strumenti cres 59

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Strumenti

strumenti cres n.59 – supplemento al n. 478 di manitese – giugno 2012

spunti di riflessione

proposte educative

03 Il TFA: la corsa all'abilitazione e il pantano della formazione

10 La proposta formativa di Mani Tese Cres a cura della redazione

di Gianluca Bocchinfuso

06 Speriamo che sia dislessico!

di Carlo Petitti

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parole, musiche, immagini 34  Gelem Gelem: il lungo cammino delle genti Rom a cura di Anna Di Sapio

38  Conversazioni sull'educazione (Z. Bauman)

Poste italiane s.p.a. - Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1 comma 2. LO/MI in caso di mancato recapito inviare al CMP Roserio per la restituzione al mittente che si impegna a corrispondere i diritti postali.

a cura di Elisabetta Assorbi

12 dossier

Né pubblico né privato

Riappropriamoci dei beni comuni

38  Venivamo tutte per mare (J. Otsuka) a cura di Elena La Rocca

40  Riprendiamoci la scuola (A. Corlazzoli) a cura di Gianluca Bocchinfuso

40  22° Edizione del Festival Cinema Africano, Asia e America Latina a cura di A. di Sapio e Shara Ponti

44  Cinema e didattica. Sguardi interculturali (C. Bargellini e altri) segnalazioni 45  Segnalazioni bibliografiche 46  Le nostre pubblicazioni


Né pubblico né privato – editoriale

Partire dalla scuola Il dossier di questo numero è dedicato ai beni comuni. La scuola, nella mente dei padri costituenti, si era configurata come un bene collettivo per la fruizione del quale lo Stato era chiamato a destinare le necessarie risorse. È ciò che avvenne nei decenni successivi al Secondo dopoguerra, durante i quali le istituzioni s'impegnarono a rimuovere gli ostacoli che impedivano alla generazione del boom economico di cogliere l'opportunità di studiare, acculturarsi ed elevarsi socialmente. Fu quella una stagione di fermento, alimentata da idee innovative da cui scaturì un rinnovamento che durò fino agli anni '80. Si trattò di un coinvolgente processo di riforme che ebbe l'ultimo sussulto negli anni '90, quando –con il tentativo di riordino dei Cicli promosso dai ministri Berlinguer/De Mauro– si cercò di intersecare le Educazioni (pace, sviluppo, intercultura, ambiente) con l'interdisciplinarità dei saperi, che andavano acquisiti non attraverso un ripetitivo accumulo dei contenuti, bensì mediante un organico ampliamento delle competenze maturate con il graduale sviluppo degli stili cognitivi degli allievi dai 5 ai 16 anni di età. A questa preparazione di base, comune a tutti, sarebbero poi seguiti i tre anni di approfondimento specialistico degli studi pre-universitari. La Moratti, dopo aver sospeso il Decreto attuativo di quel Disegno di legge già votato in Parlamento, si lanciò in una sistematica opera di demolizione che è stata coerentemente proseguita dalla Gelmini. L'esito degli interventi governativi è stato devastante, perché ha prosciugato le risorse delle comunità scolastiche locali e fiaccato la resistenza dei docenti. Le ragioni di questa condizione di frustrante impotenza sono molteplici.

Periodico in pdf

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I tagli economici, confermati dal governo Monti, hanno comportato l'aumento medio degli alunni per classe; hanno fatto scomparire le figure dei facilitatori linguistici e dei mediatori interculturali; hanno ridotto le ore di sostegno assegnate ai portatori di handicap; hanno cancellato la consulenza psicologica di cui si avvalevano gli insegnanti per affrontare i problematici casi di disagio. Tutto ciò ha eroso l'efficacia della relazione pedagogica. L'estinzione delle agenzie formative (ex IRRSAE/IRRE) e delle SISS ha inoltre inaridito i canali istituzionali attraverso cui si cercava di far transitare i neo-docenti dall'astratto apprendimento universitario al contesto del reale svolgimento delle lezioni in classe. Il vuoto venutosi a creare ha penalizzato la riflessione sulla mediazione didattica, che rimane affidata alla ricerca solitaria e volontaristica dei più caparbi e meno sfiduciati. I quali, invece di essere professionalmente valorizzati, si sono visti infliggere una serie di provvedimenti che hanno peggiorato il loro stato giuridico e aggravato la loro condizione economica: immissione in ruolo con il contagocce, allungamento da 7 a 9 anni degli scatti di livello, blocco del contratto. Se si aggiunge che la categoria ha subito il prolungamento dell'età lavorativa e la decurtazione di pensione e liquidazione con il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo, si può capire in quale stato di rassegnato immobilismo si trova attualmente il mondo della scuola. Per venirne fuori occorrerebbe uno scatto d'orgoglio e una mobilitazione di energie che al momento latitano. Al contrario, continuano ad affiorare i sintomi di una stagnazione culturale che induce all'angusta osservanza delle linee-guida tracciate dalle case editrici nei loro manuali. Questo appiattimento è la spia di una subalternità intellettuale che –inibendo la rielaborazione contestualizzata dei curricoli disciplinari– rende gli insegnanti impreparati nel gestire la negoziazione tra il sapere concettualmente denso (veicolato dalla parola scritta/parlata) e la comunicazione di saperi costruiti con l'uso di tecnologie multimediali (attrezzate per la manipolazione creativa di testi, immagini e animazioni visivamente appetibili). Da tempo la società e i nativi digitali ci pongono di fronte alla sfida di arretrare o stare al passo coi tempi. Come in tutti i periodi di crisi le scelte sono ardue, ma solo se noi docenti sapremo governare i cambiamenti in atto, riusciremo a salvaguardare la funzione educativa di una scuola al servizio dei futuri cittadini. Nell'assolvimento di questo impegnativo ruolo risiede il valore di bene comune generalmente attribuito all'istituzione scolastica, ma inadeguatamente perseguito sia per le colpevoli inadempienze del Ministero, sia perché fa fatica a emergere un progetto alternativo al modello nostalgicamente reazionario della Mastrocola. Michele Crudo


Strumenticres n.59 – giugno 2012

Il Tirocinio Formativo Attivo: la corsa all'abilitazione e il pantano della formazione di Gianluca Bocchinfuso

hanno portato anche alla nascita di diverse Il mondo della scuola è in fermento per scuole sperimentali motivando differenti l'attivazione ufficiale delle procedure di gruppi di docenti che, trasversalmente, si accesso al cosiddetto Tirocinio Formativo interrogavano sul loro “fare scuola” e sulle Attivo, ultima modalità per conseguire modalità di apprendimento degli studenti. l'abilitazione all'insegnamento. OvviaPurtroppo, però, l'Istituzione, lentamente mente, in questo turbinio sono entrati da ma inesorabilmente, ha poi trasformato subito associazioni, sindacati, gruppi che –confondendole e sovrapponendole– la si occupano di formazione dei docenti, parola “formazione” in “aggiornamento”, attivando salatissimi corsi di preparazione imprimendo modalità organizzative che ai quiz di ammissione. Il TFA è un corso di preparazione all'insegnamento di durata annuale istituito dalle Università che, dopo un esame finale, attribuisce il titolo di abilitazione all'insegnamento in una delle classi di concorso secondo quanto previsto dal Decreto Ministeriale n. 39 del 1998, permettendo la partecipazione ai futuri Concorsi Ordinari. Prima di entrare nel merito del nuovo percorso di reclutamento dei docenti, facciamo una riflessione-quadro per capire cos'è, cos'è stata e cosa sarà la formazione docente in Italia. Fino agli anni Settanta, la formazione dei docenti era relegata solo ai saperi disciplinari, conseguiti durante gli studi universitari, da trasferire agli studenti delle classi di primo e secondo grado in maniera unidirezionale. La materia rimaneva rigidamente disciplina e gli studenti apprendevano –secondo i propri mezzi cognitivi e strategifacevano dei docenti soggetti passivi di ci– le conoscenze e i linguaggi specifici. La lunghi e noiosi pomeriggi in cui direttori didattica si limitava alla trasmissione dei didattici e preside raccontavano pezzi di contenuti in piena coerenza con la scuola legislazione scolastica e idee didattiche gentiliana che ha caratterizzato buona “ballerine” che non trovavano poi nessun parte del sistema scolastico repubblicano riscontro nelle scuole. Anche per gli scarsi per decenni. Solo negli anni Ottanta e mezzi, la poca convinzione, la scarsa Novanta, anche grazie ai fermenti che motivazione. Erano momenti formali hanno condizionato l'impianto durante che regalavano mezzo punto/un punto il decennio precedente, il Ministero della per ascendere la graduatoria provinciale pubblica istruzione ha avviato timidi pere di istituto: gli intenti di chi li proponeva corsi di formazione docente, proponendo e di chi li seguiva erano molto lontani momenti e domande sulle “buone pratiche dall'obiettivo della formazione, dal mettere dell'insegnante” e le “buone pratiche dello sotto la lente di ingrandimento il prostudente”. Questi modesti cambiamenti

prio modo di insegnare per migliorarsi e migliorare. Infatti, noi siamo un paese che non ha mai realizzato –e difficilmente lo farà– la formazione come status giuridico di un docente: uno strumento che possa rendere il corpo insegnante capace di interpretare la scuola –e quindi la società– in relazione alle domande e ai bisogni interni ed esterni. In questo quadro deformato, il blocco delle assunzione, i concorsi-lotteria decennali, l'abbandono definitivo dell'idea di scuola con ruolo di “ente di formazione” per futuri docenti, ha creato la figura del “docente precario” contrapponendo generazioni di insegnanti e delegando la politica a trovare una soluzione al sistema. Da questo confuso e incerto disegno, nascono le SISS (Scuole di Specializzazione per l'Insegnamento Secondario) –con la Legge n. 341 del 1990 resa esecutiva con Decreto Attuativo il 26 aprile 1998, prima della Legge 124 del 03 maggio 1999 (Disposizioni urgenti in materia di personale scolastico) e prima che fossero banditi il Concorso Ordinario (01 aprile 1999) e i tre successivi Concorsi Riservati per conseguire l'abilitazione all'insegnamento (OO.MM. 153/1999, 33/2000, 1/2001)– che, nell'idea del Ministero, avrebbero dovuto formare i docenti dopo un biennio di lezioni universitarie, qualche laboratorio didattico e un tirocinio nelle scuole. Testualmente, sono nate per “adeguare la formazione iniziale dei docenti nel nostro Paese alle direttive europee, e quindi agli standard formativi che vigono da decenni negli altri Paesi europei; per far recuperare professionalità al ruolo docente e quindi fornire una maggiore preparazione didattica agli insegnanti, poiché i Concorsi e i Corsi Riservati non possono vantare pretese formative; per effettuare una programmazione seria sulle assunzioni del personale docente, al fine di risolvere in modo definitivo il problema del precariato

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Né pubblico né privato – spunti di riflessione

Nella pagina precedente: Giovanni Gentile alla sua scrivania.

docente”. Idea lodevole ma praticata in maniera deformata da Nord a Sud perché poggiava sul ruolo centrale delle Università che hanno chiesto ai futuri docenti per lo più di rinnovare le loro conoscenze disciplinari a scapito del lavoro sistematico su didattica, strategie e metodologie di insegnamentoapprendimento, misurazione-valutazione, progettazione-programmazione, relazione didattica ed educativa. L'abolizione delle SISS –che generalmente hanno dato il titolo di abilitazione ma hanno fallito sul piano della formazione dei docenti e del legame scuole-università in termini di innovazione didattica e funzionale– ha lasciato un vuoto normativo per conseguire l'abilitazione all'insegnamento di pari passo con l'inconsistente livello formativo dei docenti. Questo è il punto della discussione e l'asse centrale del nostro ragionamento. Il Tirocinio Formativo Attivo, pur partendo da intenti su cui difficilmente si può obiettare (riporto dal Decreto del 10 settembre 2011, n. 249, Art. 2, Obiettivi della formazione iniziale degli insegnanti 1. La formazione iniziale degli insegnanti di cui all'articolo 1 è finalizzata a qualificare e valorizzare la funzione docente attraverso l'acquisizione di competenze disciplinari, psico-pedagogiche, metodologico-didattiche, organizzative e relazionali necessarie a far raggiungere agli allievi i risultati di apprendimento previsti dall'ordinamento vigente. 2. È parte integrante della formazione iniziale dei docenti l'acquisizione delle competenze necessarie allo sviluppo e al sostegno dell'autonomia delle istituzioni scolastiche secondo i principi definiti dal Decreto del Presidente della Repubblica 8 marzo 1999, n. 275. 3. Le competenze di cui ai commi 1 e 2 costituiscono il fondamento dell'unitarietà della funzione docente.), rischia di risultare, a conti fatti, un ennesimo flop sul piano della formazione e un nuovo sistema di allargamento dei numeri dei precari da aggiungersi agli esistenti col rischio di generare una nuova guerra tra poveri. Andiamo per punti.

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1. L'accesso al Tirocinio Formativo Attivo. Il prossimo mese di luglio sono previste le prove di selezione iniziale che consistono nella somministrazione di Quiz a risposta multipla –comprensivi anche di domande inerenti alle competenze sull'uso della lingua italiana– da cui usciranno i candidati per la prova scritta e orale, quella che darà la graduatoria finale per l'accesso al TFA. L'ammissione a sostenere i quiz è a pagamento con costi al momento valutati sui 100-130 euro a persona. Ai quiz –su cui rimangono grandi riserve da parte di chi scrive perché difficilmente si può fare una scrematura obiettiva sul piano delle competenze e delle conoscenze (un po' come era accaduto con il concorso di dirigente) con questa modalità– possono accedere tutti i possessori di titolo di laurea (laurea del vecchio ordinamento riconosciuta dal DM 39/98 e degli eventuali esami richiesti per poter avere accesso all'insegnamento; laurea del nuovo ordinamento specialistica o magistrale riconosciuta dal DM 22/2005 e degli eventuali crediti formativi per poter avere accesso all'insegnamento; diploma Isef, già valido per l'accesso all'insegnamento di Educazione fisica per i TFA di Scienze motorie) con la proliferazione di un vulnus in partenza che determinerà una nuova guerra tra precari nel momento in cui non è stato tenuto presente solo il numero dei docenti che lavorano nella scuola e che occupano, a tempo determinato, le cattedre esistenti. L'ammissione al TFA avrà cadenza triennale (2012, 2013, 2014) con una ripartizione di numeri pensata con questa tempistica.

