Fondamentale dicembre 2011

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DONNE E SCIENZA

I laboratori parlano al femminile ma la carriera è ancora piena di ostacoli

Numero 5 - 1 dicembre 2011 - Anno XXXIX - AIRC Editore - ISSN 2035-4479

NUOVE PROFESSIONI

La ricerca oncologica ha bisogno di specialisti in tutte le discipline della scienza

QUALITÀ DELLA VITA

Un parametro essenziale a cui puntano le nuove cure

Silvia Marsoni, l’architetto della ricerca

BUONI PROGETTI PORTANO RISULTATI



EDITORIALE

Piero Sierra

TANTI MODI PER AIUTARE LA RICERCA. • con conto corrente postale n. 307272; • con carta di credito, telefonando al numero verde 800 350 350, in funzione tutti i giorni 24 ore su 24 o collegandosi al sito www.airc.it; • con un piccolo lascito nel suo testamento; per informazioni, www.fondazionefirc.it oppure tel. 02 794 707; • in banca: Intesa Sanpaolo IBAN IT14 H030 6909 4001 0000 0103 528; Banca Monte dei Paschi di Siena IBAN IT 87 E 01030 01656 000001030151; Unicredit PB SPA IBAN IT96 P020 0809 4230 0000 4349 176; • con un ordine di addebito automatico in banca o su carta di credito (informazioni al numero verde 800 350 350)

L’Istituto italiano della donazione certifica con un marchio di eccellenza le organizzazioni non profit che forniscono elementi di garanzia sull’assoluta trasparenza ed efficacia nella gestione dei fondi raccolti.

Presidente AIRC

Tra cittadini e scienziati un circolo virtuoso

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a ricerca scientifica è l’attività più democratica che esista: i suoi risultati, infatti, vanno a vantaggio di tutti, senza distinzioni economiche, sociali e religiose. Ed è per questo che la collettività intera deve sostenerla, come già fanno i soci di AIRC. Non sappiamo chi ne beneficerà in futuro, ma sappiamo certamente che per qualcuno le scoperte effettuate grazie al contributo di tutti potranno davvero fare la differenza. Il rapporto tra cittadinanza e ricercatori è un circolo virtuoso, in cui l’investimento dei primi si trasforma in possibilità di lavoro per i secondi e infine in strumenti di diagnosi e cura per tutti. Di ciò gli scienziati sono consapevoli e sanno di avere un mandato importante: fare del cancro una malattia sempre più curabile. AIRC, attraverso i suoi revisori, consente di valutare da un lato il valore scientifico del progetto proponente, dall’altro la tematica, che deve inserirsi nelle aree considerate promettenti a livello mondiale. Grazie ai suoi rigorosi meccanismi di selezione, AIRC garantisce quindi che il denaro investito vada a sostegno dei progetti più innovativi e delle menti più brillanti. L’impegno dei cittadini – attraverso le donazioni ma anche grazie agli strumenti che lo Stato ha messo loro a disposizione per sostenere chi come AIRC suscita fiducia – è il motore indispensabile per il raggiungimento della meta: senza di esso, e senza lo sforzo degli scienziati, nulla sarebbe fattibile.

UN SERVIZIO PER I SOCI Per segnalare corrispondenza doppia, aggiornare i vostri dati o conoscere la vostra storia contributiva, potete contattarci, 7 giorni su 7, chiamando il nostro numero verde 800 350 350

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SOMMARIO

FONDAMENTALE dicembre 2011

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In questo numero: DI RICERCATORE 05 VITA Come il cioccolato nel bacio di dama CURE 09 NUOVE Misurare il soggettivo perché la cura pesi meno

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FLASH 12 NOTIZIE Dal mondo 14 ATTUALITÀ Il Nobel onora i meccanismi di difesa innati SANO 17 VIVERE Lo zafferano CURARE 18 COME Colpisce anche gli uomini ma guarisce meglio FUTURE OF SCIENCE 20 THE Il cervello siamo noi e va protetto dal cancro

Il premio Nobel a tre Quando i casiche di tumore immunologi hanno si accumulano ci vuole influenzato la ricerca l’epidemiologo sul cancro

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PER LA RICERCA 22 PROFESSIONI I computer (e chi li gestisce) entrano nel laboratorio IFOM 25 RICERCA La proteina che paralizza le difese immunitarie

26 ATTUALITÀ Sempre più numerose ma ancora poche sulle vette LASCITI Il violino e la ricerca

28 30 RECENSIONE Henrietta arriva in Italia 31 MICROSCOPIO Un anno di successi

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Silvia Marsoni, dalla Provincia di Biella alla guida di un gruppo di ricerca multicentrico

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Cancro del seno, una malattia anche al maschile

Non solo medici e biologi: la ricerca oncologica si apre a nuove professioni. In questo numero parliamo di bionformatica

Fare il ricercatore è difficile per tutti, ma un po’ di più per le donne. Ecco perché

Novità sul sito WWW.AIRC.IT

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• Mammografia www.airc.it/esami • Fumo: le domande più frequenti www.airc.it/prevenzione


VITA DI RICERCATORE Manager della ricerca

Come il cioccolato nel bacio di dama Silvia Marsoni è una ricercatrice atipica: il suo ruolo è quello di progettare e seguire nel tempo le sperimentazioni farmacologiche sui pazienti, facendo da collante indispensabile tra la ricerca di base e la ricerca clinica

a cura di FABIO TURONE e chiedete a una cuoca sopraffina il segreto della sua ricetta migliore, non di rado vi indicherà un ingrediente apparentemente secondario, che usa con inventiva e un pizzico di improvvisazione per legare tra loro materie prime più e meno pregiate, esaltando le caratteristiche e il gusto di ciascuna in una miscela di odori, sapori, forme e colori unica e imprevedibile. Con la ricerca oncologica, e in particolare con quella traslazionale – che punta ad applicare rapidamente alla clinica le scoperte via via realizzate in laboratorio – Silvia Marsoni è convinta che sia utile fare lo stesso. Oggi responsabile della ricerca clinica dell’Istituto per la ricerca e la cura del cancro di Candiolo, in provincia di Torino, e cuoca appassionata, Silvia Marsoni usa anche un’altra appetitosa immagine per descrivere la specificità del proprio lavoro di scienziata-manager: “La ricerca traslazionale è un po’

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come un bacio di dama” spiega, alludendo ai pasticcini tipici piemontesi. “In mezzo tra il biscottino della ricerca di base e il biscottino della clinica c’è uno strato di cioccolata, che ovviamente non ha solo la funzione di tenerli insieme. Io sono come la cioccolata”. Il riferimento a un dolcetto che appartiene alla storia del Piemonte nasce da un legame antico: Silvia Marsoni è veneziana di nascita (“in realtà sono nata a Treviso, ma solo perché mia mamma è stata colta alla sprovvista durante una passeggiata, all’ottavo mese di gravidanza”) ed è cresciuta tra Biella e Milano, prima di andare negli Stati Uniti. Oltre ad aver vissuto a lungo a Biella, città natale della madre, conta tra i suoi antenati Quintino Sella, scienziato, economista e politico piemontese che ebbe un ruolo cruciale nella nascita dello Stato unitario, e dal marito Francesco ha acquisito un altro cognome scolpito nella storia del Risorgimento: “Anni fa, sbarcando dall’aereo negli Stati Uniti, strappai un sorri-

Una miscela di sapori: così è anche la ricerca che passa dal laboratorio alla cura

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VITA DI RICERCATORE scandito il cognome completo ‘Marsoni in Mori Ubaldini degli Alberti La Marmora’ ogni sospetto ha lasciato il posto a una reazione divertita”.

Dall’Italia agli States e ritorno Negli Stati Uniti era arrivata per la prima volta nel 1979, dopo la laurea in medicina all’Università di Milano e il dottorato in ricerca farmacologica all’Istituto Mario Negri. Per restare a fare l’università a Milano, in quei primi anni Settanta pieni di rivolgimenti in cui anche lei coltivava la speranza di un futuro diverso, aveva preso la decisione di non seguire a Londra la madre, che andava a specializzarsi per diventare psicanalista, e il fratello, che nella capitale inglese sarebbe divenuto architetto. Lo stesso “spirito rivoluzionario” che l’aveva convinta a restare a Milano per cambiare il mondo la spinse, poco dopo il completamento del dottorato di ricerca, a volare negli Stati Uniti per occuparsi di farmaci sperimentali al National Cancer Institute di Bethesda. Il colpo di fulmine fu immediato, ma dopo circa sei anni, nel corso dei quali era stata nominata capo dello sviluppo farmacologico dell’Istituto, al profondo

In questo articolo: 5 per mille cancro del colon-retto sperimentazioni farmacologiche innamoramento iniziale seguì una fase di insoddisfazione: “Ricevetti offerte mirabolanti anche sul piano economico da istituti oncologici americani d’eccellenza, ma dopo una lunga fase di incertezza decisi di tornare in Italia”. La decisione non fu ovviamente legata alle prospettive di stipendio – al contrario – ma fu frutto delle insistenze del collega farmacologo ed epidemiologo Alessandro Liberati, anche lui reduce da un’esperienza ad Harvard. Insieme misero in piedi all’Istituto Mario Negri di Milano il Laboratorio di farmacologia clinica per i farmaci antitumorali. L’idea era quella di mettere in pratica in Italia l’esperienza acquisita negli Stati Uniti portando avanti studi per sviluppare nuovi farmaci. Il loro idealismo si scontrò però con la realtà italiana: “Solo di recente, grazie ai fondi del 5 per mille AIRC, sono diventate disponibili risorse economiche sufficienti per la ricerca indipendente (cioè non legata agli investimenti dell’industria) in ambito farmaceutico, assegnate con meccanismi trasparenti e basati solo sulla qualità scientifica delle proposte” spiega Marsoni.

La ricerca indipendente sui farmaci è ancora troppo rara

so a uno degli agenti dell’immigrazione, che normalmente hanno un’aria molto severa e minacciosa” racconta divertita. “Quell’agente si era insospettito perché il cognome sulla carta d’imbarco non sembrava corrispondere a quello sul passaporto, ma quando gli ho spiegato che per semplicità usavo la versione abbreviata, e gli ho

DALLA TORRE DI BABELE ALLA TAVOLA ROTONDA

inora il ricercatore ha parlato un linguaggio e il clinico un altro. Ora vogliamo creare figure professionali bilingui, capaci di far proprie le istanze della ricerca ma con un occhio alle necessità concrete dei pazienti. È un compito difficile, perché finora i medici che hanno fatto anche ricerca hanno sempre privilegiato il paziente, come è giusto che sia, visto che il loro

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compito principale è l’assistenza. Il medico ricercatore potrà trarre dalla clinica gli stimoli di cui avrà bisogno per dare concretezza al suo lavoro di ricercatore, lasciando ad altri le ambasce dell’assistenza quotidiana”. Con queste parole Paolo Comoglio, direttore scientifico delll’IRCC di Candiolo (Torino), ha spiegato il presupposto dello studio finanziato con il 5 per mille AIRC, che avrà una prima fase triennale

al termine della quale, dopo una attenta valutazione dei risultati ottenuti, sarà erogato il finanziamento per un altro biennio. Il progetto oggi in corso tra Candiolo e Milano rappresenta lo sbocco in ambito clinico delle ricerche iniziate da Comoglio 20 anni fa, a partire dalla scoperta dell’oncogene Met e degli altri geni che determinano la crescita invasiva delle cellule tumorali. Lo


Silvia Marsoni col marito nel giardino della casa torinese

Prospettive di lungo respiro Circa un anno fa è stata chiamata a Candiolo a coordinare la ricerca ideata da Paolo Comoglio: “Qui mi trovo benissimo perché condivido in pieno la visione del professor Comoglio” racconta. “Sono innamorata di Torino perché sono molto

studio coinvolge circa 100 ricercatori in 11 gruppi di ricerca, tutti operanti all’Istituto di Candiolo tranne uno, che lavora all’Ospedale Niguarda Ca' Granda di Milano. “A Torino ho trovato molta voglia di lavorare in gruppo, senza eccessi di protagonismo da parte di nessuno” racconta Marsoni, che per spiegare il segreto della cooperazione usa un’immagine molto evocativa. “Il clima che si respira mi fa pensare a Camelot e ai cavalieri della Tavola Rotonda”.

sensibile all’estetica, e sono molto grata all’AIRC perché con questa modalità di finanziamento di lungo respiro sta favorendo, in un periodo di profonda crisi, la rinascita, o forse potremmo dire il risorgimento, della ricerca clinica”. Un risorgimento che passa dalla costituzione di gruppi di lavoro multidisciplinari composti da ricercatori molto competenti e affiatati: “La ricerca di base si può fare anche da soli, ma quando ci si prefigge di ottenere in breve tempo un risultato tangibile per i malati occorre mettere in rete tante competenze diverse, sapendo che spesso i ricercatori con diversa specializzazione parlano linguaggi diversi” spiega la farmacologa. “Occorre coordinare il lavoro prevenendo gli intoppi e soprattutto pianificare con estrema chiarezza l’argomento e gli specifici obiettivi di ciascuna ricerca. Il mio ruolo di direttore della ricerca clinica richiede di trasformare le idee che escono dai laboratori in protocolli di ricerca ba-

sati su un’ipotesi che sia possibile verificare o smentire con una sperimentazione”. In questo senso Marsoni – che alla metà degli anni Novanta ebbe anche una parentesi di amministratore pubblico, come presidente della Provincia di Biella – opera come una sorta di “mediatore culturale”, che conosce il linguaggio tecnico, gli strumenti e quindi il punto di vista dei molti specialisti necessari alla ricerca traslazionale in oncologia, e fa in modo che nel realizzare una sperimentazione tutti concorrano all’obiettivo condiviso, così da assicurare il massimo rendimento per le risorse investite: “L’estremo rigore metodologico con cui oggi si pianificano le sperimentazioni cliniche nasce dall’esigenza non solo di offrire la miglior risposta possibile ai pazienti, ma anche di fare tesoro appieno degli eventuali insuccessi, totali o parziali, che spesso forniscono utilissime indicazioni per il progresso della ricerca”.

