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INDICE
Costruire paesaggi, coltivare visioni
concorso per l’Ossario
Allestire tra libertà e resistenza
Ci mette il becco LC. Circolare
DOCUMENTI
PORTFOLIO
Valorizzare fortissimamente valorizzare
Gli Angeli di Muzio
In copertina e a lato: G. Muzio, cappella dell’Educandato agli Angeli, Verona, particolari.
Foto: Lorenzo Linthout
Elaborazione: Happycentro.
Si chiamerà Futura
Giardino di Pojega: un restauro vivente
VERONA, ITALIA
Il cronico conflitto tra norma e forma deborda dalle vicende milanesi assurte a caso nazionale per riversarsi in una lettura inevitabilmente localistica.
Se c’è qualcosa di buono nelle vicende che da mesi hanno visto il capoluogo lombardo – un tempo definito “capitale morale”, oggi a quanto pare culla di pratiche molto più amorali – finire in un tritacarne giudiziario, politico-amministrativo e comunicativo, è di aver riportate nel discorso pubblico un termine da tempo dimenticato se non sepolto, sia in termini disciplinari che di prassi operativa: l’urbanistica. Ci si accontenta infatti da tempo della ben più prosaica “pianificazione”, come se l’arte di costruire la città fosse materia da consultorio e il semplice (anzi complicatissimo) portato di un insieme di norme. A quanto si è appreso, e a prescindere dalla correttezza e liceità di comportamenti rispetto ai quali è necessario lasciare il giudizio a chi di competenza, è in nome della forma urbis che un organismo tecnico-consultivo come la Commissione comunale per il Paesaggio ha operato con ampi margini di derogabilità anche dalle stesse norme urbanistiche – resi possibili da un’interpretazione evidentemente assai lasca delle leggi – in nome e per conto di quel vero feticcio che è la “rigenerazione urbana”. Arrivando in sostanza a codificare che la nuova architettura possa avere, addirittura, un impatto qualitativamente positivo nel contesto urbano e pesaggistico.
Rispetto a questa visione, non ci si può nascondere un retro pensiero più o meno confessabile: avercela, una commissione “alla milanese”, rispetto a una prassi di valutazione secondo la quale ogni intervento nel paesaggio (anche urbano) deve essere celato,
mitigato e comunque messo in sotto tono rispetto a uno status quo che, per il semplice fatto di esistere, è sicuramente migliore di ciò che deve ancora essere realizzato (e questo viene tenuto in conto anche per contesti paesaggistici da tempo compromessi rispetto a decreti di vincolo antidiliviani e anacronistici); che il passato sia sempre e comunque migliore del presente o di un futuro possibile.
Continuando a toccare i nervi scoperti dalla vicenda, non si può fare a meno di pensare che a Milano qualcuno avrà combinato delle marachelle (diciamo), però almeno si è tornati a parlare di architetti con un ruolo e una centralità sociale di cui non si aveva più memoria, assuefatti come siamo alla irrilevanza della nostra categoria che ogni giorno misuriamo. E ancora: certo, si è fatto qualche pasticcio sciacquando la regolamentazione edilizia nel Lambro, però almeno lì si è costruito, eccome! Grandi comparti urbani, infrastrutture, case e palazzi ovunque: e torri e grattacieli. Qualche punta di sana invidia?
Ciò che emerge come questione generale, che è facile estendere dalla direttissima Milano-Verona al resto del paese, è una riflessione sulla centralità di un organismo –la Commissione per il Paesaggio, fatti salvi i differenti quadri normativi a livello regionale – il cui funzionamento chiama in causa, in ultima istanza, competenza e correttezza dei suoi componenti e, specularmente, il comportamento dei soggetti che vi si rapportano. E se dalle cronache abbiamo imparato a conoscere nominativi e volti di chi operava in ambito meneghino, un alone di sintomatico
mistero continua a rivestire l’identità di chi nei nostri territori, tra capoluogo e provincia, ne rappresenta il corrispettivo. Nomi che più o meno si desumono, si sussurrano, si condividono come informazione privilegiata e preziosa: ma che non figurano in maniera palpabile nel sito di uno qualunque dei comuni del veronese, dove saranno senz’altro annidati in qualche oscuro recesso della “trasparenza amministrativa”.
Eppure questa opacità fuori luogo non giova alla reputazione degli stessi commissari, che nel fornire l’agognato responso paiono così come oracolari Pizie. La ritualità di questo passaggio amministrativo è di fatto del tutto discrezionale e autoreferenziale, capace perciò di fare il bello e il cattivo tempo – per tutte le stagioni – di ogni trasformazione urbana. Viene anche il sospetto che, talvolta, certe indicazioni o prescrizioni siano improntate a una semplice necessità di affermazione del proprio ruolo (vuoi non richiedere almeno un cambio di materiale, un RAL per una facciata?) piuttosto che a una effettiva ragione di merito, nella quale dovrebbe consistere la ratio del giudizio paesaggistico. Un sistema che, così com’è, non soddisfa nessuno e produce solamente arbitrio, lentezza e, ad essere drastici e provocatori, il peggioramento di ogni progetto che passi al vaglio. Perché delle due l’una: o una commissione si carica di un ruolo propositivo, entrando nel merito delle scelte progettuali matita alla mano, come si faceva ai tempi dell’università davanti a un professore, o interpreta viceversa un ruolo meramente
censorio, dando parere negativo a soluzioni progettuali giudicate non appropriate, nell’attesa che il progettista ravveduto proponga di suo qualcosa di meglio. Per tacere di pareri espressi in maniera tale da risultare sostanzialmente ambigui e cautelativi – gli avvocati sono sempre in agguato – piuttosto che con parole chiare, nette e comprensibili, delle quali avremmo tutti un gran bisogno: un linguista in commissione farebbe la dovuta differenza.
Rimane una questione di fondo: mentre i progettisti sono sempre più caricati di responsabilità per gli aspetti normativo-burorocratici, tra autocertificazioni, scie e scie chimiche – e di questa apparente “semplificazione” c’è poco da esser contenti, a festeggiare sono solo broker e assicuratori – il controllo degli aspetti morfologici ed espressivi – il bello del progetto! – viene in sostanza vagliato da una struttura amministrativa pubblica. Che peraltro continua ad essere una sorta di giudizio semi-universale, in attesa dell’ultimo grado di Cassazione (leggasi Soprintendenza).
In fondo il caso Milano, al netto delle sue degenerazioni dovute dall’aver tirato per la giacchetta la normativa (fino a sbregarla un pochino), ha proposto un modello che pare quanto meno da discutere: un tavolo di confronto o “concertazione” dove vengono (venivano) posti in gioco contestualmente aspetti qualitativi e aspetti quantitativi, in vista di un obiettivo superiore (la riforma di una parte di città). Perchè parlare del “come” tenendo ferme le bocce del “quanto” è una
sostanziale ipocrisia, e la tutela del paesaggio la si determina più quando si pianifica che quando si progetta in un quadro ampiamente determinato.
Il ruolo esteso della Commissione per il Paesaggio di Milano le ha conferito un potere assoluto che è all’origine, nel bene e nel male, delle travolgenti trasformazioni della città negli anni recenti. Appare evidente, però, come a questo ruolo cruciale debbano essere chiamate personalità di elevatissimo profilo, che per la delicatezza e responsabilità della funzione debbano essere altresì compensate in maniera adeguata. Se invece, come è prassi, e nonostante procedure sicuramente ineccepibili dal punto di vista formale, ad essere chiamati nelle varie commissioni sono personaggi rispetto ai quali lo “stupore” è la minima della reazioni possibili (“ma davvero quello-quella lì?”), allora i termini della questione cambiano. Chi del resto si può accontentare sostanzialmente di una pacca sulla spalla, con l’aspettativa silente di un qualche tipo di ricompensa a latere (un bell’incarichetto?) e soprattutto dell’incremento del proprio rating professionale? ll nodo dei conflitti di interesse si è palesato persino in una metropoli, figuriamoci in una piccola città o nei nostri paesotti. Questione delicata, che chiama in causa i comportamenti di ciascuno e dunque aspetti di deontologia: che pongono l’asticella ben più in alto della imprescindibile correttezza giuridica, là dove dovrebbe porsi il ruolo civile e culturale dell’architetto come professionista colto. •
ODEON
Due laboratori contemporanei e un concorso d’annata, un libro e una mostra tra storia e storia urbana, per tornare a uno dei fondamenti della visione moderna della città.
Costruire paesaggi, coltivare visioni
Testo: Catherine Dezio, Silvia Marchesini
Dipartimento Territorio e Sistemi Agroforestali
Università degli Studi di Padova
Un corso dell’Università di Padova ha proposto una lettura integrata dell’ambiente e del paesaggio come elementi prioritari e strategici per lo sviluppo della città.
Secondo la Convenzione Europea del Paesaggio (2001), il paesaggio è l’espressione visibile e viva della relazione tra persone e territorio, insieme delle esperienze spaziali, sociali ed economiche che intervengono in un determinato spazio. È un elemento in trasformazione, prodotto culturale frutto di stratificazioni storiche, pratiche quotidiane e
trasformazioni ambientali. Il paesaggio di Verona è multiforme e queste relazioni si leggono chiaramente nella presenza di elementi ricorrenti che conferiscono continuità e riconoscibilità al territorio. Parliamo di iconemi (Turri, 1998): segni capaci di orientare lo sguardo, di attivare una memoria collettiva e un senso di appartenenza. Tra questi, la linea blu dell’Adige, il sistema collinare, le fortificazioni, i forti e le costruzioni storiche, la trama agricola. Tuttavia, l’identità paesaggistica viene spesso letta in chiave rigidamente conservativa. È invece urgente una nuova prospettiva progettuale, adattiva e flessibile, capace di connettere cura dei luoghi e immaginazione del futuro, per rispondere in maniera resiliente a transizioni importanti quali il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità, la crisi del suolo, la mobilità insostenibile, la crescita urbana disordinata.
In questo scenario nasce, nel 2024, il Laboratorio di Pianificazione Territoriale dell’Università di Padova, all’interno dei corsi di laurea in Riassetto e Tutela del Territorio e in Pianificazione e Gestione del Territorio e del Verde (classe L21), entrambi incardinati nella Scuola di Agraria e Medicina Veterinaria. Il laboratorio1 si basa su una didattica sperimentale, situata nei luoghi e costruita attraverso l’esperienza diretta, in dialogo con amministrazioni, associazioni e cittadini. La cornice portante è “Sei parchi per Verona”, una visione di medio-lungo periodo che individua sei sistemi territoriali strategici da rileggere in chiave socioecologica: Parco dell’Adige, Parco delle Mura, Parco dei Forti, Parco delle Risorgive, Parco delle Colline, Parco Agricolo. Ogni anno accademico è dedicato a uno di questi sistemi, e propone agli studenti di immaginare progetti concreti, sostenibili e radicati nei luoghi.
Di pari passo alla visione di Donella Meadows, Pensare per Sistemi, ciò che sottende a questa intenzionalità non è soltanto il risultato di uno sguardo dialogico dei molteplici sistemi paesaggistici che costituiscono l’identità di Verona, ma anche proprio
l’impostazione di una metodologia didattica di analisi territoriale orientata a una lettura integrata dell’ambiente e del paesaggio come elementi prioritari e strategici per lo sviluppo della città.
Nel primo anno (2023-24) il laboratorio si è concentrato sul Parco dell’Adige: cinque gruppi di studenti hanno lavorato su aree chiave dei Parchi dell’Adige Nord e Sud. Le proposte hanno affrontato temi come la mobilità lenta, la cura dei margini fluviali, la valorizzazione dei beni comuni, la rigenerazione agricola e paesaggistica. Tra le ipotesi progettuali: un ecomuseo dell’agricoltura storica, un percorso ciclopedonale tra Forte Santa Caterina e il Lazzaretto, l’apertura educativa del Giarol Grande, la ricucitura dei lungadige urbani. Obiettivo comune: ricostruire una relazione viva tra città e fiume, riscoprendo l’Adige come infrastruttura ecologica e culturale.
“Questo approccio alla formazione trasforma l’università in un presidio attivo nel territorio, capace di contribuire in modo concreto a una cultura della transizione ecologica”
Nel secondo anno (2024-25) il tema è stato il Parco delle Mura e dei Forti, sistema complesso che abbraccia la città e ne custodisce la memoria militare. Il lavoro è stato impostato come progetto corale, con l’obiettivo di costruire una visione unitaria per un grande parco lineare che colleghi i forti austriaci, le Mura magistrali, le Torri Massimiliane e i percorsi collinari. Ogni gruppo ha sviluppato un segmento, curando gli innesti tra architettura storica, spazi sociali e di mobilità, e reti ecologiche. Il risultato è una cintura verde multifunzionale, capace di riconnettere centro e periferie, natura e memoria, rendendo accessibili spazi oggi sottoutilizzati.
Il laboratorio si articola attraverso una metodologia interdisciplinare e situata, che integra sopralluoghi, rilievi partecipati, analisi
di contesto, dialoghi con gli amministratori, workshop progettuali e restituzioni pubbliche. Ogni esame si conclude con un evento nei territori progettati, aperto ad amministratori e comunità locali.
Questo approccio alla formazione trasforma l’università in un presidio attivo nel territorio, capace di contribuire in modo concreto a una cultura della transizione ecologica. Per gli studenti, il laboratorio rappresenta un momento formativo intenso e trasformativo. Lavorare in gruppo su luoghi reali, interrogarsi su temi complessi, confrontarsi con le istanze locali permette di acquisire strumenti tecnici, ma anche senso critico e consapevolezza del proprio ruolo. Progettare il territorio significa oggi assumersi una responsabilità collettiva: riconoscere i valori latenti dei luoghi, ridurre le disuguaglianze, costruire scenari di giustizia ambientale. L’impostazione del laboratorio ha dimostrato che la didattica può essere uno spazio di innovazione, in cui le università non si
01. 02. Due istantanee dei sopralluoghi effettuati nell’ambito del progetto “Sei parchi per Verona”.
1 Tenuto dalla prof.ssa Catherine Dezio (anche vice presidente del corso di laurea), con la collaborazione dell’arch. Silvia Marchesini (PhD student presso il dottorato internazionale LERH-UNIPD). Il Laboratorio ha vinto il Premio Arqus UNIPD 2024 – Pratiche didattiche innovative, IV edizione.
Riferimenti bibliografici: Convenzione europea sul Paesaggio, 2000
Eugenio Turri, Il paesaggio come teatro. Dal territorio vissuto al territorio rappresentato, Marsilio 2001
debbano limitare a trasmettere conoscenze, ma possono generare valore e produrre impatto sociale. In un tempo in cui la ricerca è spesso ostacolata da vincoli burocratici e la terza missione faticosamente riconosciuta, esperienze come questa dimostrano che una terza via per un nuovo ruolo attivo dell’università nella società contemporanea è possibile, basata sulla formazione, la progettualità e la cura condivisa del paesaggio. •
03. Tavola sinottica con i progetti didattici del Laboratorio di Pianificazione Territoriale dell’Università di Padova.
Donella H. Meadows, Pensare per sistemi. Interpretare il presente orientare il futuro verso uno sviluppo sostenibile, Guerini e associati, 2019
Un concorso per l’Ossario
Testo: Carlo Saletti
Il monumento funerario di Custoza, innalzato sul colle del belvedere nel 1879, nasce da un interessante confronto progettuale.
