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Cop_ArcVis25_A:Cop ArcVis IT-ING 08/07/11 16:48 Pagina 1

MEDITERRANEO MEDITERRANEAN

Periodico semestrale anno XI n° 25 - Poste Italiane Spa - Spedizione in Abbonamento Postale - 70% - DCB Bergamo

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Global Mediterraneo, luogo di confluenza delle differenze e del dialogo. Nel XXI secolo è ancora mare strategico e crocevia del mondo? The Mediterranean, where differences and dialogue come together. Is it still a strategic sea and crossroads of the world in the 21st century?

Projects Architetture fatte di affinità e contrasti, di luci e colori, di cultura e storia millenarie: il genius loci del Mediterraneo Architecture composed of similarities and contrasts, color and light, ancient culture and history: the genius loci of the Mediterranean

News Italcementi e Richard Meier: l’innovazione per l’architettura e il design Italcementi and Richard Meier: innovation in architecture and design



01_som_AV25:01 Ital-Ingl som AV12 08/07/11 16:52 Pagina 1

Rivista semestrale pubblicata da Six Monthly Magazine published by Italcementi Group via Camozzi 124, Bergamo, Italia Direttore responsabile Editor in Chief Sergio Crippa Caporedattore Managing Editor Francesco Galimberti Coordinamento editoriale Editorial Coordinator Ofelia Palma Realizzazione editoriale Publishing House Arcadata srl Redazione Editorial Staff Elena Cardani, Elena Tomei Autorizzazione del Tribunale di Bergamo n° 35 del 2 settembre 1997 Court Order n° 35 of 2nd September 1997, Bergamo Law Court

Mediterraneo

■ Global ■

■ Projects ■

MEDITERRANEO MEDITERRANEAN

Mediterranean ■

■ News ■

Una transizione difficile

A Difficult Transition

Dominique Moïsi

Spero dunque sono

I Hope, Therefore I Am

Mario Calvo-Platero

Il catalizzatore Obama

Obama, The Catalyst

Carlo Bastasin

Sete di sviluppo e libertà

A Thirst For Growth And Freedom

Mario Pisani

Un mare d’Architettura

A Sea Of Architecture

Testi a cura di / Texts by Jacqueline Ceresoli

Imperitura Bellezza

Eternal Beauty

Progetto di Bernard Tschumi Architects

Project by Bernard Tschumi Architects

Come un pascià

Like A Pasha

Progetto di Foster and Partners

Project by Foster and Partners

Copertina, particolari del Giardino di Apollo progettato da Richard England

www.italcementigroup.com

Sergio Romano

Nelle spire del design

Amidst The Spires Of Design

Progetto di Ron Arad Architects

Project by Ron Arad Architects

Finestre sull’orizzonte

Windows Over The Horizon

Progetto di Odile Decq e Khalid Molato

Project by Odile Decq and Khalid Molato

Emergenza simbolica

Emerging Symbolic Features

Progetto di Dominique Perrault Architecture

Project by Dominique Perrault Architecture

L’Arte di Apollo

The Art Of Apollo

Progetto di Richard England

Project by Richard England

Rinascimento mediterraneo

Mediterranean Renaissance

Progetti di autori vari

Projects by various architects

L’Oro di Napoli

The Gold Of Naples

Progetto di Silvio D’Ascia e Tecnosistem

Project by Silvio D’Ascia and Tecnosistem

Su in alto

High Above

Progetto di Dante O. Benini & Partners Architects ■

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In The Name Of Architecture

La sfida continua

No Limits Challenge

4 8 12 16 ■

20 24 32 38 46 52 60 66 76 82

Project by Dante O. Benini & Partners Architects ■

Nel segno dell’Architettura

Cover, details of the Garden of Apollo designed by Richard England

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Chiuso in tipografia il 30 giugno 2011 Printed June 30, 2011


Mediterraneo Mediterranean

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I

l 1492 segna lo spostamento dell’asse centrale della storia moderna dal Mediterraneo all’Atlantico lungo le grandi rotte oceaniche e rappresenta la rottura fisica prima che culturale con il Vecchio Mondo e il suo “mare tra terre”, millenario crocevia di civiltà. L’atlantizzazione dei commerci e la nascita di una nuova economia-mondo avvia una progressiva discriminazione del bacino mediterraneo, in seguito ulteriormente marginalizzato dalle politiche coloniali inglese e francese dell’800, frammentato nel proprio assetto geopolitico dai due conflitti mondiali, diviso dagli antagonismi della guerra fredda, esposto all’unipolarismo statunitense, incendiato dal conflitto arabo-israeliano. Il Mediterraneo ha scritto da più di cinquemila anni un capitolo importante della storia dell’uomo; punto di intersezione di tre continenti, di tre civiltà e di tre religioni. Viva combinazione di commerci, climi, culture, caratteri antropologici, architetture, ma anche sciagurata culla di crociate, guerre, persecuzioni, questo mare condivide con i popoli che vi si specchiano una identità comune costruita sulla molteplicità, la comunicazione e la consapevolezza dell’altro. L’attuale momento storico, le dinamiche di globalizzazione e delocalizzazione delle imprese, e le recenti sollevazioni popolari del Nord Africa, lanciano al Mediterraneo una nuova sfida: quella di riassumere l’antico ruolo strategico, in quanto “luogo di mezzo”, “luogo di mediazione”. Erano questi in definitiva gli obiettivi della Dichiarazione di Barcellona del 1995 declinati sul piano politico, economico e culturale: obiettivi a tutt’oggi “attesi”. In questo momento il Mediterraneo rischia di apparire come un mare lacerato, un “mare tra conflitti”, una gigantesca polveriera, un dimenticato cimitero, dove le rivolte degli ultimi mesi appaiono prive di un disegno e di una prospettiva, come priva di un progetto appare l’Europa, incapace di azioni unitarie in tema di confronto sui flussi migratori e incapace di assumersi responsabilità concrete a livello internazionale. Ma le vicende dei paesi del Nord Africa che hanno infiammato la sponda sud del Mediterraneo si sono raccolte intorno al fuoco della democrazia e della civiltà, e non sotto la pira dell’integralismo. La loro forza nasce dalla mancanza di una parola d’ordine religiosa e dalla capacità di dare unità a un variegato panorama di spinte laiche e liberali. E gli esiti futuri, quale che ne sia la forma, non potranno che avere portata mondiale. Ai governi occidentali, allora, il compito di partecipare alla gestione del cambiamento con l’impegno a trovare una strada che scongiuri fenomeni di destabilizzazione e sconvolgimenti geopolitici. E al Mediterraneo il compito di recuperare la sua dimensione culturale e il suo ruolo di soggetto internazionale in grado di far dialogare oriente e occidente, agendo come propulsore di innovazione e formazione, volano di cultura e produzione. Perché possa a tutti gli effetti riappropriarsi del suo status di crocevia e motore di crescita, è necessario che si doti di un modello di sviluppo fondato sulla libertà politica ed economica, sola condizione per una feconda ibridazione, un dialogo produttivo che sappia passare attraverso società, produzione e ambiente. Non più “mare nostrum” ma “zona di libero scambio” e “mercato complesso e complessivo”, il Mediterraneo del futuro potrà essere attore strategico di uno scenario multipolare di cui si dovranno ridisegnare i confini.


I

n 1492 the core axis of modern history shifted from the Mediterranean to the Atlantic, along the great shipping routes, marking a cultural but above all physical rupture with the Old World and its sea “in the middle of earth”, a centuries-old crossroads of civilizations. The Atlanticization of trade and the birth of a world economy triggered a gradual discrimination against the Mediterranean, which subsequently would be further marginalized by 19th-century British and French colonialism, suffer the fragmentation of its geopolitical axis as a result of two world wars, be divided by the antagonisms of the cold war, exposed to US unipolarism, enflamed by the Arab-Israeli conflict. For more than five thousand years the Mediterranean has written an important chapter in the history of man as the point of intersection of three continents, three civilizations and three religions. A lively combination of trading routes, climates, cultures, anthropological characteristics, architectures, but also a bloody theater of crusades, war and persecution, this sea shares with the nations around its shores a common identity built on multiplicity, communication and an awareness of others. Today, globalization and corporate delocalization, and the recent popular uprisings in North Africa, are setting the Mediterranean a new challenge: to resume its old strategic role as a “middle place”, a “place for mediation”. Ultimately, these were the political, economic and cultural objectives of the 1995 Barcelona Declaration: objectives that are still waiting to be achieved today. At the moment, the Mediterranean is in danger of becoming a sea in turmoil, a sea “in the middle of conflicts”, an enormous powder keg, a forgotten cemetery, where the revolts of the last few months seem to lack a goal and a prospect, just as Europe seems to lack a plan, to be incapable of united action on the question of immigration flows and of assuming real international responsibilities. Yet the events in North Africa that have enflamed the southern Med Rim are inspired by the fire of democracy and civil harmony, not by the pyre of fundamentalism. Their strength stems from the absence of a religious leadership and from the ability to unite a variegated scenario of secular and liberal forces. And their outcome, whatever form it takes, will be of worldwide significance. So the duty of the Western governments is to contribute to the management of change based on a commitment to establishing a path that avoids destabilization and geopolitical upheaval. The duty of the Mediterranean is to recover its cultural power and its role as an international player fostering the dialogue between East and West, acting as a motor for innovation and education, a driver of culture and production. In order to resume fully its status as a crossroads and a motor for growth, the Mediterranean needs a development model geared to political and economic freedom, the only way toward fruitful hybridization, toward a productive dialogue involving society, production and the environment. If the Mediterranean of the future is no longer a “mare nostrum” but a “free trade zone”, a “complex and comprehensive market”, it will be able to play a strategic role in a world with multiple centers whose borders will need to be re-drawn.

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Global

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LA PRIMAVERA ARABA: GLI SVILUPPI POLITICI

Una transizione difficile THE ARAB SPRING: THE POLITICAL OUTCOME

A Difficult Transition di Sergio Romano* by Sergio Romano*

Non prevista perché imprevedibile. La rivolta araba è figlia di povertà e disuguaglianze, istruzione e interconnessione globale. Un futuro che affascina e preoccupa Unforeseen and unforeseeable. The Arab uprising was bred by poverty and inequalities, education and global interconnection. The future is both exciting and troubling

Sergio Romano

La primavera araba e i suoi esiti: quale l’evoluzione nei diversi paesi e quale il ruolo dell’Occidente. Usa ed Europa sono chiamati a mettere in atto politiche internazionali di collaborazione, oltre se stessi, per una trasformazione democratica che difenda i legittimi interessi delle popolazioni del Nord Africa e ne rispetti cultura e civiltà. Opportunità unica per tutta l’area del Mediterraneo, per rilanciarne la centralità e promuoverne il valore geopolitico strategico nei futuri contesti globali. The Arab spring and its results: developments in different countries and the role of the West. The US and Europe are asked to implement policies of international collaboration, looking beyond their own interests, for democratic transformation which will defend the legitimate interests of the population of North Africa while respecting its culture and civilization. A unique opportunity for the entire Mediterranean to re-launch its centrality and promote its strategic geopolitical value in the world of the future.

C

erco di rispondere anzitutto a una domanda che è stata fatta a governi, servizi d’intelligence, studiosi, osservatori. Non abbiamo previsto le rivolte nord-africane perché non è possibile prevedere un fenomeno popolare quando dietro di esso non esistono movimenti politici, programmi, leader rivoluzionari o riformatori. I giovani che sono andati a manifestare nelle piazze delle loro città sono i figli del grande boom demografico degli anni Ottanta, quando il tasso di accrescimento della popolazione era particolarmente elevato, e delle politiche, non tutte necessariamente cattive, dei loro governi. Hanno studiato più dei loro padri e dei loro nonni. Hanno maggiori aspettative. Sono diventati uomini mentre il prodotto interno lordo dei loro paesi registrava, grazie alle privatizzazioni degli anni Novanta, crescite molto rispettabili. Ma le privatizzazioni erano state fatte nell’ambito di cerchie ristrette e il divario fra i ricchi e i poveri era diventato ancora più intollerabile. Il fenomeno si è diffuso a macchia d’olio perché ogni paese della regione presentava, per molti aspetti, le stesse caratteristiche, ma anche

per ragioni tecnologiche. Gli sms, le fotografie scattate con i telefoni cellulari e inviate per e-mail, le reti sociali e i reportage televisivi captati dalle antenne satellitari hanno creato uno spazio nord-africano in cui le manifestazioni di un paese rimbalzavano nelle case degli altri, il successo di un movimento diventava un esempio e uno sprone per quelli dei paesi vicini, gli insorti sapevano di essere visti in Occidente e contavano sulla simpatia delle società democratiche. Per molti anni, ma soprattutto nell’ultimo decennio, la politica dei paesi occidentali verso i regimi dell’Africa del Nord è stata confezionata con alcuni indispensabili ingredienti. Meritavano di essere sostenuti e finanziati, in particolare, quelli che garantivano un efficace contenimento dell’Islamismo radicale, garantivano il flusso del petrolio verso le grandi economie del pianeta, gestivano le loro risorse naturali secondo i principi del libero commercio, praticavano nei confronti di Israele una politica che teneva conto di quella degli Stati Uniti. Occorreva naturalmente esortarli al rispetto dei diritti umani e civili (nessuna democrazia avrebbe potuto fare

a meno d’impartire lezioni di libertà), ma sui metodi polizieschi dei loro regimi era lecito chiudere un occhio. Né Condoleezza Rice né Barack Obama, dopo i loro discorsi all’Università Americana del Cairo, avevano fatto della correttezza democratica del regime egiziano di Hosni Mubarak una condizione imperativa. Dopo lo scoppio delle rivolte, quindi, il maggiore obiettivo degli Stati Uniti e di altre democrazie occidentali è stato quello d’individuare la forza politica e sociale più in grado di pilotare ogni paese al di là della crisi. In Egitto, fortunatamente, esisteva un vecchio amico, l’esercito, su cui era possibile fare un certo affidamento. In Tunisia esistevano, accanto all’esercito, parecchi notabili non eccessivamente compromessi con il regime di Ben Ali. Nello Yemen, dopo le operazioni militari contro i seguaci di Al Qaeda, e nel Bahrain, sede di una importante base americana, si è deciso di stare a guardare. È questa la ragione per cui l’Arabia Saudita ha potuto intervenire militarmente nel Bahrain senza che l’Occidente gridasse allo scandalo. È questa la ragione per cui la soluzione della questione yemenita è stata lasciata agli stati arabi della regione, che si sono mossi con grande circospezione e hanno esercitato sul presidente Saleh pressioni assai blande. In Libia vi erano soltanto Gheddafi e le tribù. È stato deciso di dare per scontato che i ribelli fossero una credibile forza politica democratica ed è stata scatenata contro il colonnello una guerra che gli Stati Uniti, per evitare un eccessivo coinvolgimento nazionale, hanno deciso di delegare alla Nato. È stato dimenticato che la Libia è una creazione coloniale italiana


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e che si compone di due distinte entità storiche, la Tripolitania e la Cirenaica. Forse sarebbe stato meglio accettare la separazione delle due regioni. Ma ha prevalso la convinzione che soltanto l’eliminazione di Gheddafi avrebbe consentito all’Occidente democratico di proclamare il successo dell’impresa. Come accade spesso, la guerra, in corso d’opera, ha cambiato volto e natura. Era iniziata come una nobile ingerenza umanitaria. È diventata un intervento a fianco degli insorti in una guerra civile, e il suo principale obiettivo, dopo qualche settimana, era quello di evitare che la Nato ne uscisse sconfitta. La situazione della Siria era, se possibile, ancora più complicata. È uno stato

multi-etnico e multi-confessionale in cui il regime della famiglia Assad ha una forte base politica – la minoranza alauita, il partito Baath, l’esercito, le milizie, i gestori e gli affaristi dell’economia nazionale –, ha una quinta colonna all’interno del Libano (Hezbollah), ha qualche amico influente (l’Iran, ma anche la Turchia) ed è stata in questi anni un tassello difficilmente sostituibile del puzzle medio-orientale. Il crollo del suo regime potrebbe ripercuotersi sugli equilibri dell’intera regione, dall’Iran al Libano, dalla Turchia all’Iraq, per non parlare di Israele. Il suo presidente, Bashar al-Assad, ha calcolato che la Nato, dopo l’incerta guerra libica, non avrebbe corso il rischio di lasciarsi impelagare in un altro conflitto e non

ha esitato a reprimere le proteste con una brutalità considerevolmente superiore a quella di Gheddafi. Le crisi hanno avuto conseguenze economiche cui abbiamo prestato minore attenzione. I proventi del turismo sono crollati, le esportazioni sono fortemente diminuite, la disoccupazione è aumentata. La Commissione di Bruxelles e il presidente Barack Obama, nel suo discorso del 19 maggio, hanno promesso aiuti straordinari. Ma il denaro può essere dato e utilizzato soltanto là dove esistono governi capaci di utilizzarlo e condizioni ambientali favorevoli. Perché questo accada occorre che la transizione si compia, che i governi godano di un maggiore consenso popolare

e che la guerra libica si concluda, in un modo o nell’altro. Da quel traguardo, mentre scrivo, siamo ancora lontani.

* Sergio Romano è oggi uno degli opinionisti più ascoltati in Italia e a livello internazionale. È stato direttore generale degli Affari Culturali del Ministero degli Esteri (1977-1983), rappresentante alla Nato (1983-85), e dal settembre 1985 ambasciatore a Mosca, durante i cruciali anni della perestrojka, fino alla conclusione della sua carriera diplomatica nel marzo 1989. Come storico si è occupato prevalentemente di storia italiana e francese tra Ottocento e Novecento e ha scritto numerosi libri di grande diffusione. Attualmente è editorialista del Corriere della Sera e di Panorama e collabora con svariate riviste di relazioni internazionali. Il suo ultimo libro è L’Italia disunita, scritto con Marc Lazar e Michele Canonica (Longanesi, 2011).


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L

et me begin by attempting to answer a question people have been asking governments, intelligence services, scholars and commentators. No one foresaw the uprisings in North Africa because a popular phenomenon with no political movements, programs, revolutionary leaders or reformers is impossible to foresee. The young people who demonstrated in their city centers are the children of the great demographic boom of the 1980s, when the population was growing particularly fast, and of government policies, not all of them necessarily bad. They are better educated than their fathers and grandfathers. They have higher expectations. They grew up at a time when their countries’ GDP, thanks to the privatizations of the 1990s, was growing at very respectable rates. But those privatizations were deals done within restricted groups and the gap between rich and poor had became even more intolerable. The protest spread like wildfire because conditions, in many ways, were the same in every country in the region. Technology was another factor. Texting, photos taken with cell phones and forwarded by email, the social networks and the TV reports captured by satellite dishes created a space within North Africa where the demonstrations in one country bounced into the homes of other countries: the success of one movement became an example and a stimulus for movements in neighboring countries, the insurgents knew they could be seen in the West and counted upon the sympathy of the democratic societies. For many years, and the last ten years in particular, Western policy toward the North African regimes has been based on a series of critical elements.

The regimes most deserving of support and financial aid were those that effectively contained radical Islamism, that guaranteed the supply of oil to the planet’s major economies, that managed their natural resources in accordance with free trade principles, that took account of US policy in their stance toward Israel. Of course, they had to be urged to respect human and civil rights (every democracy had a duty to give lessons in liberty), but an eye could legitimately be closed to their inquisitorial methods of control.

After their speeches at the American University in Cairo, neither Condoleezza Rice nor Barack Obama made the democratic correctness of Hosni Mubarak’s regime in Egypt a requirement. With the outbreak of the revolts, the main objective of the USA and the other Western democracies was to identify the political and social forces best equipped to steer each country through the crisis. In Egypt, fortunately enough, the army was an old friend that could be relied upon to a certain extent. In Tunisia, besides the army,

there were several notable figures who were not overly compromised with the Ben Ali regime. In Yemen, after the military operations against the followers of Al Qaeda, and in Bahrain, the site of an important US base, the West has decided to stand on the sidelines. This is why Saudi Arabia has been able to send troops into Bahrain without provoking an outcry from the West. This is why the solution of the Yemenite question has been left to the Arab states in the region, who have moved with great


repercussions on the equilibrium of the whole region, from Iran to Lebanon, from Turkey to Iraq, not to mention Israel. Syria’s President, Bashar al-Assad, has calculated that NATO would not run the risk of embroiling itself in another conflict after the uncertain Libyan war, and has had no hesitation in repressing the protests with a brutality far greater than that adopted by Gaddafi. Less attention has been paid to the economic consequences of the crises. Revenues from tourism have collapsed, exports have dropped sharply, unemployment has risen. The Brussels Commission and President Barack Obama, in his speech of May 19, have promised extraordinary aid. But financial aid can be given and used only when there are governments capable of using it and favorable environmental conditions. For this to happen, the transition has to be completed, the regions’ governments have to win greater popular support and the Libyan war has to come to an end, in one way or another. At the time of writing, the finishing line is still a long way off.

circumspection, exerting extremely bland pressure on President Saleh. In Libya there were only the local tribes and Gaddafi. The decision was taken to assume that the rebels were a credible democratic political force and a war was unleashed against the colonel, which the USA decided to delegate to NATO in order to avoid undue national involvement. The fact that Libya is an Italian colonial creation, formed from two separate historic entities, Tripolitania and Cyrenaica, was overlooked. It might have

been better to accept the separation of the two regions. The prevailing view, however, was that only the elimination of Gaddafi would enable the democratic West to proclaim the mission a success. As often happens, the face and nature of the war have changed as events have unfolded. The mission began as a noble humanitarian interference. It has turned into an operation at the side of the rebels in a civil war and its main objective, after a few weeks, was to avoid a defeat for NATO. The situation in Syria was,

if possible, even more complicated. Syria is a multi-ethnic, multi-confessional state where the regime of the Assad family has a strong political base—the Alawi minority, the Baath party, the army, the militias, the wheelers and dealers of the national economy—, a fifth column inside Lebanon (Hezbollah), several influential friends (Iran, and also Turkey), and, in recent years, has been a piece of the Middle-Eastern puzzle that would be difficult to replace. The collapse of the ruling regime could have

* Sergio Romano is one of Italy’s and the international community’s most highly regarded commentators. He was Director General for Cultural Affairs at the Italian Foreign Ministry (1977-1983), Italian representative at NATO (1983-85) and from September 1985 Italy’s Ambassador in Moscow during the crucial perestroika years, until his retirement from the diplomatic service in March 1989. As a historian, his main focus is Italian and French history in the 19th and 20th centuries and his many books have won a wide following. Today he is a leader writer for Corriere della Sera and Panorama and a contributor to a number of journals dealing with international relations. His latest book is L’Italia disunita, written with Marc Lazar and Michele Canonica (Longanesi, 2011).

