Fondamentale gennaio 2016

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Numero 1 - gennaio 2016 - Anno XLIV - AIRC Editore - Poste Italiane spa Sped.

in Abb. Postale D. L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) Art. 1 comma 1 LO/MI - ISSN 2035-4479

TEST GENETICI

Uno strumento utile se impiegato da mani esperte OLIO DI PALMA

Dal punto di vista della nutrizione non è peggio del burro CANCRO AL SENO

Nelle forme in situ la cura dipende anche dalla paziente

Aldo Scarpa, un napoletano a Verona

MOLECOLE SPIA PER IL PANCREAS


SOMMARIO

FONDAMENTALE gennaio 2016

In questo numero:

04

VITA DA RICERCATORE 04 Contro il cancro del pancreas ci vuole un campione di costanza 08 CONVEGNI Le strategie di prevenzione individuate dagli esperti NUOVE TECNOLOGIE 10 Test genetici, istruzioni per l’uso 13 InTERAPIE situ non significa che si possano trascurare 20 ALIMENTAZIONE 16 Fa male alla salute ma non più del burro VITA DI AIRC 18 Una nuova guida per il comitato di saggi PREVENZIONE 20 L’immigrazione è una sfida anche per gli oncologi RUBRICHE 22 Domande e risposte ETICI 24 IlCOMITATI difficile lavoro di chi non è un esperto PSICONCOLOGIA 26 Informazione e condivisione per chi dice no I GIORNI DELLA RICERCA 29 Fare sistema è il segreto di 50 anni di sfide e successi 18 Quattro incontri negli atenei

Aldo Scarpa ha girato il mondo negli anni della formazione. Oggi a Verona studia il cancro del pancreas

Gli immigrati muoiono di tumore più degli italiani. Colpa della scarsa informazione, della mancanza di screening e del ritardo diagnostico

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6,2 milioni alla ricerca e una sfida che non si ferma ai 50 anni

35 InINIZIATIVE movimento, contro il cancro IFOM 36 IlRICERCA taglio alternativo che aiuta l’angiogenesi 37 InLASCITI pole position per la ricerca IL MICROSCOPIO 38 I geni dei tumori pediatrici sotto la lente dei ricercatori

FONDAMENTALE

Anno XLIV - Numero 1 Gennaio 2016 - AIRC Editore DIREZIONE E REDAZIONE: Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro Via San Vito, 7 - 20123 Milano tel. 02 7797.1 - airc.it - redazione@airc.it Codice fiscale 80051890152 Autorizzazione del Tribunale di Milano n° 128 del 22 marzo 1973. Stampa N.I.I.A.G. SpA Bergamo DIRETTORE RESPONSABILE Niccolò Contucci

Pier Paolo Di Fiore guiderà il comitato dei saggi di AIRC

CONSULENZA EDITORIALE Daniela Ovadia (Agenzia Zoe) COORDINAMENTO EDITORIALE Giulia Cauda, Cristina Zorzoli REDAZIONE Martina Perotti, Cristina Ferrario (Agenzia Zoe) PROGETTO GRAFICO E IMPAGINAZIONE Umberto Galli TESTI Agnese Codignola, Cristina Ferrario, Carlotta Jarach, Daniela Ovadia, Fabio Turone, Cristina Zorzoli

Il difficile dialogo con chi rifiuta le cure

FOTOGRAFIE Giulio Lapone (copertina e servizio a p. 4), Simone Comi, Contrasto, Istockphoto, Annachiara Lodi

Fondamentale è stampato su carta Grapho Crystal certificata e proveniente da foreste gestite in maniera corretta e responsabile secondo rigorosi standard ambientali, sociali ed economici.


EDITORIALE

Pier Giuseppe Torrani

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AIRC ha ricevuto dall’Istituto italiano della donazione il marchio di eccellenza per le organizzazioni non profit che forniscono elementi di garanzia sull’assoluta trasparenza ed efficacia nella gestione dei fondi raccolti.

Presidente AIRC

Il segreto di AIRC? L’efficienza

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on l’inizio del nuovo anno inizia anche il ciclo di attività di AIRC. Nel mese di gennaio, infatti, vengono pubblicati i bandi per i nuovi progetti. I ricercatori hanno un paio di mesi per mandarci i loro elaborati che, ad aprile, vengono assegnati ai revisori, cioè a coloro che li devono giudicare per identificare i più meritevoli. Non si tratta di un lavoro semplice, le richieste sono centinaia e devono essere vagliate con attenzione da persone competenti e prive di conflitti di interesse. Ogni progetto candidato al finanziamento viene assegnato a due revisori internazionali e a un membro del Comitato tecnico scientifico (CTS), nel caso degli Investigator Grant, e solo a tre revisori internazionali per le Start-up, i My First AIRC Grant e i progetti speciali. Ogni revisore è selezionato tra i migliori nel proprio settore scientifico. Gestire il flusso delle richieste e delle valutazioni è complesso e tutto giunge a buon fine solo grazie all’efficienza dei nostri uffici, riconosciuta anche dai nostri interlocutori internazionali. La rapidità, oltre alla trasparenza assicurata dalle procedure di selezione sopra descritte, è essenziale perché la scienza avanza rapidamente. Nel mese di novembre il CTS stila l’elenco dei migliori e i soldi vengono erogati: nove mesi dall’idea al bonifico, che consente ai ricercatori di cominciare a lavorare. Grazie ai fondi raccolti nel 2015, a novembre, mentre scriviamo questo editoriale, AIRC e FIRC hanno già erogato oltre 104 milioni di euro. Ora è tempo di riprendere la raccolta fondi perché anche questo nuovo anno possa raccogliere un contributo adeguato alle richieste meritevoli dei nostri scienziati. Potete darci una mano fin da subito, partecipando alla prima grande campagna di raccolta fondi del 2016, Le Arance della Salute. .

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VITA DA RICERCATORE Aldo Scarpa

In questo articolo:

cancro del pancreas marcatori Aldo Scarpa

Contro il cancro del pancreas ci vuole un campione di costanza Una carriera tutt’altro che lineare, almeno ai suoi esordi, ha insegnato ad Aldo Scarpa che per vincere bisogna continuare a lottare. Una lezione appresa dal padre e dal nonno, ora applicata ai suoi studi su un tumore ancora temibile

O

a cura di FABIO TURONE ggi che ha viaggiato molto visitando anche luoghi esotici – dall’Ecuador al Giappone, da Hong Kong all’Arabia Saudita – e all’estero siede nei comitati consultivi di numerose istituzioni di ricerca di punta, indirizzando importanti progetti di ricerca sul cancro del pancreas, sorride ripensando al motivo per cui, oltre quarant’anni fa, scelse la facoltà di medicina: “Avevo voglia di viaggiare e dopo il liceo classico avevo pensato di iscrivermi a lingue, con l’idea che così facendo avrei girato il mondo” racconta Aldo Scarpa, seduto nel suo ufficio da cui dirige il centro di ricerca ARC-NET, nel Dipartimento di patologia e diagnostica del Policlinico universitario di Verona che ha diretto fino a poco tempo fa. “Mio padre però si oppose, per cui mi dissi che avrei fatto il medico, avrei guadagnato un sacco di soldi e avrei viaggiato da turista in vacanza”. Per il papà Angelo, figlio di contadini mezzadri di Pollica (Salerno) che lavoravano nei campi sulle colline affacciate sul golfo di Policastro, l’istruzione era un bisogno irrinunciabile: “Suo padre, mio nonno, lo sgridava se la sera teneva il lume acceso perché consuma4 | FONDAMENTALE | GENNAIO 2016

va il petrolio che costava molto. Il fatto era che lui amava leggere e studiare, ma riusciva a farlo solo la sera perché durante il giorno, alla fine della scuola, doveva badare ai campi e alle capre” ricorda. “Ebbene, è comunque riuscito a prendere la licenza elementare prelevando in chiesa mozziconi di candela, che gli permettevano di leggere la notte senza mettere a repentaglio il bilancio familiare. Il primo paio di scarpe lo ha indossato a 17 anni, quando si è arruolato nei carabinieri”.

to a sei anni, andando a scuola, e ancora adesso organizza ogni tanto delle cene in cui può rilassarsi e parlare “in lingua” con i suoi conterranei campani che animano le corsie e i laboratori del Policlinico scaligero.

La lingua franca della ricerca

Col tempo, però, ha acquisito la capacità di farsi capire bene a Tokyo come a Riyad, a Londra come in Ecuador o a Hong Kong. In particolare, è capace come pochi altri di far parlare tra loro discipline scientifiche considerate distanti. Aldo Scarpa ha infatti riunito in sé la visione del corpo umano propria dell’antica disciplina dell’anatomia patologica e quella modernissima della biologia molecolare, riuscendo spesso a trasformare in opportunità anche gli sgambetti del destino. Uno di questi sgambetti arriva quando deve lasciare i compagni e seguire la famiglia a Verona. È il 1973, l’anno in cui Napoli è colpita dall’epidemia di colera: “Sono stato emigrato”, ammicca. Il liceo classico viene comunque completato senza difficoltà, e una volta decisa la facoltà di medicina la scelta di Padova è scontata: “Ho concluso medicina restando in corso, anche se non sempre ottenevo la borsa di studio – che all’epoca si chiamava presalario - per poter pagare la casa dello studente. In alcuni anni ho dovuto fare avanti e indietro da Verona: la media dei voti era sempre eccellente, ma alle volte il reddito di mio padre risultava essere superiore a quello di altri compagni di università figli di contadini, che magari poi venivano alle lezioni con la Ferrari”. Il biennio finale lo segue a Verona, dove nel frattempo è stata aperta una sede distaccata. In quegli anni un mese estivo è dedicato al facchinaggio e ad altri lavoretti, per pagare le vacanze e la motocicletta: “La prima fu una Vespa, ma dopo aver

Un padre carabiniere che gli insegna a lottare

Il valore dell’istruzione

Oggi le vecchie foto in bianco e nero dei nonni e del papà Angelo in uniforme insieme agli zii, anch’essi arruolati nell’Arma, accolgono chi entra nello studio, alla cui porta qualcuno si affaccia spesso per presentare un problema pratico, chiedere un consiglio sulla diagnosi di un paziente ricoverato, condividere un dato interessante su una delle molte ricerche in corso. Nato a Napoli, dove il padre era stato trasferito insieme alla giovane moglie Filomena, l’italiano lo ha impara-


passato un’estate a New York lavorando in un negozio di biciclette, comperai la lavatrice alla mamma e la mia prima motocicletta vera, una Gilera 125 rossa, ovviamente usata. Poi avrei avuto anche una mitica Moto Guzzi 500 del 1936”. Anche la passione per i cavalli è, giocoforza, finanziata lavorando nelle stalle.

Il primo progetto L’obiettivo professionale, coltivato fin dalla tesi di laurea, prevede la specializzazione in anatomia patologica, ma all’esame per entrare alla scuola di specialità, a Padova, nessuno dei tre posti disponibili è per lui: con la bocciatura, arriva la cartolina militare. Anche questo incidente di percorso, però, si trasforma in opportunità: “Feci il corso per allievi ufficiali, poi fui mandato alla Sanità Militare a Firenze, dove seppi che a Verona – attorno a cui gravitava metà dell’esercito italiano e dove c’era anche il comando delle forze della NATO in Europa, poiché erano ancora gli anni della guerra fredda – cercavano un laboratorista per l’ospedale militare, che era il più importante d’Italia. Grazie alla mia tesi di laurea ero ferratissimo in materia e superai brillantemente i test del colonnello che dirigeva il laboratorio. Di lì a poco il colonnello fu nominato direttore dell’ospedale e io, con la qualifica di vicedirettore, mi ritrovai a gestire da solo il laboratorio, che collaborava con la sanità pubblica e l’ospedale universitario, scambiando campioni per fare controlli incrociati. Aveva una tale nomea da assistere anche civili e bambini. È stato abbastanza facile chiedere e ottenere: solo a posteriori mi sono reso conto di aver proposto e realizzato un progetto di innovazione già allora, fresco di laurea”. Alla fine del servizio militare riprende a frequentare “come hobbysta” il Dipartimento di anatomia patologica diretto da Luciano Fiore Donati, ma per un po’ di tempo accetta di dirigere un laboratorio di analisi privato, perché ha bisogno di lavorare e lo stipen-

L’oncologia è entrata tardi nella sua vita di ricercatore L’oncologia è entrata tardi nella sua vita di ricercatore La passione per le moto e una vita in movimento

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ALLA CACCIA DEL MARCATORE

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l programma 5 per mille coordinato da Aldo Scarpa coinvolge 120 persone tra ricercatori di base e medici. Grazie al contatto diretto coi pazienti sono in grado di recuperare i campioni che occorrono per queste ricerche. Il team è distribuito in cinque regioni, tre al Nord – in Piemonte, Lombardia e Veneto – e due nel Centro-Sud, a Roma e Napoli. Il tumore al pancreas è un’emergenza sanitaria, con circa 6-8.000 nuovi casi l’anno, di difficile curabilità. Il 10 per cento dei pazienti viene sottoposto a intervento chirurgico,

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che può essere risolutivo solo se il tumore è individuato molto precocemente. Per questo Scarpa e il suo gruppo studiano le molecole che fanno comunicare la cellula neoplastica con l’ambiente circostante, quelle che l’aiutano a crescere e quelle che invece la combattono, per poterle usare come bersagli o alleati nella cura oltre che come marcatori di diagnosi precoce. Avere il maggior numero possibile di pazienti diagnosticati in tempo utile per un intervento chirurgico sarebbe un enorme successo. Le “molecole spia” vengono ricavate dalle banche di tessuti e liquidi biologici ottenute dai pazienti e vengono poi testate in modelli sperimentali. Il progetto ha già individuato alcune molecole promettenti, su cui è stata avviata una sperimentazione.

dio è notevole: “Guadagnavo moltissimo, più di quello che guadagno adesso” ricorda. In quegli anni fa anche il medico di guardia e il medico di famiglia: riesce a entrare alla scuola di specialità a Parma, e decide di imparare a maneggiare il DNA, per cui trascorre tre mesi all’Università di Napoli “in incognito, senza dire nulla ai parenti”, studiando il DNA (“di bufala”) tra il Dipartimento di biochimica e un alberghetto affacciato sul mare di Mergellina.