Come tanta parte dell’architettura memoriale, fiorita nell’Italia post risorgimentale, anche l’Ossario di Custoza, dove sono raccolte dal 1879 le spoglie dei caduti delle battaglie del 1848 e del 1866, è frutto dell’iniziativa di un comitato di cittadini – oggi si direbbe della “società civile” –, di una sottoscrizione nazionale e internazionale, di un concorso di idee. Sono questi tre elementi che, precisamente, hanno costruito la memoria pubblica nell’Italia unitaria e, poi, umbertina.
Sotto il profilo architettonico, la storia del Ossario, nato da un’intuizione dell’allora parroco di Custoza don Gaetano Pivatelli, può essere riassunta in cinque tappe:
Maggio 1877 – Nel 1876, il comitato promotore dell’Ossario indice un concorso per il progetto del monumento funerario. L’edificio dovrà avere “carattere civile”, ospitare “un altare semplice e severo, [possedere] proporzioni spigliate ed essere elevato in modo da poter essere visto da lontano, con possibilità di salirvi”. Al bando partecipano 67 architetti con 82 progetti.
Giugno 1877 – Al fine di suscitare una riflessione sulla stampa e favorire una discussione nell’opinione pubblica sul previsto ossario e sulla sua estetica, i progetti vengono esposti negli spazi della Gran Guardia di Verona, ampio edificio affacciato sull’Arena romana, dal 10 al 24 giugno, data anniversaria della battaglia combattuta undici anni prima a Custoza e nei suoi dintorni. “Per vantaggio della pia e patriottica” impresa che porterà alla costruzione dell’ossario, in cui raccogliere e custodire i resti dei caduti delle
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01. Manifesto della mostra dei progetti di concorso per l’Ossario di Custoza, (Archivio storico del Comune di Sona)
02. Veduta delle strutture con l’esposizione dei progetti poste davanti al monumento (foto di Roberto Solieri).
03. Schizzo di Roberto Solieri.
04. 05. Vedute prospettiche
dei progetti di Domenico Marri (secondo classificato) ed Emilio Marcucci (quinto classificato), dalla rivista «Ricordi di Architettura» (riproduzione su concessione
dell’Università degli Studi di Firenze-Biblioteca di Scienze tecnologiche).
battaglie risorgimentali combattute a Custoza nel 1848 e nel 1866, viene imposta “una piccola tassa di ingresso” all’esposizione. Il prezzo del biglietto è fissato in 30 centesimi (1,30 €), dell’abbonamento in 1 lira (4,40 €).
Febbraio 1878 – Nella riunione tenuta il giorno 10 il comitato, esaminati i nove progetti finalisti indicati dalla commissione estetica, sceglie tra il primo e il secondo della graduatoria di merito, come riportato nel verbale della seduta. Valutando le spese necessarie per la loro realizzazione, viene scelta la proposta dell’architetto veronese Giacomo Franco che “importa complessivamente un costo minore di ben 12 mila lire”.
Aprile 1878 – L’architetto Camillo Boito (1836-1914), membro della commissione estetica, pubblica sull’influente rivista «Nuova antologia» un lungo articolo in cui rende conto delle diverse tipologie – “a forma di obelisco, di piramide, di cappella, con sovrapposizione di corpi diversi” –, a cui si sono richiamati i progetti presentati al concorso.
Aprile-novembre 1878 – Il periodico fiorentino «Ricordi di architettura» pubblica mensilmente una selezione dei progetti presentati al concorso. Vengono riprodotte le tavole relative a dieci di essi, partendo dal primo classificato, quello dell’architetto Giacomo Franco, che viene preferito per il minor costo al progetto dell’architetto fiorentino Domenico Marri.
Due periatti. Una nuova installazione permanente
Il dispositivo è stato pensato a integrazione degli allestimenti in essere nello spazio espositivo antistante il monumento funerario. Esso consta di due strutture metalliche girevoli a forma di prisma rotante a tre facce, che consentono un’interazione con il visitatore, ispirate ai periatti (períaktoi mēchanái) della scenotecnica greco-romana.
Sulle sei facce a disposizione sono riprodotti in grande formato altrettanti progetti, scelti tra i finalisti al concorso indetto nel
Borgo–Linea–Roma
Testo: Francesca Flori
L’abitare come progetto di cittadinanza, cura del territorio e inclusione sociale: una iniziativa per il popoloso quartiere di Verona.
Rafforzare il legame tra la comunità universitaria, il quartiere di Borgo Roma e i suoi cittadini è l’intento del progetto “La linea rossa” che ha preso il via a metà aprile 2025. Costruito sulla base di una rete di collaborazione tra l’associazione COCAI, la cooperativa Energie Sociali, Università e Comune di Verona, ha l’intento, sulla scia lasciata da “La Fabbrica del Quartiere” – un precedente progetto promosso dalle medesime associazioni – di valorizzare le potenzialità del quartiere di Borgo Roma ponendo al centro i giovani e il loro ruolo attivo nella trasformazione sociale e urbana di questo.
Borgo Roma è uno dei quartieri più popolosi della città con 30mila residenti circa, di cui una buona parte giovanile (più del 20% tra i 15 e i 34 anni), e ospita, assieme all’ospedale, il polo scientifico dell’Università 1877 dal Comitato sorto per la realizzazione dell’Ossario. La disposizione dei periatti, collocati frontalmente al monumento, permette al visitatore la lettura comparata tra i progetti finalisti e il progetto vincente. Attraverso il traguardo visivo, il visitatore ha un’immediata percezione di alcune possibili alternative a quanto messo in opera. Il dispositivo, appositamente progettato da Carlo Saletti e Roberto Solieri, che ne hanno seguito anche l’aspetto storico e grafico, è stato realizzato dalla ditta LGF-Pubblicità di Villafranca ed è stato inaugurato sabato 17 maggio 2025. •
01. Un momento della Janes’walk condotta attraverso vie e spazi pubblici di Borgo Roma.
02. 04-Vedute aeree del comparto urbano comprendente l’Ospedale di Borgo Roma e il polo scientifico e didattico dell’Università di Verona.
degli Studi di Verona. Tra gli Istituti Biologici da un lato di Strada le Grazie e Ca’ Vignal dall’altro, la popolazione universitaria che frequenta e vive il polo scientifico conta poco più di 10mila studenti, un terzo degli iscritti all’ateneo scaligero e dei residenti. La sola presenza studentesca non è però sufficiente: Borgo Roma non viene percepito e vissuto come quartiere universitario a differenza di quello maggiormente distinto in città, Veronetta.
“Chi attraversa questo quartiere si trova su delle ‘rette parallele’ che non si incontrano mai” questa l’istantanea lasciata da uno studente fuori sede iscritto a Medicina presente al primo evento di lancio del progetto, che ha descritto chiaramente i limiti di questa ampia porzione di città. “La linea rossa” vuole essere precisamente quel filo connettore tra queste rette parallele, intercettando quanti più soggetti nell’ideazione e intervento sugli spazi comuni del quartiere; la trama che possa stringere l’ordito di un tessuto urbano sfilacciato grazie all’apertura, a un tempo fisica e relazionale, di spazi di intersezione tra queste parti.
L’ideazione di questo progetto, infatti, si fonda sulla convinzione che l’intervento e la progettazione di uno spazio non possano che essere fatti assieme a chi quello spazio lo attraversa. A partire da queste premesse, “La linea rossa” ha iniziato quindi ad attraversare fisicamente il quartiere. Sabato 3 maggio si è tenuta in contemporanea mondiale una camminata urbana dedicata a Jane Jacobs (1916-2006), intellettuale statunitense che ha rivoluzionato il modo di guardare e vivere la progettazione degli spazi urbani: rispetto al “volo d’uccello” tradizionale degli urbanisti, Jacobs ha proposto una prospettiva sulla città “dal marciapiede”, il punto di vista di chi vive e percorre quegli spazi quotidianamente facendone un’esperienza diretta.
La camminata veronese, condotta da Michele De Mori e Samuel Fattorelli, ha preso avvio dagli ex Magazzini Generali, sostando poi nel verde dei parchi di Santa Teresa e di San Giacomo e soffermandosi su alcune aree in attesa di trasformazione, come l’ex ospedale psichiatrico. Lo sguardo è stato rivolto alle strade, ai parchi, agli edifici e ai luoghi di aggregazione non solo come elementi architettonici, ma come spazi vissuti e costruiti dalle relazioni sociali, dall’incontro, o scontro, tra le forme del costruito e le forme di vita. Nell’introduzione di Vita e morte delle grandi città (1961) Jacobs esprime
precisamente di volersi occupare di “come le città funzionino nella vita reale, perché questo è l’unico modo per capire quali principi urbanistici e quali metodi di intervento possano giovare alla vitalità sociale ed economica della città, e quali invece tendano a mortificarla”.
Dopo aver attraversato fisicamente il quartiere, “La linea rossa” è entrata l’11 giugno direttamente in università per provare a rispondere, un po’ retoricamente, alla domanda: “Può l’università trasformare la città?”.
Grazie ai contributi di Gabriele Pasqui (Politecnico di Milano) e Nicola Martinelli (Politecnico di Bari) membri di Urban@it – Centro Nazionale di Studi per le Politiche Urbane –è stato discusso il ruolo dell’università pub-
“Anche l’università può giocare un ruolo trasformativo all’interno del tessuto urbano, uscendo dai suoi confini e diventando attore sociale e politico”
blica nello sviluppo urbano e territoriale, in particolare nelle politiche abitative e nella rigenerazione urbana, con particolare attenzione al tema dell’abitare studentesco come leva per una nuova abitabilità.
Questo è uno degli orizzonti concreti che “La linea rossa” vuole portare nella città di Verona: una prospettiva sull’abitare come progetto di cittadinanza, cura del territorio e inclusione sociale. La domanda di alloggi, che non proviene esclusivamente dal mondo universitario, e la risposta a questa nuova domanda non può che includere un modello di residenzialità sociale in un’ottica intergenerazionale e intersezionale, che tenga vivi i quartieri di questa città. Questo modello non solo affronta l’emergenza abitativa, ma può anche trasformare la nostra città in un punto di riferimento come comunità aperta e propulsiva.
Città e università possono dunque essere inestricabilmente legate nello sviluppo di politiche capaci di attrarre giovani studenti e
ricercatori nell’offerta di condizioni per essere e sentirsi, a tutti gli effetti, cittadini e cittadine. Studentesse e studenti non sono solo consumatori e clienti della città, i cosiddetti city users, ma possono essere protagoniste e protagonisti attivi nei suoi cambiamenti ed evoluzioni. Vivere un quartiere, abitarlo davvero, significa poter partecipare in prima persona per prendersene cura, immaginandolo diverso, dando inizio a qualcosa di nuovo. Tramite gli interventi sullo spazio pubblico, previsti per la seconda fase del progetto, si vuole pertanto rafforzare l’autonomia e attivazione studentesca sul quartiere. Si appare così nello spazio pubblico come attori e attrici e non solo come passivi spettatori, che passano senza lasciare traccia. La programmazione degli spazi in un’ottica integrata con la città sarà vitale per la generazione di una comunità più dinamica e coesa dove si mette in gioco questa pluralità di attori in interazione tra loro.
È una visione di città, di una comunità, che sa partire dai bisogni, in questo caso studenteschi, per renderli opportunità di crescita e di sviluppo, valorizzando in stretta connessione con i suoi abitanti l’apporto innovativo che i giovani studenti e cittadini possono dare.
Anche l’università può dunque giocare un ruolo trasformativo all’interno del tessuto urbano, uscendo dai suoi confini e diventando attore sociale e politico, parte attiva dell’impegno della città nella creazione di comunità integrate e sostenibili; non solo come fabbrica di conoscenza, ma come generatore di innovazione e di cambiamento della città, non solo per il trasferimento del sapere che porta al suo esterno, ma anche per i processi di sviluppo sociale e urbano che può innescare. •
01. Immagini da alcune delle 118 schede che compongono il volume: Palazzo Lafranchini, Lonardi, Trevisani.
02. Palazzo Turco, Sagramoso, Scandola, detto ‘dei Puoti’.
03. La copertina del volume.
Di ville in palazzi
Testo: Marco Ardielli
Un naturale sequel della lettura proposta nello scorso numero ha origine dalla nuova iniziativa editoriale che arricchisce la bibliografia architettonica veronese.
La stagione delle opere librarie sull’architettura veronese continua a produrre buoni e “pesanti” frutti. Dopo aver commentato i due volumi di recente uscita sulle ville (cfr. Di ville, di ville!, in «AV» 141, pp. 40-42), ora non mi posso esimere, scendendo in città, dal rivolgere la stessa attenzione e curiosità di architetto-lettore al nuovo Case e palazzi di Verona, dato alle stampe da Gianni Bussinelli editore nel 2025 per la cura di Maristella Vecchiato: 504 pagine, Euro 60.
All’autrice, già funzionario storico dell’arte della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Verona, Rovigo e Vicenza, si devono altri importanti titoli nella bibliografia dell’architettura veronese, in particolare quelli sulla Verona nel Novecento (1998) e su Verona. La guerra e la ricostruzione (2006). La formula editoriale è in sostanza analoga ai precedenti: un impianto generale sotto la regia della curatrice, con la chiamata a raccolta di un nutrito numero di esperti e studiosi – e un miglior team sul tema era difficile trovarlo – a comporre un sontuoso repertorio a schede, con ben 118 edifici tra case e palazzi distribuiti prevalentemente nel centro antico della città.
Si aprono così le porte di alcuni dei più importanti palazzi di Verona, accompagnandoci ad affrontare un viaggio insolito e particolare tra gli edifici che ancora oggi spiccano per la loro storia. Credo però che, nelle intenzioni editoriali, il libro non dovesse essere rivolto in modo esclusivo a una singola categoria di lettore, che sia il turista-viaggiatore o l’esperto di architettura, ma che volesse presentarsi come un testo accurato e di facile lettura per chiunque fosse interessato a
comprendere l’arte e la storia di quei precisi manufatti che arricchiscono Verona, chiamati palazzi.
Il testo si apre con una serie di planimetrie che descrivono la trasformazione nei secoli del tessuto urbano cittadino, e una mappa introduttiva dove vengono mostrati in modo sintetico ed efficace l’ubicazione dei 118 palazzi e il numero di scheda che li descrive (di questa scelta, non banale, il lettore sarà sempre grato). A seguire si apre la sequenza delle schede, poste in ordine alfabetico secondo la denominazione più antica; per risolvere gli enigmi toponomastici c’è poi un apposito indice.
Ogni scheda è corredata da molte immagini e frequenti mappe storiche, provenienti principalmente dagli archivi della Soprintendenza; ma tra foto d’epoca, mappe catastali, piante e prospetti dei progetti originali, il tutto di dimensioni eterogenee, e immagini attuali non sempre all’altezza (tirata d’orecchi all’editore: le “svirgolature” delle verticali si possono quanto meno aggiustare con un tocco di Photoshop), ricchezza ed eterogeneità dei contenuti rischiano di dare luogo a un insieme poco chiaro.