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LA PRIMAVERA ARABA: LA POSIZIONE DELL’EUROPA

Spero dunque sono THE ARAB SPRING: THE EUROPEAN POSITION

I Hope, Therefore I Am di Dominique Moïsi* by Dominique Moïsi*

Paure e aspettative: una scelta davanti al mondo occidentale Fears and expectations: a choise in front of the Western world

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Dominique Moïsi

L’

analogia con la Rivoluzione francese è utile per comprendere la “Primavera araba”? Non è forse questo paragone ancora una volta un segno di presunzione intellettuale da parte di un mondo occidentale che non si rassegna a non essere più il centro unico ed esclusivo della storia del mondo? Anche così, però, la madre di tutte le rivoluzioni è ricca di insegnamenti per comprendere la complessità dei processi in atto sull’altro versante del Mediterraneo, e ci invita innanzitutto a una lezione di pazienza e di umiltà. La Rivoluzione araba ha avuto inizio meno di sei mesi fa. Oggi non ci troviamo ancora nel dicembre 1789 per continuare a mantenere il paragone con la Rivoluzione francese. La storia è appena cominciata: sarà lunga e intricata, conoscerà alti e bassi. Con l’atteggiamento di telespettatori contemporanei avvezzi allo zapping, il nostro livello di attenzione cala facilmente. Vogliamo risultati immediati, l’entusiasmo di un giorno cede troppo rapidamente il passo allo scoraggiamento del giorno dopo. Ciò nonostante siamo tenuti a dar prova di pazienza e di determinazione. La “Primavera araba” è davvero

un cambiamento rivoluzionario. Esiste un prima e un dopo, anche se questo dopo è lungi dall’essere scritto. C’è in Tunisia, luogo catalizzatore del processo, il nesso tra un “incidente storico” – il gesto estremo del giovane tunisino che si è dato fuoco perché non

riusciva più a sopportare la condizione in cui viveva – e una serie di cause strutturali profonde – demografiche, sociali, economiche, politiche ed etiche – il tutto agevolato da una rivoluzione dell’informazione. A livello demografico, l’ultima generazione dei figli del boom del mondo arabo si è affacciata su un mercato del lavoro ancora più debole in conseguenza dell’impatto della crisi economica e finanziaria mondiale. Questi giovani ultra-diplomati ma, nella maggior parte dei casi, male istruiti, hanno fatto cadere il “Muro della Paura” spinti, come solo loro potevano esserlo, da una miscela di motivazioni politiche ed etiche, desiderio di libertà, rifiuto della corruzione e profonda frustrazione economica. Dominati fino a quel momento da una cultura fatta di umiliazione e dalla totale assenza di fiducia in se stessi

e nel futuro, sono passati, nello spazio di un momento, a una cultura intrisa di speranza, sicuramente ancora fragile, ma pur sempre nuova per loro. Nel corso di queste giornate rivoluzionarie il movimento è stato guidato, agevolato e incoraggiato dalla riappropriazione dell’informazione resa possibile dall’emittente televisiva Al Jazeera. Solo ieri non potevano scegliere che tra la televisione ufficiale di stato in cui non riponevano alcuna fiducia e le emittenti internazionali come la CNN e la BBC verso cui nutrivano comunque una certa diffidenza dal punto di vista culturale. Ma dal gennaio 2011 siamo entrati in un nuovo mondo. È davvero troppo presto per poter stabilire chi saranno i vincitori e chi i vinti. Anche in questo caso, però, si rivela utile il paragone con la Rivoluzione


francese. Un paese come l’Iran può rallegrarsi dell’indebolimento temporaneo del suo grande rivale arabo: l’Egitto. Ma i principi rivoluzionari non rischiano in futuro di rivoltarsi contro il regime dei mullah? Nel 2011 l’Iran non si trova forse nella stessa situazione in cui si era venuta a trovare l’Austria di fronte alla Rivoluzione francese, divisa tra compiacimento e preoccupazione? Quali conseguenze avranno questi avvenimenti sul conflitto Israele/Palestina? Il tempo non gioca a favore dello stato ebraico. In passato aveva a che fare con leader che si accontentavano spesso dello status quo. Oggi invece dovrà trattare direttamente con gente più impaziente di ottenere una risoluzione del conflitto e che desidera profondamente la costituzione di uno stato palestinese vicino a Israele. Al contrario, i cittadini arabi

che accettano la propria identità e che possono anche andar fieri delle loro recenti conquiste riescono più facilmente a tollerare l’esistenza in Medio Oriente di quello che considerano da sempre un corpo estraneo: lo stato israeliano. Cosa può fare il mondo occidentale e in particolare l’Europa? In primo luogo, supportare il carattere schiettamente rivoluzionario di quanto sta accadendo nel mondo arabo. In secondo luogo, non attribuirsene la paternità. Non sono i “nostri” valori che possono avere la meglio in Medio Oriente. Sono invece i valori di libertà, di rispetto e di dignità proclamati da una parte sempre più grande di abitanti della regione. In ultimo, e soprattutto, occorre che l’Occidente mantenga davvero le generose promesse fatte al summit del G8 a Deauville. La Rivoluzione è anzitutto

politica ed etica, ma la sua riuscita dipende interamente dalla ripresa dell’economia, quindi dai progressi realizzati o meno sul campo. La gente deve percepire la democrazia e lo stato di diritto come elementi necessari per il progresso. Il discorso della paura – chiudiamo le frontiere per contrastare l’afflusso di immigrati – non è solo poco dignitoso, è fuori luogo. Gli immigrati non sono poi tanto numerosi e noi abbiamo bisogno di loro. Resta il fatto che sulla questione degli immigrati l’Europa deve trovare risposte coordinate, evitando di far prevalere l’atteggiamento dell’“ognun per sé”. La “Primavera araba” rappresenta certamente un rischio ma, come qualsiasi grande cambiamento, va in primo luogo considerata un’opportunità. Saranno i più coraggiosi, i più responsabili, i più intraprendenti e i più aperti

tra noi a essere i vincitori di domani. A guidarci non dovrà essere la paura ma una ragionevole speranza.

* Dominique Moïsi è consigliere speciale dell’Ifri (Istituto francese di relazioni internazionali), di cui è stato vice direttore. Ha insegnato all’Università di Harvard e al Collegio d’Europa. È docente presso l’Ecole Nationale d’Administration, l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales e l’Institut d’Etudes Politiques di Parigi ed è stato assistente di Raymond Aron. Esperto di geopolitica e di politica internazionale, dal 2001 al 2008 è stato titolare della cattedra di Geopolitica europea presso il Collegio d’Europa, con orientamento alle istituzioni europee. Dominique Moïsi scrive per il Financial Times, il New York Times, Die Welt e altre testate giornalistiche. Esperto in relazioni internazionali e Medio Oriente, è autore di numerosi libri. Nel 2009 ha pubblicato con l’editore Flammarion il saggio La Géopolitique de l’émotion (uscito in Italia per Garzanti con il titolo “Geopolitica delle emozioni”). È anche membro del Gruppo Bildberg.

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D

oes the French Revolution provide useful pointers for understanding the “Arab Spring”? Is the analogy a new display of intellectual arrogance from a Western world unreconciled to no longer being the only center of world history? Even so, the mother of all revolutions offers plenty of lessons to shed light on the complexity of the changes taking place today on the other side of the Mediterranean. Its first lesson is patience and humility. The Arab Revolution began less than six months ago. We haven’t yet reached December 1789, to continue the comparison with the French Revolution. The story is only just beginning: it will be long and complicated, there will be highs and lows. Our attention, conditioned by the “zapping” temperament of modern TV viewers, flags easily. We want results quickly, the enthusiasm of one day gives way too fast to discouragement the next day. So we need to prove our patience and determination. The “Arab Spring” is certainly a revolutionary change. It has a before and an after, even if the after is still a long way off. Tunisia, the starting point, was the stage for the conjunction between an “historic accident”—a young Tunisian, unable to put up with his situation any longer, set himself on fire—and deeply rooted structural causes—demographic, social, economic, political and ethical—all facilitated by the information revolution. On the demographic front, the last generation of baby-boomers in the Arab world has come on to a labor market made even flatter by the impact of the world economic and financial crisis. These over-qualified but more often under-educated young people have brought


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down the “Wall of Fear”, driven by a combination of political and ethical reasons, a desire for liberty and rejection of corruption, and intense economic frustration. Previously dominated by a culture of humiliation and a total lack of confidence in themselves and in the future, overnight they have moved to an albeit fragile but to them new culture of hope. Throughout the days of revolution, their uprising was shaped, facilitated and encouraged by the re-appropriation of information through the Al Jazeera chain. Previously, their only choice was between the official state television, in which they had absolutely no confidence, and the international chains like CNN and the BBC of which they were culturally suspicious. Since January 2011 we have moved into a new world. It is far too soon to say who will be the winners and who will be the losers. Once again the comparison with the French Revolution is helpful. A country like Iran may rejoice in the temporary weakening of its

great Arab rival, Egypt. But aren’t the revolutionary principles in danger of turning against the mullahs’ regime tomorrow? Isn’t Iran in 2011 in the situation Austria found itself in with respect to the French Revolution, divided between satisfaction and concern? What impact will these developments have on the Israeli/Palestinian conflict? The Hebrew state does not have time on its side. Yesterday it was negotiating with people who were often satisfied with the status quo. Today it is going to have to deal with people who are more impatient for a solution to the conflict, and who sincerely want to see a Palestinian state side by side with Israel. Conversely, Arab citizens who accept themselves, who may even be proud of their recent achievements, may be more willing to accept the existence in the Middle East of what they have always regarded as a foreign body, the Hebrew state. What should the West do, Europe first of all? In the first place, support the truly

revolutionary nature of the events taking place in the Arab world. Second, not claim paternity for those events. The values that prevail in the Middle East should not be “our” values, but the values of liberty, respect and dignity upheld by growing numbers of people in the region. Finally, and most important of all, the West must keep the generous promises of aid made during the G8 summit in Deauville. The Revolution is primarily a political and ethical movement, but its success depends entirely upon the economic recovery and thus on the progress achieved or not on the ground. The local populations must regard democracy and the rule of law as essential for progress. The question of fear—closing our borders to prevent an influx of immigrant—is not only undignified, it is inappropriate. The numbers of immigrants are not enormous and we need them. Nevertheless, immigration is a subject on which Europe needs to establish a coordinated response and avoid a situation of every man for himself.

The “Arab Spring” is certainly a risk, but, like every major change, it has to be seen above all as an opportunity. Tomorrow’s winners will be those of us who are most courageous, most responsible, most enterprising, most open. We should allow ourselves to be guided not by fear but by a reasonable hope.

* Dominique Moïsi is a Special Advisor to the IFRI (Institut Français des Relations Internationales), having previously been its Deputy Director. He has taught at Harvard University and at the College of Europe. He currently teaches at the Ecole Nationale d’Administration, the Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales and the Institut d’Etudes Politiques in Paris. He has worked as an assistant to Raymond Aron. An expert in geopolitics and a specialist in international politics, from 2001 to 2008 he was Chair of European Geopolitics at the College of Europe, with a focus on European institutions. Dominique Moïsi is a contributor to the Financial Times, The New York Times, Die Welt and other daily newspapers. A specialist in international relations and the Middle East, he has written several books, including La Géopolitique de l’émotion (Flammarion, 2009). He is a member of the Bildberg Group.


LA PRIMAVERA ARABA: LA POLITICA ESTERA AMERICANA

Il catalizzatore Obama THE ARAB SPRING: AMERICAN FOREIGN POLICY

Obama, The Catalyst di Mario Calvo-Platero* by Mario Calvo-Platero*

In Medio Oriente, il presidente Usa punta a trasformazione democratica, sviluppo economico e conclusione del processo di pace fra israeliani e palestinesi. Ma senza un Piano Marshall In the Middle East, US President aims at democratic transformation, economic development and peace process between Israelis and Palestinians. But without a Marshall Plan 12

Mario Calvo-Platero

S

trobe Talbott è un uomo misurato, riflessivo. È stato il numero due al Dipartimento di Stato nell’amministrazione Clinton e oggi guida la Brookings Institution, uno dei più importanti think tank americani da cui escono cervelli per le amministrazioni e studi che influenzano il corso della politica. Per questo colpisce la

sua valutazione quasi sensazionalista dei focolai di ribellione che stanno incendiando il Medio Oriente e il Nord Africa: “Le agitazioni in Medio Oriente sono uno dei quattro eventi storici degli ultimi 80 anni. Lo confronto con la fine della Seconda Guerra Mondiale, con l’inizio della Guerra Fredda, con la fine della Guerra Fredda... Ci sono

i focolai individuali, c’è il venditore ambulante tunisino che ha scatenato la passione, ma c’è anche il grande quadro per cogliere un’opportunità nella regione che mai si era presentata prima, per dimensioni e potenziale, a un’altra amministrazione americana. Da una mappa che abbiamo disegnato alla Brookings dei movimenti più o meno grandi, si vede che l’intera regione islamica, dal Marocco all’Iran, ha un focolaio di qualche genere. Ripeto la sfida è storica. Ed è molto complessa”. La domanda di fondo dunque diventa se gli Stati Uniti di Barack Obama stanno affrontando e gestendo questa crisi/opportunità nel migliore dei modi. All’inizio molti, e fra questi Talbott, hanno pensato che la reazione sia stata lenta, prima sulla Tunisia poi sull’Egitto. Del resto era stata lenta anche quando ci fu la green revolution in Iran nel giugno 2009. Poi, rapidamente,

Obama si è messo sulla stessa lunghezza d’onda della rivolta democratica, dell’appoggio di movimenti che possano favorire il radicarsi della democrazia in paesi a regimi dittatoriali, o comunque non democratici e repressivi anche sul piano dei diritti civili, se necessario attraverso un cambiamento di regime, come è successo nel caso della Libia. L’amministrazione Obama si è resa conto che nel calderone che si affianca alle rivoluzioni arabe rientrano un nuovo rapporto fra Usa ed Europa, l’ambizione di recuperare l’iniziativa per il processo di pace fra israeliani e palestinesi, la trasformazione democratica di regimi oppressivi non solo sul piano dei diritti e delle libertà civili, ma su quello dello sviluppo economico, inclusa una possibile accelerazione dello sviluppo africano che sembrava relegato al futuro lontano. Obama ha affrontato la questione in più occasioni: con il discorso all’Università del


Cairo del giugno 2009; con i sia pur tardivi interventi sulla rivoluzione verde in Iran; con il prudente inserimento di una nuova visione per l’Egitto quando il contagio da Tunisi si è esteso al Cairo; con le dure dichiarazioni al Bahrain, allo Yemen, alla Siria; e, durante la visita di re Abdullah alla Casa Bianca il 17 maggio, con le parole di incoraggiamento alla Giordania, alleato di sempre dell’America nella regione, per il buon funzionamento del processo di riforme avviato. Infine, il discorso di giovedì 19 maggio, quando la Casa Bianca ha insistito sulla “svolta” e sulla componente “storica” del discorso. In effetti Obama ha dato in quel discorso il quadro più completo del tracciato su cui intende muoversi in materia di rivolta democratica araba/processo di pace. Il discorso era diviso in due parti principali: la parte iniziale più lunga e dettagliata, dedicata alle rivoluzioni democratiche e al potenziale di sviluppo nel mondo arabo, e la parte finale dedicata al processo di pace in Medio Oriente. Obama ha lanciato messaggi diversi. Ha confermato ad esempio lo sdoganamento di re Abdullah. Al Bahrain ha dato un messaggio più duro. Alla Siria un messaggio di apertura a Bashar al-Assad: procedere con le riforme o andarsene. Lo spiraglio concesso ad Assad, alleato dell’Iran e fonte di possibile destabilizzazione in Iraq e in Libano, ha raccolto reazioni irate da parte di senatori e deputati repubblicani. Ma di nuovo, in questo caso,

la spiegazione dei due pesi e delle due misure di Obama è semplice. La Siria è chiave perché è al centro di un aggrovigliato centro di interessi: la Turchia, alleato Nato, teme che una brusca destabilizzazione siriana possa portare conseguenze rivendicative anche per la minoranza degli alauiti, 17 milioni di persone suddivise come i curdi anche in territorio turco e iraniano, oltre che siriano. Michael Singh, direttore del Washington Institute, ex responsabile del Medio Oriente alla Casa Bianca di George W. Bush, apprezza la parte politica del discorso rivolta al mondo arabo. Ha dubbi su quella rivolta al processo di pace in Medio Oriente: ”Il presidente Obama ha preso le distanze dal discorso del Cairo; – afferma Singh – ha capito di non poter parlare a un mondo islamico monolitico, ma di dover tenere conto delle differenze su base locale. Al punto che nel discorso non ha menzionato una sola volta la parola Islam, e questo è uno sviluppo promettente. Non solo, nel discorso del Cairo l’avallo della democrazia era al quarto posto, nel discorso del 19 maggio è al primo posto. Il cambiamento di fondo riguarda il passaggio da una politica di “coinvolgimento” nel dialogo di paesi difficili come la Siria o l’Iran a richieste molto più dirette per riforme democratiche”. La posizione enunciata in quel discorso per la pace in Medio Oriente invece resta secondo Singh un punto interrogativo: “In queste condizioni, di gelo

reciproco fra israeliani e palestinesi e di posizionamento unilaterale di Abbas per il riconoscimento all’Onu, era meglio restare defilati. Invece, sulla questione territoriale e su quella della sicurezza, il presidente ha dato l’impressione di virare rispetto a posizioni consolidate nei confronti di Israele sia dell’amministrazione Clinton sia dell’amministrazione Bush. E non è stata una scelta felice, né un bel messaggio”. Henry Siegman, direttore del US Middle East Project, ritiene invece che Obama sul Medio Oriente abbia fatto la mossa giusta: ”Ha mescolato le carte, ha fatto capire a Israele che dovrà fare dei passi concreti in avanti. L’obiettivo, non di breve termine, è di far avanzare un dibattito che guarda già alle elezioni dell’anno prossimo in Israele. Il Likud di Benjamin Netanyahu resterà sempre più isolato, i laboristi potranno vincere e riprendere il dialogo da dove Obama l’aveva lasciato”. Altri del Washington Institute di Singh, J. Scott Carpenter ad esempio, sostengono che il discorso di Obama, pur avendo rappresentato una svolta, “è un semplice aggiornamento della dottrina Bush”. Opinione condivisa da altri analisti, ma sostanzialmente errata o comunque di parte. Per prima cosa Obama ha stabilito principi diversi dal punto di vista metodologico da quelli di George W. Bush. Sui tre punti chiave della dottrina Bush – attacco preventivo per la tutela della sicurezza americana, cambio di

regime, approccio unilaterale se necessario – Obama ha riformulato le posizioni della sua amministrazione puntando su tre principi diversi: gli attacchi americani o degli alleati ci saranno solo per proteggere le popolazioni civili. Non solo, avverranno in reazione a violazioni da parte dei regimi di normative internazionali approvate nel contesto della comunità internazionale, e non saranno “preventivi”. L’approccio, inoltre, non sarà mai unilaterale, ma sempre multilaterale. E difatti nel caso della Libia, l’unico dove finora si è reso necessario un intervento armato della Nato e degli Stati Uniti, ha comportato l’applicazione della risoluzione 1973 approvata dal Consiglio di sicurezza dell’Onu che imponeva al regime di Gheddafi una no fly zone e la tutela della sicurezza della popolazione civile, due indicazioni mai rispettate da Gheddafi. Sul piano più ideologico, quello che riguarda democrazia e possibile regime change, la costante, per tutti i presidenti americani ha come punto di riferimento l’idealismo wilsoniano, quello del “coinvolgimento”, opposto, secondo le teorie di Henry Kissinger “all’isolazionismo jacksoniano...”. Infatti, la diffusione della democrazia e dell’economia di mercato a livello mondiale è una costante della politica estera americana proprio dai tempi del discorso in 14 punti del gennaio 1918 del presidente Woodrow Wilson. E, a seconda delle amministrazioni americane, hanno avuto interpretazioni più o meno aggressive sia sul piano della comunicazione sia su quello dell’intervento militare. L’adeguamento dell’amministrazione Obama alla nuova realtà sul campo Nord Africa/Medio Oriente

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è stato dunque rapido e sostanziale. Il presidente ha coinvolto le grandi istituzioni multilaterali nel finanziamento di progetti di sviluppo in cambio di riforme democratiche. E al G8 di Deauville, ha varato con gli altri leader un piano di finanziamenti fino a 20 miliardi di dollari. L’effetto domino intanto procede, con l’uscita dalla scena yemenita di Ali Abdullah Saleh, dopo 30 anni al potere. Si aprono ovviamente nuove incognite con altri rischi di destabilizzazione. Lo sforzo economico in questo contesto diventa chiave. È sufficiente? “Vuole la verità?” chiede Ken Pollack, un altro dei massimi esperti di Medio Oriente in America, anch’egli con la Brookings e alla guida del Saban Center sul Medio Oriente. “Non abbiamo denaro. Siamo indebitati fino al collo e abbiamo un disavanzo colossale. Il Piano Marshall se lo devono fare i paesi del Golfo e non con 30 o 40 miliardi di dollari, ma con 300 miliardi!”. Auspicabile ovviamente. Se non fosse che quando si arriva al momento della “solidarietà” fra “cugini”, i paesi arabi non hanno mai mostrato grande visione.

* Mario Calvo-Platero è il capo della redazione americana de Il Sole 24 Ore. Segue i viaggi internazionali della Casa Bianca, conduce il programma “America 24” su Radio 24. Guida la EMC, una controllata media del gruppo in America. Ha curato The Italian Edge: Technology and Sustainability (2011) ed è l’autore del libro Il Modello Americano. Egemonia e Consenso nell’Era della Globalizzazione (1997).

