Millennium - Incontri con l'architettura

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Alvar Aalto Umanista, nordico e dionisiaco

"La società è divisa in fazioni, ma io costruisco per tutti. In altre parole, devo vedere la società come un tutto unico... La società ha creato strumenti che permettono a gruppi diversi, sindacati e partiti politici, di promuovere i loro interessi, ma come architetto non posso impegnarmi a questo livello. Il mio punto di partenza è quello dell'umanista, se posso usare questa parola così solenne". Alvar Aalto, 1972

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Ritratto di Roberto Sambonet

“Ah… L’architecture… c’est difficile!” Raccontato in più versioni, talvolta contrastanti, ma dove nel finale Alvar Aalto dopo questo incipit zen termina sempre la sua conferenza per non dire più nulla, l’aneddoto più famoso sul più grande maestro dell’architettura nordica del Novecento tratteggia comunque bene in pochissime parole la figura di un autore, ma soprattutto un uomo del suo tempo, che è riuscito in pochi anni a costruire un mito singolare dell’architettura contemporanea come arte sociale, quasi involontariamente. Senza mai salire sul podio del profeta (e trovandosi appunto a disagio anche semplicemente su quello del conferenziere) Aalto ha eretto – con non molti ma sensuali edifici, qualche oggetto d’uso tanto semplice quanto inventivo, un repertorio formale geniale ma contenuto e un’attenzione filosofica alla natura, oggi davvero profetica – il migliore monumento alla figura dell’architetto umanista: il progettista che non si preoccupa troppo del successo personale e mondano ma trattiene e allo stesso tempo esprime il proprio ego tutto dentro il mestiere del costruire per la società. A volte, nel racconto di quell’incipit (e si sa che gli incipit sono fondamentali nella storia della narrazione, non solo letteraria) l’architetto del Sanatorio di Paimio e della Biblioteca di Viipuri è in profondo stato confusionale, dovuto probabilmente alla sua profonda, mai nascosta, passione per l’alcool: così che, nelle deformazioni più grottesche della storiella, deve essere accompagnato fuori dal palco dagli amici stessi che lo hanno invitato, quando addirittura non cade di peso sulla sedia prudentemente predisposta alle sue spalle. Il mito dell’architetto modernista, eroico e incorruttibile combattente per l’umanità del progetto, si arricchisce di una tinta romantica, stempera nell’ebbrezza dionisiaca il luogo comune del Movimento Moderno come “cinghia di trasmissione” del pensiero razionale al mondo della creazione e dell’espressione. Può un architetto del Nord (patria riconosciuta del pensiero razionale nell’agio/geografia d’Europa), che si lascia abbandonare ai piaceri del corpo, disegnare ancora edifici innovativi eppure coerenti e funzionali? Non sarà questa sua incapacità di cedere alle tentazioni dell’eccesso ad aver generato la


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