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MOVIMENTO MOVING

“La forma segue la funzione” è ormai un assioma debole, per come sta evolvendosi l’architettura. A mutare identità sono anche le grandi infrastrutture, le cui configurazioni puntano sì alla funzionalità ma anche a suggerire forti emozioni. Un esempio eclatante è la nuova Stazione Centrale di Rotterdam, dove il concept fondamentale non è realizzare soprattutto un’architettura funzionale alla mobilità spazio temporale ma anche un percorso di forti pulsioni emozionali. “Form follows function” is now a rather weak axiom judging by the latest developments on the architectural scene. Even large infrastructures are changing identity, focusing not just on functionalism but also on evoking powerful emotions. The Rotterdam Central Station is a fine example , where the basic concept in play is not just to design a work of architecture serving spatiotemporal mobility but also an emotionally striking pathway.

Il futuro è mobile A mobile Future Mobilità: nuove opportunità di sviluppo Mobility: new opportunities for development Maurizio Vogliazzo*

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efinire vorticoso il susseguirsi e l’accavallarsi dei cambiamenti scatenati dalla comparsa al mondo del primo microchip, trent’anni fa neanche, parecchio meno poi se si considera il suo reale impiego di massa, potrebbe suonare oggi ormai scontato. Lo è se ci si ferma, come il più delle volte avviene, alla superficie, alla registrazione mera del brulichio informatico quotidiano, con annessi e connessi, che sembra per adesso non conoscere particolari battute d’arresto (se non sul piano finanziario, ma questa è un’altra cosa). Trattandosi di fenomeno dirompente e a tutto campo, risulta ben difficile anche soltanto trovare il tempo di individuare, non parliamo poi analizzare, l’infinità dei mutamenti profondi indotti, in tutti i campi e in tutte le direzioni; e intravedere ciò da cui non si potrà mai più tornare indietro, ancora inevitabilmente confusissimo da mode e trend effimeri o comunque con buona probabilità transeunti. Insomma, non si può mai stare tranquilli: che scherzi gioca questa tecnologia birichina, che (vivaddio) non se ne sta mai ferma; immaginarsi poi quando si mette a occuparsi, come appunto è avvenuto, dell’informazione: schiere di fan ammaliati, ben più folte di quelle contrapposte e un po’ frastornate dei laudatores temporis acti. Però non rimane, ma forse è inevitabile, neppure il tempo per un nuovo Excelsior, anche se in questo nuovo caso il côté stucchevole non sarebbe difficile da trovare; neanche però, purtroppo, lo spazio per il sogno trascinante e commovente di una società nuova: per Majakowskij, per esempio. Tutto ciò ha contribuito non poco a mettere completamente in ombra alcuni aspetti per lungo tempo invece centrali, e che ora ineluttabilmente si ripresentano, con virulenza rinnovata specie in Paesi come l’Italia, per indole in questi campi sordastri o più inclini a dedicarsi a altre faccende. Ci si scuserà perciò se specialmente a questo nostro caso, che comprensibilmente ci sta molto a cuore, e richiede terapie urgenti, faremo ora riferimento. Innanzi tutto, e per esempio, la mobilità, quella fisica, delle persone e delle cose sul territorio. Saltati a piè pari i momenti magici, un po’ per povertà di cassa un po’ per arretratezza e ignoranza tecnica, quando cioè le braccia disponibili erano tante e i costi bassi, si è proceduto in genere a balzelloni, per exploits, quando la pressione era diventata insostenibile. A parte la giudiziosa costruzione, di sabauda memoria, di una ammirevole rete ferroviaria, poi mano a mano trascurata per un oscuro desiderio di obsolescenza, un cupio dissolvi ferrato, brillano nella notte imprese ardimentose ma spicce, come l’Autostrada del Sole che mai finirà (da leggere, a questo proposito la precisa, e deliziosa, ricostruzione stori-