S

trobe Talbott is a moderate, thoughtful man. He was number two at the State Department under the Clinton administration and is now at the helm of the Brookings Institution, one of the most important American think tanks, producing the minds behind governments and studies that have an impact on the course of politics. This is why his almost sensationalist assessment of the hotbeds of rebellion inflaming the Middle East and North Africa is so striking: “The unrest in the Middle East is one of the four great historic events of the last 80 years. I could compare it with the end of World War II, the start of the Cold War, the end of the Cold War... There are individual hotbeds, there is the Tunisian hawker who got it all going, but there is also the bigger picture, an opportunity to be taken advantage of that has never emerged before in the region, with this size and potential, for any other American government. From a map of the movements of various sizes that we drew at Brookings, it appears clear that there is a hotbed of some kind everywhere in the Islamic area, from Morocco to Iran. Once again, the challenge is historical. And it’s very complicated.” The essential question therefore becomes whether Barack Obama’s America is addressing and handling this crisis/opportunity in the best possible way. At first many people, including Talbott, thought the reaction was slow, in response to Tunisia first and then Egypt. After all, it was slow when there was the green revolution in Iran in June 2009. Then Obama quickly got onto the same wavelength of democratic revolt, of support for movements that could promote the establishment of

democracy in countries with regimes which are dictatorial or at any rate undemocratic and repressive in terms of civil rights, through regime change where necessary, as in the case of Libya. The Obama administration realized that the cauldron contains not only the Arab revolutions but a new relationship between the US and Europe, the ambition of resuming the initiative in the peace process between Israelis and Palestinians, and democratic transformation of oppressive regimes not only in terms of civil rights and liberties, but also in terms of economic growth, including possible acceleration of growth in Africa, which seemed to be relegated to the distant future. Obama has addressed the issue on several occasions: in his speech at Cairo University in June 2009; in his somewhat slow reaction to the green revolution in Iran; in his prudent statement of a new vision for Egypt when the contagion had already spread from Tunis to Cairo; with his tough declarations to Bahrain, Yemen and Syria; and, during King Abdullah’s May 17 visit to the White House, in his words of encouragement for Jordan, which has always been America’s ally in the area, regarding the success of the process of reform underway. And finally, in the May 19 speech in which the White House insisted on the “turning point” and the “historic” component of events. In effect Obama provided in this speech the most complete overview of the path along which he intends to move in the area of Arab democratic revolt and the peace process. His speech was divided into two main parts: a longer, more detailed initial part concerned with the democratic revolutions

and potential for growth in the Arab world, and a final part focusing on the Middle East peace process. Obama gave different messages. For example, he cleared King Abdullah. His message for Bahrain was tougher. In Syria he invited Bashar al-Assad to proceed with reform or leave. The escape route he offered Assad, an ally of Iran and potential source of destabilization in Iraq and Lebanon, attracted the ire of Republican senators and deputies. But once again, there is a simple explanation for Obama’s two weights and measures. Syria is a key nation because it is at the center of a tangle of interests: Turkey, a NATO ally, fears that sudden destabilization of Syria might result in vindication of its Alawi minority, 17 million people who, like the Kurds, are located in Turkey and Iran as well as Syria. Michael Singh, Director of the Washington Institute and formerly in charge of the Middle East in George W. Bush’s White House, appreciates the political part of this discourse with the Arab world. He has some doubts about the part regarding the Middle East peace process. ”President Obama kept his distance from the Cairo speech.” says Singh, “He understands that he cannot talk about a single Islamic world, but has to take local differences into account. To the point that he didn’t mention Islam once in his speech, and this is a promising development. Not only this, but in his Cairo speech guaranteeing democracy came fourth, whereas in his May 19 speech it was in first place. The basic change lies in transition from a policy of “involvement” in the dialogue of difficult countries such as


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Syria or Iran to much more direct demands for democratic reform.” Singh sees Obama’s position on the Middle East peace process as stated in this speech as still an open question: “In these conditions of reciprocal chill between the Israelis and the Palestinians and Abbas’s unilateral position demanding UN recognition, it would have been better to keep out of it. But on the issues of territory and security, the President gives the impression of turning away from the established positions of both the Clinton and Bush administrations in relation to Israel. And this was not an easy choice, or a good message.” Henry Siegman, Director of the US Middle East Project, says that Obama made the right move in the Middle East. ”He shuffled the cards, made it clear to Israel that it will have to take some concrete steps forward. The goal, though not in the short term, is to move forward in a debate which is already looking toward next year’s elections in Israel. Benjamin Netanyahu’s Likud will be increasingly isolated; Labor might win and pick up the dialogue where Obama left off.” Others in Singh’s Washington Institute, such as J. Scott Carpenter, say that Obama’s speech, while it did mark a turning point, “is just an updated version of the Bush

doctrine.” This opinion is shared by other analysts, but is essentially wrong or one-sided. First of all, Obama has established different methodological principles from those of George W. Bush. On the three key points of the Bush doctrine—preventive attack to protect American security, regime change, a unilateral approach if necessary—Obama has reformulated his administration’s positions, focusing on three different principles: American and its allies will only attack to protect civilian populations. Not only this, but in reaction to regimes that violate international laws approved by the international community, not “preventively”. This approach will, moreover, never be unilateral, but always multilateral. And in fact in the case of Libya, the only one so far to require armed intervention on the part of NATO and the United States, led to application of resolution 1973 approved by the UN Security Council imposing a no fly zone on the Gaddafi regime and protecting the security of the civilian population, two conditions which Gaddafi never met. In ideological terms, that is, in terms of democracy and potential regime change, the constant for all American

Presidents has been Wilsonian idealism, meaning “involvement”, in opposition, according to Henry Kissinger’s theories, to “Jacksonian isolationism...”. In actual fact, the spread of democracy and the market economy all over the world has been a constant in American foreign policy since President Woodrow Wilson’s 14 point speech in January 1918. And different American administrations have interpreted this in more or less aggressive ways, in terms of both communication and military intervention. The Obama administration’s response to the new situation in North Africa and the Middle East has been rapid and substantial. The President has got large multilateral institutions involved in financing development projects in exchange for democratic reform. At the Deauville G8, he and the other leaders introduced a financing plan worth up to 20 billion dollars. In the meantime, the domino effect continues, as Ali Abdullah Saleh leaves Yemen after 30 years in power. Everywhere new unknowns are appearing, bringing additional risks of destabilization. In these circumstances, economic commitment is a key. Is it enough? “Do you want the truth?” asks Ken Pollack, another of America’s greatest

experts on the Middle East who also works with Brookings and is the head of the Saban Center on the Middle East. “We don’t have any money. We’re deeply in debt and we have a huge deficit. The Marshall Plan ought to be in the hands of the Gulf nations, and not with 30 or 40 billion dollars, but 300 billion!” This would of course be welcome. If it were not for the fact that when it comes to “solidarity” among “cousins”, the Arab countries have never been very farsighted.

* Mario Calvo-Platero is in charge of the American editorial offices of the financial daily Il Sole 24 Ore. He follows White House international trips and hosts the “America 24” program on Radio 24. He is the head of EMC, a media subsidiary for the group in America. He supervised The Italian Edge: Technology and Sustainability (2011) and is the author of the book Il Modello Americano. Egemonia e Consenso nell’Era della Globalizzazione (1997).


LA PRIMAVERA ARABA: I FATTORI ECONOMICI

Sete di sviluppo e libertà THE ARAB SPRING: THE ECONOMIC FACTORS

A Thirst For Growth And Freedom di Carlo Bastasin* by Carlo Bastasin*

Le rivolte arabe nascono da miseria e oppressione. Per realizzare crescita e democrazia ora occorrono sia autonome spinte interne sia collaborazione internazionale The Arab insurrections stem from poverty and oppression. To achieve growth and democracy, independent internal movements are needed, as well as international cooperation 16

Carlo Bastasin

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o scorso dicembre un venditore di frutta, Mohamed Bouazizi, si vide sequestrare dalla polizia tunisina le bilance con le quali pesava la merce che vendeva al suo banco. Le semplici proteste di Mohamed provocarono una reazione violenta dei poliziotti che picchiarono e umiliarono il piccolo commerciante di fronte alla moltitudine che affollava il mercato. Privo degli strumenti di lavoro e perfino del diritto di protestare di fronte all’ingiustizia subita, Mohamed si diede fuoco di fronte ai cittadini. Il governo di Tunisi, che controllava televisioni e giornali, cercò di nascondere la terribile vicenda di Mohamed che veniva citata nei notiziari come “l’incidente”. Ma, attraverso strumenti di comunicazione che sfuggivano al controllo delle autorità, le e-mail su internet e ancor più i social network, la vicenda arrivò alla conoscenza di decine di migliaia di tunisini che condividevano la stessa frustrazione di Bouazizi, la sua stessa condizione di povertà e la stessa impossibilità di avere giustizia. Nel giro di pochi giorni la protesta giunse ad abbattere il governo di Ben Ali e infine dopo poche settimane si estese all’intera area del Nord Africa e del Medio Oriente.

Per chi ha assistito alle vicende che hanno portato nell’89 all’abbattimento della Cortina di Ferro, la tragica fine di Bouazizi non poteva non ricordare quella del prete di origine ungherese picchiato dalla polizia rumena da cui scaturì la scintilla origine della rivolta contro il sanguinario regime di Nicolae Ceaus¸escu. Anche in quella occasione, in forme e con protagonisti diversi, la rivolta si rafforzò attraverso i confini di paese in paese. Già allora si era estesa a tutto l’Est Europa, finendo per cambiare la geografia politica dell’Europa e del mondo. Con lo stesso spirito di attesa e speranza il mondo ha cominciato a osservare le vicende della sponda sud del Mediterraneo: una nuova primavera di libertà sospinta nelle pianure arabe da un vento di ribellione contro la miseria e la privazione di voce dei cittadini. A pochi mesi di distanza dalla rivolta di Tunisi e da quella di Piazza Tahrir al Cairo è sopraggiunta l’incertezza sul destino della primavera araba. Nuove proteste si allargano di nuovo per le difficoltà economiche dei paesi della sponda sud del Mediterraneo. Si teme che il movimento di liberazione possa dare spazio

e forma a nuove frustrazioni e queste a loro volta a vecchie intolleranze. La sorpresa con cui abbiamo osservato gli eventi della primavera araba nasce anche dal fatto che l’Occidente non ha mai veramente considerato importante conoscere la condizione sociale ed economica di quei paesi. Per molti di noi i paesi arabi sono stati importanti dal punto di vista economico solo per ragioni legate al commercio del petrolio. Secondo i dati del 2008 pubblicati dalla Banca mondiale, le esportazioni non petrolifere dei paesi del Nord Africa e del Medio Oriente sono pari a solo il 16% del prodotto interno lordo di quei paesi, contro il 44% dei paesi dell’Asia orientale. Il confronto tra le due aree è rilevante perché le economie asiatiche son state in grado di affrancarsi permanentemente dalla condizione di povertà che invece ancora caratterizza i paesi del Nord Africa. I rapporti commerciali con l’Occidente si sono dunque sviluppati principalmente attraverso il commercio petrolifero che è caratterizzato da operatori statali, centralizzati, e sotto il pieno controllo dei governi. Il resto della società araba o nordafricana finiva per essere quasi interamente estraneo all’attenzione del mondo occidentale. In realtà l’assenza di settori manifatturieri sufficientemente sviluppati è stata un fattore decisivo nel creare condizioni sociali pre-rivoluzionarie. Non è un caso che la disoccupazione sia particolarmente elevata proprio tra le fasce giovanili istruite, prive di un approdo adeguato nel mondo del lavoro, così come avviene alla popolazione femminile che non trova la possibilità di esprimere un’esistenza attiva. Per i giovani arabi o nordafricani l’alternativa

era trovare un’occupazione nel settore pubblico, essenzialmente integrato nel sistema di potere chiuso degli autarchi, o rinunciare del tutto. L’aggancio al poderoso incremento del commercio mondiale degli ultimi quindici anni è stato troppo debole per garantire una creazione di posti di lavoro sufficiente a soddisfare la domanda di una popolazione molto giovane rispetto a quella media mondiale. Non a caso, gli investimenti privati nella sponda sud del Mediterraneo sono circa la metà, in rapporto al reddito complessivo, di quelli che si registrano in Asia. Anche se ci sono stati miglioramenti nel livello medio della crescita economica, i benefici sono stati distribuiti in modo tutt’altro che egualitario. Il livello della mortalità infantile è calato, così come la quota di popolazione che vive con meno di un dollaro al giorno, e l’aspettativa media di vita è cresciuta, ma l’aumento medio del reddito si è concentrato nelle fasce sociali o nelle classi di potere che sole erano in grado di sequestrare i profitti delle attività economiche. Il risultato è che gli indici di povertà relativa sono aumentati. Le élite che erano in grado di approfittare del benessere si sono di fatto isolate dal resto della popolazione, che non ha potuto che sviluppare una crescente frustrazione e senso di ribellione. La situazione è diventata ancor più insopportabile con l’improvviso aumento dei prezzi dei generi alimentari e di alcune materie prime, tra cui il cotone. Nonostante il vasto potenziale economico offerto da una popolazione giovane, i paesi della sponda sud del Mediterraneo sono principalmente importatori anche di generi di base. Il contrasto tra la vistosa perdita di reddito dei cittadini e la


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mancanza di informazioni da parte dei governi ha reso ancora più insostenibile la privazione causata dall’inflazione. In Egitto per esempio nemmeno le più basilari statistiche economiche hanno carattere pubblico. Da anni le istituzioni internazionali hanno sollecitato l’approvazione di leggi per la libera circolazione delle informazioni economiche in alcuni paesi. Ma i risultati sono stati molto deludenti. Il fatto che gran parte delle classi al potere fossero principalmente impegnate a sequestrare in varie forme i profitti delle poche attività economiche redditizie è stato un potente incentivo per i governi a mantenere nascosta la realtà dell’economia. La primavera araba è apparsa ai nostri occhi una straordinaria opportunità per suscitare sia lo spirito democratico – che irragionevolmente molti ritenevano estraneo a quelle popolazioni – sia l’istinto al commercio. Un recente studio condotto a Washington ha indicato nelle politiche di apertura agli scambi mondiali la chiave per creare almeno 40 milioni di nuovi posti di lavoro nella sponda sud del Mediterraneo. La protesta dei popoli contro Mubarak, Ben Ali o Gheddafi, è sembrata la scintilla dell’empowerment attraverso il quale i cittadini

prendono possesso e responsabilità del proprio destino, attivano le ragioni dell’autogoverno e sviluppano la ricerca del benessere diffuso. Una porta aperta attraverso la quale sarebbe passato il trasferimento di tecnologie comunicative e produttive che in pochi passaggi avrebbe avvicinato la realtà sociale e politica del Nord Africa a quella dell’Europa attraverso il potenziale di integrazione produttiva tra le due aree. L’Organizzazione internazionale del lavoro stima che la disoccupazione nel Medio Oriente per i giovani di età compresa tra i 15 e i 24 anni sia attorno al 25%, ma statistiche recenti valutano che la percentuale reale, tenendo conto della sotto-occupazione dichiarata da molti giovani, possa essere molto superiore e sfiorare il 40%. Il costo diretto della disoccupazione giovanile nel mondo arabo viene stimata in circa 50 miliardi di dollari all’anno. Per sviluppare il potenziale economico è fondamentale fare leva sul commercio mondiale che può essere attivato dall’Europa. Se tuttavia consideriamo la risposta politica data dai nostri paesi alla primavera araba, vediamo che si connota essenzialmente con un profondo imbarazzo politico. Da un lato si è sviluppata una

forte resistenza all’immigrazione proveniente da quei paesi, dall’altro si è attivato un intervento militare sul territorio libico. Di cooperazione economica, di attrazione verso l’area commerciale europea quasi non si è parlato. Il risultato è che l’Unione europea non ha sfruttato quello che è sempre stato il suo principale potere in politica estera: il potere trasformativo con il quale poneva la condizione di requisiti democratici della società all’apertura dell’interscambio. In un imbarazzo ancora maggiore si sono trovati gli Stati Uniti che, a torto o a ragione, nonostante la suggestione offerta dalla figura del presidente Obama, sono stati identificati molto presto dall’opinione pubblica araba e nordafricana, come un potere collusivo con gli autarchi deposti. La grande aspettativa e speranza con cui i cittadini occidentali hanno osservato il cambiamento portato dalla primavera araba, si sta spegnendo. Al suo posto sta crescendo la preoccupazione per uno sviluppo che in alcuni casi sembra meno incoraggiante di quanto sperato. Il caso egiziano, la rivoluzione di Piazza Tahrir, è certamente quello osservato con maggiore entusiasmo e preoccupazione. La cacciata dopo 30 anni di Hosni Mubarak promette una

stagione radicalmente nuova, ma anche carica di incognite. L’impatto della rivoluzione si è già fatto sentire sull’economia: il turismo è crollato e il paese perde 1 miliardo di dollari al mese di redditi; la produzione industriale è caduta del 50% e anche le rimesse degli egiziani all’estero si sono fermate nell’incertezza degli eventi. La popolazione, dopo anni di repressione e bugie, chiede urgentemente posti di lavoro e aumenti di stipendio. Il nuovo ministro delle Finanze Samir Radwan ha dichiarato che solo a febbraio il governo ha dovuto spendere 7 miliardi per dare soddisfazione ai lavoratori che chiedono aumenti a compensazione dell’inflazione. Il risultato è che il paese sta accumulando un deficit di bilancio che con una stima conservativa il governo valuta nel 10% del prodotto lordo. Per limitare il disavanzo il governo si è messo alla ricerca di 12 miliardi di dollari di prestiti dall’estero. Il governo del Cairo si è rivolto a due fonti di finanziamento: da un lato i “paesi amici”, cioè i paesi del Golfo arabo produttori di petrolio, Arabia Saudita, Kuwait e Qatar. Dall’altro lato ha attivato un “Programma Egitto” presso il Fondo monetario internazionale. Dall’istituto di Washington potrebbero arrivare


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3-4 miliardi di dollari, ma il governo ha dichiarato di non accettare le tradizionali “condizioni” che il Fondo impone in caso di finanziamento: politiche di spesa sotto controllo, stipendi pubblici calmierati e così via. La rivoluzione araba ha dato finalmente voce al bisogno di cittadini a lungo oppressi. Perché lo spirito di milioni di individui non venga tradito e si trasformi in nuova ribellione, i bisogni che vengono espressi dalla voce che si è liberata devono almeno in parte essere raccolti dai nuovi governi. Perché ciò avvenga, in assenza di assistenza americana ed europea, inevitabilmente i paesi non produttori di petrolio del Nord Africa e del Medio Oriente, finiscono per dipendere dal potere finanziario dei paesi produttori. A loro volta questi ultimi sono integrati nel sistema dell’economia globale. La loro prosperità dipende da rapporti stabili con l’Occidente. Vivere di compromessi finanziari non è lo sviluppo naturale di rivoluzioni che nascono dall’empito di libertà di milioni di individui. Ma è quando le rivoluzioni diventano realiste che riescono a continuare a evolvere.

* Carlo Bastasin è editorialista per Il Sole 24 Ore e analista politico ed economico per primari centri studi. Nel 2009 è stato chiamato a Washington dal Peterson Institute for International Economics. Dal 2010 è associato, come non-resident senior fellow alla Brookings Institution di Washington, il più importante think tank del mondo.

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n December last year, the Tunisian police confiscated the scales street vendor Mohamed Bouazizi used to weigh fruit on his market stall. Mohamed’s protests provoked a violent reaction from the policemen, who beat and humiliated him in front of the crowds in the market. Deprived of his working equipment, deprived even of the right to protest about the injustice he had suffered, Mohamed set himself on fire in public. The Tunisian government, which controlled television and the newspapers, tried to cover up Mohamed’s awful story, referring to it in news bulletins as “the incident”. But through the communication tools that eluded the control of the authorities—e-mail and, even more important, the social networks—reports of the story reached tens of thousands of Tunisians experiencing the same frustrations as Bouazizi, similar conditions of poverty and the impossibility of obtaining justice. Within a few days, the protest had brought down the Ben Ali government; within weeks, it had spread throughout North Africa and the Middle East. For people familiar with the events that led to the collapse of the Iron Curtain in 1989, Bouazizi’s tragic end inevitably recalled the story of the ethnic Hungarian priest whose beating at the hands of the Romanian police triggered the revolt against Nicolae Ceaus¸escu’s bloody regime. Through a variety of channels and protagonists, that rebellion too

strengthened as it spread from country to country. The uprising extended across the whole of Eastern Europe, transforming the political geography of Europe and the world. In the same spirit of expectancy and hope, the world began watching the events unfolding in the southern Mediterranean: a new spring of freedom carried across the Arab plains by a wind of rebellion against the misery and the suppression of the voices of so many people. Today, a few months after the revolt in Tunisia and the demonstrations in Cairo’s Tahrir Square, the outcome of the Arab spring is uncertain. The countries’ economic difficulties are fueling new protests. Concern is growing that the freedom movement will provide a channel for expression of new frustrations, which in turn will generate old forms of intolerance. The surprise with which we have watched the Arab spring unfold is due in part to the fact that the West has never really given much importance to understanding the social and economic conditions of the countries concerned. For many of us, the Arab nations were economically important purely for oil-related reasons. According to World Bank figures for 2008, the non-oil exports of North Africa and the Middle East accounted for only 16% of their GDP, compared with 44% for East Asian nations. The comparison between the two areas is significant because the Asian economies have successfully

overcome the conditions of poverty that still beset North Africa. The area’s commercial relations with the West were thus largely based on the oil trade, run by centralized state-owned players under total government control. The West paid almost no attention at all to the rest of Arab or North African society. In fact, the absence of sufficiently developed manufacturing sectors was decisive in creating pre-revolutionary social conditions. It is no coincidence that unemployment is particularly high among educated young people, who lack an adequate channel of entry into the workplace, and the same is true for women, who have no opportunities to find active employment. The choice facing young Arabs and North Africans was either to find a job in the public sector, essentially an integral part of a closed autarkic power system, or give up altogether. World trade has expanded significantly in the last fifteen years, yet the southern Med Rim’s link with this growth was too feeble to create sufficient jobs to meet the demand of a particularly young population compared with the world average. In relation to overall income, private investments in the southern Mediterranean are about half those in Asia. Although the average level of economic growth has improved, the benefits of growth have hardly been fairly distributed. Infant mortality rates have fallen, as has the proportion of the population living on less


than a dollar a day, and average life expectancy has risen, but the average increase in income has been restricted to the social classes or power groups in a position to seize the profits of economic activity. The result is that relative poverty indices have risen. The élites in a position to enjoy the new wealth have isolated themselves from the rest of the population, whose frustration and rebelliousness have inevitably grown. The situation has been made even more intolerable by the sudden rise in the price of food and some raw materials, including cotton. Despite the huge economic potential of their young population, the southern Mediterranean countries are principally importers of staple goods. The contrast between the sizeable loss of income of the general population and the lack of government information has made the privations caused by inflation even more difficult to bear. In Egypt, for example, not even the most basic economic statistics are published. For years the international bodies have pressed for laws introducing the free circulation of economic information in some countries. But the results have been very disappointing. The fact that the chief concern of most of the ruling classes was to grab for themselves the various benefits produced by their countries’ few profitable economic activities was a powerful incentive for governments to hide the reality of their economic conditions. To Western eyes, the Arab spring seemed to be an extraordinary opportunity to awaken both a democratic spirit—which many unreasonably believed was unknown to Arab populations—and a trading instinct. A recent study in

Washington suggests that policies open to world trade could stimulate the creation of at least 40 million new jobs in the southern Med Rim. The popular protests against Mubarak, Ben Ali or Gaddafi appeared to be the spark empowering people to take control of and responsibility for their future, to establish forms of self-government and to foster the pursuit of widespread well-being. An open door for the communication and production technology transfers that, in a few short steps, would bring North Africa closer, politically and socially, to Europe, thanks to the potential for production integration between the two areas. The International Labor Organization estimates that in the Middle East unemployment among young people between the ages of 15 and 24 is around 25%, but recent statistics suggest that when the declared under-employment of many youngsters is taken into account, the figure is much higher, around the 40% mark. The direct cost of youth unemployment in the Arab world is an estimated 50 billion dollars a year. If the region is to develop its economic potential, the world trade that can be activated from Europe is a vital lever. Yet the distinguishing feature of our countries’ political response to the Arab spring is deep political embarrassment. On the one hand, there is strong opposition to immigration from North Africa, on the other hand, military intervention in Libya. There has been practically no mention of economic cooperation, of ties with the European trade area. The result is that the European Union has not exploited what has always been its chief foreign policy asset: the power for change with which it set democratic

conditions as the requirement for the start-up of trade relations. The USA is in a position of even greater embarrassment: rightly or wrongly, despite the values associated with the figure of President Obama, very early the USA was identified by Arab and North African public opinion as a power that colluded with the deposed rulers. The great sense of expectancy and hope with which the West watched the changes brought by the Arab spring is fading. In its place is rising anxiety about growth which, in some cases, appears not to be living up to initial hopes. The events followed with the greatest enthusiasm and concern were certainly the demonstrations in Egypt, the protests in Tahrir Square. The season ushered in by Hosni Mubarak’s departure after 30 years is radically new, but also full of unknowns. The economy is already feeling the impact of the revolution: tourism has collapsed and the country is losing monthly income of 1 billion dollars; industrial production has fallen by 50% and the flow of remittances from Egyptians working abroad has dried up because of the current uncertainty. After years of repression and lies, the population is calling urgently for jobs and wage increases. In February alone, says the new Minister of Finance, Samir Radwan, the government had to spend 7 billion to satisfy worker demands for pay increases to fight off inflation. As a result, Egypt is accumulating a budget deficit a conservative government estimate puts at 10% of GDP. To limit the shortfall the government is looking for 12 billion dollars of international borrowings. Cairo has turned to two sources

of funding: first, the “friendly countries”, in other words, the Gulf oil producers—Saudi Arabia, Kuwait and Qatar. It has also activated an “Egypt Program” with the International Monetary Fund. The IMF could provide 3-4 billion dollars, but the Egyptian government has said it does not accept the usual “conditions” the Fund sets on its loans: controls on spending policies, wage ceilings in the public sector and so on. The Arab spring has at last given a voice to people who had long been oppressed. To ensure that the spirit of millions of individuals is not betrayed and turned into a new rebellion, the new governments must provide an at least partial response to the needs expressed by that liberated voice. To do so, in the absence of American and European aid, North Africa and the Middle East’s non-oil-producer countries will inevitably end up depending on the financial power of the producer nations, who, in their turn, are integrated with the global economic system. Their prosperity depends on stable relations with the West. Living on financial compromises is not a natural development of revolutions that spring from the cry for freedom of millions of people. But it is when revolutions become level-headed that they can continue to evolve.

