La versione del Guiscardo, Francesco Grasso

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In uscita il 20/7/2018 (1 ,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine luglio e inizio agosto 2018 ( ,99 euro)

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FRANCESCO GRASSO

LA VERSIONE DEL GUISCARDO

ZeroUnoUndici Edizioni


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LA VERSIONE DEL GUISCARDO Copyright © 2018 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-217-1 Copertina: immagine Shutterstock.com

Prima edizione Luglio 2018 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


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PROLOGO LÌXOURI (CEFALONIA), LUGLIO 1085 A.D.

«Vuoi la mia ultima verità? Ho sempre creduto nella menzogna». Il vecchio ripeté la frase. Poi tossì convulsamente. Le mani, dalla pelle giallastra, artigliarono la sponda del capezzale. La barba, lunga e ispida, si macchiò di cremisi. «Cercate di riposare, padre» azzardò il giovane, a disagio. L'altro non diede segno d'avere inteso. Seguitò con gli occhi spiritati, cerchiati di nero, fissi nel vuoto. «La menzogna è l'arma più affilata, figlio. Perché la spada può uccidere il nemico, ma l'inganno può indurlo ad agire secondo i tuoi obiettivi. Sì, io ho sempre creduto nella menzogna, nel suo potere di piegare la realtà e soggiogare le menti». «Voi vaneggiate, padre» sussurrò a denti stretti il giovane. Il bacile di rame specchiò la sua immagine. Era alto, vigoroso, indossava una veste di stoffa ruvida e cuoio con l’insegna ducale, due leoni in campo rosso, ricamato sul petto ampio. D'improvviso il caldo della notte gli parve intollerabile. I contorni angusti dell'abitazione che aveva requisito, giudicandola la più salubre del villaggio, gli diedero un senso d'oppressione. Il giovane raggiunse la bifora e spalancò gli scuri, empiendo i polmoni d'aria esterna. La vista, dal piano rialzato in cui si trovavano, spaziava dalle casupole del borgo alle colline dipinte dalla Luna, lungo i moli del porto e giù sino alla scogliera. L'Adriatico, inquieto, si frangeva contro gli scafi della flotta ancorata in rada. Il giovane poteva sentirne gli spruzzi salmastri. In cielo, la distesa stellata gli parve un'armata schierata sul campo di battaglia. Tornò al letto del vecchio, gli sfiorò la fronte. Scosse la testa, affranto. «La febbre è salita, padre. Manderò a chiamare i medici». L'altro stirò le labbra violacee a mostrare i denti. «Perdi tempo, Boemondo. Conosco i sintomi. Le mie viscere ardono, eppure ho freddo. Non sento le


4 gambe, le braccia non rispondono. Nessun segaossa può salvarmi. Forse la tua matrigna, con le sue erbe, potrebbe. Ma, se fosse qui, sospetterei che il veleno che mi consuma abbia il profumo delle sue dita». Il giovane trasalì. «Tu non morrai, padre. Non qui, non ora. L'esercito attende ordini. Abbiamo un assedio da portare a termine, ricordi?» Il vecchio esitò. Sul viso terreo, per un istante, il rammarico sovrastò il dolore. «Hai ragione, figlio. Non posso chiudere gli occhi. Ho ancora un compito. Te lo devo». Il giovane fece per interloquire, l'altro non glielo permise. «C'è molto di me che tu ignori. Che io solo posso rivelarti. Devo farlo adesso, prima che il respiro venga meno e il fuoco che arde nel mio ventre giunga al cuore». «Padre, non...». «Taci e ascolta. Narrerò di me e non sarò breve. Ma ti prometto che udrai segreti che il duca di Puglia e Calabria non ha pronunziato dinanzi a nessun uomo». Il giovane si morse le labbra, combattuto. Alla fine parve rassegnarsi. Accese una seconda candela, sedette fianco al capezzale, sospirò. «Sia, padre. Come tu desideri». Definendoci barbari ci fate torto. Noi normanni conosciamo la pietà e la misericordia. Quando prendiamo una città, i bambini li uccidiamo senza prima torturarli. Rollone, primo duca di Normandia Prevalere con l'inganno non è meno nobile di sopraffare il nemico con la forza. Roberto il Guiscardo, duca di Puglia e Calabria


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CAPITOLO 1 HAUTEVILLE, 1030-1034 A.D.

Il mio nome è Roberto figlio di Tancredi. Nacqui... Credo fosse il 1024, o il 1025 dalla venuta di Nostro Signore. Non scuotere la testa, Boemondo, ti assicuro che sono lucido. Sappi che sto dicendo la verità, non ho settant'anni come tutti credono… Sin da ragazzo ho tratto vantaggio dal mentire sulla mia età, professandomi più giovane o più vecchio secondo convenienza. Voglio provartelo: mio padre prese in sposa tua nonna Fresenda nel 1024. Ciò significa che, se fossi nato nel 1015 come si dice, sarei un illegittimo. Peggio, tuo nonno avrebbe tradito la sua prima moglie, Muriella, con una consanguinea. Perché le due spose di Tancredi erano sorelle. L’ignoravi? Trattieni lo stupore, Boemondo: oggi scoprirai molti segreti, sui principi e sui demoni; ammesso vi sia differenza tra gli uni e gli altri. Dicevo di mio padre. Conte di Hauteville, vassallo dei duchi di Normandia e servo di Dio, progenie di guerrieri e avo di moltitudini. Aveva i tuoi occhi, il tuo portamento. Credo di averlo amato, anche se non mi dedicava che miseri granelli delle sue clessidre. Il solo figlio che per lui contasse era il primogenito, Serlone lo zoppo. Eppure Tancredi trovò il tempo d'impartirmi un insegnamento essenziale, che serbai tutta la vita. Ricordo quel giorno di mezzo autunno. Le chiome degli alberi erano sanguigne, il vento crepitava, i corvi volavano bassi, l'aria sapeva di crudità salate. La tempesta era sorta all'improvviso, salendo dal mare come un nemico in armi, aveva raggiunto Hauteville prima che potessimo condurre le mandrie al riparo. Il cielo, squarciato dai lampi, aveva un colore che non avevo mai veduto, sembrava un pitale d'ottone in procinto di ruzzolare sul villaggio. Mio padre fece onore al suo nome, “colui che pensa”: capì che le bestie al pascolo si sarebbero disperse. Peggio, che la pioggia le avrebbe sospinte nel fiume, già gonfio sugli argini. Molte sarebbero affogate; non potevamo permetterlo.


6 Ordinò agli uomini di montare a cavallo e di radunare più capi possibile prima di notte. Vidi che sellava Mezzoscudo, il baio preferito, e si preparava a guidare le operazioni. Mi avvicinai per offrirgli aiuto. In quel momento un fulmine si abbatté sul montante della staccionata, pochi passi dai calzari di mio padre. Tancredi rimase illeso, anche se le scintille strinarono i peli della sua barba. Mezzoscudo si lasciò prendere dal panico. Nitrì, si rizzò sulle zampe posteriori, prese a mulinare gli zoccoli in aria minacciando di sfondare il cranio del suo padrone. Io, sgomento, non potevo intervenire. Tancredi riuscì ad afferrare le redini e a trattenere l'animale. Poi gli strinse il muso tra le braccia, cominciò a parlargli. Ne fui sorpreso, soprattutto perché non riuscii a distinguere una sola parola: era come se Tancredi si rivolgesse a Mezzoscudo in una lingua arcana, un dialetto remoto che io non conoscevo. La sua voce, severa ma tranquilla, in breve tempo tranquillizzò il baio, che alla fine smise di dibattersi e si lasciò montare in docilità. Tuo nonno e la sua cavalcatura scomparvero nella tempesta. Solo a sera, quando egli rientrò, potei chiedergli spiegazioni. «Ho visto tutto, padre» dichiarai. «Cosa avete detto a Mezzoscudo, per farlo obbedire? Era la lingua segreta dei cavalli, l'idioma che avete usato? Voglio che me la insegniate». Mio padre sembrò colpito dalla sfrontatezza del mio "voglio". Rise senza contenersi, spruzzando tutto intorno la pioggia che gli aveva intriso la tunica nonostante la cerata. «Sei fantasioso, Roberto, proprio come lamenta tua madre» mi canzonò. Poi tornò serio, mi fissò negli occhi, spiegò. «I cavalli non possiedono lingue segrete, figlio. Reagiscono al tono, alla cadenza delle parole, al suono della voce che li conduce. Non ha importanza con quali sciocchezze li blandisci. Puoi recitare strofe senza senso o cantare versi di aedi, basta che ti rivolga a loro in sicurezza, palesando chiaramente chi impugna le briglie. Se riesci, essi si sentono protetti, ben guidati. E ti obbediscono. Ricordalo, quando verrà il giorno della tua investitura». Mi congedò con aria soddisfatta. Credo fosse contento di avermi reso, in uno dei nostri rari momenti di familiarità, una perla di saggezza. Meditai tutta la notte su quella lezione. Con gratitudine, ma anche con sorpresa. Tancredi aveva mostrato con efficacia la forza della parola. Non capivo perché la riservasse al futile compito di ammansire i cavalli. Il suo vero uso, lo sentivo nell'anima, era ammaestrare allo stesso modo gli uomini. Per comandarli.


7 Decisi di affinare l'uso del linguaggio come già facevo con la picca, confrontandomi con gli altri giovani del villaggio. Lo imponeva il mio retaggio: il figlio di Tancredi doveva essere il migliore. In breve divenni maestro di entrambe le armi. Soprattutto perché, diamine, in Hauteville tutti s'incaponivano a usarle secondo tradizione. Vinsi duelli contro avversari robusti semplicemente spezzando l'asta della mia picca per renderla più maneggevole. O scagliandone la punta per poi, se il lancio non aveva fatto desistere il mio opponente, brandirne il resto come bastone. Stratagemmi che scandalizzavano non solo i giovani con cui mi battevo, ma anche i vecchi guerrieri del villaggio. Allo stesso modo, m'addestrai a usare il linguaggio senza le limitazioni dei miei coetanei. Essi s’ostinavano a pensare che quanto pronunciato da labbra umane dovesse possedere attinenza con la realtà. O che a un annuncio dovesse seguire un'azione. Erano ingenuità, ubbie da sciocchi. Io mi rivolgevo a loro come mio padre aveva affrontato Mezzoscudo: sulla mia lingua le parole danzavano senza significato; le promesse erano esche da pescatore; i giuramenti, nenie per blandire e manipolare. Raccontavo storie, imbastivo fantasie, mescolavo mezze verità a millanterie; fondevo sillabe in frasi così come i musici univano gli accordi in melodie; asserivo quanto il mio interlocutore voleva udire, promettevo in cambio di vantaggi, mantenevo secondo convenienza. Confondevo, irretivo, stregavo con l'eloquio. «Perché racconti tante bugie, Roberto?» protestò un giorno mia madre. Risposi in tranquillità: «Non sono menzogne, ma storie. E sono belle». «Belle?» ripeté lei, disorientata. Io additai gli arazzi che ella, come molte donne di Hauteville, si dilettava a tessere nelle uggiose sere d'inverno. «Le scene che voi intrecciate al telaio, madre, non sono reali. Ma che importanza ha, fintantoché i loro colori deliziano gli occhi degli uomini?». Fresenda comprese fin troppo bene. S'irrigidì. «Sei un wiskard!» accusò. Non avevo mai udito quel termine. Chiesi spiegazioni. Lei tacque. Peggio, non mi rivolse parola per settimane. Tua nonna era femmina di pura tenacità normanna, forte nei propositi e implacabile nei rancori. Di lei ricordo la dedizione con cui si crogiolava in grandi silenzi e piccoli misteri... Non credo avesse mai amato mio padre. Aveva accettato di sostituire Muriella nel talamo di Tancredi quando le febbri avevano preso la sorella maggiore, solo perché Hauteville aveva