Mediatrice culturale tra due rami della medicina

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VITA DI RICERCATORE

UNA RICERCA CHE BRUCIA LE TAPPE

llo studio finanziato a Candiolo con i fondi del 5 per mille AIRC partecipano ben 11 gruppi diretti da altrettanti brillanti ricercatori: “La ricerca che portiamo avanti richiede un gioco di squadra in cui le vere stelle sono loro, e io ho il compito di garantire che ci si capisca perfettamente e si condivida non solo l’obiettivo, ma anche tattica e strategia, cioè il metodo” spiega la Marsoni, per poi ricorrere di nuovo a un’immagine colorita: “Io sono un po’ la governante che fa funzionare la casa”. Il progetto ha già portato in tempi rapidissimi a un primo risultato molto significativo, sancito dalla pubblicazione, a fine ottobre, sull’importante rivista oncologica americana Cancer Discovery. Ciò ha reso possibile l’avvio, con grande anticipo rispetto alla tabella di marcia, di una sperimentazione clinica multicentrica sui pazienti. Il gruppo è costituito da persone con carcinoma del colon-retto e con uno specifico profilo genetico abbastanza raro, tanto che si prevede di dover esaminare circa 1.500 malati per reclutare i 37 previsti dal protocollo. Questa ricerca ha coinvolto 28 ricercatori che partecipano al progetto AIRC: “È frutto di uno sforzo collegiale non indifferente, ma deve a Livio Trusolino e Andrea Bertotti l’ispirazione e il successo” spiega Comoglio, direttore scientifico dell’Istituto di Candiolo. “Al lavoro ha contribuito anche la squadra piemontese-lombarda coordinata da Alberto Bardelli a Candiolo e da Salvatore Siena all’Ospedale Niguarda Ca’ Granda di Milano”.

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Terapie mirate per chi se ne giova Lo studio in corso a Candiolo mira a ottenere una migliore comprensione dei meccanismi molecolari alla base della estrema variabilità con cui i malati di carcinoma del colon-retto rispondono alla somministrazione dei farmaci biologici. È noto che solo una piccola parte dei malati ottiene benefici dalla terapia mirata con cetuximab, l’anticorpo monoclonale che rappresenta la terapia d’elezione in questo tumore. Inizialmente non c’era modo di prevedere chi avrebbe ottenuto benefici, ma oggi è già possibile fare una prima selezione dei malati sulla base della presenza o meno di una caratteristica genetica associata alla resistenza al farmaco: la mutazione del gene KRAS. I malati che ai test genetici presentano questa mutazione – ovvero questo “biomarcatore” che permette di prevedere l’inefficacia della terapia – evitano di essere sottoposti a un trattamento inutile e potenzialmente dannoso (oltreché costoso). Una volta esclusi i portatori di questa mutazione genetica, solo il 20 per cento circa dei restanti malati ottiene dei miglioramenti: l’ipotesi più verosimile è che quelli che non ottengono benefici presentino, a livello molecolare, altre caratteristiche (che i medici definiscono “lesioni molecolari”) responsabili della resistenza alla terapia. In termini generali la

speranza è che si possa agire in qualche modo per inibire in parte o del tutto gli effetti di quelle mutazioni rallentando la crescita neoplastica, cosa che al momento non si riesce a fare con la mutazione del gene KRAS. In concreto, gli studi preliminari realizzati impiegando il sofisticato modello sperimentale innovativo messo a punto a Candiolo hanno individuato una seconda caratteristica molecolare, legata al gene HER-2 che potrebbe essere usata non tanto per escludere certi malati, ma al contrario per riservare loro un trattamento combinato di due farmaci, che presentano tutte le premesse per dimostrarsi capaci di far regredire il tumore in maniera durevole. La prospettiva di avviare entro breve con il gruppo di ricerca una sperimentazione clinica multicentrica su 37 pazienti, con molto anticipo rispetto alla tabella di marcia, è entusiasmante, ma Marsoni tende a non mettersi troppo in luce: “Come scienziata sono mediocre: sono una cuoca assai migliore, tanto che secondo mio figlio, che ora ha 21 anni e studia antropologia in Scozia, dovrei dedicarmi a tempo pieno ai fornelli”. A giudicare da come nella sua professione riesce a mettere insieme tanti “ingredienti” pregiati per esaltare le caratteristiche di ognuno, rendendo possibile una ricerca d’avanguardia, viene da pensare che a casa Marsoni il menu sia da Guida Michelin.

Si selezionano i pazienti sulla base del gene KRAS


NUOVE CURE La qualità della vita

In questo articolo: qualità della vita terapie oncologiche cura personalizzata

Misurare il soggettivo perché la cura pesi meno È da almeno vent’anni che i medici cercano di considerare la qualità della vita dei malati tra i parametri utili per valutare se una cura contro il cancro è migliore di un’altra. Oggi fanno passi avanti in questo ambito delicato, molto legato alle aspettative individuali

a cura di AGNESE CODIGNOLA n una serie di articoli pubblicati qualche anno fa sul British Medical Journal, la qualità della vita di una persona malata veniva definita come lo scollamento tra ciò che il paziente immagina e la realtà che si trova a vivere. Intesa così, essa subisce un brusco decadimento al momento della diagnosi, per poi migliorare nei mesi successivi. All'inizio, infatti, il malato deve accettare l'idea di essere tale, di affrontare le cure, di andare incontro a limitazioni o quantomeno a trasformazioni in quelli che fino ad allora sono stati la sua vita, la sua socialità, il suo lavoro, gli affetti. Inoltre costruisce aspettative e speranze in base a elementi personali, e può andare incontro a delusioni. In seguito però, e soprattutto se le condizioni fisiche lo permet-

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tono, c'è come un riassestamento, accompagnato da un'accettazione del nuovo stato. La conseguenza è quasi sempre un miglioramento complessivo o anche solo psicologico, cioè un recupero della qualità della vita. LA PERSONA AL CENTRO Questa idea suggestiva, anche se sembra mettere in discussione la possibilità di misurare in modo oggettivo la qualità della vita, in realtà pone l'accento sull'elemento più importante: la persona. “Ognuno vive la malattia a modo suo, in base alla propria storia, alla propria condizione,

al tipo di malattia, e per questo le conseguenze della perdita della salute sono estremamente variabili, anche se ciò non significa che non si possa attuare una misurazione anche di questi parametri” spiega Giorgio Bert, psicologo, fondatore dell'Istituto di counselling CHANGE di Torino e tra i primi a portare in Italia l'idea della medicina narrativa, cioè di una medicina che si basi anche sul dialogo tra medico e paziente, e sulla narrazione di quest'ulti-

mo. “Ciò che conta, però, è che si tenga sempre presente il fattore umano, e che esso sia posto al centro della valutazione”. Un'opinione simile è quella espressa da Francesco Perrone, direttore dell'Unità di sperimentazioni cliniche dell'Istituto nazionale tumori di Napoli, tra i primi nel nostro Paese a inserire la qualità della vita come obiettivo principale da verificare in alcune sperimentazioni. Spiega infatti Perrone: “Per capire che cosa si

Ognuno ha la propria idea di vita piena e soddisfacente

L’ARTICOLO IN BREVE... e cure farmacologiche (e non solo) vengono valutate, nel caso dell’oncologia, sulla base della loro capacità di guarire il maggior numero di pazienti oppure di aumentarne gli anni di vita. Un parametro che ha però preso piede nel decidere l’efficacia di una terapia è la qualità della vita: a parità di effetti sulla salute, è infatti da preferire il farmaco che consente una vita migliore. La qualità di vita, però, è un parametro sfuggente perché legato a considerazioni soggettive. Per questa ragione sono stati messi a punto questionari che vengono usati in tutto il mondo e che costituiscono un buon compromesso tra ciò che ciascuno di noi si aspetta dalla terapia e quello che è valutabile su una popolazione generale.

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NUOVE CURE ECCO QUALI SONO GLI ASPETTI PIÙ VALUTATI

LE DOMANDE PIÙ COMUNI ra i questionari più comunemente usati ci sono quelli proposti dall’EORTC (l’organizzazione europea per la ricerca e il trattamento del cancro) o quelli noti con la sigla FACIT (www.facit.org). Si tratta di strumenti molto completi, con moduli di tipo generico e moduli specifici per tipo di tumore o per tipo di trattamento. Ecco alcune delle domande poste nel questionario dell'EORTC (che ne comprende 30), alle quali il paziente può rispondere: per nulla, un poco, abbastanza, molto.

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• Ha difficoltà a compiere sforzi fisici quali portare le

borse della spesa? • Sente il bisogno di stare a letto o seduto durante la giornata? • Ha bisogno di aiuto per mangiare, vestirsi, pettinarsi, lavarsi o usare il bagno? • Ha avuto qualche limitazione nelle sue attività quotidiane, nei suoi hobby o nel suo lavoro? • Ha avuto dolore? • Ha avuto difficoltà a dormire? • Ha avuto nausea? • Il dolore ha interferito con le normali attività quotidiane? • Ha avuto difficoltà a concentrarsi, a leggere un giornale o un libro o a guardare la televisione? • Si è sentito teso, preoccupato, irritabile o depresso? • Ha avuto difficoltà a ricordare alcune cose? • La sua condizione o la cura che sta affrontando hanno interferito con la sua vita familiare o le relazioni sociali? • La sua condizione o la cura che sta affrontando hanno avuto ripercussioni economiche? Al termine del questionario il paziente è invitato a valutare (con un punteggio da 1 a 7) il proprio stato di salute e la propria qualità di vita nella settimana appena trascorsa.

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intende quando si parla di qualità della vita si possono dare una definizione di buon senso e una tecnica. La prima è semplice, intuitiva: avere una buona qualità dell'esistenza significa stare bene, essere contenti, fare cose gradite e così via. In questo senso, ogni individuo ha la propria idea di qualità della vita. Questa definizione, sicuramente ragionevole, non è però utile su un piano concettuale per chi vuole migliorare le possibilità di cura in oncologia. Di qui la necessità di una definizione tecnica, emersa con evidenza quando, nel 1996, la Società americana di oncologia clinica (ASCO) ha inserito la qualità della vita, insieme alla sopravvivenza e alla tossicità, nella lista dei cosiddetti hard end-points, cioè di quegli elementi che si devono assolutamente considerare nel giudicare l’efficacia di un farmaco, e che possono essere di per sé motivo per una sperimentazione clinica”.

gerisce: “Perché non lo tratti con vinorelbina? Lo fa vivere un po’ di più e soprattutto gli migliora la qualità di vita!” A quel punto sono saltato sul divano e ho esclamato: “Ma questi siamo noi!” In realtà, gli autori di ER avevano fatto fare a quel medico un'affermazione basata su un dato recente della letteratura, il risultato dello studio ELVIS (pubblicato sul Journal of National Cancer Institute il 6 gennaio del 1999), condotto in Italia e coordinato dalla mia Unità. Uno degli aspetti importanti di quella sperimentazione era il fatto che si trattava della prima dedicata alla chemioterapia per pazienti anziani con tumore del polmone e aveva la qualità di vita come obiettivo primario. In altre parole, la Qol era la variabile su cui era costruito il disegno statistico dello studio; in questo senso siamo stati dei pionieri”. Da allora la QoL (Quality of Life, in italiano “qualità della vita”) è entrata sempre più spesso a far parte dei parametri ritenuti indispensabili per capire se una terapia è nel complesso positiva o meno. Non basta più verificare se una certa cura può rallentare il decorso della malattia, allungare la sopravvivenza o attenuare i sintomi; oggi ci si chiede – o si ritiene che ci si do-

