Newl'Ink N.4

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l’ALTROVE

NEWL’INK

di Rocco Giudice Helsinki. Finlandia. Sibelius e Carelia suite. Alvar Aalto e a parte altre meraviglie dovute al suo genio, il design che rivoluzionò sedie, sgabelli e vasi Savoy. Poi: il cinema di Kaurismaki, il rock dei Leningrad Cowboys, la falcata bis-olimpionica, 1972 e 1976, su 5.000 e 10.000 m. di Lasse Viren, fino a arrivare alla Nokia, che sta per passare ai sud-coreani, per chi crede che un affare non è un vero affare se non è un buon affare per tutti e quindi, largo alla globalizzazione!, una (pari) opportunità per tutti - per chi è più opportunista degli altri, magari. La catena associativa finisce male, si spezza in tronco se finisce la finnicità di brand a tecnologia avanzata e paesaggi con marchio depositato nella memoria e nei sogni, nati sulle pagine di un’antologia scolastica con brani scelti del magico Kalèvala. Non c’è da stupirsi, non me ne stupisco io, se per i finlandesi e altri nordici in vacanza la Sicilia è (era, sempre più: era) nello struggente Si maritau Rosa, Saridda e Pippinedda e iù, che sugnu bedda, “-mmi pozzu marita”… (Si piangeva per canzoni così, una volta, si cantava per pene come questa, ai tempi, quando si cantava ciò su cui c’era poco da dire, ciò che si taceva a se stessi e agli altri, pensiamo - passando dal canto alla letteratura senza uscire dalla stessa maledizione - al “dialogo” fra Mena e Alfio Mosca, fra Diodata e Mastro-don Gesualdo: mentre, oggi, essere single è uno status, fare canzoni su uno status o è sciocco o è propaganda o è sciocca propaganda. Perciò, si va avanti da una stagione all’altra con canzoni di una stagione e amori di una stagione, a tirarla molto per le lunghe.) Da Helsinki a Taormina all’emisfero sud, il filo conduttore del turismo di massa spiana la strada a movimenti migratori che smentiscono la genetica politicamente corretta, razzista chi si chiede che significherà mai la recessività dei caratteri del bianco della pelle, dell’azzurro dell’iride, dei capelli biondi e via declinando i caratteri alfabetici di una verità elementare trasmessa con regolarità, le variazioni sono eccezioni alla costanza che li ricalca da una generazione all’altra, gli interdetti ex cathedra universitaria non possono confutare ciò che non occorre, almeno a me, dimostrare, un principio di identità demografica scritto nel codice genetico. E come tutto ciò che è scritto, è, più di

tutto il resto, cancellabile in nome della legge dei caratteri genetici più forti, che smentiscono chi spaccia il sogno bugiardo di un mondo multietnico più bello perché più vario e cioè, più colorato: dal melting pot non scaturirà un mondo in technicolor, dall’united colors non verrà fuori, come da pubblicità ingannevole, un girotondo arcobaleno, ma un’umanità, giustappunto, a tinta unita, rimodellata su fattezze a larga predominanza camitica, che si stenderanno uniformemente omologando il paesaggio umano, secondo proiezioni statistiche attendibili, fra un paio di secoli o poco più. E dove resisterà l’ultima bionda o biondo? In Finlandia, sembra. Se sarà bionda, mi piace pensare che somiglierà a Maarija Pija, che l’ultima creatura “caucasica” (la campagna di rettificazione dei nomi imposta dalla dittatura del pensiero unico relativista merita pienamente l’ipocrisia lessicale che si è scelta come lingua ufficiale: ci sono Paesi in cui è vietato l’uso anagrafico dei termini “padre” e “madre”) di questo pianeta avrà la stessa bellezza eroica di lei, ora che neppure Taormina è quella di una volta, quando la Divina veniva in incognito al Lido di Taormina e Tennessee Williams cercava la Louisiana sulle rive del mito ellenico-ellenistico risorto su lastra fotografica da Von Gloeden e Alma Tadema. La città cambia più in fretta di un cuore umano. Per non dire di un volto che ricordo ancora. Come ricordo tutto o abbastanza per non dimenticare tutto o tutto in una volta. Tutto in funzione di particolari, anche i più distanti o sfuggenti, assemblati per un’immagine unica. La morbidezza dei capelli, che le ricadevano sul collo gonfiandosi in una soffice onda dai riflessi dorati. Emanava un profumo delicato e invadente che era come un’eco di tutta la sua persona. Un profilo d’una qualità squisitamente musicale - allegro vivace, soavemente giocoso, esicastico. Le mani - dalle dita lunghe, inflessibilmente distese in un’anticipazione sull’analoga struttura degli altri arti o un prolungamento dei medesimi anche quando le teneva ripiegate come eleganti accessori e che terminavano con unghie curate, convesse e sottili, simili a confetti - sembra vano reggere qualunque cosa, un bicchiere di gin-fizz o una sigaretta, solo toccandola o sfiorandola. Il polso, dal dorso perentoriamente arcuato, la