8 bisogno di una domina e gli orfani di Muriella d’una madre. Ma viveva quel matrimonio col cognato, ben più anziano di lei, come l'espiazione di una colpa che aveva ereditato, non commesso. Coi figli era ombrosa, taciturna, distante. L'unico per cui palesasse affetto era l'ultimo nato, tuo zio Ruggero. Per lui provava devozione sincera, il fervore protettivo della chioccia verso il pulcino. Alla luce del sole si professava cristiana. Ma in seno continuava a venerare gli antichi dèi, i numi che solo una generazione prima la nostra gente aveva rinnegato per il Vangelo. Un giorno, mentre era al fiume con le mie sorelle, forzai la sua cassapanca. Dentro scoprii tavolette dipinte, forse opera della stessa Fresenda. Vi erano raffigurati i sacri corvi di Odino, Thor delle tempeste, il carro di Freya trainato da pariglie di gatti, altre figure che non conoscevo. Un'icona, in particolare, attirò la mia attenzione. Vi campeggiava una divinità maschile in armatura a scaglie e manto color delle lucertole. Aveva il capo cinto da un elmo dalle lunghe corna ricurve; sul viso glabro, quasi femmineo spiccava un ghigno inquietante, beffardo. Quel dipinto m'affascinò. Rimasi a contemplarlo finché Fresenda, di ritorno, mi sorprese con le mani ancora a frugare nella cassapanca. «Loki il wiskard» spiegò senza nascondere il fastidio per l'intrusione. «Figlio dei Giganti e padre del Lupo». Io sussultai, riconoscendo l'epiteto che Fresenda mi aveva rivolto, facendolo suonare come un insulto, mesi prima. «Parlatemi di lui, madre». Lei esitò. Capii che era combattuta tra la consegna del silenzio sulla vecchia religione, impostole dai preti, e il desiderio di farmi partecipe dei suoi veri convincimenti. Alla fine cedette. «Era un dio malvagio. Maestro di doppiezza e cesellatore d'inganni. Mentiva, tradiva, spergiurava agli dèi così come agli uomini. Sapeva mutarsi in cervo, in delfino, in gabbiano e in ragno. In quest'ultima forma, la sua preferita, filava tele magiche in cui impastoiava le prede, e da cui nessuno, mortale o nume, poteva liberarsi. Ecco perché, oltre che "Wiskard", veniva chiamato "Tessitore". Le leggende dicono che fu lui a donare ai normanni le reti da pesca». «Che malignità vedete in un regalo così prezioso?» osservai, perplesso. Fresenda scosse il capo. «Un dono avvelenato. I nostri antenati erano avvezzi a cacciare in mare con audacia, armati solo d'arpione e di coraggio. Oggi, grazie alle reti, si cattura il pesce con l'inganno. Non vi è più onore, per i pescatori: Loki li ha resi simili a sé». «Non capisco, madre» ammisi.


9 Lei accostò il suo viso al mio, ridusse la voce a un sussurro. «Bada, Roberto. Sei un fanciullo, dinanzi a te si stende un lungo cammino. Scegli attentamente la tua strada, perché il percorso che giudichi semplice può invece farti smarrire. Se anche ti conducesse più rapidamente alla meta, a che varrebbe, se nel cammino tu perdessi virtù e onore? Se, per battere la pista che credevi agevole, tu dovessi calcare le orme di Loki?». Io tacqui. Fresenda intuì di non avermi convinto. Così, dopo avermi fatto riporre le icone nel baule e averlo richiuso con cura, sedette e mi ordinò d'imitarla. Indi mi narrò lungamente le nequizie commesse da Loki. Concluse rivelandomi l'orribile supplizio cui il saggio Odino, alla fine, aveva condannato il malvagio wiskard. Nei meandri più profondi del Niflheimr, spiegò, il reame oscuro al centro della Terra, si apriva una grotta. Laggiù, disse, Loki venne legato nudo a tre rocce aguzze, con corde ricavate dalle budella di Narvi, il suo stesso figlio. Sulla volta della caverna si trovava un enorme serpente; dalle fauci del rettile, bava velenosa colava lentamente sul petto di Loki. Sigyn, sposa del wiskard, raccoglieva le stille di veleno in un bacile di peltro, evitando così che esse toccassero il corpo del marito. Ma quando il bacile si riempiva, Sigyn doveva allontanarsi per vuotarlo. E allora il liquido, che continuava a gocciolare, bruciava orribilmente la pelle di Loki. Il wiskard si torceva dal dolore, scotendo le corde e provocando terremoti nelle contrade degli uomini... Così in eterno. Finsi spavento. Dovetti essere convincente nella mia recita, perché Fresenda parve soddisfatta. Mi lasciò andare. Corsi via. Da quel giorno mi tenni alla larga dalle reliquie di mia madre, non ne parlammo più... Per anni pensai che Fresenda avesse voluto narrarmi la leggenda di Loki come monito, per mettermi in guardia sulla fine atroce che attendeva, senza speranza di remissione, chi indugiava sulla strada della menzogna. Oggi, Boemondo, so che non era così. Inerme su questo pagliericcio puntuto come le rocce del Niflheimr, un giaciglio cui mi tieni avvinto coi legacci della tua apprensione di figlio, io sento la bava del serpente gocciolarmi addosso e ardo di dolore. Mia moglie, che come la fedele Sigyn avrebbe il potere di salvarmi dal veleno, è lontana, mi ha lasciato a fronteggiare il destino. E allora capisco. Il sermone che quel giorno, nell'algida Hauteville dalle colline cinte di nebbia, Fresenda mi rivolse non era un monito. Era una profezia.


10 *** Il giorno in cui tua nonna mi narrò di Loki per la prima volta fu anche l'ultimo della mia infanzia. Qualcosa in me era mutato per sempre. Fresenda aveva voluto suscitare la paura nel mio cuore, ma aveva ottenuto solo di fomentarmi. Quando, dinanzi a nuove bugie, mi tacciò ancora d'essere un wiskard, ne provai orgoglio. Feci in modo che quell'epiteto circolasse tra i ragazzi di Hauteville, tra cui stavo divenendo un capo. Wiskard, o "Guiscardo", fu il soprannome con cui comandai d'essere chiamato. Credo che in quei giorni sognassi veramente di calcare le orme di Loki, proprio come diceva mia madre. «Farsi cervo o delfino» sognavo a voce alta. «Mutare le proprie fattezze a volontà, gettare fumo negli occhi dei nemici... Che potere glorioso! Se lo possedessi, sangue di Giuda, il mondo sarebbe mio». Nell'udire quelle fantasie, Ermanno, il primo tra i miei seguaci, si schermiva spaventato dietro il segno della croce. «Tu bestemmi, Roberto. Solo Dio può tanto, lo sanno anche i gatti». «Taci, stupido» ribattevo sprezzante. «L'Uomo del nord può tutto, se vuole. E io sono Roberto Guiscardo figlio di Tancredi, la mia volontà spiana le montagne. Lo vedrai, lo vedrete tutti». Lui esitava, si mordeva le labbra per non replicare, alla fine cedeva alla soggezione. E taceva. Ermanno era un adolescente, tre o quattro anni più grande di me. Aveva il naso storto, occhi tondi, ricci crespi color dell'autunno. A dispetto dei miei insulti, non era affatto uno sciocco. Abile con spada e scudo, assetato di gloria come ogni cadetto di sangue normanno, riusciva a seguire molti dei miei discorsi, vi si riconosceva. Soprattutto aveva scorto in me il seme della grandezza. Me lo aveva confidato in umiltà, offrendosi di seguirmi ovunque io avessi voluto condurlo. Non so se eravamo amici allora, né se lo diventammo poi. Ma è uno dei pochi uomini che ho stimato nella vita. È per questo che è riuscito a servirmi così a lungo. E che non ho mai voluto ucciderlo, neppure quando, come tanti prima e dopo di lui, finì per deludermi. Lo scetticismo di Ermanno, quella volta, suonò in me come una sfida. Che io sentii di dover accettare. La favella, Boemondo, è l'unica arma che s'affila con l'uso. Io trovai un novello modo di brandirla. Mi addestrai a imitare la voce di chi conoscevo. Fu arduo: non avevo raggiunto la pubertà, la mia lingua suonava ancora infantile. Soprattutto, per quei tempi, l'intuizione che m'aveva colto era sconosciuta: i cacciatori di palude fischiavano il richiamo dei tordi, i


11 mandriani schioccavano le labbra in eco ai versi del bestiame, gli anziani che intonavano ballate dinanzi al fuoco soffiavano per evocare il vento e battevano le nocche a emulare la pioggia. Ma nessuno immaginava che forzando gola e labbra si potesse fingere d'essere chi non si era. Io, diamine, vi riuscii. Ascoltavo con attenzione, coglievo i vezzi, studiavo i dettagli, ripetevo. Feci pratica non solo coi miei concittadini, ma anche coi franchi che popolavano i villaggi oltre la valle. Poi mirai ai benedettini che coltivavano a vite i pochi iugeri di terra fertile lungo le sponde del fiume. Rubai un saio, lo indossai e bighellonai per giorni dentro il monastero, celando il viso nel cappuccio e biascicando sciocchezze nel poco latino che conoscevo. I frati mi smascherarono, naturalmente, ma non prima che io avessi pranzato più volte nel refettorio, dormito in una cella e finanche aiutato il priore a servire messa. Quel giorno capii che i dialetti dei popoli stranieri era un'arma che dovevo saper destreggiare. Giurai a me stesso che avrei padroneggiato il latino, il sassone e il longobardo prima dell'inverno, o non sarei stato degno di farmi chiamare wiskard. *** Col nuovo anno mi sentii pronto. Annunciai a Ermanno che potevo provargli d'essere abile quanto Loki. Spettava a lui, concessi, scegliere come. Ermanno meditò a lungo, decise. Come ti ho detto, Boemondo, egli aveva quattro anni più di me, era già uomo. S'era invaghito d'una giovanetta, tale Tonia, andata in sposa a un contadino l'autunno precedente. Io non la trovavo bella: mi sembrava pingue, goffa, sgraziata come un'anatra zoppa. Ma Ermanno stravedeva per lei, perciò la elesse per la nostra sfida. Dedicai tre giorni a studiare il marito. Era un sempliciotto di nome Aquilino, un bruto che sapeva solo spezzarsi la schiena sui campi e, la domenica, ubriacarsi nelle bettole di Hauteville. Ma era anche follemente geloso della moglie e abile con la fionda, per cui la faccenda non si presentava scevra da rischi. Al successivo giorno dedicato a nostro Signore, io ed Ermanno seguimmo Aquilino alla taverna. Con un pretesto sedemmo al suo tavolo e gli offrimmo da bere. Non lesinai in monete, lo feci saziare col miglior idromele. Quando, barcollante, si alzò e annunciò che doveva tornare a casa, gli andammo dietro.


12 Appena fuori dalla bettola, assicuratomi che nessuno ci scorgesse, gli somministrai una randellata che lo spedì nel mondo dei sogni. Ordinai a Ermanno di trascinarlo fino all'incavo di un olmo, dove nessuno avrebbe potuto trovarlo. Poi corremmo alla sua stamberga. I lumi erano spenti, ma il giorno precedente io avevo spiato l'interno; sapevo come muovermi anche nel buio più completo. Tonia era a letto. Si destò udendoci entrare. «Sono me, moglie» tuonai, imitando il frasario sgrammaticato di Aquilino. La donna non ebbe sospetti. «Aspetta marito, accendo una candela, potrai toglierti gli stivali senza infangare il...». Mi affrettai a sospingere Ermanno verso la sponda del pagliericcio. «Non bisogno luce» annunciai in tono esplicito, «per compiere doveri di sposo». Nonostante l'oscurità, Ermanno fu lesto a denudarsi e a stendersi sul giaciglio. Dietro mio ordine, si era strofinato il torso con fieno e fango di stalla, puzzava proprio come il buon Aquilino. Secondo gli accordi, a tentoni afferrò Tonia ai fianchi, le sollevò il camicione e la inforcò da dietro, per evitare che lei potesse toccarlo e rendersi conto dell'inganno. Tonia gemette, cedendo passivamente alle voglie di chi credeva essere il consorte. Ermanno si servì della contadina lungamente e con soddisfazione. Alla fine si staccò e si rimise in piedi. Io, che avevo trattenuto il fiato tutto il tempo, recitai ancora la parte di Aquilino. «Sentito qualcosa» annunciai. «Mulo nervoso. Vado vedere». Corremmo fuori prima che Tonia potesse reagire. Tornammo alla quercia, prendemmo il villico per le braccia, lo trascinammo sino alla stamberga. Lo lasciammo, ancora privo di sensi, allo stazzo dei maiali. «Si sveglierà all'alba» calcolai. «Non ricorderà nulla. Quando Tonia gli chiederà perché non è tornato a dormire, penserà di aver sbattuto la testa contro la staccionata». A rendere più credibile la ricostruzione, colpii con entrambe le mani uno dei paletti all'altezza della fronte di Aquilino, inclinandolo rispetto agli altri. «Abbiamo finito. Possiamo andare». D'improvviso Ermanno si gettò ai miei piedi. Ne fui sorpreso. Poi capii che solo in quel momento egli aveva realizzato in pieno quanto era accaduto. «Grazie, giovane figlio di Tancredi» mormorò. «Sono stato sciocco a dubitare di te. Tu possiedi davvero l'astuzia di Loki. Perdonami e lascia che ti serva con lealtà. Per sdebitarmi del dono di stanotte e finché vorrai. Te lo giuro». Mi riservai di accettare il suo voto. Ermanno si rialzò. Sparimmo nella notte.