Attività fisica, voglia di fare, lucidità e assenza di dolore

UNA NECESSITÀ CONDIVISA Per chiarire ancora meglio che cosa ciò significhi, Perrone racconta un episodio personale. “Un po’ di anni fa (credo intorno al 2000) guardavo alla televisione un telefilm della serie ER – medici in prima linea. Mark Green, uno dei medici storici della serie (che nella finzione morirà di tumore cerebrale qualche anno dopo), scopre che il padre, molto anziano, ha un tumore del polmone. Ne parla con un suo collega mentre cammina nel corridoio dell’ospedale e quest'ultimo gli sug-


vrebbe chiedere – anche come sta il malato mentre viene sottoposto a quella cura e nei mesi successivi. DIFFICOLTÀ DI MISURAZIONE Come è possibile misurare un parametro che, come detto, è in gran parte costituito dalle peculiarità di ogni singolo paziente? Quali sono gli strumenti oggi utilizzati? Risponde Perrone: “In linea di massima gli strumenti che misurano la QoL sono questionari che pongono domande su come il paziente percepisce la propria condizione rispetto ad aspetti fisici della vita (per esempio la capacità di camminare, di salire le scale, di svolgere lavori), o ad aspetti psicologici, sociali ed economici. Ognuno di essi può essere affrontato con diverse domande, che variano a seconda del questionario scelto. Quasi sempre le risposte consentono di avere una visione dello stato del paziente, per esempio di quanto, per lui, siano importanti i sintomi causati dalla malattia e quanto contino gli effetti collaterali di alcuni trattamenti contro il cancro quali la caduta dei capelli o la stanchezza. Dal momento che si tratta di valutazioni soggettive, alle varie domande si può rispondere o mediante definizioni di tipo qualitativo (tipo per niente, poco, abbastanza o moltissimo) o mediante scale quantitative (ad esempio dando un voto da 1 a 10). In genere, le risposte date ai vari parametri vengono elabora-

te fino a generare valori numerici che vengono poi utilizzati come misura della qualità della vita”. Grazie a questionari e misurazioni studiate ad hoc è dunque possibile misurare questo parametro sfuggente. Dice Perrone: “Sono convinto che i punteggi che si ottengono servano per misurare fenomeni che possono essere condizionati, nel bene o nel male, in maniera diversa da diverse terapie. Se applichiamo queste scale di misura in studi di confronto tra una cura e l’altra, essi si rivelano in grado di definire differenze anche importanti tra diversi tipi di trattamento. Tuttavia non credo che attraverso i questionari si misuri realmente la QoL dei singoli individui, che resta qualcosa troppo personale e intima per poterla ricondurre a numeri. E questo limite deve sempre accompagnare chi vuole usare la QoL per scegliere una cura”. LA RIVOLUZIONE BIOLOGICA E oggi? Che ruolo ha la QoL, dopo l'avvento dei farmaci biologici, universalmente ritenuti meno tossici rispetto alla chemioterapia tradizionale (e quindi più positivi per la QoL), e responsabili del progressivo allungamento della sopravvivenza dei malati? Risponde ancora Perrone: “La grande attenzione che tutti (me compreso) abbiamo dedicato alla QoL dalla metà degli anni Novanta derivava in parte dalla sensa-

zione di aver raggiunto una specie di limite nei risultati che potevamo ottenere in termini di riduzione della mortalità o di prolungamento della sopravvivenza con le cure che avevamo a disposizione. Era come dire: più di tanto non riusciamo a fare, cerchiamo almeno di far vivere i nostri pazienti quanto meglio si può. Poi, però, l’entusiasmo che ha caratterizzato l’arrivo di farmaci di nuova generazione ha spostato ancora la nostra attenzione sulle guarigioni o comunque sul guadagno in anni di vita. Per questo è più difficile che in questi ultimi anni la QoL sia un obbiettivo primario degli studi: il più delle volte è un obiettivo secondario, il cui risultato può comunque assumere importanza notevole laddove, per esempio, non si identifichino differenze, in termini di sopravvivenza, tra un tipo di cura e l’altra”. Secondo alcuni, per fare sì che la QoL diventi ancora di più centrale bi-

sognerebbe rendere obbligatoria la sua determinazione in ogni studio clinico su un nuovo farmaco, ma Perrone non è del tutto d'accordo. Spiega infatti: “Mi sembra eccessivo rendere questo parametro obbligatorio. Io sono tra quelli che pensano che il processo con cui si registrano i nuovi farmaci andrebbe rivisto a causa di difetti ben peggiori della mancanza, in qualche caso, di analisi di QoL. Non c’è dubbio che avere dati affidabili sulla qualità di vita aiuta chi è destinato a valutare la bontà delle nuove cure. Bisogna stare attenti, però, perché è molto più difficile garantire una buona qualità di analisi dei dati per questo parametro così particolare rispetto, per esempio, a misurare in modo univoco per quanto tempo i malati sopravvivono, e questo potrebbe generare pericolosi fraintendimenti ed errori. Meglio lavorare per far passare la cultura della qualità della vita a tutti i livelli della presa in carico di un malato oncologico”.

Con i nuovi farmaci si torna a guardare la sopravvivenza


NOTIZIE FLASH

Dal mondo Il virus diventa un alleato Una volta tanto è possibile parlare di un virus in chiave amichevole: uno studio pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature e condotto da un gruppo di ricercatori di una azienda di biotecnologie di San Francisco ha infatti presentato il virus JX-594 nella nuova veste di arma intelligente contro il tumore. I ricercatori d’oltreoceano hanno sperimentato la nuova terapia sull’uomo: il virus è stato somministrato per via intravenosa in 23 persone con tumori in stadio avanzato che avevano già dato origine a metastasi. Dopo circa 10 giorni sono stati prelevati campioni di tessuto da ciascun paziente. I risultati ottenuti sono molto incoraggianti. In sette delle otto persone trattate con la dose più elevata è stata osservata una replicazione mirata del virus: in pratica l’agente infettivo si è introdotto e moltiplicato solo nelle cellule tumorali, senza intaccare quelle sane circostanti e raggiungendo anche le metastasi più lontane attraverso il sistema circolatorio. Una volta “caricati” con geni capaci di bloccare o uccidere il tumore, questi nuovi veicoli anticancro potrebbero rivelarsi un’arma molto efficace: gli unici effetti collaterali sono sintomi influenzali che spariscono nel giro di 24 ore.

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Dieta verde contro il cancro Un altro punto a favore di frutta e verdura nella partita contro il tumore. Sulle pagine dell’American Journal of Epidemiology la conferma che le donne che portano in tavola con regolarità questi alimenti corrono meno rischi di ammalarsi di tumore del seno, specie per quel che riguarda alcuni sottotipi. Nel caso di questo studio statunitense i ricercatori, che hanno seguito per 26 anni un gruppo formato da più di 86.000 donne, concludono che gli effetti riguardano soprattutto il cancro del seno ERnegativo, quello con cellule prive del recettore

La sigaretta appena svegli è veleno puro Non avete ancora aperto del tutto gli occhi e già avete acceso la prima sigaretta della giornata? Un comportamento poco lungimirante e pericoloso anche dal punto di vista oncologico. Come dimostrano due studi recentemente pubblicati sulla rivista Cancer da ricercatori del Penn State College of Medicine, infatti, per chi fuma la prima sigaretta poco dopo il risveglio aumenta il rischio di tumori di testa e collo e del polmone. Analizzando il legame tra fumo e rischio di sviluppare questi due tipi di cancro in un gruppo di pazienti e in uno di fumatori non malati di cancro, i medici hanno scoperto che ci si ammala di più se il primo tiro della giornata arriva tra 31 e 60 minuti dal risveglio. E l’aumento è ancora maggiore se si cede al fumo entro la prima mezz’ora dal suono della sveglia.


per gli estrogeni e che rappresenta circa un quarto di tutti i tumori mammari. Il rischio si abbassa anche del 20 per cento nelle donne fedeli a una dieta molto ricca di frutta, verdura, legumi, cereali integrali con fibre, con poche concessioni a carne rossa, sale e

carboidrati raffinati. Come spiegano anche gli autori, questi dati non solo dimostrano che modificare l’alimentazione dia la certezza di una riduzione del rischio di ammalarsi, ma indicano un trend favorevole a chi sceglie il verde nel piatto.

Visioni d’insieme

Niente paura per la cisti Una cisti ovarica scovata grazie all’ecografia non rappresenta un rischio per il tumore ovarico, soprattutto nelle donne di mezza età o anziane nelle quali in genere si manifesta questo tipo di cancro. Lo affermano i ricercatori dello University College di Londra in uno studio pubblicato sul British Journal of Obstetrics and Gynaecology e che ha coinvolto oltre 48.000 donne tra i 50 e i 74 anni. Obiettivo: studiare in particolare il rischio di tumore legato alla presenza di cisti inclusionali, una sorta di “sacchetto” pieno di fluido o altri tessuti molli. Al termine delle loro analisi, i ricercatori inglesi sono giunti alla conclusione che la scoperta di una cisti ovarica dopo la menopausa non aumenta il rischio di sviluppare un tumore ovarico e nemmeno di altri tipi di tumore influenzati dai livelli ormonali – come per esempio quelli di seno ed endometrio.

Se in Italia la mortalità per cancro del seno e della cervice uterina è diminuita negli ultimi anni, non si può dire lo stesso a livello mondiale. Lo rivela un’accurata indagine epidemiologica pubblicata sulla rivista The Lancet da Mohammad Forouzanfar dell’Università di Washington, a Seattle. Raccogliendo le informazioni provenienti da 187 Paesi dal 1980 al 2010, l’epidemiologo ha calcolato che i tumori del seno sono aumentati di quasi tre volte, così come i casi di cancro della cervice sono cresciuti di un terzo. Ciò dipende anche dalla maggiore capacità diagnostica e di registrazione dei casi, elementi che però non dovrebbero influire sulla mortalità, che è aumentata nel caso del seno e diminuita nel caso della cervice uterina. “Questa è una fotografia del mondo” ha spiegato Forouzanfar. “Dietro questi dati generali si nascondono Paesi avanzati, con una buona assistenza sanitaria, in cui la battaglia contro il cancro ha fatto diminuire i tassi di mortalità, e Paesi dove le donne sono ancora vittime di malattie che in altre parti del mondo sono guaribili”. Tra i Paesi ad aumentata mortalità anche gli Stati Uniti, dove a causa dell’assenza di un sistema sanitario nazionale solo una parte della popolazione ha accesso alle cure.


ATTUALITÀ Un premio all’immunologia

Il Nobel onora i meccanismi di difesa innati Se qualcuno ambisce al massimo riconoscimento nel mondo della scienza, forse dovrebbe dedicarsi allo studio dei sistemi con cui il nostro corpo combatte le infezioni e le cellule mutate

a cura della REDAZIONE immunologia è l’ambito di ricerca medica che ha raccolto in assoluto più premi Nobel: da quello del 1919, consegnato a Jules Bordet, scopritore della reazione di lisi batterica e del batterio della pertosse che porta il suo nome (Bordetella pertussis), fino a quello attribuito nel 1996 a Rolf M. Zinkernagel e Peter C. Doherty, che hanno identificato i meccanismi con cui i linfociti riconoscono le cellule infettate dai virus. In mezzo quasi un secolo di scienza e altri nove Nobel che hanno avuto a che

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Immunità innata Rapida Ferma le infezioni Non ha memoria

Immunità acquisita Più lenta Elimina le infezioni Ha una memoria

Il sistema immunitario Le infezioni del corpo umano da parte di microrganismi patogeni come batteri, virus, parassiti e funghi suscitano la risposta del sistema immunitario. Ciò avviene con un processo in due tappe: l’immunità innata ferma l’infezione, quindi l’immunità acquisita la elimina.

fare in qualche modo col sistema di difesa del nostro organismo. Quello di quest’anno è quindi un premio in qualche misura atteso, che ha onorato il lavoro di Bruce A. Beutler, Jules A. Hoffmann e Ralph M. Steinman. “È il giusto riconoscimento a un ambito della ricerca medico-biologica che sta dando molte soddisfazioni in termini di nuove cure per molte malattie, da quelle autoimmuni al cancro” spiega Alberto Mantovani, direttore scientifico della Fondazione Humanitas e illustre immunologo. La vicenda del triplo premio ha anche avuto un risvolto umano inaspettato, dato che Steinman è purtroppo deceduto per un cancro del pancreas poche ore prima dell’annuncio da parte dell’Accademia

L’ARTICOLO IN BREVE... Nobel per la medicina 2011 premiano gli scopritori dei meccanismi legati all’immunità innata e all’attivazione delle cellule dendritiche. Ambedue questi meccanismi del sistema immunitario giocano un ruolo di primo piano nelle infezioni e nel combattere le cellule tumorali. Sono anche alla base delle tecniche messe a punto per la fabbricazione di vaccini personalizzati anticancro, le cui sperimentazioni stanno dando buoni risultati.

