ArchitettiVerona 143

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EDITORE

Ordine degli Architetti Pianificatori

Paesaggisti e Conservatori

della provincia di Verona

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CONTRIBUTI A QUESTO NUMERO

Nicola Brunelli, Alfonso Cariolato, Claudia Cavallo, Luciano Cenna, Michele De Mori, Leandro Esposito, Fabrizio Fobert, Alberto Ghezzi y Alvarez, Luca Ghirardo, Giorgia Negri, Giacomo Mormino, Filippo Romano, Luca Sironi

Rivista trimestrale di architettura e cultura del progetto fondata nel 1959

Terza edizione • anno XXXIII • n. 4

Ottobre/Dicembre 2025

Registrazione Tribunale di Verona n. 1056 del 15/06/1992

Direttore responsabile: Amedeo Margotto ISSN 2239-6365

SI RINGRAZIANO

Ketty Bertolaso, Federica Provoli, Giulio Saturni

Gli articoli e le note firmate esprimono l’opinione degli autori, e non impegnano l’editore e la redazione del periodico. La rivista è aperta a quanti, architetti e non, intendano offrire la loro collaborazione. La riproduzione di testi e immagini è consentita citando la fonte.

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In copertina e a lato:

Edoardo Gellner in Lessinia, particolari. Fondo Edoardo Gellner, Archivio Progetti IUAV, Venezia. Elaborazione: Happycentro.

CITTÀ STORICA E

Celebrare con orgoglio e compiacimento i venticinque anni dall’iscrizione di Verona nella lista del Patrimonio Mondiale unesco offre l’occasione di riflettere sul significato di tale riconoscimento, con la giusta distanza critica che il quarto di secolo ha posto sull’exploit ottenuto nell’anno Duemila.

Quali mutamenti riconosciamo da allora nella struttura urbana e nell’architettura del centro cittadino, oggetto assieme al sistema fortificato del riconoscimento?

È riuscita la città a esprimere una propria dimensione contemporanea nel lasso di tempo di una generazione nativa unesco, o ne sono derivati conflitti e contraddizioni?

Il primo conflitto che sembra emergere è quello tra percezione e attribuzione: pare davvero invisibile il filo sottile che, in mappa, segna l’area “patrimonializzata” e la sua cosiddetta buffer zone: non se ne riconosce l’identità, non si colgono le differenze tra il dentro e il fuori, né vi corrispondono specifiche norme di tipo urbanistico-edilizio come potrebbe essere, ad esempio, una ipotetica zona AAA*, prendendo a prestito il silbolo di eccellenza di un elettrodomestico super risparmioso. Che nel caso sarebbe sicuramente un frigidaire, perché all’affermazione del nobile status sembra sia corrisposto un congelamento della forma urbana.

L’unesco come ipòstasi della città, dunque?

Sembrerà bizzarro questo riferimento all’umile elettrodomestico, ma il frigidaire ha avuto un momento di gloria all’interno di una nota polemica che ha alimentato il dibattito architettonico del dopoguerra, tra l’affermazione dei valori dell’architettura moderna da una parte e, dall’altra, la critica al formalismo modernista e il contestuale ritorno a un consapevole storicismo ben temperato: con il critico inglese Reyner Banham sul versante del progresso – da portare avanti nelle città così come nelle cucine, con la rivoluzione causata dall’avvento degli elettrodomestici – e con Ernesto Nathan Rogers sul fronte opposto, che dalle pagine della sua «Casabella» si scagliava contro il “custode dei frigidarie”.

Acqua passata, si dirà: oggi i termini del discorso sono decisamente rovesciati, anzi antitetici: se osserviamo Verona nel suo centro monumentale, infatti, la dialettica tra antico e moderno – tra vecchio e nuovo – pare davvero freezata, e la possibilità di una espressione autenticamente moderna o meglio contemporanea risulta liquefatta se non del tutto evaporata. Viviamo di fatto una contraddizione molto potente: tutti, nessuno escluso, siamo aggiornatissimi e alla ricerca continua degli ultimi ritrovati della tecnologia, contando sui più avanzati mezzi di trasporto e di comunicazione. Gli edifici, anche quelli storici, sono innervati da impianti e dotazioni all’avanguardia, cablati e pan-

CITTÀ CONTEMPORANEA:

Testo: Alberto Vignolo

nellati. Solo l’innovazione architettonica pare assente, salvo esprimersi appieno nella dimensione degli interni. L’immagine della città è bloccata: un bene, un male, una conquista, una rinuncia?

Se proviamo a pensare a quali nuove architetture significative siano state realizzate negli ultimi venticinque anni all’interno del perimetro unesco, rimaniamo interdetti; e ciò che rende la città ancora attrattiva e originale nel dialogo tra storia e modernità, deriva da un passato più remoto di cui continuiamo a gloriarci (le opere di Scarpa, gli innesti cecchiniani o al massimo l’exploit di Carmassi per gli edifici universitari). E poi?

Eppure quella stessa città che appare sempre uguale a se stessa è mutata radicalmente nei modi d’uso e nelle dinamiche che la attraversano. Il conflitto quotidiano da tempo sotto gli occhi di tutti vede contrapporsi cittadini e turisti, abitare e trascorrere il tempo libero. Per le strade e sui marciapiedi, data per assodata (o quasi) la pedonalizzazione del centro – che pure è l’esito di una faticosa conquista – il rumore di fondo è quello delle rotelle dei trolley; anche l’accessibilità da tema di inclusione sociale diventa un fatto di comfort e ancora una volta di attrazione dei visitatori.

La deriva da successo del sovraturismo ha reso tutto – monumenti, architetture, beni storici e artistici, paesaggi urbani e anche quelli naturali – oramai null’altro

Il contributo al convegno del 24 novembre 2025 in occasione dei venticinque anni del sito UNESCO per Verona

che oggetto di rapido consumo visuale, e poco più: il tempo di un click. I viaggiatori internazionali raccoglieranno sui loro frigidaire le calamite dei “Top unesco World Heritage sites”. Per Verona, le guide online garantiscono che “un giorno è più che sufficiente per scoprire la città”, visitando “l’Arena di Verona, il Museo di Castelvecchio, la Torre dei Lamberti e la Casa di Giulietta” (sic). Non dunque “l’eccezionale concetto della città fortificata” citato nella declaratoria unesco: forse le mura non paiono abbastanza iconiche? Un bastione vale l’altro, in qualunque città?

Dei centri storici e delle loro criticità si parlò a lungo non venticinque, ma una cinquantina di anni fa. Allora il dibattito verteva sui temi del degrado urbano, sia materiale e sociale, motivo dell’abbandono dei centri e della loro perdita di senso. Anche l’Ordine degli Architetti di Verona promosse un importante convegno sulla “Attualità dei centri storici” (Verona, 2-3 aprile 1977, i cui atti sono pubblicati sul n. 1/2 di «Architetti Verona» seconda serie). Curioso osservare gli slittamenti di senso dei temi allora in discussione: dalla sottoutilizzazione del patrimonio edilizio degradato con il conseguente abbandono del centro, siamo passati a un recupero completo in chiave prettamente turistica, che diventa però causa di un nuovo ciclo di abbandono da parte dei residenti; dalla disintegrazione sociale negli abitanti alla

CONFLITTI

loro sostituzione con gli utilizzatori (finali o meno che siano) della città. Occorre dunque pensare, oggi, a come ri-attualizzare il centro, in virtù del suo status di patrimonio mondiale. Non si tratta certo di una condizione unica per Verona, che anzi si trova in ottima compagnia, e pare utile guardare agli esempi e alle pratiche di città come Ferrara o Siracusa, Siena o Mantova, per non parlare delle quattro big, Firenze e Napoli, Roma e Venezia: città diventate pezzi da collezione di un brand globale (McUnesco), sicura garanzia di valori standard e gusti facilmente riconoscibili. Un rischio che stiamo che stiamo decisamente correndo. Forse, allora, bisognerebbe provare ad aprire con coraggio la porta del frigidaire, e lasciare che ben meditate espressioni della contemporaneità possano trovare spazio anche nei nostri centri monumentali, dando continuità a quella stratificazione “progressiva e ininterrotta” che non può dirsi terminata all’anno Duemila, per far sì che il patrimonio (mondiale e o meno che sia) viva fuori da una dimensione puramente spettacolare ma cristallizzata. •

ODEON

Scorribande multidisciplinari tra storia dell’architettura e museografia, tra urbanistica e progettazione urbana, assieme a un’escursione fuori porta e a un doveroso ricordo.

Il perimetro della memoria urbana

Testo: Alberto Ghezzi y Alvarez, Leandro Esposito

A proposito del Museo Lapidario Maffeiano di Verona e dello storico allestimento di Arrigo Rudi risalente al 1982.

Un percorso di ricerca che coinvolge l’opera di Arrigo Rudi1 è l’occasione per riscoprire una prassi progettuale tesa all’equilibrio sintattico tra forma urbana, cultura espositiva e tradizione. Nel Museo Lapidario Maffeiano di Verona questi elementi trovano una sintesi paradigmatica. Il progetto d’architettura agisce come medium tra archeologie e fatti urbani, costruendo, attraverso il pretesto espositivo, un dialogo rinnovato con la città.

Le tematiche che sono emerse attraverso la ricerca d’archivio hanno posto in risalto gli interventi che riguardano i dispositivi di ingresso e lo spazio della corte. Le rappresentazioni, infine, interpretano l’azione progettuale di Rudi nel riscrivere l’eredità di Maffei.

La Verona Illustrata di Arrigo Rudi

Il progetto di Arrigo Rudi per il Museo Lapidario Maffeiano si inserisce in un operare attento alla dimensione urbana. Laddove esiste un pensiero per lo spazio museale, emerge anche una riflessione sul rapporto con la città, intesa come civitas, ovvero comunità dei cittadini.

Il tentativo di Rudi di «restituire, per quanto possibile, la sensazione del significato del recinto ideato dal Maffei» è la cifra specifica di questo interesse verso un restauro critico dell’opera, che tenta, attraverso il progetto, di ritrovare un racconto nella complessa narrazione polisemica del palinsesto urbano veronese. Un approccio che si colloca nella tradizione scarpiana del recupero della dimensione presente del racconto urbano, in contrasto con l’accettazione di ogni fase storica come ugualmente significativa propria del restauro conservativo.

Nel Museo Lapidario, l’esprit de géométrie della città illuminista è riportato con i linguaggi della modernità, consapevoli di poter solo alludere a un ordine perduto.

La scelta di riallacciare l’intervento al disegno originario di Alessandro Pompei denota la volontà di recuperare il museo aperto alla città, nella sua essenza più profonda,

senza negare le trasformazioni otto-novecentesche del complesso Maffeiano-Teatro Filarmonico.

Al posto di un rifiuto di queste ultime, si sceglie attivamente di evidenziarne le contraddizioni, non da ultima l’eccessiva introspezione nei confronti di Piazza Bra, carattere diametralmente opposto rispetto al disegno settecentesco.

In fondo, il Museo immaginato da Maffei si inserisce nella narrazione veronese dell’idea di costruzione di un sistema di edifici civici intorno al nodo dell’antico anfiteatro, culminato negli anni Venti dell’Ottocento con la proposta di Gaetano Pinali.

Significativo appare che lo stesso Rudi, in un disegno recuperato presso l’Archivio Progetti IUAV, ridisegni gli attacchi a terra delle emergenze monumentali di piazza Bra con lo stesso inquadramento effettuato da Pinali nel suo progetto per il teatro diurno. Allo stesso modo, nelle tavole di elaborati destinate al Comune di Verona, egli

“Un approccio che si colloca nella tradizione scarpiana del recupero della dimensione presente del racconto urbano”

riporta l’aspetto del museo nel cartiglio direttamente dalle incisioni di Francesco Zucchi (1750): un chiaro segnale della volontà di recuperare l’edificio non nel suo senso formale neoclassico, ma nella sua dimensione urbana e antimonumentale. In questo senso va letto anche il passaggio previsto verso la Torre Pentagona, che ristabilisce il rapporto perduto tra il cortile e la presenza plastica dell’Arena, della Gran Guardia e di Palazzo Barbieri.

Come è stato già evidenziato, l’operare di Arrigo Rudi è anche la sintesi dialettica tra i suoi maestri; da un lato la dimensione compositiva del Lieber Meister Scarpa, dall’altro l’attenzione ad una dimensione politica della cultura, cara a Licisco Magagna-

to. All’ombra di quest’ultimo, il Maffeiano di Rudi agisce nella ipotizzata direttrice dei musei veronesi, che seguendo l’antico tracciato delle Mura comunali culmina con l’intervento scarpiano a Castelvecchio (e sarebbe dovuto proseguire, con gli esiti noti, nell’Arsenale Austriaco).

La dimensione urbana dell’intervento di Rudi pone, con la sua colta reminiscenza, la questione ancora attuale del rapporto che uno dei primi musei pubblici d’Europa dovrebbe avere con il suo contesto: da atrio di epigrafi, sinfonia d’apertura per l’ingresso al Teatro Filarmonico attraverso il pronao di Curtoni, a nascosto gioiello turistico inglobato dalle masse di fine ottocento, fino alla domanda posta dai lapidari segni del progetto di Rudi, che sembrano porre la domanda: può questa corte appartenere ancora alla città? (Alberto Ghezzi y Alvarez)

01. Inquadramento del sistema urbano comprendente CastelvecchioTeatro FilarmonicoMuseo Lapidario Mafferiano-Anfiteatro Arena-Gran GuardiaPalazzo BarbieriMura di Gallieno. 02. Ridisegno del portico nord del cortile del Maffeiano con gli impaginati delle iscrizioni lapidee su supporti in ferro.

1 Fare ricerca - 2025. Il testo architettonico di Arrigo Rudi per il Museo Lapidario Maffeiano (1976-1982) a cura di: Leandro Esposito e Alberto Ghezzi y Alvarez (dottorandi in Composizione Architettonica presso l’Università Iuav di Venezia) elaborazioni grafiche: Anna Faccin e Matilde Castagnotto (laureande in architettura, corso magistrale Iuav)

Riferimenti bibliografici

Marini P. et al.,Il Museo Maffeiano riaperto al pubblico, Comune di Verona, Direzione ai musei, 1982

Nuvolari, F., & Pavan, V. Archeologia, museo, architettura, Arsenale, 1987

Pastor V. et al., Arrigo Rudi. Architettura, restauro e allestimento, Marsilio, 2011

Tommasini N., Rudi reperti lapidei, in «ArchitettiVerona» 94, 2013, pp. 54-61

La composizione di un ordine sovrapposto

Percorrendo lo spazio aperto del Museo Lapidario Maffeiano di Verona, dominato dal pronao del Teatro Filarmonico di Domenico Curtoni (1604), è possibile avvertire nell’atmosfera alcune discordanze, come delle frizioni che tradiscono un ordine precedentemente imposto. Tale esperienza cinestetica è riassumibile con un concetto, che Robert Venturi descrive all’interno del suo celebre testo Complessità e Contraddizioni in Architettura (1966), la Super adjacency (Sovradiacenza).

Lo sguardo dell’osservatore, in costante esercizio di controllo dello spazio, trova delle distrazioni che animano una rinnovata curiosità verso i dispositivi che lo popolano. Si tratta di elementi che “agitano” l’ambiente, non solo

reperti archeologici, ma anche percorsi, divisori e sistemi di supporto. Un insieme di oggetti misurati al contesto, tuttavia posti in contraddizione con il recinto che li raccoglie. Il progetto di Arrigo Rudi, attraverso le operazioni di restauro dello spazio aperto, evidenzia così una precisa volontà: riabilitare l’azione espositiva all’interno di una corte pubblica, storicamente intesa come appartenente alla città, costruendo un dialogo, tanto conflittuale quanto pacifico, con il passato.

Impiegando gli strumenti propri della ricerca in composizione architettonica, è possibile individuare tre principali interventi nello spazio aperto, a cui associare tre declinazioni teoriche: – le gallerie a cielo aperto: corridoi espositivi raccolti tra coppie di murature, definite da Rudi come paratie, le quali contraddico-

no il rapporto formale con l’esedra del cortile progettato da Ettore Fagiuoli (1927), nel tentativo dichiarato di rimandare alla figura quadrata del più antico recinto disegnato da Alessandro Pompei (1749);

– le stanze ipogee: ambienti ricavati dall’innalzamento di quota del cortile, che anticipano il nuovo giardino, stabilendo un rinnovato rapporto con il pronao del Teatro Filarmonico;

– gli espositori nel porticato: un sistema di supporti metallici per le epigrafi che produce segni e matrici indifferenti alle cornici prodotte dalle colonne e dalla trabeazione del portico, in una sorta di negazione del profilo del recinto.

A questi si aggiunge un principio di carattere distributivo/espositivo, all’interno del quale i dispositivi agiscono sia in senso spaziale che figurativo.

Ad esempio, le coppie di “paratie”, proporzionate alla tipologia di lapidi ad esse agganciate, non sono solo nuove gallerie con esposizione “interna”, ma anche una quinta di chiusura verso l’esedra, che propone il podio del pronao come un punto di osservazione delle lapidi disposte nello spazio aperto.

Gli ambienti ipogei rappresentano una sorta di macchina retorica (R. Barthes, 1979), un connettore tra memorie appartenenti ad epoche diverse. In tal senso, l’esposizione della collezione lapidaria e la traccia archeologica delle mura storiche, che attraversa una delle due sale, sono connesse al pronao attraverso due lucernari che ne inquadrano gli elementi di sommità.