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*** Tornai a casa, ma non riuscii a dormire. Un pensiero mi molestava. Era stato troppo facile. Avevo ingannato una stolida coppia di zappaterra, miseri villici che non avrebbero saputo distinguere la corona d'un re dal grugno di una scrofa. Ermanno, che in fondo era un adolescente dalla fantasia limitata, ne era rimasto strabiliato. Ma io potevo davvero considerarla un'impresa da wiskard? Scossi la testa. Loki avrebbe riso di me. Secondo le storie narratemi da Fresenda, il Tessitore era stato capace non solo d'infilarsi nel letto della nobile Sif spacciandosi per il valoroso Thor, ma persino di giacere con il semidio Baldr impersonandone la moglie Nanna, finanche concependone un figlio. Io non potevo giungere a tanto, ammisi con delusione. Mi vergognai di me stesso, della mia pochezza, dei miei limiti di mero essere umano. Potevo mentire agli altri, non a me stesso. In quel momento mi chiesi cosa stessi facendo. Diamine, ero solo un ragazzo. A che pro baloccarsi con sfide di uomini e dèi? Forse Fresenda aveva ragione: io non ero diverso dal resto dei suoi figli, dagli altri ragazzi di Hauteville, dai contadini sozzi di letame che non levavano mai lo sguardo al cielo. Prima dell'alba, ricordo, pensai seriamente di dimenticare i sogni di grandezza e di tornare coi piedi sul fango della Normandia. Sbagliavo. Allora non potevo saperlo, ma un giorno avrei sedotto, proprio come Loki aveva fatto con Baldr, non un uomo qualunque, ma addirittura un principe di sangue reale. Di più. Avrei commesso sacrilegi, stracciato la veste a un papa, profanato basiliche, arso troni, prevaricato donne, compiuto gesta che avrebbero sbalordito lo stesso Loki, superando soglie d'abiezione che il Tessitore in persona avrebbe esitato a varcare. Perché, lo capii solo anni dopo, da ragazzo a mancarmi non era l'intraprendenza, ma la motivazione. In quegli ultimi scampoli di fanciullezza, lassù tra le brughiere ventose di Hauteville, non possedevo ancora ciò che più tardi avrebbe forgiato la mia ambizione e reso incrollabile la mia risolutezza. Mi mancava un nemico.


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CAPITOLO 2 HAUTEVILLE, 1036 A.D.

Conobbi il mio nemico in un nevoso mese di febbraio. Mio padre era lontano, chissà dove. Aveva condotto con sé i maschi di casa, lasciando a Hauteville solo me e il piccolo Ruggero. Il più giovane dei miei fratelli aveva sei anni. Era un bimbo gracile, piagnucoloso, malfermo sulle gambe e avvinto come edera alle gonne di Fresenda. A quei tempi la sua debolezza mi disgustava. Ricordo che il semplice pensiero di condividere il sangue di quella patetica, tremebonda creatura mi offendeva come un insulto. Oggi devo confessarlo, ero geloso delle attenzioni con cui mia madre lo sommergeva, che a me non aveva mai concesso. Per dirne una, Fresenda aveva convocato dal monastero un benedettino, tale padre Antoninus, affinché gl'insegnasse a leggere e a far di conto. Come se un figlio di Tancredi il Saggio avesse bisogno d'un precettore... Per la maggior parte del tempo mi sforzavo d'ignorare il mio debole fratello. Poi, un giorno, avvenne. Non rammento l'oggetto della disputa: forse un balocco che Ruggero, nella sua ingenuità, credeva gli avessi sottratto; o un dolce che Fresenda gli aveva cucinato e che io avevo distrattamente messo sotto i denti. Fatto sta che, adirato come poteva esserlo un fanciullo di sei primavere, Ruggero m'affrontò. Lo respinsi senza sforzo, naturalmente. Eppure, quell'inaspettato sussulto mi compiacque: fu come rimestare in un focolare spento e scorgere, tra le braci tiepide, il baluginare d'una scintilla. Ruggero, compresi in quel momento, era un tizzone dormiente: una briciola di legno annerito, all'apparenza inutile, ma che affrancata dalla cenere della mediocrità poteva ardere e consumare il mondo. I servi di mio padre m'avevano insegnato come ravvivare il fuoco nella brace. Occorreva battere il tizzone con ferro e pazienza. Nel caso di mio fratello, capii che quel compito spettava a me. Non potevo trarmi indietro: giurai a me stesso che non gli avrei lesinato colpi finché nel suo cuore non fosse divampato il fuoco atavico e folle dei normanni.


15 Perdonami, Boemondo, sto divagando. Non volevo narrarti di Ruggero, bensì del mio nemico. Egli giunse a Hauteville cavalcando nella neve sottile che si disfaceva in guazza. Aveva una scorta di trenta lance e altrettanti famigli intorno, tutti pronti ad accudirlo a prezzo della loro stessa vita. Ricordo che quello spiegamento di forze mi lasciò perplesso. Mi sorprese soprattutto la deferenza con cui i servi di mio padre accoglievano i nuovi venuti. Fresenda, che per l'occasione aveva indossato la veste migliore, aprì le porte e s'inchinò al mio nemico, offrendosi d'ospitarlo nelle stanze migliori della torre. Inventai un pretesto per trarla in disparte e chiedere spiegazioni. Fresenda, che sapeva quanto ci tenessi, in ogni circostanza, ad apparire perspicace, ne sembrò divertita. «Strano che tu non lo abbia riconosciuto» mi canzonò. «Di certo l'hai visto in effigie. E poi pensavo che il Guiscardo sapesse tutto. Non è così che chiocciano i tuoi amici, quando vogliono adularti?». «Io non ho amici» ribattei gelido. «Solo seguaci». Lei scrollò le spalle. «Come preferisci. Sappi che abbiamo l'onore di ospitare Guglielmo, il figlio del duca Roberto. Tuo padre desidera che lo trattiamo col massimo riguardo e che lo preghiamo di trattenersi a Hauteville fino al suo ritorno». Trasalii cogliendo le implicazioni. La successione al titolo, dopo la morte di Riccardo III, fratello del nuovo signore Roberto, era una faccenda sanguinosamente incerta. Rouen, Caux e le altre città ducali erano in ebollizione; nessuna delle fazioni in lotta prendeva prigionieri. D'improvviso capii il motivo della scorta nutrita: il giovane Guglielmo era in fuga, probabilmente braccato. Ciò spiegava anche perché non avessi visto sventolare stendardi. Meno comprensibile era il perché noi Altavilla dovessimo farci coinvolgere nella faida tra i pretendenti al ducato. Mio padre aveva giurato fedeltà a Riccardo III, ma niente c'impegnava a difendere il giovane Guglielmo. Lo feci presente a mia madre. Fresenda scosse la testa. «Ti sbagli, figlio mio. Abbiamo un legame di sangue da onorare. Il duca Roberto non ha concepito Guglielmo con sua moglie, bensì con un'ancella, Harleva di Falaise. E Harleva è mia cugina». Sussultai. Eravamo dunque parenti del futuro duca di Normandia? Per un istante pensai che Fresenda mi stesse canzonando. Poi incrociai il suo sguardo e lessi sincerità.


16 Che io non ne sapessi nulla era plausibile: di certo Roberto il Magnifico disdegnava rivelare che il suo erede era un illegittimo; mia madre aveva nascosto quella parentela per proteggerci. Fino a quel momento. Fresenda si accorse che riflettevo. Si allarmò. «Ora sai cosa c'è in gioco, sei acuto a sufficienza per capire cosa rischiamo. Farai ciò che chiede tuo padre? Tratterai il nostro ospite con discrezione?». «Te lo giuro, madre». Lei mi fissò con severità. Poi, sorprendentemente, rise. «Me lo giuri? Gli dèi ci proteggano, allora». ... Mi tenni a distanza dai nuovi venuti tutto il giorno, limitandomi a spiare i loro movimenti. Il giovane Guglielmo era decisamente più piccolo di me. Doveva avere otto, nove anni al massimo. Quasi coetaneo di Ruggero, dunque. Ma se mio fratello era un pulcino, Guglielmo ricordava piuttosto un implume di gufo. Vestiva di nero; i suoi capelli, del medesimo colore, erano lisci e tagliati a scodella. Il naso era corto e adunco, simile appunto al becco degli uccelli notturni. Nell'insieme il suo viso appariva freddo, indifferente, altezzoso. Lo seguivano due ombre in forma umana. Il primo era un anziano, fisico segaligno, privo d'un occhio. A sentire mia madre si chiamava Turoldo e operava come precettore di corte a Rouen. L'altro era un uomo tarchiato, robusto, dallo sguardo vigile. Mi dissero che il suo nome era Osberno e che veniva da Crepon. Dei due era senz'altro il più pericoloso, decisi. A ora di cena, nonostante che Fresenda avesse fatto addobbare la sala dei banchetti, Turoldo annunciò che il figlio del duca era stanco e intendeva riposare. Mia madre fremette: era un'attestazione d'alterigia al limite dell'insulto. Ordinò ugualmente alle mie sorelle di servire la cena nelle stanze degli ospiti. Attesi che le improvvisate ancelle fossero di ritorno. Poi fermai Beatrice, la maggiore, chiesi notizie. Lei accomodò il velo bianco che le celava i capelli, regolando i fermagli d'osso all'altezza delle tempie. Il figlio del duca, disse, non le era parso spossato. Annoiato, semmai, poco interessato alla nostra compagnia, palesemente insoddisfatto della sistemazione che gli avevamo offerto. Beatrice aggiunse che si era lagnato con Turoldo del fetore che impregnava la torre. Il precettore gli aveva dato ragione, commentando che non potevano aspettarsi di meglio da un buco come Hauteville. Osberno aveva proposto di prendere aria con una passeggiata all'alba, in cerca di pernici o conigli selvatici.


17 «Sangue di Giuda, sono ottime notizie» commentai, mentre un piano prendeva forma nella mia mente. «Perché?» chiese Beatrice. Io sorrisi. «Perché non hanno cani». *** All'aurora mi feci trovare nel cortile della torre. L'aria era frizzante, dai comignoli si levavano fili di fumo sottili come punte di lancia. Il cielo splendeva d'un azzurro assoluto, affrancato di nuvole sino all'orizzonte, ove occhieggiava la bruma. Non attesi a lungo. Guglielmo, Osberno e due armigeri emersero dal cancello principale in ferro battuto, aggirarono con circospezione le pozze di neve sciolta da cui affioravano deiezioni di cavallo, si guardarono intorno senza nascondere il disgusto. Il figlio del duca e la guardia del corpo calzavano alti stivali, giachi di cuoio e giberne da cacciatore. Osberno impugnava un arco, gli altri portavano daghe alla cintola e scudi rotondi legati sulla schiena. Feci guaire l'animale che tenevo al guinzaglio. Osberno lo notò, considerò con attenzione il muso umido da segugio, parve soddisfatto. «Quel cane sa seguire una pista, ragazzo?» apostrofò. «Fenrir? È il migliore» assicurai. «Obbedisce solo a me». «Vieni con noi, allora». Mi lanciò una moneta. «Se scoverà una pernice, ne avrai un'altra». Assentii. Condussi il gruppo verso il bosco, fingendo di farmi trascinare da Fenrir, in realtà seguendo il percorso che avevo definito accuratamente la sera prima. Il terreno, intriso d'acqua gelata in superficie, sosteneva il mio peso e quello di Guglielmo, ma cedeva sotto gli stivali di Osberno e dei due armigeri, gravati da spade e scudi. I tre adulti procedevano faticosamente, la mota fin quasi alle ginocchia. Presto li lasciammo indietro. Sbirciai Guglielmo per scoprire se si fosse reso conto d'essere rimasto solo, alla mia mercé. Il giovane figlio del duca era impassibile. Mi seguiva con aria assente, prestando attenzione solo a che il fango non gli macchiasse troppo il mantello di nobile fattura. Tolsi dalla scarsella una pagnotta, ancora calda di forno, gliene offersi un boccone. Lui rifiutò con un cenno del capo appena percettibile. Poi batté gli occhi come se mi avesse notato solo in quell'istante. «Dove stiamo andando?».


