Fondamentale dicembre 2012

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in Abb. Postale D. L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) Art. 1 comma 1 LO/MI - ISSN 2035-4479

Numero 5 - dicembre 2012 - Anno XL - AIRC Editore - Poste Italiane spa Sped.

PSICOLOGIA

Un paziente su due non segue le terapie prescritte dal medico

PREMIATO AL QUIRINALE

A Stefano Piccolo il premio FIRC per gli studi sulla comunicazione cellulare FATTORI DI CRESCITA

Sono i protagonisti di un filone di ricerca tra i più promettenti non solo per il cancro

Anna Falanga, dalla coagulazione al cancro

SEGNALI PRECOCI DI MALATTIA


SOMMARIO

FONDAMENTALE dicembre 2012

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In questo numero: DI RICERCATORE 04 VITA Dietro il sangue che coagula può nascondersi il tumore PER LA RICERCA 07 PROFESSIONI Il braccio destro dello scienziato GUIDO VENOSTA 10 PREMIO A Stefano Piccolo l’ambito riconoscimento FLASH 12 NOTIZIE Dal mondo FUTURE OF SCIENCE 14 THE Nani sulle spalle dei giganti 16 PSICONCOLOGIA Quando la terapia diventa un peso DI VITA 18 STILI Alla ricerca del fattore che alimenta il cancro 20 RUBRICHE Domande e risposte 22 ALIMENTAZIONE La fettina in tavola fa male o fa bene? LABORATORIO ALLA CURA 24 DAL I fertilizzanti delle cellule sotto la lente del ricercatore

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Stefano Piccolo traduce la lingua delle cellule maligne

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IN VETRINA 27 RICERCA Il Twist del sarcoma NOBEL 28 PREMI Premiata la biologia molecolare che guida la ricerca contro il cancro

30 RECENSIONE Nel mondo delle fiabe per la ricerca sul cancro FONDAMENTALE

Anno XL - Numero 5 dicembre 2012 - AIRC Editore DIREZIONE E REDAZIONE: Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro via Corridoni, 7 - 20122 Milano - tel. 02 7797.1 www.airc.it - redazione@airc.it - Codice fiscale 80051890152 Autorizzazione del Tribunale di Milano n° 128 del 22 marzo 1973. Stampa Roto 2000 Casarile (Milano) DIRETTORE RESPONSABILE Niccolò Contucci CONSULENZA EDITORIALE Daniela Ovadia (Agenzia Zoe)

COORDINAMENTO REDAZIONALE Giulia Cauda REDAZIONE Cristina Zorzoli, Cristina Ferrario (Agenzia Zoe) PROGETTO GRAFICO E IMPAGINAZIONE Umberto Galli RESPONSABILE EDITORIALE Emanuela Properzj TESTI Giulia Cauda, Agnese Codignola, Cristina Ferrario, Daniela Ovadia, Fabio Turone, Cristina Zorzoli

Anna Falanga studia le relazioni tra la coagulazione e il cancro per fare diagnosi precoce

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Per i pazienti, seguire la cura può essere una gran fatica

Carne sì o no? Dal punto di vista della salute è solo questione di quantità, in particolare nel caso del cancro

FOTOGRAFIE Armando Rotoletti (copertina e servizio a p. 4), Corbis, Istockphoto

Fondamentale è stampato su carta Grapho Crystal certificata e proveniente da foreste gestite in maniera corretta e responsabile secondo rigorosi standard ambientali, sociali ed economici.


EDITORIALE

TANTI MODI PER AIUTARE LA RICERCA. • con conto corrente postale n. 307272; • con carta di credito, telefonando al numero verde 800 350 350, in funzione tutti i giorni 24 ore su 24 o collegandosi al sito www.airc.it; • con un piccolo lascito nel suo testamento; per informazioni, www.fondazionefirc.it oppure tel. 02 794 707; • in banca: Intesa Sanpaolo IBAN IT14 H030 6909 4001 0000 0103 528; Banca Monte dei Paschi di Siena IBAN IT 87 E 01030 01656 000001030151; Unicredit PB SPA IBAN IT96 P020 0809 4230 0000 4349 176; • con un ordine di addebito automatico in banca o su carta di credito (informazioni al numero verde 800 350 350)

L’Istituto italiano della donazione certifica con un marchio di eccellenza le organizzazioni non profit che forniscono elementi di garanzia sull’assoluta trasparenza ed efficacia nella gestione dei fondi raccolti.

Piero Sierra Presidente AIRC

La ricerca oltre la crisi

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on si dovrebbe parlare di crisi quando si parla di una ricerca che ha l’obiettivo di rendere il cancro sempre più curabile. Combattere il cancro è un’emergenza prioritaria, perché ogni giorno, in Italia, vengono diagnosticati mille nuovi casi di tumore. Il nostro impegno è quello di garantire stabilità e certezza ai tanti ricercatori, circa 3.000 sostenuti da AIRC: devono poter lavorare con serenità senza la necessità di interrompere o rallentare le proprie ricerche. Fatta questa importante premessa, devo pur sempre affrontare l’argomento di cui ormai si parla abitualmente e che purtroppo colpisce tanti italiani. Anche noi abbiamo verificato una riduzione abbastanza sensibile della raccolta cosiddetta ordinaria. Come era prevedibile, abbiamo registrato un abbassamento degli importi medi, dovuto alla minore disponibilità economica delle famiglie. La cautela finanziaria, da sempre imperativo categorico di AIRC, in questo momento particolare è ancora più sentita; infatti i nostri amministratori lavorano sempre per tutelare al massimo i finanziamenti ai nostri ricercatori avendo cura di strutturarli efficientemente. Stabilità e continuità guideranno sempre la nostra azione. Vorrei ricordare ai lettori di Fondamentale che la ricerca sul cancro è un investimento che non può rallentare e tantomeno fermarsi perché riguarda la società, la collettività intera, tutti noi. La malattia non si ferma davanti alla crisi.

UN SERVIZIO PER I SOCI Per segnalare corrispondenza doppia, aggiornare i vostri dati o conoscere la vostra storia contributiva, potete contattarci, 7 giorni su 7, chiamando il nostro numero verde 800 350 350 ERRATA CORRIGE: Fondamentale ottobre 2012, tabella p. 32: l’IVA indetraibile su oneri di raccolta fondi non è 16,1 ma 1,6 mln di euro. Non è “valore su base euro 1”, ma “valori in milioni di euro”.

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VITA DI RICERCATORE LL Anna Falanga, dalla medicina interna all’oncologia

In questo articolo: ipercoagulabilità 5 per mille ricercatore

Dietro il sangue che coagula può nascondersi il tumore

scono l’oggetto del finanziamento, legato al programma 5 per mille, ottenuto da AIRC.

Chiari marcatori della coagulazione

Uno dei programmi finanziati da AIRC grazie ai fondi raccolti con il 5 per mille degli italiani è dedicato al fenomeno della ipercoagulabilità, che potrebbe essere spia di un cancro in fase iniziale. È lo studio che, da Bergamo, Anna Falanga dirige con un gruppo di 30 clinici su tutto il territorio nazionale, per trovare un nuovo metodo di diagnosi precoce a cura di FABIO TURONE el mondo scientifico è sempre più conosciuta a livello internazionale come l’organizzatrice del “meeting di Bergamo”, che ogni due anni riunisce nella città orobica i massimi specialisti della relazione tra trombosi e cancro provenienti da tutto il mondo, ma un residuo di accento e alcune espressioni dialettali che affiorano qua e là tradiscono senza dubbio le sue origini partenopee, alle quali tiene moltissimo, e che rinfresca ogni estate passando le vacanze sulla Costiera amalfitana. “Quando sono partita da Napoli, nel 1980, pensavo che all’Istituto Mario Negri sarei rimasta tre anni, e poi sarei tornata a casa, per puntare alla carriera universitaria” racconta Anna Falanga, che oggi dirige il Servizio di immunoematologia e medicina trasfusionale e il Centro emostasi e trombosi del Dipartimento di oncologia-ematologia degli Ospedali Riuniti di Bergamo.

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Con Marina Marchetti collaboratrice sul progetto 5 per mille

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A Milano, proprio all’Istituto Mario Negri, era stata mandata durante la specializzazione in medicina interna, dopo il diploma di maturità classica e la laurea in medicina, sempre con il massimo dei voti: “Mia mamma era insegnante elementare, e mi ha trasmesso l’amore per lo studio. È sempre difficile dire perché si sceglie una facoltà all’università, e si determina così la propria vita, non solo professionale. Io ero convinta che studiare medicina mi avrebbe portato a occuparmi di scienza ma anche a prendermi cura della sofferenza e del dolore delle persone, e questo mi piaceva” ricorda. Grazie all’impegno costante, da giovane laureanda era entrata in un gruppo all’epoca tra i più produttivi dell’Università di Napoli, che aveva molti contatti in Italia e fuori dall’Italia e sollecitava i giovani a fare esperienze lontano da casa. Per lei la meta è il Laboratorio di emostasi e trombosi dell’Istituto Mario Negri di Milano: è lì che comincia a occuparsi dei rapporti tra il cancro e la trombosi, che oggi costitui-

La relazione tra cancro e trombosi – ovvero la tendenza del sangue a formare dei coaguli che rischiano di ostruire progressivamente il flusso circolatorio fino a bloccare un’arteria o una vena – è studiata da anni, ed è noto da tempo che anche in assenza di manifestazioni cliniche di trombosi i malati di cancro presentano anomalie dell’emostasi, cioè della coagulazione del sangue, rilevabili con specifiche batterie di esami. In particolare, la presenza di alcuni marcatori permette oggi di definire lo “stato ipercoagulabile”, cioè la tendenza a formare coaguli anomali, che in vari carcinomi è stato più volte associato alla progressione del tumore e a una cattiva prognosi. Negli anni ottanta queste ricerche erano agli inizi e l’Istituto Mario Negri era sicuramente un luogo di eccellenza: “L’esperienza di lavoro al Negri è stata molto importante per la mia crescita. L’ambiente di lavoro era molto diverso da quello di Napoli, più sciolto nei rapporti tra colleghi e con i superiori e allo stesso tempo molto produttivo e ricco di soddisfazioni, con esperimenti ben fatti e pubblicazioni scientifiche” racconta. L’ambiente cordiale e stimolante è galeotto, tanto che a Falanga arrivano in rapida successione due proposte che le cambiano la vita: si sposa con un collega ricercatore bergamasco, Arrigo Schieppati, e insieme a lui decide cinque mesi più tardi di proseguire gli studi in America, a Denver, in Colorado. Lui approfondisce le sue ricerche in nefrologia, mentre lei si dedica a capire sempre meglio la relazione tra trombosi e cancro – studiando in particolare la capacità di alcu-

Da Napoli al Nord per studiare i segreti del sangue


ne cellule tumorali di attivare la cascata di eventi che porta alla formazione del trombo – e pubblica i risultati su riviste internazionali di primissimo piano, da Biochemistry a Blood. “All’epoca lasciare l’Italia era più duro di oggi, perché non c’era Internet, e persino i giornali italiani erano molto difficili da reperire, ma noi ci siamo trovati benissimo, anche perché siamo sempre stati molto curiosi e desiderosi di conoscere i luoghi e la gente, per cui abbiamo incontrato tantissime persone, non solo americane. Con molte di loro siamo ancora amici” ricorda Falanga. “Più che il laboratorio in sé, l’aspetto davvero bello dell’Università di Denver era l’organizzazione tutta rivolta a semplificare la vita di studenti e ricercatori, a partire dalla biblioteca aperta fino a tardi, sabato e domenica compresi. All’inizio pensavamo di restare un anno, poi due, poi stavamo preparandoci a restare un terzo anno quando l’ospedale di Bergamo ha avuto bisogno di un nefrologo”.