Il risultato complessivo del progetto è una sovrascrittura a cui partecipa il percorso inclinato che dall’ingresso giunge ai piedi del pronao, un cammino critico di ascesa tra le epoche. Una traccia che, denunciando il disassamento, esorta a un nuovo equilibrio tra le parti, al desiderio di connessione con la città, con la storia e con i valori civili di cui questo spazio è tuttora custode. (Leandro Esposito) •

03. Pianta dell’isolato del Teatro Filarmonico entro cui sono collocati gli spazi del Museo Lapidario Maffeiano. 04. Sezione sull’androne di ingresso al Filarmonico: al di sopra, i due livelli degli spazi interni del Museo. 05. Ricostruzione assonometrica degli spazi ipogei ricavati dal progetto Rudi al di sotto dei propilei di accesso.

06. Veduta dal pronao del Teatro verso l’androne d’ingresso durante l’esposizione Axis Mundi (settembreottobre 2025). Foto: Studio Galiotto.

Pietra incisa vs. pietra lavorata: Axis mundi

Testo: Alfonso Cariolato

Foto: Studio Galiotto

Un’inedita corrispondenza tra oggetti epigrafici e sculture contemporanee dalle superfici seriche ha animato il cortile del Museo Maffeiano.

Le opere di Raffaello Galiotto, esposte1 nel cortile di uno dei più antichi musei pubblici d’Europa, il Museo Lapidario Maffeiano, si inseriscono all’interno di un dialogo tra, da una parte, una variegata collezione epigrafica, frammenti sepolcrali, urne cinerarie, basamenti di colonne e pietre miliari riuniti insieme per la conservazione e lo studio con gusto erudito settecentesco in un luogo a

cielo aperto tra i più caratteristici e, dall’altra, l’arte contemporanea. Più che un’operazione antiquaria, si tratta di una feconda interazione tra la massiccia presenza di un passato vivente e un’opera lapidea che si muove tra configurazioni organiche, raffinatezza di proporzioni ed eleganti simmetrie, lasciando emergere nondimeno un aspetto sottilmente scomposto che ne segna la profonda contemporaneità. Il titolo dell’esposizione, Axis mundi, intende sottolineare una volta di più questa relazione. Il cortile del lapidario, infatti, con i quattro spazi erbosi rettangolari tagliati dal percorso pedonale in pietra a forma di croce, appare al visitatore come un luogo di passaggio tra mondi diversi collegati tra loro da un asse che, tra l’altro, unisce il pronao seicentesco alla vita di piazza Bra. Le sculture di Galiotto s’inseriscono in questo piano assiale rimarcandolo, in prima battuta, ma anche svigorendolo a tratti o complicandolo per permettere all’immaginazione del fruitore di avventurar-

“Il cortile del lapidario... appare al visitatore come un luogo di passaggio tra mondi diversi collegati tra loro da un asse che, tra l’altro, unisce il pronao seicentesco alla vita di piazza Bra”

si in nuovi equilibri e corrispondenze. L’asse dell’universo si mostra così potente e precario alla stregua del tempo inquieto che viviamo.

La pietra nelle sue varie forme e figure è tutta in questo spazio. Pietra incisa, pietra latrice di scritture antiche, pietra lavorata, pietra miliare, pietra tombale, pietra di vita e pietra di morte (a tale proposito, scrive Edmond Jabès: “La pietra è pesante per tutta la pazienza della morte in essa contenuta”). Questo ammasso di pietre, dunque, dove la mano dell’uomo arriva sempre e soltanto all’ultimo dopo la formazione, i rivolgimenti geologici in cui sono state coinvolte, le lunghe ere di stasi nelle viscere della

montagna, è inserito in un ordine, in un kosmos, museale ed espositivo come a costituire un “Albero della vita” o un vibrante “Asse del mondo”, dove irrompono le opere di Galiotto.

[...] Da una certa distanza, vagando nel giardino costellato da antiche vestigia greche, etrusche e romane, l’impressione che danno queste opere è quella, che va ancora più in là nel tempo, di una teoria di betili a formare una via sacra o un recinto megalitico, come si possono vedere nel Vicino Oriente, in Sardegna o in Corsica. Ma è solo una suggestione. Il senso dell’esposizione di sculture contemporanee in un luogo così connotato non è quello di alludere a qualche affinità tra presente e passato, per quanto innegabile. Quanto piuttosto di provocare una reciproca espropriazione che falsifichi gli ambiti e contamini le rigide sfere di appartenenza.

L’interesse di questa operazione soprattutto sta nel mostrare come, in questo con-

tatto tra arti e rovine di epoche remote, sia la stessa nozione di contemporaneità a subire una scossa. Può accadere, infatti, che un’opera contemporanea subisca uno scarto dal suo presente fino a scoprirsi straniera rispetto al proprio tempo. Non è questo il solo contemporaneo che non cessa di ossessionarci? •

1 Axis mundi, Opere di Raffaello Galiotto, a cura di Alfonso Cariolato, ha avuto luogo dal 23 settembre al 12 ottobre 2025 nell’ambito del programma di eventi collaterali di ArtVerona, in collaborazione con Marmomac e il Comune di Verona - Musei Civici. Il testo qui pubblicato è un estratto dalla presentazione dell’esposizione. Raffaello Galiotto, designer e artista, muove la sua ricerca attratto dalle peculiarità della materia

01. In primo piano: “Axialis I” e “Axialis II”, 2025, marmo Palissandro, 75 x 72,5 x 10 cm.

02. Al centro dell’immagine: “Virgo”, 2025, marmo Palissandro Reale, 83,5 x 80 x 14,5 cm. 03. “Proto II”, 2022, marmo Palissandro Reale, 118 x 20 x 110 cm. 04. “Opuntia”, 2023,

naturale e artificiale, ricercandone le potenzialità espressive attraverso l’impiego sperimentale della tecnologia. Le sculture lapidee sono realizzate mediante dispositivi a controllo numerico. Alfondo Cariolato, filosofo, ha tradotto e curato vari testi di filosofia contemporanea, tra cui figurano opere di Derrida, Kojève, Nancy, Lacoue-Labarthe, oltre a testi di poesia contemporanea di area francese e canadese.

marmo Verde Saint Denis, 56 x 33 x 73 cm.

Testo: Marzia Guastella

Foto: Fabio Mantovani

Un’opera d’esordio veronese segna la seconda tappa delle giornate di studio dedicate a Michele Sanmicheli.

Quale immagine trascende il tempo per scolpire un ricordo nella memoria?

Benché la memoria storica – con il suo complesso equilibrio tra ricordo e oblio – trovi nel patrimonio culturale un custode autorevole, il potere della memoria non si fonda su una semplice ricostruzione del passato tramite le sue tracce visibili, ma nella piena comprensione del nesso tra narrazione e identità che si rivela nell’intreccio delle relazioni umane. L’interpretazione del pensiero e dell’azione degli individui in un determinato contesto sociale – secondo un continuo fluire e mutare del tempo – accresce la consapevolezza dei processi storici, artistici e progettuali, favorendo i ricordi come immagini della memoria che permangono in un tempo sospeso, estraneo al divenire.

L’idea dell’architettura come materia del ricordo di una dimensione esistenziale sfiorò particolarmente il pensiero della nobildonna Margherita Pellegrini quando – travolta dall’ennesimo turbine di dolore – nel 1528 decise di commissionare all’architetto Michele Sanmicheli il progetto di una cappella dalla “perfectissima et dignissima forma” – così descritta nel testamento del 1534. L’aspetto monumentale e le raffinate decorazioni avrebbero dovuto distinguerla sensibilmente da ogni altra cappella veronese, per imprimere nella memoria – attraverso l’immagine di una grandiosa architettura – il ricordo di una famiglia ormai sul punto di svanire. Un desiderio profondo che scaturisce da una grande sofferenza interiore e si manifesta in un segno architettonico distintivo destinato a diventare un frammento della memoria collettiva del luogo.

Con la sua silenziosa e solenne presenza, la cappella Pellegrini è stata protagonista della seconda giornata di studi dedicata a Michele Sanmicheli MSM*466, svoltasi a Verona lo scorso 27 settembre 2025 presso la sala Morone del convento francescano di San Bernardino1. Sulla scia della prima edizione tenutasi a Porta Palio, i curatori e docenti dell’ateneo fiorentino – Alessandro Brodini e Michelangelo Pivetta – hanno riproposto un’occasione di incontro con diversi studiosi per divulgare il valore di questo importante architetto veronese del Cinquecento privilegiando, ancora una volta, un dialogo – quasi diretto – con una delle opere realizzate.

La cappella Pellegrini rappresenta uno dei primi edifici concepiti da Sanmicheli secondo la sua originale lettura dell’antichità classica e assume un ruolo di rilievo nel panorama dell’architettura veneta, nonostante il livello superiore sia stato fortemente smorzato dalla mano di altri autori, così come ri-

“Margherita Pellegrini nel 1528 decise di commissionare all’architetto Michele Sanmicheli il progetto di una cappella dalla «perfectissima et dignissima forma»”

cordato anche da alcuni relatori della giornata. I vari studi hanno esplorato temi storici e progettuali relativi alla figura di Sanmicheli e alle sue opere, aggiungendo nuovi significati e suscitando riflessioni autentiche con esiti sorprendenti, come quelli scaturiti da MSM*465 nel 2024 (cfr. «AV» 140, pp. 3032) e confluiti nella pubblicazione Michele Sanmicheli architetto costruttore artista2, finanziata dalla Società Mutuo Soccorso Porta Palio. Un lavoro condotto con impegno e dedizione che costituisce il primo volume della nuova collana Quaderni di Architettura Veneta al cui interno, oltre ai saggi dai contenuti multidisciplinari, emerge anche un punto di vista evocativo – e talvolta malinconico

– restituito dalle fotografie di Fabio Mantovani con l’inedito confronto tra le opere reali e i modelli lignei conservati presso i locali della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le provincie di Verona, Rovigo e Vicenza.

E mentre il secondo volume prende forma gradualmente, non resta che proiettare ogni pensiero verso una conoscenza ancora più ampia dell’eredità sanmicheliana, in un appuntamento dal titolo piuttosto enigmatico, ma ormai atteso e riconoscibile. •

01. Interno della cappella Pellegrini nel complesso di San Bernardino a Verona. 02. Veduta esterna della cappella Pellegrini.

1 Alla giornata di studi hanno prerso parte: Paul Davies, David Hemsoll, Silvia Dandria, Gianmario Guidarelli, Riccardo Campagnola, Franco Purini, Francesco Marcorin, Maria Beltramini, Maurizio Gomez Serito, Andrea Adami, Giuliana Mazzi

2 Brodini A., Pivetta M. (a cura di), Michele Sanmicheli architetto costruttore artista, Campisano Editore, Roma 2025 (“Quaderni di Architettura Veneta”, 1)

Oltrelessinia c’è di più

Testo: Elisa Casarotto

Quarta edizione per l’oramai tradizionale appuntamento con l’architettura nell’ambito del Film Festival della Lessinia a Bosco Chiesanuova.

Un numerose pubblico di architetti (e non solo) ha preso parte all’incontro promosso da «ArchitettiVerona» all’interno del Film Festival della Lessinia, giunto quest’anno alla sua 31ª edizione. Il festival, che si tiene annualmente a Bosco Chiesanuova a fine agosto, si conferma un evento che, lungo i suoi dieci giorni di programmazione ricchi di eventi, tavole rotonde, escursioni, laboratori e concerti, non manca di evidenziare lo straordinario valore di queste terre di montagna, come ci ha tenuto a sottolineare anche Alessandro Anderloni, direttore del festival, nei suoi saluti iniziali.

Questo quarto appuntamento ha affrontato un tema dai molteplici significati: il confine, inteso nelle sue accezioni geografiche, antropologiche, culturali, simboliche, religiose. Una questione quanto mai attuale anche in relazione al contesto socio-politico che stiamo vivendo, a livello mondiale, in questo periodo storico. Ma declinando il tema del confine alla sfera architettonica si può dire che la Lessinia per prima si configuri, per molteplici aspetti, come territorio di confine: tra culture, epoche, geografie e linguaggi architettonici.

Un anno fa, negli stessi spazi della Sala Olimpica del Teatro Vittoria – i lettori più fedeli della rivista ricorderanno il suo progetto dello studio Archingegno pubblicato sul numero 83/2009, pp. 30-37 – le conversazioni sul Viaggio in Lessinia erano state interpretate idealmente come un vero e proprio itinerario in cui erano stati presentati una serie di progetti di architetti veronesi. Con l’incontro di quest’anno, si è voluto in un certo senso raccogliere il testimone e proseguire il viaggio, continuando il cammino ma ampliando l’orizzonte, andando appunto “oltre”.

Da qui la prima questione rilevante, come sottolineato da Federica Guerra in apertura dell’incontro: se fino ad ora l’attenzione si è concentrata sulla Lessinia, analizzando e presentando progetti virtuosi all’interno del territorio che potessero fungere da modello per il futuro, in questa edizione si è inteso ampliare lo sguardo, includendo punti di vista provenienti da altre esperienze, da altri luoghi di montagna. Tali contesti, pur essendo caratterizzati da singolarità proprie, risultano termini di paragone per la Lessinia per identità geografie e, soprattutto, per forti analogie di senso.

La giornata ha quindi visto la presenza dell’architetto Dario Castellino, che ha raccontato la sua esperienza attraverso quattro progetti: due borgate, Paraloup e Campofei, e due recuperi di edifici, un essiccatoio e di un convento. Si tratta di progetti differenti, situati in Piemonte in luoghi di confine

“In questa edizione si è inteso ampliare lo sguardo, includendo punti di vista provenienti da esperienze altre, da altri luoghi di montagna”

prossimi alla Liguria, alla Francia e al mare, che hanno subito un pesante abbandono nel dopoguerra, ma che al contempo narrano un’antica antropizzazione finalizzata alla vita e al lavoro in questi territori. Il filo conduttore di questi progetti è la conoscenza e la cura di ciò che il tempo ha lasciato e ha condotto fino a noi, assumendosi la responsabilità come progettista del ruolo di custode del patrimonio architettonico in un’ottica di rispetto dell’esistente senza voler avere necessariamente un ruolo progettuale dominante. A seguire, i due progetti mostrati dallo studio ATOMAA, rappresentato a Bosco Chiesanuova da Filippo Figaroli e Giulia Giavoni, hanno interessato un edificio ubicato nell’alta Ossolana e un secondo, geograficamente vicino, presso il Borgo di Cisore, frazione sulle alture di Domodossola. Entrambi han-

no messo in evidenza la cura e l’attenzione riservate alla preesistenza, intesa come testimonianza del passato e come nuovo spazio di vita per chi lo abita.

Giacomo Lombardo, sindaco del Comune di Ostana (Cuneo), ha poi animatamente presentato attraverso il suo punto di vista di amministratore per oltre trent’anni di un piccolo comune montano che rischiava l’estinzione, la virtuosa esperienza progettuale tuttora in corso che ha portato al recupero architettonico e sociale del borgo, grazie ai progetti condotto da Antonio De Rossi assieme a una numerosa équipe del Politecnico di Torino.

Un’esperienza già in parte storicizzata è invece quella, riportata all’incontro da Claudia Cavallo, di Giancarlo De Carlo per il borgo di Colletta di Castelbianco in Liguria. Realizzato nei primi anni Novanta, il progetto si è configurato come un primo esperimento di recupero di un borgo non destinato al turismo di massa. Nonostante i propositi iniziali siano via via mutati rendendo il borgo, di fatto, abitato e vissuto da qualche residente “stabile”, ma anche e soprattutto da residen-

ti stagionali proprietari di una seconda casa e turisti stranieri, l’esperienza risulta particolarmente significativa in quanto De Carlo ha cercato di cogliere la struttura edilizia nel suo rapporto con l’orografia del terreno ligure, fatto a balze, che diventa matrice delle costruzioni in pietra. Da questa esperienza si può cogliere sicuramente la sua capacità di non far prevalere il proprio linguaggio, ma di interpretare il carattere dei luoghi in cui ci si inserisce e di riattivarlo. •

01. Giancarlo De Carlo. Recupero del borgo di Colletta di Castelbianco (SV), collage. Università IUAV di Venezia, Archivio Progetti, Fondo Giancarlo De Carlo.

02. Dario Castellino durante il suo intervento nell’ambito di Oltrelessinia (28 agosto 2025).

03. Dario Castellino, la scatola nel convento, borgata Maddalena, Prazzo (CN): veduta interna.

1 Nel 2006 veniva presentato dallo Studio Ardielli il Masterplan per il capoluogo e la frazione di Arbizzano; nel 2007 la giunta comunale ne approva le indicazioni progettuali relative al parco sportivo, che diventano parte integrante del documento di variante parziale al PRG, e sono rese vincolanti dal parere regionale per la sua approvazione, che rimanda alla redazione di un piano particolareggiato di iniziativa pubblica. In seguito, nel marzo 2008 l’amministrazione comunale affida sempre allo studio Ardielli l’incarico per la progettazione preliminare e definitiva del primo stralcio del percorso attrezzato lungo il Progno. Con il cambio del mandato amministrativo nel 2009, l’attuazione del masterplan è però sospesa, e anche le proposte per Arbizzano sono archiviate.

