individuo astratto, come tante volte già nella filosofia greca appare, bensì nella molteplicità del concreto/reale e quindi può solo risolversi nel mondo esterno in cui il vieto individuo astratto diventa perciò concreto nell’incontro e nella comuni-

cazione con gli altri individui. E l’alterità in tal guisa, lungi dall’essere l’“altro da sé”, risulterebbe invero mostrarsi come lo specchio del sé. Benedetto Croce forse partirà da questo assunto, date le premesse giovanili, anche se poi dovrà situare il concetto di libertà nel letto di Procuste della sua dialettica dei distinti. In particolare, per Croce la libertà rappresenta il supremo ideale morale che si realizza/i nella storia. Essa è insita in ogni forma di vita, in ogni momento della storia e appunto per questo esso è collegato al concetto di autorità «che non sarebbe senz’esso, non potendosi dare autorità se non vero ciò che è vivo, e vivo è soltanto ciò che è libero»2 .

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QUALORA

Il legame, perciò, fra libertà e autorità conduce immediatamente alla differenza che vive tra tale visione e quella del liberalismo classico dal momento che un rapporto così delineato rende chiaro il concetto di limite di ogni individuo nell’intimo rapporto tra libertà e autorità. Croce l’argomenta in guisa di una concezione “metapolitica” che quindi viene a trascendere ogni morfologia teoretica in quanto, concepita come una vera e propria religione della libertà, viene a mettere in essere una peculiare Weltanschauung.

Insomma, è come per Spinoza, ma diversamente da Spinoza, una sorta di causa sui, un principio infinito che svolge se stesso nello scorrere della storia sulla base di una dialettica di tale svolgimento che perciò «mercé la diversità e l’opposizione delle forme spirituali, accresce e nobilita di continuo la vita e le conferisce il suo unico e intero significato»3. Pertanto, l’idea di libertà per Croce risulta immanente alla realtà e nega ogni tipo di esplicabilità trascendente, si dispiega perciò aliena a ogni forma di schematismo che si precipiti dall’esterno e tutto ciò produce nella vita pratica la conseguenza che il pensiero crociano non possa non rigettare qualunque tipo di autoritarismo.

Perciò l’etica, ovvero la religione della libertà, in tale prospettiva appare come un incessante sviluppo dello Spirito attraverso un progressivo perfezionamento morale prodotto dall’incessante lotta tra le distinte

componenti del mondo degli uomini. Improntata a una visione per certi aspetti agganciata a un’ottica teleologicamente escatologica, la posizione di Croce rifugge, in sintonia con i presupposti del proprio pensiero e della ricerca dei fondamenti logici nella loro purezza, da qualunque tentativo di porre sul piano pratico e non etico la tematica della libertà. A tale presupposto aggiunge il rigetto dell’economia come chiave esplicativa principale della realtà, da un lato, nonché l’abbinamento dell’endiadi nella possibilità di convivenza delle stesse nel rapporto giustizia-libertà, dall’altro.

Da qui altresì il suo considerare pseudoproblema la distinzione della libertà degli antichi da quella dei moderni di cui parla Constant in quanto la libertà per Croce viene ad avere un significato unico al di là delle manifestazioni storicamente empiriche contando perciò la stessa libertà in sé la pluralità delle diverse possibili forme di libertà.

Pertanto, la libertà non può ridursi a un fatto storico, ma è il presupposto (causa sui) della storia e, non esistendo diverse gradualità di essa, rappresenta la sola e suprema idealità morale da rendere viva. Da ciò deriva la conclusione che la libertà degli antichi sia semplicemente la prima realtà morfologica della libertà dei moderni che questa viene a risolvere e superare dialetticamente in se stessa4. Infine, con i suoi presupposti fondativi, l’idea di libertà non può non rigettare

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SI PONGALALIBERTÀALLABASE…

in toto l’«ircocervo dell’endiadi giustizia-libertà» in quanto anche in questo caso i piani risultano diversi (empirico il primo, ideale il secondo) e l’uno non può essere limite all’altro.

La libertà, concetto puro, non può contaminarsi con la giustizia che è qualcosa di empirico, per questo quindi viene scartata dai fondamenti qualunque ipotesi liberalsocialista che finisce con l’apparire di conseguenza un mostro bicefalo il quale a sua volta propone l’equivoca melange tra programmi politico-economici e l’idea pura che riposa nell’accezione morale della libertà.

Insomma, la storia in tale rappresentazione, nel suo essere continuo svolgimento dell’attività umana, proprio per questo motivo appare tragica nella sua caducità in quanto imperfetta e contingente, in una parola umana.

La visione metastorica di Croce appare per certi versi antitetica a quella di Max Weber che, partendo dalla struttura dell’agire sociale su base razionale e volontaristica, vede la libertà come sintesi di azione e responsabilità dell’individuo in relazione con l’alterità nella dialettica concreta egoalter e quindi nell’incontro/relazione come tale logicamente e ontologicamente contingente e non già di certo assoluto.

Anche se si possono ritrovare analogie apparirà su tutt’altro piano la successiva posizione di un altro liberale come Raymond Aron che, evidentemente per condizionamento storico e impostazione culturale diversa, parte sì

anch’egli dalla realtà dell’individuo ma non teme di sporcarsi con l’elemento empirico e quindi con la sociologia seguendo l’insegnamento di Max Weber che pure era entrato nella formazione culturale di Croce e che dello storicismo tedesco era stato punto di approdo fondamentale dopo le riflessioni di Dilthey, Windelband e Rickert.

Ora l’anatomia di un concetto, come si è abbozzata relativamente a quello di libertà, a livello del bisturi analitico dovrebbe dare il tornasole della sua possibile applicabilità concreta sul piano storico-sociale. E appare chiaro dal discorso sopra delineato che, se la libertà risulti asse portante di tutta l’impalcatura del 1948, i

Benedetto Croce
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QUALORASI PONGALALIBERTÀALLABASE…

diritti umani, come del resto sembra ben chiaro se non addirittura esplicito nella Dichiarazione, non più solo nella vecchia declinazione giusnaturalistica, ovvero neogiusnaturalistica, ma anche sotto il profilo dei diritti civili e di quelli sociali trovino solo in questa prospettiva (nell’aggancio con il sociale e nel conseguente sbocco nel sociale) la validazione nei fatti e la loro possibile effettività applicativa. Sembra altresì fondamentale, quest’ultima, proprio per i continui processi di lotta per l’efficacia e applicazione di tutti essi e della loro, in tale ottica che li rende effettivamente in action, continua legittimazione concreta attraver-

so determinate battaglie per il riconoscimento reale e non solo declaratorio degli stessi Diritti Umani, così apoditticamente individuati fin dal lontano 1948.

Gnomiche a questo proposito le parole del secondo capoverso del Preambolo nel passaggio in cui si riconosce esplicitamente la base del concetto di libertà anzitutto come libertà «dal timore e dal bisogno», parole che sovente forse sono date per scontate con la pericolosa alea di registrare per un dato di fatto acquisito ciò che nella sprucida realtà, in tante parti del mondo, vada invece ancora faticosamente, e sovente tragicamente, conquistato.

NOTE:

1 A. Labriola, La dottrina di Socrate secondo Senofonte, Platone e Aristotele, Stamperia della Regia Università, Napoli, 1871

2 B. Croce, Etica e politica, Adelphi, Milano, 1944, p. 331.

3 Ivi, p. 332.

4 Ivi, p. 348.

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