In data 2 marzo 2012, il Ministero ha fatto sapere che, per la Scuola secondaria di primo grado, per l'anno accademico 2011/2012, i posti disponibili per le immatricolazioni al TFA sono 4.275, definiti in ambito regionale per ciascun ateneo; per la scuola secondaria di secondo grado, le immatricolazioni sono 15.792. L'accesso non è previsto, però, per tutte le classi di concorso ma solo per quelle in cui il Ministero ha riscontrato un reale fabbisogno. Rimangono ancora questioni aperte per quanto riguarda i docenti non abilitati che lavorano dal 2007 e prima, con almeno 360 giorni di servizio, per i quali si sta valutando un corso riservato. Sono temi su cui le ipotesi sono diverse e ricorrenti.

Ripartizione geografica REGIONE Abruzzo Basilicata Calabria Campania Emilia Romagna Friuli-Venezia Giulia Lazio Liguria Lombardia Marche Molise Piemonte Puglia Sardegna Sicilia Toscana Trentino Alto-Adige Umbria Veneto

TFA I grado 130 60 190 435 298 65 595 80 501 215 80 130 530 140 335 190 66 70 165

TFA II grado 580 135 685 945 1116 214 2690 187 2306 695 270 320 1770 534 1610 753 87 305 590


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2. L'organizzazione del Tirocinio Formativo Attivo. Dal punto di vista normativo, i docenti ammessi al TFA svolgeranno la loro attività su tre piani: a) insegnamenti di materie psico-pedagogiche e di scienze dell'educazione; b) tirocinio svolto nelle scuole sotto la guida di un insegnante tutor, comprendente una fase osservativa e una fase di insegnamento attivo; c) insegnamenti di didattiche disciplinari da svolgere in contesto di laboratorio mirante a stabilire una stretta relazione tra l'approccio disciplinare e l'approccio didattico. Per quanto riguarda il “punto c”, nei laboratori è prevista la collaborazione tra docenti universitari e tutor.

Chi, come me, conosce l'organizzazione delle SISS, nota che si ripropone esattamente lo stesso impianto con l'aggiunta di un tirocinio attivo su cattedra, molto sfumato con le vecchie SISS e lasciato alla buona volontà del docente tutor. Non è dato sapere –questa è stata una delle debolezze delle SISS– in che modo e su quali protocolli di intesa le scuole e le università collaboreranno ai fini di un tutoring mirato che abbia piattaforme didattiche condivise tra gli istituti e le università, in modo tale da fornire una buona base metodologica ai futuri insegnanti abbastanza condivisa. Una norma, questa del tirocinio, che deve essere ancora riempita di contenuti e che rischierà –ancora una volta– di lasciare carta bianca alle Università e alle scuole o ai singoli tutor. Sempre dal Decreto del 10 settembre 2012, n. 249, Art. 11, rispetto al profilo del Docenti tutor, si legge: 1. Per lo svolgimento delle attività di tirocinio le facoltà di riferimento si avvalgono di personale docente e dirigente in servizio nelle istituzioni scolastiche del sistema nazionale di istruzione. Ai predetti docenti sono affidati compiti tutoriali, in qualità di: a) tutor coordinatori; b) tutor dei tirocinanti. 2. Ai tutor coordinatori è affidato il compito di: a) orientare e gestire i rapporti con i tutor assegnando gli studenti alle diverse classi e scuole e formalizzando il progetto di tirocinio dei singoli studenti; b) provvedere alla formazione del gruppo di studenti attraverso le attività di tirocinio indiretto e l'esame dei materiali di documentazione prodotti dagli studenti nelle attività di tirocinio; c) supervisionare e valutare le attività del tirocinio diretto e indiretto; d) seguire le relazioni finali per quanto riguarda le attività in classe. 3. I tutor dei tirocinanti hanno il

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compito di orientare gli studenti rispetto agli assetti organizzativi e didattici della scuola e alle diverse attività e pratiche in classe, di accompagnare e monitorare l'inserimento in classe e la gestione diretta dei processi di insegnamento degli studenti tirocinanti. I docenti chiamati a svolgere i predetti compiti sono designati dai coordinatori didattici e dai dirigenti scolastici preposti alle scuole iscritte nell'elenco di cui all'articolo 12, tra i docenti in servizio con contratto a tempo indeterminato nelle medesime istituzioni e che ne abbiano fatto domanda. Quanto dichiarato per Legge, condivisibile nel merito, difficilmente troverà attuazione formativa nelle scuole perché queste ultime non sono considerate, ad iniziare dai soggetti che le vivono, enti di formazione e di autoformazione. L'esito avvilente e quasi scontato è che ogni scuola farà da sé senza una riflessione a monte sulla propria idea di formazione da coniugare con quanto dichiarato dal Ministero per Legge. Un sistema molto lontano da un'idea di formazione che sia realmente la piattaforma della nuova scuola che possa unire, come si legge negli slogan del TFA, il “sapere” e il “saper fare”.

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3. La valutazione dei docenti. Abbiamo due momenti: a) la relazione del tirocinio di cui è relatore un docente universitario e correlatore l'insegnante tutor che ha seguito l'attività di tirocinio; b) l'esame finale di abilitazione che ha come fulcro centrale la discussione sulla relazione di tirocinio. Il titolo rilasciato è appunto il Diploma di abilitazione all'insegnamento che permetterà la partecipazione ai futuri concorsi ordinari. Domanda: quali sono i criteri che permetteranno di valutare il tirocinio del docente? Quale organismo interno o esterno misura –e quindi successivamente valuta– i progressi/regressi in itinere del docente? Il tirocinio dei futuri docenti abilitati sarà uguale tra chi non è mai entrato in una classe e chi è precario senza abilitazione da anni? Che ruolo avranno i docenti delle scuole ospitanti il tirocinio rispetto ai docenti in formazione? O sarà tutto relegato ai tutor? Nasceranno apposite Commissioni formazione docente di cui non c'è traccia e di cui non si parla? Chi sarà il garante del tirocinio: il tutor o la scuola in cui il tutor insegna?

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4. Formazione e abilitazione. Due parole-chiave che, invece di essere connubio di una buona scuola, arrivano sempre a cozzare tra di loro con la seconda che prende il sopravvento sulla prima. Perché alla fine è il pezzo di carta che conta. Il TFA, abbiamo già detto, parte da una base condivisibile, ma andando a leggere tra le righe non convince perché non ha un'offerta omogenea e perché l'Università rischia di avere una preponderanza dominante, a favore delle discipline e a scapito delle materie. Si registra, inoltre, uno scarto condannabile tra la formazione disciplinare, come detto preminente, e quella didattica, pedagogica e relazionali della professione docente. I colleghi che in questi mesi sono impegnati su questo nuovo fronte sanno benissimo che la loro è una corsa che decidono di fare per avere il titolo abilitante. La motivazione legata ad un vero e monitorato percorso di formazione “in ingresso” rimane sullo sfondo anche se nessuno lo ammette. L'energia è tutta per uno studio mnemonico immediato con obiettivo i quiz per poi sperare che, il sistema di punti su punti, dia la possibilità di accedere al tirocini. Una lotteria che rischia di bocciare in partenza il ministero, le università e le scuole come soggetti ufficiali di tutto questo piano di reclutamento. In più, la distonia che il TFA apre solo alla partecipazione ad un futuro Concorso ma non all'accesso alle Graduatorie permanenti degli abilitati rimane un fatto da chiarire.

Ancora una volta, le grandi questioni relative alla scuola rimangono sullo sfondo. Non si può pensare che le scuole e le università – così come sono strutturate e pensate– siano garanti di una vera formazione didattica e metodologica. Lo saranno sicuramente sul piano di quella disciplinare ma la disciplina, lo sappiamo tutti, è e rimane, “sapere”. Se non diventa materia, cioè “sapere insegnato”, non si può parlare di scuola, della buona relazione tra insegnamento e apprendimento. Farlo è un errore di partenza che, ancora una volta, la scuola italiana non merita. Soprattutto i tanti futuri docenti a cui si rischia di vendere una rinnovata illusione professionale.

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Né pubblico né privato – spunti di riflessione

Speriamo che sia dislessico di carlo petitti, Neuro Psicomotricista dell'Età Evolutiva* illustrazioni di Federico Tosi

*www.carlopetitti.it - carlitti@libero.it

Non sarà dislessico?

Ecco una domanda che con sempre maggiore frequenza si sente fare da insegnanti, genitori, operatori scolastici e sanitari. Di fronte ad un disagio scolastico, un ritardo nell'apprendimento, una scarsa motivazione, una inibizione, una forte distraibilità, un comportamento poco adattivo, un disordine psicomotorio, la domanda che oggi viene posta sempre più spesso è proprio questa. Non sarà dislessico? La domanda, per carità, è legittima. Però incuriosisce come mai sia aumentata in modo esponenziale la frequenza di indagini in questa direzione, a volte anche a scapito della formulazione di ipotesi diverse. Viene quasi il sospetto che la diagnosi di dislessia faccia comodo a qualcuno. Ma a chi? Al sistema sanitario? Ai suoi operatori? Al sistema scolastico? Ai suoi operatori? Al bambino in difficoltà? Alla sua famiglia? Potrà sembrare paradossale, ma per certi versi può davvero far comodo a tutti, tanto che non è raro che il “Non sarà dislessico?” si trasformi, più o meno consciamente, in “Speriamo che sia dislessico”. Torneremo più avanti sui motivi per cui la

dislessia tenda a volte a trasformarsi magicamente da sindrome a cura del disagio: si tratta indubbiamente di un meccanismo molto interessante e, ritengo, piuttosto nuovo. Infatti, se fin'ora una diagnosi di tipo neurologico, psicologico o neuropsichiatrico rischiava di essere vissuta come un'etichetta con conseguenze discriminanti per il bambino, pare invece in questa fase che l'acclaramento della presenza della dislessia e, in misura minore, dei diversi Disturbi Specifici di Apprendimento (disgrafia, discalculia) abbia spesso la funzione di riabilitare e restituire dignità al disagio vissuto dal bambino, e quindi al bambino stesso e all'istituzione all'interno della quale il disagio si è manifestato. Mi pare evidente che questo meccanismo possa a volte portare dei benefici; ma mi sembra anche che, se non viene esplorato convenientemente, possa portare al rischio di sottovalutazione di situazioni diverse: in fondo, se la dislessia è così “rassicurante”, se ha un protocollo di intervento tutto sommato abbastanza semplice da porre in atto, perché stressarsi ad indagare in altra direzioni?


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ficoltà di apprendimento scolastico. I primi sono disturbi che ostacolano l'acquisizione di abilità strumentali che la stragrande maggioranza degli alunni conquista senza sforzo, mentre le difficoltà scolastiche riguardano le difficoltà e le fatiche di imparare, difficoltà e fatiche che tutti abbiamo sperimentato e che fanno parte dei processi di apprendimento. Mentre nessuno di noi ricorda le fatiche per imparare a leggere ad alta voce e a scrivere (tranne i dislessici), tutti abbiamo memoria di sforzi e ostacoli incontrati per imparare la differenza tra area, perimetro o volume, ecc. Per capire cosa sono i D.S.A. bisogna prima di tutto distinguerli da queste fatiche, evitare di fare di tutta l'erba un fascio.

La dislessia è una cosa seria

Non si vuole qui certo negare la serietà e l'importanza del problema: la dislessia è una cosa seria. Oggi è piuttosto facile per chiunque documentarsi per conoscere e imparare a riconoscerne cause, effetti, possibilità di intervento. Vale comunque la pena di sottolineare alcuni elementi importanti per sapere si cosa stiamo parlando. Si parla di Disturbo Specifico di Apprendimento (D.S.A.) quando un bambino mostra delle difficoltà isolate e circoscritte nella lettura, nella scrittura e nel calcolo, in una situazione in cui il livello scolastico globale e lo sviluppo intellettivo sono nella norma e non sono presenti deficit sensoriali. In primo luogo è necessario fare un'importante distinzione tra disturbi specifici di apprendimento e disturbi generici. I disturbi specifici di apprendimento: si manifestano in bambini con adeguate capacità cognitive, uditive, visive e compaiono con l'inizio dell'insegnamento scolastico. Per stabilire la presenza di D.S.A. si utilizza generalmente il criterio della “discrepanza”: esso consiste in uno scarto significativo tra le abilità intellettive (Quoziente Intellettivo nella norma) e le abilità nella scrittura, lettura e calcolo; I disturbi generici o aspecifici di apprendimento: si manifestano nei bambini con disabilità sensoriali (ad esempio, di udito o vista) o neurologica e/o con ritardo mentale. I problemi possono essere riscontrati in tutte le aree di apprendimento (lettura, calcolo ed espressione scritta) e interferiscono in modo significativo con l'apprendimento scolastico. Per esempio, bisogna distinguere con chiarezza la dislessia e gli altri D.S.A. dalle dif-

(da: Vademecum Dislessia in www.scuolamediatodi.it)

Questo mi sembra davvero fondamentale, perchè porta a fare scelte didattiche differenti: con un bambino dislessico opterò magari anche a favore di strategie di apprendimento compensativo che privilegino, ad esempio, l'uso di strumenti multimediali, o le abilità di sintesi verbale, ecc… Con un alunno che ha disturbi generici dell'apprendimento, per esempio un ritardo nell'acquisizione dei concetti spaziali, opterò invece per strategie di apprendimento che favoriscano l'acquisizione di questi concetti (esercizi di orientamento spaziale, giochi psicomotori etc…) e non che favoriscano strategie compensative. Dunque non è affatto insensato che una diagnosi di dislessia venga fatta, come suggeriscono gli specialisti, a fine seconda, inizio terza elementare. Ricordo inoltre che, secondo i dettami dell'Associazione Italiana Dislessia, la diagnosi deve essere effettuata da un equipe multidisciplinare composta da Neuropsichiatra Infantile, Psicologo, Logopedista e Psicomotricista. Lo ricordo, e qui consentitemi un po' di verve polemica, anche perchè non sempre, nella mia esperienza, i suggerimenti e le indicazioni di alcuni cosiddetti “specialisti” si sono rivelate adeguate o efficaci. Ricordo invece con piacere ed orgoglio professionale che esistono professionisti molto seri ed estremamente competenti, capaci di affrontare il problema della dislessia con grande diligenza e anche con una buona dose di creatività, riuscendo così a facilitare lo sviluppo cognitivo dei soggetti affetti da questa sindrome senza cercare facili conclusioni, ma approfondendo in modo intelligente la complessità delle problematiche che essi pongono.