Scenari per Negrar

Testo: Federica Guerra

Gli esiti del concorso sulle aree centrali del comune della Valpolicella, da tempo alla ricerca di una nuova identità urbana. Il concorso di idee “Scenari di futuro” che l’amministrazione comunale di Negrar di Valpolicella aveva promosso a dicembre 2024 per la redazione di un “Masterplan delle aree centrali del capoluogo”, si è concluso nel mese di settembre di quest’anno con una cerimonia di premiazione a Villa Mosconi Bertani di Arbizzano, dove sono stati presentati i progetti primo e secondo classificato, oltre alle tavole riassuntive di tutti i sedici partecipanti. Negrar non è nuova all’utilizzo del masterplan, considerando che già nel 2006 si era tentato di mettere mano alla complessa situazione dell’abitato tramite un bando che chiedeva di ripensare

l’impostazione complessiva degli interventi sul centro storico e sulla frazione di Arbizzano1 .

Così, se da un lato incrociamo le dita nella speranza che gli esiti dell’attuale competizione diano frutti più concreti, dall’altro non possiamo che rallegrarci per l’utilizzo dello strumento del concorso di idee che questa volta si presenta in una forma più complessa e forse inconsueta. L’intento dell’amministrazione infatti, come leggiamo nel “Documento di indirizzo” consegnato ai partecipanti, è stato quello di ripensare alle possibili trasformazioni del territorio tramite il riutilizzo di “aree pubbliche e private dismesse o sottoutilizzate”, partendo quindi da specifiche occasioni di progetto per reinterpretare il senso di questo territorio. Appare chiaro quindi come l’interlocutore principale con cui i progettisti erano chiamati ad interagire fosse innanzi tutto l’amministrazione stessa, che chiedeva ai professionisti di essere accompagnata nel-

la decodificazione di una realtà complessa e di difficile interpretazione, i cui dati essenziali venivano individuati nella necessità di rifunzionalizzazione di alcune parti del territorio, nella carenza di spazi aggregativi, nella problematicità del sistema infrastrutturale viabilistico e nel basso livello degli standard di sostenibilità ambientale.

Lo strumento del concorso di idee ha avuto due qualità innegabili che ben si adattano soprattutto a casi di dimensione urbana più limitata: da un lato quello di essere base per una specifica Variante al Piano degli Interventi, rendendo il progetto di masterplan realmente realizzabile in tempi che possano essere compatibili con quelli delle prossime trasformazioni urbane; e, dall’altro, quello di rendere gli strumenti di lavoro del progettista-urbanista più aperti alla comprensione della cittadinanza e quindi alla discussione e infine alla condivisione degli obiettivi.

Il progetto vincitore è risultato quello con capogruppo Raffaele Cetto (Levico Terme, TN) assieme ai propri studenti del Dipartimento di Ingegneria Civile Ambientale e Meccanica dell’Università di Trento – Virginia Girgenti, Leonardo Cicarè e Francesco Fuggini – che ha convinto maggiormente la giuria composta da Giulio Desiderio, direttore tecnico di Mario Cucinella Architects, da Laura Fregolent, coordinatrice del corso di Laurea in Urbanistica e Pianificazione

del Territorio all’Università Iuav di Venezia e da Gabriele Rabaiotti, già assessore ai Lavori pubblici di Milano e fondatore di KCity. La prima caratteristica che emerge dal lavoro dei vincitori è che, rimescolando gli input imposti dal bando, il progetto non si sviluppa per rigide compartimentazioni fisiche (Negrar nord vs. Negrar sud), ma piuttosto per tematizzazioni che poi si concretizzano in diversi ambiti progettuali. Così l’osservazione attenta del territorio si fa interpretazione progettuale, laddove il centro urbano viene visto come “mosaico di luoghi che si sfiorano senza mai davvero toccarsi”, “città parcheggio”, “l’ospedale, elefante nella stanza”: la lettura della città e delle sue parti si traduce in temi di progetto che quindi non potevano che essere, per diretta gemmazione, la rivitalizzazione degli assi principali di collegamento, la risoluzione dei flussi di traffico della città, la riorganizzazione degli spazi viari e dei parcheggi, la ricucitura delle discontinuità urbane.

Dalla lettura interpretativa della specifica realtà urbana nasce un progetto complesso che si sviluppa per fasi (non è chiaro se temporali o di senso) che si intersecano e sovrappongono in alcuni punti e che danno vita a una visione complessiva molto articolata che spazia dagli interventi edilizi a quelli viabilistici, dalle politiche turistiche a quelle sociali.

Progetto 1. classificato (R. Cetto) 01, 03. Visione d’insieme delle tre fasi con l’idea di città che emerge e l’individuazione degli obiettivi da raggiungere. 02. Suggestioni nel progetto di rivitalizzazione degli assi principali del centro storico.

04. Zoom

l’ampia area alle spalle del quartiere ospedaliero dove vengono previste residenze e attività di servizio.

05. Ipotesi di percorso pedonale nella vigna alle spalle dell’Ospedale.

Il progetto secondo classificato, capogruppo Samuel Fattorelli (Sant’Ambrogio di Valpolicella) con Elisabetta Bortolotto, Pierluigi Grigoletti, Nicolò Avogaro e Anna Polloniato, parte da presupposti totalmente diversi. Qui i criteri guida delle scelte progettuali sono individuati a priori rispetto alla lettura della città e dichiarati in modo perentorio nel “Manifesto” che costituisce la prima tavola di progetto. Sono temi attuali, assolutamente condivisibili, che ben si adattano a qualunque situazione urbana contemporanea, e che vanno dalla sostenibilità e biofilia nella progettazione urbana alla mobilità attiva, dal depaving delle superfici minerali al green shades per la cattura della CO2, ma che qui vengono proposti come obiettivi piuttosto che come strumenti. Il progetto infatti affronta non prioritariamente l’analisi approfondita della specifica realtà urbana, quanto le strategie da proporre all’amministrazione per l’ottenimento di obiettivi ritenuti irrinunciabili – sostenibilità, qualità dello spazio pubblico, mobilità e accessibilità, recupero di edifici dismessi – una sorta di “principi guida” (proprio così vengono chiamati dai progettisti) per la stesura della futura Variante urbanistica. Si tratta di due approcci diversi nell’affrontare il ruolo del masterplan come strumento di progettazione urbana: mentre nel caso del primo progetto la proposta si fa rigorosamente interpretativa della realtà urbana e lascia al progetto margini di negoziazione limitati, attinenti alla disciplina architettonica, da demandare magari a futuri “concorsi di idee”, nel secondo caso il lavoro si svolge tutto intorno alle strategie da mettere in campo per il raggiungimento degli obiettivi individuati. Nel primo caso il masterplan aiuta a individuare in maniera puntuale l’idea che si ha di trasformazione della città, nel secondo si lavora sul processo da mettere in atto per l’attuazione di obiettivi primari.

La complementarietà dei due approcci pare essere chiara anche all’amministrazio-

ne che ha già predisposto, a fine ottobre, il “Documento di indirizzo per la presentazione delle manifestazioni di interesse” finalizzate alla prossima Variante n. 8 al Piano degli Interventi: nell’individuare i temi da sottoporre al mandato esplorativo vengono riportate le suggestioni derivanti da entrambi i progetti, proprio perché, ci sembra, dell’uno viene valorizzata l’idea di città che ne scaturisce, dell’altro le strategie per ottenerla.

L’elemento forse più interessante di questa vicenda è come ormai l’uso di uno strumento ibrido e poco codificato come il masterplan, si renda sempre più necessario da un lato per connettere in modo comprensibile a tutti le previsioni urbanistiche con lo sviluppo fisico della città, le prefigurazioni generali con le scelte puntuali e, dall’altro, per far sì che anche le trasformazioni più minute dello spazio fisico diventino questioni collettive da sottoporre alla concertazione con i diversi attori della trasformazione. •

Progetto 2. classificato (S. Fattorelli)

06. La prima tavola con il Manifesto degli strumenti da adottare al fine della “Rigenerazione urbana socio ecologica, sostenibile e biofilica”.

07. Ipotesi puntuali di progetto: iI corridoio verde con il potenziamento degli attraversamenti ciclopedonali del Progno; rigenerazione della rotonda della Meridiana con l’inserimento di un bacino idrico collegato a un rain garden; la casa-torre dell’acqua sostituisce il vano tecnico per la gestione dell’acquedotto.

LVB: tanto di cappello

Testo: Michele De Mori

Un ricordo di Lino Vittorio Bozzetto (1951-2025) la cui figura rimane legata agli studi, alle ricerche e agli interventi sull’architettura fortificata nell’area veronese.

Descrivere l’architetto Lino Vittorio Bozzetto non è semplice. Il suo carattere riservato e a tratti scontroso lo ha reso, per i più, quasi impenetrabile. Ma, superata questa corazza, ci si trovava di fronte a una persona dalla grande disponibilità e gentilezza, per come ho avuto modo di conoscerlo negli ultimi anni a seguito di alcune collaborazioni e scambi di idee inerenti il territorio veronese e, soprattutto, il suo patrimonio fortificato. Studioso di grande cultura, con lui era possibile discutere di ogni argomento, in modo mai banale e sempre rivolto al massimo approfondimento. La sua figura è associata in modo indelebile agli studi sull’arte fortificatoria: una conoscenza che si estendeva all’intero ambito europeo ma poneva particolare attenzione alle fortificazioni veronesi, del quale è stato uno dei massimi esperti.

A partire da questo ambito di studi prende avvio nel 1983 la collaborazione di un giovane Bozzetto con la redazione di «ArchitettiVerona». Il numero 8 della seconda serie sulla Verona militare ospita quattro suoi ampi contributi. Una esperienza che prosegue con il volume edito dall’Ordine degli Architetti della Provincia di Verona nel 1990, Verona. La Piazzaforte ottocentesca nella cultura europea (G. Perbellini, L.V. Bozzetto). Negli anni Novanta sono pubblicati tre volumi ancora oggi riferimenti imprescindibili: Verona. La cinta magistrale asburgica, 1993; Verona e Vienna. Gli arsenali dell’imperatore, 1996; Peschiera. Storia della città fortificata, 1997.

Nel 2001 cura poi un nuovo numero di «ArchitettiVerona», il 53 (terza serie), intitolato alla Eclissi e rivelazione delle mura di Verona.

Grazie ai suoi studi – e a una assidua frequentazione dei più importanti archivi che conservano documentazione relativa alle fortificazioni, quali il Kriegsarchiv di Vienna (gli archivi di guerra dell’impero austroungarico) e l’Istituto Storico e di Cultura dell’Arma del Genio (ISCAG) di Roma – aveva potuto svelare ogni minimo dettaglio sulle opere realizzate nella nostra provincia, ma aveva anche compreso la vita e la filosofia di quegli ingegneri imperiali che le avevano progettate, facendole in parte sue. Di questi ingegneri sapeva cogliere l’aspetto umano, ne apprezzava lo spessore culturale e, in modo particolare, la capacità di costruire nuove imponenti opere rispettando le più antiche preesistenze.

Questa ampia conoscenza è stata alla base anche della sua attività di architetto. Questa prende avvio nel 1980 con l’iscrizione all’Ordine di Verona, dopo essersi laureato l’anno precedente allo IUAV di Venezia. Da subito si confronta con il restauro delle fortificazioni di Peschiera, sua città natale, nello specifico di Porta Brescia. Non solo un teorico, dunque, ma anche un tecnico capace di far riemergere dal passato le antiche modalità costruttive per riadattarle al mondo contemporaneo, sempre richiamando quel principio guida di rispetto per il passato che aveva appreso dagli ingegneri austroungarici.

La sua carriera è incentrata principalmente sul recupero, riuso e tutela delle fortificazioni. Non vi è opera nel veronese che non sia stata interessata direttamente – o indirettamente, come consulente – dal suo operato: dal recupero della Caserma di Artiglieria di Peschiera, a fine anni Novanta, realizzato con il collega e amico Oscar Cofani, fino al restauro del Bastione della Maddalene a Verona, concluso nel 2015 con un altro collega, poi diventato amico, Giovanni Policante,

passando per la Torre del Telegrafo ottico absburgico di Pastrengo (2002-2005) e la Batteria di Scarpa a Verona (2008). Anche Lazise e Vicenza sono state interessate dal suo operato: prima con lo Studio di fattibilità generale per il recupero della mura scaligere (2003), e successivamente con più dettagliati progetti di restauro e valorizzazione.

A Bozzetto si deve anche il Piano delle Mura di Verona (1997), che prevedeva un’attenta ricucitura dei percorsi, anche tramite passerelle sospese. Del piano, attuato solo in minima parte, faceva parte il recupero dei bastioni di San Bernardino e di San Zenone (1997-2001).

Intransigente sul cantiere, preciso e meticoloso, amava studiare ogni singolo dettaglio disegnando tutto a mano, con carta e penna. Il suo carattere pacato gli permetteva di superare le varie problematiche senza mai perdere la pazienza, senza mai alzare la voce con le maestranze. E nonostante le apparenze, Bozzetto amava lavorare in gruppo:

“Grazie alle sue lunghe e numerose sortite presso il Kriegsarchiv di Vienna... aveva potuto svelare ogni minimo dettaglio sulle opere realizzate nella nostra provincia”

un gruppo però selezionato attentamente al quale si poteva accedere solo dopo essersi guadagnati la sua fiducia. Questo apriva le porte a un ampio scambio di conoscenze e di collaborazioni, nonché alla nascita di lunghe amicizie.

Non va infine dimenticato l’impegno di Bozzetto per la salvaguardia del suo territorio. Nel 1984 fonda con alcuni amici il Centro di Documentazione Storica della Fortezza di Peschiera, cui si devono, oltre a studi e convegni anche interventi di salvaguardia – a titolo volontario – come, ad esempio, quello di Forte Ardietti a Ponti sul Mincio, alle porte di Peschiera. Anni più tardi, nel 2016, è tra i promotori del Centro Studi di Architettura Militare Michele Sanmicheli. L’amore ver-

so la professione lo portò anche nelle ultime settimane di vita, all’interno del reparto ospedaliero dove era ricoverato, a discutere – fogli alla mano – su come attuare il miglior intervento di restauro della caserma di fanteria del Campone.

Lino Vittorio Bozzetto è stato un viaggiatore del tempo; figura giunta dal passato, da un contesto oggi lontano, dove il rispetto e l’onore erano le fondamenta della società. Un gentiluomo che, sempre accompagnato dal suo cappello, ci ha permesso di conoscere a fondo il nostro patrimonio fortificato. Una conoscenza attiva e rispettosa, mirata alla sua conservazione e valorizzazione. •

01. Lino Vittorio Bozzetto ritratto nel 2016 durante una visita da lui condotta al Bastione delle Maddalene. 02. Caserma di Artiglieria, Peschiera del Garda, 1855. Restauro: L.V. Bozzetto, O. Cofani.

Expo 2025: ex post

Testo: Fabrizio Fobert

Un reportage a porte chiuse del tradizionale appuntamento globale che si ripropone come una formidabile palestra architettonica.

Da Namba Station, nel cuore di Osaka, in 30 minuti la Chuo Line mi porta sull’isola di Yumeshima, sede del terzo Expo, dopo quelli del 1970 e del 1990, ospitato dalla città più frivola di un composto e rigido Giappone, nonché la città del sensei Ando Tadao, ottantenne, ma ancora sul ring e con tanto di guantoni a donare progetti alla sua città.

Nel 1970 i nomi erano Kenzō Tange o Kiyonori Kikutake, fondatore del movimento metabolista; mi ha sempre colpito il fatto che al termine dell’esposizione fu sepolta una capsula sferica contenente microfilm,

oggetti e registrazioni musicali di quell’epoca che dovrà essere riaperta nel 6970.

Oggi nella capsula virtuale di Expo 2025 potremo inserire progetti di architetti talentuosi del calibro di Shigeru Ban, Sanaa, Kengo Kuma (ben tre padiglioni), Sou Fujimoto, Nikken Sekkei Group con Oki Sato (Nendo) e la giovane Yuko Nagayama. E l’aspetto che accomuna a mio parere gli architetti giapponesi più di altri è l’immediata riconoscibilità di un loro progetto, come per Ando il cemento armato coi moduli dal Tatami, per Fujimoto l’uso del legno, per Sanaa la leggerezza strutturale.

Il tema con il quale la città si è aggiudicata la vittoria è “Delineare la società del futuro per le nostre vite”, ma le tematiche all’interno dei padiglioni approfondivano anche aspetti quasi sempre green, esaltando le ultime tecnologie o le tradizioni culturali dei singoli paesi che si esibiscono.

Partendo dal masterplan dell’intero Expo, trovo che l’idea del Grand Ring di Fujimoto sia geniale e consenta qualcosa di raro in eventi di questo tipo, ossia di avere, oltre a un approccio pedonale rispetto ai padiglioni, uno a volo d’uccello a 360 gradi e costringendo spesso i progettisti a creare padiglioni apprezzabili anche sulle coperture. La sua struttura in legno, 70% da foreste giapponesi, è la più lunga mai costruita al mondo con 2025 metri di skywalk e ha una parte costruita sul mare; concepita per essere smantellata dopo l’evento e riutilizzando le sue travi, oggi le proposte sono di mantenerne almeno 600 metri come un landmark nel post evento.

Il concetto quando si percorre è un po’ quello della High Line di New York, ma più alta e con molte aree verdi alternate a quelle per il camminamento, la passeggiata, vi lascio immaginare, viene esaltata nelle ore serali in cui l’expo diventa quasi un quartiere a sé, con ristoranti, giardini ed eventi.