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reale svedese delle scienze. Quest’ultima si è trovata in imbarazzo poiché, per regolamento, il premio Nobel è attribuibile solo a ricercatori viventi. Nessuno ha però osato togliere il meritato riconoscimento allo sfortunato scopritore delle cellule dendritiche, elementi del sistema immunitario che giocano un ruolo di primo piano proprio nel combattere la malattia di cui Steinman è stato vittima, anche perché i giurati, nel momento della decisione, non sapevano ciò che gli era accaduto.

Innata e preziosa sventa le minacce Bruce A. Beutler e Jules A. Hoffmann sono stati premiati per la scoperta della cosiddetta immunità innata. Si tratta di un sistema di difesa che riconosce le minacce aspecifiche, cioè tutto ciò che potrebbe essere potenzialmente pericoloso per l’organismo (come alcuni agenti infettivi). “È un meccanismo deli-


Linfociti T Microrganismo

TLR (recettore di tipo Toll) Cellula dendritica

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Immunità innata Alcune componenti dei microrganismi si legano ai recettori di tipo Toll situati su molte cellule del corpo. Ciò attiva l’immunità innata, che induce l’infiammazione e la distruzione dei microrganismi invasori.

Immunità acquisita Le cellule dendritiche attivano i linfociti T che risvegliano l’immunità acquisita. Ne consegue una cascata di reazioni immunitarie con la formazione di anticorpi e cellule killer.

cato perché deve riconoscere un pericolo anche senza averlo mai incontrato prima” spiega Mantovani. “Si intuisce facilmente che un errore di questo sistema può portare a sepsi (cioè alla diffusione generale dell’infezione, non a caso l’argomento da cui sono partiti gli studi di Butler) oppure, viceversa, a malattie autoimmuni, dovute a un falso riconoscimento: il corpo attacca alcuni tessuti (oppure microrganismi innocui) pensandoli potenzialmente pericolosi”. La scoperta dei due Nobel è però ancora più specifica e ha a che fare anche con i tumori. Nel 1973 i due scoprono che iniettando in un topo una certa quantità di tossine batteriche si stimola la produzione di un fattore che a sua volta provoca la necrosi (cioè la morte) dei tessuti tumorali, fattore che viene appunto chiamato TNF, dall’inglese Tumor Necrosi Factor. Altri ricercatori, tra cui l’italoamericano Tony Cerami, hanno scoperto nei primi anni Ottanta

che il fattore di necrosi tumorale è responsabile anche del deperimento tipico dei malati di tumore, la cosiddetta cachessia. Malgrado la presenza del TNF, che è l’arma con cui il corpo induce l’eliminazione di ciò che è nocivo, restava sempre poco chiara la modalità del riconoscimento dell’agente infettivo. “Come poteva il nostro sistema immunitario sapere se quel determinato batterio era a posto o fuori posto? Per arrivare a una spiegazione si è dovuto attendere la scoperta dei recettori di tipo Toll, proprio quelli premiati col Nobel” aggiunge Mantovani. Esistono infatti alcuni topi geneticamente modificati che sono resistenti all’azione del TNF e questo perché privi di un particolare recettore, chiamato Toll. “È qui che entra in gioco la genialità di Hofmann, che capì che il

recettore Toll era proprio quel collegamento mancante tra immunità innata e immunità specifica, cioè quella chiave di volta in grado di svegliare il sistema immunitario e combattere la malattia”. Beutler, invece, è stato il primo a trovare i recettori di tipo Toll nei mammiferi, mentre in anni seguenti altri hanno scoperto che il recettore Toll attiva le cellule dendritiche, proprio quelle per la cui scoperta è stato attribuito il terzo Nobel a Steinman “È giusto ricordare che una ricercatrice del mio gruppo, Marta Muzio, è stata la prima a scoprire tutti i passaggi legati all’attivazione dei recettori Toll nell’uomo e questo grazie a un fondo FIRC e AIRC. Il lavoro è uscito nel 2000 sul Journal of Leucocyte Biology. All’epoca la scoperta era ancora di nicchia, ora grazie a questo tipo di conoscenze si possono produrre vaccini e far-

Anche in Italia si fa ricerca con successo sui recettori Toll

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ATTUALITÀ Un premio all’immunologia

In questo articolo: premio Nobel cellule dendritiche immunità innata

di cui si è parlato finora”. La scoperta del ciclo completo di attivazione di questi meccanismi di difesa ha consentito di mettere a punto diversi vaccini, tra cui quelli anticancro, ma anche di sviluppare terapie sperimentali contro il virus dell’AIDS o di bloccare le reazioni autoimmuni attraverso farmaci biologici. “Una strategia su cui Steinman e altri stavano lavorando è quella di ‘dirigere’ le cellule dendritiche verso il bersaglio programmandole all’interno dell’organismo, invece di doverle estrarre dal sangue, per lavorarle e poi reimmetterle nel paziente come accade nei comuni preparati vaccinali” spiega ancora Mantovani. Questo tipo di sperimentazione è davvero agli esordi, ma promette bene. Tanto bene da valere il primo Nobel postumo della storia. Nella foto da sinistra: Bruce A. Beutler, Jules A. Hoffmann e Ralph M. Steinman.

maci attivatori del sistema immunitario, tra cui i cosiddetti vaccini anticancro” afferma Mantovani.

La guerra di dendriti e Toll Le cellule dendritiche, che costituiscono l’altra metà del premio, sono state descritte per la prima volta da Steinman (e dal suo capo Zanvil A. Cohn) nel 1973. “I dendriti catturano le proteine degli agenti infettivi (ma

anche delle cellule mutate per via del cancro) e le porgono sulla superficie cellulare perché altre cellule del sistema immunitario, i linfociti T, le possano riconoscere” spiega Mantovani. L’altra caratteristica dei dendriti è quella di attivare il sistema immunitario in presenza di infiammazione, considerata un segnale di qualcosa che non va nel corpo. “In sostanza se c’è un’infezione le cellule dendritiche maturano ed esprimono sulla loro superficie proprio i recettori di tipo Toll

LA FIDUCIA NELLA SCIENZA Nei giorni successivi all’annuncio del Nobel, molti hanno raccontato la lunga battaglia di Ralph Steinman contro il tumore, compresa la sua scelta di sottoporsi a terapie sperimentali basate sulla sua stessa scoperta. I vaccini anticancro, infatti, sono basati sull’attivazione delle cellule dendritiche contro particolari antigeni presenti sulla cellula maligna. Il primo vero vaccino anticancro basato sull’attivazione dei dendriti è stato approvato per il trattamento del cancro della prostata, mentre un tipo diverso di vaccino è già in uso da alcuni anni per la terapia del melanoma. Una delle difficoltà incontrate nella messa a punto di queste terapie è l’unicità delle cellule dendriti-

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che: ognuno di noi ha le proprie e non è possibile usare un vaccino fabbricato con cellule dendritiche altrui. Questo rende complessa la produzione del rimedio e piuttosto elevato il suo costo (quello contro il carcinoma prostatico costa circa 95.000 dollari per tre dosi che bastano per tre mesi di terapia). Malgrado ciò ci sono stati sviluppi importanti negli ultimi mesi, anche con il contributo dello stesso Steinman che pure stava già male: all’inizio del 2011, per esempio, è stato pubblicato su Journal of Clinical Oncology uno studio su un vaccino dendritico nel glioma maligno, sperimentato su pazienti già in stadio avanzato (per non dire quasi terminale) con risultati notevoli in termini di sopravviven-

za (anche se sempre relativi alla gravità dei casi trattati). Steinman credeva molto nelle potenzialità dell’approccio immunologico alla cura dei tumori e ha insistito per accelerare i tempi della sperimentazione sull’uomo, pur mantenendo tutti i criteri di rigore che rendono sicure le nuove terapie. Egli stesso si è sottoposto ad alcune cure innovative, due delle quali, secondo i familiari, comprendevano anche vaccini dendritici. In ambedue i casi, però, si trattava di sperimentazioni ufficiali, che avevano passato tutte le fasi di verifica da parte degli organismi regolatori. Come molti grandi scienziati, Steinman ha lavorato nel suo laboratorio fino agli ultimi giorni di vita. Una settimana prima della sua morte ha discusso con i colleghi i risultati di una sperimentazione con vaccino dendritico per il virus dell’AIDS.


VIVERE SANO

Alimenti: lo zafferano a cura della REDAZIONE a polvere gialla che arriva dall'Oriente è una delle spezie più care che esistano. Citato in papiri egizi del II secolo avanti Cristo, da Omero, Virgilio e Plinio nelle loro opere e persino nella Bibbia, lo zafferano ricopre da millenni un ruolo importante non solo in cucina, ma anche come colorante.

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Cos’è Il fiore di colore viola che racchiude al proprio interno il prezioso oro rosso si chiama Crocus sativus. Il prodotto che arriva sulle nostre tavole si ricava dall'essiccazione dei tre stimmi – piccoli filamenti color rosso-arancio – contenuti in ciascun fiore e raccolti in un periodo che parte da fine ottobre e si prolunga per circa un mese. Questa spezia ricca di antiossidanti è partita dall'Oriente molto tempo fa e, passando dal Nord Africa e dalla Spagna, è arrivata fino in Italia dove ancora oggi è coltivata soprattutto in alcune aree di Abruzzo e Sardegna.

Le proprietà Lo zafferano rappresenta una fonte di antiossidanti, in particolare carotenoidi come la crocina, che dona alla spezia il caratteristico colore giallo oro o il licopene. Per essere più precisi, a parità di peso lo zafferano contiene 1.000 volte più carotenoidi delle carote e molto più licopene dei pomodori, che in genere sono considerati gli alimenti più ricchi di questi antiossidanti. Ovviamente le dosi con cui viene usato in cucina sono ridotte, anche se sufficienti a contribuire alla salute. A questo elevato contenuto di molecole che contrastano l'ossidazione sono legate alcune delle proprietà benefiche dello zafferano, specie nei confronti del sistema cardiovascolare e della diminuzione del rischio oncologico. Ma questa spezia saporita è anche ricca di vitamine B1 e B2, e di una molecola chiamata zeaxantina che protegge la salute degli occhi. E, come dimostra uno studio recentemente pubblicato sulla rivista Hepathology, lo zafferano sembra essere molto utile anche per contrastare il cancro del fegato (ma anche quello del seno e altri ancora) bloccando la proliferazione delle cellule maligne e spingendole in alcuni casi a “suicidarsi” (un processo chiamato apoptosi). Come sempre, però, non è tutto oro quello che luccica. Non bisogna dimenticare infatti che negli studi scientifici lo zafferano viene utilizzato in concentrazioni molto più elevate rispetto a quelle che siamo abituati a consu-

LA CURIOSITÀ Tra i 5 e i 6 euro per poco più di mezzo grammo, circa 10.000 euro al kg: un prezzo a dir poco astronomico, ma facilmente giustificabile. Dietro a ogni bustina di zafferano che compriamo con tanta facilità al supermercato ci sono infatti migliaia di ore di lavoro ed enormi campi coltivati: per ottenere un chilo di stimmi freschi (che una volta essiccati pesano circa 200 grammi) servono almeno 60 chili di fiori – circa 150.000 corolle – e il lavoro di decine di persone che li raccolgono di buon mattino prima che il sole li faccia schiudere e ne rovini il prezioso contenuto. La nota positiva è che bastano dosi veramente minime di zafferano – ogni bustina ne contiene in media 0,15 grammi – per portare in tavola piatti colorati e saporiti.

mare a tavola e di conseguenza i risultati ottenuti devono essere presi come una semplice indicazione generale tra molte. Inoltre, se consumato in quantità eccessive – comunque lontanissime da quelle “classiche” – questa polverina può diventare anche pericolosa e scatenare effetti collaterali come nausea, vertigini e capogiri.

LA RICETTA TRIGLIE ALLO ZAFFERANO Pesce e zafferano: un matrimonio perfettamente riuscito per un piatto leggero, saporito e molto salutare Ingredienti (per 4 persone) 4 triglie, 4 cucchiai di olio d'oliva, 4 pomodori pelati, timo, zafferano, sale, pepe, 15 cl di vino bianco Preparazione Disporre le triglie pulite e lavate in una pirofila. Aggiungere i pomodori tagliati a pezzetti, timo, olio, sale, pepe macinato e vino nel quale è stato in precedenza stemperato un pizzico di zafferano. Mettere in forno caldo a 220 gradi e portare a cottura (più o meno 10 minuti da quando il vino comincia a bollire).