Utilizzo magico della dislessia

Dunque, sia ben chiaro, concordo senza riserve sul fatto che sia opportuno e doveroso riconoscere i portatori di dislessia e aiutarli in modo adeguato nei loro processi di apprendimento. Vorrei però riflettere sulla tendenza che si sta affermando verso un utilizzo magico della dislessia, che a volte rischia di giustificare impropriamente un approccio superficiale al problema, diventando la panacea di tutti i mali e i disagi scolastici. Vi sono alcune ragioni che facilitano l'utilizzo magico di questa sindrome: 1. L'eziologia è complessa, per molti versi ancora incerta. Si parla di un disturbo specifico di origine costituzionale trasmissibile per via ereditaria, come il colore degli occhi, i lineamenti del viso, la tendenza all'obesità, alla longilineità, alla timidezza o all'aggressività.

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Né pubblico né privato – spunti di riflessione

Le cause organiche non sono ancora completamente note e sono state fatte diverse ipotesi: una prima teoria suppone una “disconnessione funzionale” fra i centri cerebrali deputati alla decodifica della lettura (Geschwind, 1965; Marshall, 1983); viene ipotizzato un deficit del processamento fonologico che determinerebbe una difficoltà dei ragazzi dislessici a manipolare i suoni (per esempio ad effettuare lo spelling delle parole) e nel passare dal codice visivo a quello uditivo e viceversa (Frith, 2002). Una seconda teoria parla della difficoltà di orientare l'attenzione in modo selettivo da sinistra a destra e di inibire correttamente gli stimoli visivi, creando così un eccesso di informazioni e una conseguente difficoltà a discriminarle correttamente (Geiger e Lettvin, 1999). Una terza teoria ipotizza una mielinizzazione (ricopertura delle cellule nervose) incompleta che non permette un'attenzione focalizzata verso gli stimoli visivi e una conseguente difficoltà di discriminazione e decodifica degli stimoli visivi che stanno alla base della lettura (Bakker, 1998). In ogni caso la sindrome non è ad oggi accertabile con un esame neurologico, e viene diagnosticata in base a test prestazionali, basati sulla correttezza, velocità e comprensione della lettura. Sappiamo però come qualsiasi test prestazionale, per quanto venga somministrato correttamente da personale esperto, possa essere condizionato da molti fattori diversi, di tipo emotivo, relazionale, ma anche socioculturale, motivazionale, eccetera. Può succedere che il risultato del test sia compatibile con una diagnosi di dislessia, pur essendoci cause diverse che provocano una difficoltà di lettura; e questo può succedere più frequentemente se l'esaminatore vuole, o più semplicemente si aspetta, un certo risultato. 2. Alcuni protocolli di intervento sono relativamente semplici da somministrare, in quanto utilizzano per lo più procedure informatiche standardizzate: questo naturalmente semplifica il compito dell'operatore, e sovente diventa una rassicurazione per insegnanti e genitori, che evitano di veder messo il crisi il proprio “modus

operandi” e possono delegare al computer una buona parte della funzione di cura del disagio. 3. Bambino, famiglia, istituzione scolastica si sentono “presi in carico”: soprattutto viene loro assicurato che la causa del disagio ha motivazioni scientificamente spiegabili, e di norma curabili, come un'influenza o una parotite. Il disagio viene etichettato e catalogato in modo comprensibile e socialmente accettabile. 4. L'evoluzione della tecnologia permette ora di accedere con facilità ad un elevato numero di strumenti compensativi (audiolibri, video…), che tra l'altro sono estremamente compatibili con le modalità di comunicazione oggi utilizzate da internet. Questi ed altri motivi facilitano la diagnosi e fanno sì che essere dislessico possa diventare in qualche caso quasi desiderabile. Ho sentito con le mie orecchie questo commento di una madre: “mio figlio sta facendo gli esami della dislessia; speriamo che glie la trovino, altrimenti vuol dire che è deficiente!” Se l'alternativa è questa, è chiaro che la dislessia assume un aspetto rassicurante. Inoltre, una ricerca non so quanto attendibile ma certamente molto sbandierata, afferma che molti personaggi di successo hanno sofferto di dislessia. Tra gli altri vengono citati: Muhammad Ali (alias Cassius Clay) (pugile), Hans Christian Andersen (scrittore), Napoleone Bonaparte (generale), Carlo Magno (imperatore del Sacro Romano Impero), Winston Churchill (primo ministro del Regno Unito), Tom Cruise (attore), Leonardo da Vinci (scienziato), Walt Disney (fondatore della The Walt Disney Company), Albert Einstein (scienziato), Henry Ford (imprenditore), Galileo Galilei (scienziato), Bruce Jenner (decatleta), Greg Louganis (tuffatore), Isaac Newton (fisico), George Patton (generale), Pablo Picasso (pittore), Quentin Tarantino (regista), James van der Beek (attore), George Washington (primo presidente degli Stati Uniti). (vedi per es. su www.braingym.it) Come si vede, un elenco importante: chi non vorrebbe trovarsi in così buona compagnia? Scienziati, artisti, personaggi politici di primo piano, sportivi.

A me però qualche dubbio sull'attendibilità della diagnosi di Carlo Magno, o Galileo Galilei, o Napoleone Bonaparte, rimane; che tipo di test avranno usato? È davvero così facile e realmente credibile diagnosticare una sindrome neurologica a personaggi storici, senza neanche un forse o un punto interrogativo? Inoltre, un po' malignamente, mi domando: ammesso che un Galileo Galilei o un Leonardo da Vinci fossero realmente dislessici, non è che sono diventati quello che sono anche perchè hanno saputo compensare con il loro cervello, costruendo in modo magari inconsapevole mappe concettuali adeguate, e non con delle tecnologie preconfezionate, un handicap di partenza? Forse proprio questo li ha stimolati a sviluppare e incrementare la loro genialità.


Strumenticres n.59 – giugno 2012

strade, altri sintomi per esprimersi, e non è detto che non siano sintomi peggiori di una difficoltà nell'apprendimento nella lettoscrittura.

Effetti collaterali

Comunque, se ci fosse solo l'aspetto rassicurante e sdrammatizzante, niente di male: avremmo nelle scuole qualche “deficiente” in meno e un maggior numero di bambini che si sentono presi in carico. Il fatto è che, purtroppo, vedo alcune controindicazioni ed effetti collaterali. • Se un bambino viene impropriamente trattato come un dislessico, e si abitua ad utilizzare con troppa frequenza strumenti compensativi, diventerà con ogni probabilità un pessimo lettore: sarà quindi privato di un magnifico strumento di piacere (che bello perdersi in un buon libro!) e di accesso alla cultura; d'accordo, adesso prevale la cultura dell'immagine ma, accidenti, leggere rimane uno strumento fondamentale, e dovere fondamentale della scuola rimane quello di insegnare ad amare la lettura. • Come detto in precedenza, le cause di una difficoltà nella lettoscrittura possono essere molteplici: possono avere origini relazionali o comportamentali; possono contenere importanti ragioni motivazionali; possono essere legate a un semplice ritardo nell'evoluzione psicomotoria; ecc… Il bambino prova un disagio ed è possibile che elabori come sintomo la difficoltà in questione. Ora però se noi trattiamo il sintomo in modo tecnico, senza approfondire quale possa essere la causa scatenante, può essere, come a volte accade in medicina, che il sintomo scompaia, ma il disagio rimanga; e se il disagio rimane e non viene in qualche modo elaborato troverà sicuramente altre

Allora forse vale la pena di essere, o rimanere, ossevatori attenti, curiosi, senza cadere nella tentazione di semplificare troppo: la magia, usata con garbo, come nelle fiabe, può essere d'aiuto; ma se ne abusiamo, il rischio è quello di trasformare il principe in un rospo. Non dimentichiamo che l'appellativo dislessico, se usato impropriamente o con superficialità, rimane un'etichetta: magari funzionale, ma pur sempre un'etichetta. Voglio qui ricordare che la parola etichetta, in questo contesto, significa piccola etica; io vorrei che facessimo lo sforzo di recuperare un'etica più grande, più complessa, che ci consenta di rapportarci ai bisogni dei bambini in modo più profondo. Credo anche che dobbiamo “nutrire” la nostra capacità di distinguere i problemi reali dalle mode: fino a non molto tempo fa era di moda l'ADHD, e molti bambini sono di colpo diventati iperattivi (qualcuno, per fortuna non in Italia, curato con uno psicofarmaco, il Ritalin, decisamente molto pesante). Ora è il turno dei Disturbi Specifici dell'Apprendimento, forse perchè recentemente hanno fatto qualche corso di aggiornamento di troppo per psicologi e insegnanti: quanti dislessici o discalculici dovremo contare fino alla prossima moda? Non dico di non affrontare il problema, ci mancherebbe; soltanto di fare attenzione a non farsi abbagliare dalla “magia” del momento.

Oppure giochiamo…

Da bravo psicomotricista, ho imparato che il gioco serve spesso a far evolvere, a comprendere meglio anche le situazioni più problematiche. Allora perché non provare a giocare? Gioco n. 1: cerca ancora un dislessico “storico” Cristoforo Colombo (navigatore): ha scoperto l'America per errore; forse ha sbagliato a leggere la cartina… Re Artù (monarca): aveva difficoltà a distinguere le forme; pensava che le tavole fossero rotonde… Giuseppe Ungaretti (poeta): forse le sue po-

esie erano così brevi per evitare problemi di lettura… Saffo (poetessa): anzi, lei è meglio escluderla; non vorrei che qualche adolescente con problemi di lettura la leggesse dislesbica… E tu, sei capace di scovare altri personaggi famosi? Gioco n. 2: inventa la tua sindrome • Esempio 1: io non trovo le cose. “Dov'è lo schiacciapatate?” “Nel terzo cassetto” “Non lo trovo…” “Allora guarda nello scolapiatti” “Non c'è.” “Non è possibile, forse l'hai lasciato in cantina…” “Dai, non lo trovo, aiutami a cercarlo, per favore!” …e lo schiacciapatate era nel terzo cassetto. Mia moglie si innervosisce, mi accusa di non guardare con attenzione, ma davvero io fatico a trovare le cose. Allora posso inventare la mia sindrome: sono distrovico! Se trovo uno psicologo che me la certifica, anche mia moglie smetterà di accusarmi e sarà più comprensiva, magari inventeremo un sistema coi bigliettini che mi faciliterà il compito, e la serenità famigliare ci guadagnerà sicuramente. • Esempio 2: un mio amico ha una grossa difficoltà a ricordare i nomi delle persone. Questo lo espone a volte a situazioni imbarazzanti, alcuni arrivano a giudicarlo superficiale o troppo egocentrico per prestare sufficiente attenzione agli altri: se fosse un disnomico, probabilmente la gente si mostrerebbe più comprensiva… E tu, cosa aspetti a inventare la tua sindrome?

Conclusioni

Non si offendano gli intellettuali seri: il gioco, se usato correttamente e consapevolmente, non serve a banalizzare; tutt'altro, serve a stimolare il pensiero in modo creativo e critico. Non si offendano neppure gli operatori seri: ho già detto che il problema della dislessia va affrontato con professionalità e consapevolezza. Ciò che mi preme è che la dislessia non diventi una moda, e le modalità per affrontarla una via di fuga dall'affrontare altri problemi, quando ci sono (magari pure risparmiando sugli insegnanti di sostegno).

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Né pubblico né privato – proposte educative

Corsi

di formazione per insegnanti

Anno scolastico 2012-13 Nell'editoriale del numero 57 Piera Hermann, presidentessa del Cres, scriveva: “Nonostante la scuola abbia sempre meno cure, meno fondi e meno personale, nonostante gli insegnanti siano di fatto invitati a tornare indietro al modello –io spiego tu ripeti–, siamo convinti che la nostra proposta sia ancora, oggi più che mai, non solo giusta ma sensata, soprattutto perché le idee che ci orientano sono già al lavoro nella società contemporanea”. È nel cercare di interpretarle e di renderle fruibili per la scuola, di farle diventare materia da plasmare fuori e dentro le discipline, che trovano senso i corsi di formazione per insegnanti proposti dal Cres per l'anno scolastico 2012-13. Anche quest'anno i corsi si articolano intorno ad alcune tracce, suddivise per macro temi, da modulare in base alle esigenze degli insegnanti e delle scuole richiedenti In questo numero di Strumenti ne proponiamo tre; altre ne verranno pubblicate nel prossimo (previsto per l'autunno).

Dalla “crisi” al cambiamento della scuola passando per i beni comuni Quando si parla di “crisi” e di scuola, si pensa subito e solo al problema dei tagli, alla mancanza di fondi e/o di volontà politica rispetto all'importanza pur tanto sbandierata della cultura e dell'istruzione. Questo Corso per insegnanti vuole invece portare a riflettere sulla attuale crisi economica, sociale e politica come occasione unica per ipotizzare, introiettare e porre mano ad un radicale cambiamento della scuola.

Un cambiamento che non è nuovo rispetto ai dettami della pedagogia e dell'epistemologia del sapere, ma non è mai avvenuto nella realtà di gran lunga prevalente della scuola italiana nel suo insieme. L'elemento nuovo, volto qui in positivo, potrebbe essere proprio la presa di coscienza dell'inderogabile urgenza del cambiamento alla luce della comprensione delle cause e delle conseguenze della situazione di crisi che viviamo oggi.