18 Erano le prime parole che mi rivolgeva. La sua voce, dal timbro ancora infantile, era una cantilena monotona, priva di qualunque inflessione. La trovai fastidiosa e sciocca, proprio come il verso del gufo. «Fermati» disse. Non suonava come un ordine, ma non era neppure un'implorazione. Decisi di accontentarlo, se non altro per curiosità. Volevo capire di quale pasta fosse fatto, che tipo di uomo sarebbe diventato. «Il tuo cane non sta seguendo tracce» commentò, più una constatazione che una protesta. «Che facciamo in questo acquitrino, figlio di Tancredi?». Incrociai le braccia. «Mi conosci, dunque...». Lui batté di nuovo le palpebre. Pensai che avesse la vista debole. O forse era un vezzo, un gesto di mera affettazione. Si schiarì la gola e mi bacchettò. «Il congiunto di un vassallo deve rivolgersi a me chiamandomi "signore" e dandomi del voi». L'alterigia che ostentava nel tono e nei gesti m'innervosì. Non capivo se era sicuro di sé oppure se la giovane età gl'impediva di rendersi conto della situazione. Decisi di provocarlo. «Si dice che vostro padre abbia avvelenato suo fratello Riccardo per strappargli il titolo. È vero?». Mi aspettavo che trasalisse, che un'accusa tanto infamante gli facesse perdere il controllo. Invece si limitò a scrollare le spalle. «Certo». Rimasi a bocca aperta. «Diamine! Lo ammettete?». «Naturalmente. Mio padre ha chiesto perdono a Dio e sta espiando in devozione compiendo pellegrinaggio in Terrasanta. Del resto tu puoi capirlo, figlio di Tancredi: hai anche tu un fratello maggiore da affrontare, se vorrai ereditare il feudo di Hauteville». Mi figurai Serlone agonizzante, occhi vitrei e schiuma alla bocca. Era un pensiero intollerabile, odiai Guglielmo per avermelo suggerito. Replicai sprezzante. «Se mai volessi sfidare il primogenito di mio padre, lo farei con onore, a viso aperto. Il veleno è arma da vigliacchi». Lui non si scompose. «Ora capisco...». «Cosa?». Guglielmo accennò in direzione di Osberno e degli altri, ancora lontani. «Capisco perché mi hai trascinato qui tra rane e insetti. Volevi sfidarmi senza testimoni... Pensi di essere migliore di me, vero?». Lo squadrai dall'alto in basso. Sangue di Giuda, era davvero troppo giovane per siffatta tracotanza. «Senza dubbio, mio signore» confermai, calcando l'ironia nella risposta. L'espressione di Guglielmo restò stolida. Di nuovo, la sua voce suonò come una nenia. «Sei più grande, più alto, probabilmente più forte. Ma è tutto». «Sono migliore di te anche come capo».


19 «Davvero? Puoi dimostrarlo?». «L'ho già fatto. Guardati: mi stai seguendo senza nemmeno sapere dove ti conduco. Anche i tuoi uomini hanno fatto ciò che io ho voluto». Lui scrollò di nuovo le spalle. «Un trucco da giullare. Comandare significa molto più di questo». Pensai che possedeva una freddezza encomiabile per un fanciullo di neppure nove anni. Il suo frasario, poi, era arguto, raffinato. Supposi che stesse ripetendo, forse senza capirli, i concetti che gli erano stati inculcati dai suoi maestri. Dovevo spingerlo a scoprirsi, se volevo capire ciò che si nascondeva realmente dietro quello sguardo impassibile. «Dimmelo tu, allora, cosa significa comandare» rintuzzai. Lui batté ancora le palpebre, fissò i brandelli di cielo che lucevano a stento tra i rami delle querce. «Dimostri potere impartendo ordini che vengono obbediti. Più i tuoi ordini sono irragionevoli e danneggiano colui che li esegue, maggiore è il potere che attesti». Rimasi colpito. Senz'altro Guglielmo stava citando la massima di un precettore, forse di suo padre il duca. Ma dava l'impressione di averla fatta sua. Mi chiesi che razza d'infanzia doveva aver forgiato un fanciullo così precoce. In futuro sarebbe stato un valido avversario, conclusi. Ma io ero il wiskard, possedevo il talento di Loki il Tessitore, la sua astuzia. Guglielmo non poteva sperare di tenermi testa. «D'accordo, figlio di duca. Accetto la tua sfida. Seguimi». Nella radura oltre il querceto avevo scorto alcuni pecorai. A giudicare dagli stracci che li coprivano, si trattava di pastori della contea, o forse gente dei villaggi oltre le colline. Sorvegliavano distrattamente i loro animali, intenti a brucare i germogli che facevano capolino dalla neve sciolta, non davano segno di averci notato. Riflettei rapidamente. Poi m'inginocchiai fianco a Fenrir, gli carezzai il pelo fulvo, sussurrai qualcosa nelle sue orecchie puntute. Il cane, che riusciva a capirmi meglio di molti cristiani, uggiolò di compiacimento; poi saettò fino a un agnello che cercava bacche tra i rovi, distante dal resto del gregge, prese a ringhiargli contro. Il pastore, poco più d'un ragazzo, accorse in soccorso. Io fui più veloce. Mi posi tra lui e l'animale, levai le braccia al cielo in un gesto imperioso. «Fermo!» tuonai. «Questa bestia è malata. Ha il verme della bile. Il cane l'ha fiutato, non vedi?».


20 «Il verme di che?» ripeté il ragazzo, disorientato. Lo squadrai: indossava una casacca di lana grezza e sandali di corteccia, legati alle caviglie da corde fatte di viticci; era un cucciolo di bifolco, di certo superstizioso sin nel midollo e stupido come un ciocco di legno. Capii che sarebbe stato facile. Non gli lasciai tempo di riflettere. Senza prendere fiato improvvisai una delle mie storie. Gli descrissi, con profusione di orribili dettagli, il parassita che entrava da larva nelle orecchie del bestiame, s'incistava nel fegato suggendo gli umori dell'ospite e una volta adulto gli squarciava il ventre per liberarsi. Millantai d'essere scampato per un soffio alla medesima piaga, che aveva infettato non solo le greggi ma anche i cristiani della mia contrada. M'informai se egli si fosse assopito accanto all'agnello malato, ammonendolo che a volte il verme emergeva dagli orifizi dell'animale infetto per scegliere un ospite migliore. Non lesinai nessuno dei miei trucchi da affabulatore. Fui volutamente illusorio e ferocemente credibile, un vero wiskard. Il giovane pastore impallidì, terrorizzato. Insistetti per controllargli l'addome alla ricerca di gonfiori sospetti. Fui così convincente che lui scoppiò a piangere per la paura. «Ditemi, sono malato?» gemette. «Io...». «Come ti chiami?» lo zittii. «Rufo». «Corri a casa, Rufo, ingoia due spicchi d'aglio senza masticarli» ingiunsi. «Poi spandi l'acqua del tuo corpo e controlla. Se il colore sarà giallo e non rosso, vorrà dire che Iddio misericordioso, per questa volta, ti ha risparmiato». Il pecoraio fece per andare. Ebbe un ultimo ripensamento. «Il mio agnello?». Finsi candore. «Lascialo a me. Se riuscirò a curarlo, te lo renderò. In caso contrario, lo brucerò per evitare il contagio. Come dovrò fare anche con te, se le tue minzioni saranno...». Rufo trasalì, corse via prima che potessi completare la minaccia. In un batter d'occhio era lontano. Issai l'agnello sulle spalle e tornai da Guglielmo. Lui sorrise a mezza bocca mentre faceva cenno a Osberno, che ancora arrancava nel fango, d’affrettarsi a raggiungerlo. «Bella recita, figlio di Tancredi. I saltimbanchi di mio padre non sono così divertenti». Lasciai che l'agnello si divincolasse. L'animale, scombussolato dalle mie manovre, belò lamentosamente e defecò ai piedi di Guglielmo. Poi zampettò via. Fenrir si lanciò al suo inseguimento.


21 Gonfiai il petto. «Ho impartito un ordine irragionevole, chiedendo a un povero pastore di privarsi del suo unico bene. Sono stato obbedito. Chi tra noi ha dimostrato potere, figlio del duca?». Lui non parve impressionato. Batté le mani all'indirizzo dei suoi uomini, finalmente sopraggiunti. Tutti e tre apparivano spossati per la lunga marcia nell'acquitrino e palesavano un'espressione sommamente infelice. «Andate laggiù, da quei pastori» comandò. «Radunateli qui». Osberno corrugò la fronte. Non aveva udito la sfida che ci eravamo dichiarati, ma certo poteva cogliere la tensione che aleggiava tra me e Guglielmo. Non pose domande; calcò il berretto di lana sulla fronte spaziosa e s'incamminò a grandi passi nella radura, coi due armigeri ad affannarsi alle sue calcagna. Sedetti sull'erba umida. Fenrir, forse stanco di giocare con l'agnello, mi si accovacciò in grembo. Lo grattai tra le orecchie, curioso di scoprire cosa Guglielmo stesse architettando. Il figlio del duca attese che Osberno e gli altri conducessero i pastori al suo cospetto. Erano una dozzina, tutti d'aspetto misero e sonnolento. Più che sorvegliare le greggi, stavano evidentemente godendosi il sole del mattino, insolitamente tiepido per la stagione. Qualcuno portava a tracolla un orcio colmo di vino o di idromele. Di certo nessuno di loro s’era accorto della beffa che avevo giocato al povero Rufo. Guglielmo prese la parola. Mi disposi ad ascoltarlo. Il figlio del duca si rivolse al pubblico esattamente come aveva fatto con me: in tono monotono, querulo, intervallando frasi monche, sconclusionate, a lunghi silenzi pregni di noia. Dopo essersi presentato come futuro signore di Rouen, Guglielmo cominciò a vantare la nobiltà del suo casato, che risaliva allo stesso Rollone, nominato duca di Normandia da re Carlo il Semplice. Poi divagò, divagò e divagò ancora. Presto divenne insopportabile, persino io dovetti rinunciare a seguirlo. Mi sentii deluso. Trasecolai che nessuno dei maestri che lo avevano così efficacemente istruito gli avesse mai impartito lezioni di oratoria. Poi, all'improvviso, capii. La mia delusione si mutò in amarezza. Io mi ero addestrato per anni a usare la voce come un'esca, sapendo che l'attenzione di chi ascolta è preda ardua da catturare e ancor più da mantenere, giacché l'orecchio degli uomini è volubile come il mare d’inverno. Perciò arrivavo subito al punto, adeguavo frasario e intonazione al mio interlocutore, lusingavo, blandivo pur di tener serrata la presa. Nelle mie storie badavo che la tensione non scemasse, prendevo fiato solo quando


22 una pausa poteva intrigare l'ascoltatore, chiudevo il discorso con un finale secco come un colpo di spada. Guglielmo aveva voluto dimostrare che le mie tecniche erano futili. Egli avrebbe potuto berciare senza senso fino al tramonto: i pastori avrebbero sopportato, persino sforzandosi di annuire di tanto in tanto, per mera soggezione nei confronti d’un futuro duca, o per timore dell'arco di Osberno e delle daghe dei due armigeri. Anche l'agnello che avevo sottratto a Rufo non contava nulla. Guglielmo avrebbe potuto reclamare qualunque bestia tra quelle che brucavano nella radura, finanche l'intero gregge, semplicemente in virtù del suo titolo. I pastori, nella loro conclamata stupidità, gli avrebbero obbedito. Guglielmo tacque. Capii che aveva letto nei miei occhi l'umiliazione: non aveva bisogno di proseguire. Congedò i pecorai con un gesto di grande degnazione, poi tornò a fronteggiarmi. «Osserva, figlio di Tancredi» disse, puntando il dito verso le radici di una quercia. Ai piedi dell'albero, mi avvidi, la neve disciolta era mutata in fango. Al centro della pozza annaspava un passero caduto dal nido. La scena era straziante: per quanto il volatile battesse le ali e pigolasse, la mota non gli consentiva di liberarsi, anzi l’inghiottiva sempre di più. «Sei come quell'uccello» considerò Guglielmo. «Ti agiti con fervore; strepiti, lotti, aneli. Gli sforzi che compi per sfuggire alla sorte sono ammirevoli, possono essere plauditi. Eppure, essi sono inutili. Il destino è scritto, dicevano gli antichi». Nelle parole di Guglielmo colsi echi dei moniti di Fresenda, ciò accrebbe il mio risentimento. Diamine, quel moccioso arrogante, con la bocca ancora sporca di latte, non era sazio di avermi battuto: voleva anche impartirmi una lezione. Fu la prima volta nella vita che odiai un altro essere umano con ogni goccia del mio sangue. Osberno dovette notare i miei fremiti, perché si affiancò al figlio del duca e impugnò l'arco. Forse avrei dovuto allarmarmi, ma ero troppo furioso. Sibilai un ordine nelle orecchie di Fenrir. Lui corse uggiolando sino alla pozza, afferrò il passero, lo strinse con delicatezza tra le fauci, lo trasse fuori dal fango. Io lo presi tra le dita, ripulii come potei le sue penne, le zampe, la coda. «Gli “antichi” sono morti, Guglielmo» ribattei in tono secco. «Quanto al destino, se mai esiste, chi onora la stirpe normanna può sfidarlo. E vincerlo». Liberai il passero. Lui scrollò le ali, pigolò di sollievo, prese stentatamente il volo puntando il cielo. Sorrisi.