ca dell’impresa, di Enrico Menduni): una cometa che lascerà sulla sua scia un intrico considerevole di spezzoni, come tante impronte fisiche di stelle filanti, tracce di una modernità possibile per un Paese che continua così tanto, e dolorosamente, a stentare (o a evitare?) di esserlo. Occasioni che permetteranno, in qualche caso, a Morandi, Zorzi e tanti altri di far vedere con gli occhi e toccar con mano quanto vera e giusta possa essere la dizione ‘opera d’arte’, tradizionalmente usata nel generalmente plumbeo linguaggio dei capitolati: tant’è che nel suo memorabile ‘Complexity and Contradiction in Architecture’ Robert Venturi (nel 1966) pubblica l’immagine di un viadotto autostradale italiano per fare un esempio dell’irruzione di un ordine purissimo in un ambiente fisico del tutto inconsistente. Una funzione semplicissima, quella di far transitare veicoli sostenendoli, e uno straordinario dispositivo strutturale per renderla possibile, riscattando anonimi burroni in un nuovo mirabile paesaggio. Che dire allora, in questo senso, del complesso del viadotto sul Polcevera, da un lato insuperato esempio di calcolo, poi dimostrazione vivente delle potenzialità sorprendenti e enormi di un materiale, il cemento variamente armato, in campi assai sovente considerati non adatti; poi ancora squarcio affascinante su una realtà fisica possibile, un paesaggio altro, un futuro per un mondo di detriti, di edificati orribilmente aggrovigliati, di scarti del fare umano? Capacità, potenzialità uniche, che solo le infrastrutture di questo genere posseggono. Di questo non è esistita e non esiste, qui da noi, consapevolezza alcuna. Le grandi infrastrutture viarie come unica possibilità di garantire tenuta formale a un territorio o già compromesso o in progressiva rapidissima compromissione; come unica, o fra le pochissime, chance di supportare una qualità ambientale non soltanto sostenibile ma di buon livello, oltre che una mobilità scorrevole, ben oliata, ragionevolmente sicura: proprio questo era, e continua a essere, il punto. Specialmente poi in un Paese largamente arretrato in termini di collegamenti fisici rispetto agli standard europei, quanto mai fragile sotto il profilo idrogeologico, e dotato (e gravato) di episodi storici di valore assoluto. Eppure,come dimostrano i precedenti fra i tanti esempi possibili, bastava, e basta, guardare. Vedere. E invece, ovunque occhi che non vedono. Già lo diceva Le Corbusier nel 1923: il dramma di sempre. Comunque sia anche quest’empito di modernizzazione viaria non conscio delle virtualità possedute si è rapidamente affievolito, fino a cessare del tutto o quasi, venticinque anni or sono (qualche vecchio intervento si è soltanto trascinato nel tempo, se-

condo la pratica nostrana del cantiere infinito). Un quarto di secolo. Di nuovo, da lontano, verrebbe da pensare a un sopraggiunto importante, coraggioso e generoso impegno di ammodernamento e potenziamento della rete ferroviaria. Anche per rispondere in modo adeguato alla crescita esponenziale della domanda di trasporto merci, per esempio, e se non altro; venendo così nel frattempo incontro a più che condivisibili esigenze di contenimento dell’inquinamento ambientale da gas di scarico e dei consumi energetici, nel frattempo fattisi sempre più critici e dispendiosi. Imboccando poi tra le altre cose con decisione la via dell’alta velocità, potendosi per questo appoggiare su esperienze ormai nel frattempo consolidate, come quelle francotedesche. Naturalmente non è stato così. Si è piuttosto cercato (invano) di dismettere, tagliare rami considerati secchi, sviluppare tecnologie brillanti ma delicate, finendo poi con l’acquistare decine e decine di costosissimi ETR ad assetto variabile per farli andare su linee inadatte, a velocità inferiore a quella degli elettrotreni Breda degli anni trenta o dei Settebello dei cinquanta (tra l’altro sono anche più brutti: visto che siamo il Paese del bel design). In parallelo sono andati irrigidendosi, imboccando purtroppo le vie ben note dell’ideologia, i punti di vista definiti volta a volta come verdi, ambientalisti, e così via (la volpe perde il pelo ma non il vizio: ma quanti anni ci vorranno per capire che la sola possibilità di salvezza sta in un buon rapporto, e diretto, con le cose, come cercava di dire parecchi anni fa anche Calvino, al di sopra perciò di ogni sospetto). Situazioni di questo genere , come è noto, non portano a nulla di buono. Sicché la paresi infrastrutturale, che ha motivi suoi e ben identificabili, ha trovato un suo adatto contrappunto, con perfetta omogeneità logica. Al solito ne ha approfittato la pianistica, mettendo rapidamente a punto, e intrufolando per ogni dove, appositi strumenti normativi e riuscendo a imporre nuovi pedaggi, aggiungendo altri strati a quella specie di club sandwich pazientemente costruito nel dopoguerra, che si deve comunque comprare anche senza nessuna intenzione di mangiarlo: anzi, ultimamente, per buttarlo subito. D’altra parte gli effetti di questo insieme di cose sono sotto gli occhi di tutti, ed è difficile trovare un giorno dell’anno in cui la protezione civile non sia allertata. Ecco poi che un bel giorno viene abbattuto il muro di Berlino, e nel giro di poco tempo una massa ingente e in crescita incessante tuttora, e per gli anni a venire, di produttori e di consumatori, merci e persone cioè, dilaga a ovest. Un po’ certo va in Germania; ma dal centro-sud, dove diavolo ci si può dirigere, da dove si può passare? Dall’Italia: che di-