I° PARTE - Si cercherà di mettere in comune idee e conoscenze,ovviamente senza pretese di esaustività, per stabilire coordinate condivise per la necessaria comprensione del presente ×La finanza. Qualcosa che non possiamo permetterci di “non capire” ×Banche, impresa e lavoro: crisi economica, crisi sociale ×La crisi della politica: riflessioni sulla democrazia rappresentativa II° PARTE - Si spiegherà e illustrerà l'ipotesi di andare oltre i comportamenti individuali e pubblici per riscoprire o scoprire la possibilità e la potenzialità di unirsi per la difesa dei “beni comuni”, base per un modello veramente alternativo di società ×I beni comuni ×Concetti relativi al diritto: né privato né pubblico ×Esperienze del quotidiano ×Ricognizione dell'esistente a livello globale e locale III° PARTE - Si proporrà una riflessione esemplificata sulle necessità formative per una visione alternativa della società che guardi veramente al superamento della crisi di sistema in cui siamo oggi ×Un dibattito antico: più importante il canone o la metodologia? ×Informazione e conoscenze in percorsi disciplinari e interdisciplinari per curricoli finalmente adeguati ed efficaci ×Pedagogia, metodologia e didattica funzionali alla formazione di personalità curiose, collaborative e responsabili. Confronto tra i modelli esplicitati e i modelli impliciti nella formazione scolastica oggi. ×Imparare dagli studenti e saperli guidare nelle immense potenzialità del mondo digitale in relazione a informazione, conoscenza e, soprattutto, impegno ×Il “glocale”, non una formuletta risolutiva e solo nominale, ma una linea guida del lavoro scolastico: finalmente un vero lavoro sul e col territorio in un'ottica di complessità

La nostra proposta educativa prevede anche percorsi didattici per studenti (vedi Manitese n.478, pagg. 24 e 25). Per conoscere le nostre attività visita il sito: www.manitese.it/educazione o scrivici a eas@manitese.It


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Educare alla cittadinanza attiva

L'«altro» nel nostro immaginario

La scuola si trova oggi, molto più che in passato, di fronte al compito di contribuire alla formazione di personalità capaci di “leggere” una società sempre più complessa, teatro di continui cambiamenti che, parallelamente a competenze specifiche, richiede sempre maggiori capacità teorico-pratiche non immediatamente derivabili dai contenuti disciplinari: abilità di lavorare in modo autonomo, di affrontare e risolvere problemi, di dare contributi personali, di assumere responsabilità e di saper prendere decisioni, di sapersi confrontare con gli altri. L'educazione alla cittadinanza è compito della scuola in sinergia con altre agenzie formative extrascolastiche. Essere/diventare cittadino/a in un mondo globale non significa soltanto conoscere le leggi ma anche sentirsi parte di una comunità allo stesso tempo locale e globale e acquisire un nuovo senso di responsabilità nei

L'immagine di me stesso, l'immagine dell'altro, l'immagine che io mi faccio di me stesso, l'immagine che lui si fa di me, le paure, gli stereotipi che plasmano, modellano il mio comportamento, inducono quello degli altri. Come certi paesi sono ricoperti di mine antipersone così nei nostri cervelli sono seminate rappresentazioni apprese fin dalla più tenera età, attraverso i media, la famiglia, le letture, la scuola, le conversazioni quotidiane in cui si colma il vuoto delle parole che ci mancano con delle generalizzazioni: “gli arabi”, “le donne sono tutte uguali”, “loro”… Ci si dimentica che stereotipi e pregiudizi alimentano il nostro immaginario collettivo, che è il risultato di una stratificazione millenaria, fatta di condizionamenti ambientali e culturali di varia natura, anche se non tutti questi condizionamenti hanno inciso nella stessa misura o la stessa intensità. Occorre abbandonare una visione monoculare che appiattisce per una visione nuova che ci permetta di capire meglio la realtà complessa in cui viviamo. Si tratta di far emergere pregiudizi e stereotipi che ognuno porta in sé e capire quali sono i meccanismi che li determinano, capire che i mezzi di comunicazione di massa, e la televisione in particolare, hanno un ruolo fondamentale. Dobbiamo rinnovare la conoscenza di noi stessi, mettendoci a confron-

confronti del pianeta e dei suoi abitanti. La tutela e la promozione dei diritti rappresentano l'agire concreto, lo strumento di cittadinanza utile a promuovere la difesa, la diffusione e la costruzione dei beni comuni. Il corso si propone di riflettere su questa problematica di grande attualità per: ×aumentare le informazioni sul tema; × individuare le metodologie più adeguate per affrontarlo con gli studenti. L'obiettivo è quello di arrivare a progettare un possibile percorso di insegnamento/apprendimento, da realizzare in classe, che aiuti gli studenti a comprendere un tema fortemente conflittuale del mondo attuale e contemporaneamente sviluppi competenze di ambito storico, letterario e di Cittadinanza e Costituzione.

Durante il corso si affronteranno i seguenti argomenti: 1) Il dibattito sulla cittadinanza ×il problema della cittadinanza dall'antichità ad oggi ×diritti e doveri del cittadino nella Costituzione italiana ×il dibattito sulla necessità di ripensare il concetto e i diritti di cittadinanza alla luce dei flussi migratori. Le proposte di legge. Le esperienze di altri paesi ×essere cittadini italiani o diventarlo? Come coniugare diritti e identità? Paure e desideri negli italiani e negli stranieri. ×esperienze e vissuti della seconda generazione di immigrati ×oltre la cittadinanza formale: i diritti umani, i diritti dei minori e le pari opportunità alla base della cittadinanza sostanziale ×come vivere una cittadinanza attiva: aumentare il protagonismo nel proprio territorio di vita, nella consapevolezza dei propri diritti e doveri 2) Come progettare un percorso di insegnamento/apprendimento ×La progettazione secondo la didattica per problemi ×Come arrivare a selezionare i percorsi di insegnamento/apprendimento ×Gli elementi fondamentali per un percorso: la motivazione, la rilevazione delle preconoscenze, lo sviluppo del tema/problema, la valutazione, la metacognizione ×Utilizzare un approccio metodologico che si serva di più mediatori didattici e più linguaggi

to con gli altri, problematizzandoci in rapporto agli altri. E interrogarci sul processo storico che è alla base della nostra specificità culturale. Come afferma l'antropologo Clifford Geertz “I problemi, essendo esistenziali, sono universali; le loro soluzioni, essendo umane, sono diverse” Le sfide del presente impongono uno sforzo transdisciplinare e interculturale per una educazione alla complessità umana. Siamo come un viaggiatore, un esule in territori inesplorati, che disponga di mappe obsolete e abbia invece bisogno di nuove mappe per risognare il mondo. La trasformazione graduale e irreversibile della nostra società (italiana ed europea) in senso multiculturale ci interpella in prima persona a intraprendere un percorso di trasformazione radicale delle premesse culturali, delle abitudini, dei comportamenti, delle modalità relazionali. Un impegno che riguarda non solo la sfera cognitiva, intellettuale ma anche la sfera emotiva, affettiva. Scopo del corso è di far riflettere sull'immaginario collettivo che è la lente attraverso cui noi vediamo la realtà, riflettere sui meccanismi di creazione, di funzionamento e circolazione dell'immaginario, suggerire percorsi per “decolonizzare la mente” anche alla luce delle acquisizioni della letteratura comparata e degli studi postcoloniali.

Durante il corso si affronteranno i seguenti argomenti: ×Dietro le apparenze: stereotipi e pregiudizi (anche interni alla propria cultura), il paradigma etnocentrista, l'iceberg di Kohls ×La sindrome di Tarzan: il buon selvaggio e lo sguardo esotico. Dominare o ascoltare l'altro ×Le maschere dell'Altro: dal barbaro al selvaggio, al sottosviluppato. Mito della superiorità, radice storica del pregiudizio occidentale ×Il rovescio del gioco: lo sguardo dell'Altro su di noi. Valore e limiti delle nostre “mappe” culturali

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Né pubblico né privato – dossier

Dossier

dossier cres – giugno 2012

Né pubblico né privato.

Riappropriamoci dei beni comuni

13  Spunti di riflessione di Elena La Rocca

14  Se il mondo perde il senso del bene comune di Stefano Rodotà

16  Erosione delle risorse e dei diritti: un processo di lunga durata di Michele Crudo

19  Una nuova “Educazione”: ai Beni Comuni di Piera Hermann

20  Dalle risorse ai beni comuni. Un percorso a tappe per educare alla sostenibilità di giacomo petitti

24  Per la salvaguardia dell'Infodiversità di giulio sensi

26  Tsegung, il patrimonio culturale di una comunità

Un progetto di formazione e tutela del patrimonio artistico e culturale in Camerun

di Bianca Triaca

30  Bibliografia ragionata a cura di E. Assorbi e A. Di Sapio


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Spunti di riflessione di elena la rocca

A sorpresa il referendum sull'acqua ha dimostrato un forte interesse per il problema dei “beni comuni” ed in una specie di circolo virtuoso ha a sua volta alimentato il dibattito sull'uso, l'importanza, la definizione stessa di bene comune. Da cosa deriva questa sensibilità? Molto probabilmente dal fatto che si percepiscono come minacciati dei beni che fino a poco tempo fa non venivano neppure messi in discussione (es. evidente l'acqua). La minaccia è frutto di due fenomeni che si rafforzano tra loro: la tecnologia ed un sistema economico fondato su un capitalismo “onnivoro” e totalizzante, che riduce i rapporti umani a rapporti di scambio desocializzati. Forse proprio la durezza insita in questo tipo di rapporti ha favorito un bisogno di coesione sociale, che si esprime anche nella ricerca e nel bisogno di proteggere i “beni comuni” dalla logica proprietaria del mercato, che tende sempre e dovunque a massimizzare il profitto. La scienza moderna e la tecnologia che ne deriva sono in grado di intervenire in settori una volta impensabili, basta ricordare gli OGM resi volutamente sterili per impedire al contadino di accantonare i semi per il nuovo raccolto e costringerlo ogni volta a comperare il proprio fabbisogno dalla multinazionale di turno; ma la tecnologia in sé è solo uno strumento: come un coltello lo si può usare per ammazzare il vicino o per affettare la cipolla. Il coltello/tecnologia attualmente si inserisce in un sistema economico, che subordina tutto all'economia stessa: il denaro è diventato l'unico generatore di valori simbolici e col denaro si misura tutto, mentre un capitalismo selvaggio, nello sforzo di massimizzare il profitto del capitale investito, predica la liberalizzazione di qualsiasi cosa, in altri termini la privatizzazione di ogni bene o risorsa esistente. In questo quadro lo Stato o per meglio dire i governi, sempre a caccia di denaro, privatizzano beni comuni, cioè vendono a privati cose che fino a poco prima erano beni non tanto statali, quanto collettivi. La situazione è aggravata dal fatto che mentre la nostra tradizione giuridica tutela il privato dei confronti del pubblico, nulla dice nel caso opposto: se lo Stato ha bisogno del mio terreno per costruire una strada deve indennizzarmi (esproprio ed indennizzo), ma se per fare cassa decide di vendere una spiaggia dove nelle belle giornate tutti andavano a prendere il sole…“nessuna tutela giuridica (men che meno costituzionale) esiste nei

confronti dello Stato che trasferisce al privato beni della collettività (beni comuni) che non siano detenuti in proprietà privata.”1 Ma cosa si intende per “bene comune”? a prima vista il concetto sembra semplice: istintivamente si pensa ai beni indispensabili per garantire una collettività, la sua esistenza, il suo benessere, beni collettivi di cui nessuno dovrebbe avere una disponibilità esclusiva. I beni comuni vengono infatti definiti come “l'insieme dei beni che permettono la sussistenza dell'uomo in società, a livello locale e globale.” Questo tipo di definizione rende l'idea di bene comune, ma è poco utile sul piano pratico, non risolve il problema di quali siano o possano essere i beni comuni, sono definizioni tanto generiche che possono comprendere quasi tutto ciò che ci circonda secondo la cultura e la sensibilità di chi le usa. Né basta fare riferimento ai bisogni primari dato che nessuno è in grado o ha il diritto di decidere quali sono i bisogni primari legittimi e quelli superflui. Quando poi si cerca di andare oltre questa definizione generica, e chiarire il concetto, nonché di stilare un elenco di beni comuni si incontrano grosse difficoltà, né ci aiuta il diritto dato che in passato la giurisprudenza non se ne è particolarmente occupata Se è difficile dare una definizione teorica di bene comune è difficile anche farne un elenco, alcuni propongono di dividerli in tre gruppi. Una prima categoria comprende l'acqua, la terra, non intesa come proprietà terriera, ma come fonte di vita, (piante animali ecc.) cioè i beni di sussistenza da cui dipende la vita. Si devono considerare compresi in questa categoria i semi selezionati dalle varie comunità locali, lo stesso patrimonio genetico dell'uomo e di tutte le specie vegetali e animali (che invece le multinazionali cercano di brevettare insieme ai semi selezionati nei secoli). Vi sono poi i beni comuni globali: l'atmosfera, il clima, gli oceani, ma anche la conoscenza, Internet, i frutti della creazione collettiva. Il problema è molto complesso perché si scontrano interessi individuali e collettivi, per esempio nel caso dei farmaci l'industria che ne ha condotto la ricerca vuole averne l'esclusiva (brevetto) per ottimizzare il proprio profitto, mentre paesi poveri necessitano di questi farmaci a prezzi contenuti. Lo stesso discorso vale per i prodotti della creatività 1 Ugo Mattei, Beni comuni un manifesto Editori Laterza, 2011 - pag. VI

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artistica come la musica o tecnico scientifica come un software. L'ultima categoria comprende i servizi pubblici forniti dai governi per soddisfare i bisogni essenziali dei cittadini: dall'erogazione dell'acqua e i trasporti pubblici alla sanità, dalla sicurezza all'amministrazione della giustizia. Beni che spesso i governi tendono a trattare come una proprietà che si può alienare tranquillamente, anzi secondo il pensiero economico dominante si deve alienare cioè privatizzare. I beni comuni per essere e rimanere tali devono essere gestiti in modo ben diverso, come sottolinea Stefano Rodotà , su Repubblica, “…sono a ‘titolarità diffusa’, appartengono a tutti e a nessuno, nel senso che tutti devono poter accedere ad essi e nessuno può vantare pretese esclusive. Devono essere amministrati muovendo dal principio di solidarietà. Indisponibili per il mercato, i beni comuni si presentano così come strumento essenziale perché i diritti di cittadinanza, quelli che appartengono a tutti in quanto persone, possano essere effettivamente esercitati.” Forse, come suggerisce Paolo Cacciari “Più che una definizione teorica univoca, ciò che li definisce meglio è il processo di riconoscimento storicopolitico e il conflitto che sorge tra i possibili diversi modelli di gestione.”2 Lo stesso Cacciari fa notare che il limite tra diritto individuale e bene comune spesso è molto labile: la salute può apparire un diritto individuale per cui lo stato ha il dovere di garantire ai propri cittadini cure ed assistenza sanitaria, ma può anche essere vista come un bene comune, in questo caso lo Stato per es. ha il dovere di controllare e limitare l'inquinamento dell'aria ed in generale dell'ambiente in cui viviamo. In effetti spesso il concetto di bene comune e quello di diritto fondamentale tendono a sovrapporsi tra loro, ma in ogni modo è diversa l'ottica di chi guarda: se vedo la salute come diritto individuale lo Stato mi deve garantire le cure, se la vedo come bene comune ne sottolineo l'aspetto sociale, la dimensione comunitaria, lo Stato allora deve controllare il cibo che arriva nei negozi, la refezione scolastica o l'acqua dei rubinetti. Il diritto individuale diventa un diritto collettivo, si trasforma in bene comune e ed acquista una dimensione sociale collettiva cui non eravamo più abituati e di cui ormai sentiamo il bisogno. 2  Paolo Cacciari, Beni comuni, una definizione (quasi) impossibile - www.carta.org/2011/05

Se il mondo perde il senso del bene comune*

di stefano rodotà Ordinario di Diritto civile all'Università di Roma “La Sapienza”, è stato deputato al Parlamento italiano dal 1979 al 1994 e vice-presidente della Camera dei deputati (1992). Editorialista de la Repubblica, è stato presidente della Commissione sui Beni Pubblici (2007).