I testi tratteggiano non solo gli aspetti principali del palazzo descritto, ma anche le storie e le vicende che hanno caratterizzato la vita dell’edificio, fornendo inoltre molte informazioni anche in termini tecnici sui luoghi che li accolgono. Troppo spesso, però, si confonde l’irrilevante con il decisivo, raccontando mirabilmente più la storia delle famiglie che il palazzo abitarono o abitano che l’architettura, lo stile, l’impianto tipologico e quello morfologico. Un racconto di famiglie, non di palazzi.
In questo senso si legge anche la mirabolante profusione onomastica di alcuni palazzi, come è il caso ad esempio di “Palazzo Maffei, Pindemonte, Scanagatti, Camploy, Allegri, Consolo, Rizzardi, Sagramoso, Banca d’Italia, Gobetti, Comune di Verona, Gelmini” (scheda n. 70, pagina 284), la cui pur debole storia architettonica è, nel libro,
offuscata dalle immaginabili peripezie proprietarie e dalle conseguenti pruriginose avventure multifamiliari.
Ma forse, come sostiene Andrea Tomezzoli nella presentazione, è semplicemente mutata la prospettiva di analisi di un fatto architettonico – quale è il palazzo - che si trasforma soprattutto in un momento di conoscenza delle famiglie, dei quartieri e delle contrade, di una più ampia storia urbana a cui l’analisi stilistica, tipologica e talvolta morfologica vengono educatamente affiancate.
In questo larvale bottom-up testuale si intravede, in prospettiva, l’ombra dei coffeetable book, quei bei volumoni pieni di grandi foto di grandi e fantasmagorici palazzi abitati da meravigliose creature millenarie: ci arriveremo, non c’è dubbio, anche se ricordo che a Verona manca per ora lo charme e la nomea di una grande casa editrice (per nostra fortuna), e possiamo ipotizzare anche il budget e il tempo necessario per approfondire degnamente ogni aspetto del costruito. Non dimenticando che, in realtà, quello che manca a Verona sono le decine o centinaia di fantasmagorici palazzi, con interni regali a cui dedicare quelle belle fotografie che piacciono
tanto ai lettori contemporanei e che riempiono i suddetti coffee-table book. Ma da qui traspare il vero dono di questa pubblicazione, ovvero che a Verona ad emergere è chiaramente la superiorità qualitativa e, oso dire, artistica del tessuto urbano rispetto al costruito. La magnificenza assoluta degli spazi urbani, la bellezza ubriacante dell’ambiente e la perfezione delle infrastrutture non trova alcun edificio residenziale a contrastarla, nemmeno lontanamente. Verona è “la” città dello spazio, ed è di questo spazio che dobbiamo preoccuparci. Ed è questo spazio, raramente eguagliato nel mondo, che dobbiamo salvaguardare e, prima o poi, orgogliosamente raccontare partendo, come è giusto che sia, da quelle strutture che lo hanno formato e che, per loro stessa consapevole sottrazione di autorevolezza, definito: i palazzi, appunto. Tornando all’inizio del volume, a pagina 12 del suo interessante ma purtroppo breve saggio introduttivo, Giuliana Mazzi rammenta che “mancano a Verona studi sugli aspetti dell’abitare, sia dal punto di vista compositivo che da quello funzionale”, mentre, poco più avanti, si lamenta del fatto che sono pochissimi gli studi – sole eccezioni – che permettono di capire scelte architettoniche e distributive dei palazzi veronesi.
“A Verona ad emergere è chiaramente la superiorità qualitativa e, oso dire, artistica del tessuto urbano rispetto al costruito”
Ecco, finita la lettura di questa importante pubblicazione, di questo sentivo ancora il bisogno: di sapere cioè che cos’è un palazzo. •
Allestire tra libertà e resistenza
Testo: Alberto Vignolo
A Castelvecchio una mostra tra l’uso di dispositivi digitali e l’eredità dell’allestimento scarpiano.
Dopo alcuni anni di allestimento “semipermanete” delle storiche vetrine disegnate da Carlo Scarpa per la mostra dei vetri alla Gran Guardia del 1960, già riusate in più occasioni grazie alla parsimonia e a un senso “casalingo” di riuso creativo condotto negli anni, facendo di necessità virtù, dalla Direzione dei Civici musei d’arte veronesi, nella sala Boggian del Museo di Castelvecchio è tornata finalmente una nuova mostra originale con un allestimento pensato ad hoc per l’occasione.
Occasione in realtà del tutto particolare, perché Fascismo Resistenza Libertà Verona 1943-19451, è una mostra storica e non solamente un’esposizione di opere d’arte – pure presenti – che ripercorre la vicenda politica, socio-culturale e artistica della città nel biennio tra il 1943 e il 1945. Ma una riflessione sui contenuti, molto densi, risulterebbe qui forzata, potendo peraltro rimandare all’ottimo catalogo (Electa) dove la dimensione storica della ricerca è sviluppata al meglio; mentre pare naturale e conveniente una lettura della mostra che, come spesso avviene per deformazione – maledetti architetti! – tende a concentrare lo sguardo sulla forma dell’esporre e dunque sul contenitore oltre che sul contenuto, senza prescindere come è doveroso dal loro reciproco rapporto.
In realtà, l’occasione di questa mostra sembra richiedere un tipo di sguardo siffatto, perché la sala Boggian di Castelvecchio si è rivelata nel tempo una formidabile palestra per l’arte del disporre, accanto e in sussiegoso omaggio alla magistrale lectio scarpiana dispiegata nel museo veronese2 .
Ciò che risulta del tutto singolare in questo caso è la preponderante dimensione digitale dell’allestimento3, che propone diversi contributi video tra filmati d’epoca, proiezioni olografiche e strumenti interattivi di approfondimento, assieme a opere d’arte, oggetti e testimonianze evocativi del contesto e della storia della città. L’inizio del percorso espositivo vale in questo senso come una sorta di imprinting: ad accogliere i visitatori nella sala del Mosaico ai piedi dello scalone è la proiezione di un filmato sulla visita a Verona del Duce nel 1938, che ci fa calare in una città al tempo stesso riconoscibilissima per i luoghi, ma straniante per l’entusiasmo debordante della folla: tutti erano, eravamo, fascisti.
Altrettanto d’effetto e suggestione, una volta saliti al livello superiore, è lo sguardo d’insieme su quello che era un tempo il salone dei Concerti, luogo che fu teatro dei cruciali avvenimenti della fine del Ventennio (il
01. Pianta di sala Boggian con, in rosso, l’allestimento della mostra “Fascismo Resistenza Libertà. Verona 1943-1945”. 02. Entrando nel cortile di Castelvecchio un grande pannello introduce la mostra (foto di Giuseppe Marinelli).
Boggian evoca la dimensione festosa e l’aura di quella che era un tempo la sala dei concerti (foto di Giuseppe Marinelli).
1 A cura di Andrea Martini, Federico Melotto, Marta Nezzo, Francesca Rossi. Verona, Museo di Castelvecchio, 14 marzo-2 novembre 2025.
2 Cfr. A. Di Lieto e F. Bricolo (a cura di), Allestire nel museo. Trenta mostre a Castelvecchio, Marsilio, 2010, e A. Di Lieto, M. Borsotti, La continuità dell’esporre. Allestimenti ai Musei Civici di Verona 2004-2023, Franco Cosimo Panini, 2023.
3 Il prrogetto di allestimento è a firma di Cristina Lonardi (Comune di Verona, IMUV) e Massimo Chimenti (Culturanuova); la grafica in mostra è di Ketty Bertolaso (Comune di Verona, IMUV).
congresso del Partito fascista repubblicano nel ‘43, il processo di Verona nel ‘44). Tre isole allineate al centro della sala ospitano filmati che accompagnano il visitatore nella storia di quegli anni; una grande videoproiezione sulla parete di fondo ripropone la sala nel suo aspetto originario (ma il sincrono tra i diversi supporti pare un miraggio, con attese di minuti in piedi davanti ai colophon di ciascun video). Le proiezioni su specchio con immagini e voci di figuranti ad evocare alcuni personaggi particolarmente significativi rappresentano una piccola sorpresa, il cui effetto viene però rapidamente consumato.
È questo il limite di (ogni) allestimento digitale: siamo adusi alla tecnologia più evoluta, la multimedialità ce l’abbiamo sempre comodamente in tasca e non rappresenta certo una sorpresa. E se tutti i contenuti della mostra sono disponibili nei touchscreen disposti lungo il percorso, oltre che tramite smartphone, cosa resta di autenticamente originale all’esperienza del visitatore, e prima di lui a chi debba farsi tramite dell’arte di mostrare? Interrogativi retorici che molto hanno a che fare con la mentalità e l’approccio, e dunque in fin dei conti con l’età, del pubblico a cui ci si rivolge: impossibile
accontentare tutti. Certo è che dispositivi come quelli disegnati da Scarpa sono stati utilizzati per oltre mezzo secolo: difficile pensare a quanto possano durare schermi e specchi parlanti.
Il percorso della mostra, lasciandosi alle spalle sala Boggian, culmina nell’ultima sala del museo, dove viene rievocata l’esposizione del 1947 sulle opere d’arte salvate dalla guerra. Un fondale in tessuto riprende i motivi decorativi dell’allestimento voluto da Antonio Avena negli anni Venti all’apertura del museo, oscurando non solo simbolicamente gli stucchi scarpiani a parete. Un piccolo fremito scuote chi abbia a cuore il museo veronese, paventando una sorta di “restaurazione”: ma, fermo restando il valore filologico di questa temporanea ricostruzione, il confronto Avena-Scarpa – ad essere precisi, AvenaMagagnato – è impietoso: la radicale pulizia dell’allestimento anteguerra fu anche un atto di democratizzazione del “mostrare”. Vale la pena di ricordare che Castelvecchio è l’unico dei musei della stagione eroica del dopoguerra sostanzialmente e “miracolosamente” integro. Per chi crede, i miracoli sono un atto di fede: per gli altri sono frutto di volontà, tenacia, e “resistenza”. •
Ci mette il becco LC.
Circolare
Testo: Luciano Cenna
Riprende la serie delle riflessioni attorno ai quattro fondamenti della ‘città funzionale’.
Dopo “Abitare”, uscito sul numero 140, meglio parlare di “Ricreare il corpo e lo spirito”, oppure proseguire con “Circolare”, seguendo la sequenza del CIAM del 1957 riguardo al contenuto della Carta di Atene del 1931? Non mi pare questione decisiva, pur tuttavia oggi parlerò della “Circolazione”, quindi di una delle quattro funzioni svolte dalla città secondo la citata Carta che ne fissava i principi base nel seguente modo:
1) distinzione netta tra i tracciati automobilistici e pedonali;
2) classificazione delle strade in: residenziali, industriali, commerciali e di grande traffico, (riportando l’atomizzazione di queste ultime entro i limiti di poche grandi arterie).
Non ho la pretesa di ricordarvi questi indirizzi come ancora validi, se non in parte. A quasi un secolo dalla loro formulazione, anche la “circolazione” ha assunto aspetti sia qualitativi che quantitativi allora imprevedibili. Ne so troppo poco di circolazione per dirne di più, ma credo che in quei tempi non ci fosse modo di avvicinarsi agli sviluppi che avrebbe assunto il traffico; eppoi, in questi cento anni, importanti eventi hanno profondamente modificato gli assetti precedenti, per cui molte previsioni di allora sono del tutto inadeguate.
Tanto da chiedersi se non sarebbe il caso di tentare una azione di aggiornamento di quegli indirizzi (della Carta Urbanistica), pur se consci che, potrebbe essere del tutto inutile.
Non entrerò nel capitolo “Strade differenziate per tipo di funzione”, perché lo ritengo un assurdo, mentre invece mi sembra ci sia, ancor oggi, qualcosa da dire circa la distinzione tra percorsi carrai e pedonali intesi come vie di accesso e collegamento tra le residenze e i loro servizi allo scopo di assicurare alle persone di poter circolare senza il timore di finire sotto le ruote di una auto. Ma il vero limite a tale distinzione è la realistica impossibilità di estenderla su vasta scala urbana, ossia oltre i limiti di “prossimità”.
Ovviamente stiamo parlando di insediamenti nuovi, non di città di fondazione secolare, dove di fatto il modesto traffico carraio, a quei tempi affidato a cavalli o al tiro umano, avveniva condividendo il medesimo modesto tracciato. E così è ancor oggi, pur se le sezioni dei percorsi si sono allargate via
“Sono comunque del parere che sia invece ancora possibile recuperare parzialmente quel giusto obiettivo della distinzione tra traffico e pedoni”
via che cresceva il numero e la frequenza dei mezzi di trasporto, quasi indipendentemente dalla loro motorizzazione. Tentativi di netta differenziazione funzionale tra mezzi motorizzati e pedoni ci sono state in Europa, in America, e forse altrove, negli anni dal trenta del secolo scorso al cinquanta (vedi Città nuove in Inghilterra e Città giardino, in Europa e negli Stati Uniti – anche a Milano 2 è stato fatto un tentativo), sulla falsa riga delle
proposte di Le Corbusier, ma nulla di più. E i motivi sono molti, tanto che mi limiterò ad elencarne solo alcuni come: il costo, le reti di servizio, il superamento dei necessari dislivelli, la convivenza con tessuti urbani preesistenti e ben radicati e infine la difficoltà di rendere funzionale un impianto urbano che prevedeva di adottare solo una ridotta parte delle 95 proposizioni prescritte dalla rigida Carta di Atene. Eppoi, come sia possibile mantenere distinti i percorsi non c’è riuscito nessuno: nemmeno il Maestro (forse perché non gli hanno mai consentito di realizzare un intervento in grande scala né a Marsiglia, né altrove). Peccato, davvero!
Sono comunque del parere che sia invece ancora possibile recuperare parzialmente quel giusto obiettivo della distinzione tra traffico e pedoni, operando nel contesto delle nostre città storiche, dove viviamo, attraverso una intelligente ubicazione dei servizi nei confronti delle residenze (vedi città ad un quarto d’ora). E questo dimostra che la comunità umana ha pagato care almeno qui in Italia, le tante altre conquiste sociali che hanno contraddistinto gli anni del dopoguerra, se non possiamo fidarci a far camminare nostro figlio in città senza temere che finisca sotto un Suv, magari guidato da chi sta accompagnando a scuola il suo vicino di banco.
Però, volendo insistere sulla questione “distinzione” tra i due traffici, quello delle auto e l’altro dei pedoni, e dopo aver confermato che Venezia può essere considerata l’unica città al mondo in cui mezzi a motore e merci circolino su percorsi distinti da quelli dei pedoni, pongo una domanda-esortazione che, sembra uscita dalla bocca di un bambino delle elementari: “Volete decidervi, adulti, a farci andare a scuola da soli?” •
DOCUMENTI
Micro storie dell’architettura a Verona: i modelli di riferimento di una delle fortificazioni esterne di epoca austro-ungarica (Forte San Procolo) e la “riscoperta” degli interventi di un maestro del Novecento (Muzio).
DOCUMENTI
UN PROTOTIPO
01. Rilievo planimetrico speditivo che, assieme ad altri schizzi d’intelligence delle fortificazioni cittadine, appartiene al diario della visita a Verona del gen. Johan Kleen 1845 (elaborazione grafica dell’autore da KAS:EFP).