Anna Falanga lavora nel Dipartimento di oncologia-ematologia degli Ospedali Riuniti di Bergamo

Donne medico e scienziate Poco dopo il ritorno in Italia, dove anche lei inizia a lavorare agli Ospedali Riuniti di Bergamo, arriva la piccola Francesca. “Con la maternità, tutte le donne che lavorano lasciano per un po’ la propria attività. L’ho fatto anch’io, ma il mio ritorno al lavoro è stato abbastanza rapido, come capita spesso a chi fa ricerca. Crescendo, nostra figlia ha dovuto abituarsi all’idea di avere entrambi i genitori medici, con turni in ospedale e frequenti viaggi di lavoro”. Al dovere professionale, Falanga affianca negli anni l’attività nell’Associazione italiana donne medico e la presidenza del club Soroptimist, che riunisce donne lavoratrici impegnate in tutte le professioni. Ma a posteriori è chiaro che dagli attivissimi genitori, e in particolare dalla mamma, la piccola Francesca ha acquisito anche la passione per la ricerca: oggi che ha 26 anni frequenta la scuola di specialità in ematologia a Brescia, dopo aver seguito due summer school in altrettanti laboratori americani a Boston e a Los Angeles, durante l’università: “Quelle esperienze non hanno avuto

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VITA DI RICERCATORE

alcun valore ai fini della laurea, ma sono state profondamente utili per lei, per acquisire la dimensione del lavoro del clinico-ricercatore, diviso tra laboratorio e corsia di ospedale, in cui la ricer-

Il gruppo di ricercatori che con Falanga lavora al programma 5 per mille di AIRC

ca fa parte a pieno titolo del lavoro del medico” commenta Falanga. La stessa consapevolezza lei l’ha acquisita e messa in pratica nella Divisione di ematologia diretta da Tiziano Barbui, dove

LA MAPPA DELLA COLLABORAZIONE a coagulazione del sangue è il risultato di un meccanismo complesso che conduce alla formazione di un coagulo o trombo: può essere la risposta fisiologica nel caso di una ferita (e in questo caso si parla di emostasi) o dipendere da un’alterazione dovuta ad altre cause, tra cui un tumore. In questo caso si parla di ipercoagulabilità, che può portare alla trombosi con conseguenze anche gravi, perché l’improvvisa chiusura di un vaso può privare un organo vitale del necessario apporto di ossigeno. Il progetto 5 per mille AIRC intende verificare nel dettaglio la relazione esistente tra un maggior rischio di cancro e le sostanze presenti nel sangue che influenzano lo stato di ipercoagulabilità, per mettere a punto un esame di diagnosi precoce semplice e poco costoso. Lo studio diretto

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da Anna Falanga è partito nell’aprile scorso, coinvolgerà complessivamente 30 ricercatori e clinici e durerà cinque anni. La raccolta dei dati, su volontari sani e malati di tumori gastrointestinali, della mammella e del polmone, sarà realizzata in collaborazione con altri cinque gruppi distribuiti in tutta Italia. • Fondazione IRCCS Istituto nazionale tumori (Milano), gruppo di Filippo De Braud. • Ospedale san Filippo Neri (Roma), gruppo di Giampietro Gasparini. • Fondazione di ricerca e cura Giovanni Paolo II (Campobasso), gruppo di Licia Iacoviello. • Ospedali Riuniti di Bergamo (Bergamo), gruppo di Roberto Labianca. • Fondazione Humanitas per la ricerca (Rozzano, MI), gruppo di Armando Santoro.

ancora oggi continua ad affiancare la cura dei malati colpiti da gravi malattie, come leucemie, linfomi, e le malattie trombotiche ed emorragiche, alla ricerca che punta a scoprirne le cause e a mettere a punto nuove terapie. E qui si inserisce l’idea innovativa per esplorare la quale AIRC ha stanziato un finanziamento di un milione di euro all’anno per cinque anni: riuscire a mettere a punto un semplice esame del sangue che sia in grado di predire l’eventualità di un cancro e individuare gruppi di persone a più alto rischio per anticipare la diagnosi, raccogliendo anche utili indicazioni sulla prognosi. I ricercatori partono da test che sono da tempo applicati a livello sperimentale nello studio della trombosi, ma oggi intendono verificare su un amplissimo numero di persone – in parte sane e in parte malate di tumore – se la loro presenza in quantità anomala è in qualche modo correlata anche alla maggiore probabilità di sviluppare un cancro più o meno aggressivo. “La nostra ricerca prevede di coinvolgere molte migliaia di persone sane, grazie alla partecipazione del gruppo di ricerca Moli-sani che da tempo sta raccogliendo dati sanitari e di stili di vita di oltre 24.000 cittadini del Molise, e di persone persino più sane della media, ovvero i circa 30.000 donatori di sangue della provincia di Bergamo” spiega Falanga. “Inoltre eseguiremo i nostri test sperimentali su circa 4.000 malati di tumore – gastrointestinali, della mammella e del polmone – che saranno reclutati in quattro centri oncologici italiani”. La speranza è quella di poter presto annunciare un risultato che dia lustro anche alla sua città adottiva, magari proprio in uno degli incontri internazionali che organizza da dodici anni: “Bergamo è una città molto viva e curiosa, che non solo si mostra partecipe quando si tratta di iniziative che le danno visibilità, ma è ben lontana, sul piano dei rapporti con le persone, dallo stereotipo di una città chiusa e provinciale: nella mia esperienza, ho trovato accoglienza e disponibilità e anche interesse e partecipazione generosa per le iniziative della ricerca”.


PROFESSIONI PER LA RICERCA Il tecnico di laboratorio

In questo articolo: formazione tecnico di laboratorio ricerca

Il braccio destro dello scienziato Ben lungi dall’essere semplici esecutori delle richieste di medici, biologi e biotecnologi, i tecnici di laboratorio biomedico assumono ruoli fondamentali nei centri di ricerca e di diagnostica

a cura di CRISTINA FERRARIO n esercito di circa 35.000 persone sparse su tutto il territorio italiano e impiegate a vario titolo nelle strutture sanitarie e nei laboratori di ricerca sia pubblici sia privati del nostro Paese: è questa la stima aggiornata del numero di tecnici sanitari di laboratorio biomedico in Italia, professionisti preparati per affiancare il ricercatore nei passaggi più pratici del lavoro e continuamente aggiornati sulle ultime tecnologie al servizio della scienza. “Il profilo professionale del tecnico di laboratorio biomedico è stato delineato quasi vent’anni fa nel decreto ministeriale 745 del 1994 e da allora si è continuamente evoluto per rimanere al passo con i progressi della sanità e della ricerca” spiega Fernando Capuano, presidente nazionale della Confederazione ANTEL-ASSIATEL-AITIC (Confederazione associazione nazionale tecnici sanitari di laboratorio biomedico). “Basti pensare ai continui cambiamenti nel percorso formativo dei tecnici di laboratorio

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COME SI DIVENTA… TECNICO SANITARIO DI LABORATORIO BIOMEDICO hi vuole diventare tecnico di laboratorio biomedico deve affrontare un percorso universitario articolato che parte con la laurea triennale in tecniche sanitarie di laboratorio biomedico, attiva presso le Facoltà di medicina e chirurgia. Si tratta di un corso di laurea a numero chiuso, al quale si accede solo dopo il superamento di un test di ingresso e che prevede un percorso di 180 crediti formativi universitari (CFU), un terzo dei quali (60 CFU, 1500 ore) dedicati alla pratica con un tirocinio presso laboratori accreditati. “Una volta discussa la tesi, i laureati sono abilitati alla professione, ma la formazione del tecnico di laboratorio biomedico non si ferma certo con la laurea di primo livello” spiega Fernando Capuano. “Dopo i primi tre anni è infatti possibile iscriversi alla laurea magistrale, oppure optare per un master di I e II livello o per un dottorato di ricerca. Le possibilità sono molte e le tematiche approfondite in ciascun percorso formativo riescono a soddisfare le molteplici esigenze della ricerca moderna”. Per un elenco aggiornato e completo delle sedi universitarie nelle quali è presente un corso di laurea per tecnico di laboratorio biomedico è possibile consultare il sito della Confederazione associazione nazionale tecnici sanitari di laboratorio biomedico (http://conftecnici.eu) alla voce “università”.

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PROFESSIONI PER LA RICERCA Il tecnico di laboratorio

italiani, che oggi risulta perfettamente allineato con il resto dell’Europa, o ai molteplici settori in cui i tecnici si muovono: da campi più tradizionali, come la biochimica clinica, la citologia, l’istologia o l’ematologia, fino a quelli più innovativi come la proteomica, la genomica o la biologia molecolare”.

Un gruppo affiatato Una squadra affiatata è una squadra vincente. Questo è vero nello sport ma anche nella ricerca oncologica, dove i diversi attori presenti sul palcoscenico (medico, biologo, biotecnologo, bioinformatico, tecnico di laboratorio eccetera) lavorano insieme per raggiungere un obiettivo comune: rendere il cancro curabile. “I mansionari che definivano in modo rigido chi doveva fare cosa all’interno del laboratorio sono stati aboliti ormai da anni ma la suddivisione dei ruoli è comunque fonda-

mentale” spiega Fernando Capuano. In effetti, questa suddivisione oggi è rimasta ma si basa soprattutto sulle competenze dei singoli, sulla loro formazione scolastica e professionale e sulle necessità che di volta in volta si presentano nel corso del progetto. Le gerarchie che un tempo si potevano incontrare nei laboratori sono ormai superate e l’approccio multidisciplinare ha preso piede permettendo di ottimizzare i costi e le risorse a disposizione. Del resto la figura del tecnico di laboratorio è ormai altamente specializzata, i tecnici hanno un percorso formativo universitario che non ha niente da invidiare a quello degli altri professionisti che essi affiancano dietro al bancone e, soprattutto, svolgono compiti chiave nell’oncologia moderna, dalla diagnosi alla terapia. Utilizzano le tecniche di biologia molecolare nella cosiddetta ricerca di base, dando la caccia a nuovi bersagli o cercando di scova-

L’approccio multidisciplinare è la regola della ricerca

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Il tecnico lavora in settori molto diversi tra loro

re mutazioni sospette; aiutano a identificare con esattezza il tipo di tumore che si ha di fronte, analizzando cellule e tessuti sui vetrini preparati ad arte nei laboratori di anatomia patologica; studiano le risposte ai farmaci grazie a tecniche di farmacotossicologia e di immunologia, e molto altro ancora.

Tecnologici e sempre aggiornati Provette e vetrini, ma anche robot altamente tecnologici. Gli strumenti a disposizione del tecnico di laboratorio si fanno sempre più complessi e richiedono una grande professionalità e un continuo aggiornamento. “Lavorare con le nuove tecnologie è senza dubbio molto impegnativo, ma anche incredibilmente stimolante” spiega Mirko Riboni, tecnico di laboratorio dell’IFOM (Istituto FIRC di oncologia molecolare) di Milano che si occupa di sequenziamento del DNA, fornendo un importante servizio di supporto ai ricercatori. “Gli strumenti che utilizziamo quotidia-

... l’articolo continua su: www.airc.it/teclab


namente sono macchine molto complesse e per farle funzionare al meglio è necessario rimanere continuamente aggiornati” prosegue Riboni. “Ecco perché anche noi tecnici partecipiamo periodicamente a incontri, seminari e corsi di aggiornamento. Spesso si tratta dei cosiddetti user’s meeting, cioè corsi pratici di formazione nei quali le persone che utilizzano quotidianamente lo strumento si scambiano esperienze e trucchi del mestiere”. In effetti la macchina, per quanto tecnologicamente avanzata, da sola non basta e il tecnico in alcuni casi può davvero fare la differenza. “La macchina lavora in modo standard per tutti i campioni” precisa Riboni. “Noi tecnici, con la nostra esperienza, dobbiamo metterla in condizione di lavorare al meglio, utilizzando le nostre competenze teoriche e le nostre abilità pratiche”. Ma anche la collaborazione è indispensabile per la buona riuscita di qualunque progetto di ricerca, anche il più semplice. “Prima di iniziare a lavorare è fondamentale sedersi a un tavolo con il ricercatore per pianificare le varie tappe dell’esperimento. A volte siamo proprio noi tecnici che spieghiamo come preparare un campione, per esempio un filamento di DNA che ci viene consegnato per l’analisi della sequenza” afferma Riboni. “Anche i fallimenti hanno

spesso ragioni tecniche: quando un esperimento non riesce, siamo noi ad analizzarlo con il ricercatore per individuare il passaggio sbagliato”. I risultati di questa collaborazione tra professionisti sono sotto gli occhi di tutti, traducendosi in continui passi avanti nella lotta contro il cancro. I tecnici di laboratorio biomedico sono impegnati anche in settori che riguardano meno direttamente la clinica. Il raggio di azione è incredibilmente vasto