Pochi giorni fa l'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione che riconosce l'accesso all'acqua come diritto fondamentale di ogni persona. L'anno scorso il Parlamento europeo ha parlato di un diritto fondamentale di accesso ad Internet. Apparentemente lontane, queste due importanti prese di posizione di grandi istituzioni internazionali si muovono sullo stesso terreno, quello dei beni comuni, attribuiscono il rango di diritti fondamentali all'accesso di tutti a beni essenziali per la sopravvivenza (l'acqua) e per garantire eguaglianza e libero sviluppo della personalità (la conoscenza). Nell'ottobre del 1847, quattro mesi prima della pubblicazione del Manifesto dei comunisti, Alexis de Tocqueville gettava uno sguardo presago sul futuro, e scriveva: «Ben presto la lotta politica si svolgerà tra coloro che possiedono e coloro che non possiedono: il grande campo di battaglia sarà la proprietà». Quella lotta è continuata ininterrotta e il campo di battaglia, che per Tocqueville era sostanzialmente quello della proprietà terriera, si è progressivamente dilatato. Oggi sono appunto i beni comuni –dall'acqua all'aria, alla conoscenza, ai patrimoni culturali e ambientali– al centro di un conflitto davvero planetario, di cui ci parlano le cronache, confermandone la natura direttamente politica, e che non si lascia racchiudere nello schema tradizionale del rapporto tra proprietà pubblica e proprietà privata. Tra India e Pakistan è in corso una guerra dell'acqua; in Italia la questione dell'acqua è divenuta ineludibile dopo che un milione e quattrocentomila persone hanno firmato la richiesta di un referendum; il parlamento islandese ha deciso che Internet debba essere il luogo di una libertà totale, uno sterminato spazio comune dove sia legittimo rende-


Strumenticres n.59 – giugno 2012

*Pubblicato su la Repubblica, 10 agosto 2010

re pubblici anche documenti coperti dal segreto. Il tema dei beni comuni segna davvero il nostro tempo, e non può essere affrontato senza una riflessione culturale e politica. Un misero esempio italiano di questi giorni ci mostra l'inadeguatezza degli schemi tradizionali e i rischi che si corrono. Da poco dichiarate dall'Unesco patrimonio dell'umanità, le Dolomiti sono oggetto di una mortificante contabilità, che sarebbe ridicola se dietro di essa non si scorgesse lo sciagurato “federalismo demaniale” che, trasferendo agli enti locali beni importantissimi, mette questi beni nella condizione di poter essere più agevolmente destinati a usi mercantili o privatizzati o comunque destinati “a far quadrare i conti”. E proprio questa eventualità mostra la debolezza dell'argomento, usato per l'acqua, secondo il quale basta che un bene rimanga in mano a un soggetto pubblico perché venga salvaguardato. Non è questione di etichette. È la natura del bene a dover essere presa in considerazione, la sua attitudine a soddisfare bisogni collettivi e a rendere possibile l'attuazione di diritti fondamentali. I beni comuni sono “a titolarità diffusa”, appartengono a tutti e a nessuno, nel senso che tutti devono poter accedere ad essi e nessuno può vantare pretese esclusive. Devono essere amministrati muovendo dal principio di solidarietà. Incorporano la dimensione del futuro, e quindi devono essere governati anche nell'interesse delle generazioni che verranno. In questo senso sono davvero “patrimonio dell'umanità”. Nel pensare il mondo, e le sue dinamiche, non possiamo sottrarci alla “ragionevole follia” dei beni comuni. Questo ossimoro, che dà il titolo a un bel libro di Franco Cassano, rivela un compito

propriamente politico, perché mette in evidenza il nesso che si è ormai stabilito tra beni comuni e diritti del cittadino. Un bene come l'acqua non può essere considerato una merce che deve produrre profitto. E la conoscenza non può essere oggetto di “chiusure” proprietarie, ripetendo nel tempo nostro la vicenda che, tra Seicento e Settecento, in Inghilterra portò a recintare le terre coltivabili, sottraendole al godimento comune e affidandole a singoli proprietari. Per giustificare quella vicenda lontana si è usato l'argomento della crescita della produttività della terra. Ma oggi il nuovo, sterminato territorio comune, rappresentato dalla conoscenza raggiungibile attraverso Internet, non può divenire l'oggetto di uno smisurato desiderio che vuole trasformarlo da risorsa illimitata in risorsa scarsa, con chiusure progressive, consentendo l'accesso solo a chi è disposto ed è in condizione di pagare. La conoscenza da bene comune a merce globale? Così i beni comuni ci parlano dell'irriducibilità del mondo alla logica del mercato, indicano un limite, illuminano un aspetto nuovo della sostenibilità: che non è solo quella imposta dai rischi del consumo scriteriato dei beni naturali (aria, acqua, ambiente), ma pure quella legata alla necessità di contrastare la sottrazione alle persone delle opportunità offerte dall'innovazione scientifica e tecnologica. Si avvererebbe altrimenti la profezia secondo la quale “la tecnologia apre le porte, il capitale le chiude”. E, se tutto deve rispondere esclusivamente alla razionalità economica, l'effetto ben può essere quello di “un'erosione delle basi morali della società”, come ha scritto Carlo Donolo. In questo orizzonte più largo compaiono parole scomparse o neglette. Il bene comune, di cui s'erano perdute le tracce

nella furia dei particolarismi e nell'estrema individualizzazione degli interessi, s'incarna nella pluralità dei beni comuni. Poiché questi beni si sottraggono alla logica dell'uso esclusivo e, al contrario, rendono evidente che la loro caratteristica è quella della condivisione, si manifesta con nuova forza il legame sociale, la possibilità di iniziative collettive di cui Internet fornisce continue testimonianze. Il futuro, cancellato dallo sguardo corto del breve periodo, ci è imposto dalla necessità di garantire ai beni comuni la permanenza nel tempo. Ritorna, in forme che lo rendono ineludibile, il tema dell'eguaglianza, perché i beni comuni non tollerano le discriminazioni nell'accesso se non a prezzo di una drammatica caduta in divisioni che disegnano davvero una società castale, dove ritorna la cittadinanza censitaria, visto che beni fondamentali per la vita, come la stessa salute, sono più o meno accessibili a seconda delle disponibilità finanziarie di ciascuno. Intorno ai beni comuni si propone così la questione della democrazia e della dotazione di diritti d'ogni persona. Spostando lo sguardo sui beni comuni, dunque, non siamo soltanto obbligati a misurarci con problemi interamente nuovi. Dobbiamo sottoporre a revisione critica principi e categorie dei passato. Dobbiamo rileggere in un contesto così mutato la stessa Costituzione, quando stabilisce che la proprietà dev'essere resa “accessibile a tutti” e quando, nell'articolo 43, indica una sorta di terza via tra proprietà pubblica e privata. Qui è l'ineludibile agenda civile e politica non di un solo paese, ma di tutti coloro che vogliono affrontare con consapevolezza e cultura adeguate le questioni concrete che ci circondano.

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Erosione delle risorse e dei diritti: un processo di lunga durata di michele crudo

Prima della rivoluzione agricola del Neolitico, il nostro pianeta era abitato da pochi milioni di esseri umani. Le risorse erano illimitate e ogni clan traeva dalla natura ciò di cui aveva bisogno. Il passaggio dal nomadismo alla vita sedentaria e la nascita dei primi villaggi inaugurarono la divisione dei compiti (agricoltori, allevatori, artigiani) e la separazione dei ruoli (il capo, lo sciamano, il consiglio degli anziani, i guerrieri). Fu in questa fase che si procedette a una primordiale appropriazione dei beni della collettività, in base alla quale si autorizzò il possesso dei campi, degli animali, degli attrezzi da lavoro. La formazione e lo sviluppo delle civiltà fluviali segnarono il passaggio a un'articolata gerarchizzazione sociale, che fu sancita dall'attribuzione del potere ai nobili (proprietari di terre e mandrie) e ai sacerdoti (custodi della quota dei raccolti che i sudditi trasferivano nei magazzini del tempio). Il re, nelle sue funzioni, era espressione della casta sacerdotale, che lo omaggiava dei titoli divini, e dell'aristocrazia, che lo affiancava nell'esercizio del comando supremo.

Bassorilievo romano che mostra scena di vita quotidiana, al mercato.

L'avvento delle civiltà marittime creò le premesse sia per una progressiva mercificazione dei beni prodotti, sia per una tendenziale supremazia del valore di scambio (prodotti prioritariamente finalizzati al mercato) sulla funzione d'uso (beni prevalentemente utilizzati nel contesto in cui venivano prodotti). Gli apripista di questo processo furono i fenici, che fondarono la loro ricchezza sull'espansione della rete commerciale, grazie alla quale il redditizio scambio delle merci elevò i mercanti al rango di classe dirigente. I greci, emulando i loro rivali della sponda libanese, riuscirono a ritagliarsi un'ampia area d'influenza nel Mediterraneo. A una delle loro facoltose colonie della costa anatolica va riconosciuto il merito dell'invenzione della moneta, sintesi di un valore assoluto in riferimento al quale tutte le altre merci erano misurate e valutate. Il potere di chi deteneva il denaro per finanziare le attività produttive, gestire i rapporti commerciali tra gli imperi, assicurare regolarità alla distribuzione dei prodotti, sostenere economicamente le guerre si consolidò con la civiltà alessandrina, che unificò in un unico mercato l'Oriente (da cui provenivano

seta, spezie e altri beni di lusso) e l'Occidente (fornitore di materie prime e produttore di utensili, suppellettili, metalli). L'impero romano raccolse l'eredità della civiltà ellenistica e potenziò gli scambi, intensificando le relazioni fra centri urbani e campagna, fra città e città, fra centro e periferia del suo vasto territorio. Per mantenere questa fitta densità relazionale, garantita dall'efficienza della circolazione via terra e via mare, Roma incrementò lo sfruttamento delle risorse naturali (disboscamento, centuriazione, urbanizzazione) e umane (diffusione del lavoro servile). Ne conseguì un accumulo di ricchezze nelle mani di chi controllava gli appalti per la riscossione delle tasse, possedeva le fornaci per la cottura dei laterizi, disponeva di latifondi e greggi per rifornire le città di alimenti, armava le navi su cui viaggiavano le merci. La privatizzazione delle risorse si accentuò con l'inarrestabile schiavizzazione della manodopera, che consentì ai proprietari di cave, cantieri edili e navali, terreni agricoli e pascoli, di impiegare forze lavorative a bassissimo costo.


Strumenticres n.59 – giugno 2012

Beni comuni. Un manifesto Mattei Ugo - Laterza, Roma-Bari 2011 “Dalla lotta per l'acqua, l'università e la scuola pubblica a quella per l'informazione critica; dalle battaglie contro il precariato e per un lavoro di qualità, a quelle contro lo scempio e il consumo di territorio; dalla lotta contro la privatizzazione della rete internet a quella contro le grandi opere: i beni comuni non sono una merce declinabile in chiave di ‘avere’. Sono una pratica politica e culturale che appartiene all'orizzonte dell'esistere insieme”. Questo volume, scritto nella forma agile del manifesto, teorizza i beni comuni come riconquista di spazi pubblici democratici, fondati sulla qualità dei rapporti e non sulla quantità dell'accumulo.