COME CURARE Tumore mammario maschile

Colpisce anche gli uomini ma guarisce meglio Il cancro del seno non è una malattia esclusivamente femminile, perché il residuo di ghiandola presente nell’uomo può essere all’origine di una trasformazione maligna.

a cura di CRISTINA FERRARIO o si pensa sempre al femminile, ma il tumore della mammella può colpire anche gli uomini che, pur non avendo questa ghiandola altrettanto sviluppata, possiedono una quantità di tessuto mammario sufficiente a dare origine alla maL GENE lattia. E se È la prevenIL MAGGIOR zione è entrata a far FATTORE DI RISCHIO parte delle ANCHE PER a b i t u d i n i d e l l e L UOMO donne, gli uomini possono sottovalutare alcuni sintomi o segni

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esteriori e farsi sfuggire il momento giusto per intervenire. “Quattro anni fa, insieme ai colleghi dell’Istituto nazionale tumori di Milano e del Memorial Sloan-Kettering di New York, abbiamo raccolto i dati relativi a questo tipo di tumore” spiega Giuseppe D’Aiuto, direttore dell’Unità di senologia del Pascale di Napoli. Scopo dell’indagine era ottenere una sorta di fotografia della malattia, dalla sua insorgenza fino allo sviluppo, e dell’efficacia delle cure. Dal punto di vista dei numeri, si può dire che si tratta di una forma oncologica sostanzialmente stabile nel tempo, anche se negli ultimi 10 anni si registra un lieve aumento. In Italia è una patologia rara, che colpisce circa 300 uomini l’anno. “L’elemento più critico emerso dallo studio è l’au-

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mento relativo dei casi nella fascia di età più giovane, sotto i 45 anni” spiega D’Aiuto. I colpevoli sembrano essere i geni (e in particolare la variante BRCA2, associata, nell’uomo come nella donna, a un aumentato rischio) combinati con stili di vita negativi. “È importante anche il sovrappeso” spiega D’Aiuto. “Il tessuto adiposo è un deposito naturale di estrogeni anche nell’uomo. L’obesità è quindi un fattore di rischio non indifferente anche nella componente maschile”. Accrescono le probabilità di ammalarsi anche alcune sindromi congenite, per fortuna rare, come quella di Klinefelter. Uomini con una elevata familiarità per cancro del seno (con nonne, madre e sorelle

colpite) dovrebbero considerarsi a rischio e chiedere a un medico esperto se è il caso di fare un’analisi genetica. “In caso di positività per BRCA2 si può decidere di stabilire un programma di controlli non dissimile da quello femminile” spiega D’Aiuto. NIENTE SCREENING MA ATTENZIONE Nell’uomo come nella donna è la prevenzione l’arma più efficace, anche se per gli uomini non esistono programmi di screening (come la mammografia per le donne) a causa dell’estrema rarità del male, che renderebbe controproducente sottoporre la popolazione a raggi per una diagnosi altamente improbabile.

L’obesità è un pericolo sia nella donna sia nell’uomo


PIÙ ANZIANI DELLE DONNE MA CON UNA PROGNOSI MIGLIORE

In questo articolo: seno uomini tumore d’organo

Nonostante ciò, la mammografia viene effettuata (così come l’ecografia) in tutti i casi in cui si sospetta che qualcosa non vada, come quando la mammella si ingrandisce (nella cosiddetta ginecomastia) oppure quando si formano delle eruzioni cutanee, simili a eczemi, che interessano la zona del capezzolo e dell’areola. Quest’ultima manifestazione può essere il segnale di un morbo di Paget, un tumore duttale (cioè della componente dei dotti che, insieme allo stroma, o tessuto pieno, costituisce la struttura della ghiandola) che esiste anche nelle donne. “ Va r i a zioni di volume, specie se asimmetriche, o di struttura della zona mammaria o della pelle sovrastante meritano una visita di controllo, così come ulcerazioni o perdite di liquido o siero dal capezzolo” spiega ancora D’Aiuto. Qui può insorgere un problema: qual è il medico più adatto a visitare un uomo che sospetta di avere qualcosa che non va? Oltre al medico di famiglia, che può fungere da primo filtro, lo specialista di riferimento resta il senologo, lo stesso che visita le donne. “Molti uomini possono essere frenati nell’impulso di farsi controllare dall’idea di doversi recare da un medico ‘per donne’. In realtà fanno un grosso errore e rischiano di mettere la loro vita a repentaglio, perché in questi

VANTAGGI BIOLOGICI l cancro del seno nell’uomo viene scoperto in uno stadio e a un’età più avanzata che nella donna, ma nonostante ciò ha una prognosi migliore. Lo afferma un recentissimo studio, pubblicato sul Journal of Clinical Oncology, che ha preso in esame quasi 500.000 casi di tumore della mammella nelle donne e quasi 3.000 nell’uomo, in Danimarca, Norvegia, Finlandia, Svizzera, Svezia e Singapore nell’arco di oltre 40 anni. Se la diagnosi arriva per le donne intorno ai 62 anni in media, per l’uomo l’età media sale a 70 anni. La sopravvivenza a cinque anni è apparentemente inferiore per l’uomo ma se viene corretta per l’età risulta invece più favorevole di quella nelle donne. Gli autori dello studio, un gruppo di epidemiologi del Memorial Sloan-Kettering di New York, non hanno una spiegazione definitiva per la migliore prognosi: l’ipotesi più convincente è che il corpo maschile risponda diversamente non solo alle terapie ormonali ma anche alla chemioterapia.

I casi è sempre bene affidarsi a chi ha più competenze in materia ed è indubitabile che, data la scarsa frequenza della forma maschile, siano i medici che curano il cancro del seno femminile ad avere la casistica adatta”. CURE COMUNI AI DUE SESSI Dal punto di vista delle terapie, non ci si discosta molto dallo standard applicato alle donne. Si passa dalla chirurgia (in genere meno impegnativa che nel sesso femminile, per via della conformazione, anche se in casi avanzati può essere necessario asportare parte del muscolo pettorale), seguita da chemioterapia e radioterapia. Se i linfonodi ascellari risultano intaccati, si procede alla loro asportazione. Negli ultimi anni si è sperimentata la tecnica del linfonodo sentinella anche nell’uomo, con ottimi risultati. “In questo caso l’obiettivo non è ovviamente salvare il seno, perché non si nota la differenza, ma evitare lo svuotamento del cavo ascellare che induce, anche nell’uomo, il linfedema del braccio”. Anche le cure ormonali sono necessarie in caso di tumori sensibili agli ormoni e si basano su antiestrogeni come il tamoxifene. “Negli ultimi anni, però, si è scoperto che i tumori mammari maschili rispondono bene alla nuova classe di antiestrogeni, gli inibitori delle aromatasi” conclude D’Aiuto.

Consultare il medico se l’area si gonfia o cambia forma

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THE FUTURE OF SCIENCE La mente: essenza dell’umanità

Il cervello siamo noi e va protetto dal cancro Nell’ambito della settima edizione dell’annuale appuntamento sulla scienza a Venezia, AIRC ha organizzato l’ormai tradizionale simposio. Quest’anno si è parlato di tumori cerebrali insieme a William Weiss dell’Università della California

a cura della REDAZIONE on basta studiare come si forma il cervello fin dalle prime fasi della vita embrionale: bisogna anche sapere come le sue cellule si moltiplicano per scoprire quali possono essere i meccanismi all’origine dei tumori cerebrali. Di questo ha parlato nella speciale sessione organizzata da AIRC, nel corso della conferenza mondiale The Future of Science, promossa dalla FUV, uno dei massimi esperti al mondo: il neurologo dell’Università della California William Weiss. “È studiando lo sviluppo del cervello nelle prime fasi della vita embrionale che possiamo trovare la chiave per curare le forme tumorali che colpiscono questo organo” ha spiegato Weiss. Durante la formazione degli organi sono le cellule staminali, così chiamate perché, come i semi, sono capaci di riprodursi all’infinito, a giocare il ruolo più importante. Queste stesse cellule, secondo le ricerche più avanzate, sono responsabili della formazione di molti tumori solidi. “Nel

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William Weiss, uno dei massimi esperti di tumori cerebrali pediatrici

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caso del cervello abbiamo scoperto che le colpevoli sono cellule intermedie tra quelle comuni, i neuroni, e le staminali. Si chiamano cellule progenitrici e la loro funzione è fornire nuovi elementi cellulari per il rinnovamento dei tessuti”.

Meno mutazioni della media Le cellule progenitrici estratte dai tessuti tumorali umani mostrano alcune mutazioni genetiche che spiegano la loro trasformazione maligna. “Le cellule dei tumori cerebrali hanno bisogno di poche mutazioni genetiche rispetto ad altri tipi di tumore. Bastano 36 mutazioni contro 101 per il tumore del seno. Questo ci permette di creare in laboratorio modelli sperimentali dei tumori cerebrali per studiarne l’evoluzione e testare nuove terapie” spiega Weiss. Le speranze di cura, soprattutto per il glioblastoma (la forma più aggressiva), che costituisce da solo quasi la metà di tutti i tumori primari del cervello (cioè che non sono il risultato di una metastasi proveniente da un altro organo) vengono anche dalla manipolazio-

ne genetica delle cellule staminali e progenitrici. Nel laboratorio di Weiss sono state portate avanti ricerche di successo su modelli sperimentali e la speranza è di poter presto estendere queste tecniche all’uomo.

Un organo particolare Il laboratorio di Weiss è riuscito anche a dimostrare che nella divisione delle cellule staminali, dalle quali normalmente originano due diversi tipi di cellule del sistema nervoso, i neuroni e la glia, qualcosa si altera quando compare il tumore. In sostanza si producono molte più cellule gliali rispetto alla norma, a scapito dei neuroni. Queste stesse cellule danno poi origine al tumore. Non è ancora chiaro in che modo la suddivisione alterata interferisca con le funzioni cognitive, ma qualsiasi malattia che compromette l’integrità del nostro organo più nobile danneggia la nostra stessa essenza, ciò che fa di ciascuno di noi un individuo del tutto diverso dagli altri. “Un tumore al cervello può interferire anche con le funzioni cognitive delle persone, perché si tratta di un organo particolare, dove non si può agire come su qualsiasi altra parte del corpo” ha spiegato Weiss. “La chirurgia ha armi limitate quando deve agire all’interno della scatola cranica e spesso, specialmente nel glioblastoma, le infiltrazioni di cellule tumorali nei tessuti sani sono tali da rendere difficile l’identificazione dei confini del tumore”. Nel corso della conferenza, infatti, Weiss ha mostrato diversi campioni di questo tumore e ha spiegato in che modo le cellule maligne si infiltrano tra quelle sane, rendendo assai complessa la completa eliminazione della malattia. Ecco perché gli studi genetici e, soprattutto, le sperimentazioni che coinvolgono le cellule staminali e progenitrici, ovvero l’origine stes-


In questo articolo: tumori cerebrali glioblastoma William Weiss

AIRC NELLE PASSATE EDIZIONI

sa del cancro, aprono nuove speranze e costituiscono una vera svolta nell’approccio ai tumori cerebrali. “È vero che si tratta di tumori per fortuna rari, ma possono colpire i bambini, come nel caso del medulloblastoma, o gli adulti, come nel caso del glioblastoma” ha spiegato ancora Weiss. La rarità costituisce di per sé un ostacolo alla ricerca, perché non consente agli esperti di accumulare sufficiente materiale su cui eseguire gli esperimenti. Per questo, interrogato al termine della conferenza su quali siano, a suo avviso, gli interventi più urgenti per arrivare a una cura efficace, Weiss non ha esitato a indicare il più prezioso

degli ingredienti: il networking, cioè la capacità di condividere le informazioni e di lavorare in collaborazione con altri centri di ricerca. “Per raccogliere i dati che ci hanno permesso di creare il modello sperimentale di glioblastoma sul quale stiamo portando avanti tutti i nostri test più promettenti è servito il lavoro di molti gruppi di ricerca indipendenti che hanno studiato e pubblicato l’elenco delle alterazioni genetiche che portano alla malattia” ha concluso. Ora dai suoi lavori e da quelli degli scienziati italiani che AIRC finanzia e che studiano questo specifico tipo di tumori ci si attende una concreta speranza di cura per gli oltre 4.500 italiani che ogni anno ricevono una diagnosi di tumore cerebrale.

Le ricerche sulle staminali costituiscono la nuova frontiera

2005: Scienza e società. Sessione AIRC: Il ruolo delle charities nella battaglia contro il cancro. 2006: L’evoluzione. Sessione AIRC: Evoluzione e cancro. Conversazione con Edoardo Boncinelli e Giulio Giorello. 2007: L’energia. Sessione AIRC: Le fonti di energia e il cancro. Con Richard Klausner e Pier Giuseppe Pelicci. 2008: Cibo e acqua per la vita. Sessione Airc: Cibo, durata della vita e cancro. Con Pier Giuseppe Pelicci. 2009: La rivoluzione del DNA. Sessione AIRC: La genetica del cancro. Con Pier Paolo Di Fiore, Umberto Veronesi, Bruce Ponder e David Livingston. 2010: I virus, il nemico invisibile. Sessione AIRC: Virus, cancro e terapie. Con Luigi Chieco-Bianchi, Robin Weiss, Genoveffa Franchini, Harvey Alter, Inder Verma.