OLTRE IL CONFINE

Tiziano Zanin, tecnico di laboratorio presso l’Ospedale Galliera di Genova e impegnato nella formazione universitaria dei nuovi colleghi, ha una storia professionale che si spinge ben oltre i confini italiani. Il tecnico genovese è infatti coinvolto attivamente nei progetti sostenuti da Patologi oltre frontiera (www.patologioltrefrontiera.it), un’organizzazione non governativa fondata nel 1999 con lo scopo di portare avanti la battaglia contro il cancro anche nei Paesi più poveri. Si

tratta, in estrema sintesi, di promuovere progetti di formazione del personale sanitario locale e di educazione sanitaria della popolazione e di intraprendere anche campagne di prevenzione. In Africa, per esempio, dove il carcinoma del collo dell’utero registra ancora una mortalità molto alta, si cerca di diffondere l’esame del Pap test, coinvolgendo il personale locale che resta però sempre in stretto contatto con i patologi italiani, in un ambizioso progetto di telepatologia: in pratica, dopo il prelievo e l’invio al laboratorio

ed essi possono anche occuparsi di animali negli istituti zooprofilattici, di igiene degli alimenti, di ecologia specializzandosi nel settore chimicoambientale. Da qualche tempo entrano anche in tribunale fornendo consulenze e risultati tecnici importanti in ambito forense.

del Pap test, i vetrini vengono preparati in loco e lì viene effettuata una prima analisi, ma è possibile inviare via web le immagini in Italia dove un patologo esperto le analizza e perfeziona la diagnosi. “Noi tecnici abbiamo sempre un ruolo centrale in questi progetti” afferma Zanin. “Ci occupiamo, per esempio, di tutta la parte di formazione del personale locale, ma anche delle fasi di installazione e progettazione delle apparecchiature dei nuovi laboratori o di adeguamento di quelli già esistenti”. Un’esperienza fuori dai confini che può aiutare a crescere i tecnici più giovani, ma anche quelli più esperti.


FIRC – PREMIO GUIDO VENOSTA Da Padova al Quirinale

A Stefano Piccolo l’ambito riconoscimento Il ricercatore patavino ha contribuito in modo significativo a capire quali sono i geni chiave nella formazione delle metastasi e nella “costruzione” di un tumore

a cura della REDAZIONE andato a Stefano Piccolo, professore di biologia molecolare alla Facoltà di medicina dell’Università di Padova, il prestigioso Premio Guido Venosta che FIRC attribuisce, una volta ogni due anni, a un ricercatore che, con la propria carriera, abbia contribuito in modo importante alla lotta contro il cancro. Piccolo è tra i più giovani vincitori dell’ambito riconoscimento, ritirato dalle mani del presidente della Repubblica nel corso della cerimonia che, come

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Il Premio Venosta è stato consegnato al Quirinale

ogni anno, si tiene al Quirinale in occasione dei Giorni della Ricerca sul cancro: ha infatti solo 45 anni, pur avendo accumulato una gran quantità di pubblicazioni scientifiche sulle riviste più prestigiose, in particolare da quando, nel 1999, è tornato a Padova dopo aver passato quattro anni presso l’Howard Hughes Medical Institute dell’Università della California, a Los Angeles. Piccolo e il suo staff studiano la comunicazione cellulare con un approccio molto originale: “Guardiamo al tumore come se fosse un organo. Ogni massa tumorale ha un suo ordine interno e un modo peculiare di far comunicare le cellule maligne tra loro e con l’esterno” spiega. “Per perseguire questo approccio dobbiamo utilizzare discipline molto diverse tra loro: la biologia molecolare, ma anche la biochimica o la bioinformatica”.

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DALLO SVILUPPO EMBRIOLOGICO ALLA RICERCA SUL CANCRO

SOPPRESSORI DI METASTASI tefano Piccolo ha iniziato la sua carriera studiando i geni dello sviluppo embrionale. Durante la sua permanenza negli Stati Uniti ha infatti individuato i geni e i meccanismi chiave per la formazione del sistema nervoso. È partendo da queste basi che ha affrontato il cancro come se fosse un nuovo organo, scoprendo la natura genetica della transizione epiteliomesenchimale, un passaggio necessario nella trasformazione di un tessuto da sano a tumorale. Il gruppo di Piccolo è noto anche per aver dimostrato l’esistenza di una classe di geni “di difesa”, il cui compito è prevenire la diffusione di cellule tumorali, un passaggio precoce della formazione di metastasi. Questi geni sono chiamati per l’appunto geni soppressori di metastasi. Si tratta di pochissimi geni che però hanno un ruolo centrale nella malattia, il che li rende ideali bersagli di farmaci intelligenti che siano in grado di riattivarli. In particolare, lo staff di Piccolo ha scoperto il ruolo di p63 e di alcune classi di microRNA nel conferire alle cellule la capacità di formare tumori secondari. “p63 è al centro del fenomeno delle metastasi perché, quando la sua attività diminuisce, si generano più tumori secondari. p63 è però un gene troppo difficile da manipolare a fini terapeutici, perché serve alle cellule normali per autorigenerarsi; abbiamo però scoperto che parte della sua azione si esplica attraverso il controllo del microambiente tumorale. Ancora una volta, capendo di più, si possono aprire finestre di intervento insperate.”

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In questo articolo: Premio Guido Venosta Stefano Piccolo metastasi LA MECCANICA DELLE CELLULE STAMINALI Piccolo e il suo gruppo si sono concentrati sull’architettura dei tessuti e sulle forze meccaniche che governano il comportamento cellulare: “Facciamo un esempio: spesso il medico identifica un tumore perché sente una massa dura alla palpazione. E questa durezza del tessuto è connaturata alla sua natura maligna: sappiamo infatti che se ammorbidiamo la massa, il tumore rallenta la sua progressione verso forme più maligne o comunque non è più in grado di dare metastasi. C’è quindi una relazione tra le caratteristiche biomeccaniche direi quasi fisiche - di una cellula tumorale e la sua capacità di fare danni”. La trasformazione di un tessuto normale in maligno dipende quindi anche da cambiamenti a livello della matrice extracellulare, cioè della sostanza che, come una colla, tiene insieme le cellule. Altri cambiamenti meccanici, come quelli che interessano il citoscheletro, cioè l’impalcatura interna che dà la forma alle cellule, sono importanti per la malattia, perché consentono, per esempio, alle cellule maligne di staccarsi dal tessuto d’origine per dare metastasi a distanza. Fino a un anno fa non era del tutto chiaro il modo con cui questi fenomeni vengono regolati a livello del nucleo, cioè quali geni sono coinvolti. Nel novembre 2011 il gruppo di Stefano Piccolo ha pubblicato sulle prestigiose riviste

Cell e Nature due lavori derivati da uno studio che ha puntato il dito sul gene TAZ e sul suo gene fratello Yap. In particolare, TAZ risulta essere un gene chiave nella trasformazione di una cellula da normale e maligna e da maligna a staminale tumorale, cioè la tipologia più pericolosa, perché capace di replicarsi e di dar luogo a metastasi. “Siamo riusciti a dimostrare che TAZ è responsabile della comparsa di caratteristiche di elevata malignità nel cancro del seno, ma dopo la nostra scoperta altri hanno dimostrato la stessa cosa anche nel glioblastoma, un tumore cerebrale devastante” spiega Piccolo. “E’ probabile che TAZ si dimostrerà essere un gene chiave in moltissimi tipi di tumori proprio perché è all’origine dei cambiamenti che portano alla malattia conclamata: sappiamo infatti che si muore di metastasi, non del tumore primitivo. E sulle metastasi finora sappiamo troppo poco: ci concentriamo troppo su ciò che le accomuna al tumore da cui hanno origine, invece di affrontarle come un tumore a se, con caratteristiche proprie”.

TAZ è un gene chiave nella trasformazione maligna

PIÙ INFORMAZIONI, PIÙ SCOPERTE A questa scoperta ha contribuito la possibilità di accedere a una banca dei tessuti di cancro del seno in cui sono archiviati molti campioni. “Tanti si chiedono perché nel cancro del seno si sono raggiunti risultati che in altri tumori non sono ancora arrivati. Semplice: perché è il primo tumore per il quale si è pensato di creare delle banche di tessuti e di registrare sulle cartelle cliniche il profilo geneti-

co. Poiché abbiamo molti dati, la velocità di nuove scoperte aumenta esponenzialmente, ottenendo risultati utili per i pazienti, in primis permettendoci di distinguendoli in categorie con diverso rischio di ricaduta, ed a cui dedicare, speriamo a breve, terapie più mirate”. Al momento il gruppo di Piccolo sta lavorando su due applicazioni pratiche di questa ricerca, grazie ai fondi del 5 per mille AIRC: un kit diagnostico che permetterà di comprendere se un cancro del seno è a elevato rischio di dar origine a metastasi (e quindi se va aggredito con particolare intensità), e la messa a punto di un farmaco mirato che possa interferire con TAZ.

“Questi studi, insieme ad altre scoperte, suggeriscono una nuova strada per la terapia del cancro: negli ultimi anni, infatti, si diceva che sarebbe bastato distruggere le cellule staminali tumorali per bloccare la malattia, come se queste fossero cellule tumorali diverse dalle altre. Oggi sappiamo che anche le cellule tumorali meno maligne, attivando il gene TAZ in risposta a stimoli del microambiente, diventano staminali e quindi resistenti ai farmaci. Ecco perché, per sconfiggere la malattia, dobbiamo aggredire allo stesso tempo le staminali e la massa di cellule tumorali comuni”.

FIRC, la Fondazione italiana per la ricerca sul cancro, ha istituito nel 1996 il Premio biennale per Nuovi approcci terapeutici alle neoplasie, di 50.000 euro. Il riconoscimento intende stimolare il trasferimento delle nuove acquisizioni scientifiche dalla ricerca di base al piano terapeutico. Dai anche tu il tuo contributo a FIRC! Come? Aggiungi un piccolo lascito nel tuo testamento, è facilissimo: visita il sito www.fondazionefirc.it o telefona allo 02 79 47 07. Grazie.


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Dal mondo Questione di autocontrollo Chi si controlla regolarmente la pelle e tiene d’occhio l’evoluzione dei nei almeno una volta l’anno può ridurre in modo significativo i rischi di scoprire un melanoma profondo: la conferma viene da uno studio pubblicato sul British Journal of Dermatology da Linda Titus e colleghi del DartmouthHitchcock Medical Center di Lebanon, nello Stato americano del New Hampshire. I ricercatori hanno condotto uno studio di popolazione caso-controllo confrontando un gruppo di 423 persone con melanoma con un gruppo di controllo composto da 678 persone sane, osservando una relazione tra l’abitudine all’autoesame della pelle (da una a 11 volte durante l’anno che precedeva lo studio) e la probabilità di autodiagnosticarsi il melanoma. La conclusione è netta: “Il rischio di un tumore profondo si riduce con l’autoesame della pelle effettuato almeno una volta l’anno, ma meglio se mensilmente” scrivono infatti Titus e colleghi.