Il crollo dell'impero romano e la fine della civiltà classica determinarono un lungo periodo di carestie, epidemie e arretramento che, contraendo la produzione e la circolazione delle merci, rallentarono l'accumulo delle ricchezze. Il calo demografico e l'economia di sussistenza in microcosmi autosufficienti (monasteri, castelli, mansi) imposero quindi un freno alla privatizzazione. Questo fenomeno si verificò in tutta l'Europa medievale e si manifestò attraverso la proliferazione dei terreni demaniali, delle libertà comunali, delle autonomie concesse alle università e alle corporazioni. In ognuno di questi contesti venne infatti limitato il potere d'intervento del re o dell'imperatore. Lo testimonia la Charter of forest che accompagna la Magna Charta firmata nel 1215 in Inghilterra1. Il documento, infatti, assicurava ai servi della gleba il libero accesso alle foreste e l'uso dei beni in esse contenuti. In questo modo, impedendo ai feudatari e allo stesso sovrano il privilegio incondizionato della caccia, si legittimarono le comunità locali alla fruizione di legname, funghi, frutta, selvaggina, erbe medicinali. 1 U. Mattei, Beni comuni Laterza, 2011 (pg. 33)

L'affermazione degli Stati nazionali moderni creò una profonda cesura con il passato. Bisognose di raccogliere tutte le energie per ammodernare l'esercito, rendere efficiente l'amministrazione, essere competitivi con le nazioni concorrenti, le monarchie europee ostacolarono le spinte centrifughe degli organi ecclesiastici e della nobiltà, imprimendo un'accelerazione alla centralizzazione dei poteri che sfociò nell'assolutismo. Questa politica, che non ammetteva princìpi etici al di fuori della ragione di Stato, fu favorita dalla convergente partecipazione della borghesia mercantile, l'emergente classe verso cui confluivano i profitti ricavati dal lucroso commercio triangolare. Di conseguenza, nel corso del Seicento e del Settecento, l'espansione coloniale olandese, britannica e francese s'intrecciò indissolubilmente con la crescente prosperità delle Compagnie delle Indie orientali e occidentali che programmavano e dirigevano: la tratta dei neri; l'acquisto e la vendita di cotone, cacao, caffè, canna da zucchero; la deportazione di orfani ed ergastolani nelle colonie dove la mortalità dei bianchi si aggirava intorno al 50%. Un esempio emblematico della col-

laborazione tra sovranità statuale e interessi privati è rappresentato dalle recinzioni, eseguite con la forza dalle autorità inglesi. Nel corso di un secolo, alle comunità locali fu sottratto il bene comune delle terre demaniali, che furono acquisite dai proprietari terrieri per essere usate come pascolo. L'allevamento del bestiame e la produzione di lana assicurò una rendita costante ai signori di campagna, mentre impoverì le famiglie contadine che non ebbero più un luogo dove raccogliere la legna, portare al pascolo i maiali, catturare le lepri. I proventi derivati dalle enclosures furono successivamente investiti per costruire le filande. I proprietari dei terreni recintati, insieme ai mercanti delle città portuali, divennero perciò imprenditori e utilizzarono le innovazioni tecnologiche per impiantare opifici adatti ad ospitare la macchina a vapore. La prima e la seconda rivoluzione industriale segnarono una svolta nella storia dell'umanità perché crearono le condizioni per la produzione in serie, l'aumento esponenziale del consumo delle merci, la proletarizzazione della forza-lavoro. Ma, seguendo il filo conduttore della riflessione sui beni comuni, esse funsero da catalizzatore del processo di appropriazione delle risorse, che venne esteso alle fonti di energia (carbone, petrolio, elettricità) e alla tecnologia applicata ai settori della chimica, dei trasporti, della metallurgia, delle armi. Il sistema capitalistico si dotò infatti dei mezzi per reperire le materie prime in ogni angolo del mondo, per poi trasportarle nei centri industriali dove venivano trasformate in prodotti finiti che erano condizionati per essere immessi sul mercato internazionale. Tutto questo veniva perseguito senza alcun riguardo per il bene comune inestimabile che da allora in poi fu impunemente deturpato: il paesaggio. L'in-

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dustrializzazione inquinò l'aria con lo smog e i corsi d'acqua con gli scarichi; costrinse la gente a vivere in malsani ambienti metropolitani; contaminò la produzione agricola con i concimi chimici. I lavoratori furono trattati con la stessa arbitrarietà che aveva indotto gli industriali a saccheggiare l'ambiente. Per contrastare gli abusi padronali, i lavoratori avviarono gli scioperi per la riduzione della giornata lavorativa, la tutela sanitaria, la giustizia sociale. Alcuni di questi traguardi furono parzialmente raggiunti nei primi decenni del Novecento, ma la crisi finanziaria del ‘29 fece ripiombare le famiglie nella precarietà del lavoro e nell'incertezza esistenziale che aveva caratterizzato la loro vita nel corso dell'Ottocento. La disoccupazione cronica, la difficoltà di accesso ai beni di prima necessità, le limitazioni imposte alla libera espressione del pensiero, contribuirono a formare la coscienza che le libertà individuali e i diritti civili conquistati erano un bene comune da salvaguardare. La cura dello Stato per il benessere dei cittadini (lavoro, casa, salute) fu introdotta da Keynes negli Stati Uniti, con il New Deal di Roosvelt, e fu seguita in Europa dai governi che s'insediarono dopo la sconfitta del nazifascismo. L'ottica in cui essi si muovevano era convincente: preservare un tenore di vita dignitoso per mantenere costante la domanda da parte dei consumatori. La regolarità degli acquisti avrebbe conseguentemente stimolato l'offerta dei beni prodotti dalle industrie. La coerente teorizzazione della teoria keynesiana innescò delle pratiche virtuose che, evitando una eccessiva polarizzazione tra ricchi e poveri, avevano l'obiettivo di non acutizzare il conflitto sociale. L'irrobustimento della classe media promosse inoltre la mobilità sociale in verticale, che fu indirettamente sollecitata da un più alto e generalizzato grado di istruzione. Questa illuminata pratica politica è andata a infrangersi contro la vorace avidità di una struttura economica che, ampliando a dismisura le transazioni del mercato finanziario, ha sbilanciato i rapporti di forza a favore di organismi transnazionali spietatamente inclini a imporre agli Stati la logica della privatizzazione dei guadagni e della

socializzazione delle perdite. Per cui, quando gli affari vanno bene gli utili vengono distribuiti agli azionisti, mentre se esplode una bolla artificialmente gonfiata con la canalizzazione pilotata dei risparmi, gli Stati sono chiamati a sostenere le banche investitrici per scongiurare il pericolo d'insolvenza. L'aggravio di spese dello Stato viene dunque scaricato sui cittadini che, terrorrizzati dal rischio di una disastrosa bancarotta, si assumono l'oneroso piano di sacrifici intenzionalmente predisposto per intaccare ulteriormente le garanzie istituzionali racchiuse nel prezioso scrigno dei beni comuni: il soddisfacimento dei bisogni primari, il diritto allo studio, la conservazione di un ambiente paesaggisticamente e socialmente vivibile, il funzionamento dei servizi. Come abbiamo potuto amaramente constatare negli ultimi anni, l'agenda dei governi è dettata dalle agenzie di rating che stanno attualmente ottenendo ciò che richiedevano: aumento delle tasse, privatizzazione dei servizi, scardinamento dei contratti nazionali di categoria. Su chi si oppone incombe il ricatto dell'andamento in Borsa, come è accaduto il 30 di marzo quando, in coincidenza con lo sciopero nazionale in Spagna, le quotazioni dei titoli di stato spagnoli sono precipitate a causa di una sospetta manovra speculativa. Concludo il ragionamento con un'avvertenza. Dovendo privilegiare un'unica chiave di lettura, la mia rapidissima escursione attraverso millenni di storia ha volutamente tralasciato gli aspetti positivi delle civiltà, dell'economia mercantile, del complesso sistema che interconnette il mercato borsistico con l'economia reale del mondo produttivo. L'intenzione non è quindi quella di ingabbiare i fenomeni storici in una visione improponibilmente univoca, ma di fissare l'attenzione su un processo di lunga durata di erosione delle risorse, che rischia di consegnare il nostro futuro a coloro i quali, ossessivamente proiettati verso la ricerca del profitto, considerano un trascurabile effetto collaterale la sottrazione dei beni comuni alla collettività.

Qui sopra, John Maynard Keynes. In alto, un gruppo di minatori.


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Una nuova “Educazione”: ai Beni Comuni di piera hermann

Le “Educazioni” sono sempre state indicate da noi come fondamentali selettori dei contenuti di un insegnamento per temi e problemi che, grazie alla strumentazione sia disciplinare e interdisciplinare che metodologica, permetta alla scuola di avere reale e fruttuosa efficacia formativa. Ma le Educazioni non sono categorie astratte definite una volta per tutte. Esse sono invece le linee di orientamento rispetto alla realtà nel suo porsi e quindi anche nel suo trasformarsi. È così, ad esempio, che una Educazione come quella “allo Sviluppo”, che per anni ci ha guidati in una progettazione didattica che voleva formare all'equilibrio e alla giustizia socio-economica, è stata ad un certo punto messa profondamente in discussione perché è diventato sempre più chiaro che la parola stessa “sviluppo” sottintendeva la scelta di un modello di società, quello economicista occidentale, di cui si volevano invece evidenziare etnocentrismo, limiti e distorsioni (perciò oggi si parla invece di Educazione alla Sobrietà o, alla latino-americana, al buen vivir ecc.). Il rapporto tra la realtà e la lettura che ne diamo è dunque soggetto alla trasformazione e al divenire. Non dobbiamo quindi né stupirci (né…allarmarci) se si presenta ormai davanti a noi una nuova Educazione! Sto parlando dell'Educazione ai Beni Comuni. Certo sarebbe preoccupante se la vedessimo come un altro onere da sommare a quelli già numerosi di cui la scuola ha il carico. Ma, come tante volte abbiamo detto in queste pagine, non è così. La necessità non è “aggiungere”, ma, come del resto deve essere sempre in un lavoro degno di essere definito “intellettuale”, riesaminare, rileggere, ricalibrare contenuti e discipline alla luce del concetto di bene comune. Perché venti, trent'anni fa non se ne parlava nella società e quindi nella

scuola? La ragione è semplice e drammatica. Come l'uomo ha sempre modificato per il proprio interesse l'ambiente che lo circondava, ma ci siamo resi conto della necessità dell'educazione ambientale solo quando si è presentato il problema della sostenibilità dell'azione umana rispetto agli equilibri del pianeta in funzione della nostra sopravvivenza, così solo quando il concetto di proprietà ha cominciato a scontrarsi con la sopravvivenza attuale e futura di strati sempre più larghi (e vicini!) dell'umanità abbiamo colto la necessità di affermare, con forza e a tutti i livelli, che ci sono beni che non possono in nessun caso essere alienati dalla proprietà comune, pena la privazione della dignità in quanto esseri umani o dell'esistenza stessa. Si parla di acqua, di aria respirabile, di terra per la produzione di cibo, ma anche di cultura, di paesaggio… Si tratta di un concetto in qualche modo antico e nuovissimo che di colpo l'andamento della storia umana (globalizzazione, finanziarizzazione dell'economia, divorzio di fatto tra democrazia e società del capitalismo selvaggio, devastante impoverimento dei poveri, inquinamento, desertificazione, landgrabbing ecc.) ci costringe a cogliere e declinare prima possibile in tutte le sue conseguenze emotive, giuridiche, politiche, istituzionali, culturali! E, naturalmente, educative! Non è un problema facilissimo come a prima vista potrebbe apparire. Molti aspetti si pongono ad una auspicabile riflessione concettuale e culturale da parte della Scuola e dei singoli insegnanti. Ne espongo qui due, senza voler dare ad essi una risposta esaustiva, che non ho, ma solo per sottolinearli all'attenzione degli insegnanti e per dare indicazioni che volutamente sono solo pragmatiche, ma non per questo meno convinte. Il primo. L'Educazione ai Beni Comuni

coincide con l'Educazione ai Diritti? No. Da molti anni a scuola, tanto per fare un esempio, si lavora sull'acqua e si insegna che essa è un diritto. Non si deve più fare? E allora dove sta la differenza? La differenza sta nel diverso percorso storico del concetto di “diritto umano” e del concetto di “bene comune”. L'Educazione ai Diritti parte dal presupposto che ogni individuo è soggetto di diritti civili, politici, economici, culturali e sociali ed è un'idea che si è sviluppata a protezione contro la sopraffazione o l'incuria o l'inettitudine dell'autorità pubblica, o, se vogliamo, del potere1. Quello che cambia è il soggetto. L'Educazione ai beni comuni si fonda infatti sull'idea che esista un altro soggetto di diritti: la comunità2. Le due Educazioni ovviamente non si escludono, ma la necessità di cui oggi stiamo parlando è la costruzione nella mente dei giovani di un concetto, di un'idea che non può solo essere affermata (come potrebbe farsi in un convincente e appassionato discorso politico) per spingere alla pur indispensabile militanza del cittadino, ma che deve essere culturalmente fondata e didatticamente costruita perché stiamo parlando di un profondo mutamento di mentalità e di nuove visioni del mondo. E questo ci costringe ad andare, come sempre, ai nostri strumenti del mestiere: una progettazione curricolare disciplinare ed interdisciplinare 1 Si veda a questo proposito l'articolo di Elena La Rocca che apre il dossier. 2 Tralasciamo qui la riflessione su cosa giuridicamente si possa intendere quando si parla di 'comunità'. Assistiamo con passione alla volontà di portare avanti e diffondere una fondamentale elaborazione tecnicogiuridica che permetta di tutelare il pubblico tanto dallo Stato quanto dal privato, in modo ecologico e democratico. Per l'Italia, Rodotà, Lucarelli, Paolo Cacciari, Mattei, ecc. sono alcuni degli Autori cui rimandiamo nella bibliografia del presente Dossier.