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PROFESSIONI PER LA RICERCA Il bioinformatico

In questo articolo: bioinformatica ricerca professioni

I computer (e chi li gestisce) entrano nel laboratorio Microscopi e provette non bastano più, oggi serve la muldisciplinarietà. La biologia non può fare a meno di nuove professioni che contribuiscono in modo importante al risultato. Fisici, ingegneri, matematici: c’è posto per tutti. Cominciamo approfondendo il ruolo degli informatici a cura di CRISTINA FERRARIO l matrimonio tra biologia e informatica è uno dei meglio riusciti degli ultimi anni, come dimostra il fatto che oggi in tutti i centri di ricerca di un certo livello è presente anche un dipartimento di bioinformatica e che esistono interi istituti dedicati allo sviluppo e all’applicazione di questa scienza ancora piuttosto giovane. “Dare una definizione precisa e univoca di cosa è la bioinformatica è molto difficile” spiega Lucilla Luzi, che da più di dieci anni lavora come bioinformatica presso il campus IFOM-IEO di Milano. “Gli ambiti in cui si utilizzano queste particolari tecniche informatiche sono sempre di più e possono essere anche molto diversi tra loro”. Semplificando al massimo, si può dire che si tratta di una scienza che applica le tecniche e le tecnologie informatiche al campo della biologia, per analizzare e descrivere sistemi biologici molto complessi, oppure per vagliare grandi quantità di dati in poco tempo.

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Il mago dei dati co Una professione in movimento Che cosa fa durante la giornata lavorativa un bioinformatico? Non è semplice rispondere a questa domanda: ogni giorno nascono nuove applicazioni di questa scienza e chi se ne occupa deve continuamente aggiornarsi per restare al passo con i tempi, cercando di non rimanere indietro nonostante la tecnologia cambi a una velocità incredibile. “In origine il bioinformatico era

Moli enormi di dati genetici vengono archiviate nei computer

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una sorta di tecnico che si occupava quasi esclusivamente di gestire e organizzare l’immensa quantità di dati che i nuovi esperimenti di analisi del genoma o delle proteine producevano” racconta Lucilla Luzi. “Oggi il suo ruolo è completamente cambiato, e accanto a questa funzione originale ne sono emerse molte altre”. Per esempio, chi si occupa di bioinformatica può dedicarsi allo studio della struttura delle proteine cellulari (sia in cellule sane sia in cellule cancerose), per cercare di determinarne la forma tridimensionale finale partendo dalla sequenza di amminoacidi che la compongo-

no: ciò è possibile grazie a programmi capaci di fare “previsioni” piuttosto precise e basate su calcoli matematici molto complessi. Con le tecniche di bioinformatica si possono studiare le funzioni dei geni utilizzando speciali database nei quali sono raccolte tutte le informazioni disponibili su quel particolare frammento di DNA e sul suo ruolo nell'organismo. Oppure si può studiare l'evoluzione dei geni (un elemento sempre più importante nell’ambito dell’oncologia) creando veri e propri alberi evolutivi come si fa con le piante, gli animali e tutti gli altri esseri viventi. E la lista potrebbe proseguire

L’ITALIA GUARDA AL MONDO

Come si colloca l'Italia nel panorama bioinformatico mondiale? “Il nostro Paese è leggermente indietro rispetto agli altri, Stati Uniti in testa” spiega Laura Riva che all'estero ha lavorato per ben quattro anni. “Oggi però la sensibilità è cambiata anche qui da

noi”. Pur lentamente, infatti, gli istituti di ricerca e le università italiane stanno cominciando a comprendere l'importanza della bioinformatica nella biologia moderna: nascono così dipartimenti specializzati all'interno dei centri più all'avanguardia e corsi di laurea e


FAMMI SPAZIO!

ancora a lungo. “Ciò che deve essere chiaro” precisa Luzi “è che quella del bioinformatico è una figura che si evolve con l'evolversi di ambedue le tecniche: quelle biologiche in senso stretto e quelle legate al progresso dei computer”. Se la bioinformatica era nata per seguire le trasformazioni della biologia, come una specie di supporto per questa scienza (è infatti figlia dell'era dell'omica: genomica, proteomica e tutte quelle tecniche che analizzano enormi quantità di dati in un'unica volta), ora è cambiata e si sta delineando come una scienza a sé, che guadagna sempre più spazio all'interno dei laboratori.

master per formare nuovi esperti del settore. “Un'esperienza all'estero resta comunque da consigliare – in bioinformatica come in qualunque altro ramo della ricerca – poiché permette di crescere molto dal punto di vista sia professionale sia personale e di conoscere altri punti di vista e altri tipi di approcci ai problemi”conclude Luzi.

Il dilemma tra due lauree Bioinformatici si diventa, questo è certo, ma resta ancora da stabilire quale sia il percorso migliore da seguire per diventare esperti del settore. C'è chi crede che sia meglio partire da una base biologica – quindi una laurea in una delle discipline legate alle scienze della vita – per poi approfondire gli aspetti più tecnici e informatici. Altri invece pensano che il percorso migliore sia quello che parte da una formazione tecnico-informatica, per arrivare poi ad approfondimenti nel campo della biologia. “Queste sono le due vie dalle quali

immaginare che uno dei problemi più grossi sia trovare lo spazio necessario per immagazzinarli tutti e poterli lavorare”. Ecco allora che intervengono professionisti esperti, che si occupano di hardware e software appositi. “Sono persone fondamentali per qualunque bioinformatico, poiché forniscono le infrastrutture senza le quali noi non potremmo lavorare” continua Luzi. Una sorta di capomastro, che costruisce e allestisce gli spazi dove andranno a “vivere” i dati prodotti negli esperimenti della nuova biologia.

tradizionalmente arrivavano i bioinformatici di prima generazione come sono io” spiega Lucilla Luzi “Alcuni, come me, da biologi si sono convertiti all’informatica, mentre altri sono ingegneri, statistici o informatici che si sono poi specializzati nel settore medicobiologico. In entrambi i casi ci doveva essere un interesse di base in ambedue le scienze e poi l'esperienza sul campo faceva il resto”. Oggi i percorsi per diventare bioinformatico sono cambiati e vi sono alcuni dettagli che rendono più facile PER SAPERNE DI PIÙ orientarsi. “Quando ho

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WWW.AIRC.IT

mplessi

Oggi con un singolo esperimento si arrivano a produrre quantità enormi di dati, impensabili per la biologia tradizionale fatta di provette ed esperimenti al bancone. “Ogni esperimento di sequenziamento di nuova generazione, con il quale studiamo una parte specifica del DNA (i cosiddetti esoni, nei quali sono contenute le informazioni per la costruzione delle proteine), produce anche 600 GB di dati” spiega Lucilla Luzi, bioinformatica presso il campus IFOM-IEO di Milano. “È quindi facile


PROFESSIONI PER LA RICERCA

iniziato a interessarmi a questi argomenti, le possibilità di scelta in Italia per una persona con il mio background non erano molte e, almeno nel nostro Paese, spesso era il caso che ti portava a questa specializzazione” spiega Laura Riva, laurea in ingegneria biomedica e un percorso in bioinformatica partito quasi per caso che l'ha portata a lavorare per quattro anni al prestigioso MIT di Boston, negli Stati Uniti. “Chi si approccia oggi alla bioinformatica ha invece a disposizione tutti gli strumenti necessari per prepararsi al meglio: dai corsi di laurea specialistica, ai master e ai molti centri che si occupano di bioinformatica presso i quali svolgere la propria tesi e iniziare a mettere in pratica le nozioni imparate dietro ai banchi”. Quasi tutte le facoltà scientifiche delle principali università italiane prevedono corsi di bioinformatica e c'è anche la possibilità di iscriversi a dottorati su questi nuovi aspetti della biologia, come per esempio, quello in biologia computazionale inserito da un paio d'anni tra i corsi di dottorato della SEMM (Scuola europea di medicina molecolare) all'interno del campus IFOM-IEO di Milano, dove Laura Riva lavora dopo essere rientrata in Italia.

suo interno biologia e informatica (e statistica, matematica eccetera) hanno la stessa importanza. “Non si può pensare che una delle due scienze sia superiore all'altra” conferma Luzi. “Ogni bioinformatico che si rispetti deve possedere sia nozioni informatiche, sia competenze nelle scienze della vita, anche se poi, a seconda dei progetti di ricerca nei quali sarà coinvolto, si orienterà più in un senso o nell'altro”. La bioinformatica è anche la scienza della collaborazione e della condivisione. Biologo, bioinformatico e informatico puro lavorano a stretto contatto per poter ottenere i risultati migliori. “In questo modo ci si stimola a vicenda” dice Riva. “Si mettono insieme punti di vista anche molto differenti e si trovano soluzioni e spunti ai quali il singolo magari non penserebbe”. E la collaborazione e la condivisione tipiche di questa nuova scienza si sentono anche su scala mondiale. “La comu-

La macchina può simulare con successo i sistemi biologici

Parità tra le scienze e tanta collaborazione La bioinformatica è una scienza di “pari opportunità” nel senso che al

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nità scientifica internazionale mette a disposizione i dati grezzi ottenuti nei singoli esperimenti” spiega Luzi. “È una ricchezza enorme, che permette di unire, analizzare e confrontare una quantità di dati impossibili da raccogliere in un singolo centro di ricerca, in progetti che gli esperti chiamano metanalisi”. Si pensi per esempio a un esperimento che studia l'espressione dei geni in un tumore raro: ogni istituto di ricerca che si appresta a iniziare un simile lavoro potrà raccogliere solo pochi campioni da analizzare, proprio a causa della rarità della malattia, ma i ricercatori possono utilizzare anche i dati prodotti da altri centri nel resto del mondo “semplicemente” interrogando le banche dati nelle quali queste informazioni vengono immagazzinate. Ovviamente si tratta di operazioni che possono essere svolte solo da un esperto capace di scegliere e “lavorare” i dati in modo corretto applicando i programmi giusti e le tecniche di statistica più sofisticate. “Il computer può oggi simulare il funzionamento di sistemi biologici complessi e facilitare molto il lavoro del ricercatore. Possiamo persino prevedere se una certa terapia funzionerà o meno in alcuni tumori sulla base della sua capacità teorica di interferire col meccanismo che stiamo simulando” conclude Riva. “Certo, non si può saltare completamente la fase di sperimentazione in vivo, ma si parte decisamente avvantaggiati”.

COME SI DIVENTA… BIOINFORMATICO. ome appare chiaro anche leggendo le testimonianze di chi già lo fa di lavoro, bioinformatico si può diventare attraverso lauree molto diverse: quella in informatica ma anche quella in biologia e in ingegneria biomedica. Alcune università hanno invece istituito una laurea magistrale apposita (trovate l’elenco completo nella sezione “education” del sito della Società italiana di bioinformatica – bioinformatics.it). Altri percorsi possibili, anch’essi elencati sul sito, sono: il conseguimento di un master di specializzazione o di un dottorato di ricerca; la partecipazione a scuole di formazione professionale che rilasciano attestati (per chi ha già una delle lauree richieste).

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RICERCA IFOM Istituto FIRC di oncologia molecolare

In questo articolo: cellule dendritiche immunità e tumori Eps8

La proteina che paralizza le difese immunitarie Le cellule dendritiche, che hanno il compito di combattere le infezioni e i tumori, devono potersi muovere per agire, sempre che funzionino bene le proteine chiave del processo a cura della REDAZIONE i sono cellule, nel nostro organismo, che per difenderci da infezioni e tumori devono spostarsi nei tessuti e negli organi. Sono le cellule dendritiche, elementi preziosi del sistema immunitario che devono la loro capacità mobile principalmente a una proteina, l’actina, già nota da tempo. Ora un gruppo di ricercatori del Campus IFOM-IEO guidati da Giorgio Scita e Maria Rescigno ha scoperto che oltre all’actina gioca un ruolo importante una seconda proteina, nota col nome di Eps8. Le cellule dendritiche, infatti, si adattano molto facilmente ai diversi microambienti in cui si trovano ad agire grazie alla proprietà di cambiare forma e di spostarsi utilizzando una sorta di “tentacoli” chiamati pseudopodi. Per formare gli pseudopodi, che hanno al loro interno uno scheletro di actina, hanno però bisogno che la proteina Eps8 sia presente e attiva.