Spingere con costanza

Quando torna a Verona ottiene un po’ di spazio in un laboratorio, dove sta stretto: “Per estrarre il DNA da analizzare usavamo fenolo e cloroformio, che puzzavano terribilmente” ricorda sogghignando. “Un bel giorno ho pensato di cominciare a lasciare i flaconi tappati male, finché è stata trovata una stanza tutta per me. Anche così mi sono fatto la fama di ‘quello che si appoggia ai muri’, che spinge con costanza finché i muri non crollano e riesce a ottenere ciò di cui ha bisogno”. Altri muri, in un certo senso, si aprono casualmente al suo passaggio: “A Verona con l’apertura della nuova sede era arrivato un biochimico giapponese, Hisanori Suzuki, che aveva vissuto a Napoli ed era reduce da una delusione amorosa con una fidanzata napoletana, da cui aveva imparato un divertente italiano con un forte accento. Avevamo legato, e per un po’ abbiamo diviso l’appartamento, le feste e le cene sociali” rievoca Scarpa. “Quando venne in visita il direttore - lo ‘Shogun’ - del Centro dei tumori giapponese, lui si offrì di fargli vedere la città, e mi chiese di accompagnarlo”. Da quella conoscenza occasionale derivò l’invito ad andare a Tokyo: “Inizialmente mi occupai di ematologia, poi mi dedicai al pancreas, nel luogo in cui sono nati i primi sistemi per il sequenziamento automatico del DNA”. Dopo circa un anno e mezzo torna a Verona, dove lo aspetta la moglie Pa-


VITA DA RICERCATORE Aldo Scarpa

Nella foto in basso, il gruppo di ricerca ARC-NET diretto da Scarpa

trizia conosciuta e sposata poco prima del trasferimento giapponese: “Purtroppo pochi mesi dopo il mio ritorno le fu scoperto un tumore che aveva dato metastasi cerebrali, assolutamente inoperabili: non potevamo fare altro che aspettare, ma vivemmo insieme sei mesi molto ricchi” ricorda con un filo di commozione. “Mi occupavo già di cancro e lei mi disse di continuare, di non mollare e crederci fino in fondo. Per parecchio tempo dopo la sua morte, però, vissi in uno stato di trance”. Quando finalmente decide di scuotersi e di accettare l’invito a cena di un amico, il colpo di fulmine: “A quella cena ho conosciuto Chiara e subito è arrivata Maddalena, che oggi ha vent’anni e vive a Londra dove si paga le scuole di canto e teatro lavorando, seguita dopo due anni da Angelo, che Chiara ha voluto chiamare così in onore del nonno e che oggi frequenta il liceo classico”. Oggi il suo gruppo di ricerca è cresciuto (sono in tutto 70 persone) e lui si trova ad affrontare spesso problemi di gestione, come quando si trattò di pubblicare su Nature uno dei primi articoli del Consorzio internazionale per la

mappatura genetica dei tumori ICGC: “Ogni gruppo poteva indicare solo dieci autori e, trattandosi di una rivista di enorme prestigio, in tanti mi chiedevano se ci sarebbe stato il loro nome, poiché le ricadute sulla carriera futura sarebbero state significative. Alla fine ho trovato il modo per spiegare a tutti che per me la somma di uno più uno più uno non fa sempre tre, ma può fare cento. Tra i dieci nomi, non ci ho messo il mio”.

ziamenti di AIRC, anche dopo i cospicui fondi del 5 per mille per il programma in corso sulla diagnosi precoce e la valutazione del rischio di sviluppo del cancro del pancreas. Altri ne raccoglie con il centro di ricerche ARCNET, che scherzosamente ha ribattezzato UFO in quanto frutto della collaborazione di Università, Fondazione e Ospedale. Per favorire il costante scambio di idee, i laboratori sono condivisi tra chi segue i pazienti e chi fa ricerca, affiancando sempre la visione d’insieme dell’anatomia patologica con quella dettagliatissima della biologia molecolare. Oggi sono 22 i collaboratori pagati con fondi di ricerca: “AIRC ha creato la ricerca sul cancro in questo Paese e mi sentirei un inetto se non riuscissi ad avere sempre almeno un progetto AIRC in corso. Rimane quello a cui tengo di più” chiosa Scarpa. A ricordargli che è tutt’altro che inetto ci ha pensato di recente anche la giuria della rivista Journal of Pathology, che nel gennaio del 2015 gli ha conferito a Londra il premio per il miglior articolo pubblicato nel 2014.

Ogni anno partecipa ai bandi di AIRC

Al timone di un UFO Anche per ottenere il primo finanziamento AIRC Scarpa ha dovuto superare una iniziale bocciatura: “Mandai una lettera d’intenti, come richiesto dal bando, e quando mi fu detto che era stata scartata chiamai al telefono Guido Venosta, per capire come mai non mi era stato chiesto di vedere almeno il progetto. Venosta mi suggerì di presentare una domanda più dettagliata in un altro filone di finanziamenti, che questa volta superò l’esame degli esperti”. Era il 1986, e da allora Scarpa si impegna per ottenere sempre borse e finan-

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CONVEGNI World Oncology Forum

In questo articolo:

prevenzione stili di vita farmacoprevenzione

Le strategie di prevenzione individuate dagli esperti Non basta investire sulle cure: per ridurre la mortalità da tumore, bisogna puntare sulla prevenzione, utilizzando anche nuove strategie e nuove scoperte. Ne hanno discusso gli esperti riuniti a Milano

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a cura di DANIELA OVADIA revenire il prevenibile: è questo il titolo scelto dal World Oncology Forum (WOF), l’assemblea degli oncologi clinici promossa dalla European School of Oncology (ESO), per rispondere all’appello lanciato nel 2012 dalla stessa istituzione: fermare il cancro, ora. “Il WOF è una formula ormai collaudata: invitiamo un numero ristretto di esperti nel settore di cui ci vogliamo occupare – in questo caso nella prevenzione dei tumori – e li riuniamo per due giorni in una stanza a scambiarsi informazioni e opinioni” spiega Alberto Costa, direttore di ESO. “Da questi scambi nascerà un documento di consenso che traccerà le linee guida per gli interventi di prevenzione oncologica”.

Il ruolo dei batteri All’incontro, che si è tenuto a Milano, ha partecipato una quarantina tra oncologi clinici, ricercatori di base ed epidemiologi che si sono chinati sulle statistiche e sugli studi che tentano di fornire un quadro esaustivo e scientificamente affidabile dei maggiori fattori di rischio per lo sviluppo di tumori. 8 | FONDAMENTALE | GENNAIO 2016

La sessione dedicata al rapporto tra nutrizione e cancro, per esempio, ha visto emergere un nuovo protagonista: il microbiota, ovvero l’insieme dei microrganismi che abitano il nostro sistema digestivo. “È ormai certo che la composizione della flora batterica intestinale ha un ruolo importante non solo nella genesi del cancro del colon, ma anche nella modulazione del sistema immunitario” ha spiegato Giorgio Trinchieri, direttore del programma “Cancro e infiammazione” del National Cancer Institute statunitense. “I batteri commensali, ovvero quelli che vivono in simbiosi con noi, possono essere nostri alleati ma, talvolta, anche nostri nemici, promuovendo fenomeni infiammatori cronici”. Che relazione c’è tra microbiota e prevenzione? Il nesso è l’alimentazione: ciò che mangiamo e il modo in cui cuciniamo i cibi influenzano la composizione dei batteri intestinali. Di questo tema ha parlato anche Paolo Vineis, epidemiologo dell’Imperial College di Londra e uno dei principali autori dello studio EPIC (cofinanziato da AIRC) che ha permesso di fotografare gli stili di vita degli europei e le ricadute di que-

sti sul rischio oncologico. “Il microbiota può talvolta trasformarsi in un promotore del cancro. I cambiamenti nella dieta che sono avvenuti negli ultimi secoli hanno trasformato la popolazione batterica che abita il nostro colon, come hanno dimostrato alcuni studi sulla composizione delle feci nel corso dei secoli. Non solo: abbiamo scoperto che il tipo di batteri che alberghiamo cambia con l’età e potrebbe essere una delle cause della diversa incidenza di tumori nelle diverse fasi della vita” spiega Vineis, che insiste sull’importanza di conoscere questi meccanismi più nel dettaglio: modificare la flora batterica intestinale è relativamente semplice, con l’uso di integratori, e quindi questa potrebbe essere, in futuro, una delle strategie di prevenzione vincenti.

Il grasso nemico Michael Pollak, oncologo della McGill University di Montreal, in Canada, si è concentrato sul problema dell’obesità: “Il suo ruolo nella genesi del cancro è certamente inferiore a quello del fumo, ma è in crescita. Studi dimostrano che il grasso corporeo è benzina per i tumori, specialmente per quelli al seno e alla prostata, che sono sensibili agli ormoni conservati nel tessuto adiposo”. Il mediatore di questa relazione negativa è l’insulina, un ormone legato al livello di zuccheri nel sangue e che spesso circola in eccesso nel sangue degli obesi affetti dalla cosiddetta sindrome metabolica. “Dobbiamo insistere con la prevenzione perché non siamo ancora abbastanza bravi a curare” ha detto ancora Pollak, che punta su educazione e informazione. “Abbiamo inventato le etichette nutrizionali con le ca-


Villa Necchi Campiglio a Milano, sede della riunione di esperti del World Oncology Forum

lorie, ma queste hanno scarsissimo effetto sulle scelte delle persone. Con un semplice esperimento abbiamo dimostrato che si può fare meglio: su ogni cibo abbiamo messo, invece delle calorie, il numero di ore di attività fisica necessarie per smaltirlo. Se scopri che la tua barretta di cioccolato preferita richiederà da 10 a 12 ore di lavoro fisico per essere bruciata, magari ci pensi due volte prima di addentarla”.

Le pillole per i sani Adriana Albini, direttore scientifico della fondazione Multimedica onlus di Milano ha fatto il punto sulla farmacoprevenzione dei tumori, ricordando come le molecole antinfiammatorie (tra le quali l’acido acetilsalicilico) costituiscano al momento uno degli esempi più riusciti di “prevenzione in pillola”. “Tra le molecole promettenti c’è la metformina, un antidiabetico orale che ha dimostrato in diversi studi di bloccare o rallentare la moltiplicazione delle cellule staminali tumorali” spiega Albini. Perché la metformina non è ancora entrata a pieno titolo nell’armamentario della prevenzione? “Perché mancano studi di qualità a lungo termine. La farmacoprevenzione deve muoversi su basi sicure, in termini di efficacia e tossicità, e siccome la metformina è una molecola di cui è scaduto il brevetto, non ci sono industrie interes-

sate a studiarne più a fondo le proprietà”. Di farmacoprevenzione hanno parlato anche Jack Cuzick, del Wolfson Institute of Preventive medicine e Andrea De Censi, degli Ospedali Galliera di Genova. Se Cuzick ha puntato sulle cure ormonali per le donne ad alto rischio di sviluppare cancro al seno, insistendo sulla necessità di sviluppare test per identificare quelle più a rischio che vale davvero la pena di trattare con farmaci, De Censi ha spiegato le difficoltà insite nella prevenzione farmacologica: bisogna trovare sostanze non tossiche, affiancate da un biomarcatore in grado di verificare la risposta e bisogna circoscrivere il gruppo da trattare. Un filone di ricerca importante, ma che al momento ha dato scarsi risultati, è quello dei farmaci che contengono in concentrazione elevata gli stessi principi attivi utili contenuti nei cibi. “Al momento non siamo ancora riusciti a mimare l’effetto del cibo sano nel suo insieme, ma non è detto che in futuro non possa essere messa a punto la cosiddetta polipillola,

I pilastri? Stili di vita, farmaci e vaccini

che conterrà una miscela di sostanze protettive, in parte di origine naturale in parte di sintesi” ha concluso De Censi.

Virus e difese Alberto Mantovani, direttore scientifico dell’IRCCS istituto clinico Humanitas di Rozzano e professore dell’Università degli studi di Milano e Silvia Franceschi, epidemiologa dello IARC di Lione, si sono concentrati sulle infezioni e sul ruolo del sistema immunitario. “Sappiamo che ci sono dei virus oncogeni, come l’HPV, che causa la quasi totalità dei cancri della cervice uterina, l’HBC e l’HCV che provocano carcinomi epatici e l’HIV, il virus dell’AIDS che induce in via indiretta la formazione di tumori legati ad altre infezioni, come il sarcoma di Kaposi” ha spiegato Silvia Franceschi. “Se guardiamo al cancro in una prospettiva globale, cioè a livello mondiale, dobbiamo puntare sulle vaccinazioni per eradicare quei virus che sappiamo essere all’origine della trasformazione delle cellule. Senza dimenticare alcuni batteri, come l’Helicobacter pylori, che favorisce il cancro dello stomaco e che può essere eliminato con una semplice cura antibiotica, sempre che venga diagnosticato per tempo”.


NUOVE TECNOLOGIE Analisi del DNA

In questo articolo: test genetici linee guida ASCO

Test genetici, istruzioni per l’uso Le analisi del DNA basate sulle nuove tecnologie forniscono moltissime informazioni sulle caratteristiche genetiche del tumore, ma non sempre i medici sono in grado di interpretarle con precisione a cura di CRISTINA FERRARIO razie allo sviluppo tecnologico è oggi possibile valutare il rischio oncologico guardando direttamente il DNA oltre che la storia familiare di un paziente, ma questi continui e rapidissimi progressi hanno generato

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anche molti dubbi tra medici e ricercatori. Gli esperti della Società americana di oncologia clinica (ASCO) hanno da poco pubblicato sulla rivista Journal of Clinical Oncology un documento nel quale forniscono raccomandazioni su come utilizzare i nuovi test genetici.

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È ormai noto che il cancro è una malattia genetica, che dipende cioè dalle mutazioni e dalle caratteristiche del DNA. Alcune di queste mutazioni possono essere ereditate dai genitori perché presenti nelle cellule della cosiddetta linea germinale, quelle che permet-

tono il passaggio di materiale genetico tra le generazioni, rendendo chi le eredita più a rischio di sviluppare la malattia nel corso della vita. Un esempio su tutti, i ben noti geni BRCA1 e BRCA2 legati al rischio di tumore di seno e ovaio. Altre mutazioni, invece, si presentano nel corso della vita, non hanno nulla a che vedere con l’ereditarietà e vengono definite mutazioni somatiche. UN VANTAGGIO RELATIVO L’identificazione delle persone che hanno una predisposizione ereditaria al cancro è un elemento centrale in oncologia. È questo il punto di partenza del documento ASCO, nato soprattutto dall’esigenza di fare chiarezza su come le nuove tecnologie di sequenziamento del DNA stanno modificando i risultati ottenuti nei

... l’articolo continua su: airc.it/test-genetici


semplici da interpretare. Può succedere per esempio, che un’analisi genetica prescritta per valutare la presenza nel DNA del paziente di una particolare mutazione o di un gene che rende il tumore sensibile a una terapia anticancro sveli la presenza di mutazioni nelle cellule della linea germinale che indicano una possibile predisposizione genetica al cancro o ad altre malattie. In altri casi, quando si vuole analizzare un particolare gene che si sa essere mutato con alta probabilità in un tumore ereditario (per esempio BRCA nel tumore del seno), si utilizzano analisi di pannelli (gruppi) di geni che oltre al gene in questione ne analizzano anche molti altri. Sale così il rischio di trovare mutazioni anche in altri segmenti di DNA diversi da quello che era il protagonista principale del test nelle intenzioni originali del medico. E infine ci sono le “mutazioni di significato non noto”, ov-

vero cambiamenti genetici ai quali, con le attuali conoscenze, i medici non sono in grado di dare un significato clinico ben preciso, ma che possono generare ansia e dubbi sia nel paziente sia in chi lo cura. LA LAUREA NON BASTA PIÙ Gli esperti ASCO ne sono convinti: per cercare di mettere un po’ d’ordine in un contesto così complicato, servono innanzitutto informazione, chiarezza e aggiornamento continuo. Per quanto riguarda i medici, per esempio, la laurea in medicina e la specializzazione in oncologia non bastano più. Chi lavora alla valutazione del rischio genetico non può fare a meno di continuare a studiare e ad aggiornarsi per rimanere al passo con i rapidi cambiamenti in questo settore e per riuscire a comunicare il rischio in modo corretto al paziente. Scoprire di avere una mutazio-

Informazione, chiarezza e aggiornamento continuo

test genetici utilizzati in oncologia e la loro interpretazione. Si parla in particolare di tecniche come il Next Generation Sequencing (NGS), una particolare analisi genetica che permette di studiare i dettagli dell’intero DNA in tempi davvero ridotti e a costi accessi-

bili. Come spiegano gli esperti statunitensi, però, a volte da un test genetico eseguito con questa tecnologia si ottengono molte più informazioni di quante ne siano state oggettivamente richieste e, problema da non trascurare, non tutte le informazioni ottenute sono

ANALISI GENETICHE

VENT’ANNI DI RACCOMANDAZIONI

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uello appena pubblicato non è il primo documento che l’ASCO dedica ai test genetici utilizzati per valutare il rischio in oncologia. Il primo risale infatti al 1996, quando gli esperti statunitensi pubblicarono un testo con lo scopo principale di fornire informazioni sul rischio di sviluppare altri tumori dopo il primo e sui rischi all’interno della famiglia del paziente. Per restare al passo con le nuove scoperte sul rapporto tra cancro e DNA, il documento fu aggiornato nel 2003 e poi anche nel 2010, fino ad arrivare all’attuale revisione, voluta per comunicare e gestire al meglio l’impatto delle nuove tecnologie di analisi genetica in questo settore tanto delicato della medicina.