Forte San Procolo, un tempo fronteggiante l’area tra il bastione omonimo e quello di Spagna, nel panorama della cinta magistrale veronese, è stato spesso ignorato dalla letteratura specializzata e popolare. Divide un’ampia area verde con il Tiro a Segno Nazionale, al centro del quartiere Navigatori, che l’accerchia occultandolo. Una sua attenta analisi risulta invece interessante, trattandosi di uno dei primi forti esterni alla cinta urbana, ma anche uno dei meno legati alle tradizionali tipologie del tempo.
Queste, per il settore delle fortificazioni nel quadrante sud-europeo, erano ancora culturalmente legate al mondo rinascimentale e barocco mediterraneo, a differenza di quelle più pragmatiche dei mari del Nord. La conoscenza di tale divario dimostra come, ancora alla fine del Seicento, il fronte bastionato, o tanagliato sud-europeo, fosse già stato superato per strategia e tecnica dal corpo degli ingegneri svedesi. Soluzioni cui la scuola fortificatoria austro-prussiana si sarebbe ispirata in fase di restaurazione post-napoleonica per le proprie fortezze.
L’architettura militare, quale strumento di guerra, nella accesa concorrenza tra difesa e offesa, ha di volta in volta comportato il rinnovamento continuo dei processi scientifici e tecnologici, puntualmente verificati ad ogni evento bellico. Per le fortificazioni, usura e obsolescenza, fisica o funzionale, sono quindi la conseguenza di una continua serie di aggiornamenti, trasformazioni, dismissioni e abbandoni. Mente la corrispondenza delle forme dei manufatti può anche essere casuale, sono le idee che esse rappresentano a passare da uno schieramento all’altro. Significativo appare pertanto, nella seconda decade dell’Ottocento, il caso delle fortificazioni di Verona: indagate nei suoi viaggi in Italia a metà del Seicento da Erik Dahlberg, che in Svezia concepisce quel nuovo sistema difensivo, ripreso dal Montalembert, trasmesso alla scuola fortificatoria austro-prussiana e infine nel 1845 riportato in patria dalla intelligence svedese da Johan Kleen, alto e influente ufficiale, attivo come architetto nel progetto della fortezza di Karlsborg nel 1838. La soluzione dei conflitti che per quasi due
Testo: Gianni Perbellini
Una analisi tipologica dei modelli di riferimento delle fortificazioni di Verona attraverso il caso di Forte San Procolo
secoli avevano interessato l’Europa centrale, come la guerra dei Trent’anni, aveva comportato la guerra d’assedio e il continuo aggiornamento dei mezzi della difesa e dell’offesa da parte delle varie scuole fortificatorie, a cui facevano capo: Vauban (1633-1707 in Francia), Coehoorn (1641-1704 nei Paesi Bassi).
L’esasperazione dei fronti bastionati e la dilatazione delle forme di un’arte assunta
a regola scientifica ben oltre il pré carré di Vauban, avevano finito per portare a una logorante guerra di posizione, cui, dopo poco meno di mezzo secolo, era succeduto l’uso di masse tattiche indipendenti da parte di Gustavo Adolfo II e alla formazione dei corpi tattici di Turenne, grazie alla maggior mobilità dell’artiglieria e all’uniformità dei calibri. Condizioni di cui Napoleone aveva goduto, realizzando con successo il suo modo di guerreggiare, figlio della Rivoluzione e destinato a sconvolgere il panorama europeo. La storia dei fronti fortificati si era conclusa in Francia con l’École du Génie de Mézières (1748), prestigiosa antenata della Scuola Politecnica, di cui le Maniere di Vauban erano il dogma costitutivo. Regole difese dal conservatorismo di Cormontaigne, Forcroy, Fossac-Latour, Virgin, D’Arçon, e Carnot, politicamente rivoluzionari, che erano servite alla loro fortuna militare. Diversamente, il marchese Marc René de Montalembert (17141800), anticonformista e innovatore, era sempre più isolato sia dopo la pubblicazione (1776) di La fortification perpendiculaire, ritenuta inapplicabile dagli Stati Maggiori francesi, sia nonostante la sua adesione alla Rivoluzione nel 1793.
Le proposte di Montalembert erano frutto della sua conoscenza e frequentazione del Nord-Europa, in particolare della Svezia, ove aveva avuto modo di studiare i piani e i progetti di Erik Dahlberg (1625-1703), fondatore della Fortifikatörerna (in origine fortifikationsofficeren), incaricato della costruzione
02. I forti veronesi eretti tra il 1837 e il 1842 (grafico dell’autore).
03. E. Dahalberg (1683), progetto delle torri est e sud delle fortificazioni di Kalmar (KAS:EFP).
04. Verona, pianta e sezione di un torre Massimiliana, foto della stessa e del forte Sofia (grafico dell’autore e foto SETAF 1986).
05. Copia svedese di Kronschloss, fortificazione russa (1686) derivata da quelle di Dahlberg. Interessanti i muri perimetrali: una doppia parete costituita da graticcio ligneo con gli spazi intermedi costipati di “terra” - Verona, pianta e sezione di forte Scholl (1859) - (elaborazione grafica dell’autore da SFP, Russia, Kronst. 8 e da KAW).
e manutenzione delle fortificazioni terrestri e marittime.
In un territorio come quello della Svezia, affacciato sul mar del Nord con profonde insenature, fiordi e isolotti, la soluzione più naturale, piuttosto che estesi e articolati fronti bastionati, era un sistema difensivo costituito da fortificazioni isolate. Dahlberg (il Vauban del Nord), dopo aver visitato mezza Europa, ne perfezionava pertanto i modelli, le tattiche e la conseguente organizzazione di una rete strategica di opere. Situazione eretica rispetto alla tradizione francese, che però convinceva Montalembert al punto da farne uno dei cardini delle sue più innovative proposte.
In realtà la sua ben nota “caponiera casamattata a tre ordini di fuoco” derivava dalle opere staccate a forma di torrione di Dahlberg, o da quella della fortezza di Fredriksborg di Axel Löwen (1726-27). La favorevole accoglienza delle idee montalbertiane
ne avrebbe trasferito, negli ambienti imperiali austriaci e prussiani, la sua esperienza svedese, i cui riferimenti un secolo dopo si riscontrano anche nell’organizzazione del campo trincerato austriaco di Verona, Mantova, Peschiera e Legnago.
Il Veneto provincia austriaca
Dopo il 1815, nel Veneto e a Verona, la Restaurazione, sul piano geo-politico oltre che militare, si indirizzava sotto il profilo tattico e strategico nuovamente verso una sorta di guerra di difesa e consolidamento dei confini della nuova provincia imperiale.
L’Impero, che, conclusa l’epopea napoleonica, aveva ereditato assieme alla Lombardia anche il Veneto – ove a Verona i bastioni erano stati nel 1802 sistematicamente e integralmente demoliti dai genieri francesi – doveva quindi impegnarsi nella loro ricostruzione. Paradossalmente era però anche
costretto ad attivare, con nuovi forti d’artiglieria, anche i siti esterni di cui per la riconquista della città si era giovato Napoleone nel 1801. Opere seguite poi da due serie concentriche di forti staccati o da gruppi di forti, su perimetri esterni sempre più estesi, rapportati al miglioramento tecnico e conseguentemente tattico delle gittate dei cannoni.
In prima istanza, per il ripristino delle difese del fronte in destra d’Adige – molto dibattuto sia per ragioni economiche che per il tempo necessario richiesto – veniva adottata la ricostruzione dei bastioni in forma pentagonale. Le rovine venete venivano quindi rivestite con un terrapieno difeso al piede da una caponiera di vertice, delineata da un muro “alla Carnot” eretto sulla mezzaria del fossato originale. Questa cortina, con ritmo quasi decennale, veniva a sua volta integrata (campagne del 1859 e 1866), a cavallo del ciglione (rideau), da tutta una serie di opere esterne sulle provenienze stradali più importanti.
“Significativo appare pertanto il caso delle fortificazioni di
Verona: indagate nei suoi viaggi in Italia a metà del Seicento da Erik Dahlberg, che in Svezia concepisce quel nuovo sistema difensivo”
I forti isolati dello schema iniziale (1837-1842) – in collina Santa Sofia, San Mattia, San Leonardo, Biondella, e San Procolo in destra e Scholl in sinistra d’Adige – erano costituiti da un ridotto centrale protetto da un recinto poligonale terrapienato e con caponiere di vertice. In pratica, una sintesi delle lunette di D’Arçon, con al centro un torrione, simile a quello delle quattro torri collinari isolate (torri attribuite all’arciduca Massimiliano d’Asburgo), copie conformi delle torri d’artiglieria di Dahlberg. Solamente il forte San Procolo si differenziava, per un perimetro irregolare a sette lati e un ridotto centrale quadrilatero con appendici e traversoni.
06. Torre Grande della Fortezza di Fredriksborg: prospetto, pianta e sezione nel 1735, a colori sezione della torre nel primo progetto di A. Löwens nel 1729 (elaborazione grafica dell’autore da J. Cassel e da KAS:JFR bild 4).
07. Fortezza Lejonet a Göteborg, progetto di E. Dahlberg del 1689 (KFA:SFP).
08. Ridotto casamattato progettato da A. Löwens nella seconda decade del Settecento (elaborazione grafica dell’autore da KAS:EFP).
06
Aspetto e ragioni della costruzione del forte di San Procolo
Nel complesso della serie delle fortificazioni erette nel mezzo secolo seguito alla caduta di Napoleone per la difesa dell’Impero austro-ungarico, il San Procolo è una delle prime opere esterne; le altre sono le quattro torri massimiliane e i forti: San Mattia, San Leonardo, Santa Sofia, Biondella in collina, e Scholl in sinistra d’Adige, realizzati dopo il ripristino dei bastioni di Verona quale estensione degli stessi, anteriormente al 1848.
Il San Procolo, costruito nel 1841-42, garantiva il vertice nord-est di quella linea difensiva, che solamente dopo il 1848 verrà protetta dai forti: Clam, Watislaw, Schwarzenberg, D’Aspre, Liechtenstein, Walmoden. Unico prototipo a non essere ulteriormente
ripreso in considerazione tra la quarantina di opere che, tra il 1830 e il 1866, furono erette nel campo trincerato del Quadrilatero dalla Direzione Veronese dei Lavori di Fortificazione. Anche in questo caso si trattava di un’opera direttamente influenzata dall’esempio dei forti svedesi, in parte ripresi da Montalembert, ma non ulteriormente sviluppati nel veronese.
Il forte di San Procolo era infatti il prototipo arcaico di quel forte isolato, le cui forme, direttamente derivate dalle caponiere tardo seicentesche, non erano più funzionali a un fronte continuo, nel quale le varie scuole fortificatorie avevano ormai distribuito le opere su perimetri sempre più estesi. Evoluzione cui il genio militare austriaco si trovò obbligato da una difesa che doveva fronteggiare il costante e veloce rinnovamento dei mezzi e delle tecnologie artiglieresche, mai sperimentato prima.
In tale quadro, il piano di difesa di Verona di Franz von Scholl, per quanto riguarda il fronte a destra d’Adige, una volta ripristinati e migliorata l’efficienza dei bastioni veneti, prevedeva di attestare una prima linea esterna di forti a ridosso delle divagazioni abbandonate dell’Adige, che dopo Parona, con un ampio arco, rientravano nel fiume all’incirca all’altezza di Porta Nuova.
Il ciglione, una sorta di trincerone, distante al massimo due chilometri dal fronte bastionato cittadino, avrebbe potuto essere usato da parte di forze ostili provenienti da ovest o da nord. Nel primo caso, queste, attraversato il Mincio a Valeggio ed evitata la piazzaforte di Peschiera, da Pastrengo potevano raggiungere Santa Lucia (come accadde nel 1848) e quindi prendere da rovescio il fronte meridionale della città, dal bastione di Spagna alla torre della Catena; nella seconda ipotesi, attraversato l’Adige a Bussolengo, dalla sinistra del fiume potevano sottoporre ad un efficace fuoco d’artiglieria lo stesso tratto delle mura. La chiave d’accesso a questa manovra
risultava quindi proprio la bassura esterna al bastione di San Procolo che, nel vertice nord-est, assieme a quello di Spagna, sarebbe risultato pericolosamente impedito nel realizzare ogni ritorno offensivo in uscita dalle sortite o dalle porte principali.
L’impianto del forte
Il forte San Procolo, ubicato esternamente a una distanza di circa 300 metri dalla cinta magistrale veronese, di fronte al bastione omonimo e a quello di Spagna, apparentemente riprende le forme tradizionali del forte proto-rinascimentale, con una cinta in terra, caponiere di vertice e quel ridotto centrale casamattato a pianta quadra, con corte mediana e pseudo bastioni angolari.
Se esaminato più in dettaglio, l’impianto presenta anche diverse anomalie rispetto agli schemi seriali delle tradizioni sia antecedenti che successive. La cinta ettagonale in terra, modellata con una scarpatura esterna, parapetto e banchetta sommitale, presentava un perimetro che era il risultato della somma di una forma semi-ottagonale regolare con una trapezoidale retta, completata da quattro caponiere, di cui tre sui vertici dei lati minori e la quarta ubicata a due terzi da sud del lato più lungo, e ad esso perpendicolare. A differenza della cinta magistrale veronese, mancava nel fossato la protezione del muro “alla Carnot”, mentre le testate delle caponiere erano contornate da un muro di controscarpa.
09. Progetto di Forte San Procolo: planimetria generale e sezioni sulle gallerie (in superficie traversoni di defilamento) di raccordo alle caponiere esterne agli spalti (KAW).
10. Progetto di Forte San Procolo: dettaglio in pianta e sezioni del ridotto centrale (KAW).
Il vertice dell’angolo retto del trapezio, rivolto verso la cinta magistrale, era privo di caponiera e quindi, qualora fosse caduto in mani nemiche, maggiormente esposto alle artiglierie dei bastioni di San Procolo e di Spagna della cinta magistrale.
Il ridotto centrale a pianta quadrata regolare, sviluppato su due livelli, con cortile e pozzo, era rafforzato da quattro proto-bastioni: due nei vertici nord-ovest e sud-est, allungati a forma di puntone, con fianchi paralleli, e due nei vertici perpendicolari ai primi, dimensionalmente maggiori, romboidali e con i fianchi angolati rispetto alle cortine.
Queste appendici, pur dotate di feritoie per armi manuali e cannoniere, erano anche destinate ad ospitare varie funzioni, come nella più occidentale, ove erano ubicate in batteria le latrine.
Il raccordo tra i vertici era garantito da una galleria continua, la cui parete esterna era perforata da una fitta serie di feritoie, che facevano di questo corpo di fabbrica una caserma difensiva.
Quattro gallerie esterne al ridotto, in superficie traversoni di defilamento perpendicolari allo stesso, collegavano la mezzeria
dei suoi lati alle caponiere, a loro volta esterne alla cinta terrapienata, secondo assi destinati a proteggere l’interno del forte dagli eventuali tiri delle batterie nemiche attestate, a partire dalla riva sinistra dell’Adige, su di un arco di 270 gradi. Solamente il vertice sud era privo di caponiera, trasformando così la su gola in una zona esposta ai tiri dei difensori dai bastioni che fronteggiava.