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Difese sopraffatte “In modelli sperimentali privi di Eps8, le cellule dendritiche sono letteralmente paralizzate” spiega Scita. “Ve-

dono il pericolo, che sia un batterio, un virus o una cellula tumorale, ma non riescono a muoversi per combatterlo”. In sostanza, quelle che sono le sentinelle del nostro sistema immunitario, in grado di avvertire le “centrali di comando” dei nostri sistemi di difesa della presenza di una minaccia si trovano praticamente prive di armi, dal momento che non possono spostarsi. La scoperta è tutt’altro che accademica, perché il sistema immunitario è in prima linea anche nella battaglia contro il cancro, eliminando moltissime cellule cancerose isolate che si formano quotidianamente nell’organismo e che vengono neutralizzate prima che possano fare danni. Proprio queste cellule, però, sviluppano diverse strategie per sfuggire alla sorveglianza immunitaria: alcuni tumori inibiscono proprio i processi di migrazione delle cellule dendritiche, attraverso un meccanismo non ancora chiaro.

Elemento chiave “La proteina Eps8 si è rivelata un elemento chiave per la risposta immunitaria” continua Rescigno. “Senza di lei le cellule dendritiche sono incapaci di svolgere il proprio

IFOM, Istituto di oncologia molecolare della Fondazione italiana per la ricerca sul cancro, può continuare a crescere nella sua attività scientifica d’avanguardia grazie a quanti sostengono concretamente la Fondazione. Dai anche tu il tuo contributo e senza versare denaro. Come? Aggiungi un piccolo lascito nel tuo testamento, è facilissimo. Se vuoi ulteriori indicazioni vai sul sito www.fondazionefirc.it o telefona allo 02 79 47 07. Grazie!

LA RICERCA IN BREVE Cosa si sapeva I dendriti sono cellule del sistema immunitario coinvolte nella difesa da infezioni e tumori Per agire devono muoversi all’interno dell’organismo Per muoversi hanno bisogno di creare uno scheletro di sostegno grazie a una proteina, l’actina Cosa aggiunge questo studio L’actina è regolata da un’altra proteina chiamata Eps8 In mancanza di Eps8, la cellula dendritica non è in grado di muoversi L’inattività di Eps8 basta, da sola, a bloccare la risposta immunitaria contro il tumore

compito”. La scoperta ha meritato la pubblicazione sulla prestigiosa rivista Immunity e consente di verificare ora se Eps8 è coinvolta nella genesi dei tumori resistenti al sistema immunitario: se ciò verrà dimostrato, i ricercatori avranno a disposizione un bersaglio importante per agire sulle difese naturali del paziente e per combattere il tumore dall’interno.

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ATTUALITÀri Donne e scienza

Sempre più numerose ma ancora poche sulle vette Le ricercatrici nelle discipline scientifiche sono in aumento, ma non si assiste ancora a una crescita corrispondente delle figure dirigenziali: colpa del pregiudizio di genere che premia i tratti caratteriali più maschili

a cura di DANIELA OVADIA e ne è accorta anche la Comunità europea, che col recente programma di finanziamenti per il prossimo quinquennio ha inserito tra i suoi obiettivi l’incentivazione delle carriere femminili nella ricerca: le donne sono entrate a pieno titolo nei laboratori ma ancora faticano a prenderne il controllo. Ovvero: i camici rosa sono tanti tra chi mette le mani in pasta, mentre sono pochissimi nelle stanze dei bottoni. Perché accade ciò? Esistono forse elementi concreti (sociali, organizzativi, psicologici) che fermano le carriere femminili nella scienza? Gli studi sociologici e psicologici che mettono in

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luce i punti critici del rapporto tra donne e scienza (e ricerca in particolare) non mancano, ma spesso si limitano a fotografare un dato di fatto, piuttosto che segnalare ciò che va cambiato. “La situazione è diversa da Paese a Paese, anche se in tutto il mondo si verifica una discrepanza tra il numero delle scienziate che raggiungono i vertici della ricerca e quello che ci si potrebbe attendere sulla base di semplici dati statistici” spiega Elena Gagliasso, docente di filosofia e scienze del vivente all’Università La Sapienza di Roma, da sempre dedita allo studio degli stereotipi di genere nella scienza. “La spiegazione più convincente, dal punto di vista sociologico, è quella che

Molti gli incentivi per chi promuove la carriera femminile

COGNITIVAMENTE UGUALI

Elizabeth Spelke, psicologa cognitivista dell’Università di Harvard, è nota per i suoi studi sullo sviluppo delle abilità cognitive nei bambini ma anche per alcune discussioni teoriche piuttosto accese con alcuni colleghi che sostengono

l’esistenza di differenze tra cervello maschile e cervello femminile. “Nessuno scienziato dirà mai che il cervello maschile è meglio di quello femminile, al massimo dicono che è diverso. In questa diversità, però, attribuiscono al maschio alcune

competenze più ‘pregiate’ sul mercato del lavoro, e alle donne le competenze più legate alla sfera emotiva, delle relazioni sociali e dell’accudimento. Peccato che non ci siano studi seri a sostegno di questa suddivisione: gli uomini non sono più razionali e le donne non sono più emotive; i maschi non sono più portati delle femmine per la matematica, così come non è vero che le femmine scrivono meglio dei


In Italia esiste l’Associazione Donne e Scienza, fondata da docenti e ricercatrici di tutte le discipline scientifiche per promuovere la presenza femminile nella scienza. “Alcuni anni fa una delle fondatrici dell’associazione, la chimica torinese Bice Fubini, mostrò alcuni studi secondo i quali i tratti caratteriali e comportamentali che sono tradizionalmente attribuiti al genere femminile e al genere maschile non sono distribuiti in modo uniforme nella popolazione. Ci sono donne molto femminili e donne molto maschili, così come ci sono uomini più femminili e uomini più maschili. Gli studi sociologici dimostrano

che fanno carriera nella scienza le donne con tratti caratteriali tradizionalmente attribuiti ai maschi, come indipendenza, ostinazione, carrierismo, aggressività, capacità di farsi avanti in prima persona. Anche tra i maschi vengono privilegiati coloro che mostrano in modo più spiccato di possedere questi tratti. E persino quando c’è una donna al comando, questa tenderà a reclutare più maschi che femmine perché è lei stessa vittima del pregiudizio. In sostanza si tratta di un meccanismo di potere che dipende dal fatto che la scienza è stata dominata dagli uomini per secoli, per cui si fa fatica a riconoscere, in questo ambito, il valore di comportamenti e atteggiamenti tipicamente femminili”. I passi avanti, però, ci sono stati, come dimostra il rapporto pubblicato l’anno scorso dall’American Association of University Women (AAUW), una delle più antiche società scientifiche “al femminile”, nota per aver condotto nel 1885 una ricerca volta a dimostrare che lo studio della scienza non era in alcun modo lesivo della salute delle donne, un pregiudizio all’epoca molto radicato. Il gentil sesso oggi sceglie (sebbene meno degli uomini) le facoltà scientifiche e si dedica spesso alla ricerca, anche quella di base. È più facile, però, che rinunci a fare carriera o che non possa (o non voglia) affrontare i sacrifici e i trasferimenti che una carriera scientifica impone. Questa è la principale ragione per cui, nella fascia medio-alta della scienza, tra chi è professore o chi conduce un gruppo di ricerca, le donne sono meno rappresentate di quanto ci si potrebbe aspettare. “Perché cosi poche?” si intitola infatti il

maschi. Ciò accade, quando accade, perché la pressione sociale è più forte della natura, che fa partire tutti da posizioni uguali”. Spelke ha condotto alcuni esperimenti sull’apprendimento della matematica nelle ragazze, dimostrando che in generale hanno risultati inferiori a quelli dei ragazzi a meno che non vengano esposte, prima della prova, a filmati sulla vita di brillanti donne matematico. “Basta

rafforzare l’autostima delle donne perché le loro prestazioni siano assolutamente comparabili a quelle dei maschi anche in ambiti nei quali, tendono a essere inferiori. Cosa serve di più per dimostrare che le ragazze, oggi, hanno bisogno di modelli, di altre donne scienziato che non abbiano rinunciato alle loro prerogative femminili ma che possano essere loro di ispirazione?”.

In questo articolo: donne e scienza ricerca pregiudizi di genere

punta il dito sul meccanismo della cooptazione, cioè sul modo con cui si viene scelti per entrare in un laboratorio e poi per fare carriera, al quale si uniscono i pregiudizi che tutti hanno (anche le donne) su quelle che dovrebbero essere le caratteristiche di personalità di un bravo scienziato”. In sostanza, finché il candidato viene selezionato solo sulla base della sua proposta di ricerca (come avviene con i grant di AIRC), le donne non subiscono discriminazioni. Quando però la scelta di chi va avanti dipende anche dalle relazioni sociali, e non solo da pure considerazioni di merito, i nodi vengono al pettine.

I tratti vincenti

rapporto 2010 dell’AAUW che fa notare come il numero di laureate in materie scientifiche dal 1966 al 2010, negli Stati Uniti, non abbia fatto altro che crescere (anche se rimane troppo basso nelle cosiddette scienze dure come fisica, informatica e ingegneria) mentre il numero dei maschi è rimasto stabile. Nello stesso tempo, però, anche laddove, come nelle facoltà di biologia, il numero dei laureati donna eguaglia o quasi quello degli uomini, la percentuale femminile crolla tra i dottorandi di ricerca e diminuisce ulteriormente nelle fasi successive della carriera.

La scienza è parte della società “Credo che le donne arriveranno alla parità anche nella scienza, ma non possiamo dimenticare che è impossibile evolversi in un ambito se tutta la società intorno non si evolve nella stessa direzione” spiega Gagliasso. “Quando ci si chiede perché ci sono così poche scienziate famose nel XIX secolo o perché ci sono così poche donne premi Nobel, bisogna ricordare che il voto femminile è arrivato solo nella prima metà del Novecento, mentre l’abitudine a lavorare fuori casa è diventata tale nel secondo dopoguerra e ancora non si è del tutto radicata. La scienza non è avulsa dalla società, ma vive al suo interno e quindi ne riflette i limiti e i progressi”. Perché non stare ad aspettare che le cose si evolvano da sole, allora? La risposta viene dall’Unesco, che nel suo rapporto sulle differenze di genere nelle professioni intellettuali afferma: “Negare alla scienza l’apporto dell’intelligenza femminile significa impedire a metà del genere umano di contribuire efficacemente alla risoluzione dei grandi problemi del presente”. In sostanza, rendere la vita delle scienziate più complicata di quanto già non sia per i loro colleghi maschi significa privare la società di competenze che pure sono costate alla collettività, oltre che alle dirette interessate, fatica e denaro.

Anche le donne hanno pregiudizi che vanno combattuti

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LASCITI Chi ha scelto di sostenere FIRC

Il violino e la ricerca In sala e in laboratorio suona la stessa musica a cura di VIOLETTA DEMARCHI l talento non basta, senza altruismo. Questo afferma Salvatore Accardo, grande violinista che ha scelto di sostenere FIRC per investire nel futuro “Il musicista è come un ricercatore, non finisce mai di indagare, interpretare, scoprire. Può suonare centinaia di volte la stessa sonata e incontrerà sempre nuovi aspetti, così come chi fa ricerca sperimenta costantemente tecniche e trattamenti”. Salvatore Accardo è un convinto sostenitore di FIRC, la Fondazione italiana per la ricerca sul cancro, e per questo ha scelto di destinarle un lascito con il proprio testamento. Tra i maggiori violinisti contemporanei, ha appena compiuto 70 anni e suona da quando ne ha aveva tre, età in cui ha imbracciato il violino per la prima volta scoprendo un compagno di vita che non ICERCA avrebbe più abbandonato, E STUDIO per inseguire con amore e deDELLA dizione il proprio talento. MUSICA SI Nella sua lunga carriera ha SOMIGLIANO accumulato soddisfazioni e riconoscimenti ininterrotti da quando, a 17 anni, ricevette il premio Paganini. È anche felicemente sposato con una ex allieva, da cui tre anni fa ha avuto due gemelline. Critica il divismo di alcuni suoi colleghi, ritiene siano importanti l’altruismo e l’umiltà. Credergli è facile, perché sono valori che trapelano da tutte le sue affermazioni. Così ha

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UN LASCITO PER LA RICERCA scelto di sostenere la ricerca contro il cancro, destinando nel testamento una parte dei propri beni a FIRC e alla ricerca che questa promuove, e ha voluto essere testimonial della campagna che invita a fare lo stesso. Un gesto importante, che lui spiega come un investimento sul futuro, dei giovani in generale, ma anche delle sue due bimbe. Nella vita e nel campo musicale, per Accardo le nuove generazioni vengono prima di tutto. Quindici anni fa ha dato vita all’Orchestra da camera italiana, i cui componenti sono tutti suoi allievi o ex allievi nei corsi della Fondazione Stauffer di Cremona. “Sostengo FIRC perché fa un lavoro indispensabile, ma anche perché apre le porte lavorative ai giovani e ne promuove l’eccellenza, così come io cerco di fare con l’orchestra. Per me è un orgoglio dare lavoro a ragazzi capaci in una situazione economica catastrofica, dove i migliori per lavorare devono andare all’estero”.