* Carlo Bastasin is a leader writer for Il Sole 24 Ore and a political and economic analyst for several leading research centers. In 2009 he went to Washington as a Visiting Fellow with the Peterson Institute for International Economics. Since 2010 he has been a non-resident Senior Fellow of the Brookings Institution in Washington, the world’s leading think tank.

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Projects

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Esiste un’architettura del Mediterraneo? Tipologie e geografie diverse si intrecciano a colori, sapori, luci e atmosfere di un paesaggio composito e denso di sensazioni, riflesso di una storia e una cultura millenarie. Elementi che confluiscono nella definizione dell’unicità di un linguaggio compositivo che contribuisce, nelle sue varianti stilistiche come nelle corrispondenze di accezioni comuni, all’affermazione di una nuova affascinante modernità. Is there such a thing as Mediterranean architecture? Different geographical locations and stylistic types weave together with the colors, flavors, light and atmospheres of a multifaceted landscape bursting with different sensations reflecting a history and culture that stretch back for millennia. Aspects which come together to determine the uniqueness of a compositional language, whose stylistic variations and leit-motifs help impose an intriguing new kind of modernity.

Un mare d’Architettura A Sea Of Architecture Mario Pisani*

“Che cos’è il Mediterraneo? Mille cose al tempo stesso. Non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi. Non un mare, ma una successione di mari. Non una civiltà, ma più civiltà ammassate l’una sull’altra. Il Mediterraneo è un antico crocevia. Da millenni tutto è confluito verso questo mare, scompigliando e arricchendo la sua storia”. Fernand Braudel, La Méditerranée. L’espace et les hommes, Parigi, 1977.

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l primo interrogativo che nasce spontaneo porsi, analizzando le diverse architetture che compongono questo numero, come il Museo del Design di Holon a Tel Aviv, di Ron Arad, o il Serrenia Village in Egitto, di Foster and Partners, o l’Hotel ME a Barcellona, di Dominique Perrault, testimonianze delle realizzazioni e dei progetti più interessanti e densi di significato edificati in questo angolo del mondo, culla di civiltà, consiste nel chiedersi se esiste una architettura del Mediterraneo. Se sì, quali i linguaggi espressivi, le forme, i materiali che la plasmano? Se poi andiamo con la memoria ai capolavori del passato dobbiamo chiederci cosa tenga insieme la Piramide di Cheope a Giza e la Porta dei Leoni a Micene, la Basilica di Santa Sofia a Costantinopoli e il Mausoleo di Alicarnasso, la Cattolica di Stilo e il complesso nuragico di Barumini. E ancora, possiamo trovare un filo conduttore che lega Villa Adriana con il Monumento Coragico di Lisicrate ad Atene, le chiese bizantine di Ravenna, Villa Almerico Capra detta La Rotonda nei pressi di Vicenza con Parco Güell a Barcellona? La risposta ci viene dalla frase di Braudel. Non una cosa ma mille cose ammassate l’una sull’altra. Per procedere a un esame critico delle nuove architetture, opere che esprimono in maniera alta ed efficace lo spirito del tempo, occorre alleggerirsi di un peso ingombrante, quasi una zavorra che impedisce al pensiero di liberarsi e relegare in un angolo ciò che proviene dal passato, dal mito o da una visione ideologica della realtà. La cultura del Mediterraneo giunge in ritardo sulla soglia della Modernità e non tutti i suoi luoghi hanno praticato e continuano a praticare la laicità di pensiero. Persino la convivenza tra i popoli che abitano le sue sponde, in luoghi ove si incrociano e si mescolano culture e religioni diverse, non solo riceve

uno scacco, ma si giunge persino a conflitti – in Palestina, in Siria, in Libia, nei Balcani – che vedono su sponde contrapposte le sue genti. Tutto ciò intralcia il manifestarsi di un progetto comune che dovrebbe perseguire l’obiettivo della pace e del progresso dei popoli. Nonostante ciò che offende il nostro sguardo con morte e distruzione, e il pesante peso dei profughi che quotidianamente solcano le acque di questo mare, dobbiamo saper osservare e distinguere fermenti e atteggiamenti che rifuggono l’estremismo e si battono per la libertà e la democrazia, come quelli che si sono manifestati in Egitto, in Siria, in Libia. Il compito che ci aspetta nell’immediato presente è, per dirlo con Predrag Matvejevic’ quello “di ritrovare e riannodare le vecchie funi sommerse della poesia che sono spesso state rotte o strappate dall’intolleranza e dall’ignoranza”. Ciò vale anche per i nostri giorni perché forse possiamo intuire e poi comprendere che parlano un identico linguaggio il Museo dell’Acropoli di Atene, di Bernard Tschumi Architects, e la Stazione di Montesanto a Napoli, di Silvio d’Ascia-Tecnosistem. Nel primo caso le pareti trasparenti, che utilizzano le tecnologie del vetro più avanzate per proteggere lo spazio espositivo dal caldo e dalla luce eccessivi, offrono nel contempo una illuminazione ideale alle sculture e creano un diretto contatto visivo con l’Acropoli, un affascinante gioco di sguardi e di allusioni. A Napoli non avviene solo un processo di riqualificazione del tessuto storico degradato, ma la trasformazione dell’antica costruzione in una moderna porta del quartiere dove la grande parete vetrata funziona come una sorta di hall e di vetrina affacciata sul via vai dei pedoni. Possiamo rintracciare elementi comuni anche tra il quartier generale di Abdi Ibrahim a Istanbul, di Dante O. Benini & Partners Architects, e la nuova stazione marittima del porto passeggeri di Tanger-Med, di Odile Decq e Khalid Molato. Qui il progetto plasma una promenade architettonica fortemente caratterizzata che scompone le operazioni di sbarco in una serie di sequenze ordinate, predisponendo per i passeggeri condizioni di ac-


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MEDITERRANEO MEDITERRANEAN

coglienza particolarmente confortevoli. Le nuove strutture, caratterizzate da piacevoli linee morbide e da una stimolante articolazione dei volumi, permettono di percepire un paesaggio urbano completamente inedito, capace di interpretare in modo innovativo e con sicura qualità la questione dell’accoglienza e della gestione del traffico dei veicoli e dei passeggeri. La nuova sede della casa farmaceutica Abdi Ibrahim, realizzata a Maslak, Istanbul, è un grattacielo di 120 metri che guarda il Bosforo e interpreta la ricerca di identità e di affermazione dell’azienda su un sito di grande visibilità. L’edificio si sviluppa con piani verticali sfalsati: ventuno fuori terra e cinque interrati. Scudi in lamiera microforata verticali nascondono le dorsali degli impianti e i collegamenti verticali di emergenza e servizio e percorrono l’edificio dalla base fin oltre la sua altezza, nascondendo i locali tecnici posti sul tetto. Nel fronte sud il volume cubico aggettante mostra un bow window inclinato a tripla altezza su cui affaccia l’atrio principale, raccordato alla parte sovrastante verticale con una grande scala in acciaio inclinata.

La costruzione, come il progetto, ci parla di una modernità che è anche caotica e rutilante ma in grado di evocare il grande fascino esercitato dalle metropoli. Il Giardino di Apollo, nella bella casa “The Gardens” a St. Julians, Malta, di Richard England, non è il rimpianto di una Arcadia perduta, la malinconica visione di un mondo possibile solo nelle tele di Giorgio de Chirico, ma qualcosa d’altro che si pone fuori dal tempo e vuole testimoniare l’universalità e la lunga durata dell’arte. Si tratta di una sorta di giardino segreto, un’oasi dove fuggire dai travagli quotidiani e rifugiarsi in un’isola lontana dalla vita tumultuosa per dedicarsi solo alla bellezza, alla musica, all’arte. Non a caso il giardino è dedicato ad Apollo e l’immagine del dio greco custodisce e protegge questo spazio sospeso tra realtà e finzione, che è il mondo in cui albergano i sogni. La tendenza a confondere la rappresentazione della realtà con la realtà stessa si è perpetuata. Vale la pena però rammentare che l’immagine del Mediterraneo e dei suoi miti e il Mediterraneo reale non si identificano affatto.

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* Mario Pisani (Roma, 1947) architetto, storico e critico, professore alla Facoltà di Architettura “Luigi Vanvitelli” di Aversa e alla IAA International Academy of Architecture di Sofia; visiting professor alla Facoltà di Architettura di Msida, Malta. Tiene lezioni, seminari e conferenze in numerose università straniere (Amman, Parigi, Iasi, Malaga) e italiane (Milano, Firenze, Perugia, Roma, Napoli, Salerno, Palermo). Ha collaborato con il Cnr e la Biennale di Venezia. È stato membro nelle giurie di concorsi nazionali e internazionali. Caporedattore del trimestrale Abitare la Terra, suoi saggi sono apparsi su Palladio, l’Arca, Domus, Controspazio, L’Industria delle Costruzioni, Eupalino, Materia, Demetra, Art Forum di New York e Artics di Barcellona. Ha aggiornato la voce “La città e l’architettura” dell’Enciclopedia Universale dell’Arte, nel volume dedicato al Postmoderno. È l’autore di oltre 20 volumi e più di centocinquanta saggi. Ha ottenuto il Primo Premio nei concorsi nazionali per l’ampliamento del Cimitero di Terni (1986, in corso di realizzazione), per Piazza Pagano a Potenza (1987), Piazza dell’Annunziata ad Acri (2001-2003), Piazza Giustino Fortunato a Rionero in Vulture (2009).


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“What is the Mediterranean? A thousand and one things at the same time. Not just one landscape, but innumerable landscapes. Not one sea, but a series of seas. Not one civilization, but civilizations piled up one upon the other. The Mediterranean is a historically old crossroad: for several millennia, everything centered around it, muddling, yet enriching its history.” Fernand Braudel, La Méditerranée. L’espace et les hommes, Paris, 1977.

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he first question that comes to mind when studying the works of architecture in this issue, such as the Design Museum Holon in Tel Aviv designed by Ron Arad, the Serrenia Village in Egypt designed by Foster and Partners, or the ME Hotel in Barcelona designed by Dominique Perrault, testifying the most interesting and deeply meaningful constructions built into this corner of the world, the cradle of civilization, is whether there is in fact such a thing as Mediterranean architecture. If yes, what stylistic languages, forms and materials help shape it? Thinking back to the masterpieces of the past we must ask ourselves what is the common denominator between the Cheops Pyramid in Giza and the Lion Gate in Mycenae, Hagia Sophia in Constantinople and the Mausoleum of Halicarnassus, the Cattolica di Stilo and the Barumini Nuraghic Complex. And can we find some guiding thread linking Hadrian’s Villa to the Choragic Monument of Lysicrates in Athens, the Byzantine churches of Ravenna and Villa Almerico Capra (known as La Rotonda) near Vicenza to Güell Park in Barcelona? The answer lies in the quote from Braudel. Not one thing but thousands of things piled up one upon the other. In order to carry out a critical study of the new works of architecture that express the spirit of the age in the most dignified and effective of ways, we need to shake off a cumbersome burden, almost a kind of ballast preventing our thoughts from wandering freely and stopping us putting aside anything that comes from the past, mythology or an ideological vision of reality. Mediterranean culture was slow in reaching the threshold of Modernity and not all of its places and locations have been, or still are, secular in their thinking. Even coexistence between the different nations

living along its banks in places where different religions and cultures crossover and mix was not just checked, it actually resulted in conflicts—in Palestine, Syria, Libya and the Balkans—with their people finding themselves on opposite sides. All this held back the emergence of a joint project that ought to pursue the goal of peace between nations and progress. Despite all the death and destruction we are forced to witness and the heavy burden of refugees, who take to the Mediterranean Sea every day, we must study and learn to recognize those uprisings and upheavals resulting from an attempt to break free from extremism in the name of freedom and democracy, such as those that have taken place in Egypt, Syria and Libya. The task with which we are immediately faced is, to quote Predrag Matvejevic´ , “to rediscover and tie back together those old submerged ropes of poetry that have often been broken or torn apart by intolerance and ignorance.” This also applies nowadays, because we can surely sense and ultimately understand that the Museum of the Acropolis in Athens designed by Bernard Tschumi Architects and Montesanto Station in Naples designed by Silvio d’Ascia-Tecnosistem ultimately speak the same language. In the first instance, transparent walls using cutting-edge glass technology to protect the exhibition space from excessive heat and light simultaneously provide ideal lighting for the sculptures and create direct visual contact with the Acropolis, an intriguing interplay of gazes and allusions. It is not just the dilapidated historical fabric that has undergone redevelopment in Naples, an ancient construction has been converted into a modern gateway into the neighborhood, where the large glass wall acts as a sort of hall and showcase that pedestrians walk by. We can also find common elements in the headquarters of Abdi Ibrahim in Istanbul designed by Dante O. Benini & Partners Architects and the new maritime station in the passenger port of TangerMed designed by Odile Decq and Khalid Molato. Here the project gives shape to a highly distinctive architectural promenade that breaks down dis-


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embarking operations into an orderly sequence of events, ensuring passengers receive the most comfortable of welcomes. The new structures, featuring soft lines and a stimulating layout of structures, allow people to perceive a totally new cityscape, capable of interpreting the issue of welcoming-reception and managing the flow of vehicles and passengers in an innovative, high-quality manner. The new headquarters of the Abdi Ibrahim pharmaceutical company built in Maslak, Istanbul, is a 120-meter-tall skyscraper that looks out toward the Bosporus and provides the company with a powerful and prestigious corporate identity on a highly visible site. The building extends up a series of vertical floors: twenty-one above ground and five underground. Shields of microperforated vertical sheet metal conceal the backbones of systems and vertical emergency/service links set on the roof. On the south front, the overhanging cube-shaped structure reveals a tripleheight sloping bow window facing onto the main lobby, connected to the vertical section above by a large sloping steel stairway. The construction,

like the project, tells us about a kind of modernity that is dazzling and chaotic, yet capable of evoking that great charm exercised by metropolises. Apollo’s Garden in the beautiful house called “The Gardens” in St. Julians, Malta, designed by Richard England, is not the yearning for some lost Arcadia, the melancholic vision of a world only possible in Giorgio de Chirico’s paintings, it is something else that stands outside time and testifies to the universality and long life of art. It is a sort of secret garden, a haven in which to take refuge from the chores of daily life, escaping to an island far away from hectic life, in order to devote yourself to nothing but beauty, music and art. Not surprisingly the garden is dedicated to Apollo, and the Greek god’s image safeguards and protects this space poised between reality and fiction, the place that holds dreams. The tendency to confuse the representation of reality with reality itself goes on. It is, however, worth remembering that the image of the Mediterranean and its myths and the real Mediterranean are not the same thing at all.

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* Mario Pisani (Rome, 1947) is an architect, historian and critic. He is a Professor in the “Luigi Vanvitelli” Faculty of Architecture in Aversa and the IAA International Academy of Architecture in Sofia; he is also a Visiting Professor in the Msida Faculty of Architecture in Malta. He gives lectures, seminars and conferences at numerous foreign (Amman, Paris, Iasi, Malaga) and Italian (Milan, Florence, Perugia, Rome, Naples, Salerno, Palermo) universities. He has worked with the CNR and Venice Biennial. Has been a member of the panel of judges for national and international competitions. He is the Editor-in-chief of the quarterly magazine Abitare la Terra and his essays have been published in Palladio, l’Arca, Domus, Controspazio, L’Industria delle Costruzioni, Eupalino, Materia, Demetra, Art Forum in New York and Artics in Barcelona. He updated the entry for “The City and Architecture” in the volume of the Enciclopedia Universale dell’Arte on Postmodernism. He has written over 20 books and more than 150 essays. He has been awarded First Prize in national competitions for his extension to the Cemetery in Terni (1986, currently under construction), Piazza Pagano in Potenza (1987), Piazza dell’Annunziata in Acri (2001-2003) and Piazza Giustino Fortunato a Rionero in Vulture (2009).


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Imperitura Bellezza Eternal Beauty Atene, Museo dell’Acropoli Athens, Acropolis Museum Progetto di Bernard Tschumi Architects Project by Bernard Tschumi Architects

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In queste pagine, sezione trasversale del nuovo Museo dell’Acropoli ad Atene e schizzi di Bernard Tschumi. These pages, cross section of the new Acropolis Museum in Athens and Bernard Tschumi’s sketches.

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architettura museale interpretata come “macchina espositiva” della cultura contemporanea ha assunto una nuova centralità nella produzione di edifici contestualizzati, monumentali e scenografici a seconda della creatività dell’autore. Dagli anni Ottanta, si progettano architetture dalle molteplici soluzioni formali, simili a opere scultoree, spesso più importanti dei loro contenuti, affinché nel tempo assumano un valore iconico. Il nuovo Museo dell’Acropoli di Bernard Tschumi (2009) sorge ai piedi del Partenone, nel quartiere storico di Makryanni, una zona “cerniera” tra gli scavi archeologici e la città contemporanea. Ospita oltre 350 vestigia e sculture dell’antica Grecia e si sviluppa su uno spazio espositivo di circa 14.000 metri quadri disposto su tre livelli di 23 metri d’altezza ciascuno. L’architetto franco-svizzero, noto per il “Parc de la Villette” di Parigi (1982), ha scelto per il suo museo un contenitore semplice ed essenziale, dalle proporzioni matematiche, nel rispetto della simmetria e dell’armonia dell’architettura greca. Protagonista del progetto è, da un lato, la luce naturale che modella le aree espositive e le opere in mostra, dall’altro una lettura inedita dello spazio museale che si “vetrinizza” e con la Galleria del Partenone, situata al terzo piano, offre un panorama mozzafiato a 360° sull’Acropoli e l’Atene moderna. Il nucleo principale della collezione è rappresentato dalle opere del periodo Arcaico (VI secolo a.C.) profanate nel 480 a.C. dai Persiani, a cui si aggiungono le sculture del periodo Classico (V secolo a.C.) con i Marmi di Fidia, Mirone, Policleto. La visita del museo incomincia nell’atrio, calpestando una hall dai pavimenti vetrati che mostrano e proteggono gli scavi archeologici grazie a una soluzione di colonne e pilotis posizionati uno per uno, in accordo con gli archeologi, in maniera da non arrecare danni ai reperti. Il primo livello ospita il salone d’ingresso e gli spazi per le mostre temporanee, un auditorium, un bookshop e altri servizi di supporto. Si accede alla Galleria Arcaica da una rampa di vetro, che si affaccia sugli scavi archeologici, dove sono ospitati reperti dal periodo Arcaico a quello Romano. Questo livello si presenta come uno spettacolare ambiente a dop-

pia altezza sostenuto da alte colonne, in cui lo spettatore può muoversi liberamente e osservare le opere da diversi punti di vista. Al terzo piano si accede dallo spazio rettangolare della Galleria del Partenone strutturata intorno a una corte interna e leggermente ruotata per seguire l’orientamento originale del Fregio, con le pareti trasparenti che utilizzano tecnologie del vetro innovative per proteggere l’ambiente dal caldo e dalla luce eccessivi. I vetri, oltre a modulare uno spazio rigido e simmetrico, offrono un’illuminazione “naturale”, ideale per le sculture, messe a confronto visivo diretto con l’Acropoli. La Galleria del Partenone è un museo nel museo perché offre allo spettatore un’ambientazione che non ha precedenti, dove sono stati ricostruiti il Fregio (attualmente frammentato e disperso in diversi musei del mondo), il posizionamento delle metope tra le colonne e lo sviluppo dei frontoni del Partenone. Il percorso espositivo è un’esperienza archeologica ed estetica, strutturato come una narrazione storica, in uno spazio che si snoda attraverso le opere d’arte antica, in un ambiente concepito per essere attraversato, dall’ingresso fino alla spettacolare Galleria del Partenone, come un viaggio nel tempo, alla ricerca delle origini della Bellezza. Il museo è un contenitore semplice, pensato per una immediata fruibilità dei contenuti, sobrio e classico anche nell’uso di materiali tradizionali come il cemento, il vetro e il marmo la cui scelta sembra essa stessa la materializzazione della volontà di creare un ponte tra il passato e il presente. Il cemento (sia prefabbricato che gettato in opera) costituisce la struttura principale dell’edificio e fa da sfondo alla maggior parte delle opere esposte. Il marmo (antichità) sottolinea i pavimenti: nero per gli spazi di circolazione e beige chiaro per le gallerie e le strutture in cemento (modernità). Le vetrate totalmente trasparenti filtrano delicatamente la luce tramite un sistema di serigrafie e offrono un costante dialogo tra l’esterno e l’interno. Il museo di Tschumi è stato concepito come un’opera destinata a durare nel tempo e a invecchiare elegantemente custodendo le opere simbolo della Grecia classica in un’architettura che a sua volta è simbolo della Grecia moderna.