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LINEE GUIDA

ASCO: I CINQUE PUNTI CHIAVE NUOVE TECNOLOGIE Analisi del DNA

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Analisi delle mutazioni. Gli esperti raccomandano lo sviluppo di linee guida chiare e condivise per la comunicazione dell’esistenza di mutazioni nella linea germinale (che possono essere trasmesse da una generazione all’altra) scoperte per caso nel corso dell’analisi. È importante capire le preferenze del paziente e spiegargli bene, prima di eseguire l’esame, i possibili risultati, facendogli anche firmare un consenso informato.

2

Analisi di gruppi di geni. L’interpretazione dei risultati dell’analisi di diversi geni, potenzialmente legati al rischio di cancro, deve essere lasciata a personale molto esperto ed è fondamentale scegliere con attenzione i geni da analizzare, meglio se sulla base del rischio familiare del singolo paziente.

3

Qualità dei test. È necessario creare un sistema di regole chiare e condivise per evitare che i singoli laboratori utilizzino parametri e test diversi per analizzare i profili genetici. Queste regole non dovrebbero, però, limitare gli aggiornamenti e i miglioramenti continui dei test, né impedirne o limitarne l’uso da parte dei pazienti.

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Formazione dei medici. I medici che si occupano della valutazione del rischio oncologico attraverso i test genetici devono continuamente aggiornarsi, per non perdere le novità mediche e tecnologiche.

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Accesso ai test per i pazienti. Il sistema sanitario non deve rendere troppo complesso o impossibile l’accesso a questi test per le persone che ne hanno bisogno.

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ne inattesa, e magari pensare di averla ereditata e di poterla trasmettere ai propri figli, può creare infatti grandi disagi psicologici e ansie nel paziente; per questo l’ASCO sottolinea l’importanza di un colloquio approfondito tra medico e paziente prima di eseguire l’esame. In questo colloquio il medico deve spiegare per filo e per segno a chi ha di fronte tutti i potenziali risultati di un test genetico, inclusa la possibilità di identificare mutazioni inattese o delle quali non si conosce ancora il significato, deve prendere nota delle preferenze del paziente (qualcuno potrebbe decidere di non volere conoscere questi eventuali “risultati inattesi”) e deve in ogni caso far firmare un consenso all’esame.

solo il cancro) ed esistono oggi oltre mille condizioni cliniche per le quali è disponibile un test genetico creato ad hoc per identificare la mutazione nella linea germinale responsabile del problema. Solo in oncologia, i test genetici per determinare il rischio sono più di 200, con numeri in continua crescita e sempre più laboratori che si stanno attrezzando per eseguirli. Come spiegano gli esperti ASCO, però, la misura e le solide prove scientifiche devono essere alla base dell’utilizzo delle tecnologie più innovative e dei nuovi test genetici. È il caso per esempio dei test che valutano pannelli di geni. Secondo l’American College of Medical Genetics and Genomics, ogni volta che si prescrive un test genetico, e indipendentemente dal motivo per il quale è stato richiesto, dovrebbe essere valutata anche la presenza di altre mutazioni ereditarie – 58 per la precisione – fortemente associate a malattie dell’uomo, in particolare diverse forme di cancro. Se così avvenisse, medici e pazienti dovrebbero a maggior ragione essere pronti a gestire molte più informazioni di quante richieste in origine. E infatti l’ASCO sconsiglia l’eccesso di analisi: “Fino a quando tutti i dubbi sui risultati di questi nuovi test non saranno chiariti, la cosa migliore è limitarsi ad analizzare solo i geni che possono aiutare nelle cure, in base a ciò che suggeriscono la storia familiare e le caratteristiche di ogni singolo paziente” affermano gli esperti.

C’è chi ne prescrive troppi e chi si limita a pochi

MISURA E BUONSENSO Che fare quando si scoprono mutazioni inattese che fanno sospettare una predisposizione ereditaria? E quali geni inserire nei “pannelli” che si utilizzano nei test genetici? Non è semplice dare una risposta a queste domande. La comunità scientifica è divisa tra chi, in un certo senso, rimpiange i vecchi tempi e chi, per contro, crede che le potenzialità delle nuove tecnologie di analisi debbano essere sfruttate il più possibile, anche a rischio di ottenere risultati non chiari per il paziente. Il tutto è complicato non poco dal fatto che, a partire dal 2000, si è assistito a una vera e propria esplosione dei test genetici per la diagnosi di malattie (non


TERAPIE Carcinomi del seno

In questo articolo: DCIS e LCIS linee guida lesioni pretumorali

In situ non significa che si possano trascurare DCIS e LCIS sono due forme di tumore del seno considerate precancerose, anche se vengono spesso trattate come tumori veri e propri. In crescita per via delle mammografie che le individuano anche in fase precoce, ora vengono trattate diversamente l’una dall’altra

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TERAPIE Carcinomi del seno a cura di AGNESE CODIGNOLA no studio recentemente pubblicato sulla rivista Jama Oncology, a firma di un grande gruppo di ricercatori canadesi, ha indagato che cosa accade alle donne che ricevono una diagnosi di DCIS, o carcinoma duttale in situ. L’obiettivo era di stimare la mortalità per cancro al seno in seguito a tale diagnosi e di identificare i fattori di rischio che portano alcune, e solo alcune, delle donne a un esito tanto grave. Dopo 20 anni di osservazione su oltre 100.000 donne, gli esperti hanno stimato che solo il 3,3 per cento delle donne con DCIS muore per cancro al seno. Tra i fattori di rischio maggiore ci sono la giovane età al momento della diagnosi e l’appartenenza alla popolazione afroamericana che, nel contesto in cui è stato fatto lo studio, è portatrice di alcune mutazioni genetiche che ne accrescono la suscettibilità alla malattia. La radioterapia o persino la mastectomia non sembrano efficaci nel prevenire la mortalità per cancro al seno, a riprova del fatto che le forme veramente gravi sono quelle legate a particolari profili genetici che le rendono molto aggressive. Lo studio di Jama Oncology è l’ultimo, in ordine di tempo, a tentare di dare indicazioni pratiche su come gestire queste forme di tumore “ambiguo”, al punto che alcuni esperti, anni fa, hanno proposto di cambiare loro il nome,

U

togliendo la parola “carcinoma” dalla definizione che conferisce un carattere eccessivamente negativo. Il motivo è presto spiegato. Il DCIS, e soprattutto il suo parente molto stretto LCIS (carcinoma lobulare in situ), di cui si parla meno, sono le forme iniziali del tumore al seno, lesioni preinvasive che l’avvento di mammografie sempre più precise e fatte anche in giovane età hanno portato alla ribalta. Si tratta di cellule anomale che iniziano a costituire piccolissime masse neoplastiche, spesso del diametro di qualche millimetro, e che destano allarme, perché potrebbero rappresentare l’inizio di qualcosa di molto più pericoloso. Potrebbero, ma non è detto che sia così. E a tutt’oggi, gli strumenti per capire che cosa succederà sono molto scarsi e non del tutto attendibili. Da qui le polemiche e i dubbi.

Sono forme iniziali a evoluzione non chiara

LINEE GUIDA ITALIANE (Grandi) numeri alla mano, c’è chi sostiene che la mammografia, estesa a donne troppo giovani, porti alla luce molte lesioni che non costituirebbero mai un serio pericolo, non crescerebbero e, lasciate lì, potrebbero convivere con la loro ospite tutta la vita. Secondo altri, invece, è bene toglierle o neutralizzarle sempre, anche dovendo affrontare interventi e terapie. Nel mezzo di queste due scuole di pensiero vi sono le donne cui viene comunicata una diagnosi di DCIS o LCIS che, se non opportunamente informate, spesso si spaventa-

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no e iniziano un iter terapeutico che le porta prima a sottoporsi a esami invasivi come le biopsie e poi, a volte, a interventi e terapie. Come regolarsi e che cosa dice oggi la scienza? L’Associazione italiana di oncologia medica (AIOM), che riunisce la maggior parte degli oncologi italiani, ha emanato di recente le sue linee guida, che aiutano a capire perché la situazione è, nei numeri, molto meno confusa di quanto non sia emerso negli ultimi anni. Del comitato di esperti che le ha elaborate, dopo un’analisi molto attenta della letteratura più aggiornata, ha fatto parte anche Lucia Del Mastro, senologa e diret-

tore dell’UO sviluppo di terapie innovative dell’IRCCS San Martino di Genova, che da molti anni cura donne con tumore al seno e contemporaneamente studia, anche nell’ambito di progetti finanziati da AIRC, una malattia complessa, che può avere molte facce diverse. Spiega Del Mastro: “Si fa confusione, a volte, tra DCIS e LCIS. Il carcinoma duttale è considerato a tutti gli effetti una lesione pretumorale e come tale viene trattato, poiché è stato dimostrato che i benefici associati alle terapie superano di gran lunga gli eventuali rischi e i casi di errore sono compensati dalle molte situazioni più gravi prevenute e dalle vite salvate. Il trattamento consigliato


EPIDEMIOLOGIA

IL DCIS NELLE DONNE ANZIANE

L’

incidenza dei DCIS potenzialmente invasivi aumenta con l’età, ma le donne che hanno più di 65-70 anni difficilmente sono avviate a protocolli di cura convalidati, perché i dati a disposizione su che cosa fare sono ancora insufficienti. Questo il paradosso emerso da uno studio pubblicato su Radiology nel quale i ricercatori dell’Ospedale Universitario di Muenster, in Germania, sono andati a verificare che cosa era successo in una popolazione di oltre 733.000 donne di età compresa tra i 50 e i 69 anni che avevano preso parte a un programma di screening tra il 2005 e il 2008. Per valutare l’importanza delle forme più a rischio di DCIS, gli autori hanno suddiviso i tumori trovati (989, pari all’1,5 per cento del totale del campione analizzato) in tre categorie, a seconda delle caratteristiche istologiche dei campioni delle

è quindi la chirurgia. Con l’avvento delle tecniche mininvasive, a volte viene prescritta anche la radioterapia o, se non si è sicuri di riuscire ad asportare tutto, la mastectomia tradizionale. Su questo approccio non ci sono dubbi: è quello da tenere per prevenire lo sviluppo di una malattia più estesa. Se poi il DCIS, analizzato dal punto di vista molecolare, esprime i recettori per gli estrogeni, in casi specifici, e dopo chirurgia e radioterapia, viene indicata una chemioprevenzione con tamoxifene, il modulatore estrogenico che negli anni ha dimostrato di prevenire le recidive e allungare significativamente la sopravvivenza, a fronte di una tossicità ben conosciuta e gestibile”. LA FORMA PIÙ DUBBIA La forma che ha invece alimentato i dubbi è il LCIS,

perché sulla sua natura la discussione è ancora aperta. È noto che le donne con carcinoma lobulare hanno una probabilità maggiore di sviluppare negli anni un tumore al seno, ma il rischio, oggi, non viene considerato tale da giustificare un approccio invasivo, e non è ancora chiaro quanto il LCIS sia effettivamente maligno. Si preferisce quindi, di solito, non intervenire, ma tenerlo d’occhio da vicino, come spiega ancora Del Mastro: “In questo caso, a seconda della situazione, dell’età, di altri fattori di rischio e della malattia, le opzioni possibili sono tre: la sorveglianza, la chemioprevenzione e la mastectomia profilattica bilaterale. La prima consiste in un esame clinico ogni 6-12 mesi e in una mammografia annuale; nelle donne giovani o con seno den-

biopsie: a rischio basso, intermedio e alto; hanno così visto che le forme ad alto rischio erano 419, quelle a rischio intermedio 388 e quelle a rischio basso 182. È emersa quindi una relazione chiara tra età e aumento della possibilità che il tumore presente, ancorché in fase iniziale, abbia in sé le potenzialità per diventare pericoloso. Per le donne più giovani ci sono indicazioni specifiche, ma per questa importante fascia d’età no. E il motivo è noto: per moltissimi anni, le sperimentazioni hanno incluso donne di età varia, ma sempre, anche per ragioni normative, inferiore ai 65 anni, come se il tumore non fosse ciò che è e cioè, essenzialmente, una malattia dell’invecchiamento. Il commento finale degli autori non può che essere l’indicazione della strada da seguire: concentrare gli sforzi della ricerca su queste donne (che non di rado hanno altre malattie e condizioni diverse da quelle di una donna giovane e con gli ormoni in circolo), per avere a disposizione maggiori informazioni su come il loro organismo reagisce ai trattamenti e per poter scegliere protocolli più adatti a quella fascia di età.

so o, ancora, con una storia familiare di tumore mammario, può essere utile anche la risonanza. Per quanto riguarda la prevenzione con farmaci, non riconosciuta dal Sistema sanitario nazionale, ci sono dati positivi relativi all’impiego del tamoxifene, del suo parente stretto raloxifene e di un altro farmaco usato in donne che hanno un tumore sensibile agli estrogeni, l’examestano: possono far diminuire i rischi di evoluzione. Va detto però che questi usi, appunto non codificati, devono restare nell’ambito delle norme per l’impiego off label, cioè al di là delle indicazioni ufficiali, e che si tratta di cure con effetti collaterali, noti e gestibili, ma non di cure che passano del tutto inosservate. Infine, per quanto riguarda la mastectomia, è opportuno ricordare che deve essere prospettata soltanto quando ci siano concreti elementi che qualificano la donna come ad alto rischio, per esempio per familiarità o per le caratteristiche

genetiche (come la mutazione dei geni BRCA1 e 2) del suo tumore. Si tratta cioè di situazioni veramente molto specifiche, da trattare con la massima prudenza e personalizzazione”. Il quadro che emerge dalle parole dell’esperta, così come dalle linee guida dell’AIOM è dunque meno confuso di quanto si potrebbe pensare: per DCIS e LCIS le indicazioni ci sono, e sono chiare. Ciò che manca, sempre secondo l’AIOM, è la cultura della loro gestione, una conoscenza diffusa tra tutti i medici delle possibili scelte. La donna, in seguito alla diagnosi, deve essere guidata nella scelta da persone in grado di esporre i pro e i contro di tutti gli scenari possibili, quali sono i rischi associati alla cura prevista e quelli che possono derivare dal rifiuto di tale cura. La chiave per affrontare con serenità queste situazioni è sempre la razionalità e la discussione aperta e franca con il medico.