Visto il caldo intenso che caratterizza Osaka in estate, un altro aspetto del masterplan che si apprezza è un cuore ver-

de, un diffuso giardino interno ricco di zone relax dove prendersi una pausa dalla ressa dei padiglioni. È qui che un altro pilastro dell’architettura giapponese, Sanaa, con il suo better co-being pavillion ha creato una copertura eterea sul verde attraverso cui gli alberi possano crescere e coesistere con lei. Un’opera talmente discreta che quando il cielo è velato ti dimentichi ci sia. Sanaa costituisce un’interfaccia sociale, un luogo sotto il quale le persone immaginano modi nuovi di vivere insieme, un’architettura non conclusa e definita dai ritmi naturali, porosità e luce facendo eco al contesto naturale in cui sorge.

Il racconto dei padiglioni meriterebbe un articolo a sé per ciascuno, pertanto mi limiterò a citare alcuni principi compositivi con

“Il concetto in giapponese è definibile con Shibui: 渋い, che esprime una bellezza non ostentata ma elegante”

cui li catalogherei e per ogni tipologia il più risolto, personalmente.

Innanzitutto, ritengo da progettista che ciò che un padiglione deve comunicare ad una Expo dovrebbe riflettere la sua composizione spaziale in una coerenza tra facciate e volumi interni, e non tutti i progettisti sono riusciti in questo intento: molti sono infatti degli hangar scuri in cui si percorrono esperienze sensoriali senza capire in che parte del volume ci si trovi. Più virtuosi quelli capaci di farti sentire dentro un’architettura e non dentro un box. Il più efficace per questa categoria è il padiglione del Giappone, dove il dettaglio costruttivo era ardito e impeccabile, e l’esperienza interna riesce nel duplice intento di far scoprire un’architettura attraverso il percorso a spirale e di integrare ad esso i messaggi dei contenuti esposti. L’unione di un gruppo come Nikken Sekkei e del talentuoso Nendo raggiunge l’apice nel pozzo di luce centrale, forse il miglior spazio che abbia visitato. In questa categoria inse-

risco anche il padiglione del Bahrain di Lina Ghotmeh, dell’Arabia Saudita di Sir Norman Foster in cui l’esperienza spaziale fa eco a una Kasbah, il Women Pavillion dell’emergente Yuko Nagayama caratterizzato da una struttura leggera in tela e ferro che ne definisce ingresso e distribuzione, differenziando l’interezza del volume, il padiglione dell’Uzbekistan di Atelier Bruckner il cui collegamento scultoreo unisce fisicamente il tetto e il giardino, cercando di offrire ai visitatori un’esperienza costantemente attiva, e infine il padiglione della Polonia di Interplay Architects che si snoda su una spirale di pareti curve, come un’opera di Richard Serra, ma dalla maglia unica in innesti di blocchetti di legno che creano suggestivi giochi di luce interna.

Non si possono poi non citare i padiglioni che diversamente dai primi hanno soprattutto creato degli spazi sociali e comunicativi esterni, oltre che contenere delle esperienze al loro interno, e inserirei tra i più riusciti in questo intento il padiglione USA di Trahan Architects, che ha definito una piazza di libero accesso aprendo due ali triangolari che alleggeriscono l’impatto del volume a loro destinato, e il padiglione Spagna di Enorme Studio dedicato al tema de “La Corrente di Kuroshio”, ispirato alla corrente oceanica che permise al navigatore e missionario basco Andrés de Urdaneta di tracciare la strategica rotta di ritorno dall’Asia all’America, crea un’enorme scalinata di accesso e di convivialità dello spazio di ingresso.

Categoria a sé per uno dei padiglioni più eleganti e fotogenici di tutta la kermesse, quello di Kengo Kuma per il Portogallo che abbraccia il tema “Oceano, il dialogo blu”, offrendo ai visitatori un’esplorazione immersiva dell’oceano come risorsa vitale e pilastro della sostenibilità. Occupando uno spazio di rilievo all’interno del sito, la sua struttura realizzata con corde sospese e reti riciclate riecheggia la fluidità delle onde. Dall’esterno, le forme fluide del padiglione creano un’impressione visiva, con

02.

01. Area Expo 2025, isola di Yumeshima, veduta aerea.
Il Padiglione del Giappone visto dal ring, Nikken Sekkei Group + Oki Sato. 03. Padiglione Italia, il fronte di ingresso, Mario Cucinella Architects.

la parte superiore che sembra fluttuare, in questa texture di facciata uno squarcio “fontaniano” verso la piazza permette a musicisti di tutto il mondo di esibirsi come da una loggia, trasformando il padiglione in un enorme stage. Il concetto in giapponese è definibile con Shibui: 渋い, che esprime una bellezza non ostentata ma elegante.

Sul padiglione Italia sicuramente si è cercato di unire molti degli intenti prima citati,

senza però riuscire ad eccellere in nessuno di questi. In ingresso si è lasciata una parte semi aperta, che però risulta poco fruibile in quanto occupata da un Colosseo astratto molto ingombrante, mentre i due terzi del volume restante sono delle sale chiuse e scure dove vengono esposti oggetti della nostra storia artistica e del design o schermi che mostrano tecnologie made in Italy. Salvo di questo padiglione il giardino sul tetto, con un ristorante Eataly che si affaccia su di esso, e l’involucro esterno scandito da alti setti telati con tecnologia i-Mesh di Ancona, che ha tra l’altro fornito soluzioni tessili da esterno ai progettisti di molti padiglioni, come mi ha riferito soddisfatta l’architetta Yuko Nagayama che ha disegnato il Women Pavillion per Cartier.

Il nostro padiglione rimane uno dei più visitati anche per l’aspetto pittorico del fronte che ricorda le prospettive del dipinto Piazza Italia di De Chirico e la compostezza della Città Ideale di Leon Battista Alberti, al quale Mario Cucinella ruba il titolo.

Infine, esporre opere d’arte originali come “La Deposizione” di Caravaggio o “Il Codice Atlantico” di Leonardo da Vinci va segnalata come sforzo logistico senza eguali per un padiglione temporaneo.

Concludendo ritengo che la riuscita di questa edizione dell’Expo 2025 di Osaka sia data da molti aspetti, ma oltre ai contenuti e all’eccellente lavoro logistico e organizzativo penso che l’architettura giapponese oggi ha degli esponenti di altissima caratura che hanno alzato l’asticella di tutto l’evento. Ancora una volta questa cultura come fece con Wright e Scarpa ci svela come superare le nostre convenzioni del vivere un’architettura da vecchio continente, aprendoci la mente alla loro incredibile, ma sempre composta, creatività, concetto perfettamente descritto con Wakon yōsai: 和魂洋才,“spirito giapponese, tecniche occidentali”, usato come motto nel periodo Meiji per dare una direzione al tipo di progresso che volevano seguire. •

Ci mette il becco LC.

Coltivare lo spirito e il corpo

Continua la rilettura da parte di LC dei principii che il Movimento Moderno ha posto a fondamento della città contemporanea.

“Coltivare lo spirito e il corpo” fa parte dei quattro principii con cui la Carta di Atene indicava le attività umane che si svolgono in una città e che pertanto la città è chiamata a soddisfare.

Che la città di oggi sia in grado di soddisfare tutte le funzioni connesse a “Coltivare lo spirito e il corpo”, per i suoi amministratori è un compito impegnativo che il tempo trascorso e gli sviluppi socio-economici stanno accrescendo di anno in anno, tanto da renderlo sempre più arduo. Tuttavia, oggi sembrano seriamente ridursi le esigenze di disporre di nuovi luoghi sacri per coltivare lo spirito delle popolazioni cattoliche, mentre crescono quelle per altri culti, islamico in primis. Nel mentre, per ragioni di crescita dell’attività sportiva, passiva o attiva, nel suo duplice aspetto di spettacolo sportivo-divertimento o di sola attività fisica, le strutture corrispondenti allo sviluppo dello sport sono spesso carenti e talvolta obsolete; inoltre si avverte, con sempre maggior urgenza, la domanda di aree verdi dove coltivare il benessere psico-fisico, inteso come stato d’animo e relax.

Questo a me sembra tra i principali fattori che mettono in discussione la città come luogo di vita associata: gli spazi di quiete. Se infatti confrontiamo la mappa di cin-

quant’anni fa di una qualunque città italiana – facciamolo con Verona – con quella di oggi, prendiamo coscienza dell’abnorme sviluppo dei suoli costruiti rispetto agli spazi rimasti liberi, e che in parte potremmo ancora destinare ad aree verdi, prive di auto in sosta o in circolazione, dove soddisfare questa crescente esigenza: muoversi o stare seduti liberamente e gioiosamente per semplice diporto.

È perciò evidente che gli sviluppi edilizi, dal dopoguerra in poi, non avendo preso in considerazione l’enorme sviluppo automobilistico, non hanno seguito altro criterio se non quello speculativo. E ora, metro dopo metro, si stanno occupando le aree agricole, anch’esse già costellate di agglomerati edilizi e capannoni. A questo proposito ci sarebbe da invocare l’applicazione effettiva del discusso, ma utile, principio della inedificabilità di nuovi suoli; ma temo che una misura restrittiva di tal genere sarebbe dribblata: in Italia siamo campioni in questa disciplina.

“Nel mentre,

per

ragioni

di

crescita dell’attività

sportiva... le strutture corrispondenti allo sviluppo dello sport sono spesso carenti e talvolta obsolete”

Cercando ora di trasferire sul nostro territorio comunale il principio della Carta di Atene, a me pare che non sia più il caso di limitarsi a introdurre normative urbanistiche intese a regolarne gli sviluppi quantitativi, quanto invece di riprogettare la città sulla sua ossatura storica. Perché la città non è un polpettone da far lievitare per sfamare nuove bocche.

Ancor oggi, in cui gli amministratori comunali hanno assunto decisioni in merito a importanti iniziative circa lo Stadio e la dislocazione di ampi spazi a verde pubblico, si è rinunciato a prendere in mano la situazione con spirito innovativo. Mi domando

infatti: perché riproporre un nuovo impianto sulle spoglie dell’attuale demolito, capace anche di prestazioni polivalenti al chiuso – così lo vorrebbe il Comune di Verona, che pensa si possa climatizzare e assicurare una dignitosa acustica nel caso di manifestazioni musicali al coperto – invece di spostarlo di poche centinaia di metri nel così detto Parco della Spianà, dove già ci sono i parcheggi a disposizione dello Stadio e il Comune possiede molte delle aree necessarie allo scopo, e dove la Bretella nord garantirebbe un accesso all’impianto svincolato dalla viabilità urbana? Requisiti che saranno rimpianti!

E, non da ultimo, l’area ricuperata potrebbe essere integrata nel quartiere come piazza verde risarcendolo dai disagi subiti negli ultimi cinquant’anni. Ma non solo: il così detto Parco della Spianà (di fatto mai realizzato e talvolta, anche di recente, addirittura utilizzato per collocare nuove attrezzature sportive private adottando l’espediente di definire “Verde sportivo” il “Verde pubblico” di Piano), potrebbe agevolmente ospitare gli attuali impianti sportivi comunali ubicati nei Valli delle Mura, e così procedere al restauro della cinta fortificata.

Vorrei concludere però ribadendo l’esigenza di rendere più vivibile la nostra città per i pedoni, nel novero del “soddisfacimento delle esigenze dello spirito e del corpo”, considerato che tutta la popolazione, inclusi vecchi e bambini, deve convivere con altrettante automobili, tra circolanti e in sosta. E qui mi sento debole nell’indicare una soluzione che non porti a lavarmene le mani, tanto fra non molto non sarà più affar mio, né a rimpiangere i tempi in cui erano chiamati a fare urbanistica i cinque o sei nomi di architetti, famosi negli anni Cinquanta o Sessanta in Italia, e i piani che ci si poteva attendere da loro erano, malgrado tutto, ben diversi dagli attuali in cui gli assetti vengono dettati dai proprietari dei suoli. •

DOCUMENTI

Ruotano attorno a tre architetti distanti nel tempo e nello spazio – Mirko Zardini, Peter Eisenman ed Edoardo Gellner – i contributi raccolti in questo numero, tra conversazioni, rievocazioni e ricerche d’archivio.

Cura: Giacomo Mormino

Università degli studi di Verona

Cosa sta accadendo nelle nostre città?

Un sintomo del cambiamento in corso è rintracciabile nelle trasformazioni dello spazio pubblico, dei suoi usi e soprattutto dei suoi utenti o, come si potevano definire fino a poco tempo fa, dei suoi abitanti. La scomparsa del pubblico non è solo legata alla dimensione spaziale ma anche, e soprattutto, alla gestione stessa della città. Dove sempre più la definizione di abitanti, o di cittadini, sta lasciando il posto a quella di city users

Di questi temi si è parlato lo scorso giugno nell’ambito di “Veronetta Contemporanea Festival”, iniziativa di cultura, arte e riflessioni sul contemporaneo promossa dall’Università degli Studi di Verona. L’incontro, introdotto da Olivia Guaraldo (Università di Verona), ha visto un dialogo con Mirko Zardini, con la mediazione di Giacomo Mormino (Università di Verona). Architetto, autore e curatore, Mirko Zardini è originario di Verona, dove è nato e al cui Ordine si è iscritto dopo la laurea conseguita nel 1980 allo IUAV di Venezia, con relatore Giancarlo De Carlo. Il suo percorso professionale lo ha portato però fuori da Verona, a partire da Milano dove ha iniziato a fare pratica nello studio di De Carlo. È stato redattore di «Casabella» (1983-88), «Lotus international» (1988-99)

e ha fatto parte del comitato di redazione di «Domus» (2004-05). Autore di numerose ricerche e contributi critici sulla città contemporanea, ha insegnato progettazione e teoria presso scuole di architettura in Europa e negli Stati Uniti. Ha diretto uno studio a Milano e Lugano con Lukas Meyer per oltre un decennio, con il quale ha vinto diversi concorsi di progettazione. Dal 2005 al 2019 è stato direttore del Canadian Centre for Architecture: in questo ruolo, tramite le mostre e le pubblicazioni del CCA, ha affrontato in modo approfondito le questioni sociali, politiche e ambientali con cui si confronta l’architettura contemporanea, mettendo in discussione e riesaminando i presupposti su cui operano gli architetti oggi. La conversazione è avvenuta l’8 giugno 2025 quando molti sviluppi relativi al cosiddetto modello Milano, di cui la conversazione anticipa alcune caratteristiche, non avevano preso ancora quella piega giudiziaria che interesserà i giornali nei mesi successivi. Proprio per la sua rilevanza politica e urbanistica (non quindi meramente giudiziale, su cui lavorano le istituzioni preposte) abbiamo scelto di mantenere il testo, lasciando ai lettori la possibilità di verificare le cose dette alla luce del proprio presente.

SENZA CITTÀ

Un dialogo sulla città contemporanea con Mirko Zardini a proposito delle trasformazioni dello

spazio pubblico e dei suoi abitanti.

Giacomo Mormino: È almeno a partire dal famoso testo di Kevin Lynch degli anni ‘60, L’immagine della città, che siamo abituati a pensare la città come il prodotto di innumerevoli operatori che, per motivi specifici, ne mutano costantemente la struttura. Lo spazio urbano difatti, potremmo dire con una prima approssimazione, è la sfera in cui traiettorie distinte e una pluralità di soggetti inventano e aggiornano continuamente le forme della propria coesistenza. È per questo motivo che ogni città funziona sempre per incoerenze e temporalità mobili, imparagonabile a una semplice macchina: a uno strumento che ci permette col minimo impedimento di fare i nostri negotia, i nostri affari. Tuttavia, quando osserviamo i cambiamenti della città contemporanea assistiamo a una sua riduzione, per così dire, funzionalista: ovvero, a una volontà di ridurre i suoi usi mutevoli, i suoi imprevisti, la sua pluralità a determinati usi e a specifiche funzioni. Lo possiamo osservare dal proliferare e dall’infittirsi di indicatori, standard, certificazioni, carte etiche che moltiplicano i dispositivi volti a garantire un

determinato uso dello spazio, ma anche dal moltiplicarsi di prescrizioni e divieti che hanno finito per ridurre i gradi di libertà e di scelta civiche entro un set di opzioni definite. Questo tipo di città – ovvero, la cittàmacchina, la città ben oliata che organizza e dispone lo spazio urbano attorno a specifiche funzioni –

PUBBLICO

non riesce a trattare gli scarti tra l’attribuzione d’uso e i cambiamenti d’uso degli spazi, tra gli usi effettivi e gli usi mancati, ma anche il carattere temporaneo di alcuni spazi. Per cominciare, vorrei chiederti da dove viene questa città, quali sono le sue caratteristiche e la sua genealogia.

01. Biblioteca degli Alberi, Milano: veduta aerea del progetto realizzato nel 2017/2018 (©Inside Outside, foto di Andrea Cherchi).

02-04. Immagini del modello del progetto di concorso, 2003/2004.

Mirko Zardini: La riduzione della complessità urbana è spesso legata all’idea di funzionalità o di efficienza, un’idea moderna di città. Oggi però questa riduzione di complessità è legata piuttosto al ruolo giocato dal real estate, dall’intervento immobiliare privato, o da quello che era una volta definita speculazione edilizia, che rappresenta la forza oggi più rilevante nelle trasformazioni urbane. È infatti l’intervento privato, e il valore immobiliare che a questo si accompagna, a dettare le più importanti trasformazioni urbane, determinando quella che potremmo definire una “città senza pubblico”: ovvero una città in cui l’intervento pubblico, il controllo pubblico, e la regolazione del conflitto tra pubblico e privato sta scomparendo.