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adeguata per epistemologia e contenuti (e naturalmente coerente come metodo). Un esempio chiarificatore, ma certo non l'unico possibile, è quello dell'insegnamento della storia3. Una storiografia che faccia risaltare il continuo processo di recinzione, esclusione, spossessamento dei poveri che ha segnato il nostro passato (dalla prima industrializzazione alla colonizzazione del mondo) è ben diversamente funzionale rispetto a quella che vede lo stesso processo come cammino verso sviluppo, modernità, civiltà (“lettura” che ancora alberga nel nostro immaginario collettivo, pur nella lampante contraddizione della società multiculturale, delle crisi e della sfiducia presenti). Il secondo problema. Il complesso concetto di “bene comune” comporta dei rischi se ci si vuole addentrare nella sua definizione per decidere su quali temi lavorare. Il rischio è di approdare impropriamente ad una visione astratta e idealizzata di società dei beni comuni nella quale si rischia seriamente di perdersi. E, in fondo, il difficile compito di elaborare definizioni per ora possiamo lasciarlo ai giuristi… Noi atteniamoci pragmaticamente alle evidenze, che ci danno già un'enorme massa di temi e problemi sicuramente coerenti con questa nuova Educazione. Atteniamoci ai temi concreti di azioni collegate alle urgenze sociali e alle emergenze ambientali: la ripubblicizzazione dell'acqua, la lotta alle emissioni in atmosfera, la fuoriuscita dall'era dei combustibili, la difesa della terra e della biodiversità, il libero accesso ai saperi… E inoltre temi locali, legati al territorio degli studenti, particolarmente preziosi per la possibilità di lavorare su raccolta diretta di informazioni, su testimonianze, con esperienze concrete della classe. Cose particolarmente preziose e formative. Come sempre poi è da sottolineare la sinergia con le altre Educazioni. Un insegnamento scientifico concettualmente e metodologicamente coerente con l'Educazione ecologica e ambientale; un neoumanesimo coerente con l'Educazione Interculturale; una riflessione letteraria e linguistico-espressiva su esperienze, bisogni, stili di vita, problemi dell'infor3  Per un discorso che approfondisce questo tema si veda l'artico di Michele Crudo a pag. 16

mazione ecc. coerente con l'Educazione alla sobrietà, al buen vivir; proposte di esperienze di impegno e partecipazione concreta alla realtà del territorio coerenti con l'Educazione alla Cittadinanza Attiva. Tutto questo ed altro ancora concorre a rendere possibile quel profondo cambiamento positivo in nome dei diritti della comunità che non potrà essere raggiunto se non grazie ad una generazione colta, competente e responsabile. Ancora una volta però, per finire, non ci stanchiamo di ripetere (e possiamo approfittare per ricordarlo anche a chi ci governa?) che non c'è competenza che basti da sola: per muovere all'impegno per il cambiamento ci vuole un'idea di miglioramento, di speranza e ci vuole la consapevolezza, fatta appunto di informazione e di esperienze, che il cambiamento cui si aspira non è mito e utopia, ma è qualcosa di possibile e spesso già concretamente esistente in molte realtà sia vicine che lontane da noi. La consapevolezza di immani danni domani non basta a muovere oggi! È necessaria quella che, in tante altre occasioni, io ho chiamato la capacità di immaginare, accompagnata dall'idea che ciò che immaginiamo è concretamente possibile. Del resto ce lo ripete quasi ogni sera l'affascinante George: ”Immagina! (pausa) Puoi!”.

Dalle risorse ai beni comuni

Un giocopercorso a tappe per educare alla sostenibilità di giacomo petitti


Strumenticres n.59 – giugno 2012

Un grande gioco all'aperto, da seguire tappa dopo tappa in un percorso costruito tutto intorno alla sede nazionale di Mani Tese, nel bel mezzo della città di Milano. È l'idea un po' pazza che stiamo provando a realizzare, certamente molto ambiziosa, per far giocare gli studenti di tutte le età a combinare tra loro gli elementi naturali, trasformarli in risorse, infine scoprire che sono un bene comune imprescindibile per la vita di ciascuno. È un viaggio alla riscoperta di alcuni legami perduti: quello tra l'uomo e la natura che lo circonda e quello forse addirittura più importante tra l'uomo e gli altri uomini, non più solo consumatori ma soggetti attivi, creatori di relazioni e idee. Il percorso è pensato con uno sviluppo circolare suddiviso in tre fasi. In una prima fase gli studenti si riuniranno nel punto di ritrovo per ascoltare Gaia (Madre Natura, o più precisamente la Pachamama) e i suoi racconti sul mondo. Nella fase centrale saranno invitati a intraprendere il viaggio visitando le cinque tappe che lo compongono (aria, acqua, terra, fuoco, uomo) e il corridoio “Dal dire al fare”. Nella terza fase si riuniranno nuovamente al cospetto di Gaia per riportare quanto visto, sentito, imparato e tirare insieme le conclusioni.

La simbologia del cerchio

La circolarità del percorso ha una forte valenza simbolica. Da Gaia tutto parte e tutto torna. È lei che racconta dei legami perduti tra l'uomo e il suo pianeta, lei propone agli studenti di partire in un

viaggio alla scoperta degli elementi, di fronte a lei si rifletterà sulle possibili soluzioni personali e collettive. Il cerchio è la perfetta rappresentazione di un sistema economico che non consuma oltre le proprie possibilità, in antitesi con la linea retta, più adatta a rappresentare l'economia dei materiali. Il cerchio, simbolo di complementarietà e partecipazione, non non ha inizio né fine: in esso ogni punto ha uguale importanza e tutto si rigenera. La retta, al contrario, procede all'infinito, simboleggiando il postulato su cui poggia l'economia moderna, secondo il quale è possibile crescere all'infinito inseguendo il mito del progresso (progredire = andare avanti, avanzare), senza far caso alla quantità né alla disponibilità delle risorse naturali.

Cinque sensi, cinque elementi

Nella fase centrale Gaia inviterà gli studenti a partire alla scoperta degli elementi (acqua, aria, terra, fuoco più il quinto elemento, l'uomo), affrontando ad ogni postazione un tema specifico. Al fine di aumentare la valenza esperienziale del viaggio, ad ognuna delle postazioni che gli studenti incontreranno durante il percorso verrà associato lo sviluppo di un senso, secondo lo schema che segue: ELEMENTO Aria Acqua Terra Fuoco Uomo

TEMA Deforestazione Bene o merce? Diritto al cibo Energie rinnovabili Impronta Ecologica

SENSO Olfatto Gusto Vista Tatto Udito

Le attività POSTAZIONE 1 Il gioco delle sedie

Prima fase

I ragazzi vengono fatti sedere su degli sgabellini disposti a cerchio intorno al planisfero. Insieme vengono individuati quattro punti sulla mappa, corrispondenti a Africa, Asia, America latina, e Nord del mondo. Considerando l'insieme degli sgabellini come la totalità della ricchezza mondiale, si procede secondo le due fasi seguenti: Fase 1: in ciascun angolo viene messo un numero di sgabellini calcolato in relazione alla percentuale della ricchezza di quell'area rispetto alla ricchezza mondiale. Con qualche arrotondamento le percentuali sono le seguenti: Africa = 3%; America latina = 8%; Asia = 26%; Nord del mondo = 63%. Fase 2: in ciascun angolo viene fatto accomodare un numero di ragazzi calcolato in relazione alla percentuale di popolazione di quell'area rispetto

alla popolazione mondiale. Africa = 16%; America latina = 9%; Asia = 56%; Nord del mondo = 19%. Fase 3: dopo aver distribuito la ricchezza (rappresentata dagli sgabellini) e la popolazione mondiale (i ragazzi), seguendo la stessa logica si distribuiscono tra le popolazioni dei continenti alcuni bicchierini colorati che rappresentano le risorse naturali (acqua, foreste, terra coltivabile, risorse estrattive), ponendo l'accento sulla differenza tra disponibilità e accesso (come si trasformano le risorse in ricchezze? Chi e come le consuma?). I ragazzi condividono idee, sensazioni, riflessioni emerse dal gioco.

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Seconda fase

POSTAZIONE 2 Elemento Aria Tema Deforestazione Attività Il gioco dei 100 alberi Senso Olfatto

POSTAZIONE 3 Elemento Acqua Tema Bene o merce? Attività I sommelier d'acqua Senso Gusto

POSTAZIONE 4 Elemento Terra Tema Diritto al cibo Attività Spese dal mondo Senso Vista

POSTAZIONE 5 Elemento Fuoco Tema Energie rinnovabili Attività Costruiamo un forno solare Senso Tatto

I ragazzi si preparano a iniziare il viaggio che, attraverso gli elementi, li renderà protagonisti del cambiamento possibile. Vengono divisi in quattro squadre e ad ognuna si affida simbolicamente la custodia di un elemento. Ad un segnale dell'animatore le squadre vanno

alla ricerca della postazione relativa al proprio elemento. Al nuovo segnale, dopo 15 minuti, le squadre si muovono verso la postazione successiva. Ad ogni tappa i ragazzi saranno coinvolti in una diversa attività:

La squadra si troverà in prossimità di questa tappa a percorrere una rampa in salita. Il pannello-mostra presenta il tema e invita i ragazzi ad osservare con attenzione il bosco disegnato sulla parete a fianco della rampa. Ogni albero riporta sulla chioma notizie e curiosità riguardanti la relazione tra l'estensione delle foreste e le emissioni di CO2 prodotte dai paesi del mondo (Es: la pianura padana una volta era una foresta e ora è il posto più inquinato d'Europa, il quarto al mondo).

Una di queste notizie è falsa. Lo scopo del gioco è individuarla e scriverla su un foglietto da riportare a Gaia, che durante la terza fase svelerà la risposta esatta. In cima alla rampa un cartello invita ogni ragazzo a fare un bel respiro, annusare l'aria di Milano, darle un voto da 1 a 10 e scriverlo sullo stesso foglietto dove ha indicato la frase falsa da riportare a Gaia.

Il pannello-mostra della postazione spiega che l'acqua dolce potabile è un bene scarso, e proprio perché così prezioso va preservato nella sua integrità. Poiché la scarsità è in aumento (a causa dell'inquinamento prodotto dall'uomo, del riscaldamento globale etc.) ma il bisogno che ne abbiamo non diminuisce, anzi aumenta con il crescere dei consumi e della popolazione mondiale, l'acqua rappresenta un vero e proprio affare per chi vuole

guadagnarci. Ce n'è relativamente poca e non possiamo farne a meno! Ma l'acqua privata è davvero più buona? I ragazzi saranno invitati ad assaggiare l'acqua da due bottiglie diverse e dovranno indovinare quale è acqua del rubinetto e quale acqua minerale, associando alle bottiglie le etichette corrispondenti, dopo avere letto le rispettive proprietà di ognuna.

Attorno al pannello-mostra sono sistemate dieci fotografie di altrettante famiglie del mondo che mostrano la loro spesa settimanale. Il pannello invita ad osservare attentamente le foto, facendo attenzione a tutti i dettagli. Ai ragazzi è richiesto di: ▪▪ Mettere in ordine le foto dalla spesa più “ricca” a quella più “povera” ▪▪ Rispondere alle seguenti domande: ̚​̚ Se per ipotesi tutte queste famiglie ti aves-

sero invitato a cena questa sera, tu da chi sceglieresti di andare? ̚​̚ Perché? Il pannello-mostra riporta inoltre alcuni dati sulla quantità di terra coltivabile disponibile in relazione al fabbisogno calorico dei 7 miliardi di abitanti del pianeta, mettendo in evidenza le diverse destinazioni d'uso: quanta terra è utilizzata per produrre frutta, verdura e cereali, quanta per produrre carne e quanta per produrre biocarburanti.

Il pannello-mostra riporta il fotomontaggio di un planisfero che mostra come apparirebbe la Terra dallo spazio se fosse possibile vederla tutta di notte nello stesso momento (inquinamento luminoso). A partire dalla foto si invitano i ragazzi a ragionare sulla distribuzione dell'energia dando i dati di quanti ne hanno realmente accesso e di quanta proviene da combustibili fossili, nucleare ed energie rinnovabili. Accanto al pannello è montato

un forno solare. I ragazzi devono scoprire come funziona e se c'è sole metterlo in moto, verificando che si riscaldi. Un cartello a fianco del forno racconta come viene usata questa tecnologia in alcuni progetti di cooperazione di Mani Tese. Al termine dell'attività verrà consegnato a tutti un breve manuale di istruzioni su come costruire un piccolo forno solare fatto in casa.

↳ Dopo aver viaggiato tra tutti e quattro gli elementi (terra, aria, acqua, fuoco) le squadre si riuniran→ no tutte insieme alla postazione numero 6.


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POSTAZIONE 6 Elemento Uomo Tema L'impronta ecologica Attività Calcoliamo la nostra impronta Senso Udito

POSTAZIONE 7 Il corridoio “Dal dire al fare”

Arrivati alla sesta postazione, i ragazzi trovano un pannello uditivo, che spiega cos'è l'impronta ecologica e come si calcola. Il pannello invita gli studenti a calcolare individualmente la propria impronta, compilando un test che trovano in un espositore agganciato al pannello esplicativo. Una volta calcolata l'impronta viene loro consegnata un'impronta da fissare sotto le scarpe, più o meno grande a seconda del risultato ottenuto da

ciascuno. Per passare alla tappa successiva i ragazzi si troveranno a camminare su una rampa sulla quale saranno dipinte delle impronte di diverse dimensioni, corrispondenti alle impronte ecologiche di diversi paesi del mondo. I ragazzi potranno così confrontare la propria impronta ecologica con quelle dipinte a terra camminandoci dentro.

Per raggiungere la postazione iniziale/finale si passa dal corridoio: “Dal dire al fare”, che presenta l'impegno e le attività di Mani Tese. Lungo la parete di destra saranno appese immagini e testimonianze dai campi di volontariato, dai mercatini dell'usato, dalle attività dei gruppi locali. Lungo la parete di sinistra si troveranno invece immagini e testimonianze dai progetti di Mani Tese nel Sud del mondo.

Terza fase

Una volta riuniti nuovamente sul planisfero Gaia chiede ai ragazzi che cosa hanno visto, sentito, fatto e imparato lungo il percorso e fornisce le risposte mancanti dai giochi. Dopo averli ascoltati, Gaia li sottopone alla “prova di Lustro”, Signore del tempo, che propone un'ultima attività: il gioco delle risorse. Il gioco stimola la riflessione sul fatto che le risorse non sono illimitate e, anche quando sono rinnovabili, hanno dei tempi per farlo che devono essere rispettati. Permetterà ai ragazzi di compiere il passo conclusivo, trasformando gli elementi naturali da mere risorse da sfruttare in beni comuni da tutelare.

Il gioco delle risorse

L'animatore dispone su un tavolo alcune piccole tavolette di metallo. Di fronte a lui i ragazzi sono disposti a semi cerchio. Ad alta voce leggerà le seguenti regole del gioco: ▪▪ Questi oggetti (tavolette) appartengono a tutti voi. ▪▪ Quando dirò “VIA” ognuno potrà prendere quanti oggetti vuole. Quando dirò “STOP” nessuno potra più prenderne. ▪▪ Dopo lo stop verranno contati gli oggetti rimasti sul tavolo ne e verranno aggiunti in egual numero, senza però superare mai il numero iniziale. ▪▪ Chi arriverà ad accumulare 20 oggetti sarà il vincitore. L'obiettivo di ciascuno di voi è però quello di ottenerne almeno uno. ▪▪ Non potete parlare tra di voi o con me, né mettervi d'accordo in alcun modo. Se non avete capito queste istruzioni, potete solo chiedere di

ripeterle. Ogni altra domanda è vietata. Spesso si verifica che i giocatori si impadroniscono subito di tutte le tavolette che formano la posta. In questo caso l'animatore dichiara finito il turno e ritira gli oggetti, in quanto non potrà raddoppiare, non essendocene più, la posta rimasta sul tavolo. Dopo essersi fatto consegnare tutte le tavolette l'animatore ricomincia da capo. Quando le tavolette si trovano al completo sul tavolo l'attività è accompagnata da una musica che riporta i rumori di una foresta. Man mano che le tavolette vengono prelevate la musica si abbassa. Quando il tavolo sarà vuoto calerà il silenzio. Il gioco finisce nel momento in cui i ragazzi hanno capito il meccanismo cooperativo necessario a sfruttare al massimo la “rinnovabilità” delle tavolette.