Recupero e possibilità di riuso Oggi, a livello urbano, il complesso militare del forte di San Procolo dismesso e l’adiacente area del Tiro a Segno Nazionale risultano ormai isolati sia dal fiume che dalle mura magistrali, essendo stati completamente circoscritti dagli edifici del quartiere Navigatori, di cui in qualche modo costituiscono il baricentro. L’indicazione urbanistica del forte e del Tiro a Segno entro il perimetro del Parco delle Mura, se risulta correttamente vincolante sotto il profilo normativo, risulta praticamente inefficace e inattuabile sotto quello funzionale, ai fini della conservazione ed eventuale riuso dei manufatti storici. Andrebbe quindi innanzitutto pianificata la possibilità (sia pure graduale) di trasferimento
del Tiro a Segno, la cui attività appare comunque in contrasto con il denso quartiere residenziale che lo circonda. La sua area scoperta, sommata a quella del complesso di forte San Procolo, rappresenterebbe così lo spazio verde ideale quale centro del quartiere residenziale, piuttosto densamente costruito, che lo assedia.
Gli edifici del complesso, ancora esistenti, sono in discrete condizioni e potrebbero efficacemente essere recuperati e rifunzionalizzati. Le cortine e gli spalti in terra sono invece sensibilmente degradati e in parte scomparsi. Indispensabile per il riuso del complesso verde e dei suoi edifici risulta inoltre la loro visibilità e accessibilità dalle via Magellano e dalla via Da Levanto e pertanto anche che si riescano a trasformare le cortine terrapienate del forte, in parte evaporate, in un elemento semipermeabile e meno escludente di come dovevano essere state all’origine.
Il ridotto centrale del forte e gli edifici del Tiro a Segno, comunque, ben si presterebbero, tanto dimensionalmente quanto per la loro qualità architettonica, a ospitare attività culturali permanenti, eventi temporanei, o
speciali, di interesse non solo locale. In pratica alla creazione di un centro in cui loisir e coworking riescano utilmente a convivere. Motivati dalla memoria e dai collegamenti con culture, allora esterne alle tradizioni locali della difesa, rafforzati dalle esperienze dell’urbanistica razionale del secolo scorso e necessitati dalle esigenze attuali di un popoloso quartiere. •
“SI TRATTAVA DI UN’OPERA DIRETTAMENTE INFLUENZATA DALL’ESEMPIO
DEI FORTI SVEDESI, IN PARTE RIPRESI
DA MONTALEMBERT,
MA NON ULTERIORMENTE SVILUPPATI NEL VERONESE”
VALORIZZARE FORTISSIMAMENTE VALORIZZARE
La valorizzazione è oggi tra i temi più attuali, miccia incandescente di articolate discussioni in un territorio, il nostro, ricchissimo di beni culturali. Forte San Procolo è uno di questi.
Sconosciuto alla maggior parte della cittadinanza (quanti passeggiando per Verona sanno dove si colloca?) non percepibile a livello stradale, per anni è rimasto celato da una vegetazione dominate. Ubicato tra i quartieri Navigatori-Catena e Saval, prospicente il fiume Adige, il forte ammicca alla città, rappresentando una risorsa dalle potenzialità grandiose per la stessa collettività.
“Le fortificazioni sono sempre state pensate in termini di sistema. Ognuna aveva una specifica funzione e si inseriva in un contesto che articolava già dimensione urbana e territoriale. Smessa la loro funzione di strutture difensive e l’uso militare, quale potrebbe essere oggi il significato urbano e territoriale di quelle stesse fortificazioni?”1. Partirei da qui, da una domanda, ovvero dall’interesse sociale e territoriale che un tale ambito può suscitare.
Nel 2021 il Comune di Verona ha redatto un Programma di Valorizzazione del Forte San Procolo volto alla sua riscoperta, conoscenza e recupero, a partire dall’iniziativa “Verona Fortificata”, una comunità di studiosi, associazioni, professionisti, amministratori
e cittadini uniti intorno a questo inestimabile patrimonio. Il Programma è stato realizzato nel quadro di un Protocollo d’intesa sottoscritto con l’Agenzia del Demanio (attualmente l’area è ancora sotto la giurisdizione statale) a partire dal 2018-19, per “l’avvio di un rapporto di collaborazione finalizzato
alla valorizzazione a rete di immobili pubblici che costituiscono la traccia del sistema difensivo della città di Verona e per favorirne il recupero e la valorizzazione, attraverso la scoperta e la conoscenza del territorio urbano e periurbano della città”, l’accordo ha permesso a molti cittadini, attraverso un
Testo: Angela Lion
programma di visite guidate, di riscoprire questo luogo.
La valorizzazione è oggi tra i temi più attuali, miccia incandescente di articolate discussioni in un territorio, il nostro, ricchissimo di beni culturali. Forte San Procolo è uno di questi. Sconosciuto alla maggior parte della cittadinanza (quanti passeggiando per Verona sanno dove si colloca?) non percepibile a livello stradale, per anni è rimasto celato da una vegetazione dominate. Ubicato tra i quartieri Navigatori-Catena e Saval, prospicente il fiume Adige, il forte ammicca alla città, rappresentando una risorsa dalle potenzialità grandiose per la stessa collettività.
“Le fortificazioni sono sempre state pensate in termini di sistema. Ognuna aveva una specifica funzione e si inseriva in un contesto che articolava già dimensione urbana e territoriale. Smessa la loro funzione di strutture difensive e l’uso militare, quale potrebbe essere oggi il significato urbano e territoriale di quelle stesse fortificazioni?”1. Partirei da qui, da una domanda, ovvero dall’interesse sociale e territoriale che un tale ambito può suscitare.
Nel 2021 il Comune di Verona ha redatto un Programma di Valorizzazione del Forte San Procolo volto alla sua riscoperta, conoscenza e recupero, a partire dall’iniziativa “Verona Fortificata”, una comunità di studiosi, associazioni, professionisti, amministratori e cittadini uniti intorno a questo inestimabile patrimonio. Il Programma è stato realizzato nel quadro di un Protocollo d’intesa sottoscritto con l’Agenzia del Demanio (attualmente l’area è ancora sotto la giurisdizione statale) a partire dal 2018-19, per “l’avvio di un rapporto di collaborazione finalizzato alla valorizzazione a rete di immobili pubblici che costituiscono la traccia del sistema difensivo della città di Verona e per favorirne il recupero e la valorizzazione, attraverso la scoperta e la conoscenza del territorio urbano e periurbano della città”, l’accordo ha permesso a molti cittadini, attraverso un programma di visite guidate, di riscoprire questo luogo.
La volontà primaria è quella di disseminare azioni di conoscenza, orientate ad elevare l’attenzione e la cura intorno a questo “bene comune”.
Una nutrita serie di azioni si è susseguita attraversando gli anni: la redazione del progetto per il parco delle mura (Bozzetto, 1997), l’istituzione della Commissione Consiliare per la Valorizzazione dell’Architettura Militare nel 2004, fino alla proposta di legge per l’istituzione del Parco nazionale delle Mura e dei Forti di Verona e l’istituzione del Parco delle Mura Magistrali, con l’approvazione del PAT nel 2007. Il forte è stato vincolato formalmente solo nel 2009, individuando in esso un esempio tra i più significativi del sistema trincerato absburgico. Ma già nel 1999
“Ubicato tra i quartieri NavigatoriCatena e Saval, il forte ammicca alla città, rappresentando una risorsa dalle potenzialità grandiose per la stessa collettività”
la Giunta Regionale del Veneto dichiarava il “notevole interesse pubblico dell’area Savalvia Pancaldo”, considerando l’insieme contestuale di Forte San Procolo, del cimitero austro-ungarico – istituito nel 1851 dall’amministrazione militare austriaca per accogliere le salme dei soldati deceduti fino all’Unità d’Italia – e del Tiro a segno nazionale, realizzato tra il 1916 e 1921 in via Magellano. Proprio alla luce della natura “d’insieme” del vincolo, vanno considerati i potenziali effetti su un più ampio processo di recupero e sulle sinergie che esso sarà in grado di attivare, a favore di altri beni, localizzati in prossimità dello stesso forte.
Ogni singolo oggetto architettonico o manufatto (cortina muraria, bastione, terrapieno, vallo, batteria, forte distaccato, ecc.) va pertanto considerato “come uno degli elementi costitutivi, con le sue specificità, di un sistema (e) di un contesto più ampio, della città [...]. Cambiare punto di osservazione e quindi considerare [il manufatto] come oggetto
urbano e non più solo come oggetto architettonico, ha due vantaggi. Da un lato, permette di considerare l’oggetto architettonico come parte di un contesto urbano più ampio. Dall’altra, permette di far emergere tematiche trasversali altrimenti difficilmente identificabili. Tenere assieme la piccola scala (cosa succede lì?) e la grande scala (che rapporti tra quello che succede lì e quello che accade in altre fortificazioni o su altri piani?) consente di identificare le articolazioni oggi esistenti e in parte quelle possibili e future, non solo a diverse scale, ma anche tra diverse tematiche, mettendo in evidenza tanto le problematiche quanto le potenzialità che il sistema delle fortificazioni esprime. Questo anche alla luce della considerazione più giuridica, inquadrata dalla legge sul federalismo demaniale (2012) che prevede il passaggio di proprietà delle fortificazioni dal Demanio al Comune”2, ovvero di una gestione territoriale locale.
Intanto, però, buona parte delle azioni di riscoperta, cura, manutenzione e del fondamentale presidio rimane in carico alle associazioni: nel caso di Forte San Procolo grazie a “Verona Città Fortezza Aps”, nata da un gruppo di appassionati di storia e di fortificazioni che nel 2018 decide di accedere all’area dismessa da decenni dall’Esercito Italiano. Sulla base di un patto di sussidiarietà stipulato con il Comune di Verona, l’associazione si fa carico della piccola manutenzione del luogo e delle visite guidate; nel frattempo sono programmate opere di sfoltimento e regolazione dell’area boschiva e di pulizia dalla vegetazione infestante, al fine di evitare l’avanzare del degrado delle parti architettoniche, che sono in massima parte ben conservate.
Tutto ciò, data la complessità di gestione e la vastità del sito, è funzionale alla tanto decantata valorizzazione? Ci si impegna in concreto, quindi anche economicamente, per avviare un percorso, seppur lungo, volto all’integrazione territoriale e sociale di tale ambito? Sono forse le visite l’attività in grado
di risolvere l’aspetto divulgativo?
Abbiamo potenzialità altissime utilizzate pochissimo, questa è la realtà. L’area potrebbe diventare mille cose: un parco aperto per la collettività, un luogo di aggregazione dai giovani ai meno giovani, un legante tra quartieri, offrendo spazi per rappresentazioni ed eventi culturali, un polmone verde di una bellezza disarmante.
“La nostra società ammalata per la turbinosa attività, per l’atmosfera inquinata ha bisogno di un’oasi in cui trovare quelle possibilità di recupero indispensabile alla propria sopravvivenza”3. Tanto si sta facendo, grazie alle azioni di volontariato, ma tanto dev’essere ancora fatto. •
1 LAA Recherches (A. De Biase, N. Cattapan, P. Zanini), La dimensione urbana delle fortificazioni, Scripta, 2018.
2 Ibid.
3 P. Gazzola, Un patrimonio da salvare i castelli, «Castellum», 1, 1965.
GLI ANGELI
La figura di Giovanni Muzio (1893-1982) si è prestata negli anni a numerose interpretazioni critiche da parte degli storici che ne hanno a lungo indagato il valore, il ruolo e la pregnanza all’interno di quel fenomeno polimorfico che è stato il Novecento come movimento artistico in Italia. Un alone di ambiguità ha da sempre circondato la sua figura, tra chi lo ha visto come trait d’union tra l’ortodossia internazionalista che si andava affermando in Europa nel primo ventennio del secolo, che Muzio assorbì nei suoi numerosi viaggi all’estero1, e l’eclettismo storicista imparato e approfondito durante gli studi al Politecnico di Milano; e chi invece, in maniera forse semplicistica, lo ha giudicato “totalmente estraneo al processo di rinnovamento che interessò l’architettura europea”2 , sostanzialmente una sorta di reazionario che esortava un “ritorno all’ordine” rispetto all’eclettismo pasticcione e retorico che caratterizza l’architettura italiana di quegli anni. Ma al di là del ruolo avuto da Muzio tra le due guerre in ambito lombardo, riconducibile al Novecento – peraltro approfonditamente studiato3 – rimane meno conosciuta la sua opera successiva al 1945, allorquando il movimento internazionale ha ormai preso il sopravvento, e addirittura comincia a mostrare i primi segni di attacco critico, la querelle tra tradizionalisti e innovatori ha perso di
significato e di fatto numerosi architetti italiani in auge nel periodo anteguerra si trovano a vivere una situazione professionale inedita.
Uno dei filoni più interessanti dell’opera muziana postbellica, oltre ai molti interventi di ricostruzione nel tessuto urbano di Milano, alle architetture delle centrali idroelettriche o ancora alla progettazione urbanistica, resta l’architettura religiosa, che lo vede tra i protagonisti maggiormente impegnati in Italia e all’estero.
Ed è su quest’ultimo tema che il nostro protagonista si manifesta sulla scena veronese con un’opera che, per lo più sconosciuta, presenta tuttavia un alto valore formale e compositivo, la Cappella dell’Educandato agli Angeli in via Cesare Battisti a Verona. A dire il vero Muzio si era avvicinato alla realtà veronese già in tempi precedenti, innanzitutto con l’importante partecipazione al concorso per il Piano Regolatore del 1932. Aggiudicatosi il secondo premio ex aequo con quello di Ettore Fagiuoli, il progetto che Muzio presenta in gruppo con Alpago Novello, Cabiati e Poggi4 raccoglie il favore di Luigi Piccinato, che sulle pagine di «Archittettura e Arti decorative»5 giudica la soluzione per una “città stellare” – con zone periferiche abitate alternate ad ampi spazi verdi – la soluzione “di maggior pregio… che lo fa differenziare da tutti gli altri”. Gli esiti del concorso
Testo: Federica Guerra
Foto: Lorenzo Linthout
01. La lanterna sovrastante la cupola della cappella dell’Educandato agli Angeli, Verona.
L’architettura religiosa di Giovanni Muzio in due opere veronesi poco note tra centralità urbana e anonimato provinciale
DI MUZIO
rimarranno poi inascoltati a causa del lungo iter di stesura definitiva e per l’arrivo della seconda guerra mondiale, ma il progetto rimane una delle tappe fondamentali tra le opere urbanistiche dell’autore, che dimostra, nelle relazioni introduttive al Piano, una conoscenza approfondita del tessuto storico e delle dinamiche urbane veronesi.