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MEDITERRANEO MEDITERRANEAN

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useum architecture interpreted as “exhibition machinery” for contemporary culture has taken on a new kind of central importance in the creation of contextualized, monumental and visually striking buildings, designed with great stylistic flair. Since the 1980s, works of architecture featuring all kinds of stylistic touches have been carefully created like works of sculpture, often turning out to be more important than what they contain, so that over time they take on iconic value. The new Acropolis Museum designed by Bernard Tschumi (2009) stands at the foot of the Parthenon in the famous old district of Makryanni, a zone which “hinges together” the archaeological digs and modern-day city. It holds over 350 relics and works of ancient Greek sculpture and covers an exhibition space of approximately 14,000 m² set over three levels, each measuring 23 m in height. The French-Swiss architect, famous for his “Parc de la Villette” in Paris (1982), has opted for a plain and simple container for his museum, carefully constructed according to mathematical proportions in accordance with the symmetry and harmony of Greek architecture. The project focuses, on one hand, on the natural light shaping the exhibition areas and works on display and, on the other, on an unusual reading of a museum facility that “showcases itself” incorporating the Parthenon Gallery situated on the third floor, offering a breathtaking 360° view cross the Acropolis and modern Athens. The core of the collection is represented by works from the Archaic period (sixth century BC), which were profaned in 480 BC by the Persians. There are also sculptures from the Classical age (fifth century BC) including marble sculptures by Phidias, Myron and Polykleitos. The museum visit begins in the lobby, crossing a hall whose glass floors reveal and protect the archaeological digs, thanks to a construction of columns and pilotis set in place one-by-one, with the archaeologists’ prior agreement, so as not to damage the relics in any way. The first level accommodates the entrance hall and spaces for temporary exhibitions, an auditorium, bookshop and other ancillary facilities. Access to the Archaic Gallery is along a glass ramp overlooking the archaeological digs that hold remains from the Ar-

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Planimetria generale e vista aerea del complesso Museo/Acropoli. Site plan and aerial view of the Museum/Acropolis complex.

chaic to Roman ages. This level looks like a spectacular double-height environment supported by tall columns, where visitors can move around freely and study the works from various points of view. The rectangular space of the Parthenon Gallery is located on the third floor and constructed around an interior courtyard, gently rotated to follow the original layout of the Frieze, with the transparent walls drawing on innovative glass technology to shelter the environment from the heat and excessive light. As well as modulating a rigid, symmetrical space, the sheets of glass provide “natural” lighting, ideal for the sculptures as they visually interact directly with the Acropolis. The Parthenon Gallery is a museum within the museum because it provides visitors with an unprecedented setting where the Frieze (currently fragmented and spread around various museums around the world) has been reconstructed by carefully positioning the metopes between the columns and pediments of the Parthenon. The exhibition route is both an archaeological and aesthetic experience structured like a historical narrative in a space winding between ancient works of art in a setting designed to be walked through from the entrance to the spectacular Parthenon Gallery, like a journey back in time in search of the origins of Beauty. The museum is a simple container designed so that its contents can be used immediately, it is classically austere in terms of its traditional materials too, such as concrete, glass and marble, chosen because they seem to be the very embodiment of a desire to create a bridge between the past and present. Concrete (both prefabricated and cast on-site) forms the building’s main structure and acts as a backdrop to most of the works on display. The marble (antiquity) brings out the floors: black for the circulation spaces and light beige for the galleries and concrete structures (modernity). The totally transparent glass windows allow light to filter through delicately (thanks to a system of serigraphs) and offer constant interaction between the outside and inside. Tschumi’s museum is designed like a work destined to endure through time and age graciously, safeguarding works symbolizing classical Greece in a work of architecture which, in turn, symbolizes modern Greece.


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A sinistra, dal basso, pianta del primo livello, pianta del terzo livello e sezione trasversale. Sotto, l’ampia pensilina che segna l’ingresso al museo, vista aerea dell’edificio, e vista del vuoto centrale che si apre sugli scavi archeologici. Pagina a fianco, vista notturna delle vetrate perimetrali e del percorso trasparente.

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Left, from bottom up, plan of the first level, plan of the third level, and cross section. Below, the wide canopy marking the entrance to the museum, aerial view of the building, and view of the central void space opening on the archaeological digs. Opposite page, nighttime view of the glass perimeter windows and the transparent corridor.


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In alto, a sinistra, lo scenografico colonnato della Sala Arcaica e, a destra, le statue del Portico delle Cariatidi.

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Sotto, la Galleria del Partenone che ospita porzioni del Fregio. Pagina a fianco, l’atrio del museo con vista sugli scavi archeologici.

Top left, the striking colonnade of the Archaic Room; right, the statues of the Porch of Caryatids. Below, the Parthenon Gallery

holding sections of the Frieze. Opposite page, the museum’s entrance lobby providing views of the archaeological digs.


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Come un pascià Like A Pasha Egitto, resort di lusso Serrenia Egypt, Serrenia luxury resort Progetto di Foster and Partners Project by Foster and Partners

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Vista delle terme. View of the spas.

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errenia è un complesso turistico extralusso, costruito lungo la costa del Mar Rosso, favorito da un clima secco e temperato tutto l’anno e da un mare dalle acque trasparenti e cristalline, trasformato in polo di attrazione turistica d’élite grazie a un investimento di riqualificazione di un’area di circa 3 milioni di metri quadrati di superficie, con un progetto d’appeal scenografico, armoniosamente integrato al paesaggio e al territorio. Questo nuovo Eden artificiale comprende alloggi di diverso tipo: ville residenziali, appartamenti personalizzati, un porto turistico adatto ad accogliere yacht stuccati d‘oro di ricchi petrolieri arabi e personaggi del jet-set internazionale, un albergo 7 stelle, le terme, un centro immersioni, un campo da golf di 18 buche, varie strutture per lo sport, un parco acquatico con finte cascate e giochi d’acqua e le immancabili isole di verde dove prendere il sole; tutto progettato all’insegna del comfort, relax e benessere di prima categoria. Il “Vermone” è il soprannome dell’albergo dalla struttura fluida e sinuosa di 300 metri di lunghezza, ispirato alle dune del deserto e alla barriera corallina, decorato con colori “naturali” e comprendente un giardino botanico che si affaccia da un lato verso il mare e dall’altro verso le montagne. I fortunati clienti del residence hanno la possibilità di personalizzare il proprio apparta-

mento, decidendo il numero di stanze e la grandezza del salone principale, a seconda delle loro necessità. Fanno capolino cinque palazzi edificati su lotti di 15.000 metri quadrati, concepiti come isole private, con piscine e giardini per garantire esclusività e privacy agli ospiti, esigenti e alla costante ricerca di luoghi prestigiosi. L’edificio che ospita le terme immerso nel giardino botanico è dotato di apparecchiature tecnologicamente avanzate. Oltre all’albergo che connota il territorio con la sua forma organica allungata, anche il porto turistico si distingue per una scenografica copertura a onda flottante, in armonia con il paesaggio: un elemento architettonico che sul piano strutturale favorisce la refrigerazione degli ambienti interni dagli arredi minimalisti, caratterizzati da ampi negozi di accessori nautici, ristoranti, un centro per lo sport, e luminose aree pubbliche dove incontrarsi tra un’attività ludica e l’altra. Questa Disneyland del lusso è tra gli ultimi esempi di architettura biomorfica di tendenza del terzo millennio, modellata come area del benessere psicofisico e della quiete, dalle forme morbide e fluide, progettata nel rispetto dell’ambiente, in cui il design, l’innovazione tecnologica e la sperimentazione di nuove soluzioni costruttive “materializzano” il sogno e le atmosfere di un’oasi hollywoodiana, dove tutto è calma, sicurezza e voluttà.


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MEDITERRANEO MEDITERRANEAN

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errenia is a super-luxury tourist resort built along the Red Sea coast, which enjoys a dry and temperate climate all year round and whose crystalline waters are perfectly transparent. It has been converted into an élite tourist attraction thanks to a redevelopment investment in an area covering approximately 3,000,000 m², which has created a visually striking design smoothly knit into the landscape and surrounding territory. This new man-made Eden includes various types of accommodation: residential villas, customized apartments, a harbor suitable for mooring the gold-plastered yachts of rich Arab oilmen and members of the international jet set, a seven-star hotel, spas, diving center, 18-hole golf course, various sports facilities, water park with fake waterfalls and water games, and the inevitable islands of greenery for sunbathing; all designed along the lines of comfort, relaxation and topclass well-being. The “Big Worm” is the nickname of this fluid, winding hotel structure extending 300 meters in length, inspired by the desert dunes and coral reef, decorated in “natural” colors and encompassing a botanical garden, which, on one side, overlooks the sea and, on the other, the mountains. The lucky clients of the residence can actually customize their own apartment, deciding

on the number of rooms and size of the main lounge, according to their needs. The five buildings have been constructed on a 15,000 m² plot of land, designed like private islands with swimming pools and gardens to make them exclusive and guarantee privacy for the demanding guests always looking for new locations. The building accommodating the spas immersed in the botanical garden is equipped with technologically cuttingedge equipment. In addition to the hotel, which stands out on the landscape with its elongated, organic form, the harbor is also striking for its floating-wave-shaped roof in harmony with the landscape: an architectural feature which, structurally speaking, helps cool the interior environments furnished in minimalist style, complete with large shops selling nautical accessories, restaurants, a sports center and brightly lit public areas for meeting together between one leisure activity and another. This luxury Disneyland is one of the latest examples of the trendy biomorphic architecture of the third millennium, designed as a place of psychophysical well-being and peacefulness, featuring soft and fluid forms respecting the environment, in which design, technological innovation and experimentation into new construction solutions “materialize” the dream and atmospheres of a Hollywood oasis, where everything is calm, safe and voluptuous.

L’Hotel 7 stelle si ispira nella sua forma esterna alle formazioni coralline. The outside design of this 7-star hotel is inspired by coral formations.

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Immagini dell’impianto termale. Images of the spa facility.

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La struttura flottante e leggera della Marina è caratterizzata da una vetrata che spazia a 360°. The light and floating Marina structure is characterized by a glass window offering a 360° view.

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Le ville a schiera misurano circa 250 mq. Le ville private occupano un’area di quasi 600 mq con giardini di 1.500 mq e piscine private.

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The detached villas measure approximately 250 square meters. The private villas cover an area of almost 600 square meters with 1,500-square meter gardens and private swimming pools.


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Particolari degli spazi comuni dell’hotel e delle suite che godono di ampi affacci sul mare.

Details of the common areas and the suites with wide views of the sea.

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Nelle spire del design Amidst The Spires Of Design Israele, Museo del Design di Holon Israel, Design Museum Holon Progetto di Ron Arad Architects Project by Ron Arad Architects

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Particolare della segnaletica museale. Detail of the museum’s signage system.

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olon, dopo l’inaugurazione del Museo del Design di Ron Arad (2010), israeliano di nascita e londinese di adozione, sta vivendo l’effetto-Bilbao, grazie all’architettura-scultura che ha trasformato una cittadella sconosciuta, situata a pochi chilometri a sud di Tel Aviv, in un centro nevralgico della cultura contemporanea. Il museo sorge nella zona industriale in via di trasformazione urbanistica e architettonica che ospita l’HIT (Holon Institute of Technology), il Museo dei Bambini di Israele, il Museo del Fumetto e la Mediateca. Il Design Museum Holon (DMH) ha un doppio obiettivo. Primo, attirare diverse tipologie di visitatori: adulti, bambini, studenti di istituti secondari e universitari, manager, designer, architetti e grande pubblico. Secondo, il nuovo edificio, sbalorditivo per le sue forme fluide, si presenta come una vetrina non solo del design nazionale e internazionale, ma della cultura del progetto, puntando su una collezione permanente del design israeliano ed estero, mostre temporanee, dibattiti, convegni, eventi, laboratori didattici e workshop formativi per affermare l’importanza della creatività di un paese emergente. Il DMH è stato costruito in un lotto di 3.700 metri quadrati di superficie, è fiancheggiato sui lati nord ed est dalle maggiori arterie di traffico di Holon, ed è facilmente raggiungibile da Tel Aviv. Il lato ovest confina con la strada di accesso e il parcheggio della più grande Mediateca di Israele, mentre quello a sud fiancheggia un terreno destinato a futuri sviluppi residenziali. Prima di varcare la soglia del museo, a sedurre è già la piazza antistante al nuovo colosso dal design innovativo. L’orizzontalità e la piattezza topografica dell’area è movimentata dalla sistemazione su due livelli dei servizi museali, connessi da una rampa sinuosa elicoidale e scultorea, che costituisce l’elemento primario di circolazione del museo. L’edificio, avvolto da cinque nastri-bande in acciaio corten policromato, con gradazioni di rosso vivo, arancione, viola melanzana e giallo, è progettato per essere esplorato, passo dopo passo, salendo e scendendo le rampe e percorrendo le passerelle e gli spazi dal basso verso l’alto. I nastri cor-ten sono stati prodotti in Italia e spediti in Israele in segmenti che composti, raggiungono un chilometro di lunghezza. Il museo all’esterno presenta la forma sinuosa di un nastro snodato nello spazio e si attraversa con lo sguardo ri-

volto verso l’alto. La corte è racchiusa tra le due ali del complesso. In sintesi, il progetto materializza l’idea di avvolgere gli spazi interni a forma rettangolare, simili a cassetti aperti e sovrapposti, con nastri esterni, bande curvilinee di grande effetto decorativo. Questo anomalo museo “infiocchettato” da cinque fasce, che avvolgono dentro, fuori e attorno i volumi interni in modo dinamico e fluido, ha vinto il premio Condé Nast Traveler per “Innovazione e Design”. Le fasce sono visibili dall’interno in ogni punto del museo e dall’esterno connotano l’area, prima anonima e oggi trasformata in nuovo centro della cultura internazionale. La facciata nord dell’edificio presenta un’ampia area aperta e protetta sotto la galleria aggettante del primo piano, dove si incontrano i visitatori e lo staff che arriva sia dalla piazza a nord, sia dal parcheggio a ovest. Una rampa leggermente inclinata conduce i visitatori attraverso un passaggio che prolunga l’accesso principale all’interno del museo. Dalla corte esterna di 360 metri quadrati, si intravedono gli spazi interni del museo, illuminati dai raggi del sole che filtrano dalle fasce. L’ingresso principale si trova sul lato sud-ovest. Il museo è organizzato su due gallerie, quella principale di 500 metri quadrati sfrutta il potenziale della luce naturale ed è illuminata artificialmente con una trama “a coste” di riflettori a soffitto. L’altra galleria di 200 metri quadrati è pensata come un “black box”, spazio neutro dove presentare installazioni o altro in autonomia rispetto al museo. Altri luoghi espositivi sono la Lower Gallery di 210 metri quadrati interrata e il piccolo Design Lab di 40 metri quadrati al piano terreno dedicato a designer israeliani contemporanei. Ron Arad non smentisce il trend internazionalista del nuovo millennio di investire sull’innovazione dei materiali e l’ingegneria per realizzare spazi non chiusi, simmetrici o euclidei, ma plastici e fluidi in cui le parti interne interagiscono con quelle esterne. Questo museo oltre a oggetti di design espone se stesso e si esplora percorrendolo, osservandone le opere in movimento da diversi punti di vista. Le fasce sinuose materializzano percorsi flessibili e interdisciplinari della cultura contemporanea e sorprendono lo spettatore, svelando una dimensione architettonica dal design affascinante. Il Design Museum visto dall’alto, a volo d’uccello, sembra il simbolo dell’infinito, sempre aperto a nuove soluzioni formali.


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NUOVE UTOPIE NEW UTOPIAS

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Il museo è avvolto da una struttura formata da cinque fasce di cor-ten che si snodano sinuosamente dentro, fuori e attorno ai volumi interni. Nella pagina a fianco, scorcio della corte di 360 metri quadrati da cui si può godere del sole che filtra tra le fasce passeggiando in questo spazio espositivo all’aperto.

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The museum is shrouded by five bands of Cor-Ten structure which undulate and meander their way in, out and around the internal volumes. Opposite page, view of the 360 square meters internal courtyard where you can enjoy the sunshine filtering through bands while walking around this open-air exhibition space.

A

fter the official opening of the Design Museum (2010) designed by Ron Arad, an architect born in Israel but who may now be considered a Londoner, Holon is experiencing a sort of Bilbao-effect, thanks to the sculpture-work of architecture that has transformed an unknown town, just a few miles to the south of Tel Aviv, into a focal point of modern-day culture. The museum is located on an industrial estate undergoing urban-architectural transformation that holds HIT (Holon Institute of Technology), the Israel Children’s Museum, the Cartoon Museum and the Mediatheque. The Design Museum Holon (DMH) serves two purposes. The first is to draw in all kinds of visitors: adults, children, secondary-school and university students, managers, designers, architects and the general public. Secondly, this new building with its staggeringly fluid forms is not just a showcase for national and international design, it also focuses on a permanent collection of Israeli and foreign design, temporary exhibitions, debates, conferences, events and teaching-training workshops to emphasize the importance of creativity in an emerging country. The DMH is built on a 3,700 m² plot of land and is flanked along the north and east sides by Holon’s busiest roads, making it is easy to reach from Tel Aviv. The west side borders on the entrance road and car park of the biggest Mediatheque Library in Israel, while the south side runs alongside a plot of land which, in future, will be used for constructing new housing. Before actually entering the museum, the square in front of this new and innovatively designed colossus really catches the eye. The horizontal nature of the area and its topographical flatness are livened up by the two levels of the museum facilities connected by a winding sculptural spiral ramp, which is actually the museum’s main means of circulation. The building, enveloped by five strips-bands of multicolored Cor-Ten steel in various shades of bright red, orange, eggplant and yellow, is designed to be gradually explored by traveling up and down the ramps and walking along the corridors and spaces from the bottom upward. The Cor-Ten strips were manufactured in Italy and shipped to Israel in sections, which, once composed, extend to one kilometer in length. The outside of the museum has the winding form of a ribbon twisting through space and your eyes naturally follow it upward. The courtyard is enclosed between

the two wings of the complex. In a nutshell, the project gives concrete form to the idea of enveloping the rectangular-shaped interior spaces, similar to open and overlapping drawers, in external strips, curve-shaped bands featuring striking decoration. This unusual museum, “tied in a ribbon” of five strips enveloping inside, outside and around the interior structures with dynamism and fluidity, won the Condé Nast Traveler prize for “Innovation and Design”. The strips are visible on the inside from every part of the museum and characterize the entire area on the outside, previously so anonymous but now transformed into a new center of international culture. The building’s north facade has a spacious open area sheltered beneath the overhanging gallery of the first floor, where visitors meet staff coming from either the north square or west car park. The gently sloping ramp leads visitors up a corridor extending the main entrance into the museum. The museum’s interior spaces can be glimpsed from the 360 m² outside courtyard. These spaces are lit up by sunrays filtering through the strips. The main entrance is located over on the south west side. The museum is organized around two galleries, the main 500 m² gallery exploits natural lighting and is artificially illuminated in a “ribbed” pattern by spotlights on the ceiling. The other 200 m² gallery is designed like a “black box”, a neutral space for presenting installations etc., which is independent from the museum. Other exhibition places include the 210 m² underground Lower Gallery and the small 40 m² Design Lab on the ground floor devoted to contemporary Israeli designers. Ron Arad has conformed to the internationalist trend in this new millennium of investing in innovative materials and engineering to create non-enclosed spaces, which may be symmetrical or Euclidian and yet are sculptural or fluid, whose interior sections interact with the exterior parts. As well as design objects, this museum also displays itself and can be explored by walking around it and observing its works in motion from various viewpoints. The winding strips create flexible, interdisciplinary pathways through contemporary culture, surprising the onlooker by revealing their enticingly designed architecture. From a bird’s-eye view from above, the Design Museum seems to symbolize infinity, permanently open to new stylistic solutions.


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Asa Bruno

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Jessica Lawrence

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In queste pagine, particolari delle fasce di cor-ten che agiscono da spina dorsale dell’edificio, sia sostenendone strutturalmente ampie porzioni sia come punto di riferimento per definirne la posizione rispetto all’intorno. A fianco, la facciata nord del museo che presenta un’ampia area aperta e protetta sotto la galleria aggettante del primo piano.

Jessica Lawrence

James Foster

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These pages, details of the bands of Cor-Ten acting as a spine for the building, both supporting large parts of it structurally and dictating its posture in relation to its surroundings. Right, the north facade of the museum featuring a wide open area, protected by the overhanging first floor gallery.


Asa Bruno

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Esploso assonometrico e prospettiva degli elementi strutturali. Sotto, prospettiva con la definizione degli spazi espositivi interni.

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Exploded axonometric view and perspective of the structural elements. Below, perspective with the definition of the interior exhibition spaces.


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Dal basso, pianta del piano terra e sezioni longitudinali. From bottom up, plan of the ground floor and longitudinal sections.

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Finestre sull’orizzonte Windows Over The Horizon Tangeri, nuovo porto passeggeri Tanger-Med Tangier, new passenger port Tanger-Med Progetto di Odile Decq e Khalid Molato Project by Odile Decq and Khalid Molato

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Il profilo di Tanger-Med contribuisce a ridisegnare l’intera area del porto. The outline of Tanger-Med contributes to redefine the whole harbor area.

l progetto del porto di Tanger-Med prevede la costruzione di una nuova stazione marittima dotata di ogni comfort ed è firmato dal duo franco-marocchino composto da Odile Decq e Khalid Molato. La modernizzazione e lo sviluppo dell’area portuale iniziata nel 2007, rientra in un piano di sviluppo urbanistico e architettonico più ampio su progetto di Jean Nouvel. Il porto, entrato nella seconda fase di restyling, sarà terminato nel 2012, quando scatterà il patto di libero scambio tra l’Unione europea e il Marocco, e rappresenta il principale obiettivo di un progetto di sviluppo della rete di comunicazioni (strade, ferrovie) con le zone rurali e periferiche gestito dal Ministero dei Trasporti. L’intervento mira a rafforzare la posizione strategica del porto di Tanger-Med trasformandolo, anche grazie all’ampliamento della zona franca, nel principale attrattore e collettore di flussi turistici e scambi commerciali nazionali ed esteri all’incrocio delle più importanti vie marittime del Mediterraneo. La struttura portuale comprende due terminal per container della capacità di 5 milioni di unità, elevando a 8

milioni il potenziale totale della piattaforma. La politica di investimento in opere pubbliche per il riposizionamento del Marocco attraverso il porto e altre strutture adeguate per potenziare il commercio e il turismo, è una possibile soluzione per superare la crisi del Medio Oriente e rappresenta una sfida per un paese ancora stretto nella morsa di problemi politici, economici, di disoccupazione e di analfabetismo. L’architettura razionale prevede la costruzione di elementi prefabbricati, personalizzati dall’integrazione di strutture dalle linee più morbide, con hall vetrate, luoghi di passaggio e attraversamento che vivono di luce naturale di giorno e artificiale di notte. Ideato per ridisegnare l’area del porto, è un esempio di un mix equilibrato tra il cemento e materiali trasparenti, con soluzioni contestualizzate e innovative, adatte alle condizioni ambientali del Marocco. Il porto, come tutte le architetture, una volta costruito durerà nel tempo e si caricherà di significati e valori simbolici con l’obiettivo di dare un’identità precisa al Mediterraneo, investendo nel suo potenziale economico, sociale e culturale.


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MEDITERRANEO MEDITERRANEAN

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he project to develop Tanger-Med port involves the construction of a new maritime station up to the highest standards in terms of comfort and is designed by the French-Moroccan architects Odile Decq and Khalid Molato. The modernization and development of the port district initially began in 2007 and is part of a more extensive urban and architectural development scheme designed by Jean Nouvel. Now that the second stage in the restyling project is under way, the port is expected to be completed by 2012, when the trade agreement between the European Union and Morocco comes into effect. The new port is actually the main objective in a project to develop a communications network (roads, railways) with rural and suburban areas being implemented by the Ministry of Transport. Partly by extending the free-port zone, the project aims to strengthen Tanger-Med port’s strategic position, turning it into the main tourist attraction handling tourist flows and national-foreign trade at the crossroads of the most important maritime routes in the Mediterranean. The port facility will include two container terminals capable

of handling 5 million units, raising the facility’s overall capacity to 8 million. The policy of investing in public works to enhance Morocco’s status through trade and tourism by means of the port and other facilities is one possible way of overcoming the crisis affecting the Middle East and is a real challenge for a country still struggling to get to grips with political and economic problems, unemployment and illiteracy. The rational architectural design involves the construction of prefabricated elements customized by being incorporated in softly design structures with glass halls, passageways and corridors drawing in natural light during the day and artificial light at night. Envisaged to redesign the port area, it is an example of a balanced mix between concrete and transparent materials, using innovative contextualized features fitting in nicely with the environmental conditions in Morocco. Once constructed, the port, just like all the architecture, will endure through time and take on symbolic values and meanings with a view to instilling the Mediterranean with its own very definite identity, investing in its economic, social and cultural potential.