Quando parliamo di città dobbiamo però considerare il significato di questo termine rispetto alla dimensione del territorio urbanizzato. Già dagli anni ‘70 gli studiosi mettevano in evidenza come i processi di urbanizzazione e di crescita imponevano una considerazione molto diversa dell’urbano. Venne allora introdotto il termine megalopoli, riferendosi a New York, Londra o Tokyo, conurbazioni con una dimensione di circa 10 milioni di abitanti. Oggi, quando parliamo di fenomeni urbani rilevanti ci riferiamo anche a Giacarta, New Delhi, Shanghai, Lagos, San Paolo, conurbazioni che si aggirano intorno ai 20 milioni di abitanti ovvero ad una dimensione dell’urbano che oltrepassa di gran lunga quello che noi generalmente consideravamo città.

Anche in Italia già negli anni ‘90 si parlava di una megalopoli padana che da Torino si sarebbe estesa fino a Venezia: una forma di urbanizzazione diffusa del territorio, legata a meccanismi economico-politici molto chiari (e oggi a Milano si riprende a parlare della città metropolitana). Sarebbe facile dire che si trattava del trionfo dell’individualità, della casa individuale, o del verde. In realtà possiamo guardare a questo territori sotto una luce molto diversa: non il trionfo dell’individualismo, ma il trionfo della città-fabbrica,

con il passaggio dalla grande industria a un sistema di produzione ultra-parcellizzato, di cui Benetton, con la sua rete di fornitori, e i suoi centri logistici, può essere considerato un caso esemplare. Tutta la struttura urbana della città diffusa grava ancora sulle strutture consolidate esistenti e sulle città storiche, anche se queste città sono oggetto di profonde trasformazioni. Una di queste riguarda il processo di espulsione della popolazione residente, sostituita da residenze temporanee, o servizi turistici, e la conseguente trasformazione dei servizi e delle attività commerciali. I centri storici (o almeno alcuni di questi, tra cui Verona) assumono caratteristiche molto simili a quelle che erano – dico erano perché sono ora in crisi – i centri commerciali che noi troviamo nel territorio urbanizzato che chiamiamo città diffusa.

Qual è il carattere di un centro commerciale? Prima di tutto non è uno spazio pubblico, ma piuttosto uno spazio che potremmo definire collettivo. Uno spazio pubblico, infatti, è uno spazio di proprietà pubblica gestito dal pubblico: i centri commerciali, invece, sono spazi di proprietà privata gestiti dai privati, che accolgono una dimensione collettiva. Una caratteristica dei centri commerciali è il controllo, attraverso ad esempio le telecamere, o le guardie private al posto della polizia municipale, e una gestione della qualità ambientale-sensoriale molto sofisticata che riguarda il clima, gli odori, i suoni, sulla base di quella che è stata definita economia dell’esperienza, un’economia in grado di monetizzare il valore non degli oggetti, ma delle nostre esperienze. Molti centri storici oggi (e Verona è un caso esemplare) si stanno trasformando in centri turistico-commerciali che assorbono le caratteristiche dei centri commerciali della città diffusa e sfruttano il carattere della città storica come ulteriore fattore di pregio. Uno spazio molto diverso da quello che era lo spazio pubblico negli anni ’60 e ’70, lo spazio delle manifestazioni pubbliche, dei conflitti, delle diffe-

renze. Questa trasformazione sottolinea un cambiamento radicale nello status degli abitanti: non più cittadini, ma consumatori, o al massimo city-users.

GM: In effetti, se la riduzione funzionalista delle città nella modernità ruotava attorno alla produzione (penso alla costruzione di Mirafiori, ad esempio, attorno al polo produttivo della Fiat), adesso sembra essere incentrata sul consumo: da cui deriva il modello degli spazi collettivi, e non pubblici, importati dal modello del centro commerciale. Però anche nella gabbia del controllo che tu hai evidenziato emergono usi imprevisti: penso ad esempio al centro commerciale Porta di Roma che è il secondo luogo più visitato dai cittadini della capitale, o a un fenomeno di marginalità che occupa le ansie dei benpensanti qui a Verona, quello dei “maranza”, cioè dei ragazzi che in piazza Pradaval o in via Mazzini ascoltano musica, perdono tempo, bivaccano e non entrano da Benetton... Sorge il sospetto che anche nella gabbia del controllo della iperproduzione di telecamere, emergono usi inaspettati.

MZ: Sì, questo avviene sempre, però i margini sono sempre più ridotti. Ci sono moltissime attività che nascono dal basso come reazione a questo tipo di organizzazione della città iper-liberale, gestita sostanzialmente dagli interventi economici privati. A Toronto, ad esempio, c’è una specie di squadra fantasma che di notte dipinge quelle piste ciclabili che l’amministrazione non vuole creare; in California ci sono dei gruppi che cercano di rendere nuovamente pubbliche le spiagge riaprendo i passaggi chiusi dai privati. Ci sono moltissimi gruppi che hanno lavorato sul re-

cupero delle abitazioni o sulla riorganizzazione degli spazi pubblici vuoti o abbandonati con orti, con interventi di de-pavimentazione dall’asfalto, creazione di spazi di giochi per i bambini, o di luoghi di incontro. Tuttavia questi gruppi hanno degli obiettivi molto specifici e molto limitati, che, se e una volta raggiunti, riescono a mantenere solo per un breve periodo di tempo, per problemi di risorse, di intensità. Sarebbe interessante costruire una sinergia tra le diverse iniziati-

ve che nascono spontaneamente dagli abitanti. Come mettere a regime questo tipo di energia richiederebbe un lavoro molto consistente da parte dei corpi intermedi o da parte dell’amministrazione pubblica.

GM: Vorrei tornare sul ruolo del real estate, ovvero del ruolo dei costruttori nella pianificazione urbana. Dicevi giustamente che i costruttori hanno eroso lo spazio di intervento che prima spettava al pubblico, e nelle conversazioni che abbiamo avuto in queste settimane parlavamo di uno dei casi che hanno occupato le cronache di questi mesi, cioè del cosiddetto decreto “Salva Milano”, con il quale si offriva di fatto la possibilità di evitare le opere di urbanizzazione (parcheggi, fognature, verde e servizi), con un grande risparmio economico e il superamento di ciò che nelle conferenze di servizi si fa abitualmente, cioè la contrattazione dell’interesse pubblico. Cosa ci dice il “Salva Milano” su alcune delle distorsioni delle politiche urbanistiche contemporanee?

MZ: Il “Salva Milano” è un tentativo di condonare una serie di interventi (privati) di medie dimensioni autorizzati dalla pubblica amministrazione milanese applicando delle normative e delle procedure (ad esempio nuovi edifici considerati come ristrutturazioni) che sono state contestate da gruppi di cittadini e successivamente dall’autorità giudiziaria. Questi interventi non solo hanno peggiorato la condizione urbana, ma hanno causato alla città di Milano, negli ultimi dieci anni, una perdita di introiti, a causa dei ridotti oneri di urbanizzazione, stimati da Gianni Barbacetto, nel suo libro Contro Milano, fondamentale per comprendere i processi in corso, in circa due miliardi. Allargando la nostra osservazione a tutta la città di Milano dobbiamo notare che le principali trasformazioni, quasi tutte di natura privata, avvengono oggi soprattutto nelle grandi aree che un tempo erano occupate da industrie o scali ferroviari, o negli interstizi e nei bordi della città consolidata. È da sottolineare come non si parli più di periferie, e della loro riqualificazione, interventi che richiederebbero un chiaro impegno da parte delle pubbliche amministrazioni. Anzi, a Milano, le periferie non esistono più: di queste aree e dei loro problemi non si parla o, quando accade, il termine non viene più utilizzato. Una sottile operazione di marketing urbano fa sì che quello che una volta era periferia non sia più definito come tale, ma piuttosto con nomi specifici. Questo processo di ri-nominazione trasforma ad esempio la periferia a nord di Loreto in Nolo, che sta per North of Loreto (come a New York Soho sta per South of Houston Street), o quella a nord di Lambrate in Nolamb, e così via. Si tratta di una tipica operazione messa in atto nel settore immobiliare, quando si intende rendere più attrattive certe aree urbane, e quando iniziano i processi di gentrificazione.

Un problema ancora più grave è rappresentato dai progetti di trasformazione per le enormi aree ferroviarie dismesse (Porta Romana, Porta Garibaldi, Porta Vittoria, ecce-

tera), un tempo pubbliche e ora affidate a operatori privati. Queste aree sono state oggetto di concorsi, gestiti sostanzialmente dagli operatori privati, tra cui spicca il gruppo Coima con Manfredi Catella, il re del mattone a Milano. I risultati sono davvero discutibili e problematici, come ad esempio il villaggio olimpico di Porta Romana. Soprattutto, con la rinuncia da parte dell’amministrazione pubblica alla progettazione della città e affidando ai privati lo “sviluppo” di queste aree (1.250.000 mq) e si è persa l’occasione per un grande processo di trasformazione per una città più giusta, più verde, una città che non trascura servizi e residenze per i suoi abitanti

Questi processi naturalmente hanno provocato una trasformazione profonda. Come riportato da Lucia Tozzi nel suo bel libro L’invenzione di Milano, negli ultimi 10 anni Milano è cresciuta di 100.000 abitanti, passando da 1.200.000 a 1.300.000 abitanti. Ma, nello stesso tempo, a causa del co-

sto degli affitti, delle abitazioni, e della vita, 400.000 vecchi abitanti hanno lasciato la città, sostituiti da 400.000 nuovi residenti. Si tratta di un tipico processo di gentrificazione, con l’espulsione delle classi sociali più deboli, e anche della piccola e media borghesia. Ma molte di queste persone (infermieri, insegnanti, poliziotti, autisti di autobus) sono le stesse che permettono ai servizi della città di funzionare.

GM: La domanda a questo punto si fa urgente: se è vero quello che hai detto, come ne usciamo? Forse dovremmo ribaltare i termini della questione, pensando al pubblico non solo come difensore di bene comune, ma come suo produttore. E forse dovremmo indirizzare il privato verso il public purpose, come si suol dire, cercare di ingabbiare la volontà di profitto del real estate.

Biblioteca degli Alberi, Milano

Luogo: Porta Nuova

Committente: Comune di Milano

Concorso: 2003/2004

Progetto vincitore: Petra Blaisse, Mathias Lehner |Inside Outside (paesaggio), Mirko Zardini (progettazione urbana), Michael Malzan Architecture (architettura), Piet Oudolf (progettazione del verde), Irma Boom (grafica), Ro’Dor (engineering)

Oggi la Biblioteca degli Alberi, un nuovo piccolo parco urbano a Porta Nuova a Milano, è solo apparentemente lo stesso progetto di quello di concorso, a cui ho partecipato come progettista. Sono rimaste alcune figure e alcune tracce, ma sono stati eliminati tutti i servizi pubblici previsti, sostituiti dalla Fondazione Catella e da interventi residenziali esclusivi come il Bosco Verticale. Inoltre aver affidato la gestione del parco a un privato (la società immobiliare Coima) ha fatto sì che il carattere pubblico dell’intervento svanisse ulteriormente. A un primo sguardo è lo stesso progetto; in realtà è il suo opposto. (MZ)

MZ: Nel suo libro Barbacetto parla di una città monocefala e monocorde, senza alcun dibattito o confronto. Si dovrebbe prima di tutto ricostituire una opinione pubblica, un dibattito pubblico. Le critiche sui social, le voci dissidenti non sono stati sufficienti. Gran parte dei giornali e delle istituzioni hanno sostenuto o partecipato a questo grande progetto di privatizzazione di Milano. Perché a Milano non si può nemmeno parlare di partnership pubblico-privato: tutto viene privatizzato, dai marciapiedi, alle piazze, ai parchi, alle piscine, non solo il suolo o gli edifici. In questi decenni si è mitizzato il ruolo della partnership pubblico-privato. Questa situazione ci viene sempre presentata come l’unica possibile. In realtà a Vienna, ad esempio, il 60% delle abitazioni sono gestite, sostenute dal pubblico, con case di proprietà pubblica, cooperative, ecc. A diverse scale di impegno l’intervento pubblico diretto, o una strategia pubblica, o un obiettivo pubblico dovrebbero essere condizioni necessarie per qualsiasi intervento. L’idea della partnership pubblico privato è nata in Inghilterra, dopo il governo Thatcher con il governo Major. Si sosteneva che il pubblico non fosse più in grado di affrontare i costi degli interventi e dei servizi, e che solo il privato, tramite partnership, potesse intervenire e sostenere il costo economico dell’intervento pubblico. Ma questo strumento ha visto quasi sempre prevalere l’interesse privato su quello pubblico, tanto che si è stati costretti a formulare una nuova definizione: la partnership for public purpose, ovvero la partnership per obiettivi e scopi pubblici. Cosa infatti manca ormai alla partnership pubblico privato? Manca la dimensione pubblica, manca l’obiettivo pubblico, manca la strategia e mancano le regole stabilite dal pubblico, manca la difesa dell’interesse pubblico.

Per quanto riguarda il pubblico come produttore di beni comuni, dobbiamo considerare che la dimensione pubblica non può essere identificata solo nelle istituzioni o nelle amministrazioni, ma in una dimensione collettiva che consideri anche i gruppi e le aggregazioni spontanee che si formano all’interno delle nostre società. Si tratta di intraprendere un lungo lavoro di ricostruzione che, prima ancora che riguardare le nostre città, deve riguardare la nostra società. •

“UNO SPAZIO MOLTO DIVERSO DA QUELLO CHE ERA LO SPAZIO PUBBLICO NEGLI ANNI

’60 E ’70, LO SPAZIO

DELLE MANIFESTAZIONI PUBBLICHE, DEI CONFLITTI,

DELLE DIFFERENZE”

Testo: Nicola Brunelli *

Ventisei giugno 2004: finalmente il grande giorno è arrivato. Il lavoro è terminato, appena in tempo per l’inaugurazione da tempo già programmata. L’opera è sublime, perfetta.

Dopo una estenuante corsa contro il tempo durata poco più di un mese, dove alle impegnative giornate in cantiere si alternavano le devastanti nottate sui disegni, in costante contatto con New York., ora possiamo finalmente riposare e godere della visione dell’opera del Maestro, anzi dei Maestri.

L’installazione si confronta e si intreccia con l’allestimento del Museo di Castelvecchio. Due opere differenti, di epoche distanti, concepite da autori apparentemente lontani, ma entrambi colti, sensibili, astuti e, ciascuno a modo suo, geniali.

Il rapporto tra le due opere, sintesi del rispettoso dialogo tra due epoche, tra Carlo Scarpa e Peter Eisenman si materializza in una installazione che è costruzione reale, concreta e palpabile: questo aspetto rappresenta la vera novità. Non solo teorie, quindi, ma una sovrapposizione materica di elementi, colori e caratteri, così credibile da divenire assolutamente impeccabile.

La convivenza delle due opere è possibile, addirittura auspicabile: questa è la vera essenza del progetto che ha generato il Giardino dei passi perduti, che nel confronto silenzioso ma schietto svela la sua chiave di lettura.

Un progetto culturale che nasce qualche anno prima, “inventato” da un sodalizio di giovani architetti (l’Associazione Giovani Architetti di Verona, A.G.A.V.), con ancora fervida la passione accademica per la ricerca e la sperimentazione; con la tipica “spocchia” dei giovani che reclamano il diritto di dare un contributo allo status quo del dibattito cittadino, sulle argomentazioni che tanto li appassionano.

Con quell’ardire sfrontato e senza vergogna, che corrisponde a una esigenza intellettuale più che ad un modo di essere, alla necessità di proporre iniziative, idee, approfondimenti, ricerca e confronto. Spesso l’ardire di pochi spavaldi incontra il favore di tanti, più quieti ma non meno curiosi e lo sparuto gruppetto nel tempo è cresciuto; le giovani e umili proposte sono divenute grandi iniziative. Fino alla più grande. Questa.

MEMORIE PASSI PERDUTI, RITROVATE

Inaugurata nel 2004 e rimasta aperta fino al 2005, l’installazione di Peter Eisenman al Museo di Castelvecchio rivive dopo vent’anni nei ricordi di uno dei promotori

I grandi maestri riconoscono questo fervore giovanile e lo assecondano, lo sostengono e lo condividono, forse perché è lo stesso che coltivano essi stessi fin dalla gioventù e che mantengono vivo ad ogni costo, fonte inesauribile di vitalità e ispirazione. Ecco, quindi, che il grande maestro accoglie e fa propria l’audace idea del giovane sodalizio, la metabolizza, la fa crescere, maturare: doveva essere l’esposizione dei progetti di Peter Eisenman all’interno del Museo di Carlo Scarpa, invece è divenuto un confronto diretto, un dialogo autentico e puro tra due grandi maestri del novecento. Affinché una buona idea divenga una iniziativa straordinaria, essa deve crescere in un

“Sarebbe utile comprendere per quali motivazioni oggi i giovani progettisti... non sentono l’esigenza di riproporre un tale approccio critico, solo apparentemente provocatorio e autocelebrativo”

ambiente favorevole, abitato da figure autorevoli, competenti, appassionate, ma soprattutto coraggiose ed incoscienti, quasi folli… e in questa straordinaria esperienza ne ho incontrate varie e la Direttrice spicca su tutte. Anche Lei ci ha creduto davvero!