In questa ipotetica “marcia di avvicinamento” a Verona, ricordiamo poi che Muzio frequenta fin dagli anni Trenta il lago di Garda realizzando numerose ville a Sirmione6 , località che, pur in provincia di Brescia, resta storicamente legata al distretto veronese del lago. Qui il tema della casa di vacanza viene declinato in diverse forme, che vanno da un misurato storicismo con riferimenti all’architettura tradizionale del lago, nelle ville per committenti esterni7, a una più spinta tangenza col Razionalismo nella villa che egli costruisce per sé in località Ca’ Movina. Ma ancora, prima dell’intervento in città, Muzio aveva lavorato in provincia di Verona,
a Vago di Lavagno presso l’Oasi di San Giacomo, a due opere di diversa scala. Qui costruisce nel 1962 per la famiglia Battiato – lontani parenti del più famoso Franco – una villa oggi difficilmente accessibile e di cui restano alcuni disegni8 che non facilitano la sua individuazione e, dappresso, nel 1960 per conto della congregazione dei Poveri Servi della Divina Provvidenza fondata da Don Calabria, una curiosa “Scala Santa e chiostro”, un percorso devozionale con via crucis che collega la quota di ingresso del complesso con la chiesa trecentesca di San Giacomo. L’originale disegno a cuspidi delle diverse cappelle sarà uno dei temi ricorrenti dell’architettura sacra di Muzio, qui realizzate in forma semplificata ma che riporta senza dubbio alla sua calligrafia.
L’opera più interessante di Muzio a Verona, dicevamo, resta la Cappella dell’Educandato agli Angeli, oggi in parte modificata e adibita ad aula magna dell’Istituto.
Il complesso dell’Educandato agli Angeli,
02. Il chiostro prospiciente la chiesa di San Giacomo a Vago di Lavagno, realizzato da Muzio per la congregazione fondata da Don Calabria
03. 04. La “Scala Santa” che collega il chiostro all’ingresso del complesso religioso.
che fin dal 1800 occupava i locali del monastero di Santa Maria degli Angeli, fu quasi completamente distrutto dai bombardamenti della seconda guerra mondiale che videro come unico superstite dell’antico corpo di fabbrica la porzione realizzata dal Trezza tra il 1783 e il 17889. Il progetto di ricostruzione del dopoguerra fu affidato all’ingegnere capo del Genio Civile Aldo Cossato e all’architetto Plinio Marconi, che realizzarono l’opera, in lotti e con difficoltà di reperimento dei fondi, tra il 1951 e la fine del decennio. Ancora negli anni Sessanta rimaneva da realizzare la cappella all’angolo tra via Cesare Battisti e via del Minatore, già prevista dal progetto Cossato-Marconi ma ritenuta opera dilazionabile.
Non è chiaro chi individuò il nome di Muzio come progettista dell’opera, se la direzione stessa dell’Istituto10 che reputava il progetto Cossato-Marconi ormai superato, o più probabilmente il Soprintendente Gazzola, che aveva conosciuto Muzio in varie circostanze milanesi. Sicuramente in occasione della ricostruzione del fronte sud di Piazza Duomo dopo gli eventi bellici che danneggiarono pesantemente l’Arengario11, tanto da far balenare alla Commissione Comunale ad hoc istituita nel 194712, di cui faceva parte anche Gazzola, la possibilità di una sua totale demolizione: è quindi ragionevole immaginare
Disegni di progetto della cappella dell’Educandato agli Angeli nella versione definitiva depositata presso gli uffici comunali
08. Ingresso principale alla cappella dal giardino interno dell’istituto, non visibile dalla strada.
07 un contatto tra i due in questa occasione. Più solida l’ipotesi di un rapporto tra Muzio e Gazzola nelle numerose occasioni in cui il primo interviene sui monumenti milanesi – il Convento di Sant’Angelo e Angelicum (193958), il Palazzo della Cassa di Risparmio di via Verdi (1937-41), il Palazzo dell’Amministrazione Provinciale (1938-41), eccetera – esattamente negli stessi anni in cui il secondo riveste ruoli di primo piano all’interno della Soprintendenza lombarda13. Prova di una conoscenza approfondita, se non addirittura di una reale amicizia, è l’interloquire, nel carteggio relativo alla Cappella degli Angeli, confidenziale e amichevole.
Resta il fatto che a partire dal 1968 risultano predisposti i primi disegni della Cappella a firma di Muzio, in forma più ricca ed articolata rispetto alla soluzione finale poi realizzata. L’iter di approvazione del progetto infatti, a dispetto dell’altisonanza del nome del progettista, non risulterà affatto semplice. Il primo progetto presentato riceverà parere
(Archivio Edilizia privata Comuna di Verona).
11
09. Veduta d’insieme dell’edificio all’angolo tra via C. Battisti e via del Minatore.
10. Ingresso secondario alla cappella su via C. Battisti, che conduce ad alcuni ambienti di servizio, alla scala al piano inferiore nonché a un ingresso diretto al presbiterio.
11. Planimetria generale della cappella: è visibile il corpo di collegamento con l’istituto, nonché l’ingresso principale e quello secondario (Archivio Edilizia privata, Comune di Verona).
negativo il 24 luglio 1968, perché il delegato dalla Soprintendenza, Vittorio Filippini, ritiene il progetto poco compatibile “per motivi estetici in relazione all’ambiente architettonico circostante”. Con l’intercessione del Soprintendente e le pressioni dell’Istituto, viene rilasciato in data 9 ottobre 1968 dalla Commissione edilizia un nuovo parere favorevole, ma condizionato all’introduzione di alcune modifiche formali consistenti sostanzialmente nel ridimensionamento dell’apparato decorativo. Il 4 febbraio 1969 viene rilasciata l’autorizzazione edilizia. Ma l’iter burrascoso non finisce qui: il Genio Civile non ha più i fondi necessari alla realizzazione e l’Istituto chiede pertanto due rinnovi dell’autorizzazione (nel ’69 e nel ’70) e poi ancora, quando finalmente vengono reperiti i fondi, la nuova Commissione Edilizia rigetta nuovamente il progetto. Ne segue una fitta corrispondenza tra l’Istituto e l’amministrazione comunale che arriverà finalmente al rilascio definitivo dell’autorizzazione solo nel 197114 .
Il volume della cappella non è mai cambiato dalla prima ipotesi progettuale all’ultima, con l’ingresso principale dal giardino interno e l’abside poligonale orientato sull’angolo tra le vie Cesare Battisti e del Minatore, ma si sono via via andati semplificando i paramenti murari, che prevedevano dapprima lesene con paramento in laterizio a vista sottolineato nei vertici da conci in pietra e finestre lungo l’aula, finestre che da orizzontali vengono poi realizzate ad andamento verticale, più consone alla tradizione delle aperture basilicali; così come il coronamento del tiburio che perde via via gli elementi cuspidati per lasciare posto a piccoli “merli” triangolari in pietra.
L’elemento principale dell’edificio, nonché
“Un’apertura alla fruizione pubblica pare l’unica soluzione per il recupero dell’edificio e il suo inserimento nel circuito delle opere di maggior pregio del Novecento veronese”
quello più sconcertante, è l’imponente cupola a doppio guscio di calcestruzzo con esterno a piramide esagonale e interno a traliccio, elemento che Muzio aveva sperimentato nella Basilica di Nazareth in Israele15, di pochi anni antecedente, ma che qui trova una soluzione ancora più ardita nel distanziamento tra il guscio esterno del tiburio e la raffinata contro-cupola a “merletto”, tanto che la luce proveniente dalle finestre poste sul tamburo produce giochi chiaroscurali sorprendenti. L’impianto, a navata unica, prevedeva poi, sul lato a confine con il corpo di fabbrica preesistente, un matroneo forse in divertita relazione al fatto che la scuola era un educandato femminile, o semplicemente per permettere alle allieve convittrici di accedere direttamente alla cappella dalle stanze di residenza.
Dagli anni Duemila la cappella aveva perso la sua funzione religiosa per il calo degli allievi in convitto, mentre mancava alla scuola un’aula magna che potesse accogliere un
14. Interno della cappella prima dei lavori degli anni
15. Inaugurazione della nuova aula magna dell’Educandato, con il pannello che divide l’aula dal presbiterio realizzato nel 2006 su progetto dell’architetto Nicoletti (archivio Dario Nicoletti).
Duemila (archivio Dario Nicoletti).
16. L’altare maggiore della cappella: si riconoscono alcuni elementi ricorrenti delle architetture sacre di Giovanni Muzio, come le calligrafiche cuspidi delle nicchie, del paliotto e del tabernacolo.
17. Scorcio della cupola.
18. Veduta della maestosa cupola che copre il presbiterio, non più accessibile.
numero sempre crescente di studenti. Il primo intervento finalizzato al cambio d’uso fu quello della chiusura del matroneo per ricavare una sala insegnanti con accesso diretto dai corridoi interni. Ma l’intervento più incisivo sull’involucro fu effettuato, con un progetto dell’architetto Dario Nicoletti, nell’anno 2006: si trattava della realizzazione di una parete divisoria tra il presbiterio sormontato dall’imponente cupola, che doveva mantenere il ruolo di cappella sacra raccolta, e la navata da trasformare in aula magna, sala conferenze e anche sala espositiva delle sette tele settecentesche di Tommaso Porta rimosse durante la guerra e qui ricollocate dopo il restauro. Nicoletti ci racconta il senso
di forte dispiacere per la manomissione che si andava a compiere, ma l’intervento tentò di rispettare, attraverso una pannellatura removibile, in parte necessariamente cieca ma in parte trasparente, la leggibilità unitaria della cappella.
Ben maggiore danno ci pare l’utilizzo attuale dell’incredibile presbiterio, adibito oggi a ripostiglio, magazzino e rimessa di cianfrusaglie varie che non hanno trovato altra collocazione: la mistica cupola guarda con sconcerto il triste destino, mentre un’apertura alla fruizione pubblica pare l’unica soluzione per il recupero dell’edificio e il suo inserimento nel circuito delle opere di maggior pregio del Novecento veronese. •
1 Fu in Francia tra il 1917 e il 1919, ma successivamente anche a Londra, Bruxelles e Berlino.
2 Enciclopedia dell’arte, Garzanti, s.d., voce Giovanni Muzio
3 Sulla figura di Muzio si vedano, in particolare: S. Boidi e F. Buzzi Ceriani (a cura di), L’architettura di Giovanni Muzio, catalogo della mostra (Triennale di Milano, 1994), Abitare Segesta, 1994; G. Gambirasio e B. Minardi (a cura di), Giovanni Muzio. Opere e scritti, Franco Angeli, 1982; F. Irace, Giovanni Muzio 1893-1982. Opere, Electa, 1994.
4 La giuria del concorso era formata da Marcello Piacentini, Alberto Calza Bini e Gustavo Giovannoni.
5 L. Piccinato, Il concorso pel Piano Regolatore di Verona, in «Architettura e Arti Decorative», XII (1933), VII, p. 512.
6 Villa Comelli, 1934; Ca’ Movina, 1937; Villa Giustiniani, 1958; Villa Luzzati, 1959.
7 Per Villa Giustiniani, Muzio si avvale della collaborazione di Pietro Porcinai per le sistemazioni esterne.
8 Tutti i materiali originali sono depositati presso l’Archivio Giovanni Muzio di Milano
9 M. Vecchiato (a cura di), Verona la guerra e la ricostruzione, Rotary club Verona Nord, 2006, p. 226-229.
10 L’Educandato agli Angeli è un’istituzione laica fin dalla sua fondazione: è difficile pertanto ipotizzare una conoscenza, da parte della dirigenza dell’Istituto, dell’architettura sacra di Muzio, che aveva invece avuto una stretta frequentazione con l’Ordine francescano per cui realizzerà numerose chiese, conventi e istituti scolastici. Cfr. M. Gecchele, L’educandato agli Angeli nella storia dell’educazione a Verona, Cierre, 2006.
11 Il progetto elaborato dal gruppo Muzio, Griffini, Magistretti, Portaluppi era risultato vincitore di un concorso nazionale bandito nel 1937 e realizzato a partire dal 1939.
12 M. Morgante, Il soprintendente “urbanista”. Gazzola a Milano 1945-1960, in A. Di Lieto e M. Morgante (a cura di), Piero Gazzola. Una strategia per i beni architettonici nel secondo novecento, Cierre, 2008.
13 Gazzola viene nominato architetto effettivo della Soprintendenza milanese a partire dal 1936. E ancora, incaricato della Soprintendenza ai monumenti della Lombardia dal 1946 al 1949.
14 La ricerca sul carteggio “Educandato agli Angeli”, depositato presso l’Archivio Edilizia privata del Comune di Verona, è stata condotta da Michele De Mori.
15 Imponente progetto portato avanti da Muzio nel corso del decennio ’59-’69 su un’area dalla forte valenza simbolica, in prossimità della grotta dell’Annunciazione, oltre che caratterizzata da importanti reperti archeologici. Si veda G. Mezzanotte, Giovanni Muzio, architetture francescane, Edizioni Eris, 1974.
CUPOLA GUSCIO DI CON ESTERNO A ESAGONALE A TRALICCIO.
PROGETTI
Una rassegna che tocca gli estremi progettuali dagli interni al recupero architettonico, dalla nuova costruzione al restauro di un giardino storico.
PROGETTI
SI CHIAMERÀ
Progetto: Squaranto Associati
Foto: Catalogo Studio
Testo: Luisella Zeri
Due progetti di recupero affrontano il tema dell’abitare contemporaneo tra qualità degli spazi, qualità del costruire e delle relazioni con il contesto.
La ricerca progettuale di Futura –brand dello studio Squaranto Associati nell’ambito domestico e residenziale – raccoglie il bagaglio dei primi vent’anni della propria storia per traghettarsi verso il futuro e le sfide che inevitabilmente il mondo delle costruzioni dovrà affrontare. I temi sono quelli che conosciamo bene: risparmio energetico, recupero e riciclo delle risorse naturali, qualità dell’abitare, spazi belli e funzionali e inevitabilmente attenzione al budget.
Il progetto di Casa Can Cain per il recupero di un rudere sulle colline della Valpolicella si inserisce esattamente in questo percorso evolutivo, e mostra come un edificio legato alla tradizione edilizia locale possa essere reinterpretato in chiave contemporanea, non solo dal punto di vista estetico. L’edificio, che prima dell’intervento era chiuso su due lati, buio e insalubre – comunque un rifugio rispetto alla dura vita di campagna all’aria aperta – viene estroflesso per rispondere alla contemporanea necessità di una vita a contatto con la natura, naturale reazione a uno stile di vita frenetico condotto principalmente entro luoghi chiusi – e la dimensione dell’abitare post Covid ci ha messo del proprio.
Il progetto si è quindi concentrato su uno stratagemma che ha dominato l’intervento sin dai primissimi schizzi: una “torre” piena che connette tutti i livelli dell’abitazione posizionata nel punto più buio della casa. Essa diventa elemento distributivo ma anche vano tecnico per l’alloggiamento delle funzioni di servizio. Al di fuori di questo elemento interamente rivestito in frassino, il progetto sovverte la logica del ‘più è meglio’, rinunciando alla costruzione di due solai per creare in contrapposizione un vuoto alla cui base si trova la cucina, fatta di aria e luce. Anche il secondo progetto di Squaranto Associati che presentiamo, quello di casa Olivè, segue le stesse logiche, seppur nell’ambito di un intervento meno radicale
e di dimensioni più contenute. L’edificio che accoglie l’intervento fa parte del nucleo storico delle case dell’omonima frazione di Montorio, ed è posizionato su una ripida salita che domina la Val Squaranto all’estremo più alto del centro abitato.