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Rendering dello spazio della lounge. Rendering of the lounge space.


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Dall’alto, in senso orario, pianta della lounge, pianta del padiglione satellite, planimetria generale, pianta del piano terreno del padiglione satellite, piante dei livelli delle zone di controllo e degli accessi. Pagina a fianco, dall’alto, prospetto della lounge, sezione longitudinale della lounge, prospetto del terminal passeggeri, sezione trasversale del terminal passeggeri.

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From above, clockwise, plan of the lounge, plan of the satellite pavilion, site plan, plan of the ground floor of the satellite pavilion, plans of the control areas and of the entrances. Opposite page, from above, elevation of the lounge, longitudinal section of the lounge, elevation of the passenger terminal, cross section of the passenger terminal.


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Rendering dell’atrio di accoglienza passeggeri. Rendering of the passenger reception lobby.

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Rendering del piazzale esterno. Rendering of the outside Plaza.

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Emergenza simbolica Emerging Symbolic Features Barcellona, Hotel Torre ME Barcelona, ME Tower Hotel Progetto di Dominique Perrault Architecture Project by Dominique Perrault Architecture

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La torre dell’Hotel ME di Barcellona è formata da un volume parallelepipedo rettangolo diviso in due e sfalsato verso il cielo. The ME Barcelona Hotel tower is formed by a rectangular parallelepiped divided into two parts and staggering upward.

ominique Perrault si riconosce al primo sguardo per l’alto livello di astrazione nell’impianto e nella volumetria e per la sperimentazione di materiali da costruzione innovativi, come testimoniano la Bibliothèque Nationale de France (1989 -1997) e altri edifici di fama internazionale. Nel 2009 a Barcellona, nell’Avenida Diagonal, l’architetto francese rompe l’orizzontalità urbanistica che caratterizza tutta l’area con la nuova torre che ospita l’Hotel ME: 112 metri di altezza, 29 piani, 259 tra camere e suites, ristorante da 300 coperti, centro conferenze, spa, piscina, bar e terrazza panoramica, in netta contrapposizione con la Torre Agbar di Jean Nouvel. La Torre-Hotel è un parallelepipedo rettangolare sezionato in due nel senso della lunghezza, movimentato da una parte sfalsata proiettata verso il cielo, con un aggetto a 25 metri d’altezza che segnala l’ingresso dell’albergo. La struttura contrappone spazi pieni e vuoti a incastro, e il gioco della volumetria sfalsata alleggerisce la struttura, come il volume cubico arretrato rispetto all’allineamento retrostante su Calle Lope de Vega, dove si trova una piazzetta con la terrazza del caffè-ristorante. Affascina l’aggetto, il volume in elevazione, in contrapposizione al cubo più basso, che conferisce all’edificio monolitico un dinamismo e uno slancio verticalista sorprendente. Tutti elementi che permettono un’interazione architettonica con il contesto urbano in maniera equilibrata. Al primo piano, sono concentrate le attività di accoglienza e di servizi per i clienti, come ristorante, centro congressi, piscina e bar, aperti giorno e notte. I piani superiori sono occupati dalle camere che offrono vedute panoramiche sul mare, la montagna e la Sagrada Familia. Grazie a un rivestimento metallico formato da piastre in alluminio anodizzato, rigido e inattaccabile dalla corrosione della salsedine e dello smog, la torre sembra catarifrangente, perché vive di giochi di luce e di ombre, modulando la rigidità strutturale con opacità, trasparenze e altri effetti luminosi che cambiano con il passare delle ore del giorno. Perrault ha commentato: “La sua identità, il suo stile, il suo marchio devono essere ‘indimenticabili’, in quanto ricordo, memoria, sia per coloro che la frequentano sia per quelli che la scoprono. Questa volontà di appartenere a un luogo, di partecipare all’attività di questo luogo, ci ha portato a introdurre la nozione di lobby attraversata come da un passaggio pubblico. Si entra nella hall dell’hotel da una piccola passerella che ci proietta sopra un giardino pensato come un pezzo di natura a prolungamento del parco urbano dall’altro lato della Diagonal. Poi si attraversa la lobby per arrivare sul lato opposto, a sud, nella piazza-terrazza che si apre sul quartiere. L’hotel diventa un luogo di passaggio e d’accoglienza, un luogo piacevole. Questo carattere fresco e attuale, dinamico e in movimento si integra perfettamente all’evoluzione di questa nuova area techno-business di Barcellona – tra mare e montagna, tra storia e geografia”.


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MEDITERRANEO MEDITERRANEAN

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Planimetria generale e sezione trasversale dell’edificio ai piedi della torre che delimita una piazzetta a prolungamento del bar-ristorante. Site plan and cross section of the building at the foot of the tower, which borders around a small plaza which is an extension of the bar-restaurant.

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ominique Perrault is instantly recognizable for the high degree of abstraction in his building plans and structural designs and for his experimentation with innovative construction materials, as can be seen from the Bibliothèque Nationale de France (1989-1997) and other internationally famous buildings. The French architect managed to break down the urban horizontality characterizing the whole area around Avenida Diagonal in Barcelona in 2009 through the construction of a new tower accommodating the ME Hotel: 112 meters high, 29 floors, 259 rooms and suites, a 300-place restaurant, conference center, spa, swimming pool, bar and panoramic terrace, in stark contrast to Agbar Tower designed by Jean Nouvel. The Hotel-Tower is a rectangular parallelepiped sectioned in two along its length, injected with motion by a staggered section projecting upward with an overhang at a height of 25 meters marking the hotel entrance. This structure is composed of interlocking solids and empty spaces, and the interplay of the staggered structural design lightens up the overall structure, as does the cube-shaped volume set back in relation to the rear alignment along Calle Lope de Vega, where a small square accommodates the café-restaurant terrace. The overhang and elevation structure contrast strikingly with the lower cube, which injects dynamism into the monolithic building, as well as a surprising sense of upward thrust. All features allowing architectural interaction with the cityscape in a balanced way. The reception and customer services are all concentrated on the first floor, as are the restaurant, conference center, swimming pool and bar, open day and night. The upper floors are taken up by the rooms that offer panoramic views out toward the sea, mountainside and Sagrada Familia. Due to its metal cladding composed of stiff anodized aluminum plates that cannot be corroded by the salt air or smog, the tower looks reflective because it draws on an interplay of light and shadow, modulating its structural rigidity through opacity, transparency and other lighting effects that change throughout the course of the day. As Perrault has stated: “Its identity, style and mark should be ‘unforgettable’, in the sense of recollection and memory, both for those who use it and those who discover its presence. The desire to belong to

the place, to be part of the local activity, has led us to the idea of a vestibule perforated by a public landscape. The hotel lobby is entered along a short gangway above a garden, like a fragment of nature that extends the presence of the urban park on the opposite side of the Diagonal. You actually cross the lobby to reach the other side, over to the south, where the square-terrace opening onto the neighborhood is located. The hotel becomes a visiting point and shelter, a place with fresh, modern, character in constant movement which fits in perfectly with the evolution of this new techno-business area of Barcelona—set between the sea and mountains, history and geography.”


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Dal basso verso l’alto, piante del piano terreno e del sesto piano dove è allestita la piscina. From bottom up, plans of the ground floor and sixth floor where the swimming pool is located.

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A sinistra, dal basso, piante del piano-camere dal 7° al 16° livello e del 24° piano dove si apre lo Sky Restaurant. A destra dal basso, piante del 25° piano (Executive) e delle suite dal 26° al 28°. Pagina a fianco, l’aggetto del volume proiettato in altezza che segnala l’ingresso dell’hotel.

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Left, from bottom up, plans of the standard room floors (7-16) and plan of the 24th floor, where the Sky Restaurant is located. Right, from bottom up, plans of the Executive room floor (25) and the suites room floors (26-28). Opposite page, the overhang of the structure projecting upward, which marks the entrance to the hotel.


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Prospettiva sulla Avenida Diagonal segnata dall’emergenza della torre. Pagina a fianco, viste degli spazi interni e della piscina. Perspective view along the Avenida Diagonal, marked by the presence of the tower. Opposite page, views of the interior spaces and the swimming pool. 58


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L’Arte di Apollo The Art Of Apollo Malta, residenza privata Malta, private house Progetto di Richard England Project by Richard England

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ichard England, nato a Malta, è architetto di fama internazionale, scultore, fotografo, poeta e prolifico scrittore di molti libri, autore di progetti importanti tra cui la sua residenza maltese, costruita con un giardino segreto dedicato ad Apollo e protetto dallo sguardo vigile delle Muse. In questo eremo tranquillo e silenzioso si ascoltano i pensieri, si evocano ricordi, mondi, viaggi, atmosfere e si elaborano le idee per costruire non solo edifici, ma spazi per vivere la poesia delle piccole cose, emozioni e sensazioni del quotidiano. Nella tradizione iconografica e simbolica, il giardino è un luogo ben curato, cinto da mura e al riparo da sguardi indiscreti e da pericoli esterni, dove ritirarsi per meditare sul mondo e se stessi nel rapporto con gli altri. Il giardino di casa England rispecchia gli interessi e le passioni di una mente poliedrica e di uno spirito onnivoro di saperi, esteta, affascinato dalla classicità, dalla mitologia e dalla cultura mediterranea. Questo pensatoio, irrorato dal sole dal mattino alla sera, è stato progettato come un palcoscenico privato, in cui si immaginano sculture classicheggianti mentre recitano soggetti in cerca d’autore, circoscritti in uno spazio arredato con le immagini delle piazze metafisiche di Giorgio de Chirico, dalle atmosfere enigmatiche, dove si annulla passato, presente e futuro. Progettato originariamente come un giardino segreto, questo spazio per l’anima è consacrato ad Apollo, divinità greca protettore della musica, della medicina e della poesia, poi identificato come dio del Sole, per estensione diventato simbolo della proporzione e delle Belle Arti, qui rappresentato da un busto di colore viola, issato su un piedistallo bianco abbacinante, tipico delle abitazioni nel Mediterraneo. Anche dall’interno dell’abitazione si vede l’“hortus conclusus” cinto da mura, alcune con pareti blu, rosa, viola, altre bianche con fessure da cui fanno capolino i cespugli di piante profumate del giardino retrostante, seguendo il modello del “paesaggio rubato” tradizionale dei giardini giapponesi Karesansui. Una minuscola Arcadia, protetta dal silenzio e dalla segretezza, in cui fanno da coro scenografico l’ambrosia, il giacinto e altre piante e fiori associati ad Apollo. Scrive England: “Quest’opera è pensata come una poesia ‘costruita’ che permette di abbandonarsi a un sogno e al desiderio di evocare un’architettura che riflette la mia convinzione di costruire ambienti che debbano soprattutto creare atmosfere in grado di elevare lo spirito di chi li vive”. Anche di notte questo giardino incantato e avvolto dal mistero, nel quale si risveglia Artemide, sorella gemella di Apollo, divinità mitologica protettrice della caccia e dea della Luna, che giace sonnecchiante nelle braccia di Morfeo, non perde la sua identità contemplativa e misticheggiante. Visto da fuori, questo giardino di Apollo si presenta come un’installazione concettuale: un doppio, intenso spettacolo per chi lo vive e per chi lo osserva come un’opera del Guercino o di Nicolas Poussin, “Et in Arcadia ego”.

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ichard England, born in Malta, is an internationally famous architect, sculptor, photographer, poet and the author of many books. His best-known architectural projects include his house in Malta built with a secret garden dedicated to Apollo and protected by the vigilant gaze of the Muses. In this quiet and peaceful hermitage you can hear your thoughts, recollect memories, worlds, journeys and atmospheres, as well as thinking up ideas for constructing not just buildings but spaces in which to experience the poetry of small things, everyday emotions and sensations. According to iconographic and symbolic tradition, a garden is a well cared-for place surrounded by a wall and sheltered from intruding gazes and outside dangers. Somewhere to retire to meditate about the world and think about your relationship with others. The garden in England’s house reflects the interests and passions of a multifaceted mind and a spirit eager to devour knowledge, an aesthetic soul intrigued by classicism, mythology and Mediterranean culture. This place of thought, lit up by sunshine from morning till evening, has been designed like a private stage on which to envisage classically-styled sculptures that like characters searching for their authors, act out their parts, surrounded by a space furnished with pictures of Giorgio de Chirico’s metaphysical squares and enigmatic atmospheres, where the past, present and future are all canceled out. Originally designed to be a secret garden, this soulful space is consecrated to Apollo, the Greek god of music, medicine and poetry, later identified as the Sun god and eventually coming to symbolize proportions and the Fine Arts, here represented by a violet-colored bust set on a dazzling white pedestal typical of houses in the Mediterranean. The “hortus conclusus” can also be seen from inside the house surrounded by walls, some blue, pink and lilac, others white with slits perforated by bushes of sweet-smelling plants from the garden at the rear, reminiscent of the traditional “borrowed scenery” found in Karesansui Japanese gardens. A tiny Arcadia, sheltered by silence and secrecy, embellished by ambrosia, hyacinths and other plants and flowers associated with Apollo. As England himself writes: “This is a work conceived as a ‘built’ poem to enable one to engage in dream and desire while evoking an architecture which reflects my belief that built environments should above all provide soul enhancing ambiances.” Even at nighttime, this enchanted garden enshrouded in mystery, where Apollo’s twin sister Artemis awakes (the mythological goddess of hunting and the Moon, who relies dreamily in Morpheus’s arms), loses none of its mystic and contemplative identity. Viewed from the outside, this Apollo’s garden looks like a conceptual installation: a double, intense spectacle for the people living in it and for those observing it like a work by Guercino or Nicolas Poussin, “Et in Arcadia ego”.


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NUOVE UTOPIE NEW UTOPIAS

Richard England

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In queste pagine e nella pagina precedente, particolari del Giardino di Apollo, luogo onirico concepito dall’architetto Richard England come area di lavoro e meditazione per la sua residenza maltese.

These pages and the previous one, details of the Garden of Apollo, a dream-like place, conceived by architect Richard England as a work and meditation area for his residence in Malta.

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Apollo, cui è dedicato il giardino, è raffigurato con riproduzioni in gesso colorato montate su piedistalli, la cui solennità sembra proteggere questo paradiso di quiete.

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The garden is dedicated to Apollo, who is represented by colored casts standing on pedestals, as solemn protectors of this enclave of quiescence.


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Rinascimento mediterraneo Mediterranean Renaissance Marsiglia, progetto di riqualificazione urbana Euroméditerranée Marseille, Euroméditerranée urban redevelopment project Progetti di autori vari Projects by various architects

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Planimetria dei principali cinque settori di Marsiglia interessati da Euroméditerranée. Site plan of the main five areas of Marseille involved in the Euroméditerranée project.

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arsiglia ha dato nuovo impulso al suo processo di sviluppo e riqualificazione urbanistica e architettonica da quando è stata nominata Capitale Europea della Cultura 2013, evento che trasformerà la metropoli in una piattaforma di scambi interculturali, commerciali e turistici di attrazione internazionale. Marsiglia con il suo Porto Vecchio, il Vieux Port indimenticabile del film “Il clan dei Marsigliesi” (1972), dal fascino delabré e luogo malfamato per eccellenza, sarà solo un lontano ricordo di nostalgici appassionati di sigarette Gitanes, pastis e film noir, quando sarà ultimato il progetto di rinnovamento e di sviluppo urbano del centro-città sostenuto da stato francese, città, regione PACA (Provenza-Alpi-Costa Azzurra), consiglio generale del dipartimento Bouches-du-Rhône e comunità urbana Marseille Provence Métropole. Il progetto di costruire Euroméditerranée, la nuova città nella vecchia Marsiglia, comprendente un territorio di 480 ettari delimitato dal porto commerciale, il Porto Vecchio e la stazione del TGV, entrato nella sua seconda fase di realizzazione (2007) sta modificando radicalmente la realtà urbanistica, economica, culturale e architettonica della città. L’obiettivo è di diventare cuore degli scambi tra Europa e Mediterraneo e questa città-cantiere ha tutti i numeri per arrivare al traguardo, puntando su eccellenze e archistar, per attuare un rinascimento urbanistico senza precedenti. Il progetto prevede la costruzione di nuove infrastrutture, spazi pubblici, uffici, abitazioni, attività commerciali, alberghi, edifici culturali e per lo svago, trasformando grandi aree industriali in centri dell’innovazione capaci di innescare sviluppo culturale e tecnologico. La prima fase del progetto, avviata nel 1995, ha coinvolto un’area di 310 ettari per un investimento di 3,5 miliardi di euro di cui 600 pubblico e 2,9 privato, con interventi nei quartieri della Joliette, della Cité de la Méditerranée, di SaintCharles, della Belle de Mai e di Rue de la République. Oltre alla creazione ex-novo di edifici destinati a molteplici funzioni, sono previsti il potenziamento degli spazi pubblici e del verde, la ricomposizione degli assi urbani principali, delle porte d’ingresso alla città e del fronte mare, e la riconfigurazione della rete dei trasporti, in un’ottica di sviluppo sostenibile. L’architettura futuristica di Euroméditerranée contempla in particolare la conversione di complessi abitativi esistenti in nuove strutture e funzioni per ridisegnare lo skyline della città. Zaha Hadid, Rudy Ricciotti, Massimiliano Fuksas, Jean

Nouvel, Yves Lion e Roland Carta sono tra gli autori impegnati nel quartiere Cité de la Mediterranée, un’area di 60 ettari affacciata sul mare tra il vecchio porto e il quartiere Arenc. Il nuovo piano urbanistico, affidato agli studi Atelier Lion/Atelier Kern et associés/Ilex, si sviluppa intorno a tre poli principali: la Esplanade del molo J4, a nord del Porto Vecchio, dove sorgeranno centri culturali destinati ad attrarre un vasto pubblico, dal MUCEM (Museo della Civiltà d’Europa e del Mediterraneo) al Centro Regionale del Mediterraneo; il Boulevard del Litorale, ingresso alla città tra i più importanti, trasformato in un percorso che collega il molo J4 ad altre strutture della Cité de la Mediterranée, privilegiando i sistemi di trasporto e la circolazione dei residenti; il Parco Abitato che comprende aree residenziali e caratterizzerà questa nuova città giardino di 1.500 alloggi. Il quartiere della Joliette, che si estende su 22 ettari tra porto e centro-città, diventerà il nuovo polo degli affari. Anche il vecchio edificio dei docks, una costruzione di metà Ottocento, è stato riportato a nuova vita e con i suoi 360 metri di lunghezza per 30 di altezza è oggi occupato da 250 aziende ed è considerato un centro economico e industriale situato in un punto nevralgico della città. Il quartiere Saint-Charles, con la nuova stazione del TGV (JeanMarie Duthilleul dello studio Arep), inaugurata nel 2007; Rue de la République, arteria haussmanniana che unisce il porto vecchio, il centro-città e il quartiere d’affari della Joliette; la Belle de Mai, il complesso culturale sorto nell’area delle antiche manifatture di tabacco: sono gli altri importanti progetti in via di realizzazione nel piano di rinnovamento di Euroméditerranée. Nel 2007 si è deciso di estendere il perimetro di Euroméditerranée a un’area di circa 170 ettari a nord della Cité de la Méditerranée, attualmente occupata da insediamenti logistici e poco abitata. La punta di diamante del progetto è rappresentata dalla realizzazione di un eco-quartiere a vocazione mista, che mira al potenziamento del tasso di residenti (dagli attuali 3.000 a 30.000 abitanti) e di occupazione (tra i 10.000 e 15.000 nuovi posti di lavoro). Il programma prevede un ampliamento del quartiere degli affari, nuove abitazioni, un parco urbano e una rete di trasporti pubblici connessa al resto della città. Il concorso urbanistico internazionale per la progettazione e lo sviluppo urbano dell’estensione Euroméditerranée si è concluso lo scorso novembre con l’assegnazione dell’incarico all’équipe Leclerq/TER, team collaudato che ha già lavorato insieme su progetti come la riqualificazione urbana dei quartieri Nord-Est di Parigi, la Porta Valenciennes a Lille e lo sviluppo di una città a vocazione turistica in Cina.


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MEDITERRANEO MEDITERRANEAN

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La torre CMA-CGM di Zaha Hadid costruita lungo il Boulevard del Litorale. Zaha Hadid’s CMACGM tower, built along the Seafront Boulevard.

arseille has injected fresh life into its process of urban and architectural development and enhancement ever since it was nominated European Capital of Culture 2013, an event which will transform this metropolis into a platform for intercultural, commercial and tourist exchanges on an international scale. Marseille with its Old Port, the Vieux Port so unforgettably represented in the film “La scomoune” (1972), renowned for being a notoriously seedy location, will only be a distant memory for those nostalgic fans of Gitanes cigarettes, pastis and film noir, after the project for the urban development and renewal of its city center is completed with the backing of the French Government, City Council, PACA (Provence-Alps-Côte d’Azur), General Council of the Bouches-du-Rhône Department and Urban Community of Marseille Provence Métropole. The project to construct Euroméditerranée, the new city in old Marseille, incorporating a 480 hectare patch of land bordered by the commercial port, Old Port and TGV station, which has now entered the second stage in its construction (2007), is radically altering the city’s urban, economic, cultural and architectural situation. The aim is to become the heart of trade between Europe and the Mediterranean, and this city-building site has everything required to achieve its goal, focusing on excellence and archistars to carry out an unprecedented process of urban renaissance. The project involves the construction of new infrastructures, public spaces, offices, housing, retail facilities, hotels and cultural-leisure buildings, converting major industrial areas into centers of innovation capable of triggering off cultural and technological growth. The first stage in the project, set underway in 1995, involved a 310 hectare area of land for an investment of 3.5 billion, including 600 from the public and 2.9 from the private sector, with projects in the Joliette, Cité de la Méditerranée, SaintCharles, Belle de Mai and Rue de la République districts. As well as constructing some brand-new buildings serving multiple purposes, there are also plans to reinforce public spaces and greenery, recompose the main urban thoroughfares and entrance gates to the city and seafront, and reconfigure the transport network along the lines of sustainable growth. The futuristic architecture of Euroméditerranée mainly involves converting existing housing complexes into new structures and functions designed to reshape the city’s skyline. Zaha Hadid, Rudy Ricciotti, Massimiliano Fuksas, Jean Nouvel, Yves Lion and Roland Carta are among the architectural designers working on Cité de la Méditerranée neighborhood, 60 hectares area of land overlooking the sea between the old port and Arenc neighborhood. The new town plan, which Atelier Lion/Atelier Kern et associés/Ilex was commissioned to design, develops around three main features: the Esplanade of Pier J4 to the north of the Old Port, where cultural centers expected to draw in large numbers of people are being built, from the MUCEM (Museum of European and Mediterranean Civilization) to the Mediterranean Regional Center; Seafront Boulevard, one of the most important entrances to the city converted into pathway connecting Pier J4 to the other facilities of Cité de la Méditerranée, favoring transport and circulation systems belonging to residents; the Inhabited Park, which includes residential areas and characterizes this new garden city with housing for 1,500. The Joliette neighborhood, which extends over 22 hectares between the harbor and city center, will become a new business center. Even the old docks building, a con-

struction dating back to the mid-19th century, has been restored to life and its 360 m in length and 30 m in height are now taken up by 250 companies, so that it is now considered to be a new financial and industrial center located in a strategic point of the city. The Saint-Charles neighborhood, including the new TGV station (Jean-Marie Duthilleul and the Arep agency) which opened in 2007; Rue de la République, a Hausmannian avenue linking up the old harbor, city center and Joliette business neighborhood; Belle de Mai, a cultural center built where an old tobacco manufacturing plant used to stand, are some of the projects underway as part of the Euroméditerranée redevelopment plan. In 2007 it was decided to extend the perimeter of Euroméditerranée to encompass an area of approximately 170 hectares to the north of Cité de la Méditerranée, currently taken up by logistical settlements and not very densely inhabited. The flower in the buttonhole of the project is the construction of a mixed-purposes econeighborhood, aimed at increasing the number of residents in the area (from the current figure of 3,000 to 30,000) and employment (creating between 10,00015,000 new jobs). The program envisages an extension of the business neighborhood, new housing, an innercity park and a network of public transport connected to the rest of the city. The international town planning competition for the urban design and development of the extension to Euroméditerranée closed last November, awarding the commission to the Leclerq/TER partnership, a tried and trusted team that has already worked together on projects like the urban redevelopment of north-eastern quarters of Paris, Porte Valenciennes in Lille and the development of a tourist city in China.


