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Progettare il futuro delle città Livio Sacchi
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Fra architettura e città i rapporti sono evidentemente complessi: da una parte la città è prevalentemente conformata da architetture (dando al termine architettura l’accezione più ampia); dall’altra l’architettura è sempre stata influenzata dalla collocazione in un contesto urbano. Da un punto di vista semiologico, la specificità del segno architettonico – il significato (lo spazio interno, che è la vera essenza di ogni architettura) racchiuso da un significante (l’involucro che a tale spazio dà forma: muri, pavimenti, soffitti ecc.) – trova un’interessante analogia nel segno urbanistico: in questo caso il significato è lo spazio urbano, l’invaso a cielo aperto, per esempio quello di una piazza; il significante è a sua volta costituito dai segni architettonici che a tale invaso danno forma, cioè le diverse fabbriche che lo circondano. Si tratta della traduzione, operata ai nostri fini da Renato De Fusco, di ciò che, in ambito linguistico, aveva teorizzato Hjelmslev con la nota formula della semiotica connotativa. Rapporti a lungo storicamente validi che, nel loro insieme, hanno costituito nel corso del tempo uno dei principali motori creativi in grado, con maggiore o minore consapevolezza da parte dei progettisti, di conformare l’identità, “plurale”, delle città e quella, solitamente “singolare”, delle architetture che vi si trovano. Oggi le cose appaiono sotto una luce un po’ diversa. Per esempio, la bigness, teorizzata da Rem Koolhaas, pervade in maniera sempre più consistente sia l’architettura sia la città. Nel primo caso essa tende a configurare architetture con vere e proprie valenze urbane: si pensi ai colossali centri commerciali, agli aeroporti, alle grandi stazioni e a tutti i giganteschi complessi polifunzionali che vengono costruiti da una parte all’altra del mondo. Per quanto riguarda invece le città, va detto che la loro dimensione e la loro eccezionale forza – sempre più evidente anche dal punto vista identitario, fino a superare la stessa nozione d’identità nazionale: si va a Parigi prima che in Francia, a New York prima che negli Stati Uniti – sembra talvolta collocare in una zona d’ombra la stessa qualità architettonica, nonostante la, o forse proprio a causa della, spinta spettacolarizzazione architettonica sia, da un po’ di anni a questa parte il carattere di maggior spicco di tanta produzione contemporanea. Va poi detto che provare a parlare del futuro – dell’architettura, della città come di qualsiasi altra cosa – è sempre imprudente, quando non arbitrario. Eppure la futurologia, per utilizzare il termine adoperato da O.K. Flechtheim nel 1943 per designare la scienza delle prospettive probabili del futuro destino dell’uomo, della società, della cultura, nel nostro caso la futurologia architettonica e urbana, è proprio ciò in cui, molto spesso, si cimentano i progettisti più attenti, i direttori delle riviste specializzate, i critici e i curatori delle grandi rassegne espositive internazionali, con l’obiettivo di comprendere in quali direzioni si muovono oggi l’architettura e le città, cercando, in tempi in cui la nostra vita sembra scorrere nell’eterno presente delle tecnoscienze, di non banalizzarne la ricerca declassandola al rango di meccanica previsione. Si va alla ricerca del nuovo, intendendo per esso tutto ciò che si aggiunge all’eredità del nostro passato, non necessariamente in continuità con quest’ultimo, ovvero qualcosa che, in contrapposizione a ciò che è “vecchio”, indica appartenenza a un passato molto recente o a un prossimo futuro. Un concetto al cui interno sono compresenti fattori quali l’originalità, talvolta la singolarità o la stranezza, l’imprevedibilità.