Il quadro è meno confuso di quanto appaia

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ALIMENTAZIONE Olio di palma

In questo articolo: olio di palma nutrizione prevenzione

Fa male alla salute ma non più del burro Demonizzato sulla stampa, oggetto di petizioni e boicottaggi, l’olio di palma è diventato il “nemico alimentare” numero uno, accusato di essere dannoso per la salute. Cosa c’è di vero in queste accuse? Rispondiamo con un occhio alla scienza

L’

a cura della REDAZIONE olio di palma viene ricavato dai frutti dell’albero della palma snocciolati, cotti e pressati. La sua caratteristica è di essere solido a temperatura ambiente, come il burro e altri grassi animali. Al naturale è di un intenso colore arancione perché ricco di betacarotene (un precursore della vitamina A). Per poterlo utilizzare

“ ” G

GLI ACIDI GRASSI li acidi grassi sono i costituenti dei lipidi, quelli che in linguaggio comune chiamiamo appunto grassi. Sono divisi in tre grandi famiglie sulla base della struttura chimica. Gli acidi grassi saturi non presentano doppi legami nelle catene ricche di carbonio che li compongono. Nei monoinsaturi vi è un solo doppio legame e nei polinsaturi due o più doppi legami. Maggiori sono i doppi legami, più fluido risulta il grasso. Gli acidi grassi saturi alzano il livello di colesterolo LDL nel sangue e quindi aumentano il rischio

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nelle preparazioni industriali, come biscotti e creme, talvolta viene filtrato per eliminare il betacarotene, in modo che diventi dello stesso colore del burro o della margarina. L’industria dolciaria utilizza però più frequentemente l’olio di palmisto, estratto per spremitura dai semi della pianta. È di colore giallo e contiene un’elevata quantità di acido laurico, un acido grasso saturo. L’olio di palma contiene

di malattie cardiovascolari. In generale, i cibi di origine animale sono più ricchi di acidi grassi saturi di quelli di origine vegetale (ma non sempre, come nel caso dell’olio di palma o dell’olio di cocco). Gli acidi grassi polinsaturi del gruppo omega 6 riducono i livelli di LDL mentre gli omega 3 riducono i trigliceridi, un altro tipo di grasso circolante nel sangue che, se elevato favorisce l’aterosclerosi. Non tutti gli acidi grassi insaturi sono però sicuri per la salute: alcuni hanno i doppi legami presenti in una configurazione che in chimica si chiama “trans” e hanno effetti simili a quelli dei grassi saturi. Gli acidi grassi trans si formano in seguito a idrogenazione dei grassi vegetali, un processo necessario anche per produrre la margarina.

circa il 50 per cento di grassi saturi, l’olio di palmisto può arrivare fino all’80 per cento. Perché l’olio di palma viene usato in così grande quantità nell’industria? Perché ha diversi vantaggi: costa molto poco ed è semisolido, quindi adatto alla preparazione dei dolci. In pratica sostituisce il burro, di cui condivide alcune proprietà nutrizionali: secondo i dati INRAN, nell’olio di palma ci sono 49,3 grammi di grassi saturi su 100 grammi, nel burro ce ne sono 51,3. Ovviamente queste percentuali possono variare (seppure di poco) a seconda del tipo di palma o del tipo di latte che si utilizza. L’olio di palma non è l’unico grasso vegetale con un tale livello di acidi grassi saturi: anche il burro di cacao, contenuto in molti prodotti dolciari per la stessa ragione per cui si usa l’olio di palma, raggiunge i 60 grammi di grassi saturi su 100 grammi di prodotto.

Gli effetti sulla salute Studi epidemiologici hanno dimostrato che un elevato apporto di grassi saturi (da qualsiasi fonte, quindi non solo dall’olio di palma) aumenta il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari. Inoltre tutti i grassi possono favorire l’obesità che a sua volta è uno dei maggiori fattori di rischio non solo per cuore e vasi ma anche per lo sviluppo di tumori. Paradossalmente, però, l’olio di palma è stato oggetto di studi per i suoi effetti anticancro: è infatti ricco di tocotrienoli, precursori della vitamina E, a sua volta studiata in molti tumori e persino per i suoi effetti positivi sulle malattie cardiovascolari (al momento però non pienamente dimostrati). Inoltre viene somministrato come integratore alimentare nei Paesi in via di sviluppo per combattere le carenze di vitamina A, specie nei bambini e nelle donne gravide. La carenza di vitamina A è una delle maggiori cause di cecità nel mondo.


Gli effetti sull’ambiente Come mai, se le cose stanno così dal punto di vista nutrizionale, l’olio di palma è oggetto di campagne salutistiche e attacchi anche virulenti? La spiegazione più probabile è che gli strateghi delle campagne ambientaliste abbiano scelto di puntare sul presunto rischio per la salute (che è più o meno equivalente a quello che si ha consumando burro) per metterne in crisi la produzione. Tra l’altro, la produzione per consumo alimentare rappresenta una parte minoritaria, mentre il maggior utilizzo della pianta è per la produzione di biocombustibili alternativi al petrolio. Le piantagioni di palme da olio sono un grosso problema ecologico nel Sud-Est asiatico, come spiegava la rivista Nature già nel 2012 in un articolo intitolato “Il boom dell’olio di palma solleva problemi per la conservazione delle foreste”. Dato che il prodotto è molto richiesto, i coltivatori delle regioni in cui la pianta cresce bene tagliano ettari ed ettari di foresta tropicale per far posto alle palme. Indonesia, Cambogia e Malesia stanno perdendo un patrimonio forestale unico, e con esso la biodiversità dell’area. Inoltre i contadini più poveri convertono le loro colture in palme da olio, più redditizie ma poco utili per nutrire adeguatamente le popolazioni locali. Alcune industrie promettono di utilizzare solo olio di palma proveniente da coltivazioni rispettose dell’ambiente, ovvero ottenute da aree già piantate a palme. Questa potrebbe essere una

... l’articolo continua su: airc.it/oliodipalma soluzione, se bastasse a coprire il fabbisogno. Altre industrie propongono di compensare le aree coltivate con la creazione di aree forestali in altri punti, una misura però largamente insufficiente, poiché è impossibile ricreare artificialmente un habitat così complesso, se non dopo molti anni. In conclusione, l’olio di palma è un grasso saturo, e come tale va consuma-

to con moderazione, ma non è più pericoloso per la salute di qualsiasi altro grasso saturo. Vi sono invece problemi ambientali e sociali creati dall’incremento della richiesta di olio di palma da parte del mercato (soprattutto per utilizzarlo come biocarburante), ma non hanno nulla a che vedere col il rischio di ammalarsi.

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VITA DI AIRC Pier Paolo Di Fiore

Una nuova guida per il comitato di saggi La Commissione consultiva strategica di AIRC è una istituzione che guida le scelte strategiche in materia di investimenti nella ricerca. Pier Paolo Di Fiore la guiderà all’insegna della trasparenza verso i donatori

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a cura di DANIELA OVADIA n comitato di “saggi” che orienti le scelte strategiche di AIRC negli investimenti in ricerca: questa è la Commissione consultiva strategica di cui Pier Paolo Di Fiore, medico e oncologo molecolare, diventa, da gennaio, il chairman. “Il nostro lavoro è quello di indicare in quali ambiti della ricerca oncologica è meglio investire forze e denaro attraverso la creazione di bandi ad hoc” spiega Di Fiore, che non è nuovo a questo tipo di sfide dal momento che già da molti anni partecipa alla Commissione. “Non vuol dire che non ci sarà più spazio per le proposte che vengono direttamente dai ricercatori, come è sempre stato, ma la complessità della ricerca sul cancro, che tocca oggi ambiti molto diversi della scienza, dalla bio18 | FONDAMENTALE | GENNAIO 2016

logia di base alla ricerca farmacologica, richiede una maggiore visione strategica sulla lunga distanza”.

Nuove tecnologie Tra i cambiamenti segnalati da Di Fiore, la necessità di lavorare in gruppi più grandi, che vadano oltre il singolo laboratorio. “Questo tipo di esigenza si può risolvere favorendo bandi che richiedano di aggregare più gruppi, non solo italiani ma anche stranieri, perché la ricerca non ha più confini” spiega. Ma può anche essere affrontato dotando l’Italia di piattaforme tecnologiche d’avanguardia in grado di servire i singoli laboratori per la parte di ricerca che non può essere condotta in proprio. “Esiste una parte di ‘nuova scienza’, basata per esempio sui big data (grandi quantità di informazioni che,

DA NAPOLI A MILANO

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edico esperto di oncologia molecolare e biologia cellulare, Pier Paolo Di Fiore dirige all’IFOM l’unità di ricerca La logistica cellulare nel cancro. Classe 1958, napoletano, Di Fiore ha studiato medicina all’Università di Napoli. Convinto che per poter affrontare proble-


In questo articolo:

commissione consultiva Pier Paolo Di Fiore strategie per la ricerca

per essere processate, richiedono centri di calcolo specializzati e costosi) in cui lavorano anche figure come i bioinformatici, i matematici e i fisici”. AIRC potrebbe aiutare il Paese a dotarsi di questo tipo di infrastrutture facilitando la creazione di gruppi “trasversali” realmente integrati che permettano il raggiungimento di risultati altrimenti preclusi ai singoli gruppi, “se no viene a mancare quella componente di efficacia che permette a un’idea di diventare un fatto, un risultato utile al paziente”, come specifica Di Fiore. Le dotazioni tecnologiche sono un problema per tutti i laboratori perché la tecnologia si evolve molto più rapidamente di un tempo: “Se vent’anni fa un macchinario durava anche dieci o quindici anni, oggi dopo due o tre anni arrivano sul mercato nuovi strumenti che rendono quelli precedenti davvero obsoleti, ma star dietro a questo processo costa, e anche parecchio”.

Medio e lungo termine Un gruppo di esperti deve anche, secondo Di Fiore, identificare quali aree sono importanti sul medio e sul lungo termine. “A medio termine vogliamo investire su ricerche che riducano la mortalità; per fare questo dobbiamo anticipare i tempi delle diagnosi con test affidabili e sicuri, oltre a sviluppare nuove terapie” continua Di Fiore. Nella ricerca sui farmaci (ma anche nella ricerca sui marcatori per la diagnosi anticipata), per esempio, esiste una fase che non è, al mi medici importanti sia prima essenziale indagare a fondo i processi biologici, si è avvicinato alla ricerca di base mosso da precise domande mediche. Si è laureato nel 1981 e, nel 1984, sempre all’Università di Napoli, ha ottenuto la specializzazione in oncologia e in seguito anche il dottorato in biologia e patologia cellulare e molecolare. Poi è volato negli Stati Uniti, al National Cancer Institute di Bethesda, nel Maryland, dove ha costruito la propria carriera

momento, né di interesse del ricercatore di base (perché i meccanismi sottostanti sono già stati scoperti) né dell’industria farmaceutica, perché ancora non si sa se la molecola ha qualche potenziale terapeutico (o diagnostico). È su questa “area grigia” che vi sono potenzialità di intervento. “A lungo termine, invece, dobbiamo continuare a studiare i fenomeni che sono alla base del cancro per identificare nuovi strumenti per attaccarlo”. In quest’ultimo settore l’intuito e l’esperienza di scienziati di provata fama sono davvero necessari: “Quando si parla di benefici potenziali della ricerca a distanza di anni, non ci sono ricette. Serve un po’ di fiuto scientifico per capire quali sono gli ambiti che potranno dare risultati concreti; anche così capita di seguire strade che si rivelano col tempo dei vicoli ciechi. La scienza funziona in questo modo, per tentativi ed errori”.

La consulenza degli esperti, tra i quali vi saranno anche alcuni stranieri, è quindi uno strumento indispensabile: per quanto elevata sia la raccolta fondi di AIRC, non basterà mai a coprire i bisogni. “Siamo chiamati a operare delle scelte, a volte dolorose e senza le competenze dei ricercatori più esperti

rischiamo di fare quelle sbagliate”. Secondo Di Fiore, AIRC dovrà supportare sempre di più la formazione dei giovani: “Dobbiamo permettere loro di formarsi al meglio, in Italia ma anche all’estero, e poi dare loro l’opportunità di rientrare, potenziando il programma che sostiene la costruzione di laboratori autonomi per i più promettenti”. Oltre a occuparsi della Commissione consultiva strategica, Di Fiore ha anche il ruolo di comunicare al pubblico le scelte strategiche di AIRC. “Non c’è niente in AIRC che non possa o non debba essere comunicato” spiega. “Credo che i nostri donatori apprezzino questa trasparenza e che gradiscano anche essere informati di questioni apparentemente complesse, come le scelte scientifiche, ma spiegabili con un po’ di attenzione e buona volontà. Basta usare il linguaggio giusto, perché senza comunicazione non possiamo creare la fiducia necessaria tra chi ci affida le proprie donazioni e chi le usa per fare ricerca sul cancro. Anzi, più che il termine fiducia, che in italiano implica una sorta di delega, io userei il termine inglese trust, che implica una reciprocità. Tu ti fidi di me e mi affidi un compito, io ti restituisco la fiducia raccontandoti che cosa sono riuscito a fare grazie al tuo contributo. Perché in fondo stiamo tutti e due dalla stessa parte”.

scientifica, arrivando a ricoprire il ruolo di Section Chief. Negli USA è rimasto 11 anni, facendo ricerche sul gene ErbB2 o HER2, capace di indurre il cancro nel 20 per cento dei tumori al seno e sovraespresso anche in alcuni casi di tumore dell’ovaio. Nel 1995 Di Fiore è tornato in Italia e ha preso parte alla creazione del Dipartimento di oncologia sperimentale del neonato Istituto europeo di oncologia. Nel 2001 FIRC lo chiama a coordinare le

proprie ricerche, che danno vita al programma La logistica cellulare nel cancro, e l’intera attività scientifica del nuovo Istituto FIRC di oncologia molecolare (IFOM). Nel 2009 Di Fiore ha lasciato la direzione di IFOM per tornare a dedicarsi a tempo pieno alla ricerca. Con oltre 200 lavori – tra articoli di scienza ma anche di filosofia della scienza e bioetica – Di Fiore è uno dei ricercatori italiani più produttivi e più citati nella letteratura scientifica.