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Vista d’insieme del quartiere Arenc, intervento a funzioni miste (residenze, commerci, uffici e servizi); particolari delle tre torri (Jean Nouvel, Yves Lion e Jean-Baptiste Piétri) e dell’edificio basso che le completa (Roland Carta); rendering delle torri di Yves Lion e Jean Nouvel; sezione trasversale e prospetto laterale della torre di Jean Nouvel.

General view of the Arenc neighborhood, a mixed-use development (residential, commercial, offices, services); details of the three towers (by Jean Nouvel, Yves Lion, and Jean-Baptiste Piétri) and of the low building completing the lot (by Roland Carta); rendering of Yves Lion’s and Jean Nouvel’s towers; cross section and side elevation of Jean Nouvel’s tower. 69


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Planimetria della Cité de la Méditerranée tra il Vieux-Port e Arenc.

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Site plan of the Cité de la Méditerranée between Vieux-Port and Arenc.

1. MUCEM (Rudy Ricciotti – C+T Architecture), 2012 2. Centre Régional de la Méditerranée (Boeri Studio – Di Pol – Manfredi – Goetschy et Masson – Goetschy – Katalyse – AR&C), 2012 3. Esplanade du J4 (Yves Lion – F. Kern – Ilex – Ingérop – Itinéraires), 2012 4. Tunnel Major (Cu Mpm – Ingérop), 2002 5. Esplanade de la Major (Bruno Fortier et Jean-Michel Savignat), 2011 6. Horizon Schuman (Poissonnier Ferran), 2008 7. Bd Littoral (Cu Mpm – Ingérop), 2010 8. Gare Maritime Major (Lanoire et Courrian), 2006 9. Les Terrasses Du Port (Petiaud Letang), 2012 10. Le Silo (E. Castaldi et Roland Carta), 2009 11. Euromed Center (Maîtrise d’oeuvre : Fuksas – Desvignes – Mathoulin – Ab – Lehoux – Phily – Samara), 2013 12. Les Quais d’Arenc (Jean Nouvel, Yves Lion, Jean-Baptiste Pietri et Roland Carta), 2013 13. Tour CMA-CGM (Zaha Hadid Architects), 2010 14. Pole Multimodal d’Arenc, 2010 15. Parc Habité d’Arenc (STOA (espace public) / Yves Lion / Atelier Kern et Associés / Ilex), 2009-2014 16. L’Alizé – Le Faubourg des Docks (Metz Sroka / Battesti), 2009-2012 17. Archives Départementales (Vezzoni – Adm et Hydrap), 2006 18. Eglise St Martin d’Arenc 19. Hôpital Euroméditerranée (C + T Architectures, Rigal & Bargas Architecture), 2012


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Planimetria della Joliette, quartiere d’affari tra il porto e il centro-città.

Site plan of the Joliette, a business district between the port and the city center.

Planimetria del quartiere di Saint-Charles/Porte d’Aix, nei pressi della stazione.

Site plan of Saint-Charles/Port d’Aix neighborhood, near the station.

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JOLIETTE 1. Bd Camille Pelletan 2. Interruption de l’A7 Leclerc (SEURA / Florence Bougnoux, Jean-Marc Fritz, David Mangin, architectes urbanistes associés / Philippe Raguin, paysagiste / Philippe Massé), 2012 3. Tunnel St Charles (Setec Its / Tpi), 2005 4. Abords de la Gare (Ilex – François Kern – Ingérop – Concepto), 2009 5. Pôle multimodal St Charles (Atelier des Gares – J. M. Duthilleul), 2007 6. Logements Ilot Bernard Dubois (Jean-Baptiste Pietri, Roland Carta), 2009-2011 7. Cœur de ZAC, 2011 8. Espaces verts

1. Les Docks (Eric Castaldi), 2002 2. Le Quartier d’Affaires, 2012 3. Place (STOA / Végétude/Eclairagistes associés), 2009 et Parking Arvieux (Atelier du Prado Perez Architecte), 2008 4. Place et Parking Espercieux (Battesti Architecte / Egis aménagement / STOA / Végétude / Eclairagistes associés), 2008 5. Cœur Méditerranée (Jean-Paul Viguier), 2008 6. Place de La Méditerranée (Yves Lion / F. Kern / Ilex), 2010-2011 7. Bd de Dunkerque (STOA / Végétude / Eclairagistes associés), 2010 et Trame Mires (Site et Cité / D. Mossé / R. Poulard / Egis aménagement), 2009

8. Euromed Station / Urban Square (Jacques Ferrier architecture), 2011-2013 9. M1 (Cabinet MAX / Poissonier Ferrand), 2007-2008-2009 10. Ecoles D. Clary (Barisain Monrose), 2006 et Chevallier Paul (Edouard Sarxian), 2011 11. Collège J. C. Izzo (Lacube et Redondo architectes), 2005 12. M5 – Les Docks (R. Castro, Y. Lion et S. Denissof), 2004-2008 13. Frac (Kengo Kuma & Associates), 2012


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Euromed Center, progettato da Massimiliano Fuksas, che offrirĂ nuove attrezzature di turismo e di svago, sarĂ il nuovo faro culturale di Marsiglia.

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Euromed Center, designed by Massimiliano Fuksas, will provide new touristic and leisure facilities and will be the new cultural landmark for Marseille.


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1 Il Museo della Civiltà d’Europa e del Mediterraneo, progettato da Rudy Ricciotti, integrerà le collezioni del vecchio Museo delle Arti e delle Tradizioni Popolari e del Museo dell’Uomo.

The Museum of European and Mediterranean Civilization, designed by Rudy Ricciotti, will incorporate the collections of the old Arts and Popular Traditions Museum and the Museum of Man.

2 L’Esplanade de la Major (progetto di Bruno Fortier e Jean-Michel Savignat) valorizzerà il complesso architettonico della Cattedrale e della Vieille Major.

The Esplanade of the Major (designed by Bruno Fortier and Jean-Michel Savignat) will enhance the architectural complex of the Cathedral and Vieille Major.

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In alto, la Esplanade del molo J4, uno dei luoghi più emblematici della città. Qui sopra e pagina a fianco, il Fondo Regionale d’Arte Contemporanea

(FRAC), progettato da Kengo Kuma & Associates nel quartiere della Joliette. Top, the Esplanade of the Pier J4, one of the most emblematic places in the city.

Here above and opposite page, the Regional Fund of Contemporary Art (FRAC), designed by Kengo Kuma & Associates in the Joliette neighborhood.


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L’Oro di Napoli The Gold Of Naples Napoli, nuova Stazione Montesanto Naples, new Montesanto Station Progetto di Silvio D’Ascia e Tecnosistem Project by Silvio D’Ascia and Tecnosistem

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apoli è una città sfaccettata, contraddittoria, inafferrabile, dinamica e statica al tempo stesso, soprattutto dal punto di vista urbanistico e architettonico. Restyling di antichi palazzi o piazze e altri progetti importanti di opere pubbliche vanno a rilento e spesso non si concludono, essendo una città sospesa tra desiderio di innovazione “futuristica” e riqualificazione e freno di burocratismo, malavita e scandalo rifiuti. La riqualificazione della Stazione Montesanto della Linea 2, di Silvio d’Ascia e Tecnosistem (2010), è da considerarsi come una tappa importante del Piano Regionale dei Trasporti e nodo centrale della futura Metropolitana Regionale. Il progetto ha risposto a tre principali obiettivi: ammodernamento e rifunzionalizzazione della stazione storica; creazione di un moderno polo di scambio intermodale che

colleghi i trasporti regionali con quelli metropolitani; restyling in chiave funzionalista e moderna del centro storico. Dopo la Linea 1, detta “dell’Arte”, questo intervento di trasformazione ex-novo di un edificio e di una piazza storica in una moderna stazione e centro di connessione tra le vicine aree d’interesse turistico e culturale, come Trinità delle Monache, Certosa di San Martino e Castel Sant’Elmo, rappresenta un elemento di vitalismo e un tentativo di ammodernamento della città. Il progetto ha recuperato, dove possibile l’edificio originario del 1889, ripulendo la stazione dei successivi interventi realizzati nel Novecento. Si è trattato di una lettura conservativa di un monumento di archeologia industriale concentrata sul recupero del corpo centrale, composto da un loggiato superiore con struttura in ghisa e due torrioni la-


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MEDITERRANEO MEDITERRANEAN

terali in muratura di tufo. Partendo dalle immagini in bianco e nero della Belle Epoque partenopea si è proceduto alla riapertura delle due ali laterali del preesistente portico d’ingresso della facciata principale, favorendo così la comunicazione tra l’edificio della stazione e l’ambiente urbano di Piazza Montesanto. Lo stesso loggiato liberty restaurato è stato a sua volta lo spunto per la realizzazione della hall vetrata al piano banchine. Il volume antico della loggia con capriate ad arco in ghisa, e il motivo della copertura in lastre di vetro, è stato ripreso e valorizzato da un secondo ordine di capriate, stavolta di tipo tradizionale Polenaceau, ripetute per due moduli in struttura d’acciaio e lamine di vetro. Altro e non secondario recupero è stata l’integrazione funzionale e fisica delle due stazioni della funicolare esi-

stenti – Ferrovia Cumana SEPSA e Funicolare ANM – separate prima dell’intervento e risolte ora in uno spazio unico, che garantisce maggiore viabilità e flessibilità dei percorsi, utilizzando la hall della loggia storica come area comune dei due sistemi di trasporto. Non ultimo, la Stazione di Montesanto, ha saputo integrare funzionalità ed estetica con l’elaborazione di un innovativo sistema di segnaletica attualmente utilizzato come caso campione di POG (Plan d’Organisation de la Gare), piano complessivo della gestione dello spazio della stazione. Il nuovo progetto e la segnaletica rispondono a un desiderio di rinnovamento urbanistico e di semplificazione della comunicazione del sistema di trasporti di Napoli in maniera più omogenea e funzionale, seguendo modelli internazionali.

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Immagini d’epoca (1890 ca.) e immagini attuali degli spazi interni ed esterni della Stazione Montesanto a Napoli. Period pictures (around 1890) and images of internal and external spaces of Montesanto Station in Naples.


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Particolare di uno spazio interno della Funicolare corrispondente alla grande vetrata e, in basso, due sezioni del complesso. Detail of an interior space of the Funicular by the large glass front, and, bottom, two sections of the complex.

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aples is a multifaceted, contradictory, ungraspable, dynamic and at the same time static city, particularly from a town-planning and architectural viewpoint. The restyling of old buildings or squares and other important public works inevitably progress very slowly and are often never completed, since the city wavers between a desire for “futuristic” innovation and redevelopment and the restraining force of bureaucracy, crime and the refuse-collection scandal. The redevelopment of Montesanto Station on Line 2, designed by Silvio d’Ascia and Tecnosistem (2010), may be seen as an important stage in the Regional Transport Plan and a central node of the future Regional Underground line.

The project achieved three main targets: the modernization and re-functionalizing of the old station; the creation of a modern intermodal exchange station connecting regional transport to metropolitan transport; the functionalist, modern restyling of the old city center. In the wake of Line 1 (known as “dell’Arte”), this project to transform from scratch an old building and square into a modern station and link between neighboring areas of tourist and cultural interest, such as Trinità delle Monache, Certosa di San Martino and Castel Sant’Elmo, represents a means of injecting fresh life into the city and a real attempt to modernize it. The project has attempted, as far as possible, to salvage the original building from 1889, cleaning up the station following a series of alterations carried out in the 20th century. This has been a conservative reading of an old industrial monument focused on renovating the central core, composed of an upper loggia with a cast iron structure and two lateral towers made of tufa masonry. Starting from black-and-white pictures from the Belle Epoque period in Naples, work began on reopening the two side wings of the old entrance gate along the main facade, thereby helping create interaction between the station building and inner-city environment of Piazza Montesanto. The carefully restored Liberty-style loggia provided, in turn, guidelines for constructing the glass hall at platform level. The old-fashioned loggia construction, with its cast iron arched trusses and the pattern on the roof made of glass sheets, was taken up and enhanced by a second row of trusses, this time of the traditional Polenaceau-style, reiterated across two modules made of a steel and glass laminar structure. Additional and no less important renovation work was carried out on functionally integrating the two stations on the old funicular railway—the Cumana SEPSA railnet and the ANM Funicular railway—that were separate before the project but now combine to form one single space guaranteeing better road conditions and more flexible pathways, using the hall of the old loggia as a communal area for the two transport systems. Last but not least, Montesanto Station has successfully combined functionality and aesthetics through the creation of an innovative signposting system currently being used on a trial basis to test out the POG (Plan d’Organisation de la Gare), an overall plan for managing the station facility. The new project and signposting satisfy the need for urban renewal and for simplifying communication on the Naples transport network in a more standardized and functional manner, in keeping with international guidelines.


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Dal basso, planimetria generale, piante e sezioni. Il nuovo funzionamento del complesso prevede la netta separazione dei flussi di ingresso. From bottom up, site plan, plans, and sections. According to the new functioning system of the complex, the entrance flows have been clearly separated. 79


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La vetrata della Funicolare e una vista della copertura.

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The glass front of the Funicular and a view of the roof.


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L’interno della Funicolare e l’edificio-ponte sospeso sopra i binari che accoglie uno spazio polivalente.

The interior of the Funicular and the building bridging over the rail tracks, hosting a multifunctional space.

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Su in alto High Above Istanbul, nuova sede dell’industria farmaceutica Abdi Ibrahim Istanbul, new headquarters of Abdi Ibrahim pharmaceutical industry Progetto di Dante O. Benini & Partners Architects Project by Dante O. Benini & Partners Architects

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el cuore di Maslak, considerata la Manhattan di Istanbul, si erge la nuova e imponente sede di Abdi Ibrahim Pharmaceuticals progettata dallo studio Dante O. Benini and Partners (DOBP): una torre alta 120 metri con vista sul Bosforo che ha modificato lo skyline dell’area. Questo grattacielo razionalista high-tech non risente di nessuna influenza regionalista e si distingue per le facciate nord e sud completamente vetrate, a scansioni orizzontali con vetri neutri e selettivi con gas argon, per garantire la massima trasparenza e una corretta perfomance termica e acustica. La torre affascina per l’integrazione di setti in calcestruzzo con cemento a vista resinato che tagliano, come lame sfalsate, il volume verticale nel lato est e ovest, per dare più slancio verticalista alla struttura. Già nel 1998, la realizzazione del primo nucleo della prestigiosa sede della casa farmaceutica numero uno in Turchia era stata affidata allo stesso architetto, con l’obiettivo di evidenziare nell’architettura verticale l’espressione della corporate identity aziendale. Nel 2003, la società, capitanata dall’illuminato presidente Nezih Barut, coerente al ruolo di leadership e di cultura d’impresa, affida a Benini l’incarico di progettare contemporaneamente un’estensione della fabbrica di 8.000 metri quadrati, un edificio per le aree di ricerca e sviluppo di 16.000 metri quadrati (l’”R&D”) e il grattacielo per il nuovo quartier generale, con uffici di 15.000 metri quadrati (la “Tai Tower”). La nuova monumentale sede interpreta la ricerca di identità e affermazione dell’azienda, situata in un luogo strategico della città, e rappresenta un modello architettonico innovativo. Se l’edificio R&D è stato concepito in orizzontale, con spazi ipogei, come un’opera di Land Art, la Tai Tower è ideata come un volume unico e si sviluppa con piani verticali sfalsati, nel rispetto delle regole urbanistiche di utilizzo delle superfici immobiliari, con ventuno piani fuori terra e cinque interrati. La luce e la spazialità degli interni sono la principale caratteristica di Dante O. Benini, che si distingue per scelte funzionaliste sempre contestualizzate. Gli scudi esterni di lamiera che percorrono l’edificio dal basso verso l’al-

to, appesi alle pareti dei noccioli strutturali costruiti a nord-est, nascondono le dorsali degli impianti e i collegamenti verticali d’emergenza e di servizio, rivelandosi al contempo una soluzione non soltanto funzionalista, ma anche decorativa. Il fronte sud è più complesso: il volume basso cubico aggettante appartenente al resto dell’edificio è alleggerito da un bow window inclinato a tripla altezza, su cui si affaccia l’atrio principale, ed è raccordato alla parte sovrastante verticale con una grande scala in acciaio inclinata, che parte dal bow window invertendone l’inclinazione e termina, oltre la sommità, con una penthouse gallery sospesa al livello più alto, che ospita gli spazi presidenziali. Il flusso pubblico si concentra nell’atrio principale che ha una quadrupla altezza e occupa tutta la lunghezza dell’edificio con una galleria alta 16 metri, soluzione che garantisce di portare la luce naturale fino al secondo livello interrato, sulla piazza dell’area mensa e relax. Nell’area della lobby si distinguono il mezzanino dedicato alle sale riunioni, il piano reception con spazi espositivi e museali, il foyer dell’auditorium da 300 posti al piano interrato. Nell’atrio, attraversato da scale, le rampe e i ponti che collegano i percorsi dei piani pubblici, sospesi nel vuoto, sono un esempio di abilità costruttiva di grande impatto estetico. Dal primo al quarto piano e dal sesto al dodicesimo si sviluppano gli open space dei vari dipartimenti, le aree dedicate al management e al consiglio di amministrazione, gli spazi di rappresentanza, ristoranti, sale Vip e biblioteca, mentre al quattordicesimo si trovano palestra e galleria privata. La sovrapposizione di piani e volumi ha permesso di ricavare grandi terrazze a piani differenti, utilizzate per eventi e protette da vele di copertura in rete tessuta d’acciaio. Anche gli ultimi piani terrazzati sono protetti da una cascata di rete metallica modellata come un lungo trampolino di 40 metri. Non sorprende che la parte più alta dello scivolo sia realizzata con rete d’acciaio a tecnologia LED, con la funzione di trasformarsi in uno schermo multimediale con risoluzione a 150.000 pixel, visibile anche di giorno e spettacolo indimenticabile di notte.


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La facciata principale della nuova sede Abdi Ibrahim, realizzata a Istanbul. The main facade of the new Abdi Ibrahim HQ, built in Istanbul.

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he imposing new headquarters of Abdi Ibrahim Pharmaceuticals designed by Dante O. Benini and Partners (DOBP) stands right in the heart of Maslak, considered to be the Manhattan of Istanbul: a 120meter-tall tower with a view across the Bosporus that has altered the area’s skyline. This rationalist high-tech skyscraper shows no regionalist influence and stands out for its all-glass north and south facades featuring horizontal sheets of neutral and selective glass, filled with argon gas to guarantee maximum transparency and proper thermal and acoustic performances. The tower is particularly fascinating due to its combination of concrete stanchions made of exposed resin-coated cement that cut through the vertical structure over on the east and west sides, like staggered blades, to give the structure upward thrust. Back in 1998 the construction of the first section of the prestigious headquarters of Turkey’s leading pharmaceutical company was entrusted to the same architect, with a view to projecting the company’s corporate identity through vertical architecture. In accordance with its business culture and leading role in its field, in 2003, captained by its enlightened chairman Mr. Nezih Barut, the company commissioned Benini to simultaneously design an extension to the 8,000 m² factory building, a building for the research and development areas covering 16,000 m² (the “R&D”), and the skyscraper for the new headquarters incorporating 15,000 m² of office space (the “Tai Tower”). The monumental new headquarters interprets the company’s search for identity and prestige and is located in a strategic part of the city. It provides a new innovative architectural model. Whereas the R&D building is designed horizontally with underground spaces, like a work of Land Art, the Tai Tower is designed as one single structure extending over staggered vertical floors, in accordance with the town-planning rules for real estate property, featuring twenty-one floors above ground and five underground. Lighting and the spatial layout of interiors are the most distinctive features of Dante O. Benini’s work that tends toward contextualized functionalism. The external sheet-metal shields running along the buil-

ding from bottom to top and hanging from the walls of the structural cores constructed over on the north-east side conceal the backbone of plants and systems and vertical emergency/service links, proving to be not just a functionalist but also a decorative feature. The south front is more intricate: the overhanging low cube-shaped structure belonging to the rest of the building is lightened up by a triple-height sloping bow window facing onto the main lobby and is connected to the vertical section above by a large sloping steel stairway that begins from the bow window, inverting its angle of inclination and terminating, beyond the top, in a penthouse gallery suspended at the highest level that incorporates the presidential spaces. The flow of people is concentrated in the quadruple-height main lobby taking up the entire length of the building with a gallery 16 meters high. This solution guarantees natural light is conveyed right down to the second underground level across the square holding the canteen and relaxation area. The lobby area features a mezzanine level holding meeting rooms, the reception floor with exhibition and museum spaces, and the foyer of the 300-seat auditorium in the underground level. In the lobby, which has stairways crossing through it, the ramps and bridges connecting the pathways of the various public levels, suspended in space, are an aesthetically striking example of construction wizardry. The open spaces of the various departments, the areas reserved for management and the board of directors, the reception spaces, restaurants, VIP rooms and library, are all located from the first to the fourth floors and from the sixth to the twelfth floor. The fitness room and private gallery are set on the fourteenth floor. The overlapping of planes and structures enabled the creation of large terraces on different levels, used for events and protected by covering veils made of a woven steel mesh. The top terraces, too, are protected by a cascading metal web shaped like a 40-meter-long trampoline. It is hardly surprising that the top part of the slide is made out of steel mesh based on LED technology and designed to turn into a 150,000 pixel resolution multimedia screen, visible during the daytime and providing an unforgettable spectacle at night.


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Prospetto ovest e, a destra, prospetto nord della torre alta 120 metri. Lo sfalsamento di piani e volumi ha consentito di ricavare ampie terrazze a piani differenti, dotate di giardini pensili protetti da vele di copertura in inox.

West elevation, and, right, north elevation of the 120-meter high tower. The staggering of planes and volumes made it possible to create large terraces on different levels, furbished with hanging gardens sheltered by stainless steel roof veils.

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Veduta aerea del quartiere di Maslak dove sorge la torre. A sinistra dal basso, piante del livello -1 con l’auditorium, pianta del piano terra, pianta del piano 5°. A destra, dal basso, pianta dei piani tipo dal 6° al 12°, piante dei piani 14°, 15° e 16°.

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Aerial view of the Maslak neighborhood, where the tower is located. Left, from bottom up, plan of level -1 containing the auditorium, plan of the ground floor, plan of the 5th floor. Right, from bottom up, plan of standard floors (6-12), plans of the 14th, 15th, and 16th floors.


