Argo XI / Il Matto

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Teatro

Fotofinish di Antonio Rezza 30/7/2005, Teatro alle Cave, Sirolo (AN) «Ho problemi psicologici devastanti. Dico le cose due volte per sentirmi meno solo: mannaggia mannaggia». Dopo una maratona scenica a base di corse tra ufficio casa psichiatra psichiatra casa ufficio, Antonio Rezza, comico, attore, autore di testi teatrali, cinematografici, televisivi e letterari (fra cui il lungometraggio Escoriandoli del 1996, la trasmissione tv Troppolitani del 19992000, il libro Son[n]o, Bompiani, Milano 2005), si spoglia completamente nudo sopra un ammasso di spettatori spinti sul palco e virtualmente uccisi, e dichiara con ironia tutto il disagio psichico del proprio personaggio. In Fotofinish, spettacolo ideato con la scultrice e scenografa Flavia Mastrella, Rezza si mostra come un «atomo impazzito» con un fisico «dotato dell’affanno contemporaneo» che corre e parte in un «martirio perfomativo» (intervista a cura di Claudia Gentili, «Il Messaggero – Ancona» del 30/7/2005). La scena è uno spazio metafisico, in cui una sfera composta di assi di legno ricurve e bande di tela bianca, può diventare, nelle mani di Rezza, una porta girevole, una casa, un apparecchio per la Tac. Sul palco Rezza non trova pace, sembra una bestia in gabbia, da Cristo suora bimbo alla fine si fa poliziotto, recluta fra il pubblico altri poliziotti, chiama sulla ribalta spettatori che poi fa giustiziare dai suoi nuovi colleghi ed esclama: «Vi punto questo fucile dalla disperazione, è solo il mio malessere, sono un generale. Che stupidità nell’autorità!». Poi si denuda: «A trentanove anni passo le mie serate così, nudo, con il pene fra le cosce». Dall’altrove dello spazio scenico in cui personaggio interprete e uomo si confondono, uno sguardo allucinato ci punta, ci chiama e se non rispondiamo, sono insulti. C’è chi si alza per andarsene e chi si interroga. Valerio Cuccaroni valerio.cuccaroni@argonline.it

La pecora nera. Elogio funebre del manicomio elettrico di Ascanio Celestini 26/10/2005, Teatro Verdi, Terni Ascanio Celestini nella Pecora nera è piaciuto molto, e a ragione. Qualcuno nel pubblico si è addirittura commosso. La sedia vuota, il manichino vestito della bambola e la voce di Celestini, dal lieve accento romano, è tutto ciò che occorre allo spettacolo. «Io sono morto quest’anno», comincia a dire. Io sono morto quest’anno, ma sono nato nei «favolosi anni Sessanta», in quei «favolosi anni Sessanta» che a mia nonna non dicevano nulla e che mio padre detestava, continua l’attore. La voce si sdoppia in due racconti: c’è Nicola, il ragazzino che viveva con la nonna, la quale bevendo l’uovo fresco esclamava «è fresco quest’ovo. C’ha ancora la puzza del culo della gallina», e un non identificato ragazzino che viveva con il padre e con i fratelli, quelli delle «donne che leccano gli uomini nudi». In realtà Nicola è soltanto uno, la pecora nera della classe, il sostenitore dei «favolosi anni Sessanta», che forse per errore, forse per malattia viene rinchiuso nell’istituto (il manicomio). La trovata delle due voci che si uniscono nell’unico personaggio di Nicola è delicata: Nicola dialoga con se stesso, con quello che crediamo il suo amico immaginario, e racconta che all’istituto vivono i catatonici simili a vegetali, i matti da legare e la suora che fa le puzze. L’istituto separa Nicola dagli amici e dalla famiglia, lo isola dalla società e cancella la sua identità. Il manicomio, chiuso nel 1978 con la legge 180, incarna però un meccanismo tutt’ora presente, rintracciabile in qualunque istituzione totalizzante, come troviamo scritto nella locandina dello spettacolo. Nicola che accompagna la suora al supermercato entra in un luogo affine all’istituto, dove il dover comprare a tutti i costi «i prodotti di qualità» è come credere al mito inesistente degli anni Sessanta che riduce tutti gli esseri umani a unica massa; dove la mercificazione dell’oggetto si sposa alla distruzione e alla perdita del nucleo vitale dell’uomo. «Io sono morto quest’anno». Con la ripetizione di questa frase si chiude la rappresentazione. La storia di Nicola inizia dalla fine perché ha bisogno di uno sguardo retrospettivo per essere raccontata, e perché, mentre la si narra, agisce nel presente: si carica della personalità del narratore e delle sfaccettature dell’oggi. Ma il «sono morto quest’anno» allude anche alla morte dell’Io. La pecora nera è uno spettacolo delicatissimo e commovente, e anche polemico; va visto perchè invita al raccoglimento e stimola la riflessione. Daniela Shalom Vagata shalomdan@hotmail.com

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