23 La freccia di Osberno lo trafisse, inchiodandolo brutalmente al tronco della quercia. I suoi piccoli occhi neri si sgranarono dal dolore, poi divennero vitrei. «È scritto» ripeté placidamente Guglielmo. Rimasi impietrito. Lui prese fiato. «Ma forse hai ragione tu, figlio di Tancredi. "Destino" è un termine pagano, se Turoldo lo sentisse mi redarguirebbe. "Retaggio", allora, o "diritto di nascita". Ciò che sai fare non ha valore, conta solo chi sei. Per questo io diverrò duca. Quel giorno tu t'inginocchierai ai miei piedi, come suddito o come vassallo, se io te ne concederò il privilegio». Fenrir ringhiò. Osberno incoccò una seconda freccia e gliela puntò contro, fissandomi in viso con aria di scherno. La guardia del corpo di Guglielmo aveva dimostrato la sua abilità di tiratore, perciò dovetti inghiottire la rabbia, chinare il capo e trattenere il mio cane affinché egli non l'uccidesse. Sangue di Giuda, non avevo mai provato una vergogna così assoluta, bruciante, intollerabile Guglielmo sembrò soddisfatto. Batté le palpebre ancora una volta. «Torniamo a Hauteville, adesso. Sono stanco». Mi volsero le spalle e s'incamminarono. Restammo soli. Io lacerandomi l'anima dalla collera; Fenrir coi denti ancora scoperti e il pelo arruffato; il piccolo uccello morto, gocciolante liquami neri, crocifisso alla corteccia irregolare della quercia. Fu in quel preciso momento che compresi perché, tra i giovani di Hauteville, della Normandia, forse del mondo intero, i talenti di Loki erano stati destinati a me. E cosa era mio dovere farne. Se Guglielmo pensava di avermi sconfitto, errava. Aveva solo scatenato una guerra. Che non avrebbe vinto. Non sapevo quanto tempo avrei dovuto lottare. Mesi? Anni? Tutta la vita? Non importava. Un giorno, il cielo e l'inferno mi avrebbero visto prevalere. Forse Guglielmo, senza altri meriti che l'essere figlio di suo padre, sarebbe divenuto duca. Ma io non gli avrei mai giurato fedeltà. Sarebbe stato lui, semmai, a inginocchiarsi dinanzi a me offrendosi come vassallo. Perché io, Roberto il Guiscardo di Hauteville, avrei raggiunto un traguardo che nessun normanno, nella Storia, aveva mai neppure sfiorato. Chiusi gli occhi e giurai al Dio delle paludi oscure, dei lupi, delle tempeste e dei nevai che un giorno sarei divenuto re.


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CAPITOLO 3 HAUTEVILLE, 1036-1040 A.D.

M'attardai nei boschi fino al tramonto a meditare su quanto era accaduto e rimettere ordine tra i miei pensieri. Non fu semplice: mi sentivo come una torre che qualcuno avesse sventrato e poi rabboccato accatastando pietre alla rinfusa. Fenrir mi fu di conforto. Gli parlai a lungo. Come sempre lui parve comprendermi e condividere le mie conclusioni. Per la prima volta nella vita avevo fronteggiato un avversario impossibile da manipolare o intimidire, ne ero rimasto spiazzato. Dovevo trovare altri modi di far valere la mia volontà. Col buio raggiunsi la casa di Ermanno, una stamberga in legno di faggio addossata alla chiesa. Scagliai un pugno di ciottoli contro gli scuri. Lui s'affacciò. Fischiai affinché mi raggiungesse. Accorse trafelato. «Che succede, Roberto?» s'informò, stropicciandosi gli occhi tondi impastati di sonno. «Ho deciso di accettare il tuo giuramento. D'oggi in poi ritieniti al mio servizio». Lui s'inchinò compitamente. «Mi rendi onore. Che devo fare?». Atteggiai viso e spalle come avevo visto fare al mio nemico. «Anzitutto riserverai la nostra familiarità ai momenti in cui saremo soli. Dinanzi al volgo ti rivolgerai a me dandomi del "voi" e appellandomi "mio signore"». Ermanno assentì, quasi eccitato. Credo che considerasse i miei ordini alla stregua di regole d'un gioco, come quando dirigevo le baruffe tra i ragazzi di Hauteville esercitandomi nell'arte di aizzarli gli uni contro gli altri. Da parte mia, sentivo che il tempo della spensieratezza era finito, morto come il passero inchiodato alla quercia dalla freccia di Osberno. «Ho un altro compito per te» aggiunsi, austero. «Quel che vuoi, mio signore». Gli spiegai con dovizia di particolari. Lui si tormentò il naso storto, perplesso. «Non capisco». «La comprensione è orpello inutile alla fedeltà». «Dovrò farlo tutte le notti?» insistette, confuso.


25 «Ogni sera, prima di ritirarti» confermai. «Ovunque ci troveremo, che io dorma da solo o in compagnia. Finché resterai al mio servizio, oppure sino al giorno in cui raggiungerò il mio scopo. E non lesinerai la forza giacché, diamine, sarai il solo a cui non renderò mai il colpo». «Ma... Perché?». «Incarnerai la mia risolutezza. Impedirai che il tempo sbiadisca l'offesa e offuschi il mio proposito». Lui continuò a fissarmi, disorientato. Io tagliai corto battendogli una mano sul petto. «Ora va, primo tra i miei seguaci. Il Guiscardo ha parlato». Lui s'inchinò per l'ultima volta, poi rientrò in casa. Io sedetti su un tronco e socchiusi gli occhi. Intorno a me echeggiavano i versi lamentosi dei gufi. Lontano, l'ululato di un lupo, forse un richiamo, forse la sfida a un cacciatore. L'aria sapeva di muschio e di selvatico. Il freddo era intenso. Non me ne curai. La notte volgeva al termine, avevo ancora mille piani da perfezionare prima di sentirmene appagato. *** All'alba sferrai contro Guglielmo la prima offensiva della guerra che egli mi aveva dichiarato e che ci avrebbe diviso per tutta la vita, anche se lui ancora non lo sapeva. Rivelai ai ragazzi di Hauteville la verità sulla nascita del mio nemico. Arricchendola con particolari triviali e cristallina perfidia da wiskard. Nei giorni successivi, con l'aiuto di Ermanno, feci in modo che la voce si spargesse non solo in tutto il paese, ma anche tra i frati del monastero, i mandriani della valle, i chincaglieri del mercato e i forestieri di passaggio. Coniai per il sedicente erede del ducato l'epiteto "Guglielmo il Bastardo". Usai il mio talento per diffondere l'uso del nomignolo in ogni dove. Quando udii che persino il piccolo Ruggero si riferiva al mio nemico in tal guisa, avvampai soddisfatto. Poi però, a mente fredda, avvertii un ansito di trepidazione. «Diamine, Rogeirr, chi ti ha insegnato a dire così?». «L'ho sentito dagli stallieri. Anche dalla cuoca». Il mio pensiero corse a Fenrir. Laggiù nella palude avevo dovuto chinare il capo pur di salvargli la vita. Sangue di Giuda, sarei stato costretto a umiliarmi anche per proteggere mio fratello? «Non farlo più» gli ordinai.


26 Ruggero mi fissò con candore infantile. Io mi accertai che fossimo soli, poi gli spiegai. «Ascoltami bene, piccolo Rogeirr. Guglielmo non è solo un bastardo. È un ragazzino arrogante, sciocco e borioso, che non merita il titolo di duca. Ma non siamo in grado di sfidarlo, capisci? Dobbiamo attendere, fingere sottomissione. Verrà il giorno in cui lo affronteremo. Tu e io, ruggendo come i due leoni del blasone normanno. E il mondo sarà nostro». Ruggero assentì, conquistato da quel vaticinio di futura gloria. Io mi sentii lieto. Allo stesso tempo mi pentii di avergli parlato con bonomia, mostrandomi in qualche misura condiscendente verso la sua ingenuità da fanciullo. Mi ero ripromesso di riservargli ben altro trattamento. Feci in modo che, quella stessa sera, due dei miei accoliti gli tendessero un agguato nei pressi del pozzo e gli somministrassero una solenne bastonatura. Doveva imparare. *** Il mio nemico lasciò Hauteville il primo giorno di marzo. Persino Fresenda respirò di sollievo, giacché i nostri ospiti s'erano serviti di dispense e cantine del villaggio come ne fossero padroni e avevano trattato tutti noi col medesimo spirito. Per di più, lungi dal mostrare gratitudine, Guglielmo e i suoi sgherri avevano sfoggiato cialtroneria, arroganza e disdoro. Da mia madre all'ultimo dei servi, nessuno sentì la loro mancanza. Vidi il maniscalco sputare su un dipinto che raffigurava il figlio del duca, il porcaio battezzare "Guglielmo il Bastardo" il più sgraziato nella figliata della scrofa. Da parte mia, augurai al mio nemico di subire presto ogni sorta di sciagura. Seppi d'essere stato contentato quando, la settimana seguente, mio fratello Serlone giunse a Hauteville al gran galoppo. Le notizie che recava erano esiziali: mio padre, che lo seguiva a un giorno di marcia, gli aveva ordinato di precederlo al villaggio proprio per annunziarle. Roberto il Magnifico era morto a Nicea, proclamò, sulla via del ritorno dalla Terrasanta. Fresenda tentò d'informarsi dei dettagli, ma Serlone rispose evasivamente. Supposi che i sostenitori del precedente duca, Riccardo III, fossero riusciti a vendicarlo. Ciò significava che eravamo in piena guerra civile, e che presto sulla Normandia si sarebbe abbattuta una pioggia di sangue. «Speravo di trovare il giovane Guglielmo qui» si rammaricò Serlone, «in modo da giurargli fedeltà. Dovrò ripartire per raggiungerlo. È vero che Dio protegge i giusti; ugualmente Guglielmo avrà bisogno di tutto l'aiuto possibile».