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Cercasi fumatori per prevenzione Partendo dai risultati ottenuti dallo studio Cosmos – coordinato da Massimo Bellomi, direttore della Divisione di radiologia dell’Istituto europeo di oncologia e docente dell’Università degli Studi di Milano, e da Giulia Veronesi, direttore dell’Unità di ricerca sulla diagnosi precoce e la prevenzione del tumore polmonare – che ha valutato l’efficacia dello screening del cancro del polmone con tomografia computerizzata a basso

Lacrime diseducative L’idea che ci facciamo di una malattia dipende anche da come questa è descritta nei libri, in televisione e nei film. Per questo Giovanni Rosti, dell’ospedale Ca’ Foncello di Treviso, e Luciano De Fiore, dell’Università La Sapienza, si sono presi la briga di studiare in che modo il cancro viene dipinto nei film dal 1939 a oggi, partendo da Dark Victory (pellicola nella quale Bette Davis moriva di tumore al cervello) fino a Gran Torino, dove i sintomi sono appena tratteggiati. Ne vien fuori un ritratto tutt’altro che realistico e, in sostanza, molto diseducativo: la malattia colpisce soprattutto giovani ricchi, mentre nella realtà è una patologia più frequente nell’età avanzata. Inoltre i pazienti nei film muoiono sempre, anche se raramente viene descritto il dolore fisico che purtroppo spesso accompagna una malattia che, per fortuna, oggi viene tenuta a bada nella maggior parte dei casi. Il lavoro di Rosti e De Fiore è stato presentato al convegno della Società europea di oncologia medica (ESMO) riscuotendo notevole successo: sarebbe meglio che il cinema facesse uno sforzo di realismo e raccontasse il cancro in modo meno strappalacrime, ma più aderente al percorso di cura che interessa così tante persone.


dosaggio di radiazioni (TC), lo IEO di Milano ha avviato lo studio Cosmos 2. Grazie alla collaborazione con altri centri sparsi in tutta Italia, il nuovo studio punta ad affinare e a diffondere su ampia scala l’anticipazione della diagnosi per la popolazione ad alto rischio di tumore polmonare (fumatori ed ex fumatori), affiancando alla tomografia un esame del sangue capace di individuare specifici marcatori molecolari (microRNA) che indicano la presenza del tumore. “Il ruolo dei marcatori tumorali nella diagnosi precoce diventerà sempre più importante e perfezionerà le capacità diagnostiche delle macchine” spiega Pier Paolo Di Fiore, direttore scientifico di IEO. “Col tempo potrebbe anche sostituirsi a esse, purché si dimostrino

sufficientemente affidabili”. I ricercatori puntano ad arruolare 10.000 persone a rischio in un anno e a identificare in cinque anni più di 320 tumori del polmone di cui la maggior parte in fase iniziale, così da accrescere le probabilità di guarigione. Chi vuole sapere se ha le caratteristiche per partecipare allo studio può consultare il sito www.10secondi.it o chiamare il numero telefonico 02-64107700.

Smettere fa sempre bene

Meglio con lo screening Una ricerca inglese apparsa sul British Journal of Cancer ha lanciato l’allarme: moltissimi tumori vengono diagnosticati solo in occasione di una visita urgente in Pronto Soccorso. In dettaglio, si tratta di un caso su quattro in termini assoluti, e quasi un caso su tre per gli ultrasettantenni. Lo studio – che ha seguito il “viaggio” compiuto tra il 2006 e il 2008 da circa 740.000 malati di cancro, per scoprire dove e come avevano avuto la diagnosi – è stato finanziato dal National Cancer Intelligence Network, e realizzato con il contributo della charity Cancer Research UK: “È davvero scioccante scoprire che complessivamente un quarto dei malati di cancro riceve la diagnosi solo a seguito di un ricovero urgente” ha commentato Sarah Woolnough, direttore esecutivo dell’associazione. La situazione italiana potrebbe essere meno drammatica, giacché è noto che, a dispetto dell’efficiente sistema sanitario britannico, nel Regno Unito i tassi di sopravvivenza sono in media più bassi rispetto a quelli di altri Paesi europei, ma questo studio invita a moltiplicare gli sforzi per aumentare la diffusione degli screening per la diagnosi precoce.

Non è mai troppo tardi per ridurre il consumo – e soprattutto l’abuso – di alcolici: una revisione della letteratura pubblicata sulla rivista Addiction da Johan Jarl e Ulf Gerdtham dell’Università Lund di Malmö, in Svezia, segnala infatti che chi smette di bere ne trae benefici tangibili anche in termini di riduzione del rischio di cancro dell’esofago, notoriamente associato al consumo di alcol. L’analisi approfondita di tutte le ricerche finora pubblicate sull’argomento ha rilevato una notevole variabilità tra uno studio e l’altro, ma una volta presi in esame solo quelli che offrono le migliori garanzie di qualità metodologica il responso è stato chiaro: anche dopo un lungo periodo di consumo eccessivo, con relativo aumento del rischio di cancro esofageo, chi riesce a smettere riduce progressivamente le prospettive di essere colpito dal tumore, fino a tornare nella normalità dopo una media di sedici anni, ma con un dimezzamento del rischio già dopo cinque anni.

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THE FUTURE OF SCIENCE Nanotech contro il cancro

Nani sulle spalle dei giganti Con l’infinitamente piccolo si possono battere i tumori: è solo questione di tempo e di sviluppo di tecnologie che, in vent’anni, hanno già rivoluzionato la medicina

a cura di FABIO TURONE i definisce scherzosamente “un tassinaro”, ma andrebbe semmai accostato a un astronauta che si muove con sempre maggiore competenza e maestria in un ambiente pericoloso e ostile, verso galassie inesplorate in cerca di una nuova cura contro il cancro. In effetti nelle appassionate parole con cui Mauro Ferrari ha illustrato il futuro della nanomedicina al pubblico della AIRC lecture tenuta a Venezia – durante la conferenza “The Future of Science” organizzata come ogni anno dalla Fondazione Veronesi – ricorrono le metafore spaziali, forse perché il geniale ricercatore friulano è da anni

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trapiantato a Houston, in Texas, dove la NASA ha avuto per lunghi anni un poligono di lancio. Nella città texana – ha raccontato con uno dei tanti sorrisi dispensati alla platea piena di giovani, raccolti attorno a Umberto Veronesi per imparare tutto sulle nanoscienze – sono da tempo abituati a sentirsi ripetere la storica frase “Houston, we have a problem” e a darsi da fare per trovare una soluzione all’altezza. Nel caso della battaglia contro il cancro, la promettente soluzione alla quale Ferrari sta lavorando da molti anni prevede, tra le altre cose, la costruzione di un razzo a tre stadi, montato in una scala infinitamente piccola, misurabile in nanometri, miliardesimi di metro.

Un razzo molto piccolo per trasportare le cure al bersaglio

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“STREPITOSAMENTE MULTIDISCIPLINARE” Umberto Veronesi, che nel presentare la sessione organizzata da AIRC ha elogiato Ferrari per i risultati ottenuti alla testa della massima istituzione mondiale di ricerca sulle nanotecnologie applicate all’oncologia – il Methodist Hospital di Houston –, ha ricordato il suo percorso di studi inusuale per un clinico, ma utilissimo a unire le competenze oggi richieste allo specialista in nanomedicina: laureato in matematica a Padova, Ferrari si è trasferito negli Stati Uniti per prendere prima un dottorato in ingegneria a

Berkeley, in California, quindi la seconda laurea in medicina a Columbus, in Ohio, dove ben presto è stato chiamato a dirigere il Centro di ingegneria biomedica. A quel punto si è trovato a essere la persona giusta, nel posto giusto e al momento giusto perché il National Cancer Institute americano gli affidasse, nel 2003, la direzione del programma di sviluppo della nanomedicina, con un approccio “strepitosamente multidisciplinare”. Quell’approccio che permette al tempo stesso di affrontare le nuove sfide dell’innovazione, tenendo i piedi ben piantati sulle soli-

I relatori M. Ferrari, F. Beltram, P.P. Di Fiore


In questo articolo: nanotecnologia oncologia molecolare nuove cure

de basi del metodo scientifico affinato dalle discipline, per così dire, classiche. Anche per i nanoscienziati, ha infatti ricordato il ricercatore omaggiando il suo “grande maestro Veronesi”, vale l’immagine coniata nel dodicesimo secolo da Bernardo di Chartres (e poi ripresa anche da Newton) dei nani in piedi sulle spalle dei giganti, che per questo motivo riescono a vedere sempre un po’ più lontano degli altri. IL PRIMO NANOFARMACO È ITALIANO “La nanotecnologia non è una cosa nuova. Risale al 1986 il premio Nobel a chi ha saputo per primo spostare singoli atomi, al 1996 quello per la scoperta dei fullereni e dei nanotubi, e al 2010 quello assegnato per la scoperta del grafene” spiega Ferrari. “Il primo e il terzo sono stati assegnati per la fisica, mentre il secondo per la chimica, a riprova del fatto che a livello nanoscopico le differenze tra queste diverse discipline tendono a svanire”. D’altra parte anche la nanomedicina applicata al cancro esiste da una ventina d’anni: “Il primo nanofarmaco è l’adriamicina, messa a punto all’Istituto tumori di Milano da Gianni Bonadonna e approvato quasi vent’anni fa. Oggi circa il cinque per cento dei Ferrari con alcuni studenti presenti all’evento

farmaci usati in oncologia è nano, e in ambiti come il cancro del seno o dell’ovaio sono addirittura il 20 per cento circa” riepiloga il luminare friulano, sottolineando il fatto che le nuove conoscenze e competenze che si stanno affinando su scala nanometrica offrono prospettive di enormi passi avanti in molti ambiti diversi. A differenza di molti farmaci venuti dopo, l’adriamicina non dispone di nessuna capacità di riconoscimento delle molecole su cui deve agire: si concentra nel tessuto tumorale in virtù di alcune irregolarità che caratterizzano i vasi sanguigni creati dal tumore. “Uccidere le cellule cancerose è facile: si può fare anche con l’acqua del rubinetto” spiega Ferrari ricorrendo a un paradosso. “La difficoltà vera è il trasporto del farmaco sul bersaglio”. PROBLEMI RISOLVIBILI E in questo ambito le nanotecnologie promettono di far compiere all’oncologia un balzo da gigante: “Io sono tassinaro delle particelline: il mio lavoro consiste nel portare le nanoparticelle dove servono” racconta con tono scherzoso. Il taxi è appunto un sofisticatissimo razzo a tre stadi realizzato assemblando insieme tante strutture di dimensioni nanometriche, ciascuna con una funzione specifica: “Il corpo umano è come una fortezza medievale e la cosa più difficile è superare tutte le barriere biologiche, come

la barriera emato-encefalica o il fegato”. Il primo stadio del vettore potrà quindi essere un travestimento capace di ingannare le cellule del fegato, pronte a distruggere gli intrusi, permettendo di far passare un potente esercito, come con un cavallo di Troia. “Oggi, dopo vent’anni di studi, vedo il cancro in modo diverso, come una patologia del trasporto. È un male che invade posti in cui non doveva andare, agendo sui meccanismi biologici con cui l’organismo crea barriere e provvede al riconoscimento” conclude. L’oncologia del futuro, insomma, saprà usare tutte le competenze disponibili per costruire strumenti capaci di inseguire il cancro e combatterlo

con sempre maggiore abilità e destrezza. Le nuove generazioni sono già in pista: per un’iniziativa promossa da Ferrari insieme alla moglie Paola, nel paesino calabrese di Gagliato – ribattezzato “Paese delle nanoscienze” –, anche i bambini frequentano la Piccola accademia delle nanoscienze. Così i più piccoli possono ascoltare i migliori scienziati che ogni anno si riuniscono da tutto il mondo per quattro giorni, per trovare insieme la migliore soluzione a problemi sempre nuovi e sognano di diventare l’astronauta che con il suo piccolo passo in più permetterà all’umanità di compiere il tanto atteso “balzo da gigante” contro il cancro.