Si, certo, ci vuole anche un po’ di fortuna; il fato talvolta incide in maniera determinante con episodi imprevedibili o inaspettate coincidenze... Ma si sa, ad essere premiati sono gli audaci.

01. Veduta

dell’installazione

02. Modello di studio.

03. Sezioni in sequenza sulle cinque impronte scavate o square, trasposizione in esterno delle sale della Galleria delle sculture del museo.

04-05. Fasi di cantiere: il getto delle square

E fummo premiati! Non solo con la soddisfazione e con l’orgoglio di aver partecipato ad un grandioso processo creativo, ma anche con il successo dell’opera, un successo di pubblico e di critica! Un’opera memorabile, unica nel suo genere e non solo a Verona; purtroppo poco celebrata negli anni a seguire e vagamente ricordata.

Come spesso accade, sono studiosi estranei al tessuto culturale nostrano che ci ricordano l’impeto culturale e il trasporto mediatico

generale
di Peter Eisenman a Castelvecchio.

di quell’illuminata esperienza, raccontandola ancora oggi con enfasi e passione: ad esempio nella recente conferenza “Castelvecchio: l’eterna rinascita”, tenuta a maggio 2025 a Verona in occasione di Mantovarchitettura, con un intervento breve ma intenso di Pier Federico Caliari, professore di Allestimento al Politecnico di Torino.

La chiusura dell’installazione, concepita per essere temporanea, fu prorogata per ben due volte oltre il termine programmato, per quanto fu apprezzata e visitata; doveva occupare il giardino del museo per quattro mesi invece ne rimase la protagonista per più del doppio del tempo.

All’epoca ci fu anche chi propose di renderla definitiva, permanente; ma non era possibile, ovviamente, anche perché fu progettata e realizzata per resistere qualche mese e non per contrastare le intemperie e le inevitabili azioni del tempo.

In balia del sano entusiasmo di chi sa che è cosa giusta, taluni auspicavano e propone-

vano l’opportunità di ripetere l’esperimento al Museo di Castelvecchio, periodicamente e con altri protagonisti dell’architettura contemporanea.

Tutto ciò accadeva tra la fine dell’anno 2004 e l’inizio del 2005; purtroppo da allora è passato ormai un ventennio e iniziative simili non si sono più ripetute, nonostante l’innegabile interesse culturale e l’evidente successo di pubblico e di critica di quella singolare esperienza.

Sarebbe utile comprendere per quali motivazioni oggi i giovani progettisti, il mondo culturale cittadino, le associazioni, gli enti e le amministrazioni locali non sentono l’esigenza di riproporre un tale approccio critico, solo apparentemente provocatorio e autocelebrativo, ma innegabilmente ricco di spunti e di riflessioni per il dibattito culturale cittadino e non solo; oltre che generatore di inaspettate opportunità.

Forse in questi anni sono venuti meno il coraggio e la follia? •

Riferimenti bibliografici

Peter Eisenman, Il giardino dei passi perduti. Museo di Castelvecchio, Verona 26 giugno – 3 ottobre 2004, in «Casabella» 723, giugno 2004, pp. 16-17

Otto Wetzel, Peter Eisenman a Castelvecchio: alla ricerca della misura perduta, in «Casabella» 723, giugno 2004, pp. 18-21

Cynthia Davidson (a cura di), Peter Eisenman, Il giardino dei passi perduti. Una installazione al Museo di Castelvecchio, Catalogo della mostra, Verona, 26 giugno-28 marzo 2005, Marsilio, 2004

Fulvio Irace, Il giardino dei passi perduti, in «Abitare» 442, settembre 2004, pp. 144-149.

Nicola Brunelli, Simpatica follia o gesto coraggioso?, in «ArchitettiVerona» 69, 2004, pp. 42-44

AA.VV., Peter Eisenman. Il giardino dei passi perduti. Una installazione al Museo di Castelvecchio, «Notiziario del Banco Popolare di Verona e Novara» 1, 2005

Filippo Bricolo, Le mostre fuori sala Boggian: tra giardino e Gran Guardia, in A. Di Lieto e F. Bricolo (a cura di), Allestire nel museo. Trenta mostre a Castelvecchio, Marsilio, 2010

Peter Eisenman. Il giardino dei passi perduti, in A. Di Lieto e M. Borsotti, La continuità dell’esporre. Allestimenti ai Musei Civici di Verona 20042023, Franco Cosimo Panini, 2023

* Nicola Brunelli è stato cofondatore, consigliere e poi vicepresidente dell’Associazione Giovani Architetti di Verona (A.G.A.V.). Tra il 1999, anno di fondazione, e il 2006 si è occupato dell’ideazione e cura degli eventi culturali promossi dall’associazione. Attualmente svolge l’attività di architetto all’interno di Riscostudio.

07

06. Peter Eisenman e Nicola Brunelli all’inaugurazione della mostra, 26 giugno 2004 (foto di Valeria Rebonato).

07. Concept del progetto nello schizzo-manifesto di Peter Eisenman.

08. Le berme erbose viste dai camminamenti di ronda, osservatorio privilegiato dell’installazione.

Il Giardino dei Passi Perduti

Nel riflettere sui modi per instaurare un dialogo con l’opera di Carlo Scarpa a Castelvecchio, abbiamo scelto di dimostrare che la lotta tra percorsi apparentemente disparati rappresenta anche una ricerca di una logica disciplinare interna all’architettura. Questa riflessione sarebbe un amalgama di progetti e della loro riflessione critica, un “ipertesto” eccessivo, per così dire, che combina testo e oggetti oltre i limiti della loro precedente testualità. Si tratterebbe di un tentativo di reinventare il progetto in chiave metacritica, un’idea più problematica, ma anche più realizzabile, perché deve affrontare l’aspetto frammentario e poetico dell’opera di Scarpa. La mostra stessa è un progetto che si colloca come opera didattica nel giardino e come opera frammentaria nelle gallerie. Scarpa ha posato pavimenti in cemento striato nelle cinque sale espositive interne. Questi cinque quadrati sono sostituiti nel giardino da cinque piattaforme “scavate”, situate su un asse parallelo alla sequenza interna delle sale. Un secondo asse, quello di Eisenman, attraversa diagonalmente il giardino, intersecando e

incrociando le piattaforme di Scarpa. Esso si collega alla sala ruotata alla fine della sequenza di spazi di Scarpa, suggerendo che l’asse inclinato preesistesse. Le piattaforme in cemento vengono rivelate mentre ci si sposta dal ponte d’angolo di Scarpa verso l’ingresso del museo. Le piattaforme si aprono per rivelare un amalgama di progetti di Eisenman –Cannaregio, IBA Social Housing, il Wexner Center for the Arts, il Musée di Quai Branly e la Città della Cultura della Galizia – che emergono dal terreno con una qualità proustiana di “tempo ritrovato”. All’interno, la natura frammentaria delle parti del progetto si confronta con Scarpa e la sua tematica. Questi frammenti della griglia “scavata” di Berlino e della griglia cartesiana di Santiago, dipinti di rosso, appaiono come una serie di residui poetici negli interstizi tra i pavimenti di Scarpa e i percorsi del castello. Qui, come nel giardino, il tempo diventa parte di una rete di percorsi incrociati verso un luogo passato e futuro. L’opera non è più una mostra museale (una mostra in un museo), ma piuttosto una trasformazione della natura del museo stesso. (fonte: www.eisenmanarchitects.com)

Promotori

Comune di Verona - Assessorato alla

Cultura - Musei Civici d’Arte e Monumenti

Associazione Giovani Architetti di Verona (A.G.A.V.)

Direzione della mostra

Paola Marini, Alba Di Lieto

Cura della mostra

Kurt W. Forster e Cynthia Davidson

Cronologia

Giugno 2004-marzo 2005

Progetto installazione

Eisenman Architects

con Pablo Lorenzo-Eiroa, Julia Choi, Neeraj Bhatia, Federica Vannucci, Emanuel Sousa

Sviluppo del progetto e coordinamento alla realizzazione

Nicola Brunelli, Nicola Cacciatori, Carlo Cretella, Michele Marcazzan con Federico Cappellina

Consulenza strutturale

Maurizio Cossato – Contec

09-10. Esploso assonometrico degli elementi del progetto, schizzo preliminare e render finale
della square E.

“QUI, COME NEL GIARDINO, IL TEMPO DIVENTA PARTE DI UNA RETE DI PERCORSI INCROCIATI VERSO UN LUOGO

PASSATO E FUTURO”

Testo: Claudia Cavallo

Immagini: Fondo Edoardo Gellner

Archivio Progetti IUAV

EDOARDO GELLNER IN LESSINIA

«[…] in architettura l’esaltazione sproporzionata di singoli elementi, raggiunge talora effetti formali di grande vigore espressivo; ed è il caso appunto di queste bellissime lastre che alzano trincee e muri nel paesaggio, o sembrano sporgere dal suolo come elementi naturali, rustici dolmen dell’altopiano»1

Gigantesche lastre in Pietra di Prun2 infisse nella terra compongono linee assolute nel paesaggio aperto dei dossi lessinici come inconsapevoli opere di land art. Lastre come cornice per guardare insediamenti in lontananza, tutti fatti della stessa pietra. Nudi dossi paralleli in sequenza con piccoli agglomerati a schiera. Una contrada vista dall’alto con le bestie ancora fuori. Una stalla incastonata nel prato. E la presenza umana sfuggente, che sembra aver appena abbandonato il trattore davanti a una stallafienile dove è ancora montato un nastro per caricare il foraggio.

Sono circa 75 le fotografie scattate da Edoardo Gellner3 tra il 1975 e il 1976 con un primo tour nella Lessinia centro-occidentale tra Sant’Anna d’Alfaedo e le contrade di Bosco Chiesanuova, e un secondo tour nella Lessinia orientale, partendo da Velo Veronese4. Immagini straordinarie che ci rivelano il fascino di un paesaggio e di una tradizione costruttiva unica, ritratta alle soglie della sua dissoluzione.

Gellner compone un affresco della Lessinia immortalando le sue “presenze” naturali e costruite, dalla morfologia del terreno ai ritmi e gli slittamenti delle aggregazioni, fino alle figure delle singole case ritratte come icone, che ci riportano alla mente le American Photographs scolpite nell’immaginario collettivo da Walker Evans5, per aver saputo trasformare il quotidiano in “soggetto artistico”.

Esattamente come Evans, Gellner è interessato a “singolarizzare” invece di generalizzare6. Vuole mostrare il rapporto tra le “individualità geografiche”7 e i “personaggi” dell’architettura anonima, esaltare l’espressività inconsapevole delle costruzioni spontanee, rivelarne la fisiognomica.

Come le bottiglie di Morandi o il violino di Juan Gris, ogni manufatto, ogni traccia nel paesaggio, si manifesta come un contenitore di storie di vita. Proprio come gli animali nelle favole si umanizzano e parlano, così le case, le giassare, le lunghe teorie di lastame

poste a dividere le proprietà agricole, nel ritratto che Gellner fa della Lessinia sembrano assumere una chiara e marcata personalità.

Se infatti le numerose pubblicazioni di Eugenio Turri8 e Vincenzo Pavan9 sono legate a una “vicinanza” e potremmo dire quasi a una “militanza” per le sorti di questo particolarissimo paesaggio di pietra – peraltro confrontabile con l’impegno di Gellner come urbanista, architetto e fotografo nel contesto ampezzano10 –, questo ritratto fotografico ha una natura diversa.

Gellner aggiunge un altro tassello al racconto della Lessinia, che si colloca all’interno dell’orizzonte vasto del suo interesse, da architetto, per i paesaggi rurali “originari”.

“Sono circa 75 le fotografie scattate da Edoardo Gellner tra il 1975 e il 1976 con un primo tour nella Lessinia centro-occidentale... e un secondo tour nella Lessinia orientale”

Con uno sguardo quasi da pittore, attratto dalle forme, dal loro gioco astratto e almeno in parte autonomo, è meno interessato a restituire una lettura esaustiva e teso più a evocare, affascinare, persuadere.

Quelle di Edoardo Gellner sono immagini che hanno un proprio – autonomo – valore estetico, che fuoriesce dal valore documentale.

Ma qual è l’intento di queste stupende fotografie? Che ruolo e che spazio hanno avuto nella vita e nell’esperienza di un architetto al contempo molto prolifico nei progetti e nelle realizzazioni?

Un archivio di oltre 50.000 fotografie è tutt’altro che comune per un architetto che ha vissuto la sua fase attiva nel XX secolo, con una produzione fotografica iniziata negli anni Trenta, ben prima della diffusione della fotografia amatoriale.

I numeri dell’archivio fotografico di Gellner sono tanto più impressionanti se li sommiamo a quelli delle opere progettate e costruite, oltre ai piani comunali e territoriali

01. Stalla isolata tra Bosco Chiesanuova e Croce. 02. Un foglio dell’album di provini a contatto n.13 (1975-76) con una sequenza di fotografie scattate fra le contrade di Bosco Chiesanuova: Scolo, Biancari, Grietz, Croce. 03. Nei pressi di Sant’Anna d’Alfaedo.

04. Nei pressi di Sant’Anna d’Alfaedo.

05. Vaona (Sant’Anna d’Alfaedo).

elaborati come progettista, al coinvolgimento in commissioni e associazioni di settore.

Tutte attività svolte ad altissimi livelli, come testimonia il più celebre progetto realizzato dall’architetto nel suo studio ampezzano: la colonia ENI a Borca di Cadore, seguita dalla progettazione d’insieme fino al dettaglio esecutivo dell’ultima sedia.

Per comprendere il senso delle immagini in Lessinia e più in generale il ruolo della fotografia nell’opera di Edoardo Gellner bisogna chiarire che esistono due fasi – anni Cinquanta-Sessanta e Settanta-Ottanta – in

cui il rapporto fra l’attività fotografica e l’attività progettuale (a varie scale) sembra diverso in termini di tempi e obiettivi.

In modo un po’ schematico possiamo dire che la fotografia, pur restando sempre uno strumento di studio per accumulare riferimenti e comparazioni, nella prima fase si rivolge prioritariamente al progetto di architettura, mentre a partire dagli anni Settanta sembra concentrarsi maggiormente sul paesaggio, le forme dell’insediamento costruito e dello sfruttamento agricolo.

In questa seconda fase, in cui si colloca-

06. Scolo (Bosco Chiesanuova).

07. Squarantel (Roverè Veronese).

no gli stupefacenti scatti in Lessinia, Gellner è uscito dai riflettori delle riviste nazionali e internazionali (che lo avevano visto protagonista per anni, soprattutto con il progetto per il complesso ENI) e si dedica prevalentemente a due attività: la pianificazione e la divulgazione.

Sono noti i due volumi da lui pubblicati negli anni Ottanta – Architettura Anonima Ampezzana (1981) e Architettura Rurale nelle Dolomiti Venete (1988), che ne hanno consacrato il ruolo di studioso dell’architettura alpina, spesso frainteso in una chiave tipologica non essenziale –, ma è tuttora in corso un lavoro di ricerca sui progetti editoriali rimasti interrotti che Gellner mette in cantiere negli anni Settanta11 .

In questi lavori, e nelle molte carte ancora da scoprire, si cela un ricercatore solitario e profondamente anticonformista che svolge le sue ricerche in assoluta autonomia, con sporadici confronti in occasione di conferenze e incontri, comunque lontano da consessi accademici.

Il suo più grande, quasi megalomane, progetto editoriale mirava a rappresentare circa venti12 luoghi dell’Italia interna, come un’immersione dentro diverse “stanze di paesaggio”.

Un’enorme operazione di restituzione del suo interesse per i paesaggi rurali e per il “grado zero” della costruzione nei diversi luoghi d’Italia, che possiamo immaginare attraverso i menabò frammentari e disomo-

genei, da cui emerge tuttavia con chiarezza l’obiettivo e la passione che muovono l’architetto-fotografo.

Ogni “stanza” veniva presentata attraverso una serie di scatti dello stesso Gellner, pensati in sequenza: partendo dai personaggi del paesaggio – monti, canali, fiumi, conformazioni rocciose, sequenze collinari... – per poi mostrare la disposizione delle forme dell’insediamento, le forme aggregative dell’architettura, i suoi ritmi, le disposizioni dei tetti fra loro e in rapporto alla pendenza del terreno, fino ad arrivare alla casa e ai singoli elementi che ne connotano la figura.

Sarebbe impossibile separare l’architetto dallo studioso, dal pianificatore e divul-

“Un archivio di oltre 50.000 fotografie è tutt’altro che comune per un architetto che ha vissuto la sua fase attiva nel XX secolo, con una produzione fotografica iniziata negli anni Trenta”

gatore che in tutte queste diverse attività ha sempre lo stesso “movente”, che si esprime nelle diverse forme del suo operare: una ricerca ossessiva e appassionata per capire ed esaltare la “singolarità” dei luoghi. L’architetto pragmatico, e per certi versi spregiudicato, non certo contrario alle trasformazioni, interpreta le “diversità” nei suoi progetti, osserva il paesaggio che cambia e sente la necessità di fissare alcuni luoghi in cui si è creato nei secoli un magico equilibrio fra uomo e natura, irripetibile altrove, ma pieno di insegnamenti da cui sarebbe possibile e necessario partire per ricostruire il paesaggio dell’uomo. •

1 L. Magagnato, I villaggi di pietra della Lessinia occidentale, in «Architetti Verona» 9, 1960, p. 24.

2 Le pietre della Lessinia che appaiono in queste immagini sono tutti esempi di Scaglia Rossa Veneta, più nota come Pietra di Prun, dal nome del principale sito estrattivo.