27 Osservai attentamente mio fratello. Il primogenito ed erede di Tancredi era un vero Altavilla, alto, forte, nato da donna per combattere. Aveva occhi color del ghiaccio, un naso perentorio, labbra carnose e voce tonante. L'unica sua imperfezione era la gamba destra, leggermente più corta della sinistra, che gli donava un'andatura claudicante. Per questo veniva detto "lo zoppo". In sincerità ero stato io a coniare e poi a diffondere il soprannome. Peraltro non sembrava che Serlone ne patisse. Egli ammetteva che la sua marcia era incerta e si vantava di sentirsi a suo agio solo in groppa a un destriero. Era capace di resistere giorni interi in sella, senza smontare né per dormire né per mangiare. Almeno così ripeteva, anche se avrei voluto capire come diamine faceva a liberarsi la vescica, e se il suo cavallo ne era felice. «Nostro padre ti ha suggerito d'offrire la tua spada a Guglielmo?» chiesi in tono blando. Serlone vuotò il corno di birra che Beatrice gli aveva offerto in segno di benvenuto. Si pulì la barba con l'orlo della veste prima di rispondere. «Naturalmente!» tuonò con aria da smargiasso. «Nostro padre farà altrettanto?». «Quant'è vero Dio!». Ruttò sonoramente. Si rivolse di nuovo a nostra sorella e alle ancelle, che l'attorniavano affascinate. «Donne! Non vedete che muoio di sete? Versatemi da bere!». In quel momento fui colto da un'idea. Ma la tenni per me. Il maestro di parole sa quando spenderle e quando è meglio tacere. *** Serlone ripartì all'alba sulle tracce del mio nemico. Potei testimoniare, in effetti, che aveva passato la notte a cavalcare. Non il suo destriero bensì una servetta compiacente, ma questi erano dettagli. Al tramonto del giorno successivo, come mio fratello aveva annunciato, Tancredi giunse a Hauteville scortato dai suoi cavalieri. Tra questi, Drogone e Unfredo, figli di mio padre e della sua prima moglie Muriella. Erano in buona salute nonostante le febbri, le arie cattive e le insidie che dovevano aver patito nel viaggio, perciò le vetuste campane della chiesa suonarono a festa; il villaggio s'accese alla buona sorte e alla gioia. Fresenda ordinò di sgozzare la bestia più in carne e di allestire un banchetto. I fanciulli furono spediti a raccogliere funghi. I cacciatori offrirono un


28 cinghiale ucciso sulle colline; l'animale venne eviscerato, farcito con erbe aromatiche e posto a rosolare sulla brace. La cantina era penosamente vuota, ma Beatrice confessò di aver nascosto, nelle segrete della torre, orci con il sidro e il vino migliore, salvandoli così dalla voracità dei nostri ospiti. Ne fui colpito: ancora una volta Beatrice si dimostrava la più assennata delle mie sorelle. Tra tutte, pensai, era la sola che mi somigliasse, se non nelle fattezze almeno nel carattere. I boccali furono riempiti, vuotati ed empiti ancora. Gli spiedi corsero di mano in mano. I suonatori di liuto e salterio intonarono ballate. Si danzò nelle sale e intorno ai fuochi, si levarono lazzi, cori e risate. Le donne di Hauteville, liete per il ritorno dei propri mariti, non attesero di rimanere sole con loro per recuperare il tempo perduto. Nessuno, neppure il prete, si scandalizzò per quelle effusioni in pubblico. Al contrario, gli abbracci più passionali vennero plauditi: era il modo semplice e carnale con cui noi normanni, da sempre, rendevamo grazie alla vita. *** A notte inoltrata osai avvicinare mio padre. Tancredi era troppo anziano per farsi coinvolgere nelle danze, ma aveva abbondantemente onorato le libagioni, come dimostravano le macchie sulla veste e il rossore del suo viso. Dubitavo che gli restassero ancora forze per adempiere ai doveri coniugali, come altri guerrieri stavano facendo con le loro mogli. Del resto Fresenda, che si era già ritirata, non mi era parsa ansiosa di accoglierlo nell'alcova. Non lo era mai. «Posso parlarvi?» gli sussurrai all'orecchio. Lui dovette battere più volte le palpebre prima di riconoscermi. Anche le sue sopracciglia, notai, si erano ingrigite. Le traversie del viaggio, o le trepidazioni per la guerra incombente, lo avevano segnato. «Roberto!» esclamò con allegrezza etilica. «Il più scaltro tra i miei figli! Tua madre dice che devo diffidare di te». Il suo fiato avrebbe abbattuto un toro. Trattenni il respiro. «Vi prego, padre. È importante». «Ti ascolto». Accennai alle scale che conducevano alla mia stanza. «Non qui». Lui parve perplesso, ma acconsentì, soprattutto perché il suo boccale era vuoto, dettaglio di cui mi ero accertato con cura. Lo aiutai ad alzarsi e a issarsi faticosamente sino al piano superiore. Prima di varcare la soglia si fermò.


29 «Aspetta» sibilò. Poi si calò le braghe, si sporse da una bifora spalancata alla notte, urinò copiosamente emettendo grugniti di sollievo. «Allora?» chiese mentre si ricomponeva. Lo invitai a sedersi, poi presi fiato. «Volevo plaudire l'acutezza degli ordini che avete impartito a Serlone. La vostra sagacia, padre, è pari solo alla vostra prudenza. Vi ammiro». Tancredi corrugò la fronte. «Eh?». «Siete stato saggio» insistetti, condendo le parole con ampi gesti, un trucco per ammansire l'interlocutore cui mio padre, lo sapevo, era particolarmente sensibile. «Quando il fuoco infuria, occorre proteggere la casa. Il sacrificio di un singolo si può accettare, diamine, se ciò consente alla famiglia di prosperare». Lui roteò gli occhi, tentando invano di scacciare i fumi del vino. «Di cosa stai...?». «Avete mandato Serlone a servire Guglielmo» incalzai. «Così, se questi prevarrà, il vostro primogenito condividerà il trionfo e il nome degli Altavilla ne uscirà rafforzato. Se invece Guglielmo sarà sconfitto, voi potrete dichiarare che non gli avete mai giurato fedeltà, che Serlone ha agito di sua iniziativa. Il nostro casato sarà ugualmente salvo... Un piano astuto. Scommetto che domani manderete i miei fratelli dagli altri pretendenti. Unfredo a Caux, Drogone a Rouen... L'esito della guerra è incerto, ma comunque cadano i dadi gli Altavilla sopravvivranno». Continuai a lungo a perorare la brillantezza di quella strategia. Con la cautela e il tatto necessari. Tancredi era tutt'altro che stupido, da sobrio avrebbe capito all'istante che tentavo di manipolarlo, propugnando le mie idee fingendo che fossero sue. In quel frangente, però, mio padre aveva in corpo più vino che anima. Mi ascoltava a stento, da un momento all'altro si sarebbe arreso al sonno. Al suo risveglio, ne ero certo, non avrebbe ricordato nulla della nostra conversazione. Il seme che avevo piantato nella sua mente, però, avrebbe germogliato. A vantaggio degli Altavilla, che avrebbero mantenuto feudo e privilegi a dispetto di come si fosse risolta la faida nella famiglia ducale. Soprattutto a vantaggio mio. D'improvviso avvertii un rumore. Tacqui. Qualcuno si avvicinava alle mie spalle. Strinsi le dita sulla daga che portavo alla cintola e mi volsi di scatto. Riconobbi il naso storto e i ricci sanguigni del primo tra i miei seguaci. «Ermanno?». «Come ogni sera, mio signore. Secondo i vostri ordini».


30 Vidi che esitava. Capii che la presenza di mio padre lo intimoriva; di certo non prevedeva di trovarmi in sua compagnia. Poi l'obbedienza alle mie disposizioni prevalse. Di ciò mi compiacqui. Non l'avevo volutamente messo alla prova, ma ero lieto che egli l'avesse superata. Ignorando Tancredi, Ermanno si pose di fronte a me, levò il braccio destro e mi schiaffeggiò. «Vergognati Roberto» recitò compitamente, «perché neppure oggi sei diventato re». Mio padre trasalì dalla sorpresa. Nonostante le coppe che aveva vuotato e che gli avevano imporporato le guance, vidi che impallidiva. «Tua madre ha ragione di temerti» biascicò con voce impastata. «In te c'è qualcosa di luciferino». S’accasciò. Un istante dopo, russava sonoramente. Con l'aiuto di Ermanno lo riportai al salone del banchetto. Lo lasciai riverso sul suo scanno, su cui continuò a dormire; come del resto facevano gli altri commensali, uno più ubriaco dell'altro, e i servi che avevano fatto piazza pulita degli avanzi. Ermanno tossicchiò, inquieto. «Cosa penserà vostro padre? Di quel che ha udito, voglio dire...». Io scrollai le spalle. Ero certo che l'indomani, alla luce del giorno, Tancredi si sarebbe convinto di aver sognato. «Mio padre penserà ciò che io voglio» tagliai corto. «Ora va'. Non ho più bisogno di te, per stanotte». Ermanno obbedì. Io rimasi a vegliare Tancredi com'era mio dovere. Il suo petto si alzava e si abbassava come il mantice del fabbro. La bava gli inumidiva la barba, le sue dita tremavano. Tuo nonno, Boemondo, era un guerriero ancora possente, ma si avviava alla vecchiaia e alla debolezza che sempre l'accompagna. Toccava a me disporre per lui. Incrociai le braccia mentre le candele si spegnevano. Non avevo toccato un goccio di vino per tutta la festa. Sangue di Giuda, credo che quella notte fossi l'unico maschio in tutto il palazzo, forse in tutta Hauteville, a essere lucido. Non solo quella notte. *** La successione al titolo di duca si rivelò feroce, ancor più di quanto avevo temuto. Non vi furono battaglie campali, ma per ogni contrada della Normandia si scatenarono vendette, agguati e tradimenti incrociati che non risparmiarono nessuna famiglia.


31 Tranne la nostra. Grazie alla politica prudente che avevo suggerito a Tancredi, e che mio padre aveva attuato convinto di esserne l'ideatore, le parti in causa ebbero l'impressione che gli Altavilla si fossero schierati al loro fianco, o almeno che indugiassero in posizione di neutralità. La nostra contea rimase pertanto ai margini della guerra e delle devastazioni. Al termine di quell'estate sanguinosa, gli eserciti di Guglielmo il Bastardo, a dispetto delle mie speranze, ottennero una vittoria decisiva e issarono i loro stendardi sulle torri di Rouen. In quelle notizie, per me ferali, colsi un'unica letizia: Osberno era morto in battaglia. Con lui era caduto anche l'anziano precettore Turoldo. Entrambi erano stati uccisi in modo particolarmente efferato, precisarono i messaggeri. Ne gioii. Gli oppositori del mio nemico fuggirono a sud, ove contavano di prendere fiato e riorganizzarsi. Tra loro anche due miei fratelli, che Tancredi aveva mandato a controbilanciare la presenza di Serlone tra le fila di Guglielmo. Il Bastardo fu veloce a parare la minaccia. I suoi araldi batterono in lungo e in largo il ducato, a declamare l'editto con cui il re di Francia in persona gli riconosceva il titolo ed esortava i normanni a mettere fine alla guerra civile. Una mossa che chiuse la questione. A me, ricordo, l'interferenza di re Enrico parve strana, di certo troppo tempestiva: il successore di Ugo Capeto non si era mai interessato alle nostre faccende. Di certo non gli poteva spiacere che vassalli rissosi e turbolenti come i normanni si scannassero tra loro. «Pensi che Guglielmo abbia contraffatto il sigillo dei capetingi?» azzardò Ermanno, in tono scandalizzato, quando gli confidai i miei sospetti. «Al suo posto io l'avrei fatto» ribattei. «Ma forse sopravvaluto il mio nemico. Non credo sia capace di tanto». «E allora?» chiese Ermanno, tormentandosi il naso storto. Scrollai le spalle mentre masticavo il mio pane. Sapeva di fiele. «Probabilmente re Enrico giudica conveniente che al palazzo di Rouen sieda un ragazzino di neppure dieci anni. Pensa di poterlo manipolare con facilità. E d'indirizzare, attraverso di lui, l'aggressività dei normanni lontano dalla Francia. Verso la Britannia, per esempio». «Non capisco» ammise Ermanno. Non persi tempo a spiegargli. Avevo ben altre preoccupazioni. ***