Le tecnologie determinano il futuro del settore

Questione di trasparenza

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PREVENZIONE Stranieri

In questo articolo: immigrazione fattori di rischio screening

L’immigrazione è una sfida anche per gli oncologi L’arrivo di migranti provenienti da Paesi a basso indice di sviluppo o in guerra costituisce una sfida per il sistema sanitario italiano. Bisogna infatti coinvolgere i nuovi arrivati nelle misure di prevenzione

“L’

a cura di CARLOTTA JARACH arrivo di persone da Paesi dove il cancro si presenta con incidenze diverse da quelle a cui siamo abituati in Europa richiede una maggiore attenzione da parte dei medici, che non devono trascurare alcuni sintomi tipici di neoplasie da noi più rare” dice Silvia Franceschi, epidemiologa, responsabile del Dipartimento infezioni e tumori dello IARC, Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro che ha sede a Lione e fa capo all’Organizzazione mondiale della sanità (OMS). L’OMS è infatti preoccupata per il destino di coloro che, spinti da guerre e povertà, si incamminano con la famiglia per raggiungere l’Europa o gli Stati Uniti. “Sappiamo, da ricerche svolte soprattutto negli USA, che gli immigrati di prima generazione sviluppano tumori simili a

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quelli che svilupperebbero nel loro Paese d’origine piuttosto che quelli tipici del Paese dove sono andati ad abitare: ciò significa che i sistemi di screening, le raccomandazioni e i protocolli di cura sono spesso disegnati per una popolazione dalle caratteristiche molto differenti dalle loro”.

Il ruolo delle infezioni Benché il cancro sia una malattia dovuta a mutazioni del DNA, alcune delle quali legate a familiarità, l’ambiente in cui si vive e gli stili di vita incidono in modo sostanziale sul rischio.

“Il primo fattore di rischio per molti tumori a larga diffusione sono le infezioni, anche se spesso non ce ne rendiamo conto. E se guardiamo alle percentuali di persone contagiate dal virus del Papilloma umano (HPV) e dai virus dell’epatite B e C (virus legati il primo al carcinoma della cervice gli altri due al cancro del fegato) nei Paesi a basso indice di sviluppo, ci rendiamo subito conto del rischio che corrono in mancanza di controlli e screening”. È bene chiarire subito che si tratta di infezioni che difficilmente vengono trasmesse alla popolazione locale, che comunque è già a contatto con gli stessi virus. La presenza degli immigrati, quindi, non aumenta il rischio che le popolazioni locali vengano contagiate in misura diversa da quanto accade già. “La differenza sta tutta nell’accesso alle informazioni” spiega Franceschi. “Le donne africane, per esempio, vengono contagiate dall’HPV in misura solo di poco superiore a quella di altri Paesi ad alto indice di sviluppo ma non hanno accesso al Pap-test. Situazioni ancora più gravi si osservano nelle donne che vengono da territori in guerra, quindi sono in precarie condizioni di salute generale e magari non si sono accorte di aver sviluppato una lesione precancerosa, facilmente curabile, e arrivano all’attenzione del medico solo quando la malattia è molto avanzata”. Lo stesso problema si pone per il


cancro dello stomaco, favorito dalle infezioni da Helicobacter pylori, un batterio eliminabile con una cura antibiotica alla quale molti migranti non riescono ad avere accesso.

Un problema femminile Che la situazione sia critica è confermato anche dai dati diffusi nel contesto dell’iniziativa La lotta al cancro non ha colore, promossa dall’AIOM (Associazione italiana di oncologia medica) e giunta ormai al suo terzo anno di attività. Le statistiche indicano infatti che gli immigrati muoiono di tumore più degli italiani. “È così, soprattutto perché non hanno accesso al Servizio sanitario e, anche quando possono avvalersi di cure gratuite come tutti i cittadini, non conoscono l’utilità della prevenzione. Secondo i nostri dati, gli immigrati accedono agli screening in misura ridotta del 50 per cento rispetto agli italiani” spiega Francesco Cognetti, direttore del Dipartimen-

to di oncologia medica dell’Istituto nazionale tumori Regina Elena di Roma, uno dei promotori dell’iniziativa. Particolarmente a rischio sono le donne, talvolta frenate anche da pregiudizi culturali che le rendono restie a rivolgersi a un ginecologo o un senologo in assenza di gravidanze o sintomi preoccupanti. E infatti solo il 50 per cento delle donne straniere accede alla mammografia e al Pap-test, contro il 70 per cento delle italiane, mentre solo il 20 per cento fa la ricerca del sangue occulto nelle feci contro il 47 per cento della popolazione locale. Nel 50 per cento che si sottopone agli esami vi sono le donne che risiedono in Italia da più tempo e che conoscono la lingua italiana a sufficienza per accedere alle conoscenze di base in materia di salute. La soluzione al problema non è semplice, tanto che gli esperti hanno individuato tre ampie aree di intervento possibili: la formazione del personale medico sui tumori più frequenti nella popolazione immigrata e sul trattamento delle forme avanzate che difficilmente hanno avuto modo di incontrare finora; un più facile accesso al servizio sanitario per l’esecuzione degli screening e, infine, un potenziamento dell’attività di prevenzione per tutti, popolazioni locali e nuovi cittadini.

Informare chi arriva significa salvarlo

PROBLEMI DI COMUNICAZIONE

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l 13,8 per cento degli immigrati sopra i 14 anni fa fatica a spiegare in italiano i sintomi di cui soffre e il 15 per cento non riesce a capire ciò che il medico dice, col rischio di arrivare alla diagnosi di cancro con estremo ritardo e, a volte, persino troppo tardi per le cure efficaci. Inoltre la metà degli stranieri ha stili di vita sbagliati, a volte legati alla precarietà economica e sociale. Per questo l’AIOM ha prodotto materiale informativo su fumo, alcol, alimentazione e screening, disponibile in sette lingue, quelle parlate dai gruppi etnici principalmente rappresentati nel nostro Paese.

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Domande e risposte

Dopo un tumore aumenta il rischio di svilupparne un altro?

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n linea generale la risposta è no. La maggior parte delle persone, infatti, sviluppa un solo tumore primario che però può diffondersi anche in altri organi dando origine a metastasi. Per esempio, le cellule tumorali della prostata possono raggiungere le ossa: in questo caso non si parla di tumore primario delle ossa, bensì di metastasi ossee legate alla diffusione del tumore primario prostatico. In alcuni casi però – in particolare con il tumore al seno, ai testicoli e alla pelle – avere un primo tumore aumenta il rischio di svilupparne altri nel corso della vita. C’è poi un aumento del rischio, seppur lieve, legato al trattamento di chemio o radioterapia utilizzato per curare il tumore primario. La radioterapia può aumentare leggermente il rischio di sviluppare altri tumori, soprattutto se viene effettuata in giovane età. In ogni caso è bene ricordare che i benefici del trattamento superano di gran lunga il rischio di sviluppare un nuovo tumore.

Il prurito può essere un segno di tumore del seno?

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olo raramente il prurito rappresenta un segno di tumore mammario, che invece viene sospettato di fronte ad altri segni e sintomi, come, per esempio, la presenza di un nodulo o una massa che prima non c’erano, il cambiamento della forma del seno, perdite (diverse dal latte) dal capezzolo, retrazione del capezzolo e modifiche nell’aspetto e nella consistenza della pelle del capezzolo o del seno. Esistono però situazioni nelle quali il prurito può essere un campanello di allarme per il tumore del seno, in particolare nel caso del tumore mammario infiammatorio, che si presenta proprio con arrossamento, infiammazione, dolore e prurito. Anche la malattia di Paget del capezzolo, associata al tumore del seno, può causare prurito. In realtà, molto più spesso il prurito è causato da un eczema o da un altro problema di tipo dermatologico.


Perché alcuni farmaci funzionano contro certi tumori e non contro altri?

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l cancro non è un’unica malattia, ma un insieme molto complesso di patologie con caratteristiche differenti che rendono difficile trovare un farmaco efficace in tutti i casi. Esistono più di 200 tipologie di cancro e, all’interno di uno stesso tumore, esistono numerose varianti che rispondono in modo diverso alle terapie. Alla base di questa complessità ci sono le mutazioni del DNA, il nostro patrimonio genetico, che portano allo sviluppo del tumore e alla sua progressione: mutazioni diverse rendono le cellule più o meno sensibili ai trattamenti e fanno sì che un farmaco efficace su un tumore sia del tutto privo di efficacia su un altro. I farmaci mirati basano la loro efficacia proprio sull’esistenza di particolari bersagli sulle cellule tumorali. Non è detto però che tutte le cellule tumorali presentino una molecola bersaglio. E, se il bersaglio non c’è, è inutile utilizzare la terapia diretta contro quella molecola, poiché non sarebbe efficace contro la malattia e porterebbe solo effetti collaterali.

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È vero che alcune cellule del sistema immunitario sanno distruggere le cellule tumorali?

n inglese si chiamano monociti patrolling, vere e proprie pattuglie di cellule immunitarie in servizio per garantire la salute dell’organismo: secondo uno studio recentemente pubblicato sulla rivista Science sono importanti anche per combattere le metastasi, in particolare quelle che colpiscono il polmone. I ricercatori dell’Istituto di allergologia e immunologia dell’Università di La Jolla, negli Stati Uniti, sono riusciti, infatti, a dimostrare in modelli animali che questi poliziotti riescono a intercettare e distruggere le cellule metastatiche che si muovono nel sangue per andare a colonizzare altri organi. Non sono ancora chiari nei dettagli i meccanismi attraverso cui le pattuglie cellulari eliminano le cellule metastatiche, ma si sa, per esempio, che una volta identificato il nemico chiedono aiuto ad altre cellule immunitarie, i natural killer, capaci di distruggere le cellule del tumore. Potenziare il sistema immunitario, e in particolare le pattuglie di monociti, potrebbe impedire al tumore di diffondersi anche ad altri organi, non solo il polmone.

Mio marito è stato sottoposto a chemioterapia sei mesi fa e ora io aspetto un figlio. C’è qualche rischio per il bambino?

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n linea generale il rischio che una chemioterapia possa danneggiare il DNA delle cellule germinali del padre pur mantenendolo fertile è molto remoto. Gli spermatozoi sono cellule delicate e la presenza di una mutazione li rende in genere inabili a fecondare l’ovulo. Non solo: alcuni studi hanno analizzato il destino di bambini nati a breve termine dalla fine delle cure paterne e non hanno riscontrato alcuna differenza in termini di percentuali di malformazioni o sindromi congenite rispetto ai figli di coppie in cui nessuno dei genitori era stato sottoposto a queste cure. In ogni caso è bene segnalare la circostanza al ginecologo il quale può, anche per rassicurare i genitori, prescrivere un esame ecografico morfologico del feto più approfondito e dettagliato di quello suggerito normalmente. GENNAIO 2016 | FONDAMENTALE | 23


COMITATI ETICI Il ruolo dei pazienti

In questo articolo:

sperimentazioni comitati etici associazioni di pazienti

Il difficile lavoro di chi non è un esperto In tutta Europa si discute del ruolo dei pazienti all’interno dei comitati etici, l’istituzione che valuta se una ricerca risponde alle norme legali e morali. Sono essenziali perché rappresentano i bisogni della società nei confronti della scienza

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a cura di DANIELA OVADIA on il decreto legge dell’8 febbraio 2013, la vita di chi conduce studi clinici sull’uomo in Italia è cambiata. Con questa iniziativa, infatti, il Parlamento ha voluto mettere ordine nel delicato mondo dei comitati etici, gruppi di esperti e di persone comuni che hanno il compito di valutare se una sperimentazione risponde o meno ai canoni legali e morali, imposti da una serie di norme e convenzioni nazionali e internazionali.

Una drastica riduzione “Prima di questo decreto ogni ospedale o istituzione aveva il proprio comitato etico, in genere organizzato internamente e che svolgeva la propria attività giudicando secondo criteri non sempre uniformi” spiega il giudice di Corte d’Appello di Milano Amedeo Santosuosso, uno dei pionieri della bioetica in Italia, direttore di ECLT, un centro interdisciplinare che si occupa della relazione tra scienza, tecnologie e legge. “Capitava infatti che un ospedale bocciasse uno studio che un altro approvava, oppure che comitati diversi chiedessero modifiche diverse al protocollo. Col decreto del 2013 i piccoli comi24 | FONDAMENTALE | GENNAIO 2016

tati etici sono stati accorpati e oggi sono molti meno, lavorano secondo regole più uniformi e si occupano di un’intera provincia o, a volte, persino di un’intera regione. Questo dovrebbe ridurre al massimo la difformità di giudizio”.