spone di quelle infrastrutture per la mobilità sonnecchianti e incomplete, già critiche per conto loro da tempo, di cui abbiamo parlato finora. Verrebbero da aspettarsi risposte pronte e decise, e al solito non è così. Non succede, cioè, nulla: per anni. Una pressione indescrivibile di traffico viene a scaricarsi su sezioni autostradali risibili; su tangenziali ormai divenute strade urbane; su statali regionali provinciali e comunali neppure sufficienti per il movimento locale. Il traffico merci su ferro è reso quasi impraticabile; per la vecchiaia delle linee, per l’inadeguatezza degli impianti, per il parco carri antidiluviano, per la localizzazione degli scali merci, ancora ricalcata su quella dei lazzaretti. Recenti rilevazioni delle Direzioni competenti dell’Unione Europea concordano nell’indicare il tratto Milano-Bergamo, ora già esteso ben oltre Brescia verso Trieste, come il più sovraccarico d’Europa, ben oltre ogni limite di sicurezza. In grado di generare, da solo, danni economici e umani quasi incalcolabili per entità e per raggio di ricaduta. La questione come si vede ha assunto dimensioni di scala enorme; per altro, perfettamente prevedibili, ovvi per occhi che vedono. Il sonno della ragione, qui progetto, genera invece, come si sa, mostri. Ci si propone ora di porre rimedio, o almeno così sembrerebbe, al limite estremo del fuori tempo massimo (probabilmente anzi già oltre). Stasare per esempio la pianura padana: parrebbe il minimo, per non parlare delle economie di scala e di tutto il resto, anche soltanto di quanto dovuto a chi vi abita e lavora e a chi la percorre. Per la viabilità su gomma ci sono varie ipotesi; alcune inverosimili, come le quadruplicazioni; altre di ardua fattibilità, come il tracciato pedemontano; altre invece molto concrete e convincenti, come il raccordo Milano-Brescia, più noto come Brebemi. Si farà forse perfino, a tratti per lo meno. Meglio essere prudenti, una nuova linea ferroviaria, destinata a quella che una volta si chiamava alta velocità e ora, con prudenza lungamente meditata, alta capacità. Cioè si andrà meno in fretta e ci si fermerà di più: ma non per questo gli ingombri saranno minori. Anzi. Vecchie questioni che si ripresentano: ma sul tappeto rimangono gli stessi nodi. Si riuscirà una buona volta a percepire, meglio tardi che mai, il ruolo centrale posseduto inevitabilmente dalle grandi infrastrutture di traffico, oggi ancor più di prima, per la riqualificazione fisica del territorio, sempre più devastato, e per il miglioramento del quale ogni altro intervento o attenzione si sono dimostrati vani? La grande opportunità di dar luogo a un nuovo landscape, ricco da un lato di qualità di vita progressivamente sottratte o mai avute da uomini costretti in condizioni non altrimenti definibili che co-

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