32 Come temevo, al termine delle ostilità Serlone fece ritorno a Hauteville carico di allori, smargiassate e boria. Diamine, non m'illudevo che morisse sul campo, giacché sapevo che con lancia e scudo se la cavava più che bene. Avevo però accarezzato l'idea che si dimostrasse non altrettanto abile come condottiero, e che perciò cadesse in disgrazia agli occhi di Tancredi. Non andò così. A dar retta alle fanfaronate con cui ci ammorbò per sere e sere di seguito, Serlone era stato il principale artefice della presa di Rouen, nonché l'indomito vincitore delle principali battaglie della guerra. «In ogni scontro mi sono gettato nella mischia per primo» vantò e ripeté sino a farci dolere le orecchie, «e sono sempre uscito per ultimo. Sotto gli stendardi del duca, nessun cavaliere ha vinto più nemici di me». Mi stancai presto di starlo a sentire. Con un pretesto m'allontanai da casa per qualche tempo. Non che Serlone potesse patire la mia assenza: in quei giorni tutte le ragazze nubili di Hauteville gli ronzavano intorno; anche quelle sposate sembravano aver perso la testa per il novello eroe di guerra. Mi chiesi oziosamente se, così come amava cibarsi e dormire a cavallo, anche per soddisfare il suo serraglio Serlone preferisse la sella al talamo. E se le sue spasimanti l'assecondassero. Quando fu sazio di festeggiamenti, Serlone volle sfruttare la gloria ottenuta sul campo di battaglia anche per fugare ogni dubbio su chi sarebbe stato il prossimo conte di Hauteville. Dettò pertanto precise disposizioni da recapitare ai nostri fratelli, ovunque fossero. Tuo zio Guglielmo (tu lo conosci come "Braccio di Ferro"), Unfredo, Drogone e Goffredo dovevano considerarsi banditi dalla Normandia, giacché si erano opposti in armi al nuovo duca, e rassegnarsi a cercar fortuna in terra straniera. Restare significava rischiare il patibolo. «Serlone è stato duro» commentò Ruggero quando Fresenda ci disse del bando. Io, ricordo, ascoltavo distrattamente, rapito dal filo dei miei pensieri. «Davvero?». «Unfredo e gli altri non hanno colpe» insistette Ruggero, petulante, di certo ripetendo quanto aveva udito da Fresenda. «Hanno solo obbedito agli ordini di nostro padre». «Basta così, piccolo Rogeirr» tagliai corto. «Serlone fa ciò che la legge normanna gli consente. Sangue di Giuda, se Riccardo III avesse applicato il maggiorascato senza debolezze, sarebbe ancora vivo. E duca». «Cosa?». Spiegai a mio fratello, in un linguaggio comprensibile a un ragazzino di sette anni, come funzionava l'eredità feudale. Era strano che ancora l'ignorasse. Mi chiesi cosa diamine gli stesse insegnando padre Antoninus,


33 che Fresenda gli aveva assegnato come tutore. Calligrafia? Musica? Teologia? Presi mentalmente nota di somministrare a quel prete inutile una buona dose di pedate. «Il maggiore ottiene tutto, i cadetti devono sottomettersi o levare le tende» conclusi. «Hai capito ora, Rogeirr?». Lui impallidì. «Dunque Serlone scaccerà anche noi?». Lo rassicurai. «Non credo che ci ritenga pericolosi: è a stento consapevole che esistiamo. Ma un giorno, sì, io e te dovremo lasciare Hauteville». Lui fremette, torcendosi le mani e piagnucolando come il fanciullo che era. «Che ti prende?» esclamai. «Io non voglio, Roberto. Amo le nostre colline, la neve che ricopre la valle, l'erba alta in estate, il canto del fiume, l'odore salato della scogliera... È ingiusto». Mi resi conto, una volta di più, del ruolo che era mio dovere interpretare agli occhi di Ruggero. Lo spinsi brutalmente contro la parete, lo schiaffeggiai senza trattenermi. «Smettila con queste sciocchezze, Rogeirr. Tu e io non siamo vaccari o zappaterra. Solo creature patetiche possono sentirsi lieti di vivere e morire nella stessa zolla di fango. Hauteville non è che un pugno di pietre smangiate dalla nebbia. Che ce ne importa? Lasciamole a Serlone, buon pro gli faccia. E all'inferno anche la Normandia! Guglielmo, nella sua stupidità, può contentarsi di regnare su lande uggiose, paludi e sterco di pecora. Tu e io, Rogeirr, meritiamo molto di più. In noi scorre sangue di leone, il nostro futuro è ammantato di gloria. Perciò ti dico, fratello: d'oggi in avanti non voglio più sorprenderti a commiserarci. Usa la tregua che Serlone ci ha concesso per fortificare corpo e spirito. Quando verrà il giorno, dovrai essere pronto a marciare al mio fianco, a conquistare ciò che ci spetta. Oppure sarò io stesso a toglierti la vita». Levai il braccio per colpirlo di nuovo. Ma lui fu più veloce. La sua mano bloccò la mia a mezz'aria, mi serrò il polso con vigore insospettabile. Trasalii per la sorpresa, forse per la soddisfazione. «Io ti odio, Roberto» sibilò furioso, ansante. In quel momento, come in un sogno, vidi in lui la promessa del magnifico guerriero che sarebbe stato. «Davvero?» lo provocai. «Tu non meriti la mia paura» ringhiò. «Puoi divertirti a minacciarmi, oggi. E a colpirmi. Ma io pregherò Dio affinché mi doni la forza. E un giorno, se Lui lo vorrà, sarò io a ucciderti». Corse via. Io presi fiato. Poi sorrisi, profondamente compiaciuto.


34 Stavo facendo un buon lavoro con Ruggero. Presto avrebbe sollevato il mondo sulla punta della sua lancia. E lo avrebbe deposto ai miei piedi.


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CAPITOLO 4 LANGOBARDIA, 1046-1047 A.D.

Per scuotere Ruggero, quel giorno lontano, avevo definito Hauteville "misere pietre smangiate dalla nebbia" e avevo denigrato allo stesso modo l'intera Normandia. La mia era stata una provocazione, ma non una menzogna. Oggi voglio confessarlo, Boemondo: non ho mai amato il mio paese natale. Vi sono cresciuto e ne serbo alcuni ricordi piacevoli, nient'altro. Diamine, se tiro le somme e conto le mie fortune, i migliori anni li ho vissuti a sud delle Alpi, nella penisola tra Adriatico e Tirreno che taluni chiamano Italia. Lì ho mosso eserciti, espugnato città, innalzato rocche e celebrato trionfi, allevato te e gli altri miei figli. Laggiù sono divenuto duca, ho governato, ho imposto leggi e sono invecchiato... Sento, ormai, di appartenere alla mia nuova patria, a dispetto di chi ancora mi reputa un barbaro. E voglio esservi sepolto. Nel cuore della Puglia di cui sono stato signore. Questo ti comando, figlio mio. Non ricordo chi fu il primo a parlarmi dell'Italia. A quei tempi i cadetti normanni sciamavano per le contrade d'Europa come api su prati in fiore. Taluni, a volte, tornavano a casa e narravano dei posti in cui avevano combattuto, giacché l'unico talento normanno che trovasse impiego ovunque era la spada. I racconti di chi era stato mercenario oltre le Alpi grondavano meraviglie. Colonne di marmo e statue d'oro, chiese ricche come forzieri e regge vaste come città. Pianure baciate dal sole e colline fertili come seni di donna. Mari pescosi, inverni miti; castelli vetusti, troni senza padrone; opulenza, gloria, tesori che attendevano solo d'essere colti. Quando udivo quei racconti, consideravo che a stento avrei saputo imbastire storie più accattivanti. Di certo i balbettanti testimoni che li riportavano non possedevano la mia fantasia. Sicché, sangue di Giuda, doveva essere tutto vero.


36 Venni a sapere d'una città, Aversa, di cui un pugno di normanni s'era impadronito. Li guidava un certo Rainulfo Drengot di Quarrel. Costui, mi dissero, s'era destreggiato con avvedutezza tra i nobili longobardi e i catapani bizantini che si contendevano la regione, ottenendo un comando e un feudo in cambio di meriti in battaglia. Si trovavano ad Aversa, seppi, anche i miei fratelli esiliati da Serlone. Guglielmo, il maggiore tra loro, poi Drogone e infine Unfredo. Guglielmo, riferirono, si era già fatto onore sul campo, in uno scontro che aveva visto schierati, caso singolare, longobardi e bizantini contro i musulmani di Sicilia. Pretesi dettagli. Mi dissero che Guglielmo, battendosi al comando di Giorgio Maniace, aveva ucciso con una sola mano l'emiro di Siracusa, guadagnandosi così il soprannome "Braccio di Ferro". Furono quelle notizie, credo, a risolvere gli ultimi dubbi. I miei fratelli si stavano coprendo di gloria, non c'era ragione di attendere. Stabilii che sarei partito anch'io alla volta dell'Italia. Valutai se portare con me Ruggero. L'ultimo della famiglia era cresciuto in statura e forza, all'improvviso, come quegli arbusti che fioriscono la prima alba d'aprile e al tramonto fanno già ombra alle querce. In paese sovrastava chiunque, me compreso. E mi aveva tenuto testa per via d'un cavallo da guerra, un giovane corsiero che avevo provato a sottrargli con l'astuzia, e che egli aveva battezzato "Redenzione". Ecco, il rapporto di mio fratello con la religione m'inquietava. Ruggero era venuto su come un baciapile, un bigotto conclamato. S'inginocchiava e rendeva grazie a Dio anche quando pestava sterco. Sembrava quasi che ci parlasse, col Padreterno. E poi continuava a pigolare dietro Fresenda. Lei ricambiava, vezzeggiandolo in ogni modo, carezzandogli le spalle, sussurrandogli «Mio Thor» quando credeva che nessuno li udisse. Ruggero era un gigante trattato come un bambino. Pensai che, ancora una volta, toccava a me rammentargli che era un uomo. Convocai Ermanno e suo cugino Malgerio, impartii loro ordini precisi. Il congiunto di Ermanno era incontrovertibilmente brutto. Naso storto come il cugino, aveva l'occhio destro più grande del sinistro, mento sproporzionato, denti sporgenti, folte sopracciglia che s'univano a metà della fronte, un orecchio mozzato da un vecchio incidente di caccia, pochi ciuffi di capelli stopposi a pendere da un cranio quasi deforme. Solevo affidargli compiti adatti al suo pessimo aspetto; lui ne era ben consapevole. «Il pozzo, i bastoni, il solito agguato» ripetei. «Ma con un esito diverso, questa volta. Avete capito?».


37 I due si concessero un'ultima esitazione, poi annuirono e s'allontanarono. Fecero ritorno a notte. Si reggevano a stento sulle gambe. Pensai che avessero esagerato. Sollevando la fiaccola vidi che avevo ragione: erano pesti, stravolti, sanguinanti. «Avevo detto di fingere una sconfitta» li redarguii, «non di farvi massacrare». Malgerio sputò un grumo di sangue sull’erba. «Non abbiamo finto nulla, signore. Tuo fratello è un demonio». «Una belva» confermò Ermanno, ansimando. «Gli ho rotto il bastone sulla schiena e lui non ha fatto una piega. Eppure io ho la mano pesante, lo sanno anche i gatti». Malgerio si sfiorò l'orecchio mozzato. «Il cinghiale che mi ha caricato quella volta è stato a un pelo dall'uccidermi… Credimi, non aveva neppure la metà della forza di tuo fratello». «Perché lo avete affrontato solo in due? Avreste potuto chiamare...». «Eravamo in quattro» precisò Malgerio. Gli lanciai una fiasca di sidro affinché tacesse. Lui trasse un sorso, poi ne concesse l'uso al cugino. Io pensai che spedendo quegli idioti contro Ruggero avevo commesso un errore. Volevo dargli fiducia in se stesso, fare in modo che nel vincere la lotta capisse d'essere uomo. M'ero sbagliato: era un leone. Fui colto da un dubbio. «Non vi ha riconosciuto, vero? Avevate addosso i cappucci?». Ermanno e Malgerio si fissarono l'un l'altro, imbarazzati. «Signore, lui...». «Lui cosa?». «Ce le ha fatte mangiare, le cappe» confessò Ermanno, arrossendo. «Poi ci ha detto... » esitò Malgerio. «Sputate il rospo, diamine!». «Ha detto Riferite al wiskard di starmi lontano, perché quando gli metterò le mani addosso non sarò clemente come con voi». Ponderai su quella minaccia. Alla fine risi. Sghignazzai senza trattenermi, reggendomi il ventre, ignorando le espressioni stralunate di Ermanno e Malgerio. La notte aveva donato le sue risposte. Non avrei portato con me Ruggero. Il giovane leone era furibondo con me. Ne aveva tutte le ragioni. Un giorno, conclusi, sarei riuscito a riconciliarmi con lui, avrei fatto sì che ruggisse al mio fianco. Fino ad allora, le nostre strade sarebbero state diverse. Forse era meglio così.