Un arduo compito A tre anni di distanza dalla loro istituzione, è possibile trarre un primo bilancio del loro funzionamento a regime. Salta all’occhio, per esempio, la riduzione dei membri non specializzati in ricerca, ormai tre o quattro, mentre prima la composizione del gruppo era più fluida e in alcuni casi i cosiddetti “membri laici”, cioè non scienziati, potevano essere molto numerosi. Tra questi, oltre agli esperti di legge e di bioe-

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tica, spiccano i rappresentanti delle associazioni di assistenza o di tutela dei pazienti. Per loro, il compito è davvero arduo, come spiega Philip Brey, coordinatore di SATORI, un grande progetto di ricerca sulle valutazioni etiche in Europa, finanziato dalla Commissione Europea. “Grazie al nostro progetto abbiamo potuto intervistare oltre 270 rappresentanti della società civile in tutta Europa e abbiano chiesto loro come si rapportano con la valutazione della ricerca” spiega Brey. “La presenza di persone che non fanno ricerca ma che hanno qualche interesse nei risultati, per esempio perché sono malate, è essenziale per guidare la scienza. Oggi si pretende che la ricerca, e in particolare la medicina, sia svolta secondo principi morali codificati – per esempio senza arrecare danno a chi partecipa alle sperimentazioni ma, viceversa, offrendo loro qualche opportunità in più in termini di terapie e di controlli – e che sia davvero utile alla società. È la società che chiede alla scienza di applicare le proprie conoscenze su specifici problemi e i rappresentanti dei pazienti nei comitati etici hanno esattamente questa funzione”. Nel corso delle interviste, però, è emerso un disagio da parte delle persone comuni che si trovano a dover giudicare la bontà di una ricerca, senza avere le conoscenze di base necessarie per farlo. “Il cosiddetto divario conoscitivo è uno dei problemi maggiori che abbiamo riscontrato nel nostro viaggio tra i comitati etici, ed è chiaro che chi si prende l’impegno di farvi parte deve

CHI NE FA PARTE

l decreto del 2013 stabilisce anche la composizione dei comitati etici e da questa è facile intuire di quali questioni tale organismo debba occuparsi. Ne fanno parte tre medici ospedalieri, un medico di medicina generale e un pediatra. Per poter valutare la parte più tecnica della ricerca servono

un biostatistico e un farmacologo, aiutati da un farmacista del Servizio sanitario regionale. Il direttore sanitario e il direttore scientifico dell’istituzione in cui si svolgerà lo studio possono ovviamente dire la loro. Completano il gruppo un esperto in materia giuridica e assicurativa, un esperto di bioetica, un


studiare un po’ (ed essere aiutato a farlo dall’istituzione che lo convoca attraverso un programma di formazione adatto). Ma deve anche essere chiaro che ogni persona ha una funzione diversa e che forse un paziente non è l’esperto giusto per valutare il disegno statistico dello studio, mentre lo è per decidere se i benefici attesi e la ragione ultima per cui viene condotto sono di interesse per quelli come lui”. In sostanza, i comitati etici, che fanno le pulci al modo con cui lo studio è disegnato, ai risultati che si prefigge, alla modalità con cui viene spiegato al paziente a che cosa serve (il cosiddetto consenso informato, che non deve essere solo una formalità ma un vero momento di confronto tra il medico e il malato) sono un laboratorio multidisciplinare, in cui ciascuno ha una funzione infermiere o fisoterapista, un rappresentante del volontariato o dell’associazionismo di tutela dei pazienti. Quando si valutano macchinari o dispositivi medici si convoca anche un esperto del settore e un ingegnere medico, così come ci si rivolge a un nutrizionista se si fanno ricerche sull’alimentazione. Infine il delicato ambito dei test genetici e degli studi di genetica deve essere affrontato da un esperto.

specifica, oltre che la cartina di tornasole di una scienza più giusta, che risponde ai bisogni dei più deboli, senza tralasciare l’importanza di perseguire la conoscenza fine a se stessa, che tale non è mai. “I pazienti che si trovano a giudicare se vale la pena investire in un ambito di ricerca di base, senza ricadute immediate per il malato, talvolta hanno la tendenza a ritenere che si tratti di uno spreco” spiega Brey. “Però sbagliano, perché senza ricerca di base non si può far progredire quella clinica. È qualcosa che imparano sul campo, confrontandosi con gli altri membri del gruppo, tra i quali ci sono persone più esperte di loro in scienza. Ma i rappresentanti dei

malati rimangono gli ‘esperti’ della società, e questo è il loro preziosissimo ruolo, la ragione per cui, in molti Paesi, non sono stati eliminati dai comitati etici, bensì potenziati, sebbene i ricercatori spesso facciano fatica a confrontarsi con loro, perché parlano due linguaggi diversi”. In conclusione, accettare di far parte di un comitato etico è non soltanto un dovere civico ma una opportunità per chi ha a cuore la causa di una malattia o più in generale lo sviluppo delle conoscenze mediche ma, pur non essendo un compito retribuito (per evitare relazioni di dipendenza dalla struttura di cui si giudicano i progetti e, in generale, per evitare i conflitti di interesse), può diventare un lavoro perché richiede impegno e studio anche per le persone più esperte. GENNAIO 2016 | FONDAMENTALE | 25


PSICONCOLOGIA Il rifiuto delle cure

In questo articolo:

autonomia del paziente psiconcologia bioetica

Informazione e condivisione per chi dice no La disponibilità di terapie contro il cancro non significa che queste vengano automaticamente accettate da tutti i pazienti. Le ragioni del rifiuto sono molteplici e gli operatori devono saperle gestire a cura di AGNESE CODIGNOLA a Corte Suprema del Connecticut ha detto no: Cassandra C. 17 anni, malata di linfoma di Hodgkin, non ha diritto di scegliere, non può rifiutare le cure, che le erano state comunque somministrate contro la sua volontà. Il caso ha fatto scalpore, nei media americani, perché la malattia della ragazza era in uno stadio nel quale le possibilità di cura arrivano all’85 per cento, ma lei aveva sostenuto di temere le conseguenze a lungo termine delle terapie

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e di voler prima provare con rimedi alternativi. E, soprattutto, era prossima a compiere diciott’anni, età alla quale avrebbe potuto liberamente scegliere di non curarsi. Non è certo l’unico caso: con una rapida ricerca in rete emergono decine di situazioni analoghe, spesso riguardanti bambini o donne incinte, con tutte le polemiche e le barricate ideologiche del caso. Ma il no alle cure per un tumore è una questione immensamente più seria, spesso di vita o di morte, e chiama in causa una quantità di motivazioni che di certo non possono essere esaurite in qualche

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titolo volutamente partigiano di una posizione, o del suo contrario. UN NUMERO IMPRECISATO Nessuno sa quanti siano i malati che rifiutano le cure, anche perché negli anni ci sono stati pochissimi studi e perché è quasi impossibile intercettare coloro che, ricevuta la diagnosi, decidono di non fare niente. Eppure succede, a volte anche solo in certi momenti, che poi lasciano spazio a orientamenti diversi. Claudia

Borreani, responsabile della Struttura di psicologia clinica dell’Istituto nazionale tumori di Milano, premette che il suo osservatorio è condizionato dal fatto che, in genere, chi si rivolge a un centro oncologico lo fa perché vuole curarsi: “Il cancro è una malattia complessa e grave, che implica una riorganizzazione dei propri obiettivi, del proprio vissuto, delle priorità, dell’immagine di sé, necessita di un periodo di adattamento, a volte comporta momenti di rifiuto e coinvolge anche la famiglia: per questo il percorso non è sempre lineare. Ma alla fine la maggior parte dei malati decide di intraprendere un programma di cura, soprattutto quando è informato in modo completo e quando

Pochi studi e pochi dati su chi rigetta le terapie


LA RICERCA

NON HO L’ETÀ

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ha un rapporto di fiducia con tutto il team che lo segue”. Rispetto a qualche decennio fa, cioè all’epoca in cui c’erano solo le chemioterapie, le diagnosi arrivavano spesso con tumori più avanzati e i malati erano considerati in modo diverso, su un piano quasi di sudditanza, oggi i medici e gli psicologi costruiscono un dialogo che non si interrompe in nessuna fase delle cure, sapendo di avere a che fare con persone informate che spesso hanno davanti a sé diverse opzioni. Anche la legge e la bioetica si sono adattate, riconoscendo il diritto del singolo maggiorenne a rifiutare qualsiasi tipo di cura, comprese quelle salvavita. Solo una interdizione legale, che però deve essere supportata da una diagnosi che dimostri che la persona non è più capace di intendere e volere, può portare alla somministrazione coatta delle terapie. Sottolinea ancora Claudia Borreani: “A volte ci confrontiamo con un rifiuto che non è assoluto, nel senso che, a fronte della proposta di un certo iter curativo, il malato ne sceglie uno diverso, magari offerto da altri centri o specialisti. Talvolta si tratta di opzioni alla pari o quasi, scelte in base a ciò che il malato riesce a mettere in gioco, a quanto è disposto a sopportare o a sacrificare (si pensi, per esempio, alle cure ormonali, che compromettono la fertilità, o alla caduta dei capelli e così via), ma in altri casi, purtroppo, si tratta di terapie non supportate da prove

scientifiche sufficientemente solide. Ciò che bisogna fare è capire le motivazioni profonde che spingono una persona a dire no a protocolli convalidati da anni di studi e, magari, a pensare di rivolgersi a cure cosiddette alternative, inserendole anche nel contesto familiare e sociale, delle credenze religiose e così via, per fornire al malato tutti gli strumenti necessari per una scelta consapevole”.

La legge tutela la libertà di scelta

VERA INFORMAZIONE Fondamentali, nel processo di piena comprensione e di libera scelta (percorso che a volte richiede qualche settimana), sono gli oncologi, che illustrano che cosa ci si può attendere da una certa cura, qual è la tossicità, quali gli effetti a lungo termine e così via, in base a quanto è stato dimostrato, e che cosa, invece, è basato solo su dati poco solidi. Per questo, secondo Francesco Perrone, responsabile della Struttura complessa di sperimentazioni cliniche dell’Istituto Pascale di Napoli, moltissimo dipende dalla capacità (e dalla possibilità, in termini di tempo a disposizione) di spiegare in maniera chiara e comprensibile a chi si ha davanti ogni sfaccettatura della situazione specifica: “Le decisioni devono, o dovrebbero, essere totalmente libere, ma l’autentico consenso informato si ottiene solo quando il malato ha ben presente ogni aspetto di ciò che gli viene prospettato, e delle conseguenze delle alternative, compresa quella di non curarsi”.

ontrariamente a quanto si potrebbe pensare, l’età non sembra essere una motivazione forte per il rifiuto delle cure. Lo suggerisce uno studio pubblicato recentemente su Lancet Oncology, nel quale i ricercatori di Macmillan Cancer Support, organizzazione britannica, hanno indagato le motivazioni di un migliaio di malati e di 500 controlli sani (ai quali è stato chiesto di immaginare cosa avrebbero fatto in una situazione che invece i pazienti stavano vivendo realmente) tutti con 55 anni o più, non trovando differenze rilevanti in base all’età né allo stadio di malattia per ciò che riguarda le scelte terapeutiche. Il 12 per cento degli over 75 ha rifiutato alcuni tipi di terapia, così come ha fatto il 15 per cento delle persone di età compresa tra i 55 e i 64 anni, e il 14 per cento dei soggetti con 65-74 anni. Il dato è da leggere insieme ad altri che mostrano che i pazienti anziani sono spesso meno curati dei giovani; secondo gli stessi ricercatori, per esempio, in assenza di malattie concomitanti, gli over 75 vengono curati per un tumore polmonare cinque volte di meno rispetto ai malati simili, ma con meno di 75 anni. Anche in questo caso, il punto è culturale: solo il 10 per cento dei malati coinvolti nei trial clinici è anziano, nonostante una diagnosi su due riguardi un over 65. Con le attuali tendenze demografiche la situazione è in evoluzione ma l’età non deve costituire di per sé un limite alle cure.

La tendenza degli ultimi anni, comunque, secondo l’esperienza diretta di Perrone, non è quella di rifiutare le cure quanto, piuttosto, il suo contrario: “I malati arrivano con moltissime informazioni in mano e talvolta pretendono i farmaci più nuovi anche se magari, per la loro condizione, non ci sono indicazioni o prove certe. Ciò dipende anche dal fatto che mentre la chemioterapia era percepita come tossica, i nuovi farmaci sono considerati innocui, nonostante abbiano una loro tossicità tutt’altro che trascurabile. Il nostro compito è di fornire una fotografia della realtà, per come la conosciamo oggi”. DECISIONI RAZIONALI Del tutto particolari, sono invece i rifiuti di chi ha un’aspettativa di vita breve, anche se le reazioni sono meno scon-

tate del previsto, come chiarisce Claudia Borreani: “Accade sovente che il malato, anche dopo una lunga storia e dopo il fallimento delle cure, senta comunque il dovere di continuare a sottoporsi a quanto resta da fare in termini terapeutici. A volte sente di doverlo fare per se stesso, per continuare a lottare, in altri casi per la famiglia, o per entrambe le motivazioni”. Anche in questi casi, però, quando il centro offre un percorso integrato che preveda il passaggio alle cure palliative, che possono garantire una qualità di vita più accettabile e, se sono presenti gli hospice, una dimensione più familiare, le decisioni sono meno emotive e più razionali. Nel rifiuto delle cure entrano dunque in gioco moltissime variabili e non è ancora chiaro quali siano quelle che contano di più. Secondo uno

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PSICONCOLOGIA Il rifiuto delle cure

studio pubblicato su PLOS ONE e condotto dai ricercatori della Medical University di Taipei (Taiwan) su 35.000 donne con tumore al seno curate tra il 2004 e il 2010, tra i fattori che influiscono di più sulle decisioni relative alla cura vi sono l’età alla diagnosi, la presenza di altre malattie e lo stadio del tumore, oltreché la specializzazione del centro di

Con il dialogo alcuni malati cambiano idea sul da farsi

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riferimento. Lo stesso risultato era stato visto, dagli stessi ricercatori, su 38.000 malati di tumore polmonare. Ma altri studi giungono a conclusioni diverse, aggiungendo confusione a incertezze. L’unico vero strumento per evitare decisioni irrazionali è un percorso integrato, nel quale entrino in gioco tutti i professionisti necessari, ciascuno con le sue specificità, instaurando con il malato un dialogo vero e rispettoso, affinché la scelta sia sempre diretta a ottenere il meglio per ciascuno.


I GIORNI DELLA RICERCA Quirinale 2015

In questo articolo:

Quirinale Sergio Mattarella Premio Credere nella Ricerca

Fare sistema è il segreto di 50 anni di sfide e successi Il Presidente Sergio Mattarella ha presenziato per la prima volta all’evento inaugurale dei Giorni della Ricerca, ricordando l’importanza di AIRC nella società italiana

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a cura della REDAZIONE stata una prima per il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che ha raccolto il testimone dei suoi predecessori ospitando al Quirinale la cerimonia dedicata ad AIRC, nell’edizione 2015 resa particolarmente speciale dalla celebrazione del cinquantesimo compleanno dell’Associazione. L’evento ha aperto simbolicamente i Giorni della Ricerca, una settimana ricca di appuntamenti nelle scuole, nelle università e in televisione con lo scopo di informare i cit-

tadini sui progressi nella ricerca sul cancro e di richiedere il loro sostegno per portare avanti i progetti in corso.

La forza dell’unità L’Italia è forte quando supera contrapposizioni e divisioni sterili, ha detto il Presidente che ha riconosciuto nell’Associazione la capacità di “fare sistema” per una buona causa. “AIRC ha creato attorno a questa causa nobile una mobilitazione civile di imponenti dimensioni. Ha dimostrato dunque una volta di più, di co-

Mobilitare i cittadini per una giusta causa

sa è capace l’Italia quando si superano contrapposizioni, gelosie professionali, divisioni sterili se non addirittura pretestuose” ha sottolineato Mattarella. Nel celebrare il Cinquantenario, il Presidente ha ribadito che AIRC “rappresenta un modello di esemplare collaborazione tra settore pubblico e settore privato e, in una vera e propria gara di solidarietà, coinvolge i mondi della scienza, del volontariato, dei media, dello spettacolo, dell’economia, dello sport”. Mattarella ha anche voluto ringraziare AIRC per la capillare e seria opera di informazione sul cancro, sulle cure e sulla prevenzione, ricordando quanto è importante, in questa malattia, ricevere le informazioni corrette. Ha infine voluto ricordare la moglie Marisa, scomparsa proprio per un tumore nel 2012. “Penso da tempo, da quando per seguire la persona a me più cara al mondo ho trascorso numerose settimane in ospedali oncologici, che per tutte le persone in buona salute sarebbe auspicabile passare qualche giorno ogni tanto, da visitatori, in un ospedale, perché il contatto con la sofferenza aiuterebbe chiunque a dare a ogni cosa il giusto posto nella vita”.