Una Piccola accademia per sconfiggere i pregiudizi

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PSICONCOLOGIA Adesione alle cure

Quando la terapia diventa un peso Secondo diversi studi, il grado di adesione alle cure complesse come quelle oncologiche è molto basso. Sono tanti i pazienti che, per ragioni fisiche o psicologiche, non seguono correttamente le prescrizioni, compromettendo l’efficacia dei farmaci

a cura di DANIELA OVADIA ossana ha 35 anni, una figlia di otto, e un lavoro interessante: è editor presso una grande casa editrice. Si occupa di libri, è una persona colta e informata. Un anno fa le è stato diagnosticato un tumore al seno: una forma lieve, che è stata asportata con un piccolo intervento ma che potrebbe tornare se Rossana non prenderà regolarmente le terapie ormonali che le hanno prescritto. “Lo so che queste medicine mi salveran-

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Lisa Licitra lavora con pazienti che spesso rifiutano le cure

no la vita. Ma il fatto di doverle prendere, di dover sopportare gli effetti collaterali, che pure non sono importanti, e, soprattutto, questo gesto che ogni mattina mi ricorda che sono malata sono diventati per me un peso insopportabile. Ho chiesto a mio marito di obbligarmi a prendere le pastiglie, altrimenti da sola non ce la faccio, anche perché finché sono in cura non posso pensare di fare un altro figlio, che desidererei moltissimo”. SENSI DI COLPA Ciò che Rossana racconta è un sentimento comune a molti pazienti: seguire le terapie oncologiche, anche quando si è consapevoli della loro necessità e della loro efficacia può non essere facile. Non a caso il problema dell’adesione alle cure (chiamata anche con il termine inglese compliance, ormai entrato a far parte del gergo medico inter-

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nazionale) è uno dei più studiati in medicina: perché a nulla serve avere una nuova arma contro i tumori se poi i pazienti si rifiutano o fanno fatica ad usarla. “Nel mio campo, che è quello dei tumori della testa e del collo, questo problema è molto sentito anche per via della obiettiva invasività di certe terapie” spiega Lisa Licitra dell’Istituto nazionale tumori di Milano. “La chirurgia può essere molto pesante e anche radioterapia e farmaci non sono semplici da somministrare. Inoltre molti dei nostri pazienti sono persone dal passato difficile, forti fumatori o bevitori, che non hanno del tutto elaborato la sensazione di essere in parte corresponsabili di ciò che sta loro accadendo. Le componenti psicologiche che portano i malati a non seguire le terapie sono molto variabili e vanno prese in attenta considerazione, a volte anche con l’aiuto dello psicologo, perché possono davvero compromettere l’esito delle cure”. Non solo: i malati sentono dire intorno a sè che, per trovare una cura alla malattia che li ha colpiti, medici, scienziati e ricercatori lavorano alacremente e il servizio sanitario spende molti soldi e questo può farli sentire ancora più inadeguati e ingrati,

In questo articolo: psicologia compliance farmaci

anche se le ragioni per le quali non ce la fanno a curarsi sono del tutto giustificabili; quindi i pazienti mantengono il segreto e non ne parlano con nessuno, nemmeno con i familiari. PIÙ FACILI LE RICADUTE Quello che i pazienti non osano dire al loro medico, cioè che di tanto in tanto saltano una pastiglia oppure che hanno proprio smesso di prenderle, può ritorcersi loro contro: la malattia può ripresentarsi o non rispondere come previsto. Il medico potrebbe addirittura aumentare le dosi, convinto che la cura non stia funzionando, innescando così un circolo vizioso sempre più pericoloso. La rivista Cancer World, pubblicata dalla European School of Oncology per tutti gli oncologi europei, ha dedicato recentemente un lungo articolo alla questione per invitare i medici, attraverso l’opinione di esperti, a cambiare atteggiamento nei confronti dei pazienti poco “obbedienti”. “Quando un malato non prende i farmaci o non viene

Le nuove cure tengono conto della facilità di assunzione

I FARMACI MISTERIOSI n uno studio condotto nel 2007 su pazienti cronici in cui il farmaco era assolutamente necessario per la sopravvivenza Rob Horn, dell’Università di Londra, ha distribuito un questionario all’inizio della terapia, scoprendo che: • il 68 per cento era preoccupato degli effetti collaterali a lungo termine della cura; • il 55 per cento era preoccupato degli effetti collaterali immediati; • il 50 per cento pensava che le medicine gli avrebbero sconvolto la vita;

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alle sedute di radioterapia non è un problema suo, ma un problema del medico” spiega Rob Horn, docente di medicina comportamentale all’Università di Londra. “Dobbiamo spingere i colleghi a uscire da una visione punitiva della medicina per chiedersi invece: che cosa non va nella terapia? Quale effetto collaterale risulta insopportabile a questa persona? Posso fare qualcosa per alleviarlo? Oppure posso proporgli un sostegno psicologico?” Molto importante è anche il colloquio che precede la prescrizione: è necessario che il medico abbia il tempo di spiegare bene a cosa serve ogni molecola, quali effetti collaterali può provocare e, soprattutto, perché ha scelto proprio quella cura e quali benefici si aspetta che il malato ne riceva. NUMERI PREOCCUPANTI Il problema è largamente sottostimato, come ammette la stessa Licitra:

• il 47 per cento era semplicemente preoccupato del fatto di dover assumere una terapia;

• il 31 per cento non era sicuro di essere capace di

prendere le medicine ogni giorno alla stessa ora;

• il 30 per cento temeva di diventare dipendente dai farmaci;

• il 21 per cento ha fatto una x sulla frase “queste medicine sono un mistero per me”.

Unendo le percentuali di risposte e verificando l’adesione alle cure nei mesi successivi, Horn ha dimostrato che coloro che hanno più dubbi e paure fin dall’inizio sono quelli che più facilmente abbandonano la terapia.

“In alcuni studi hanno calcolato che quasi la metà dei pazienti non segue regolarmente le prescrizioni”. Questo è ciò che dicono gli scienziati, ma un’indagine condotta da un gruppo internazionale di 68 associazioni di pazienti in 52 diversi Paesi, il CML Advocates Network, ha fornito cifre molto più allarmanti: sarebbe ben l’88 per cento dei malati a sospendere, di tanto in tanto, le terapie senza il consenso del medico. Anche i medici di famiglia sono molto interessati all’argomento, perché sono loro a prescrivere i farmaci alla base della prevenzione di malattie come il cancro (e che vanno presi anche per lunghi periodi). Infatti le riviste di settore, tra le quali il ben noto British Medical Journal, hanno pubblicato molti studi che analizzano il fenomeno e offrono soluzioni possibili.

Oltre alla qualità del colloquio, infatti, può essere importante aiutare la persona con piccoli accorgimenti: le confezioni di farmaci da prendere su base quotidiana dovrebbero avere dei segni che permettano di verificare se quel giorno si è già assunta la dose prescritta. È facile, infatti, ritrovarsi davanti alla confezione e chiedersi: ma l’avrò già presa? Un accorgimento di questo tipo è stato adottato fin da subito con la pillola anticoncezionale, che perde efficacia dopo una sola dimenticanza, ma potrebbe essere esteso a molti altri farmaci. In attesa che ciò avvenga, una buona organizzazione delle pillole, oppure un calendario su cui segnare l’assunzione possono essere di grande aiuto. Horn, però, rimane convinto che la soluzione sia principalmente nelle mani del medico che deve avere il tempo di fugare tutti i dubbi iniziali e, in seguito, deve sospettare e indagare una mancata adesione alle terapie ogni volta che non vede miglioramenti. “Questo è davvero importante, soprattutto con i nuovi farmaci oncologici che sono molto efficaci ma non privi di effetti collaterali” spiega il professore. “Inoltre sono molto costosi e una mancata adesione può comprometterne l’utilità. La cura è sempre il frutto di un compromesso tra ciò che è meglio in teoria e ciò che va bene per quel singolo paziente: la terapia personalizzata non è solo quella tagliata a misura delle caratteristiche genetiche del tumore ma va calibrata anche sulla psicologia del paziente”.

Più della metà dei pazienti non è affatto ligia al dovere

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STILI DI VITA Studio Cos 2

In questo articolo: alimentazione BRCA cancro del seno

Alla ricerca del fattore che alimenta il cancro Un gruppo dell’INT di Milano ha scoperto un legame tra il fattore di crescita insulino-simile e la probabilità che la malattia compaia, con la speranza di poter intervenire con l’alimentazione. Ora parte la sperimentazione su donne con elevato rischio genetico di sviluppare un cancro del seno a cura della REDAZIONE artito nel 2007, lo studio Cos 2, diretto da Franco Berrino, allora responsabile dell’Unità di eziologia ed epidemiologia preventiva dell’Istituto nazionale tumori (INT) di Milano ha già dato i suoi frutti con la pubblicazione, un anno fa, dei risultati ottenuti con un primo reclutamento di volontarie. La ricerca prende infatti l’avvio dai risultati raggiunti con lo studio Cos 1 (acronimo di Case Only Study). Tra il 2001 e il 2004 più di 1.600 donne italiane e oltre 3.000 donne europee con una diagnosi di tumore al seno entro i 40 anni di età hanno partecipato a questo studio ideato e coordinato dall’INT per valutare se e come lo stile di vita e l’alimentazione influenzino l’insorgenza del tumore al seno in donne ammalatesi in giovane età. I risultati del primo studio Cos hanno dimostrato che nelle giovani donne con una predisposizione familiare al tumore al seno il consumo di determinati alimenti riduce il rischio di ammalarsi.

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Un nuovo studio per donne ad alto rischio

Un fattore predisponente Sono state queste le premesse per un nuovo studio, il Cos 2, rivolto alle donne sane o malate che hanno una storia familiare di tumore al seno e alle donne che hanno avuto un risultato positivo al test genetico BRCA 1 o BRCA 2. Scopo della ricerca è individuare famiglie con elevata prevalenza di cancro al seno nei consanguinei (madri, figlie e sorelle), valutare la presenza di forme mutate dei geni BRCA 1 e BRCA 2 (i due responsabi-

COME PARTECIPARE ALLA SECONDA FASE DI COS 2 POSSONO ADERIRE AL PROGETTO COS 2: - Le donne che hanno ricevuto una diagnosi di carcinoma della mammella e hanno un test genetico positivo per mutazione dei geni di predisposizione al tumore al seno (geni BRCA). - Le donne che hanno avuto un carcinoma della mammella prima

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li delle forme familiari della malattia) e vedere se, a livello metabolico, vi sono fattori che possono aiutare a prevedere chi si ammalerà e chi no. È infatti più facile capire se il cibo influenza la probabilità di ammalarsi in donne con un rischio elevato, mentre capirlo in donne senza particolari fattori predisponenti richiede grandi numeri e molti anni di osservazione. “Sappiamo già da studi precedenti che esiste un fattore di crescita,

del compimento dei 40 anni e hanno almeno due parenti di primo grado con carcinoma della mammella o dell’ovaio. - Le donne sane ma con un test genetico positivo per mutazione dei geni di predisposizione al tumore al seno (geni BRCA). - Le donne sane con almeno tre


... l’articolo continua su: www.airc.it/cos2

quello insulino-simile o IGF-1, che è associato a un maggior rischio di ammalarsi di cancro al seno in persone che non hanno i geni mutati” spiega Eleonora Bruno, coautrice dello studio. “Lo scopo del progetto Cos 2 era valutare se anche nelle forme ereditarie la presenza di IGF1 è un fattore di rischio aggiuntivo”. I ricercatori hanno selezionato donne con una diagnosi pregressa di cancro del seno e positive per i geni BRCA 1 e 2 e un gruppo con

positività genetica ma ancora nessuna diagnosi di malattia conclamata. “Quello che abbiamo scoperto è che l’IGF-1 è più elevato in chi si è ammalato rispetto a chi, invece, non ha ancora avuto una diagnosi” continua Bruno. “Possiamo quindi ipotizzare che l’esposizione a questa sostanza favorisca effettivamente la comparsa della malattia”.

parenti di primo grado affette da carcinoma della mammella o dell’ovaio in giovane età.

e fianchi. - Compilare alcuni questionari su alimentazione e stile di vita.