Lei è molto altruista. Quelli che hanno avuto la fortuna di nascere con un talento devono usarlo anche per gli altri. Firmare un lascito testamentario a favore di FIRC, che fa davvero tanto, è un dovere che tutti dovrebbero sentire, anche se non si conosce direttamente la malattia.

Nel suo impegno per FIRC c’entra l’amore per le sue bambine? Certo, voglio investire in un domani migliore per loro, i nostri figli sono il nostro futuro. In quanto musicista sono molto sensibile, ancor di più da quando ho avuto questo dono. Veder nascere la vita fa pensare alla sofferenza degli altri.

La musica può alleviarla? La musica è terapeutica, è provato. Esiste un istituto di ricerca che aiuta i bambini con sindrome di Down facen-

hi sono gli eredi e come vengono stabiliti? Quali sono le quote di riserva a favore dei figli e del coniuge? Come si redige un testamento?

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Effettuare un lascito testamentario è molto semplice: – testamento olografo: basta scrivere su un foglio di proprio pugno cosa si vuole destinare (per esempio una somma di denaro) e a chi, datarlo e firmarlo. Il testamento potrà essere poi affidato a una persona di fiducia o a un notaio; – testamento pubblico: viene ricevuto dal notaio alla presenza di due testimoni e poi custodito dal notaio stesso. Con la Guida al testamento, aggiornata secondo le leggi vigenti, effettuare un lascito testamentario è diventato un gesto semplice. E lo può diventare per tutti: basta richiederla gratuitamente contattando tel. 02 79 47 07 www.fondazionefirc.it


do loro ascoltare Mozart come l’avrebbero sentito prima della nascita, nella pancia della madre. Un suono impressionante, io sono rimasto scioccato per giorni. E trent’anni fa ho “conosciuto” un cavallo vincente che nel suo box ascoltava continuamente le Quattro stagioni di Vivaldi.

Qual è la sua terapia musicale personale? Non ascolto musica, piuttosto vi sono sempre immerso per studiare le partiture in vista dei concerti. Ma confesso che quando ho bisogno di rigenerarmi o sono arrabbiato entro nella stanza delle mie figlie: mi danno montagne di energia.

Davvero non si concede mai un ascolto disimpegnato? A volte ascolto i grandi violinisti e direttori del passato. Mi fa sempre riflettere come un tempo nella musica classica non esistesse lo star system. I grandi dimostravano signorilità nell’interpretazione e nell’esecuzione, mentre oggi molti musicisti pretendono che la musica sia al loro servizio, non viceversa.

Quando era giovane ascoltava solo i classici? Amavo molto i Beatles. E Mina, la trovavo fantastica.

Allora c’è spazio anche per “altra” musica… Certo, ne esiste di bella e brutta in ogni genere. Però il mio sogno è che si arrivi a dare a tutti l’educazione musicale con cui scegliere cosa ascoltare, mentre oggi in Italia non è così. Mi fa rabbia, con la nostra storia musicale, perché per cambiare le cose basterebbe dare lavoro ai tanti insegnanti disoccupati, in gran parte giovani e molto preparati.

C’è anche chi vede nelle contaminazioni un modo per avvicinare i giovani alla “buona” musica. Lei ci crede? No, anche perché molte sono orrende, a volte musicisti classici che non

Sostengo FIRC perché investe sui giovani sono validi vi si riciclano e chi non conosce a fondo la materia pensa che quella sia musica buona. Cimentarsi in una materia che non è la propria crea degli obbrobri. Pensi se i Beatles si fossero messi a suonare Mozart, se lo immagina?

Veramente no. Ma come fa lei, a 70 anni compiuti, ad avere tutto questo entusiasmo? Quello che faccio mi dà energia e amore, è un continuo dare e avere, come nella vita. E ho l’obiettivo di insegnare ai miei allievi l’umiltà, la serietà e il rispetto. Noi suoniamo come siamo, ha sempre detto il grande violinista David Ojstrach. Fare musica da camera, per esempio, permette di capire dove finisce la propria libertà e dove inizia quella degli altri. Se nella vita succedesse la stessa cosa, il mondo sarebbe migliore.

Spera in una carriera musicale per le sue figlie? Saranno libere di scegliere, ma certo

avranno un’educazione musicale. Ascoltano musica sin da prima di nascere, perché anche mia moglie è violinista. Soprattutto amano lo Schiaccianoci, e il Lago dei cigni, perché la parte visuale le affascina.

Se la sua vita diventasse un film, quale ne sarebbe la colonna sonora? Forse Mozart, perché trasmette gioia, emozione e serenità. Era un bimbo di sette anni quando ha iniziato a suonare e a poco più di 30 anni è morto. È una musica che piace a grandi e piccoli, infatti.

E della “sua” Juventus, cosa pensa? La mia Juventus! Sta lavorando con grande serietà e umiltà, sono convinto che quando ci sono questi due ingredienti i risultati arrivino. Nella musica, nello sport, nella vita. Se continua così, può anche darsi che all’inizio i riscontri siano in parte negativi, ma poi saranno tutte soddisfazioni.

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RECENSIONE Storie di ricerca

Henrietta “ arriva in Italia

a cura di FABIO TURONE utte le volte che vado da un dottore per i controlli dico che HeLa era mia madre. Loro sono tutti entusiasti, e mi dicono che le sue cellule hanno aiutato a fare le mie medicine per la pressione e le mie pillole per la depressione, e che tutte queste scoperte importanti della scienza sono successe grazie a lei. Ma non mi spiegano mai niente, solo cose del tipo sua madre è andata sulla luna, è stata nelle bombe nucleari, ha fabbricato il vaccino della polio. Davvero non so come ha fatto tutto questo, ma in un certo senso sono contenta, perché significa che sta aiutando un mucchio di gente. Penso che le farebbe piacere. Però ho sempre pensato: che strano, se le cellule di nostra madre hanno fatto tanto per la medicina, com’è che la sua famiglia non può permettersi le visite mediche? Non ha proprio senso”. Sono le parole di Deborah Lacks, figlia della donna nei confronti della quale la ricerca sul cancro sarà sempre debitrice, intervistata per lunghi mesi dalla giornalista scientifica americana Rebecca Skloot per un libro che è stato uno dei più grandi successi editoriali americani del 2010, appena pubblicato in italiano: La vita immortale di Henrietta Lacks (Adelphi, 424 pagine, 26 euro). Il libro, che è stato a lungo tra i best seller del New York Times, è il frutto commovente di un lavoro decennale con cui la Skloot ha ricostruito la storia emblematica di queste cellule che dagli anni Cinquanta

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Ne avevamo parlato più di un anno fa, quando il libro era uscito negli Stati Uniti. Ora il best seller tratto dalla vita della donatrice (inconsapevole) delle cellule su cui è nata la ricerca sul cancro è stato finalmente tradotto

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In questo articolo: Henrietta Lacks libri cellule HeLa

hanno permesso un progresso enorme della ricerca biologica, della donna di colore – discendente di schiavi – cui erano state prelevate senza alcuna richiesta di consenso, e della sua famiglia più volte invitata a collaborare “per il bene della ricerca” ma sempre lasciata tragicamente all’oscuro (Fondamentale ne ha parlato in dettaglio in un lungo articolo sul numero di aprile del 2010, quando il libro uscì in America). Fino all’arrivo della giovane giornalista americana, che ha voluto offrire al mondo della scienza l’occasione per riconciliarsi con i Lacks.

Una fondazione a suo nome Oggi, a distanza di quasi due anni dalla pubblicazione, la fondazione che la Skloot ha voluto intitolare a Henrietta con una parte dei proventi del libro ha cominciato a erogare i primi finanziamenti per risarcire almeno in parte le vittime della sperimentazione condotta in modo poco attento all’etica e i loro familiari, mentre la star televisiva Oprah Winfrey ha acquistato i diritti del libro e sta girando un film, per permettere a tutti di scoprire chi era la bella, sfortunata e volitiva ragazza a cui dobbiamo le cellule HeLa, formidabile strumento della ricerca anticancro.


IL MICROSCOPIO

Maria Ines Colnaghi

FONDAMENTALE

direttore scientifico AIRC

Anno XXXIX - Numero 5 1 dicembre 2011 -AIRC Editore DIREZIONE E REDAZIONE: Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro - via Corridoni, 7 - 20122 Milano telefono 02 7797.1 www.airc.it - redazione@airc.it Codice fiscale 80051890152 Conto corrente postale n. 307272

Un anno di successi lla fine di un anno di lavoro anche nell’ambito della scienza si tirano le somme. Solo i risultati ottenuti ci possono dire se i fondi che tanti cittadini hanno donato ad AIRC sono stati ben spesi. Le notizie desunte dalla loro analisi sono veramente eccellenti e voglio condividerle con voi tutti riassumendo brevemente alcune delle scoperte fatte dai nostri scienziati, per indicare i grandi vantaggi che potranno riflettersi a breve sui pazienti. Del tumore del polmone sappiamo molto, compresa la difficoltà di cura dovuta soprattutto al ritardo diagnostico. Oggi la diagnosi precoce è in parte possibile mediante tecniche radiologiche avanzate, ma complesse e costose; inoltre le apparecchiature sono disponibili solo in pochi centri. Ma il risultato di un nostro gruppo di ricerca dell’Istituto nazionale tumori di Milano è eclatante: un semplice prelievo di sangue potrà permettere una diagnosi di cancro polmonare con due anni d’anticipo rispetto alle sofisticate diagnosi strumentali di oggi, salvando quindi tante vite. Lo studio è ancora preliminare, ma promettente e rapido. L’obiettivo è la messa a punto di un test che possa essere a disposizione di tutti, specialmente di individui ad alto rischio come i fumatori. Un secondo importante risultato riguarda un particolare tipo di leucemia per la quale i nostri ricercatori hanno individuato il danno del gene che provoca la malattia. La scoperta, avvenuta presso

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l’Università di Perugia, non è solo importante perché permette da subito una diagnosi precisa, ma anche perché la lesione genica trovata è un bersaglio ideale per terapie mirate. Un’altra scoperta notevole riguarda la leucemia acuta del bambino: una proteina nota per la sua capacità di stimolare il sistema immunitario si è dimostrata in grado di inibire, a livello sperimentale, la crescita delle cellule leucemiche. I ricercatori dell’Istituto Gaslini di Genova stanno lavorando senza sosta per tradurre la scoperta in una nuova potente cura. Ancora, un gruppo dell’Istituto superiore di sanità con l’Università Cattolica, la Fondazione Besta e l’Università di Palermo, ha identificato le cellule staminali del cancro, ossia le cellule responsabili della sua crescita e diffusione metastatica. Si è scoperto come nel glioblastoma queste cellule riescono a crearsi le vie di rifornimento indispensabili per moltiplicarsi e diffondersi nell’organismo. Grazie a nuovi farmaci già disponibili si stanno mettendo a punto le strategie per bloccare i rifornimenti e annientare il tumore. Sono solo pochi accenni all’enorme quantità di dati resi disponibili dai finanziamenti AIRC, che in un continuo flusso offrono giorno dopo giorno nuovi e sempre più efficaci modi per affrontare la malattia. E tutto questo grazie ai nostri soci, senza i quali nulla di ciò che ho cercato di riassumere sarebbe mai potuto accadere in un solo anno di lavoro.

Autorizzazione del Tribunale di Milano n° 128 del 22 marzo 1973. Stampa Roto 2000 Casarile (Milano) DIRETTORE RESPONSABILE Niccolò Contucci CONSULENZA EDITORIALE Daniela Ovadia (Agenzia Zoe) COORDINAMENTO REDAZIONALE Giulia Cauda REDAZIONE Martina Perotti, Cristina Ferrario (Agenzia Zoe) PROGETTO GRAFICO E IMPAGINAZIONE Umberto Galli PRODUZIONE Patrizia Brovelli RESPONSABILE EDITORIALE Emanuela Properzj TESTI Giulia Cauda, Agnese Codignola, Violetta Demarchi, Cristina Ferrario, Anna Franzetti, Daniela Ovadia, Martina Perotti, Fabio Turone FOTOGRAFIE Armando Rotoletti (copertina e servizio p. 5), Contrasto, Nanni Fontana, Istockphoto

Fondamentale è stampato su carta Grapho Crystal certificata e proveniente da foreste gestite in maniera corretta e responsabile secondo rigorosi standard ambientali, sociali ed economici.



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