Cinque punti fermi Il presidente di AIRC Pier Giuseppe Torrani ha voluto rimarcare, di fronte al ministro della Salute Beatrice Lorenzin e a un folto pubblico di scienziati, politici e cittadini, i cinque car-

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I GIORNI DELLA RICERCA Quirinale 2015

PREMIO CREDERE NELLA RICERCA

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l termine della cerimonia, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha consegnato il Premio “Credere nella Ricerca” a Giuseppe Della Porta (nella foto in alto a destra) e Umberto Veronesi (nella foto in basso il figlio Paolo ritira il Premio), fondatori di AIRC. Questa la motivazione ufficiale: “Cinquant’anni fa, in un’epoca in cui il cancro era un male innominabile, Della Porta e Veronesi si sono ribellati e hanno lanciato una sfida storica a colleghi e cittadini fondando l’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro per dare alla ricerca oncologica in Italia la visione e il sostegno necessari per rendere il cancro più curabile”. Dalla sua fondazione a oggi, AIRC ha raccolto e donato oltre un miliardo di euro per il finanziamento della ricerca oncologica, per progetti di ricerca condotti in laboratori di istituti, università e ospedali in tutta Italia e per percorsi di formazione a giovani ricercatori. dini dell’attività dell’Associazione: la partecipazione alla sofferenza umana, la fiducia nella ricerca scientifica, il perseguimento continuo dei risultati, la qualità delle scoperte e la speranza che lo sviluppo dell’oncologia molecolare abbia finalmente aperto la strada alla giusta soluzione. “Siamo qui oggi per restituire a tutti gli italiani la fiducia che da 50 anni riservano alla nostra missione e per guardare insieme al futuro” ha detto Torrani. “Il sostegno alla ricerca è il Maria Ines Colnaghi riceve il riconoscimento dal Presidente

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nostro obiettivo primario e in questo sforzo siamo in buona compagnia. Sono circa 5.000 i ricercatori oncologici che lavorano all’interno di progetti finanziati da AIRC: sono loro la vera forza d’urto contro il cancro. Al loro fianco ci sono i nostri sostenitori, più di quattro milioni e mezzo di cittadini che con grande spontaneità contribuiscono a sostenere la ricerca, e i 20.000 volontari che si impegnano su tutto il territorio per promuovere le nostre iniziative di informazione e raccolta fondi. L’Italia oggi è tra i primi Paesi in Europa per numero di guarigioni dal cancro, in 20 anni gli italiani che hanno sconfitto il cancro sono aumentati del 18 per cento tra gli uomini e del 10 per cento tra le donne”. Torrani ha anche voluto ringraziare pubblicamente Maria Ines Colnaghi “che ha condiviso l’esperienza di AIRC fin dalla sua

nascita e che negli ultimi 15 anni ne è stata direttore scientifico, con intelligenza ed equilibrio e che cesserà il suo incarico il 31 dicembre di quest’anno” (2015 ndr). A confermare l’eccellenza dell’Italia nella cura del cancro è stato Pier Paolo Pandolfi, direttore del BIDMC Cancer Center dell’Harvard Medical School. “Sappiamo bene tutti quanto questa malattia sia devastante. Allo stesso tempo però sappiamo anche che il cancro può essere sconfitto perché lo abbiamo già fatto nel recente passato, come è avvenuto per la leucemia promielocitica acuta che, solo 20 anni fa, era considerata un killer infallibile e che ora è una malattia del passato. A questo risultato hanno contribuito in maniera decisiva i progressi della ricerca oncologica italiana e il lavoro dei ricercatori italiani”.

Restituire la fiducia che ci danno i cittadini


I GIORNI DELLA RICERCA Università 2015

Quattro incontri negli atenei Scienziati di punta e giovani promesse, pazienti guariti e volontari: l’intera galassia di AIRC si è presentata agli studenti universitari

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a cura della REDAZIONE uando si parla di ricerca sul cancro si pensa a laboratori, microscopi, provette. Ma la ricerca è fatta prima di tutto dalle persone e dalle loro storie, che sono state al centro degli incontri nelle università promossi da AIRC per I Giorni della Ricerca. Storie professionali, di vita, di speranza e di passione, raccontate agli studenti universitari dagli stessi protagonisti: ricercatori affermati che hanno parlato di cancro e delle ultime scoperte; giovani ricercatori che hanno spiegato da dove nasce la passione per il loro lavoro; persone che hanno superato la malattia e che hanno potuto testimoniare i progressi della ricerca; volontari e sostenitori che hanno raccontato l’impegno in favore degli altri. Un’occasione per approfondire anche gli aspetti multidisciplinari della ricerca. Nel 2015, gli incontri si sono svolti il 4 novembre, nelle Università di Cagliari, Genova, Pavia e Pisa.

I ricercatori senior “Oggi viviamo tempi eccitanti, in cui la conoscenza scientifica che emerge dalla ricerca ci ha spinto anni luce più avanti rispetto a solo 20 anni fa” ha detto Amedeo Columbano dell’Università di Cagliari. “Concetti emersi dalla ricerca di base hanno consentito di costruire farmaci altamente specifici in grado di interferire con geni indispensabili per la sopravvivenza delle cellule tumorali, ma non di quelle normali”. I progressi degli ultimi anni hanno delineato la strategia per la lotta ai tumori, ha sottolineato Pier Paolo Di Fiore a Pisa. Sono due le armi principali: diagnosi precoce e miglioramento della terapia. “I farmaci molecolari, dei quali tanto abbiamo parlato negli scorsi anni, sono ormai una realtà consolidata nella pratica clinica. Non sono ancora disponibili però per tutti i tipi di tumore e spesso, anche all’interno dello stesso tipo, non sono efficaci per tutti i pazienti: è que-

sta l’area dalla quale ci aspettiamo i più grandi pro- INCONTRI NEGLI ATENEI gressi nei prossimi anni”. A sinistra la conferenza a Pisa, a destra Matteo Iannacone dell’IRCCS Ospedale San Raffae- a Pavia

Le aspirazioni dei più giovani

le di Milano ha raccontato, a Genova, la sua esperienza di giovane ricercatore: AIRC è stata al suo fianco, sostenendo le sue ricerche e riconoscendo il merito del suo impegno. Anna Chiara De Luca, dell’IBP-CNR di Napoli, ha raccontato, da fisico, di essere sempre stata affascinata dalla possibilità di applicare le sue conoscenze di ottica e tecnologia laser in campo diagnostico e medico. È proprio ciò che le ha consentito di meritare un grant Start-up di AIRC. La testimonianza di pazienti guariti e di volontari di AIRC ha completato gli incontri consentendo ai giovani universitari di capire non solo la realtà dell’Associazione ma anche le opportunità che offre per il loro futuro.

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I GIORNI DELLA RICERCA L’impegno dei partner

6,2 milioni alla ricerca* e una sfida che non si ferma ai 50 anni *alla data di stampa

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Giorni della Ricerca 2015 hanno raccontato 50 anni di impegno di AIRC a sostegno della ricerca sul cancro, nei principali appuntamenti istituzionali e mediatici: dal Palazzo del Quirinale alle aule delle università, dalle scuole secondarie alle piazze di moltissime città, dalle trasmissioni televisive e radiofoniche della RAI fino agli stadi di calcio e alle filiali UBI Banca, dal 2 all’8 novembre I Giorni della Ricerca hanno offerto un ricco programma di iniziative per informare il pubblico sui progressi della ricerca e sostenere il lavoro dei ricercatori con una donazione. Un impegno che ha fruttato 6,2 milioni di euro, per finanziare progetti dedicati al percorso di crescita di giovani ricercatori italiani di talento.

Un numero per donare

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l numero solidale, attivato dai principali gestori di telefonia mobile e fissa durante i Giorni della Ricerca ha visto 1,3 milioni di atti di donazione, arrivate in tempo reale in risposta agli appelli lanciati da conduttori e testimonial nel corso delle campagne RAI per AIRC e Un gol per la Ricerca. Grazie a TIM, Vodafone, WIND, 3, PosteMobile, CoopVoce, Tiscali, Infostrada, Fastweb, TWT.

La RAI accende i riflettori sulla ricerca

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AI e AIRC hanno informato sui progressi della ricerca oncologica e invitato il pubblico a sostenere le sfide dei ricercatori per rendere il cancro sempre più curabile. Una collaborazione che in 20 anni ha consentito di raccogliere oltre 90 milioni di euro per finanziare i per-

corsi di formazione e specializzazione dei giovani talenti della scienza italiana. Per una settimana la RAI ha ospitato medici, ricercatori e persone che possono testimoniare i concreti benefici della ricerca. Dagli appuntamenti con la salute in Uno Mattina ed Elisir, alla prima serata dello Speciale Elisir, condotto da Michele Mirabel-

Da sinistra: Michele Mirabella, Antonella Clerici e Carlo Conti, ambasciatori di AIRC

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la, dall’impegno di Antonella Clerici con La Prova del Cuoco e Ti lascio una Canzone a quello di Fabrizio Frizzi e Carlo Conti in L’Eredità, con appuntamenti quotidiani, in uno Speciale l’8 novembre e in Tale e Quale, da Flavio Insinna in Affari tuoi a Tiberio Timperi e Ingrid Muccitelli con Mattina in Famiglia. Ancora Quelli che il calcio, L’Arena, Domenica In, Vita in Diretta, Geo, i telegiornali, Rainews e le testate giornalistiche regionali sono stati la vetrina dell’eccellenza oncologica italiana. RadioRai ha presentato le nuove frontiere della scienza con approfondimenti tematici e RaiSport ha coinvolto il pubblico dei tifosi con appelli di giornalisti, allenatori e calciatori. A fianco degli ambasciatori di AIRC, Antonella Clerici, Carlo Conti e Michele Mirabella, hanno contribuito a divulgare la missione Francesco Acerbi, Piero Angela, Maddalena Corvaglia, Alessandro Del Piero, Andrea Delogu, Rita Forte, Fabrizio Frizzi, Margherita Granbassi, Alessandro Greco, Gerardo Greco, Andy Luotto, Emiliano Mondonico, Nicola Pietrangeli, Federica Sciarelli e Carla Signoris.


Venice Marathon Il mondo del calcio con AIRC I GIORNI DELLA RICERCA L’impegno dei partner

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na sfida nella sfida: con la Venice Marathon dello scorso ottobre AIRC ha inaugurato una nuova modalità per attivarsi e contribuire in prima persona, attraverso una raccolta fondi legata alla sfida sportiva che si è deciso di intraprendere. A Venezia più di 20 atleti hanno scelto di correre per l’Associazione coinvolgendo tutta la propria rete sul portale Rete del dono; prossimo appuntamento a maggio con il Colnago Cycling Festival, sarà l’occasione per tutti i ciclisti di pedalare e partecipare alla sfida di AIRC.

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ambasciatore AIRC Alessandro Del Piero è sceso in campo per sostenere i futuri “campioni” della ricerca per Un Gol per la Ricerca promosso in collaborazione con FIGC, Lega Serie A TIM, AIA. Al suo fianco nella campagna la volontaria Alba, il sostenitore Silvio, la ricercatrice Cristina ed Ernesto, guarito dal cancro. Anche Andrea Bertolacci, Stevan Jovetic e Claudio Marchisio sono stati i portavoce di AIRC presso i tifosi, nella giornata di campionato del 7-8 novembre e il 17 novembre, in occasione della partita degli Azzurri Italia-Romania. La collaborazione di RAI Sport, SkySport, RTL 102,5 e delle testate specializzate di stampa e web ha fatto arrivare il messaggio a milioni di appassionati.

Cioccolatini con un click, grazie a SaldiPrivati

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aldiPrivati, sito e-commerce di riferimento in Italia nelle vendite private online, da anni al fianco di AIRC per sostenere la ricerca scientifica oncologica in Italia, rinnova ancora una volta il proprio impegno nei confronti dell’Associazione confermandosi prezioso partner nella distribuzione dei Cioccolatini della Ricerca. Dal 9 al 15 di novembre, a fronte di una donazione minima di 10 euro, clienti SaldiPrivati e sostenitori AIRC hanno potuto ricevere la shopper di cioccolatini senza costi di spedizione.

Con UBI Banca la donazione continua

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er il terzo anno, in occasione dei Giorni della Ricerca, il gruppo UBI Banca con i suoi dipendenti e le filiali sul territorio si affianca ad AIRC, per promuovere attività di informazione e raccolta fondi a favore della ricerca oncologica. Il percorso di collaborazione avviato nel 2013 ha già permesso di raccogliere fondi per oltre un milione e mezzo di euro, destinati al finan-

ziamento del percorso di formazione di giovani ricercatori italiani. Oltre a I Cioccolatini della Ricerca a novembre, è possibile contribuire tutto l’anno attraverso le modalità innovative messe a disposizione dell’Associazione e dei suoi sostenitori da UBI Banca. In ogni momento, con l’app UBI Pay, fare una donazione ad AIRC tramite il circuito Jiffy è semplice come mandare un messaggio. Ogni giorno si può utiliz-

Sconti BancoPosta solidali

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conti BancoPosta è il programma creato per i possessori delle carte BancoPosta che consente di ottenere sconti presso gli oltre 31.000 esercizi convenzionati in tutta Italia. Da oggi è possibile scegliere di devolvere gli Sconti BancoPosta accumulati in favore di AIRC. Per farlo è sufficiente scaricare e compilare il modulo disponibile sul sito dedicato o negli uffici postali.

zare per tutti i pagamenti Enjoy AIRC, la carta prepagata dotata di IBAN; per ogni carta attivata e per ogni transazione il gruppo UBI Banca devolve una parte dei propri ricavi a favore della ricerca. È possibile anche donare in modo costante, compilando il modulo per le donazioni ricorsive, disponibile in tutte le filiali delle Banche del gruppo UBI Banca.


I GIORNI DELLA RICERCA L’impegno dei partner

Il cioccolato che fa bene

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nche nel 2015 sono andati a ruba I Cioccolatini della Ricerca che aiutano i ricercatori a rendere il cancro una malattia sempre più curabile. Centinaia di piazze in tutta Italia il 7 novembre hanno detto no al cancro, insieme a 1.600 filiali UBI Banca, attraverso la distribuzione di confezioni di Cioccolatini Lindt. Tanti i testimonial – tra i quali Cristiana Capotondi nella foto – che sono scesi in campo per ricordare l’appuntamento, insieme ai media (TV, radio, testate giornalistiche e siti web). Un ringraziamento speciale va a tutti i volontari AIRC, ai sostenitori scesi in piazza e nelle filiali e a tutti coloro che hanno aderito e sostenuto la missione di AIRC.