LE DONNE INTERESSATE DEVONO ESSERE DISPONIBILI A: - Partecipare a un incontro di informazione su alimentazione, stile di vita e prevenzione nelle donne ad alto rischio genetico presso il Campus Cascina Rosa della Fondazione IRCCS Istituto nazionale tumori di Milano. - Fare un prelievo del sangue e una visita con misurazioni del peso, dell’altezza, della circonferenza vita

È uno studio di intervento alimentare su donne con test genetico positivo per BRCA 1 e BRCA 2 e si accettano adesioni da tutto il territorio italiano.

Per informazioni contattare: la segreteria dello studio allo 02 23902868 oppure Eleonora Bruno allo 02 23903512 eleonora.bruno@istitutotumori.mi.it

Prevenire col cibo Tutto ciò ha immediati risvolti pratici perché lo stesso gruppo di ricercatori dell’INT, anche grazie a un finanziamento di AIRC, ha portato avanti un progetto, chiamato DIANA, che ha dimostrato come sia possibile ridurre la presenza di fattori di crescita come l’IGF-1 agendo sulla dieta. “Ora vogliamo andare avanti con una seconda fase di studio che valuterà l’effetto di un’alimentazione controllata su donne con BRCA 1 o 2 mutati e alti livelli di IGF-1. Siamo fiduciosi di poter ridurre il rischio di ammalarsi insieme al livello del fattore di crescita nel sangue con un regime dietetico studiato ad hoc” conclude Bruno. La seconda fase dello studio partirà nel marzo del 2013 e fino a fine gennaio è possibile entrarne a far parte, se si rientra nei criteri di arruolamento esposti nel riquadro in queste pagine.

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Domande e risposte

I farmaci anticancro più moderni sono chiamati “biologici”. Perché? bene chiarire che non tutti i farmaci anticancro che arrivano sul mercato sono biologici. Esistono anche nuove molecole sintetizzate chimicamente. Il termine biologico non ha nulla a che vedere con il significato che assume per esempio in ambito alimentare. Un farmaco si dice biologico perché riproduce un elemento presente nell’organismo umano (in genere un anticorpo, cioè una proteina che si lega in modo specifico a un bersaglio cellulare), oppure perché è prodotto da batteri, che fungono da “laboratorio di sintesi”. Per fare ciò viene introdotto nei batteri un gene umano che viene successivamente tradotto, cioè dà origine alla proteina-farmaco. Tale sostanza viene rilasciata dai batteri stessi nel brodo di coltura e quindi estratta e purificata prima di essere confezionata.

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Fare attività fisica può ridurre il rischio di ammalarsi di cancro del seno? iversi studi hanno dimostrato l’utilità di una regolare attività fisica sullo sviluppo del cancro del seno, ma un’ulteriore conferma di quanto già noto viene da una ricerca molto recente uscita sulla rivista Cancer. Su circa 1.500 donne con cancro del seno e altrettanti controlli, i ricercatori hanno trovato una relazione non lineare tra rischio di ammalarsi e abitudine a muoversi. Ciò significa che l’esercizio fa bene ma non sempre nello stesso modo: le donne che ne beneficiano di più sono quelle già in menopausa, a dimostrazione del fatto che fare ginnastica non è solo una cosa per giovani.

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È utile fornire Per controllare un supporto psicologico i nei basta un medico a un bambino qualsiasi o devo cercare un molto piccolo che si centro specializzato? ammala di cancro? n medico è sempre meglio di un non esperto, ovviamente, ma diversi studi, l’ultimo dei quali italiano, uscito sul Journal of the American Academy of Dermatology a opera di un gruppo di dermatologi dell’Arcispedale Santa Maria Nuova di Reggio Emilia, dimostrano che quanto più un centro è specializzato tanto più è accurata la diagnosi. Non si tratta di una scoperta inattesa: la stessa considerazione vale per qualsiasi esame diagnostico, visto che la capacità di fare diagnosi cresce con l’esperienza e col numero di esami valutati.

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Quanti, in Italia, hanno avuto un tumore e quanti possono definirsi guariti? malati ed ex malati di tumore sono tanti, circa il quattro per cento della popolazione (vale a dire circa 2.250.000 persone). Più della metà sono donne, per il 42 per cento colpite da cancro del seno. Tra gli uomini il tumore più frequente è quello della prostata (22 per cento). Molti di loro, oltre 1.300.000, hanno avuto la diagnosi da almeno cinque anni, quindi sono formalmente da considerarsi al di fuori del periodo più a rischio di ricaduta.

i pensa spesso che i bambini molto piccoli, sotto i tre anni di vita, non conservino memoria di quanto è accaduto loro nella prima infanzia e che quindi, in caso di malattia grave, tendano a dimenticare. Uno studio recente uscito sulla rivista Psycho-Oncology e condotto dall’Ospedale pediatrico universitario di Zurigo dimostra che circa il 20 per cento dei piccoli pazienti tra 0 e 48 mesi mostra sintomi di sindrome post-traumatica da stress, un disturbo che può, alla lunga, compromettere il benessere psicologico anche in età più matura. Ciò significa che anche un bambino piccolo ha bisogno di un supporto specialistico che, data l’età del paziente, lavorerà soprattutto con e tramite i genitori.

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È vero che i cani possono diagnosticare precocemente alcuni tipi di tumore?

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a vicenda dei cani capaci di fare diagnosi precoce di cancro nei loro padroni nasce nel 1989 con la pubblicazione, sulla rivista The Lancet, di un articolo a firma di John Church e collaboratori che racconta la storia di un paziente il cui melanoma maligno è stato identificato grazie all’insistenza con cui il suo cane da caccia annusava una lesione sulla pelle. Da allora lo stesso Church ha raccolto altre testimonianze analoghe e ha pubblicato uno studio in merito sul British Medical Journal nel 2003. È possibile che cani dall’odorato molto fine siano capaci di identificare alcuni prodotti della cellula cancerosa che danno alla pelle un odore particolare, ma non vi è alcuna prova che questa proprietà sia sistematica e soprattutto estendibile a qualsiasi forma di cancro.

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ALIMENTAZIONE Il consumo di carne

In questo articolo: alimentazione e cancro carne prevenzione

La fettina in tavola fa male o fa bene? I messaggi circa il consumo di carne sono discordanti. La verità è che bisogna considerare diversi aspetti: da un lato la prevenzione dei tumori, ma dall’altro anche le malattie vascolari e, per un quadro generale, anche le questioni di tipo economico e sociale

a cura di DANIELA OVADIA angiare troppa carne fa male. Se questo è ormai un dato scientifico assodato, vi sono però molti dubbi su cosa intendiamo per “troppa” e, soprattutto, che cosa davvero è possibile prevenire, in termini di malattie, evitando un eccesso di proteine di origine animale. “Gli studi in merito non sono conclusivi, almeno per quel che riguarda il cancro” spiega Carlo La Vecchia, dell’Istituto Mario Negri di Milano, scienziato coinvolto nella maggior parte dei grandi studi epidemiologici sulle abitudini alimentari e il rischio di malattia, primo tra tutti il ben noto studio EPIC, cofinanziato anche da AIRC, che ha fotografato le abitudini degli europei a tavola. “Per alcuni tumori sembra infatti possibile dire che esiste un nesso diretto tra consumo di carne e malattia, mentre per altri il nesso è molto più labile, se non inesistente, allo stato attuale delle conoscenze”. Le ragioni per ridurre il consumo di

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Sotto accusa le sostanze da combustione

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carne non sono però legate esclusivamente al cancro ma anche ad altre considerazioni, in parte riassunte nello schema a fianco, che riguardano l’impatto della produzione di questo alimento sull’ambiente e sull’economia: non si tratta però di argomenti legati direttamente al rischio tumorale. E c’è di più. “Non dimentichiamoci che un’alimentazione povera di proteine e grassi animali ha un effetto benefico soprattutto a livello cardiovascolare” spiega ancora La Vecchia. “E infarti e ictus uccidono quanto e più dei tumori”.

La comunità scientifica internazionale è ormai concorde sul fatto che alcuni aspetti della dieta occidentale, e in particolare il consumo di carne rossa, salumi e insaccati, rappresentino fattori di aumento del rischio di insorgenza di malattie tumorali. Una metanalisi (cioè uno studio che raggruppa all’interno di un’unica valutazione statistica i risultati di ricerche differenti, sommandone il potere predittivo) condotta da Teresa Norat dello IARC di Lione (il maggior ente di ricerca sul cancro dell’Organizzazione mondiale della sanità) ha dimostrato che un elevato consumo di carne, soprattutto se conservata, e una dieta con alte concentrazioni di grassi di origine animale (come quelli che si trovano nella carne) aumentano il rischio di insorgenza di tumori al colon-retto. Altri studi, invece, non hanno osservato alcuna relazione tra il consumo di pollame (cioè di carne bianca) e pesce e le malattie tumorali dell’intestino. Ciò significa che sono le carni rosse le principali indiziate, almeno per quel che riguarda questo tipo di tumore. Altri scienziati hanno notato che il consumo elevato di carne rossa e di prodotti di origine animale è correlato allo sviluppo del tumore alla prostata. Infine, uno studio di Dominique Michaud e collaboratori del National Cancer Institute statunitense mostra come un’elevata quantità di carne nella dieta rappresenti un fattore di rischio per i tumori al pancreas. “Questi singoli studi che pongono il consumo di carne in relazione con specifici tumori e non con altri non sono però un via libera al consumo di carne a pranzo e cena” spiega ancora La Vecchia. “Anche perché esiste una correla-

La carne influisce solo su alcuni tipi di tumore

Singoli tumori e alimentazione Che cosa possiamo dedurre, a rigore di studi, sulla relazione tra consumo di carne e cancro?

... l’articolo continua su: www.airc.it/carne


zione inversa tra consumo di alimenti di origine animale e quelli di origine vegetale: significa che chi mangia tanta carne in genere consuma poca frutta e verdura, e su questo punto esistono invece prove di una relazione diretta tra alimentazione e cancro”. In sostanza i vegetali hanno un’azione protettiva più ad ampio raggio, mentre le fibre aiutano a prevenire il cancro del colon-retto e quindi vanno privilegiate nella composizione dei pasti.

Elementi nocivi È ancora aperta la discussione su che cosa esattamente, nella carne, potrebbe favorire la comparsa di tumori e gli accusati sono molti: da un lato sicuramente i conservanti (che sono contenuti soprattutto nei salumi), dall’altro gli stessi processi di decomposizione della carne animale nel sistema digerente, che libererebbero sostanze dall’azione proinfiammatoria. Infine è noto che alcune sostanze prodotte dalla combustione diretta della carne sul fuoco (la tipica crosta bruciata dovuta alla caramellizzazione degli zuccheri contenuti naturalmente in qualsiasi pezzo di carne) hanno un’azione procancerosa, anche se solo a concentrazioni estremamente elevate. “Gli uomini sono comunque degli animali onnivori” ricorda La Vecchia. “Di conseguenza abbiamo tutte le risorse biologiche per consumare in sicurezza anche la carne, ma non dobbiamo esagerare”. Quali indicazioni pratiche dare, quindi? Le differenti piramidi alimentari stilate dagli istituti di nutrizione tengono conto anche delle abitudini delle diverse popolazioni, ma comunque raramente si discostano dalla media di tre-quattro porzioni di carne la settimana, divisa equamente tra carne rossa e pollame. A queste andrebbero aggiunte almeno un paio di porzioni la settimana di pesce e, per il resto, bisognerebbe comporre pasti con carboidrati, vegetali, latticini e proteine di origine vegetale come quelle contenute nei legumi.

QUESTIONI DI ECONOMIA

Tra le considerazioni legittime, nel momento in cui si decide quanta carne consumare, possono rientrare anche quelle sociali ed economiche. È quindi giusto sapere che un terzo della produzione agricola mondiale è destinata a nutrire gli animali che a loro volta saranno usati per l’alimentazione umana. Per ottenere un chilo di carne sono infatti necessari 13 chili di mangimi (per lo più cereali) nel caso della carne bovina e circa tre chili per il pollame, mentre la stessa superficie agricola

potrebbe produrre cereali in grado di sfamare molte persone. Lo stesso problema, in termini di consumi, si verifica per l’acqua destinata all’allevamento. La produzione di foraggio per uso animale risulta economicamente vantaggiosa per molti piccoli agricoltori. Per questo le istituzioni mondiali, dalla FAO alla Banca Mondiale, stanno promuovendo progetti che favoriscono la riconversione delle produzioni agricole.