Grietz (Bosco).
Laorno (Bosco).

3 Edoardo Gellner, nato ad Abbazia in Istria nel 1909, ha aperto il suo studio a Cortina d’Ampezzo negli anni Quaranta e costruito opere emblematiche dell’architettura alpina del XX secolo come la Colonia Eni a Borca di Cadore.

4 Si ringrazia Vincenzo Pavan per il prezioso lavoro di individuazione dei luoghi ritratti.

5 W. Evans, American Photographs, The Museum of Modern Art, New York 1938.

6 A. Frongia, Il paesaggio della crisi di Walker Evans, 1928-1938, in A. Bertagna (a cura di), Paesaggi fatti ad arte, Quodlibet, Macerata 2010, p. 86.

7 E. Turri, La Lessinia, Cierre, Sommacampagna 2007 [ed. orig. Edizioni di Vita veronese, 1969], p. 21.

8 Ibid.

9 Fra le molteplici pubblicazioni e articoli dedicati a questi luoghi da Vincenzo Pavan si segnala in particolare il primo e pioneristico lavoro che apre la stagione di studi sull’architettura anonima e gli insediamenti spontanei della Lessinia: L. Magagnato, A. Pasa, F. Zorzi, V. Pavan, C. Muscarà, Architettura nei Monti Lessini: catalogo della mostra Palazzo Forti, settembre 1963, Ente Marmi Verona, Neri Pozza, Venezia 1963.

10 Ho cercato di mettere in luce in senso complessivo e le espressioni puntuali del complesso lavoro di studio, ridisegno, fotografia, progetto e pianificazione che Gellner ha dedicato al paesaggio e all’architettura ampezzana nei seguenti contributi: C. Cavallo, L’architettura anonima ampezzana nello sguardo di Edoardo Gellner, in «Firenze Architettura» vol. 27, 1-2 (2023-24), pp. 152-161; C. Cavallo, I paesaggi interni di Edoardo Gellner, in E. Cresci (a cura di), Architettura e paesaggio. Indagini, Didapress, Firenze 2025, pp. 28-43.

11 La ricerca origina dall’assegno di ricerca “Cortina 1956-2026. Architettura e paesaggio nell’opera di Edoardo Gellner a Cortina d’Ampezzo” che ho svolto nel periodo 2022-23 presso l’Università Iuav di Venezia, con responsabili scientifici proff. Roberta Albiero, Angelo Maggi.

12 Il progetto di pubblicazione “Paesaggio Rurale storico” è un viaggio per immagini suddiviso in capitoli dedicati a singole “stanze di paesaggio” fra le quali figura la Lessinia. Il numero complessivo dei luoghi selezionati era inizialmente di 15, poi ampliati fino ai 36 capitoli dell’ultima stesura.

PROGETTI

Architetture pubbliche e collettive: per usi sociali, per l’educazione e per la pratica dello sport.

Infine la dimensione collettiva entra in un interno, con un progetto dalla forte vocazione sociale.

UN CENTRO

Progetto: arch. Jacopo Rettondini

Foto: Simone Bossi

Testo: Filippo Romano

In una piccola frazione della pianura veronese l’architettura del nuovo centro civico restituisce identità con un gesto civile.

PER LA COMUNITÀ

ACarpi di Villa Bartolomea, piccola frazione di poco più di mille abitanti immersa nella pianura veronese, il campanile svetta da sempre come riferimento visivo e simbolico per il territorio. In questo contesto periferico si percepiva l’assenza di ciò che definisce l’identità di un paese: la piazza, luogo di incontro e di riconoscimento. Da queste premesse nasce un nuovo racconto urbano: non un semplice intervento edilizio, ma un gesto di rigenerazione sociale, un luogo restituito alla collettività, dove architettura e spazio pubblico diventano strumenti della comunità. A disegnare il progetto e a portare a compimento i lavori, l’architetto Jacopo Rettondini.

L’amministrazione ha acquisito un vecchio edificio dei primi del Novecento ormai fatiscente e, con il supporto di un’iniziativa privata, ha avviato un piano di recupero in due fasi. Il primo stralcio, completato nel 2021, ha previsto la demolizione dell’edificio esistente, la costruzione di un centro di aggregazione con locale commerciale e uno spazio aperto per la collettività. Il secondo, concluso nel 2025 grazie ai fondi del PNRR, ha visto la realizzazione di un centro polifunzionale per la famiglia e la riqualificazione del parco lungo via Guido Casara, collegando la piazza alla scuola e ricucendo il tessuto urbano e sociale.

Il progetto si colloca nel cuore del borgo, lungo via Borgo della Chiesa, dove la memoria rurale affiora nei ritmi delle facciate e nelle proporzioni delle case. Due volumi ortogonali definiscono il margine della piazza e dialogano con la torre campanaria, ricomponendo idealmente l’antico asse del paese. Il centro per la famiglia si presenta come un volume a due piani, semplice e regolare, con copertura a doppia falda asimmetrica che instaura un dialogo con la torre campanaria. L’edificio si inserisce in continuità con la scala del borgo, pur affermando il proprio ruolo pubblico attraverso proporzioni slanciate e chiarezza del disegno. La facciata su

via Borgo della Chiesa riprende il ritmo delle aperture verticali tradizionali, mentre il fronte verso la piazza si apre con ampie vetrate che mettono in comunicazione gli spazi interni con la vita esterna. All’interno, gli spazi accolgono attività diverse: al piano terra uno spazio informativo e un ambulatorio medico, al primo piano una grande sala polifunzionale per attività ludiche e creative. L’idea è quella di una “casa pubblica” flessibile che restituisce centralità alla dimensione comunitaria, all’incontro e alla cura. Il linguaggio architettonico è sobrio, fondato sulla misura e sull’armonia tra materia e luce.

L’edificio è interamente costruito in legno, con oltre cento metri cubi, secondo i criteri CAM di sostenibilità ambientale. La struttura prefabbricata e montata a secco garantisce tempi rapidi, efficienza energetica e comfort acustico. All’interno, i pavimenti in rovere, le pareti dai toni chiari e la luce diffusa disegnano un ambiente domestico e accogliente, più vicino all’atmosfera di una casa che

“Un luogo restituito alla collettività, dove architettura e spazio pubblico diventano strumenti della comunità”

a quella di un edificio pubblico. Anche gli elementi di dettaglio come i serramenti color bronzo, le zoccolature in pietra bianca e le cornici sobrie delle aperture, compongono un linguaggio coerente, attento alla continuità con l’edificio esistente e con il carattere del borgo.

La sistemazione dell’area verde tra il centro civico e la scuola sarà presto ultimata, segnando il compimento di un intervento che ha trasformato un’assenza in presenza e un vuoto in comunità. Laddove la grande scala urbana fatica a produrre identità, la misura del locale torna decisiva. Qui l’architettura non è spettacolo, ma gesto civile: restituisce ai cittadini il diritto allo spazio comune, all’abitare condiviso e alla prossimità •

01. Il centro civico in una veduta generale esterna.

02. Ortofoto con l’inserimento del progetto nel contesto urbano.

03. Veduta da via Borgo della Chiesa: il rapporto dell’edificio con il tessuto preesistente.

04. Veduta generale: i due volumi perpendicolari definiscono lo spazio pubblico.

Dettaglio di un
Il fronte del centro per la famiglia con l’ingresso scavato nel volume.

09. Lo spazio di accoglienza e distribuzione al piano terra.

14. Dettaglio costruttivo di progetto.

15. Sezione generale dell’edificio.

Committente

Comune di Villa Bartolomea

Progetto e direzione lavori arch. Jacopo Rettondini

Consulenti

ing. Matteo Beozzi (progetto e d.l. strutture); Studio Maber-per.ind. Mauro Mantovani, ing. Fabio Bersan, per.ind. Alberto Turra (progetto. e d.l. impianti), geom. Matteo Buratto (sicurezza), studio Geo3 (indagini geologiche)

Imprese e fornitori

Jacopo Rettondini

Laureato nel 2016 in architettura presso il Politecnico di Milano-Polo territoriale di Mantova, nel tempo ha affiancato all’attività professionale anche la didattica presso il medesimo ateneo e la ricerca sui temi dell’abitare e dell’architettura del paesaggio. Si occupa di progettazione architettonica a diverse scale, dai tessuti urbani costruiti al restauro e al disegno di interni. Nel 2020 è autore del piano Legnago New Renaissance per la rigenerazione degli spazi urbani degradati della sua città natale (cfr. «AV» 125, pp. 94-97).

Vierre Costruzioni Generali (opere edili-stralcio a), Tieni Costruzioni 1836 (opere edili- stralcio b), Cauci Group Impianti (imp. meccanici), E.D.N. Impianti (imp. elettrici), Bertani Legno (strutture in legno), Superbeton (calcestruzzi), Iso-System (cartongessi e isolanti), Cumerlato (carpenteria metallica), Tekla (serramenti), Falegnameria Zuccoti (porte interne), Progetto Graffiti (pavimenti e rivestimenti), Unipav Service (pavimentazioni drenanti), Puttini (parquet), Odirizzi Porfidi (pavimentazioni esterne), Guiotto e Ghirello (lattonerie), Kompan Italia (giochi e gomma colorata)

Cronologia

Progetto: 2020-2023

Realizzazione: 2023-2025

15

Villa Bartolomea

EDUCAZIONE

Progetto: Ardielli Fornasa Associati

Foto: Marco Totè

Testo: Alberto Vignolo

GENEROSA

Una scuola per l’infanzia ricca di spazialità e modi d’uso conferma il centro storico di Bardolino come luogo della formazione e della comunità.

Tre sono i livelli di interesse della nuova scuola dell’infanzia De Gianfilippi con la quale Marco Ardielli e Paola Fornasa consolidano un intenso rapporto progettuale con Bardolino, dove nel tempo hanno costruito diverse architetture, sia private che pubbliche, a partire dalla riforma del lungolago realizzata negli anni 2006-2009.

Il primo livello riguarda la scala e il ruolo urbano di questo edificio per l’educazione, commissionato dall’amministrazione di un comune relativamente piccolo quanto a numero di abitanti (circa 7.000) ma, come l’intera area del basso Garda veronese, con numeri monstre di presenze turistiche e relative conseguenze, sia in negativo (traffico, congestione) che in positivo (ambizione, servizi).

In questo senso, il nuovo asilo rappresenta il tassello di un’idea che viene da lontano, che ha portato alla scelta controcorrente di rinnovare gli edifici scolastici mantenendo-

03

li nel tessuto storico piuttosto che trasferirne le funzioni in un qualche “polo” extraurbano, col rischio di svuotare il centro di vita civile e consegnarlo interamente ai beneamati/odiati turisti.

Un masterplan del 2019, sempre a firma Ardielli Fornasa, ha posto le basi del progetto, definendone in particolare le connessioni urbane in rapporto agli altri edifici scolastici. In questa fase ha origine l’idea, poi attuata, di deviare un breve tratto di strada per garantire continuità tra l’asilo e le adiacenti scuole primarie: un gesto apparentemente semplice, tranne che dal punto di vista amministrativo. È rimasta invece ancora sulla carta l’ipotesi ambiziosa di connettere tramite una passerella metallica sospesa il nuovo edificio con Villa Carrara Bottagisio, sede della Biblioteca civica – nonostante siano entrambi edifici di proprietà comunale, uscire dai recinti è sempre complicato – e soprattutto con il suo parco direttamente affacciato sul lungolago, tentando di riconqui-

“La scuola è un edificio civile, dunque deve mostrarsi solida e durevole, robusta come lo sono le case di mattoni”

starlo così all’uso dei (piccoli) cittadini bardolinesi. Si vedrà: intanto, di questo fil rouge pedonale evidenziato nel masterplan rimangono sull’asilo alcuni frammenti, una rampa e una scala metallica dal fiammante color arancio sangue.

Il secondo livello di lettura si concentra sull’aspetto dell’edificio, che si presenta come un solido volume a pianta quadrata interamente connotato da una densa tessitura di mattoni facccia a vista di colore chiaro, con una stilatura tono su tono che ne accentua la continuità materica (una finitura, questa, già sperimentata da Ardielli Fornasa in alcuni edifici residenziali, ad esempio Villa T, cfr. «AV» 127, pp. 36-49). La chiarezza della pianta quadrata assume un valore didattico, mostrando l’architettura della scuo-

01. Il fronte ovest della scuola con la rampa metallica, preludio di un percorso di connessione con Villa Carrara Bottagisio.

02. Un passaggio sospeso sul verde rappresenta la soglia reale e simbolica per l’accesso principale alla scuola.

03. Planimetria del masterplan del 2019 che ha definito i principi insediativi della scuola.

04. Il fronte est attestato su via Dante Alighieri.

la come un edificio in maniera “elementare”. La scuola è un edificio civile, dunque deve mostrarsi solida e durevole, robusta come lo sono le case di mattoni (ce lo insegnano anche le favole), educata nel porre il piano delle aule sulla via principale quasi a farne una diretta emanazione dello spazio pubblico, sviluppando i vasti spazi del livello inferiore per aprirsi a usi anche autonomi in orari extra scolastici.

Una fortunata circostanza ha fatto sì che l’edificio sia stato costruito da un’impresa altrettanto solida la quale, per il particolare tipo di appalto individuato, ha in carico anche la sua manutenzione per i prossimi vent’anni: il che ha portato a una esecuzione impeccabile, cosa che purtroppo nell’ambito delle opere pubbliche è da segnalare come una rarità.

Il terzo e ultimo livello riguarda l’organizzazione e la caratterizzazione degli spazi interni, estremamente ampi e accoglienti; oltre alla scuola dell’infanzia, l’edificio accoglie anche un nido integrato.

Una volta varcato il ponticello di accesso da via Dante Alighieri, la geometria quadrangolare dell’impianto si rompe in un turbine centripeto, con l’ampio atrio a tutta altezza entro il quale corre la scala curvilinea che va dal livello inferiore a quello di copertura, utilizzabile come un giocoso playground in piena sicurezza. La dimensione ludica degli spazi a misura d’infanzia si esprime appieno in un uso giocondo del colore e dei grafismi a parete, per il divertimento dei piccoli utenti della scuola (e degli architetti che li hanno pensati).

La nuova scuola dell’infanzia di Bardolino è così pronta ad accogliere genitori e figli di una comunità che si dimostra matura nell’affrontare un investimento lungimirante. I progettisti hanno fatto la loro parte: agli abitanti del luogo e a chi vi si trasferirà il compito – non del tutto ingrato, si dice – di far nascere i bimbi che animeranno la scuola, e che potranno crescere e imparare in uno spazio educato e generoso. •

05. Nel fronte sud il volume arretrato definisce l’accesso indipendente agli spazi per le attività extra scolastiche; sul fondo, l’edificio delle scuole medie.

06. Veduta serale dello spazio gioco in copertura.

07. Il fronte sud verso le adiacenti scuole elementari.

08-09. La rampa metallica sul fronte ovest.
10. Veduta interna della scala con i grafismi colorati a decoro della parete sulla quale poggia.
11. Interno del vano di ingresso all’asilo nido integrato.

12. L’atrio centrale è una piazza coperta caratterizzata dai tre “occhi” di luce naturale aperti sul playgrond della copertura.

13. Gli spazi destinati all’asilo nido visti dal suo atrio.

Veduta attraverso il vuoto del vano scale verso la piazza coperta.
15. Piante piano seminterrato e piano terra.
16. Sezione trasversale sul corpo scale.

Committente

Comune di Bardolino

Progetto architettonico

Ardielli Fornasa Associati

arch. Marco Ardielli, arch. Paola Fornasa

Collaboratori

arch. Jacopo Pizzini, arch. Elia Molon, arch. Walter De Marchi

Ardielli Fornasa Associati

è uno studio di architettura, masterplanning e consulenza strategica con sede a Verona.

Condotto da Marco Ardielli e Paola Fornasa, lo studio ha sviluppato negli anni la capacità di gestire progetti complessi, in Italia e all’estero (dall’Arabia Saudita alla Cina, dalla Georgia al Kenya), ottenendo numerosi riconoscimenti in progetti, concorsi, pubblicazioni e mostre. Opere dello studio Ardielli Fornasa si sono aggiudicate il Premio ArchitettiVerona nel 2015 e nel 2021.

www.ardiellifornasa.com

Progetto strutture

Studio di ingegneria RSing. Stefano Secchi

Progetto impianti

Ingea - ing. Paolo Munno

Consulenti

Studio Nucci - dott. geol. Enrico Nucci (geologia)

Ingea - ing. Gianfranco Sforni (CSP)

Direzione lavori

Alighieri50

arch. Cristina Bellamoli, arch. Michela Pinamonte

Impresa esecutrice

RTI Raggruppamento temporaneo di imprese

Setten Genesio (mandataria)

Mediocredito Trentino Alto Adige (mandante - progetto finanziario)

Bardolino

FORMA

Progetto: Gruppo Marche

Testo: Giorgia Negri

Il progetto di una palestra scolastica definisce in modo essenziale le relazioni tra spazi e usi, elementi strutturali e definizione formale.