38 «Bussate alla porta del cerusico» dissi a Ermanno. «Che pulisca le ferite e ricucia quel che c'è da cucire. Ci attende un lungo viaggio, avrete bisogno di tutte le vostre forze». Mentre si congedavano, pensai che non li avevo ringraziati per essersi fatti pestare dietro mio ordine. Non aveva importanza: li conducevo a grandi imprese, trionfi e gloria. Era la migliore ricompensa che potessero sognare. *** Lasciai la Normandia con le nebbie dell'anno nuovo. Mi seguivano Ermanno, Malgerio e una trentina di giovani, che avevo scelto personalmente e convinto stremandoli di parole. Solo cinque erano uomini d'arme: il resto del serraglio annoverava un taglialegna, un vaccaro, un garzone di bottega, un ceramista, il figlio del mugnaio, cuochi e sguatteri vari. Avevo scelto anche un ladro, un prete scomunicato e due grassatori conclamati. Perché, diamine, le persone oneste forse sono celebrate dalla Storia, ma raramente concorrono a scriverla. Prima che tu me lo chieda, Boemondo... Sì, ero consapevole di star conducendo quei trenta ragazzi all'esilio. Avevano tutti un focolare, un passato, affetti che non avrebbero più rivisto. Di Ermanno, per esempio, conoscevo i genitori: suo padre era il miglior cacciatore di Hauteville, sua madre intagliava il legno con maestria e avrebbe voluto trasmettere l'arte al figlio... Potrei narrarti della famiglia di Malgerio, tutti orridi d'aspetto come il mio seguace, o tratteggiarti la storia degli altri trenta. Non lo farò. Il condottiero deve guidare gli uomini, non caricarsi il loro fardello. Quei trenta giovani, e gli altri che sarebbero venuti, erano la creta con cui avrei plasmato il mio trono, nulla più. Del loro cammino sulla terra aveva importanza solo il tratto che s’incrociava col mio. Prima di partire non persi tempo in saluti ai vivi e omaggi ai morti. L'unica tomba su cui lasciai un fiore fu la fossa ove avevo sepolto Fenrir. Il mio vecchio cane pativa da tempo gli oltraggi dell'età; quando l'avevo ucciso per risparmiargli l'agonia, avevo giurato a me stesso che non mi sarei più legato nell'affetto a nessuno, che possedesse quattro zampe o solo due. Così fu. Giungemmo a Chartres il primo sabato di febbraio. Lì ci aggregammo, per non dare nell'occhio, a una colonna di pellegrini bretoni diretti a sud. A Orleans, sferzata da una pioggia battente e un gelo che tagliava i pensieri, spendemmo le nostre ultime monete scaldandoci le membra tra bettole e lupanari.


39 Quando il tempo migliorò, spacciai i miei uomini più robusti per guardie del corpo in cerca di soldo. Ci facemmo assumere come scorta da una carovana di mercanti dell'Alvernia. Risalimmo la Loira senza problemi. Entrati in Borgogna mi stancai di quel lavoro, anche perché sentivo più affinità per i predoni cui mostravamo la punta delle spade che per i grassi commercianti che tutelavamo. Così, una notte, ci appropriammo in anticipo del salario pattuito, aggiungendovi cavalli e muli a sufficienza per tutti, e fuggimmo verso le Alpi. «I mercanti ci denunceranno ai borgognoni» paventò Ermanno. «Avremo le milizie del ducato alle calcagna. Il signore di Nancy odia i normanni, lo sanno anche i gatti». Lo zittii dandogli del vigliacco. Lui s'irrigidì, colto nell'orgoglio. Giurò che non avrebbe più messo bocca sulle mie decisioni, e che in futuro non avrei dovuto vergognarmi di lui. Oggi, a mente fredda, lo confesso: l'eventualità di essere perseguiti come fuorilegge non mi spiaceva, giacché avrebbe reso impossibile le diserzioni e rafforzato il mio comando. Nonostante fossimo riconoscibili dalle vesti normanne, a Grenoble e poi sulla strada per Moutiers nessun gendarme borgognone ci diede noia. Proseguimmo verso est. A Bourg Saint Maurice, un insignificante pugno di case schiacciato tra le montagne più alte d'Europa, attendemmo che il disgelo liberasse il passo del San Bernardo. Di notte, a volte, sogno ancora le vette che vidi allora. S'innalzavano come dita di ghiaccio protese a graffiare il cielo. Le balze, di nuda roccia, erano popolate da bestie dalle lunghe corna e dal vello sozzo di licheni. In cielo volteggiavano rapaci dalle ali a freccia. Diamine, se non fossi stato convinto che la vera bellezza risiede nelle parole, avrei potuto innamorarmi di quei paesaggi vibranti, fieri anche solo di esistere. Malgerio, ricordo, indicava la forma delle nuvole e vaneggiava. Sua madre, diceva, gli aveva insegnato come scorgervi fantasmi del passato e presagi del futuro. Io lasciavo fare, divertito. Ero il wiskard: se il vaticinio di Malgerio mi fosse spiaciuto, avrei provveduto a cambiarlo con la volontà. Finalmente la neve cedette alla primavera. Pellegrini e viandanti, bloccati come noi a Bourg Saint Maurice, ringraziarono Dio e s'incamminarono gravemente verso il passo. Attesi il tramonto, poi comandai di seguirli. Il gabelliere, ricordo, ci chiese distrattamente dove fossimo diretti.


40 «Per aspera ad astra» risposi, prima che Malgerio lo colpisse alla nuca ed Ermanno, forse per riscattarsi ai miei occhi, facesse lo stesso con gli aiutanti di dogana. Vuotammo la cassa e, per il resto del giorno, raccogliemmo noi stessi i dazi. Un atto da canaglie, ne eravamo consapevoli, ben più grave che derubare insulsi mercanti. Eppure, sangue di Giuda, anche quella volta ne fui lieto. Era il sigillo che mancava, il segno che nessuno di noi avrebbe potuto tornare indietro. All'alba lasciammo il passo, portandoci dietro anche le cavalcature dei gabellieri. Oltre la cresta, sul fianco orientale della catena, vedemmo sorgere un sole dal nitore tracotante. La regione che si stendeva sul fondovalle e oltre si presagiva rorida, ricca di messi e di mandrie ben pasciute. Anche il vento, che ci aveva flagellato per tutta la Borgogna, su quel versante soffiava mite, tiepido, recando con sé profumo di fiori e di facile bottino. I contadini che incrociammo si esprimevano in una singolare ma comprensibile mistura di francese, latino corrotto e longobardo. Ne fui affascinato: sulla lingua di quegli zappaterra si era concretizzata la pacifica coesistenza che i principi coronati non avevano mai saputo raggiungere. Cavalcammo tutto il giorno. Al vespero adocchiai una masseria isolata tra pochi iugeri di campi coltivati. La stalla era pulita, ampia a sufficienza perché potessimo passarvi la notte. Il fattore non manifestò grandi reazioni al nostro arrivo: forse era troppo stupido per spaventarsi. Malgerio brandì il bastone, ma io lo chetai in tempo. Avevo bisogno d'informazioni. Lanciai al villico qualche moneta. Lui sorrise con espressione ebete. Poi ci servì pane nero, formaggio, cipolle e una gran brocca d'una bevanda che sapeva di piscio d'asino. Additò se stesso e bofonchiò "Adso". Era basso, sdentato e puzzava di foglie marce. «A chi appartengono queste terre, Adso?» chiesi. Lui trasalì, forse equivocando i motivi della richiesta. Giurò che versava regolarmente la quota del raccolto a tal barone Charelet, che pagava il diritto di far legna nel bosco a un certo conte Arrouax, e che corrispondeva all'abbazia le decime legate alla salvezza spirituale, da umile servo di nostro Signore Iddio. Tacitai i suoi lamenti con un gesto stizzito. «Sangue di Giuda, non m'interessano i padroni delle miserabili zolle che coltivi. Intendo queste valli, le pianure laggiù all'orizzonte. A chi appartengono, bifolco?». Adso si grattò la fronte con dita straordinariamente lerce. Poi sembrò illuminarsi. Prese a recitare una lunga litania di nomi.


41 Ascoltai e misi insieme, separando con pazienza il grano dal loglio, un quadro complessivo della situazione. Combaciava con le informazioni che già avevo, tranne dettagli che probabilmente costituivano novità. In quelle contrade la legge feudale cui noi normanni eravamo avvezzi conviveva con un secondo sistema di potere, il controllo d'anime e corpi esercitato dalla Chiesa e con un terzo, rappresentato dai liberi comuni, basato sulla circolazione di merci e denaro. Di tutto ciò Adso aveva una visione limitata, alcune percezioni errate e una scarsissima curiosità. S'interessava di politica quanto una larva si cura del colore della merda in cui s'avvoltola. Possedeva, per esempio, la consapevolezza di essere suddito d'un impero, e testimoniava di aver veduto, nella stagione del raccolto, eserciti con aquile nere sugli stendardi intenti a varcare le montagne. Ma non riusciva a dirmi il nome dell'imperatore in carica. «Sei un vero zotico» lo redarguii. «L'imperatore è padrone dei tuoi padroni. Non sai proprio niente di lui?». Adso scosse la testa, avvilito. «Germanicus est» mugugnò, «...sicut papam». Un papa tedesco? Fissai Adso in tralice. Si trattava di un parto dell'ignoranza di quel cafone, o di una novità di cui in Normandia non era ancora giunta voce? Quando avevamo lasciato Hauteville, sul seggio di Pietro sedeva Damaso II, così almeno dicevano i benedettini del monastero. Ma l'eventualità che un nuovo pontefice lo avesse sostituito non era da escludere. Mi rivolsi di nuovo a Adso. «Come si chiama, dunque, questo nuovo papa, di sangue tedesco come l'imperatore?» Il villico aggrottò la fronte nello sforzo di ricordare. «Nomen Leo est» azzardò. «Vuoi dire "Leone"? Come questi due?» insistetti, mostrandogli lo stemma normanno dipinto sul mio scudo; di certo doveva aver già visto disegni simili, presenti su molti stendardi nobiliari. Lui assentì. Ermanno rise sguaiatamente. Aveva gradito la bevanda di Adso, se ricordo bene ricavata dal raspo dell'uva, barcollava. «Un altro leone? Cominciano a essere troppi in queste contrade. Che ne dite, mio signore?». Io contemplai lo scudo, pensieroso. Qualcosa dentro di me, forse l'intuito più che umano del wiskard, mi ammoniva d'alzare la guardia, perché all'orizzonte si profilava l'ombra d'un nuovo nemico.


42 «Non importa quanti leoni formano il branco» dichiarai. «È sempre uno solo a comandarlo». Congedai Adso e ordinai di spegnere i fuochi. L'indomani sarebbe stata una lunga giornata. *** Il mattino successivo proposi a Adso altre monete affinché ci facesse da guida. Il pezzente mi aveva confidato, infatti, d'aver girovagato non poco da ragazzo, prima di ammogliarsi con una valligiana e stabilirsi ai piedi delle Alpi. Lui tentennò, forse per alzare il prezzo. Io offrii metà della somma a sua moglie. Lei sbatté Adso fuori di casa minacciandolo con la ronca, gl'infilò a forza gli stivali e lo costrinse a montare sul mulo con tale entusiasmo che mi convinsi di aver concluso un cattivo affare: quella donna avrebbe finanche pagato, pur di togliersi il marito dai piedi. Discendemmo il corso di un fiume che Adso indicò come Dora. Presto i monti che chiudevano la valle digradarono in colline, poi in aperta pianura. Proseguimmo. Non avevo una meta precisa, solo un'idea vaga su come sfruttare al meglio il lungo viaggio che mi avrebbe condotto ad Aversa, dai miei fratelli. Dovevo addestrare la mia banda di avventurieri, farne una vera compagine di guerrieri. Chiesi a Adso quali fossero, per quanto poteva saperne, i liberi comuni più fiorenti della regione, e quali si servivano di mercenari per difesa. Com'era facile supporre, le due categorie coincidevano: mercanti e artigiani facevano largo uso di milizie a pagamento contro razziatori, rinnegati e furfanti vari. Le condotte mercenarie, disse, erano composte principalmente da piccola nobiltà longobarda, orfana dei propri feudi da quando la Langobardia era stata annessa all'Impero: gli antichi signori di quella terra serbavano, quale unica risorsa, il mestiere delle armi. Un punto che ci accomunava. Chiesi a Adso quale paese, tra quelli ancora senza protezione di milizie, fosse il più ricco. Adso fece un paio di nomi. Li annotai entrambi. Ermanno ci udì discutere. S'avvicinò incuriosito. «Intendi vendere le nostre spade a queste due città, signore?». «Intendo solo prometterle» sorrisi. «Non è la stessa cosa».

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Al vincitore verrĂ assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.



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