La posizione particolare dell’unità immobiliare su due livelli, che gode di un privilegiato punto di vista sulla vallata, determina un layout che inverte le consuetudini, posizionando la zona notte al piano inferiore, subito di fianco all’ingresso, e la zona giorno al livello più alto. La nuova disposizione degli spazi, risultato di strategiche demolizioni e puntuali interventi strutturali, si articola intorno alla nuova scala, spostata internamente rispetto alla posizione originale, e a un sistema contenitivo di armadiature realizzato sia con elementi della grande distribuzione che con parti fatte su misura, costituendo la partizione degli spazi di servizio e delle camere.
La scelta di progetto è precisa: se pri -
“Risparmio energetico, recupero e riciclo delle risorse naturali, qualità dell’abitare, spazi belli e funzionali e inevitabilmente attenzione al budget”
ma non era possibile godere del panorama e tutti i servizi erano disposti in facciata con gli spazi della vita rivolti verso l’interno e lontani dalla luce, con la nuova distribuzione l’abitazione restituisce una miglior qualità dell’abitare; una grande terrazza realizzata sulla copertura di una porzione dell’edificio offre la miglior vista sulla Val Squaranto e la dimensione di uno spazio aperto che, pur non essendo giardino, apre la sua domesticità a una zona giorno senza confini e di molteplice utilizzo. Analogamente ciascuna delle finestre, come un dipinto incorniciato a parete, offre successivi frammenti del paesaggio circostante che a sua volta, introiettato nell’abitazione, si trasforma in legno, pietra e natura, i materiali del progetto. •
Casa Can Cain 01. Il progetto ha previsto il recupero di un rudere sulle colline della Valpolicella Orientale. 02. 04. All’interno di un volume pieno, costruito in rovere, trovano posto gli elementi a servizio dell’abitazione: scale, locali tecnici e servizi igienici.
In contrapposizione al volume pieno dei servizi, il vuoto è segnato dalla luce di un grande lucernario.
06. 07. Doppie altezze e balconate domestiche offrono una successione di nuovi punti di vista sullo spazio dell’abitazione.
08. Piante ai vari livelli. 09. 10. Lo studio del “su misura” interessa tutti i dettagli dell’abitazione, come le scale e alcuni ripiani da utilizzare come spazi di lavoro. 11. Sezione trasversale. 12. Il bagno al livello delle camere.
13. La sezione di progetto evidenzia la scelta distributiva con zona notte al piano inferiore e zona giorno al piano superiore. 14. 15. La casa è posizionata sul punto più alto della frazione da cui prende il nome, godendo di punti di vista panoramici su tutta la valle. 16. La panca-gradone all’ingresso della casa.
18
17. Campo e controcampo sulla zona giorno. 18. Piante di progetto.
Studio di progettazione multidisciplinare composto da architetti, ingegneri, geometri e interior designer. Fondato a Verona nel 2000 da Lorenzo Peroni, cresce nel 2010 con Corrado Grazioli e si evolve dal 2020 con Al Pia e Elia Peroni; ad oggi si compone di una squadra di circa 15 professionisti. I principi che guidano la pratica progettuale nell’ambito domestico e residenziale derivano dalle esperienze e dalle attività di ricerca dello studio raccontate attraverso la galleria virtuale FUTURA.
www.squarantoassociati.it
C.F Costruzioni Edili (opere edili), Nuove dimensioni (cartongessi e resine), Panato Impianti (impianto idraulico), Siviero Federico (impianto elettrico), Marmi Andreis (pavimenti in marmo), Icónico (rubinetteria), Falegnameria Ellegi (serramenti))
Cronologia
Progetto: 2021
Realizzazione: 2022-2023
Casa Olivé
Imprese e fornitori
Edil Monte Croce (opere edili), Tecnobitre (pavimenti e resine), MG impianti (imp. idraulico), Adami impianti (imp. elettrico), 41zero42 (mattonelle), Friulparquet (parquet), Special Marmi (marmi), RIKREA by Squaranto Associati (cucina)
Cronologia
Progetto: 2021
Realizzazione: 2021-2022
Valpolicella, Verona
AFFACCIO BIFRONTE
Progetto: Cabras Architetti Associati
Foto: Atelier xyz
Testo: Leopoldo Tinazzi
Una villa sulla sponda meridionale del lago di Garda è felicemente posizionata tra la strada e le rive del bacino lacustre.
Adagiata sulla sponda meridionale del lago di Garda, Villa T si colloca tra Peschiera e Sirmione, felicemente posizionata su un raro lotto compreso tra la strada e le rive del bacino lacustre, con una piccola darsena privata per l’attracco delle barche.
Pier Paolo e Nicola Cabras, i progettisti (bresciani), raccontano che fin dall’inizio è stato inevitabile confrontarsi con la presenza della strada a sud e con l’apertura sul lago a nord. Ne è derivata una scelta quasi obbligata: privilegiare quest’ultimo affaccio, intorno al quale si è articolata la definizione dei volumi e delle attività interne alla casa.
L’edificio si configura come un volume
rettangolare di tre piani fuori terra, adagiato su un pendio piuttosto marcato che collega i due fronti. Dal lato strada appare come un corpo compatto e chiuso, mentre verso nord si apre con ampie vetrate e lunghi ballatoi che ne accentuano l’orizzontalità. Da questo lato, la vista si distende sull’intero specchio del Garda e viene filtrata dalla presenza di un parco privato con grandi alberature preesistenti.
Se già a livello dell’acqua l’immersione nel contesto risulta totale, la villa si completa in altezza con una terrazza panoramica da cui si può ammirare anche il paesaggio verso sud, fino alle colline del Lugana, nella campagna dell’entroterra.
A livello planimetrico, il progetto si legge
01. Il fronte nord della villa visto dal giardino sul lago.
02. Il fronte sud visto dalla strada.
03. Piazzale di ingresso sul fronte sud.
come un grande muro a C rivolto a nord. L’accesso può avvenire sia a quota strada (primo piano) sia da un patio più basso (piano terra), ottenuto mediante uno scavo nel terreno. I due ingressi conducono ai tre diversi alloggi che compongono l’edificio.
L’appartamento principale attraversa in altezza l’intera costruzione e ospita al piano terra un grande soggiorno a doppia altezza, in continuità con una cucina parzialmente nascosta e un lungo tavolo da pranzo ellittico. Dal livello superiore si accede, tramite ballatoi affacciati sul salone, al blocco scala che conduce al primo piano, interamente dedicato alla zona notte. Qui trovano posto una grande camera e un ampio bagno-spa, entrambi avvolti su tre lati dalla terrazza di copertura. Gli altri due appartamenti, impilati sul lato est tra piano terra e primo, di taglio identico, sono composti da una zona living/ cucina e da due camere ciascuno. Seppur separati, gli appartamenti sono pensati per dialogare tra loro attraverso il comune
affaccio sul corpo scale baricentrico.
Per rispondere a queste esigenze spaziali, il progetto si è concentrato sullo studio della sezione, da cui emergono chiaramente gli intrecci distributivi tra i diversi volumi. Sempre nella sezione si legge la scelta di una zona filtro verso la strada, utile sia per attutire i rumori, sia per portare luce naturale all’interno attraverso vetrate di copertura, rendendo vitale anche la parte più interna e bilanciandone l’interazione con il fronte nord.
Pur nella sua articolata stratificazione interna, l’edificio mantiene un carattere unitario, grazie alla fluidità delle connessioni e alla coerenza delle finiture. Le cromie interne ed esterne si muovono su toni neutri, con un dialogo tra il bianco-grigio degli intonaci e l’antracite che caratterizza gli scavi del fronte sud, gli infissi e i ballatoi. Il risultato complessivo è quello di un grande cannocchiale verso il paesaggio, al quale Villa T si accorda elegantemente, attraverso la massiva orizzontalità dei suoi fronti. •
04. Planimetria generale.
05. La villa e il suo contesto in una veduta dall’entroterra.
06. Il portale di ingresso dal patio inferiore.
07. La vista è costantemente indirizzata verso il giardino e il lago.
08. I ballatoi del fronte nord affacciati sulla piscina.
09. Patio di ingresso al piano terra.
10. Trasparenze sul grande salone dell’abitazione principale.
11. Lo spazio a doppia altezza del salone.
12. Lucernario sul filtro di ingresso.
14. Incontro tra la massa perimetrale e l’affaccio trasparente sul terrazzo in copertura.
15. Piante dei piani secondo, primo e terra (dall’alto).
13. Sezione trasversale.
Cabras Architetti Associati
è uno studio fondato nel 2007 dopo diversi anni di esperienze professionali anche individuali dei due soci, Pier Paolo Cabras e Nicola Cabras, entrambi laureati al Politecnico di Milano rispettivamente nel 2003 e nel 2005. Lo studio si occupa della progettazione e realizzazione di interventi a diverse scale (territoriale, urbana e architettonica) con particolare attenzione al contesto e alla pianificazione di soluzioni flessibili e capaci di rispondere ai cambiamenti sociali e culturali nel tempo.
www.cabrasarchitetti.it
Committente
Privato
Progetto
Cabras Architetti Associati
Pier Paolo Cabras
Nicola Cabras
Collaboratori
Luciano Pesci, Andrea Guarneri
Imprese e fornitori
Festa Giovanni (opere edili)
Cronologia
Progetto: 2021
Realizzazione: 2021-2023
Peschiera del Garda
GIARDINO DI POJEGA:
Progetto: Filippo Giustiniani & Partners, arch. Giuseppe Rallo
Foto: Marco Dapino
Testo: Marzia Guastella
UN RESTAURO VIVENTE
Un progetto corale ridona linfa al celebre giardino settecentesco opera di Luigi Trezza.
In un soleggiato pomeriggio di maggio – mentre un sottofondo di campane a festa annunciava l’elezione di papa Leone XIV – sulle colline di Negrar, un simbolico taglio del nastro inaugurava la nuova stagione del giardino di Pojega, un angolo di storia, arte e natura, che torna a mostrare la sua profonda essenza dopo l’intervento di restauro e valorizzazione finanziato dal Ministero della Cultura con i fondi europei del PNRR.
L’eredità culturale di questo sito è profondamente legata all’intervento di Luigi Trezza condotto tra il 1783 e il 1796, su commissione del conte Antonio Rizzardi. L’architetto modificò l’assetto di origine seicentesca – composto da terre a uso arativo e prativo – disegnando uno dei giardini più interessanti del panorama veneto, che coniuga il modello formale all’italiana con un tocco dal gusto pittoresco.
Nonostante qualche innesto di matrice novecentesca, il complesso ha mantenuto pressoché integro il suo impianto storico, fondamento del progetto di restauro coordinato dallo studio Filippo Giustiniani & Partners in sinergia con l’architetto Giuseppe Rallo, per la componente vegetale e paesaggistica, e la dottoressa Annachiara Vendramin, per l’aspetto botanico.
Il giardino si articola in tre percorsi paralleli che assecondano le pendenze del terreno e costituiscono l’ordito di un singolare racconto sull’identità del luogo, carico di riferimenti allegorici. La galleria di carpini, il viale dei cipressi e il boschetto percorrono il vasto appezzamento fino all’estremità settentrionale dove intersecano lo “stradone montuoso” –così definito da Luigi Trezza in uno dei suoi disegni – l’unico con orientamento trasversale. Questi sentieri accompagnano il visitatore alla scoperta degli episodi salienti della narrazione – il belvedere a pianta ottagonale, il tempio circolare al centro del boschetto, il teatro di verzura modellato secondo i canoni
classici e il laghetto ovale circondato da muri verdi – la cui genesi è documentata dai quattro fogli acquerellati di Luigi Trezza conservati presso la Biblioteca Civica di Verona. Ogni area è stata sottoposta a una verifica della condizione fitopatologica e fisiologica di alberi e piante per una corretta gestione degli interventi di cura della vegetazione e incremento della biodiversità; mentre azioni mirate hanno contribuito al miglioramento strutturale delle murature e all’integrazione del sistema impiantistico. Particolare attenzione è stata rivolta alla gestione dell’acqua con il restauro delle originarie canalette in pietra che alimentano in modo naturale le fontane, senza alcun dispendio della risor-
“L’eredità culturale di questo sito è profondamente legata all’intervento di Luigi Trezza condotto tra il 1783 e il 1796, su commissione del conte Antonio Rizzardi”
sa, riutilizzata nell’irrigazione del verde e del vigneto. Dunque, riaffiora l’antica vocazione agricola con l’inserimento di viti e alberi da frutto che, sino a inizio Ottocento, occupavano i grandi prati ai lati del viale dei cipressi, oggi tappezzati da diverse varietà di narcisi al fine di preservare il percorso novecentesco e la relazione con gli elementi circostanti. Una cospicua componente floreale con bulbose colorate o piante erbacee ha impreziosito anche le geometrie del giardino segreto, dominato dal ninfeo, e del parterre dietro la villa, donando maggiore espressività.
All’interno di un impianto complessivamente formale, il giardino accoglie il boschetto, immagine di una natura libera ma ancora definita dall’artificio. Il recupero dei percorsi sinuosi ha migliorato il rapporto tra la selva e il tempio centrale nascosto da un volume vegetale di carpino che torna ad avvolgere questa particolare architettura rivestita di stalattiti, sassi e spugne. La riqualificazione della componente arborea e del
sottobosco hanno invece restituito il caratteristico effetto ostile, enfatizzato dalle fiere che compaiono all’improvviso dalle fronde. Ne consegue un’interessante dimensione teatrale che emerge sia dal suggestivo teatro di verzura con le verdi siepi ben conservate, sia dalla relazione tra gli elementi naturali e le sculture a carattere mitologico o fantastico, il cui restauro ha rafforzato la sorprendente mise en scène, che brulica oltretutto di suoni, luci e ombre. Emblematica è la lama di luce che solca la volta del lungo viale di carpini, accuratamente rimodellata.
Nel giardino di Pojega, qualsiasi elemento sembra comporre una scena vivente dove si inserisce l’essere umano in movimento, nota conclusiva di un’armonia ideale che attenua l’odierna dissonanza tra il costruito e il verde urbano. L’intervento di restauro ha ristabilito il legame atavico tra uomo e natura, supportato da un progetto di valorizzazione che promuove i principi di inclusività culturale attraverso un nuovo approccio comunicativo ed elementi volti a migliorare l’esperienza di visita, come pannelli con bassorilievi tattili e guide in LIS. Bellezza, accessibilità e intelligibilità esaltano altresì il potere terapeutico di questo giardino che accoglie attività per il benessere – alcune in collaborazione con l’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria – diventando così un luogo che cura dove il tempo si ferma e l’anima si placa. •
01. Veduta del giardino dalle cedraie.
02. Scorcio del laghetto ovale con il recinto di muri verdi.
03. Veduta del parterre e del viale dei carpini dall’interno della villa.
04. Giardino del laghetto ovale e delle cedraie in una veduta aerea.
05. Sezione del tempio circolare al centro del boschetto.
06. Scorcio del giardino segreto con le nuove fioriture.
07. L. Trezza, Tempio di muro intonacato di stalattiti o siano sassi grotteschi, disposto nel mezzo di un boschetto artificiale di carpini ed altri alberi con stanze verdi e gallerie coperte all’intorno eseguito nel parco del nob.le sig. conte Antonio Rizzardi nella villa di Negrar, disegno, a. 1783, Ms. 1784/I f. 17, Biblioteca Civica di Verona.