E STRUTTURA

La palestra della scuola secondaria di 1° grado “P.D. Frattini” di Legnago costituisce il terzo stralcio del nuovo complesso scolastico, che ha assunto un ruolo centrale nel processo di rigenerazione dell’area denominata “ex Zuccherificio”, contribuendo alla nascita di un polo urbano dedicato all’educazione, allo sport e alla socialità. L’impianto nasce a servizio della scuola ma, al contempo, è a disposizione della comunità per lo svolgimento di diverse attività sportive agonistiche, in particolare basket e pallavolo. Il progetto si inserisce tra due aree verdi: a ovest, il giardino scolastico ricreativo e, a est, il Parco fluviale del fiume Bussè, che costituisce un invaso di invarianza.

Lo studio Gruppo Marche sviluppa il design del nuovo impianto fin dalla fase preliminare sulla base di alcuni vincoli, tra cui l’obbligo di utilizzo del legno per la struttura e il conseguimento della certificazione Casa Clima, rispettando un budget contenuto. Il concept di progetto gioca principalmente sui contrasti tra i volumi, i colori, i pieni e i vuoti.

Dall’esterno, l’edificio si presenta composto essenzialmente da due volumi, dei quali si evincono facilmente le rispettive destinazioni: il corpo principale a doppia falda, più alto e scuro, ospita il campo da gioco, cir-

condato su tre lati da un basamento bianco che accoglie gli spogliatoi e gli ambienti di servizio. Il volume principale è concepito come una forma pura che rievoca un archetipo tipologico, rivestito da una lamiera continua color testa di moro, senza aperture; il basamento costituisce il corpo accessibile e permeabile, scandito dall’alternanza di superfici intonacate e vetrate che guidano verso gli accessi.

La composizione esterna così definita rivela all’interno del volume principale una architettura complessa; forma e struttura si fondono con l’obiettivo di massimizzare l’ampiezza del campo da gioco e ottenere un volume privo di ingombri strutturali e visivi. La struttura portante è costituita da pilastri in legno lamellare a “V” che sorreggono un sistema di copertura a capriate spaziali costituito da travi in lamellare e tubolari in acciaio verniciato.

Così come la forma, anche i colori neutri dei rivestimenti esterni contrastano in modo netto con quelli più audaci scelti per gli interni: blu e arancione per gli spogliatoi, e diversi toni di verde e blu per il pavimento e le pareti dello spazio di gioco; il nero del tamponamento acustico all’intradosso della copertura enfatizza la superficie del campo da gioco e, allo stesso tempo, fa emergere la trama e i dettagli costruttivi della struttura reticolare.

01. Veduta esterna con la grande vetrata sul lato ovest in corrispondenza del volume perimetrale porticato.

02. Il fronte con gli accessi esterni per il pubblico delle manifestazioni sportive attraverso il corpo dei servizi e degli spogliatoi.

03. Particolare del rivestimento in lamiera color testa di moro del volume principale.

04. Il contrasto tra volume principale e basamento è accentuato dalle scelte cromatiche.

La palestra è collegata all’edificio scolastico tramite una pensilina esterna che prosegue lungo i tre lati del basamento, sorretta da sottili pilastri metallici che conferiscono ritmo alla facciata; essa inoltre crea ombreggiamento sul lato ovest in corrispondenza dell’unica grande vetrata che dà luce al campo da gioco, evitando fenomeni di abbagliamento nelle ore pomeridiane. Tra il corpo principale e il basamento, è ricavato per sottrazione volumetrica un cortile che illumina il disimpegno degli spogliatoi, confe-

rendo qualità a uno spazio normalmente privo di luce naturale.

Dal punto di vista delle prestazioni ambientali, la palestra segue il rigido protocollo Casa Clima School. L’edificio è classificato come NZEB grazie a un involucro altamente performante combinato a un sistema impiantistico efficiente, composto da pompe di calore per il riscaldamento a pavimento e climatizzazione ad aria, VMC con recupero di calore e pannelli fotovoltaici e solari integrati in copertura.•

05. Pianta e sezione dell’impianto sportivo.
06. Veduta d’insieme sullo spazio di gioco.

07. Assonometria della struttura prima di tutti i rivestimenti.

08. Particolare di un nodo del telaio spaziale.

09. Il colore nero dei pannelli fonoassorbenti all’intradosso della copertura evidenzia la trama della struttura portante.

10. Dettaglio di uno degli spogliatoi.

11. La sezione consente di leggere il rapporto tra il volume principale della palestra e il portico addossato.

12. Veduta sulle tribune per il pubblico.

13. Pianta della carpenteria di copertura.

Gruppo Marche è uno studio associato con sedi a Macerata e Roma, nato nel 1969 da un gruppo di architetti e ingegneri di età e formazione differente. Nel corso degli anni Novanta ha ampliato la propria area di azione e, pur conservando nel nome il riferimento alla sua terra di origine, opera sull’intero territorio nazionale prevalentemente nel campo delle opere pubbliche per la sanità, l’educazione e il restauro. Lo studio si è aggiudicato numerosi concorsi di progettazione, oltre a riconoscimenti In/Arch per l’innovazione e in ambito BIM.

www.gruppomarche.it

Committente

Comune di Legnago

Progetto

Gruppo Marche arch. Alessandro Castelli (progetto architettonico) ing. Fabrizio Cioppettini (progetto strutturale e impiantistico) arch. Enrico Castelli, arch. Patrizia Cercone, arch. Chiara Ophelia Schiatti, ing. Michele Paccaloni, arch. jr. Paolo Castelli (collaboratori alla progettazione)

Direzione lavori e sicurezza

Gruppo Marche ing. Fabrizio Cioppettini

Imprese

ATI Imola Legno-Elettra Impianti

Cronologia

Progetto: 2017

Realizzazione: 2020

Legnago

UN GESTO DI RIGENERAZIONE LUOGO RESTITUITO DOVE ARCHITETTURA DIVENTANO STRUMENTI

RIGENERAZIONE SOCIALE, UN ALLA COLLETTIVITÀ,

E SPAZIO PUBBLICO

STRUMENTI DELLA COMUNITÀ.

FUORI LUOGO,

Progetto: Padiglione B

Foto: Federico Villa

Testo: Luca Ghirardo

Un bar dalla forte vocazione sociale rinasce

grazie a un allestimento interno in grado di definire uno spazio inclusivo.

01. Veduta d’insieme dello spazio riallestito come bar “Fuori Luogo”.
02. Particolare del bancone.

Quello che ha recentemente interessato il rinnovamento del bar Fuori Luogo, ricavato negli spazi di Villa Buri a Verona – dimora di origine seicentesca costruita in un grande parco in riva all’Adige, andata in rovina a partire dal dopoguerra e dall’inizio degli anni Duemila destinata ad usi sociali, relazionali ed educativi – è un progetto d’interni che nasce dalla volontà della cooperativa sociale Panta’Rei di offrire un luogo con cui dare la possibilità a persone con sofferenza psichica di riconnettersi al tessuto sociale mediante il lavoro.

Il locale intende porsi come un punto d’incontro che intreccia convivialità, cultura e socialità, così come l’artigianalità dei prodotti alimentari della cooperativa qui posti in vendita. che fanno parte dell’esperienza stessa di chi lo fruisce. In questo contesto

infatti, il fil rouge del progetto si rivela essere proprio l’artigianalità; questo senso di “saper fare bene con poco”, di collaborazione tra progettisti, artigiani, fornitori e committenza che esalta il valore umano e comunque rimane sensibile rispetto al “contenitore” in cui si inserisce.

Per i progettisti di Padiglione B dunque, ogni dettaglio deve trasmettere e raccontare l’impegno sociale di Panta’Rei pur senza toccare le murature storiche della villa, individuando il giusto approccio nel concetto di reversibilità.

Il concept è al contempo essenziale ed efficace; la stanza principale presenta un allestimento che, come dicono i progettisti, si comporta come una ‘scatola nella scatola’. L’intero spazio è ordinato da un unico elemento di arredo, composto dall’incrocio di due portali realizzati con un reticolo spazia-

03. La facciata sud di Villa Buri. 04. Veduta frontale sul bancone del bar.

05. Dettaglio del telaio in legno e del suo principio di assemblaggio.

06-08. Vedute interne sui portali a graticcio che gestiscono e ordinano lo spazio principale del bar.

le in legno di abete posti in corrispondenza degli assi longitudinale e trasversale. Qui la struttura a graticcio, con i suoi spazi vuoti (e modulari!) offre una incredibile versatilità: le porzioni verticali diventano espediente per integrare, da un lato, alcune delle attrezzature del bar, così come diventano occasione per esporre i prodotti della cooperativa, dall’altro. Il traliccio a soffitto si configura come un ottimo punto di supporto per i corpi illuminanti, composti da tre pendenti riservati al bancone e da due binari con faretti orientabili dedicati allo spazio restante. Gli interni presentano una palette dai toni che richiamano il parco e i materiali naturali, come il color “verde foresta” delle piastrelle smaltate posate in verticale che ritmano,

“L’intero spazio è ordinato da un unico elemento di arredo, composto dall’incrocio di due portali realizzati con un reticolo spaziale in legno di abete”

in alternanza a listelli di legno, il rivestimento del banco bar, o come il color mattone che ritroviamo nella tinteggiatura dei soffitti dell’ambiente principale, che rimarca i toni caldi del pavimento in terrazzo.

Le possibilità d’uso del locale sono poi ampliate dalla presenza di un secondo ambiente, adiacente al primo, in cui hanno luogo cene, incontri ed eventi organizzati dalla cooperativa durante l’arco di tutto l’anno. Qui le pareti sono caratterizzate da una carta da parati decorativa su sfondo ocra, disegnata per l’occasione da UOL Arte Modulare, raffigurante alberi, fiori e animali che, seppur con reinterpretazioni esotiche, offrono un chiaro omaggio al contesto naturale che incornicia la villa.

A completare l’arredo vi sono un piccolo espositore in legno ricavato nel vano di una vecchia porta, luci diffuse a binario e soffitti bianchi.

Pianta di progetto.
Prospetto interno sul bancone.

Committente

Cooperativa Panta’Rei

Progetto

Padiglione B studio associato arch. Chiara Beatrice Tenca, arch. Alberto Bassi

Collaboratrice

Chiara Cavedini

Padiglione B

è uno studio fondato nel 2018 dagli architetti

Chiara Beatrice Tenca e Alberto Bassi. Lo studio opera sia nell’ambito del recupero architettonico, confrontandosi con il costruito, che nello sviluppo dell’interior design, lavorando alla piccola scala. Tra i lavori pubblicati ricordiamo due interni domestici, a Bovolone (Spina dorsale, in «AV» 127, pp. 81-83) e Salizzole (Chef di spazialità, in «AV» 133, pp. 70-72).

www.padiglioneb.it

Imprese e fornitori

B2 Costruzioni (opere edili), PDM Falegnameria (allestimento interno), Comet (illuminazione), Biemme Impianti di Marco Bertagnoli (impianti elettrici), Clima Works (impianti idrici), Marazzi (rivestimenti), UOL (carte da parati), Elena Piccolboni (illustrazioni), Idea Grandi Impianti (elettrodomestici)

Cronologia

Progetto e Realizzazione: maggio-luglio 2025

Verona

Di nuovo luoghi dell’attesa, questa volta “chiusi per ferie” nel vuoto e silenzio stagionale: pensando al caldo di agosto, con queste stesse strutture piene di turisti fino a tarda notte.

CLOSED FOR VACATIONS

Curiosamente e quasi per caso, se nello scorso numero di «AV» il Portofolio ha inseguito lungo strade e paesaggi della provincia i punti di sosta destinati all’attesa dei viaggiatori sui mezzi di trasporto locale – le pensiline degli autobus pubblici – il viaggio continua lungo le sponde del Garda, con una declinazione di luoghi, usi e tempi del tutto particolare.

In senso stretto, si tratta di strutture appartenenti alla medesima famiglia, ovvero piccole architetture di servizio per un sistema di trasporto, che in questo caso è costituito dalle linee di navigazione lacustre, ovvero battelli aliscafi veloci e traghetti.

È questo sistema che il fotografo Luca Sironi ha colto in stato di quiescenza stagionale, quando questi oggetti appaioni muti e quasi in abbandono. La navigazione istituzionale sul lago di Garda è attiva infatti da marzo a ottobre; durante i mesi invernali, i traghetti sostano nei cantieri navali o sono ormeggiati in qualche porto. Anche le biglietterie, situate nei principali moli sulle rive del lago, rimangono chiuse. Queste biglietterie sono piccole strutture per lo più anonime, spesso prefabbricati semplicemente appoggiati vicino agli approdi dei mezzi, e in estate sono visitati da migliaia di turisti.

“Poi arriva l’inverno. L’inverno è tutta un’altra storia. La maggior parte dei paesi sul lago sono semideserti, città fantasma. Il vento è freddo, fa buio presto e le acque appaiono più sinistre.

Chi lavora qui ad agosto, ora è in vacanza. Il lago è chiuso per ferie”. •

01. Desenzano del Garda.

02. Lazise.

03. Gardone Riviera.

04. Garda.

05. Peschiera del Garda.

06. Torri del Benaco.

07. Malcesine.

* Luca Sironi è un fotografo italiano che opera a Milano. È interessato al rapporto tra luoghi e memoria, in particolare all’interpretazione dei luoghi in base all’esperienza e ai ricordi di ognuno di noi. L’immobilità rarefatta e quasi ieratica delle sue serie fotografiche può far riflettere su ciò che questi luoghi raccontano. Una narrazione che spesso è elaborata dall’interpretazione personale o dall’interpretazione di un immaginario collettivo (www.lucasironi.net).

AVDI LA BACHECA AVDI

BACHECA DI AV LA BACHECA DI AV

Lampade sul Serio

Catellani&Smith: una ricerca totale di attenzione e di espressione dò origine a lampade costruite interamente nelle officine sulle rive del fiume Serio, in provincia di Bergamo

Nata nel 1989, Catellani & Smith riflette la personalità artistica del suo fondatore Enzo Catellani e la sua spontanea ironia, svolgendo da oltre trent’anni un lavoro in continua evoluzione, a metà strada tra arte e artigianato.

Le creazioni luminose di Enzo Catellani sono oggetti con un’anima, che raccontano l’importanza e l’unicità di un prodotto fatto ‘con le mani’.

Questo distintivo e personale approccio al design, unito alle più avanzate ricerche in campo tecnologico, impegnano l’azienza anche nella produzione di realizzazioni speciali per spazi privati e pubblici, come musei, gallerie d’arte, teatri, hotel, manifestazioni ed eventi.

Alla storica sede, situata in un antico mulino restaurato a pochi chilometri da Bergamo, si sono aggiunti negli anni i laboratori produttivi posti lungo il fiume Serio e nell’area industriale, caratterizzati da ampi spazi luminosi e terrazze coperte di gelsomini.

Nel 2018 apre inoltre la nuova sede operativa, in cui design, illuminazione e natura si fondono in un ambiente di lavoro piacevole, in linea con la filosofia aziendale. Da alcuni anni la gestione di Catellani & Smith è affidata ai figli Giulia e Tobia, i quali, pur attuando nuove strategie, hanno dato continuità al percorso tracciato dal padre, sempre impegnato nella parte creativa.

TEL +39 045 810 1138

01. Fil-de-Fer 02. A sinistra: Ale BE T e Ale BIG. Al centro: PostKrisi Cw 70. A destra: Stchu-Moon 05, oro. 03. Ensō.

Dal centro alla periferia

Cierre edizioni indaga a tutto tondo il patrimonio architettonico veronese

Nel corso del 2025 Cierre edizioni ha dato alle stampe due importanti opere che indagano il patrimonio architettonico veronese da due prospettive differenti e al tempo stesso complementari.

Al “centro del centro” si situa il ricco volume fotografico dedicato alle Arche Scaligere di Verona. Il recinto delle Arche Scaligere, posto fisicamente e simbolicamente nel cuore dei luoghi del potere civico cittadino, accoglie le sepolture della dinastia che ha retto le sorti di Verona fra il 1277 e il 1387 e costituisce un unicum straordinario dell’arte gotica europea.

Il volume, attraverso un entusiasmante viaggio per immagini, restituisce un inedito ritratto di questo articolato complesso funerario grazie alla nuova campagna fotografica realizzata da BAMSphoto Rodella, affiancata dal testo di Angelo Passuello, dall’introduzione di Ettore Napione e da un contributo di Francesco Salvestrini.

Nella “periferia”, intesa come territorio dell’intera provincia veronese, dalla Lessinia alla Bassa, un’indagine a tappeto è quella che ha condotto Francesco Monicelli a costruire un vero e proprio viaggio nel tempo attraverso le immagini delle Ville Veronesi. Due volumi in cofanetto, per complessive 768 pagine, documentano 580 ville, dalle più note e prestigiose a quelle meno note, alcune delle quali finora inedite.

L’opera si articola in sei capitoli, ciascuno dedicato a un secolo, dal Quattrocento al Novecento, e al contestuale evolversi delle varie tipologie di villa. Il ricchissimo corredo iconografico è costituito da foto inedite di Lucio Gorzegno e Mario Cargnel, da cartoline d’epoca, progetti, disegni, quadri, e da fotografie recenti di Cesare Gerolimetto e altri autori.

Due opere che non solo arricchiscono il catalogo della casa editrice e gli studi su Verona e il Veronese, ma che possono costituire anche un prezioso regalo di qualità per le festività che arriveranno a breve (e anche dopo).

CIERRE EDIZIONI

VIA CIRO FERRARI 5

37066 CASELLE DI SOMMACAMPAGNA (VR)

TEL +39 045 858 1572

EDIZIONI@CIERRENET.IT

HTTPS://EDIZIONI.CIERRENET.IT

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