DAL LABORATORIO ALLA CURA I fattori di crescita

I fertilizzanti delle cellule sotto la lente del ricercatore La ricerca si concentra sull’identificazione dei segnali e dei meccanismi che stimolano la crescita dei tumori per scovare nuovi bersagli che blocchino la moltiplicazione incontrollata della cellula a cura di AGNESE CODIGNOLA a prima volta che l’opinione pubblica di tutto il mondo, e soprattutto italiana, ha sentito parlare dei fattori di crescita (GF, dall’inglese Growth Factor) è stato nel 1986, quando Rita Levi Montalcini e Stanley Cohen hanno ricevuto il premio Nobel per la medicina per i loro studi fondamentali su due di essi: il Nerve Growth Factor e l’Epidermal Growth Factor. Leggendo le motivazioni del comitato di Stoccolma, molti hanno infatti appreso che esistono, nell’organismo umano, proteine incaricate di regolare il corretto sviluppo del feto e, in seguito, la continua crescita e, in alcuni casi, la specializzazio-

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ne dei tessuti, la riparazione di ciò che viene danneggiato e tanto altro. Da allora – e anche grazie allo stimolo dato dal premio – molto è successo nel mondo della ricerca, la lista dei fattori di crescita si è allungata fino a comprendere decine di molecole diverse (vedi il box in questa pagina) e alcuni fattori di crescita sono diventati, insieme ai loro recettori (cioè altre proteine che, poste sulla superficie delle cellule, captano la presenza dei primi e la traducono in azioni interne alla cellula), il bersaglio specifico di farmaci altamente selettivi, che hanno profondamente modificato il modo di intendere la cura dei tumori e non solo. Tuttavia, come purtroppo accade quasi sempre quando

La lista si allunga ogni giorno di più

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si devono fare i conti con cellule che perdono la regolazione normale, come quelle tumorali, nel tempo queste proteine hanno iniziato a mostrare anche caratteristiche inattese, e il quadro generale si è fatto più complesso. Per questo la ricerca è oggi attivissima, per migliorare le proprietà dei farmaci già esistenti, e per sfruttare appieno tutte le potenzialità di circuiti alquanto complicati, ma anche talmente fondamenta-

li per la vita delle cellule malate da essere indispensabili alla loro sussistenza. DALL’EMBRIONE AL CANCRO Tra i ricercatori più impegnati su questo fronte c’è Luca Tamagnone, docente del Dipartimento di scienze oncologiche dell’Istituto per la ricerca e la cura del cancro di Candiolo (Torino), che lavora su diversi progetti di ricerca finanziati da AIRC, volti a comprendere nel det-

UTILI IN MOLTE MALATTIE

NON SOLO CANCRO fattori di crescita sono sfruttati a fini terapeutici non solo in oncologia. Una delle classi più importanti è quella che ha come rappresentanti più noti l’eritropoietina (Epo) e la trombopoietina (TPO), sostanze fondamentali per il rinnovo delle cellule del sangue, sia bianche sia rosse. Un’altra classe di fattori di crescita già usati in terapia è quella del fattore di crescita trasformante o TGF (alfa e beta) e in generale delle cosiddette neurotrofine (NGF, BDNF e NT3, NT4), alterate in molte malattie del sistema immunitario, autoimmuni e non solo. Restando in ambito oncologico, uno dei fattori di

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In questo articolo: efficacia delle cure nuove terapie mutazioni genetiche

taglio i fattori di crescita e le loro caratteristiche. Spiega Tamagnone: "I fattori di crescita sono indispensabili al corretto sviluppo dell’embrione, perché sono le molecole incaricate di indirizzare la maturazione e la specializzazione dei tessuti verso tutti gli organi e gli apparati tipici dell’organismo umano dopo la nascita". La loro azione si può svolgere in due modi fondamentali: "Direttamente, cioè conferendo alle cellule la capacità di differenziarsi e specializzarsi, oppure indirettamente, cioè agendo su altri fattori che influiscono sulla crescita. Quando l’organismo è diventato adulto, di solito intervengono molto meno e hanno più che altro un ruolo di mantenimento e riparazione delle strutture che vengono danneggiate o che devono essere sostituite da altre più giovani". Fin qui in tessuti e organi sani. Ma nei tumori cambia tutto, e molte delle caratteristiche uniche delle cellule maligne dipendono proprio dal fatto che i fattori di crescita rientrano in gioco prepotentemente, come se si trovassero di nuovo in un ambiente che deve stimolare in ogni modo la moltiplicazione cellulare. Spiega anco-

ra il ricercatore: "In queste cellule i fattori di crescita si comportano come se fossero ancora in un feto, lavorano molto, sono prodotti in quantità (il termine corretto è iperespressi), così come i loro recettori esterni. Questo spiega perché le cellule maligne riescono a crescere, ma essi rappresentano anche un bersaglio ottimo per una cura specifica, poiché la situazione, da questo punto di vista, è molto diversa da quella che si trova nelle cellule sane, dove essi sono quasi silenti". In effetti molti dei farmaci sviluppati nell’ultimo decennio (per esempio diversi anticorpi monoclonali e le cosiddette piccole molecole) sono diretti proprio contro fattori di crescita o contro ciò che sta a valle di essi (recettori, ma anche altre molecole che permettono di convertire la presenza dei fattori di crescita e il loro legame con i recettori in altre azioni favorevoli alla moltiplicazione delle cellule), ma la situazione è meno semplice di quanto si potrebbe pensare. Continua Tamagnone: "Le cellule tumorali, quando trovano un ostacolo, hanno una capacità straordinaria di inventarsi circuiti alternativi per proseguire nella

crescita più studiati per le sue implicazioni anche nel diabete, nelle malattie metaboliche e nell’obesità è il fattore di crescita insulino-simile o insulin-like Growth Factor, detto anche somatomedina; ne esistono due tipi, l’1 e il 2. I recettori del fattore di crescita dell’epidermide (Epidermal Growth Factor, EGF), con o senza specifiche mutazioni, sono bersaglio di farmaci come il cetuximab (per il tumore del colon-retto), il gefitinib, l’erlotinib e diversi altri (per alcuni tipi di tumore polmonare). Tutti i circuiti attivati dal legame del fattore di crescita del tessuto interno dei vasi sanguigni (VEGF) con il suo recettore (VEGFR) sono implicati nella generazione di nuovi vasi indotta dal tumore. Per questo sono diventati target di farmaci specifici antiangiogenesi come il bevacizumab; alcuni di questi farmaci sono utilizzati anche in oculistica.

Il fertilizzante facilita anche la crescita delle erbacce loro corsa alla crescita. Così, se noi blocchiamo un sistema, anche molto importante, che prevede per esempio l’attivazione del fattore di crescita epidermico o EGF, può accadere che la cellula riesca a supplire, per esempio mutando la struttura del recettore oppure intensificando vie alternative, fino a ottenere una situazione tale da non risentire del blocco esercitato sul fattore di crescita specifico". Va detto che per fortuna

ciò non accade sempre, e ci sono già casi (come alcuni tumori polmonari o alcune leucemie che hanno un recettore per l’EGF o EGFR con caratteristiche genetiche molto specifiche) per i quali l’uso di famaci che bloccano il fattore di crescita coinvolto ha un effetto davvero imponente e permette di sconfiggere il tumore oppure di tenerlo sotto controllo a tempo indeterminato; la ricerca si sta muovendo per ottenere il massimo risultato possibile in tutti i pazienti. Rileva infatti Tamagnone: "Ci sono diversi strumenti efficaci, che si stanno mettendo a punto. Innanzitutto si può analizzare il patrimonio genetico di ogni malato, in modo da prevedere se il tumore che lo ha colpito riesce ad aggirare il blocco creato dal farmaco o se, viceversa, dipende a tal punto dal fattore di crescita che la terapia con ogni proba-


DAL LABORATORIO ALLA CURA I fattori di crescita

bilità avrà successo. Non siamo ancora in grado di applicare queste indagini a tutti i tumori, soprattutto perché non conosciamo tutti i geni collegati a una certa risposta ai farmaci, ma questi studi di farmacogenomica sono attivamente in corso in molti laboratori, anche a Candiolo". E i risultati sono già evidenti: "In alcuni casi possiamo sapere in anticipo che un certo tumore non risponderà a una cura selettiva (per esempio perché muta facilmente), evitando così di sottoporre il malato a cure non efficaci o, viceversa, che la sua risposta sarà probabilmente molto buona, magari perché, come nel caso dell’EGFR di alcuni tumori polmonari, il recettore subisce mutazioni che lo rendono molto sensibile ai farmaci".

to di altri importanti fattori che controllano lo sviluppo dei tumori, le semaforine. Spiega Tamagnone: "Queste molecole regolano – tra l’altro – l’approvvigionamento di sangue e di nutrienti al tumore attraverso la formazione di nuovi vasi (il fenomeno noto come angiogenesi e stimolato dal fattore di crescita VEGF), e la disseminazione metastatica. Noi abbiamo dimostrato che il loro blocco si traduce in un arresto della crescita tumorale e delle metastasi anche in modelli sperimentali, e stiamo lavorando per cercare farmaci di questo tipo da testare sui pazienti, anche se la strada sarà ancora lunga". Analogamente, il gruppo sta lavorando sulle neuropiline, proteine che – si è recentemente scoperto proprio a Candiolo – funzionano come mediatori importanti per un altro recettore, quello dell’EGF. Anche in questo caso, i test in vitro e in vivo hanno già mostrato che l’approccio potrebbe funzionare, e anche qui si dovranno cercare molecole adatte all’uso nell’uomo. Entrambi i filoni, però, dimostrano che i fattori di crescita (e tutto quello che è legato a essi) potrebbero davvero rappresentare una via terapeutica ancora più importante di quella emersa negli ultimi trent’anni, che ha già permesso di arrivare a farmaci cosiddetti intelligenti e a terapie molto più personalizzate rispetto alla chemioterapia classica.

I test in vivo e in vitro sono positivi

DUE BLOCCHI CONCENTRICI Una conoscenza dettagliata del corredo genetico potrebbe non bastare, e per questo si pensa anche a una strategia diversa: quella dell’attacco su più fronti. Chiarisce Tamagnone: "Se, per esempio, sappiamo che un tumore, in risposta a un farmaco anti fattore di crescita, sviluppa quasi sempre un’altra via (detta ‘di salvataggio’), possiamo pensare di bloccare contemporaneamente anche quest’ultima, rendendo molto più difficoltosa la sopravvivenza del tumore". Un’altra strategia è poi quella che più ha visto coinvolto il gruppo di Candiolo, ed è basata sullo sfruttamen-

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RICERCA IN VETRINA Proteine mutate

Il Twist del sarcoma Uno studio a cura di un gruppo di ricercatori italiani coordinato da Roberta Maestro del CRO di Aviano ha identificato una proteina coinvolta nello sviluppo dei sarcomi e alla base della loro aggressività a cura della REDAZIONE na delle caratteristiche principali dei sarcomi, come di tutti i tumori, è la perdita dei freni inibitori che controllano la moltiplicazione cellulare. Uno di questi è rappresentato dalla proteina p53 che, oltre a controllare la divisione cellulare, è anche responsabile della qualità del nuovo DNA prodotto a ogni divisione cellulare: per questo è definita “guardiano del genoma”. Provvede infatti ad attivare i processi di riparazione in caso di danni al DNA potenzialmente pericolosi per l’organismo; se questi risultano irreparabili, elimina la cellula corrotta attraverso un processo chiamato apoptosi. P53 risulta mutata, e di conseguenza inefficace, in molti tumori che, oltre a diffondersi, accumulano ulteriori alterazioni al DNA che li rendono aggressivi e resistenti alle terapie. Nei sarcomi – tumori che si sviluppano a partire dai tessuti di supporto del nostro organismo (per esempio il muscolo, l’osso, la cartilagine, il tessuto adiposo) – le mutazioni di p53 sono relati-

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In questo articolo: ricerche AIRC sarcomi p53

LA RICERCA IN BREVE Cosa si sapeva p53 è una proteina che regola la divisione cellulare e ripara eventuali errori nella produzione di nuovo DNA p53 risulta mutata in molti tumori ma in pochi sarcomi nonostante ciò, p53 non funziona bene nei sarcomi anche se non è mutata Cosa aggiunge questa ricerca La proteina mutata nei sarcomi è un'altra, che si chiama Twist1 Si lega a p53 e le impedisce di funzionare correttamente Bloccando Twist1 si ripristina la funzione di controllo di p53

vamente rare; eppure p53 non funziona a dovere. Per lungo tempo la causa del difetto di funzionamento di questa proteina nei sarcomi è rimasta oscura.