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In questa pagina, vista della facciata sud; sezione trasversale e particolari delle intercapedini che corrono tra le facciate e gli scudi in lamiera microforata mascherando i vani tecnici e di servizio. Pagine successive, viste delle facciate dell’edificio e particolari delle terrazze e della suggestiva copertura a onde in rete di acciaio.

This page, view of the south facade; cross section; details of the cavities between the facades and the shields made of micro-perforated metal, which conceal the technical and service rooms. Following pages, views of the facades of the building and details of the terraces and of the striking wavy roof made of steel mesh. 87


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Italcementi e Richard Meier: l’innovazione per l’architettura e il design. Dalla chiesa Dives in Misericordia al Centro Ricerca e Innovazione i.lab, fino all’installazione Mutated Panels. Italcementi and Richard Meier: innovation in architecture and design. From Dives in Misericordia church to the i.lab Research and Innovation Center and the Mutated Panels installation.

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rrivato alla sua 50a edizione, il Salone del Mobile di Milano rappresenta non più e non solo un appuntamento con il mercato internazionale del mobile e dell’arredamento, ma una vera e propria riflessione sul mondo del design e dell’innovazione. L’esposizione fieristica istituzionale è accompagnata dal FuoriSalone, la mostra-evento che, nata nel 1990 per iniziativa della rivista Interni, ha dato al design una spettacolare dimensione urbana trasformando Milano in una vetrina di installazioni, oggetti e arredi sperimentali. Il FuoriSalone porta il progetto di design nel tessuto cittadino ridisegnandone spazi e prospettive in un’esperienza di ibridazione multidisciplinare tra architettura, arte, musica, moda e food experience. Per l’edizione 2011, la proposta progettuale affidata alla riflessione di architetti e designer è stata incentrata sul concetto di mutazione: MutantArchitecture&Design, creare il nuovo dalla trasformazione dell’esistente. Oggetti ed edifici intelligenti, concepiti e realizzati attraverso il riuso o il diverso uso di materiali esistenti, ripensati e rinnovati per diventare altro, per acquisire nuove dimensioni e contorni. Nel cuore della città,

all’interno della Ca’ Granda, antico ospedale cittadino oggi sede dell’Università degli Studi di Milano, nei cortili rinascimentali del Filarete, hanno preso vita dieci spettacolari installazioni – micro-architetture e macro-oggetti – ideate da grandi progettisti internazionali come Mario Botta, Michele De Lucchi, Gwenael Nicolas, Zaha Hadid, Richard Meier, Ingo Maurer, Snøhetta, Anders Warming, Jacopo Foggini, Giulio Iacchetti, e con il contributo di aziende impegnate in progetti di ricerca tra architettura e design. Mutated Panels è l’installazione messa a punto dall’architetto americano Richard Meier con i nuovi prodotti eco-compatibili sviluppati dai ricercatori Italcementi. All’apparenza un gigantesco origami, Mutated Panels consiste in realtà in una serie di pareti ad assetto variabile le cui geometrie gradualmente falsano la pluridimensionalità, tramutandola in una sola dimensione: il materiale stesso di cui sono fatte – il cemento – diventa espressione di questa plasticità. I pannelli di circa 2-3m x 3m sono realizzati in cemento TX Active®, prodotto fotocatalitico autopulente e disinquinante, già utilizzato da Meier per la chiesa Dives in Misericordia di Roma. Alla ricercata qualità del materiale si è aggiunta la tecnologia

dell’azienda Styl-Comp che ha prodotto un manufatto in calcestruzzo mediante l’impiego di casseforme in fibra di vetro per una finitura liscia e uniforme. I pannelli sono disposti in sequenza – da piani a ritorti e poi ancora piani – su un basamento rialzato, creando un percorso di una decina di metri. Lungo la parete alle spalle dei pannelli in TX Active® sono disposte una serie di pareti in cemento “trasparente” i.light® sostenute da una struttura in acciaio. Il visitatore può muoversi nel corridoio adiacente l’installazione e avere una visione della sequenza dei Mutated Panels attraverso i pannelli in cemento trasparente il cui effetto visivo è ulteriormente potenziato dalla presenza di una copertura opaca sovrastante. In base agli spostamenti dell’osservatore, l’opera suscita differenti percezioni spazio-temporali, volumetriche e planari. Inizialmente, l’opera è colta come un inerte quadrato di cemento bianco, poi come un volume formato dal quadrato e da una parete trasparente in cemento, successivamente come una sequenza distorta di bordi di pannelli disposti dietro al quadrato, e infine come uno spazio lineare animato dall’interazione dei pannelli che si intrecciano con la luce naturale da un lato e con la delicatezza della parete trasparente dall’altro.

Saverio Lombardi Vallauri

News

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Nel segno dell’Architettura In The Name Of Architecture


In central Milan, Filarete’s Renaissance courtyards in the Ca’ Granda, the old city hospital that now houses the University of Milan, are the location for ten spectacular installations—micro-architectures and macro-objects—created by major international designers of the caliber of Mario Botta, Michele De Lucchi, Gwenael Nicolas, Zaha Hadid, Richard Meier, Ingo Maurer, Snøhetta, Anders Warming, Jacopo Foggini, Giulio Iacchetti, with contributions from companies actively engaged in architecture and design research projects. Mutated Panels is an installation designed by the American architect Richard Meier with the new eco-compatible products developed by Italcementi researchers. At first sight a gigantic origami, Mutated Panels is a series of walls arranged at various angles, whose geometries gradually transform the installation’s pluri-dimensionality into a single dimension: the actual material from which the walls are made—cement—expresses this plasticity. The panels, measuring approximately 2-3m x 3m, are in TX Active® cement, a self-cleaning anti-pollution photocatalytic product, previously used by Meier for the Dives in Misericordia church in Rome.

The exceptional quality of the material is combined with the technology of the Styl-Comp company, which used fiberglass formwork to produce concrete objects with a flawlessly smooth finish. Placed on a raised plinth in a sequence from flat to torqued to flat, the TX Active® panels form a ten-meter long structure. Behind them is a series of walls in i.light® “transparent” cement mounted on a steel frame. The visitor can move down the corridor next to the installation and observe the Mutated Panels sequence through the transparent cement panels, whose visual impact is heightened by the presence overhead of an opaque roof. The space-time, volumetric and planar perceptions of the work change, depending on the observer’s position. Initially, the installation is perceived as an inert square block of white cement, then as a volume consisting of the square and a transparent cement wall, then as a distorted sequence of edges of panels arranged behind the square, and finally as a linear space enlivened by the interaction of the panels, which interplay with natural light on one side and with the delicate transparent wall on the other.

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Saverio Lombardi Vallauri

perspectives are re-arranged in an interdisciplinary hybridization experiment involving architecture, art, music, fashion and food. The project theme architects and designers examined for the 2011 exhibition was the concept of mutation: MutantArchitecture&Design, creating something new by transforming something that already exists. Objects and intelligent buildings, conceived and produced by re-cycling existing materials or using them in different ways, re-thinking and renewing them to become something else, giving them new forms and new dimensions.

Saverio Lombardi Vallauri

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fter 50 editions, the Milan Furniture Show “Salone del Mobile” is no longer simply a date with the international furniture and furnishings market, but a reflection on the world of design and innovation. The institutional trade fair is held in parallel with the FuoriSalone event-exhibition: an initiative created in 1990 through the Interni interior design magazine, FuoriSalone has provided design with a spectacular urban dimension, transforming Milan into a showcase of installations, objects and experimental furnishings. It incorporates the design project into the city fabric, whose spaces and


Installazione PENSANDO L’AQUILA Progetto di Michele De Lucchi PENSANDO L’AQUILA installation Project by Michele De Lucchi

Saverio Lombardi Vallauri

Andrés Otero

Saverio Lombardi Vallauri Andrés Otero

Installazione SUSPENDED COLORS Progetto di Gwenael Nicolas

SUSPENDED COLORS installation Project by Gwenael Nicolas

Installazione TWIRL Progetto di Zaha Hadid Architects

TWIRL installation Project by Zaha Hadid Architects

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Installazione STANZA Progetto di Mario Botta STANZA installation Project by Mario Botta

Installazione MUTATED PANELS Progetto di Richard Meier Architects MUTATED PANELS installation Project by Richard Meier Architects


Installazione ZERO Progetto di Snøhetta ZERO installation Project by Snøhetta Installazione MINI SINTESI Progetto di Anders Warming MINI SINTESI installation Project by Anders Warming

PLASTEROID installation Project by Jacopo Foggini

Saverio Lombardi Vallauri

Installazione SCRIBA Progetto di Giulio Iacchetti

SCRIBA installation Project by Giulio Iacchetti

Saverio Lombardi Vallauri

Installazione PLASTEROID Progetto di Jacopo Foggini

Saverio Lombardi Vallauri

Saverio Lombardi Vallauri

Saverio Lombardi Vallauri

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Installazione ABLAZE – SENTIMENTO (S)TRAVOLGENTE Progetto di Ingo Maurer ABLAZE – SENTIMENTO (S)TRAVOLGENTE installation Project by Ingo Maurer


La sfida continua No Limits Challenge

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uella con Richard Meier & Partners è una sinergia che nasce alla fine degli anni Novanta con la realizzazione della chiesa Dives in Misericordia di Roma, e continua fino al progetto i.lab, il nuovo Centro Ricerca e Innovazione del Gruppo Italcementi che racchiude in sé il meglio delle tecnologie di costruzione “green”. L’edificio, collocato nell’area del parco scientifico tecnologico Kilometro Rosso di Bergamo, ha una superficie complessiva di 23.000 metri quadrati di cui 7.500 adibiti alla ricerca. i.lab risponde ai requisiti più stringenti in materia di risparmio energetico e qualità innovativa della progettazione. Nel maggio 2010 la Commissione europea ha assegnato a i.lab il premio European GreenBuilding Award quale migliore realizzazione in Italia per l’efficienza energetica nella categoria “Best New Building”. L’edificio è progettato e realizzato nel rispetto del LEED – Leadership in Energy and Environmental Design – la più importante e rigorosa certificazione al mondo in materia energetica e ambientale. L’ultimazione dei lavori è prevista per la fine del 2011. Come ha sottolineato Richard Meier, “i.lab rappresenta l’impegno di Italcementi per la sostenibilità e l’innovazione nei materiali. Un edificio autopulente in cemento bianco fotocatalitico, punto di riferimento per una generazione futura di architetture capaci di

Alcuni momenti della visita al cantiere. Sopra, da sinistra, Richard Meier in compagnia di Giampiero e Carlo Pesenti, rispettivamente presidente e consigliere delegato di Italcementi. Sotto, Richard Meier mentre firma una parete di i.lab a ricordo della giornata. The visit to the building site. Above, from left, Richard Meier with Giampiero and Carlo Pesenti, Italcementi Chairman and CEO respectively. Below, Richard Meier signs an i.lab wall to record his visit.

integrare performance ambientali e duratura bellezza”. Per il rivestimento esterno della struttura è stato utilizzato, infatti, TX Active®, il cemento fotocatalitico “mangia smog” di Italcementi che riduce gli inquinanti presenti nell’aria, mentre alcune pareti sono realizzate con i.light®, il cemento “trasparente” ideato dai laboratori Italcementi e utilizzato per la prima volta nel Padiglione Italiano all’Expo 2010 di Shanghai. L’impiego di pannelli solari termici, pannelli fotovoltaici per la produzione di energia pulita e un sistema di climatizzazione geotermico garantirà un risparmio energetico del 60% in più, rispetto a un edificio di pari dimensioni e destinazione d’uso.


SCHEDA PROGETTO IL PROGETTISTA Richard Meier Richard Meier è uno dei grandi maestri dell’architettura contemporanea. Tra i suoi progetti più importanti figurano l’High Museum di Atlanta (1983), il Museo di Arte Contemporanea di Barcellona (1997), il Getty Center di Los Angeles (1997) e la chiesa Dives in Misericordia di Roma, di cui Italcementi è stato il partner tecnico. “Il nuovo Centro Ricerca di Italcementi – ha affermato Meier – costituirà non solo un edificio-icona a conferma dell’autorevolezza del Gruppo in campo tecnico, ma anche un benchmark del design sostenibile in Europa”. I MATERIALI INNOVATIVI Cemento fotocatalitico TX Active® Il rivestimento di i.lab è in TX Active®, il cemento fotocatalitico “mangia-smog” già utilizzato da Richard Meier per la chiesa Dives in Misericordia di Roma. Nel nuovo i.lab gli elementi strutturali in calcestruzzo bianco (pilastri e gusci di copertura) hanno richiesto lo sviluppo di un calcestruzzo bianco ad alta resistenza, fibrorinforzato e in grado di rispondere ai requisiti di resistenza statica, durabilità e inalterabilità nel tempo. Il cemento a base TX Active® soddisfa queste esigenze strutturali ed estetiche alle quali affianca l’azione fotocatalitica antismog attivata dai raggi solari. L’impiego di TX Active®, a livello LEED (Leadership in Energy and Environmental Design), aggiunge al progetto un punto nella categoria “Innovazione nella Progettazione”. Cemento “trasparente” i.light® Alcune pareti di i.lab sono realizzate con i.light®, il nuovo cemento “trasparente”, ideato dai laboratori Italcementi e utilizzato per la prima volta nel Padiglione Italiano all’Expo 2010 di Shanghai. i.light® consente alla luce di filtrare attraverso le pareti grazie a un’innovativa formulazione di cemento e additivi. La fluidità del materiale lega al pannello di calcestruzzo una matrice di resine plastiche con prestazioni di trasparenza superiori alle fibre ottiche (utilizzate finora sperimentalmente in questo campo) e costi economici più convenienti per un’applicazione su larga scala. Calcestruzzi innovativi I moduli utilizzati per la realizzazione di i.lab sono in parte prefabbricati e in parte gettati in opera con l’impiego di calcestruzzi autocompattanti bianchi e grigi con elevata fluidità. Le strutture dei laboratori, di maggior pregio, sono state realizzate con calcestruzzo grigio gettato in opera. I pilastri tondi, con diametri di 650 e 800 millimetri, sono stati gettati con casseri metallici opportunamente schiumati alla base d’appoggio per evitare dispersione del materiale. Tutti i calcestruzzi utilizzati sono stati messi a punto nei laboratori Italcementi e ne sono state testate le innovative proprietà di alta resistenza. Materiali alternativi Nella costruzione di i.lab sono stati utilizzati materiali alternativi, come da certificazione LEED (impiego di prodotti riciclati e/o prodotti localmente). Per la realizzazione dei massetti, delle fondazioni e dei muri perimetrali sono stati impiegati calcestruzzi con inerti riciclati, provenienti da demolizioni o scorie d’alto forno, recuperati a una distanza non superiore a 800 chilometri dal cantiere. Per le altre parti dell’edificio sono stati utilizzati cementi con loppa da riciclo, oltre ad altri materiali provenienti al 100% da scarti di lavorazione industriale. IMPIANTO GEOTERMICO i.lab è dotato di un impianto geotermico che assicura caldo d’inverno e fresco d’estate. Per l’edificio sono stati predisposti 51 pozzi, che scendono nel terreno fino a una profondità di 100 metri dal livello stradale per garantire lo scambio termico con il sottosuolo. L’impianto geotermico è articolato su 3 anelli con 3 pompe di calore e contribuisce al riscaldamento d’inverno e al rinfrescamento nei mesi caldi, con un risparmio energetico fino al 50% nel primo caso e fino al 25% nel secondo, e minori emissioni di CO2 in atmosfera. LE CERTIFICAZIONI AMBIENTALI E I RICONOSCIMENTI LEED Leadership in Energy and Environmental Design Obiettivo di i.lab è ottenere la certificazione LEED, il sistema di valutazione di sostenibilità ambientale per l’edilizia più autorevole e diffuso al mondo. Il protocollo indica i requisiti per progettare, costruire e gestire gli edifici in maniera funzionale ed ecocompatibile. Il punteggio finale è attribuito sulla base di prerequisiti e “crediti” come: sostenibilità del sito; qualità ambientale interna; innovazione nella progettazione; gestione di acque; energia; materiali e risorse; priorità regionale. i.lab concorre per la certificazione “Platino”, il più alto standard della certificazione LEED. I riconoscimenti di i.lab Il Centro Ricerca e Innovazione Italcementi ha già ottenuto importanti riconoscimenti a livello internazionale. Nel 2009 è stato premiato con il Green Good Design Award dal Chicago Athenæum e dall’European Center for Architecture Art Design and Urban Studies. Nel maggio 2010 la Commissione europea ha assegnato a i.lab il premio European GreenBuilding Award, quale miglior edificio in Italia per l’efficienza energetica nella categoria “Best New Building”. LA LOCATION i.lab al Kilometro Rosso i.lab sorge nell’area del Kilometro Rosso, parco scientifico tecnologico alle porte di Bergamo che accoglie centri di ricerca, laboratori di aziende high-tech e istituzioni scientifiche: circa 3.000 addetti in un campus ispirato alla multisettorialità e alla interdisciplinarietà, a supporto dell’innovazione e della ricerca tecnologica. i.lab ospiterà ingegneri, tecnici e ricercatori impegnati nello studio e sviluppo di innovazione tecnologica, funzionale ed estetica dei nuovi materiali per le costruzioni.

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PROJECT KEY DATA

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THE ARCHITECT Richard Meier Richard Meier is one of the great masters of contemporary architecture. Among his best-known projects are the High Museum in Atlanta (1983), the Museum of Contemporary Art in Barcelona (1997), the Getty Center in Los Angeles (1997) and the Dives in Misericordia church in Rome, for which Italcementi served as technical partner. “The new Italcementi Research Center will not only be an iconic building expressing the Group’s reputation for technical expertise; it will be a benchmark for sustainable design in Europe,” says Richard Meier. INNOVATIVE MATERIALS TX Active® photocatalytic cement The i.lab building is covered with cement containing TX Active®, the photocatalytic “smog-eating” active principle that has already been used by architect Richard Meier on the Dives in Misericordia church project in Rome. i.lab’s structural elements made of white concrete—columns and roofing shells—required development of a high-strength white concrete capable of complying with stringent technical, durability and unalterability specifications. The TX Active®-based cement has proven capable of meeting all such structural and aesthetic requirements in addition to eliminating pollution with its photocatalytic action. Using TX Active® on a project contributes one credit in LEED’s (Leadership in Energy and Environmental Design) “Innovation in Design” category. i.light® “transparent” cement Some walls in the i.lab building are made of i.light®, the new “transparent” cement developed by Italcementi laboratories and used for the first time on the Italian Pavilion at Expo 2010 in Shanghai. i.light® lets light filter through the walls thanks to an innovative cement-admixtures mix design. The excellent flow properties of the mix allow plastic resin matrix to bond into the concrete panel. Plastic resins guarantee higher transparency performance than fiber optics (experimentally used in this field so far) with the extra benefit of costing less, thus permitting larger-scale applications. Innovative concretes i.lab is built out of both prefabricated and cast-in-place high fluidity white and gray concrete. The most valuable structures—those of the laboratories—have been built with high performance cast-in-place gray concrete. The round columns, with diameters of 650 and 800 millimeters, have been poured into metal frame formwork, adequately foamed at the base, to prevent material from spilling. All types of concrete used in the project feature innovative high strength properties and have been developed and tested in Italcementi’s laboratories. Alternative materials Alternative materials have been used to build i.lab as specified under the LEED certification system, which envisages the development of an efficient plan for the usage of products coming from recycled materials and/or produced locally. Concrete containing recycled aggregates from construction & demolition or blast furnace slag, recovered within 800 km of the project site, was used to build the floor screeds, the foundations and the outer walls. Other portions of the building were constructed with recycled slag-containing cement as well as other materials obtained entirely from industrial process waste. THE GEOTHERMAL ENERGY SYSTEM i.lab is equipped with a geothermal energy system ensuring effective winter warming and summer cooling for the building. Fifty-one wells serving the building were dug as far down as 100 m from road level to guarantee thermal exchange with the subsoil. The system consists of three loops and three heat pumps and contributes to winter heating and summer cooling, with energy savings of up to 50% and 25% respectively, thus reducing overall CO2 emissions into the atmosphere. ENVIRONMENTAL CERTIFICATIONS AND AWARDS LEED Leadership in Energy and Environmental Design i.lab is designed and built to conform to LEED standards, the most authoritative and widely used rating system for assessing the environmental sustainability of buildings. The system specifies the requirements for designing, constructing and managing buildings in an optimal and eco-compatible manner. The final rating is assigned based on a definite set of pre-requisites and “credits” such as sustainable site; indoor environmental quality; innovation in design; water, energy, materials and resource management; regional priority. i.lab aims to achieve LEED Platinum certification, the highest rating available. i.lab: an award-winning center The Italcementi’s Research and Innovation Center has already earned important international recognition. In 2009, it was honored with the Green Good Design Award from the Chicago Athenaeum and the European Center for Architecture Art Design and Urban Studies. In May 2010, the European Commission awarded i.lab the European GreenBuilding Award as the best new building in Italy for energy efficiency in the “Best New Building” category. THE LOCATION i.lab at Kilometro Rosso i.lab is currently under construction near the Kilometro Rosso science and technology park on the outskirts of Bergamo. The Park site already hosts renowned research centers and the laboratories of prominent high-tech enterprises and scientific institutes. Around 3,000 people will play an active role in this place of aggregation, fulfilling its mission of fostering cooperative projects and synergies in support of research and technological innovation. i.lab will host engineers, technicians and researchers developing technological, functional and stylistic innovations for new construction materials.

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talcementi’s cooperation with Richard Meier & Partners began at the end of the 1990s with the construction of the Dives in Misericordia church in Rome, and has continued through to the i.lab project, the Italcementi Group’s new Research and Innovation Center incorporating the best of green construction technologies. Located near Bergamo’s Kilometro Rosso science and technology park, the center has a 23,000 m2 surface area, including 7,500 m2 of research labs. i.lab is compliant with the top standards in energy saving and innovative design quality. In May 2010 the European Commission named i.lab winner of the European GreenBuilding Award as the most energy efficient construction in Italy in the “Best New Building” category. The design and construction is based on LEED guidelines—Leadership in Energy and Environmental Design—the world’s most important and exacting energy and environmental certification. i.lab is scheduled for completion at the end of 2011. As Richard Meier observes, “i.lab embodies Italcementi’s commitment to sustainability and innovation in materials. A self-cleaning building in photocatalytic white cement, a benchmark for a future generation of buildings that combine environmental performance with lasting beauty.” Externally, the building has been rendered in TX Active®, the Italcementi photocatalytic “smog-eating” cement that reduces atmospheric pollutants, while some of the walls have been built with i.light®, the “transparent” cement developed by Italcementi laboratories and used for the first time for the Italian Pavilion at Expo 2010 in Shanghai. The use of thermal solar panels, photovoltaic panels for the production of clean energy and a geothermal air-conditioning system will ensure energy savings of 60% compared to a building of the same dimensions and type of usage.



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Periodico semestrale anno XI n° 25 - Poste Italiane Spa - Spedizione in Abbonamento Postale - 70% - DCB Bergamo

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Projects Architetture fatte di affinità e contrasti, di luci e colori, di cultura e storia millenarie: il genius loci del Mediterraneo Architecture composed of similarities and contrasts, color and light, ancient culture and history: the genius loci of the Mediterranean

News Italcementi e Richard Meier: l’innovazione per l’architettura e il design Italcementi and Richard Meier: innovation in architecture and design


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