fragile, peculiare alterigia del metacarpo, l’umbratile reticenza che traspariva dal tatuaggio sottile di certi capillari che cifravano la pelle, di grana ultrafina e grammatura lievissima, ne facevano l’estensione di una precisione già raggiunta, più che il semplice sostegno, per quanto nobile, di una mano delicata. E il resto - stiamo parlando di Taormina -, il contorno, cioè? Il mare c’è, ma non si nota molto. L’Etna si è fatto umilmente da parte con un mezzo inchino. Si vede il cielo, ma come se fosse di passaggio e non ci tenesse a farsi vedere né a vederci di sfuggita e come di nascosto. Anche le nuvole stanno a riposo. Nulla trattiene lo spazio e lo sguardo: e nulla, il tempo e i pensieri. Mi sarebbe andato bene, se tutto fosse rimasto così. (Dall’Eldorado musicale ‘60-’70, emerge come un luogo incantato uno dei brani che mi riportano a lei, Carelia suite, di Jean Sibelius, nella versione progressive dei Nice, col grande Keith Emerson alle tastiere.) Helsinki, dunque. Proviamo a vedere se il sogno resiste meglio della memoria. Nella raggiera di laghi e boschi, fiume (un nome femminile: Vanda) e un mare che sembra una steppa acquea meno succube delle mitologie solari, una distesa iperborea pronta a gelare, da azzurro cupo a bianco fosforescente, la città sembra un intermezzo urbano abitato da gente che non si è mai mossa da queste sponde, evoluta come se l’immortalità delle anime ivi residenti - una tribù di un milione di persone circa - fosse il presupposto naturale e morale o lo stadio finale della civiltà. La Mannerheimintie affollata - in un giorno fresco, nemmeno troppo ventoso e appena soleggiato - non offre molte chance a illusioni inconfessate. Infatti, dovevo scoprire quali, ma senza ammettere che era così, se non volevo guastarmi l’effetto-sorpresa, senza dire a me stesso (ma sapendo che una canzone lo avrebbe fatto) quello che speravo, perché l’incanto non andasse a vuoto. Nell’aria, le foglie degli alberi tremavano, più per i tram di passaggio che per la lieve brezza, come tutto si muoveva in una souplesse che aveva l’ovattata apatia del primo pomeriggio di un sabato della primavera inoltrata dalle nostre parti. Poi, da non so dove, musica di un concerto open air: ma non era Sibelius. E più avanti, cinque o sei in djiellaba, fi-

maggio | giugno 2012

liformi figli degli altipiani dell’Africa orientale, fluttuanti figure alla Giacometti e meno esili figli del deserto, che avevano appena finito di arrotolare i tappetini su cui si erano prostrati in direzione de La Mecca, le lunghe barbe nere mosse dal vento del Nord. Uno aveva un panciuto tamburo di terracotta attorno a cui erano intrecciate cordicelle rosse, verdi, gialle e nere e lo reggeva appoggiandoselo a un fianco; un altro teneva sotto l’ascella, premendolo col braccio destro sulle costole, un tamburo a forma di cilindro, in cima al quale correva una catenina con appesi piccoli sonagli, conchiglie, ciottoli, biglie e monetine. Tutti e cinque o sei avevano in testa ciascuno un copricapo tipico. Così, senza pensarci troppo perché loro sì e io no? -, mi misi a cantare, a voce non troppo alta, in modo che mi si sentisse nel raggio di un paio di metri: Si maritau Rosa… E subito, una signora che incrociavo in quel momento, continuò, sorridendo: … Saridd’e Pippinedda... Rimasi di stucco. Mi fermai e mi voltai. Poteva essere chiunque: una mia conterranea trapiantata da quelle parti, coniugata o meno a un finlandese; ovvero una finlandese che aveva sposato uno delle mie parti; una che in Sicilia ci era andata in vacanza: e ne era tornata con una canzone indimenticata. E dunque, oltre a Rosa, Saridda e Pippinedda, chissà, anche Maarija Pija aveva convolato? Forse, aveva fatto in tempo a divorziare. Tutto era possibile. Possibile anche che la cantante che aveva afferrato a volo dalla mia voce e più dal profondo, un ricordo fosse lei? Di spalle, bionda, una silhouette appesantita, non c’era da sfidare sogni e realtà, memoria o illusioni chiunque fosse venuta a riscuotere quella canzone come fosse la taglia di un sogno finito per sempre, ma che sopravviveva in una melodia che non è prudente ridestare. Si può osare tutto, ma non si sfidano impunemente gli dèi del canto (che, come è noto, unici fra i superni, ignorano cosa sia la misericordia). C’è un limite agli errori che si possono commettere scambiando per una specie di tenerezza verso i propri sentimenti migliori o più cari quello che è solo orgoglio. Era quello il caso? A quegli dèi esigenti potevo offrire in oblazione memoria, sogno, illusione - se lo erano già preso, qualunque cosa fosse; e senza sapere di doverglielo, avevo pagato un riscatto. Era giusto fosse un riflesso canoro a fissare un’immagine che non poteva ridursi a far da eco allo sguardo: che, ora, dovevo difendere - e non importava che io nemmeno sapessi a vantaggio di chi. Lo sanno gli dèi del canto. Fosse per questo, solo per questo, la canzone aveva avuto un lieto fine. Poteva bastare.

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Helsinki Capitale Mondiale del Design 2012


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