08. Giardino segreto dominato dal ninfeo.
09. Viale dei cipressi fiancheggiato da prati con bulbose bianche.
10. Lama di luce nella galleria di carpini.
11. L. Trezza, Teatro a similitudine degli antichi che si sta attualmente costruendo di terra e muri verdi nel giardino del nob.le sig. conte Antonio Rizzardi in Negrar, disegno, a. 1786, Ms. 1784/I f. 27, Biblioteca Civica di Verona.
12. Veduta aerea del teatro di verzura.
13. Cavea realizzata con siepi di bosso alternate a gradini in pietra.
15. Planimetria generale di progetto.
Filippo Giustiniani & Partners
Studio con sede a Bassano del Grappa, fondato nel 2000, ha firmato numerosi progetti di architettura, interior design e landscape in Italia e all’estero, lavorando su diversi programmi e scale con il supporto di un team esperto e multidisciplinare. Giuseppe Rallo
Architetto, paesaggista e conservatore, ha svolto attività di tutela dei beni culturali per oltre trent’anni nella Soprintendenza per il Veneto Orientale. È autore di numerosi restauri, tra cui il complesso di Villa Pisani a Stra, di cui è stato direttore dal 2008 al 2015, e il giardino di Palazzo Soranzo Cappello a Venezia.
Committente
Agostino Rizzardi
Progetto
Filippo Giustiniani & Partners (progetto e DL architettonico, sicurezza)
arch. Giuseppe Rallo (progetto e DL componente vegetale e paesaggistica) con dott.ssa Annachiara Vendramin (direzione operativa componente botanica)
Consulenti
ing. Manuel Cattani (RUP)
arch. Anna Chiarelli (collaudo tecnico amministrativo)
Appaltiamo (gestione bandi)
Ianus (rilievi topografici)
Piramide Engineering (progetto impianti elettrici e idraulici)
PG&W (valorizzazione e marketing territoriale)
FORMO (rebranding e comunicazione)
Imprese
Van De Borre Giardini, Terradice
Tisato Restauri (restauro statuaria e murature), Arca (restauro del Belvedere)
Voltech (impianti eletrrici e speciali), Luciano Bonati (impianti idraulici)
Cronologia
Realizzazione: 2023
Negrar di Valpolicella
GIARDINO DI POJEGA, ELEMENTO COMPORRE VIVENTE INSERISCE
UMANO IN MOVIMENTO
GIARDINO
QUALSIASI ELEMENTO SEMBRA UNA SCENA DOVE SI
L’ESSERE MOVIMENTO
IL LAVORO DI CO-PROGETTARE
Progetto: MASAAI studio
Foto: Del Rio Bani
Testo: Angela Lion
Una lettura degli spazi interni mirata all’introduzione di un uso contemporaneo valorizza
01. I tiranti di sostegno del solaio inseriti nell’intervento precedente e mantenuti come traccia “archeologica”.
02. Particolare dell’attacco superiore di uno dei tiranti.
Spazio Diaz è un interessante esempio di architettura degli interni, dove un progetto di ‘sottrazione’ ad opera di MASAAI studio ha restituito visibilità alla struttura originale dell’edificio ma anche a un’importante fase di trasformazione relativamente recente, dando origine a un concept in chiave del tutto contemporanea. Ci troviamo all’interno della casa Lanza, un edifico di Ettore Fagiuoli risalente al 1933 a pochi passi da Porta Borsari; parte del secondo piano è stata oggetto negli anni Sessanta di un importante intervento per consentire l’apertura di un’attività commerciale dedicata all’ingrosso di preziosi. La necessità di collocare pesanti casseforti e di blindare completamente gli spazi aveva portato il progettista di allora, Alfonso Rama, a operare dall’interno, realizzando una struttura metallica di sostegno dei carichi appesa a travi metalliche poste all’intradosso del solaio di copertura. Il tutto secondo un gusto che, visto oggi, appare ‘di maniera’, tra scalettature fini a se stesse e materiali lucidi.
È il caso di dire che i MASAAI hanno saputo portare alla luce queste singolari caratteristiche anche facendo di necessità virtù: la nuova destinazione d’uso prevista, un coworking, è risultata infatti sufficientemente flessibile da consentire una semplice selezione di tutti quegli elementi impossibili da rimuovere. La pianta degli spazi, lunga e stretta, è stata quindi conformata attorno all’elemento metallico sagomato appeso alle travi tramite quattordici tiranti, che rimane ininterrotto come una linea continua che scandisce gli spazi di ogni singolo ufficio, delimitati volutamente da pareti in vetro opalino dai minimali montanti in alluminio. Questa soluzione ha consentito di dare luce al lungo, ma ampio, corridoio interno.
Quattro uffici, una sala riunioni, due servizi e una reception, tutti caratterizzati da segni
del passato: dalla bussola blindata, mantenuta sebbene spogliata degli imponenti rivestimenti in marmo, all’orditura metallica in acciaio, cassettonata a soffitto, e riproposta esternamente come inferriata.
A questi retaggi del passato i progettisti danno un tocco di leggerezza e contemporaneità attraverso i colori scuri dei soffitti a vista, in contrasto con l’elemento vetrato. Le passerelle reggicavo metalliche, sottostanti il grigliato a soffitto, mostrano senza alcuna vergogna tutta la rete impiantistica necessaria alla nuova funzionalità, diventando motivo di continuità tra gli ambienti. Il pavimento in micro-cemento conferisce continuità, alleggerendo un ambiente di per sé carico di dettagli. La sala riunioni, luminosissima, man-
“Le passerelle reggicavo metalliche, sottostanti il grigliato a soffitto, mostrano senza alcuna vergogna tutta la rete impiantistica necessaria alla nuova funzionalità”
tiene la testimonianza della storia del luogo grazie alla cassaforte di colore blu acceso usata come elemento di arredo.
Come raccontano i progettisti, “in questi spazi si respira un’atmosfera neutra, quasi fredda, per lasciare le pareti in mattoni trasudanti di storia parlare ai futuri utilizzatori di questo ufficio condiviso. Oggi, questo oggetto quasi artistico trova all’interno di un nuovo uso urbano, il coworking, un nuovo ruolo e un nuovo posto, e si aggiunge ai numerosi segni della storia che permeano questo intervento di riuso adattivo”.
La peculiarità in tutto questo è la capacità di aver saputo leggere tra le pagine di un libro già scritto i contenuti architettonici e di averli progettualmente trasposti in chiave moderna: “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma” (Antoine-Laurent Lavoisier). •
linea prospettica della passerella reggicavi a vista.
04. Accessi a due degli uffici in cui è stato frazionato lo spazio di lavoro.
05. La luminosa sala riunioni dove sono stati mentenuti i serramenti blindati in rovere.
06. Nel controcampo della sala riunioni, la cassaforte blu diventa un elemento di arredo.
07. L’andamento scalettato della putrella di sostegno del solaio diventa un segno grafico caratterizzante gli spazi.
La muratura di confine lasciata
rappresenta un ulteriore livello di stratificazione “archeologica” del progetto.
09. Particolare delle passerelle reggicavo a vista.
10. Pianta.
08.
a vista
MASAAI studio
Fondato nel 2016, MASAAI studio si occupa di architettura, interni e paesaggio, dalla piccola alla grande scala, con progetti che ricercano semplicità, essenzialità e coerenza formale. Tra i loro lavori, «AV» ha presentato una piccola selezione in Cinquanta sfumature di bianco sul numero 29 (pp. 61-63) oltre al progetto della Locanda Case Vecie a Grezzana («AV» 139, pp. 56-62) che ha ottenuto una menzione al Premio Architettiverona 2024.
www.masaaistudio.com
Committente
Privato
Progetto MASAAI studio
Team di progettazione
Matteo Maria Savoia, Carlo Alberto Cusinati, Maddalena Gioco, Maria Betti
Tecnicamente chiamati pensiline, questi manufatti dell’arredo urbano si stagliano talvolta in contesti decisamente poco urbani, a segnare nel paesaggio i tempi e i luoghi dell’attesa.
PORTFOLIO
PORTFOLIO
L’ARTE DELL’ATTESA
Testo:
Alice Lonardi
Foto: Lorenzo Linthout
Nel ritmo accelerato delle città contemporanee, l’attesa o l’inazione è diventata una parentesi, spesso sottovalutata o addirittura non considerata. Nel tessuto della mobilità urbana uno dei luoghi dell’attesa è sicuramente riconducibile alle fermate dei mezzi di trasporto, in maniera più specifica quelle degli autobus (che tutti almeno una volta nella vita abbiamo utilizzato). In apparenza si presentano come semplici strutture funzionali, in realtà sono veri e propri microcosmi urbani dove l’architettura incontra la vita quotidiana, luoghi transitori, in bilico tra invisibilità e centralità; spesso ridotte a tettoie essenziali, le fermate dell’autobus rappresentano l’essenza dell’architettura minima.
Tuttavia, proprio nella loro semplicità si cela una complessità progettuale: devono offrire riparo, visibilità, accessibilità, sicurezza e comfort, il tutto in pochi metri quadrati; non meno importante è anche il fatto di bilanciare queste esigenze pratiche con una forma capace di dialogare con il contesto urbano, di rispondere al clima locale, e, idealmente, di ispirare un senso di appartenenza.
La fermata non è solo luogo di transito: è uno spazio sociale. L’architettura può (e dovrebbe) favorire questa dimensione relazionale, attraverso accortezze come la disposizione delle sedute, la trasparenza delle superfici, l’integrazione con il verde urbano o addirittura con elementi artistici, di quest’ultimo ne sono un valido esempio le fermate in Bielorussia dove negli anni Ottanta il governo chiese ad alcuni artisti locali di decorarle con dipinti e murales.
In un mondo che celebra la velocità, la fermata dell’autobus ci ricorda quindi il valore
del tempo sospeso e l’arte della pazienza. Progettare questi spazi con cura significa restituire dignità a un rituale quotidiano apparentemente banale; significa riconoscere che l’attesa non è solo passiva, ma può diventare osservazione, incontro e riflessione.
Fermate dell’autobus che sono anche una biblioteca di quartiere ad Alcaldía de Bogotà, in Colombia o come nel caso delle cosiddette buzz stops presenti nel Regno Unito, nei Paesi Bassi, in Danimarca, Svezia, Francia e Belgio (un gioco di parole che unisce bus stop, fermata dell’autobus, a buzz, il suono che fanno le api in inglese). Pensiline sopra alle quali viene installato un piccolo giardino in miniatura colmo di fiori autoctoni, in modo da attirare insetti impollinatori come api, bombi e farfalle; questi contribuiscono ad aumentare la biodiversità nei centri urbani, ma assorbono anche l’acqua piovana e secondo l’azienda contribuiscono in piccola parte a compensare la formazione delle cosiddette “isole di calore urbane” migliorando la qualità dell’aria e diventando un esempio concreto di come anche l’attesa possa contribuire alla resilienza ecologica della città (cfr. Le fermate dell’autobus possono anche essere belle, «Il Post», 13 agosto 2024). In casi come questi, la fermata è più di un’infrastruttura: è un piccolo teatro urbano. E allora, perché non fare dell’attesa un’esperienza bella, comoda, sicura e — perché no — poetica riflettendo sul potenziale estetico, sociale e simbolico di questi luoghi? Forse anche una semplice fermata può diventare un gesto architettonico consapevole, capace di elevare l’esperienza dell’attesa a momento estetico e urbano. •
01. Le immagini rappresentano alcune pensiline apparentemente “smarrite” in recessi extraurbani della provincia veronese: Pressana.
02. Affi. 03. Calmasino (Bardolino). 04. 05. Negrar di Valpolicella.
AVDI LA BACHECA AVDI
BACHECA DI AV LA BACHECA DI AV
Costruire per il futuro con Progress
Bad Gastein ammodernato con elementi prefabbricati in calcestruzzo brissinesi
Gli storici edifici del Badeschloss e dell’Hotel Straubinger a Bad Gastein, Austria, sono stati ristrutturati e ampliati con un nuovo edificio innovativo in elementi prefabbricati in calcestruzzo della PROGRESS SPA di Bressanone.
Una nuova opera per un nuovo inizio
Sono stati costruiti in brevissimo tempo 13 piani fuori terra, così come un attico e un piano terra e seminterrato, utilizzando elementi prefabbricati in calcestruzzo della PROGRESS SPA di Bressanone. Per ogni piano è stata pianificata una tempistica di costruzione di circa 2 settimane. In totale sono stati utilizzati 6.300 m² di pareti e 3.000 m² di solai. L’elemento più pesante pesava ben quattro tonnellate.
Costruire con elementi prefabbricati in calcestruzzo – costruire per il futuro
Gli elementi prefabbricati in calcestruzzo si sono affermati non solo come simbolo di stabilità e brevi tempi di realizzazione ma si dimostrano sempre più una componente chiave per un’edilizia sostenibile ed innovativa.
Garantiscono un metodo costruttivo all’avanguardia ed ecosostenibile e in questo è esperta e leader di mercato un’azienda di Bressanone: PROGRESS SPA.
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La costruzione con elementi prefabbricati in calcestruzzo è sostenibile sotto molti aspetti. Migliori condizioni di lavoro nelle fasi produttive, l’efficienza energetica dell´opera, una lunga vita del fabbricato e componenti costruttivi ottimizzati dal punto di vista energetico rappresentano fattori decisivi.
In questo contesto PROGRESS SPA contribuisce in modo decisivo alla costruzione del futuro.
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Ferro, ceramica e luce
Movimento, colore e dinamicità rompono ogni schema con le lampade di Ferroluce
Quando si parla di Ferroluce si racconta una storia iniziata quarant’anni fa, che narra di un materiale nobile, a bassissimo impatto ambientale e dalle ampie capacità tecniche: la ceramica.
L’azienda inizia in realtà il suo viaggio nella produzione di lampade creando plafoniere in ferro battuto: un materiale molto versatile e all’epoca apprezzato per la sua modernità ed eleganza. Col passare degli anni è cresciuta l’esigenza di ricercare materiali diversi, che non solo avessero delle caratteristiche tecniche ottimali, ma che fossero legati anche ai valori aziendali.
Tutto questo si ritrova nella ceramica: organica, duttile e particolarmente adatta alla lavorazione manuale che caratterizza un processo produttivo attento e lento, che esalta la lavorazione di ogni dettaglio. Le lampade Ferroluce sono realizzate una ad una attraverso quello che si definisce slow manufacturing, un metodo che valorizza la creatività e l’abilità manuale degli artigiani, permettendo di creare prodotti perfetti nelle loro imperfezioni.
Durante la sua evoluzione, il brand si è sempre contraddistinto per una produzione completamente italiana e a km zero di un’ampia gamma di lampade per interni dove il colore è il denominatore comune, e che spazia dallo stile classico a quello vintage, per arrivare infine a quello più moderno. FORME DI LUCE SRL CORSO MILANO 205 - 37138 VERONA
TEL +39 045 810 1138
La collezione Decò è caratterizzata da una personalità poliedrica racchiusa in forme iconiche e dalla facile leggibilità, ispirata ad ambientazioni vitali e gioiose. Il risultato sono lampade che ben si adattano ad ambienti di molteplici stili, domestici o contract, e diventano protagoniste di ogni spazio.
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