Mutazioni rare Ora il team di Roberta Maestro, del CRO di Aviano, insieme a ricercatori italiani dell’Istituto San Raffaele di Milano, dell’Ospedale di Treviso e dell’Istituto nazionale per la ricerca sul cancro di Genova, ha scoperto che uno dei colpevoli del malfunzionamento di p53 nei sarcomi è la proteina Twist1, prodotta in eccesso nelle cellule. Quando ciò accade, Twist1 lega p53 e ne promuove la distruzione, annullandone quindi la funzione di sorveglian-

za. Se però si blocca la produzione della proteina Twist1, le cellule di sarcoma diventano vulnerabili e quindi sensibili alla chemio e alle radiazioni. Lo studio dei ricercatori italiani, condotto anche grazie a finanziamenti di AIRC, è stato pubblicato come articolo di punta sulla prestigiosa rivista scientifica internazionale Cancer Cell. Un riconoscimento della sua qualità e del fatto che ha già sortito ricadute pratiche importanti: ha permesso di comprendere la causa del difetto funzionale di p53 nei sarcomi e ha anche aperto la strada verso lo sviluppo di nuovi approcci terapeutici mirati verso questa forma di tumore che in Italia colpisce circa 1.800 persone ogni anno.

La proteina è prodotta in eccesso nei tessuti malati

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PREMI NOBEL Recettori e staminali

In questo articolo: Nobel comunicazione cellulare riprogrammazione della cellula

Premiata la biologia molecolare che guida la ricerca contro il cancro Recettori che governano la comunicazione tra cellula e ambiente, meccanismi di trasferimento dell’informazione genetica che permettono alle cellule di ringiovanire: queste le scoperte che, secondo l’Accademia svedese delle scienze, meritano il massimo riconoscimento scientifico. Ambedue sono fondamentali per la conoscenza dei tumori a cura della REDAZIONE l premio Nobel che è stato loro assegnato è formalmente quello per la chimica, ma è senza dubbio nella medicina, e in special modo nell’oncologia, che le ricerche condotte dai due americani Brian Kobilka e Robert Lefkowitz hanno lasciato (e ancor più lasceranno) un segno importante. I loro studi su un’ampia famiglia di recettori presenti sulla superficie delle cellule – detti “recettori accoppiati alle proteine G”, o GPCR nella

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sigla inglese – hanno infatti permesso di comprendere i meccanismi alla base della capacità dei nostri organi di senso di percepire la luce, gli odori e i sapori, e più in generale della capacità delle cellule dell’organismo di ricevere segnali dall’ambiente circostante e reagire a essi: “Funzionano come un cancello che dà accesso alla cellula” ha spiegato Lefkowitz durante la conferenza stampa con cui a Stoccolma è stata data la notizia. “Perciò sono cruciali nella regolazione di quasi tutti i processi fisiologici umani, in partico-

TUMORE

PROCESSI

Mammella

Crescita, metastasi, angiogenesi, resistenza alla terapia ormonale

Colon

Crescita, sopravvivenza, migrazione, metastasi, angiogenesi

Cancro del polmone

Crescita, sopravvivenza, metastasi

Ovaie

Crescita, metastasi, angiogenesi

Pancreas

Crescita

Prostata

Crescita, metastasi, angiogenesi, sopravvivenza, invasione, migrazione

Melanoma crescita,

Sensibilità ai danni al DNA indotti da UV, metastasi, angiogenesi

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Robert Lefkowitz

Molti recettori accoppiati alle proteine G contribuiscono alla crescita aberrante e alla sopravvivenza delle cellule tumorali, come pure all’angiogenesi indotta dal tumore e alle metastasi. Nella tabella, un elenco tratto da Nature Reviews Cancer dei tumori più comuni in cui sono coinvolti i recettori della proteina G accoppiata (GPCRs) per i quali è stato assegnato il premio Nobel per la chimica 2012.

lar modo nella percezione, perché ci aiutano a cogliere i messaggi che arrivano dal mondo esterno, e nel cancro”. Diversi studi hanno infatti dimostrato che un’alterazione dei recettori accoppiati alle proteine G può favorire l’insorgenza della malattia. Non solo: questi sono stati studi pionieristici in un ambito, quello della comunicazione cellulare, che è oggi è cruciale nell’oncologia molecolare e anche in quella clinica.

Biochimica pigliatutto Lefkowitz, che ora ha 69 anni, divide i suoi impegni di ricerca tra lo


UN PREMIO ALLA MEDICINA RIGENERATIVA

Howard Hughes Medical Institute di Chevy Chase, nel Maryland, e la Facoltà di medicina della Duke University di Durham, in North Carolina. Proprio alla Duke University ha avuto tra i suoi ricercatori Kobilka – di dodici anni più giovane – che oggi ha la cattedra alla Stanford University in California, anche lui nella Facoltà di medicina. Non è la prima volta che il premio viene assegnato per studi di biochimica, e come in passato anche questa volta qualcuno ha protestato nel nome della chimica “pura”, ma c’è anche chi, al contrario, ha sottolineato l’importanza dell’approccio multidisciplinare alla ricerca biomedica, proprio quello che AIRC cerca di promuovere attraverso i suoi bandi: “È molto interessante vedere che sia il premio per la chimica sia quello per la medicina sono andati a biologi della cellula” ha commentato David Phillips, presidente uscente della Royal Society of Chemistry inglese. ”È la dimostrazione dell’importanza che la chimica riveste nelle ricerche sulla biologia della cellula”.

Brian Kobilka

La ricerca oncologica ha messo da tempo nel mirino questi recettori, da quando si è visto che svolgono un ruolo cruciale non solo nella crescita tumorale ma anche nello sviluppo di metastasi: “Le cellule maligne spesso ‘dirottano’ le normali funzioni fisiologiche dei GPCR per sopravvivere, proliferare autonomamente, sfuggire al sistema immune, incrementare la fornitura di sangue, invadere i tessuti circostanti e disseminarsi in altri organi” spiega un ampio articolo di revisione sul rapporto tra questi recettori e il cancro pubblicato sulla rivista Nature Review Cancer (vedi tabella a p. 28). Proprio per questo motivo tali recettori sono il bersaglio ideale per nuove terapie mirate, in grado di modulare il loro funzionamento sia a scopo preventivo sia a scopo terapeutico.

I recettori sono il bersaglio ideale per terapie mirate

... l’articolo continua su: www.airc.it/nobel2012

L’inglese John Gurdon fu il primo a dimostrare, esattamente 50 anni fa, che era possibile riportare le cellule adulte allo stato indifferenziato e pluripotente caratteristico delle staminali. Oggi quegli studi pionieristici gli sono valsi il premio Nobel per la medicina e la fisiologia, condiviso con il giapponese Shinya Yamanaka, per le immense ricadute non solo sulla conoscenza della biologia animale ma anche sulla disciplina che oggi viene definita “medicina personalizzata”. Nel 1962 Gurdon lasciò a bocca aperta la comunità scientifica quando clonò una rana trapiantando il materiale genetico di una cellula intestinale nella cellula uovo di un’altra. Da lì ottenne un girino, dimostrando che tutte le cellule contengono il patrimonio genetico completo, comprensivo delle istruzioni per dar vita a un organismo intero. Dopo la clonazione del primo mammifero, la pecora Dolly nata nel 1997, Yamanaka nel 2006 e nel 2007 dimostrò che bastano quattro geni a far sì che qualsiasi cellula completamente differenziata sia riportata allo stato pluripotente: “Mostrando che le cellule animali possono essere riprogrammate per tornare come quelle delle prime fasi di sviluppo dell’embrione, Gurdon e Yamanaka sono riusciti anche a riprogrammare le menti degli scienziati abituati a pensare che i processi di sviluppo e differenziazione cellulare possono andare in una sola direzione, da quella immatura a quella specializzata” ha commentato Robin Lovell-Badge, direttore della Genetica dello sviluppo del National Institute for Medical Research del Medical Research Council inglese. “Inoltre hanno permesso di studiare le tappe di questo ‘ringiovanimento’ che sono comuni a molte forme tumorali”. I loro studi, apparentemente lontani dall’oncologia, sono invece strettamente connessi a essa e hanno contribuito alla comprensione del cancro.

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RECENSIONE Un sacchetto profumato e altre storie

Nel mondo delle fiabe per la ricerca sul cancro Una raccolta di storie inedite regalate ad AIRC da undici noti autori per sostenere la ricerca sul cancro

a cura della REDAZIONE eggendo queste storie d’autore scritte per bambini (o per adulti?) mi sono posta la domanda di come le avrei raccontate ai miei nipoti quando erano piccoli”. Con queste parole Clio Napolitano, nella sua prefazione, coglie il significato della raccolta di racconti Un sacchetto profumato e altre storie, che promuove un magico passaparola tra diverse generazioni e porta con sé una certezza: aiutando la ricerca potremo cancellare il cancro dal nostro futuro. Undici noti autori hanno donato un racconto originale e inedito ad AIRC per sostenere concretamente la ricerca sul cancro, in particolare per quanto riguarda i tumori che colpi-

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Un sacchetto profumato e altre storie (AIRC, Milano, 2012, pagine 100) non viene distribuito tramite i canali tradizionali, ma attraverso la rete del Lions Club e i Comitati regionali AIRC a fronte di un contributo minimo di 10 euro. Per informazioni numero verde: 800350350 - www.airc.it/unsacchettoprofumato

In questo articolo: fiabe bambini iniziative AIRC

scono i più giovani: si tratta di Piero Angela, Silvia Ballestra, Caterina Bonvicini, Isabella Bossi Fedrigotti, Gianrico Carofiglio, Benedetta Cibrario, Philippe Daverio, Dacia Maraini, Chiara Rapaccini, Cesare Rimini e Silvia Vegetti Finzi. Un sacchetto profumato e altre storie si mostra quindi come una raccolta di contributi eterogenei, scritti da autori che, tranne poche eccezioni, non scrivono usualmente per bambini: dalla sintesi degli stili e dei diversi temi trattati nasce la ricchezza di questo libro, in cui emerge l’apporto personale di ogni autore. Gli undici racconti mantengono tutto il fascino delle fiabe del passato, sia che i protagonisti siano merli bianchi o tartarughe veloci, oppure bambini tristi o principi svogliati. L’attrazione eterna della favola consiste nel rappresentare la realtà come dovrebbe essere: i cattivi vengono sempre puniti, la bontà trionfa, insomma il mondo è giusto. Le fiabe trasportano il lettore con leggerezza dalla savana africana, dove bisogna salvare una leoncina, alla città di cristallo, dove il bene compiuto viene ricompensato. Un sacchetto profumato e altre storie è una raccolta da leggere ad alta voce e godere insieme, genitori, nonni e bambini, per ritrovare il piacere della lettura, attraverso la narrazione dei ricordi personali degli autori, di storie ascoltate e forse sinora mai raccontate. Il volume, edito da AIRC, ha visto la preziosa consulenza di Rosellina e Francesca Archinto, grazie alla loro lunga esperienza editoriale in libri per bambini, ed è stato reso possibile dallo straordinario sostegno del Lions Club International che ha appoggiato l’iniziativa con entusiasmo e partecipazione.



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