Estée Lauder e AIRC contro il tumore al seno

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a Campagna Breast Cancer Awareness (BCA), mirata alla lotta al tumore al seno del Gruppo The Estée Lauder Companies, è stata creata nel 1992 da Evelyn H. Lauder con l’iniziativa Nastro Rosa, ormai simbolo universale per la salute del seno. Obiettivo della campagna, sensibilizzare sempre più donne sull’importanza della prevenzione e della diagnosi precoce, informando il pubblico femminile anche sulle abitudini di vita sane e sui controlli diagnostici da effettuare. Attualmente è attiva in più di 70 Paesi con la missione di sconfiggere il tumore al seno. La campagna italiana, che ha avuto nell’edizione 2015 come partner ufficiale AIRC, è stata inaugurata da un grande evento: l’illuminazione dell’Albero della Vita di rosa, momento di grande richiamo mediatico che ha dato il via a un percorso di partnership che, ci si augura, durerà a lungo. Madrina della campagna Antonella Clerici.

Il tocco rosa di Hard Rock

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nche nel 2015 nel mese di ottobre Hard Rock Cafè ha scelto di sostenere AIRC nella raccolta fondi Pinktober: nei ristoranti Hard Rock italiani, grazie alla collaborazione di tutti i dipendenti, sono stati distribuiti gadget dedicati. Eventi e iniziative speciali hanno sollecitato ancora di più le donazioni, come la pink charity dinner esclusiva che si è svolta a Venezia e i bus Carrani Tours a Roma, che hanno tinto di rosa la capitale durante tutto il mese.

Donne coi fiocchi grazie a Nuvenia

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rande successo per Donne coi fiocchi, l’iniziativa promossa da Nuvenia per AIRC, con l’obiettivo di finanziare una borsa di studio di due anni destinata a una giovane ricercatrice impegnata a rendere i tumori femminili sempre più curabili. Nei mesi di ottobre e novembre 2015 Nuvenia ha donato 10 centesimi ad AIRC su ogni prodotto venduto, fino a un massimo di 60.000 euro. Una campagna giovane e virale con una madrina d’eccezione, Maddalena Corvaglia, e con il volto di due giovani ricercatrici a testimoniare l’impegno di AIRC nel finanziare la ricerca sui tumori femminili.


INIZIATIVE Le Arance della Salute

In movimento, contro il cancro Migliaia di piazze si animano sabato 30 gennaio per Le Arance della Salute: un pieno di vitamine e un’occasione per sostenere la ricerca e informarsi sulla prevenzione

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a cura della REDAZIONE arancia rossa, ricca di antiossidanti e fonte preziosa di vitamina C, è il simbolo di un’alimentazione sana e da anni è al centro della campagna AIRC Le Arance della Salute, che torna sabato 30 gennaio in migliaia di piazze Cancro io in tutta Italia proponendo un binomio ti boccio ancora più importante per la nostra sain una scuola lute: dieta sana unita a una costante atsecondaria tività fisica. Proprio a questi temi è dedidi II grado cata l’edizione speciale che accompagna le reticelle di arance rosse tutte italiane, con spunti di riflessione per aumentare la quantità di moto giornaliero, quando neUBI E AIRC DI NUOVO INSIEME cessario, spiegando, ad A tre anni dall’avvio della partnership, il gruppo UBI Banca esempio, in che modo ha deciso di affiancare AIRC anche in occasione della camlo sport agisce sui siste- pagna Le Arance della Salute. In tutte le filiali del gruppo iscono le reticelle di arance, mi metabolici dell’orga- sarà a disposizione di chi sottoscriverà una donazione ri- in cambio di una donazione nismo. Nello speciale si corsiva o la carta Enjoy AIRC la guida dell’Associazione sui di 9 euro, per sostenere l’ecparla anche dei risultati corretti stili di vita, quest’anno dedicata all’attività sportiva. cellenza della ricerca oncodegli studi epidemiolo- Un invito a prendersi cura di sé, ogni giorno, e a sostenere logica. Anche il mondo della scuola partecipa con Cangici sulla relazione tra la ricerca in maniera costante. cro, io ti boccio: centinaia cancro e mancanza di esercizio fisico, che hanno dimostrato bero farci riflettere: un’attività fisica re- di scuole si colorano con i banchetti di un legame inequivocabile, almeno per golare può allungare la vita anche di arance rosse, anticipando l’iniziativa a alcuni tipi di tumore. Il movimento può quattro anni. Inoltre lo speciale propo- venerdì 29 gennaio, quando bambini e essere altrettanto efficace di un farma- ne gustose e sane ricette, realizzate dal ragazzi, insieme a genitori e insegnanti, co nel prevenire determinate patologie cuoco Moreno Cedroni, in collaborazio- diventano volontari per un giorno. (dal cancro alle malattie cardiovascola- ne con La Cucina Italiana. Per trovare Le Arance della Salute Appuntamento da non perdere sa- chiama il numero 840 001 001 (attivo ri) ma non viene sempre preso sul serio dalle persone. Tuttavia, i dati che emer- bato 30 gennaio in migliaia di piazze dal 18 gennaio) o vai sul sito gono dagli studi epidemiologici dovreb- italiane dove i volontari AIRC distribu- www.airc.it/arance16 GENNAIO 2016 | FONDAMENTALE | 35


RICERCA IFOM Ricerche in vetrina

In questo articolo: splicing angiogenesi Elisabetta Dejana

Il taglio alternativo che aiuta l’angiogenesi Fino a ora si riteneva che la proteina Nova2 fosse presente solo nel cervello. Uno studio dimostra che ha un ruolo anche nel formare nuovi vasi sanguigni attraverso una diversa lettura del gene

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a cura della REDAZIONE ormare nuovi vasi sanguigni, attraverso un processo chiamato angiogenesi, è indispensabile perché i diversi tessuti e organi che compongono gli organismi ricevano l’ossigeno e le sostanze nutrienti indispensabili alla loro sopravvivenza. Questo processo è però determinante anche nello sviluppo dei tumori che, fin dalle prime fasi, stimolano la formazione di nuovi vasi per sostenere la propria crescita e la formazione delle metastasi a distanza. E infatti lo studio dell’angiogenesi è cresciuto negli ultimi anni proprio al fine di sviluppare terapie anticancro innovative che fermino il tumore o che lo facciano regredire bloccando la formazione dei suoi vasi.

e dell’Igm-Cnr di Pavia, coordinati da Elisabetta Dejana e da Claudia Ghigna, hanno dimostrato che la proteina Nova2, che si credeva presente esclusivamente nel cervello, in realtà è espressa anche nelle cellule dei vasi sanguigni. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Nature Communications. “Per la prima volta il nostro gruppo ha dimostrato che un meccanismo chiamato splicing alternativo, con cui i mattoni che formano i geni umani possono essere tagliati e montati in vari modi, consentendo a un singolo gene di produrre differenti proteine, funziona anche durante lo sviluppo del sistema vascolare. Grazie a questo processo Nova2 regola l’angiogenesi ed è in grado di manipolare e ampliare le informazioni racchiuse nei geni, decidendo quando, dove e quali tipi di proteine, ma soprattutto con che quantità, devono essere sintetizzate” spiega Ghigna. “Il dato più importante che è emerso da questa collaborazione è che lo splicing alternativo regola la corretta formazione dei vasi sanguigni durante lo sviluppo” spiega Gianluca Deflorian di IFOM. Approfondendo queste conoscenze si potrà combattere l’angiogenesi nei tumori con lo sviluppo di farmaci più specifici.

Nova2 è presente nel cervello e nei vasi

IL RUOLO DELLO SPLICING I ricercatori Costanza Giampietro, Gianluca Deflorian e Stefania Gallo rispettivamente dell’Università Statale di Milano, dell’IFOM di Milano

IFOM, l’Istituto di oncologia molecolare che svolge attività scientifica d’avanguardia a beneficio dei pazienti oncologici è sostenuto dalla Fondazione italiana per la ricerca sul cancro-AIRC, attraverso lasciti testamentari (vedi p. 37). 36 | FONDAMENTALE | GENNAIO 2016

LA RICERCA IN BREVE Cosa si sapeva L’angiogenesi, ossia la formazione di nuovi vasi, è essenziale per la crescita dei tumori Lo splicing alternativo è un sistema di “lettura” dei geni che consente di produrre proteine diverse dalla stessa sequenza di DNA Il gene Nova2 è presente nel cervello Cosa aggiunge questo studio Il gene Nova2 è presente anche nel tessuto vascolare e regola la formazione dei nuovi vasi Può essere un bersaglio per terapie antiangiogenesi


UN LASCITO PER LA RICERCA

LASCITI Chi ha scelto di sostenere FIRC-AIRC

In pole position per la ricerca Jarno Trulli condivide con i ricercatori la tenacia di fronte a un avversario non facile, il cancro. Per questo ha disposto un lascito a FIRC-AIRC

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a cura della REDAZIONE ontro gli avversari più duri serve grande determinazione: lo sa bene Jarno Trulli, ex campione di Formula 1, sceso in pista per una nuova sfida, ancora più grande. “Per anni mi sono battuto con tenacia tra le cur-

ve e i rettilinei dei circuiti di tutto il mondo. Ho avuto avversari che non mollavano mai contro i quali l’unica arma efficace era la determinazione a sconfiggerli. Mi sento molto vicino ai ricercatori che da anni combattono contro un avversario molto duro e per questo ho deciso di disporre un lascito testamentario a favore di FIRC-AIRC: un giorno dobbiamo tagliare il traguardo insieme, da vincitori”. Il pilota pescarese, classe 1974, con 256 Grand Prix alle spalle, che ne fanno uno dei piloti di Formula 1 di più lungo corso, ha deciso di prestare il proprio volto alla campagna pubblicitaria che invita a destinare lasciti alla Fondazione, in Abruzzo, dove si trova anche la sua attività imprenditoriale, un podere nell’entroterra pescarese in cui ha investito insieme ad altri soci, producendo vini abruzzesi, dal Montepulciano al Cerasuolo, dal Trebbiano al Pecorino, dalla Cococciola allo spumante. Per Trulli è fondamentale dare continuità alla ricerca sul lungo termine, perchè la ricerca ha bisogno di tempo e di impegno: “Questo del testamento può essere uno degli strumenti: non lasci quel che possiedi solo ai tuoi figli, ai tuoi eredi, ma ne destini una parte, anche piccola, a uno scopo nobile come questo”.

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cegliere di fare testamento in favore della Fondazione italiana per la ricerca sul cancro-AIRC, lasciandole anche solo una parte dei propri beni, significa dare un sostegno concreto e significativo alla ricerca oncologica in Italia. Pur riconoscendo i diritti dei propri eredi si può sempre lasciare una parte del patrimonio a favore della ricerca sul cancro. Per questo FIRC-AIRC offre gratuitamente la Guida al testamento, uno strumento utile per sapere come si effettua un lascito testamentario: chi sono gli eredi e come vengono stabiliti; quali sono le quote di riserva a favore dei figli e del coniuge e tante altre informazioni pratiche. Il testamento può essere: olografo: basta scrivere su un foglio cosa si vuole destinare (per esempio una somma di denaro) e a chi, datarlo e firmarlo. Il testamento potrà essere poi affidato a una persona di fiducia o a un notaio; pubblico: viene ricevuto dal notaio alla presenza di due testimoni e poi custodito dal notaio stesso. Con la Guida al testamento, aggiornata secondo le leggi vigenti, effettuare un lascito testamentario è diventato un gesto semplice, per tutti: richiedila gratuitamente contattando tel. 02 79 47 07 www.fondazionefirc.it

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IL MICROSCOPIO

Federico Caligaris Cappio Direttore scientifico AIRC

UN SERVIZIO PER I SOCI Per segnalare corrispondenza doppia, aggiornare i vostri dati o conoscere la vostra storia contributiva, potete contattarci, 7 giorni su 7, chiamando il nostro numero verde 800 350 350

ATTENTI ALLE TRUFFE AIRC non effettua la raccolta fondi “porta a porta”, con incaricati che vanno di casa in casa. Nel caso dovesse succedere, stanno tentando di truffarvi. Denunciate subito la truffa chiamando la polizia (113) o i carabinieri (112).

I geni dei tumori pediatrici sotto la lente dei ricercatori

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a ricerca ha permesso di ottenere elevate percentuali di guarigione nei tumori pediatrici, ma i ricercatori continuano a studiarne i meccanismi per trovare cure ancora più efficaci. Informazioni importanti emergono da uno studio recentemente pubblicato sul New England Journal of Medicine, realizzato con tecnologie sofisticate di sequenziamento dell’intero genoma o dei suoi geni per individuare mutazioni specifiche. Studiando il DNA di 1.120 pazienti di età inferiore a 20 anni, affetti da tumore (e solo il 40 per cento con una storia familiare di tumore), i ricercatori dell’Ospedale St. Jude di Memphis hanno scoperto la presenza nella linea germinale di mutazioni di geni che conferiscono predisposizione al tumore nell’8,5 per cento dei casi: percentuale superiore a quanto ci si sarebbe potuto attendere in base al puro caso (circa 1 per cento). Le mutazioni germinali sono presenti nel patrimonio genetico di ovuli e/o spermatozoi e dunque sono in genere ereditate dai genitori. In rari casi la mutazione può insorgere spontaneamente; in genere i pazienti la ereditano da genitori che hanno avuto la fortuna di non ammalarsi perché si tratta di alterazioni geniche che aumentano il rischio generale di ammalarsi di tumore, ma non lo causano direttamente.

38 | FONDAMENTALE | APRILE 2014

L’interpretazione degli studi di sequenziamento del genoma è complessa. Conoscere l’esistenza di un rischio “genetico” consente ai genitori una più consapevole futura pianificazione familiare attraverso una consulenza genetica specialistica. Questa va eseguita esclusivamente presso centri di collaudata esperienza, come raccontiamo nell’articolo a pagina 10 che riporta le linee guida in materia di test genetici proposte dall’ASCO, l’Associazione degli oncologi clinici americani. Lo stesso potranno fare la ragazza o il ragazzo guariti dal tumore, diventati adulti e desiderosi di formare una famiglia. Dato che le mutazioni identificate predispongono alla malattia, ma non ne sono la causa diretta, non ha senso il ricorso a diagnosi prenatali sul feto. Potranno e dovranno invece essere messe in atto tutte le azioni preventive legate agli stili di vita (in primo luogo l’alimentazione, l’attività fisica e l’abolizione del fumo di sigaretta) che consentono di non sommare rischio al rischio. La scoperta gioca un ruolo importante anche nella ricerca di nuove cure: alcuni geni sembrano infatti più direttamente legati alla comparsa di malattia. Questi geni verranno indagati con particolare cura per essere presi di mira da future terapie studiate ad hoc in progetti che AIRC già finanzia e continuerà a finanziare.


SCOPRI LE NUOVE IDEE SOLIDALI!

DAI VOSTRI MOMENTI SPECIALI PRENDE FORMA NUOVA RICERCA. La vita è piena di occasioni che vale la pena di celebrare: dal matrimonio al battesimo, dalla cresima alla laurea. Scegliendo le idee solidali AIRC donerete un sostegno concreto a chi lavora ogni giorno per rendere il cancro sempre più curabile.

Potete scoprire tutte le nuove proposte su airc.it/ideesolidali o chiamando il numero 02 901.692.90



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