Debriefing

Il gioco mostra come alcune forme di cooperazione che sembrano allontanare il raggiungimento di obiettivi “individuali” possono invece rivelarsi necessarie per soddisfare i propri bisogni. Per quanto riguarda certi beni, soprattutto quelli che vengono definiti “beni comuni”, l'obiettivo collettivo è condizione necessaria per il raggiungimento di quello individuale. Lustro, Signore del tempo, aiuta in questa fase i ragazzi nella riflessione, facilitando la rielaborazione di quanto emerso e dimostrando come sia necessario fare i conti con lui nel ricercare un vero benessere. Si condividono infine pensieri e riflessioni e insieme si traggono le conclusioni.

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Per la salvaguardia dell'Infodiversità di giulio sensi

L'articolo 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani recita così: “Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere”. Come ogni diritto sancito sulle carte, pretende dagli Stati la creazione di condizioni volte alla sua realizzazione e la rimozione di qualsiasi ostacolo che ne danneggi il compimento. Molta letteratura degli ultimi anni, e non solo, insiste sullo stato dell'informazione di un paese come termometro dello stato di salute della democrazia. Anche fra la gente comune l'informazione è avvertita sempre di più come un bene primario –fra i molti altri–, la cui fruizione libera e consapevole è uno dei prerequisiti per il godimento dei diritti fondamentali dell'uomo e della donna e per la costruzione e rivendicazione di tali diritti in piena consapevolezza. Complici i fatti degli ultimi anni, sta crescendo nella società civile mondiale, e anche in quella italiana, l'attenzione nei confronti di questa tematica. Questo anche alla luce delle frequenti mobilitazioni della categoria professionale dei giornalisti che chiede maggiore rispetto delle proprie condizioni contrattuali e della libertà di esercizio del proprio mestiere, ma anche della società civile che manifesta per regole e condotte diverse nell'ottica di un maggiore pluralismo. Contemporaneamente, lo sviluppo di nuove tecnologie e il moltiplicarsi dei mezzi e delle possibilità a disposizione di chi vuole fare informazione (tecnologie informatiche, canali digitali terrestri) ridefinisce e cambia in continuazione i modi e le forme della circolazione dell'informazione, ampliando sempre più i confini di un settore che è sempre meno coinci-

dente con una categoria professionale ben delineata (i giornalisti) e riguarda in prima persona fette crescenti della società che vedono prioritario il lavoro sulla loro capacità di organizzarsi per facilitare la circolazione delle informazioni di proprio interesse e di interesse collettivo. In questo senso un ruolo sempre più importante lo svolgono i social network e il web 2.0 e 3.0 (vedi anche Strumenti numero 58 “Se l'informazione è un bene comune”). Con questo contributo alla riflessione del Cres sui beni comuni, intendiamo dare alcune chiavi di lettura del fenomeno proprio nell'ottica dell'informazione “bene comune”. Ne riportiamo quattro fra le molte possibili, che ci sembrano oggi molto attuali.

La concentrazione dell'informazione

Una prima chiave di lettura è la concentrazione crescente in poche mani della proprietà dei media. A questo tema, e ai suoi risvolti per la democrazia, ha dedicato un libro ricco di contributi il giornalista di Rainews24 Maurizio Torrealta intitolato “Democrazia e concentrazione globale delle proprietà mediatiche”. La questione è talmente in evoluzione che una fotografia reale della concentrazione dei media è quasi impossibile, ma esistono studi a livello internazionale che periodicamente cercano di fare il punto sulla questione. Anche in Italia la concentrazione dei media, e nello specifico dei mezzi di informazione, è molto alta e appare irreversibile. Su questo tema fornisce periodicamente aggiornamenti la rivista Altreconomia con inchieste e la pubblicazione del manuale “Informazione istruzioni per l'uso”. Basti in questa sede ricordare che il 73% del fatturato della carta stampata in Italia è in mano a 5 aziende editrici e il 92% di quello della televisione a 3 proprietari di emittenti. Un dato, peraltro, che dimostra che il problema del pluralismo non coinvolge solo il mezzo televisivo, ma anche gli editori della carta stampata e le loro propaggini sul web.

Democrazia e concentrazione dei media Maurizio Torrarlta EdUP, 2008


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Informazione istruzioni per l'uso Il controllo del flusso delle notizie

Un'altra chiave di lettura è la cosiddetta “filiera delle notizie”, vale a dire la catena che regola il flusso delle notizie su scala globale e nazionale. Gli attori principali nella filiera delle notizie del sistema dell'informazione di oggi sono le agenzie di stampa: fonti di informazione che si pongono a monte della catena, a cui giornali, televisioni, radio, testate online si collegano tramite un abbonamento che permette loro di ottenere in tempo reale aggiornamenti costanti su fatti già noti o nuovi. Tramite questa fonte i giornalisti riescono a coprire spesso gran parte delle necessità. Soprattutto per le notizie che rimangono “lontane dagli occhi”, le agenzie di stampa svolgono un ruolo centrale, dal momento che hanno una rete di corrispondenti dislocati sul territorio in grado di trasmettere tempestivamente le “news”. Circa la metà delle 300 più grandi sono nordamericane, 80 europee, 49 giapponesi e 27 provengono dal resto del mondo. L'80% delle notizie che circolano per il Pianeta sono prodotte, secondo i dati dell'Unesco, da 4 agenzie: le statunitensi Associated Press e United Press International, la francese France Press e la britannica Reuters. Uno strapotere enorme, almeno per il momento, rispetto all'importanza della produzione di notizie “dal basso”, supportata soprattutto dai social network e in particolare da twitter, che ha giocato e gioca in maniera crescente un ruolo cruciale nell'affiancarsi al controllo dell'informazione da parte di poche grandi agenzie.

La “concentrazione dei consumi” e la “infodiversità”

In Italia, fino al 2008, il 67% delle persone compravano almeno una volta alla settimana un giornale a pagamento. Oggi il numero di chi entra in edicola chiedendo il giornale è calato a meno del 55%. Fino al 2007 il 51,1% degli italiani leggevano il quotidiano almeno tre volte a settimana, oggi il 34,5%, una riduzione dalla metà ad un terzo. È difficile dire se sia colpa della crisi, quanta responsabilità abbia internet, se la causa sia legata alla qualità peggiore dei giornali. Sicuramente molti fattori concorrono a determinare tale crisi, di fatturati e di lettori: un elemento su tutti, la raccolta pubblicitaria che si concentra soprattutto in televisione e sempre meno sui giornali. Secondo i dati sui consumi televisivi forniti dall'Istat, gli ascolti sono concentrati su alcune specifiche reti o fasce orarie (solitamente lo share dei telegiornali è fra i più alti della giornata televisiva). Un discorso analogo vale per i giornali: il giornale di gran lunga più letto in Italia è un quotidiano sportivo che fa parte del gruppo Rcs, La Gazzetta dello Sport e occupano poi posizioni di rilievo solamente il Corriere della Sera e Repubblica. Questo che abbiamo sinteticamente tracciato è solo un disegno generale di uno scenario che non esclude l'esistenza, spesso tenace, di molte realtà di informazione di qualità. Ma il loro peso in termini di dimensioni e di pubblico è estremamente ridotto, anche se simbolicamente rilevante. Osservare i consumi di informazione (soprattutto con i dati Istat, Censis e di società come Audipress, Auditel, Audiradio etc.) è un esercizio che può essere utile per fornire, insieme al dato circa le dimensioni sul mercato dei vari giganti dell'informazione, una mappa dell'“infodiversità” del mondo e dell'Italia.

giulio sensi Altreconomia, 2010 Accedere a un'informazione di qualità è un diritto –e al tempo stesso un dovere– di ogni cittadino. Una guida pratica per analizzare il mondo dei media italiani –dalla tv al web–, capirne i meccanismi, i poteri, i limiti e le potenzialità, con un occhio di riguardo per le realtà indipendenti, che non temono censure né ingerenze.

Il “conflitto di interessi” degli editori

Una quarta e ultima chiave di lettura può essere relativa alla proprietà dei mezzi di informazione e agli interessi degli editori in campi diversi da quelli del giornalismo. L'Italia in questo senso rappresenta una specificità poco invidiata nel mondo dal momento che non esistono praticamente, tranne rare e piccole eccezioni, i cosiddetti “editori puri”, vale a dire proprietari di mezzi di informazione che facciano dell'editoria il loro esclusivo o prevalente interesse. Osservando sempre la mappa dell'informazione italiana (per la quale segnaliamo ancora il volume “Informazione istruzioni per l'uso” edito da Altreconomia) possiamo vedere come l'editoria e l'emittenza radiotelevisiva italiana sia quasi esclusivamente in mano a società che hanno interessi in molti campi dell'economia, oppure siano legati con un filo diretto alla politica partitica (come nel caso della Rai o dei giornali di partito che godono di forti finanziamenti pubblici). È lecito chiedersi se e in che modo questi grandi e meno grandi conflitti di interessi abbiano un impatto sulla qualità dell'informazione e sulla sua indipendenza ed autonomia dai poteri economici e politici.

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Conclusioni: anche l'informazione nell'universo dei beni comuni.

Occorre assumere la consapevolezza che la selezione e la gerarchia delle notizie segue sempre di più logiche esogene al giornalismo: analogamente alla concentrazione delle risorse economiche e finanziare nelle mani di pochi attori su scala mondiale, anche il flusso di notizie si concentra su un numero limitato di soggetti con il risultato di far “sparire” dalle cronache pezzi importanti di società e rappresentare una realtà sempre più parziale e “interessata”. Il prodotto di cui i cittadini godono (la pagina di giornale, il servizio radiofonico e televisivo, le pagine del sito di informazione) è la risultante di differenti logiche che travalicano la funzione classica dell'informazione (fornire notizie rilevanti) e sintetizzano spesso interessi politici o economici di ben altra natura e dinamiche molto più complesse rispetto a quella semplificata del cronista cacciatore di notizie che vede, ascolta, indaga e scrive. Questi fenomeni, sinteticamente presentati, creano un crescente disorientamento nell'opinione pubblica che è sempre più scettica rispetto all'attendibilità di ciò che legge e vede e si interroga su come poter trovare mezzi alternativi di informazione. Emerge la necessità di essere fruitori attivi e non passivi dell'informazione, ma anche di comprendere meglio i meccanismi e gli interessi che regolano questo mondo. Guardare all'informazione come “bene comune” significa innanzi tutto svelare questi meccanismi, acquisendo maggiori strumenti di comprensione della realtà: in una società dominata sempre di più dalle leggi di mercato dove il cittadino diventa consumatore e dove l'informazione, l'intrattenimento e la pubblicità hanno confini sempre più sfumati e sovrapposti.

Come spesso accade, guardare fuori casa propria aiuta a vedere con più chiarezza le cose che ci sono vicine. Così ci pare che l'affascinante esperienza di Bianca Triaca, qui riportata, ci faccia capire con immediatezza l'idea che “beni comuni” non sono solo elementi come acqua, energia, terra ecc. ma anche quel prodotto umano, complesso e denso che chiamiamo Cultura.

Tsegung, il patrimonio culturale di una comunità

Un progetto di formazione e tutela del patrimonio artistico e culturale in Camerun. di bianca triaca, architetto Collabora a progetti di cooperazione allo sviluppo nel settore della tutela e della valorizzazione del patrimonio artistico e culturale

Tsegung è un termine in lingua ghomala', uno dei principali linguaggi bantu del Grassland1. Significa “le cose del paese” e indica il complesso di oggetti rituali, sacri, di prestigio delle comunità che abitano in quell'area. Accanto all'amministrazione dello Stato sono ancora vive e determinanti nel Paese le strutture sociali della tradizione che risalgono al passato precoloniale: i regni, o “chefferies”. Sono territori più o meno grandi, dove il fon, il capo tradizionale (re o chef) discendente di chi nel passato ha guidato le migrazioni fino allo stanziamento di uno o più gruppi in un'area del Paese, ha il compito di salvaguardare e trasmettere, attraverso il perpetuarsi di antichi riti, la memoria storica, i valori sociali e religiosi della collettività, eredità sacra degli antenati. Gli strumenti di questa ritualità autoc1 Regione che occupa l'ovest e il nord-ovest del Camerun.

tona, che materializzano e rendono visibili i simboli della religiosità e del potere, costituiscono un patrimonio strettamente legato alla vita di ciascuna comunità. Si tratta di statuette, maschere, troni, strumenti musicali, decorazioni architettoniche, veri e propri documenti della cultura e della storia dei differenti popoli, della loro organizzazione politica e sociale. Dotati ciascuno di una propria funzione specifica che può essere politica, militare, religiosa, economica, amministrativa, sono documenti di storia, di cultura, di arte, carichi di significato. L'importanza di questi oggetti è enorme. Secondo Engelbert Mveng, uno studioso camerunese che ha dato un contributo fondamentale allo studio della storia e dell'arte africane “La storia africana è scritta nelle opere d'arte. Decifrare questa storia apre una pagina di epigrafia singolare e inedita. Non è più vero dire che la storia africana manca di documenti scritti; è ve-


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Un progetto italiano in Cameroun ha portato alla realizzazione di quattro Musei, come qui di seguito leggerete. Dopo il saccheggio coloniale, oggi esperti locali insieme ad esperti italiani hanno collaborato alla raccolta, salvaguardia e valorizzazione del patrimonio artistico e culturale che, bene comune dei camerounensi, può vivere sia in questi luoghi dedicati, sia nella vita reale in cui continua a svolgere la sua fun-

Il villaggio di Babungo al lavoro per il montaggio di un pannello in bamboo sulla facciata del museo.

zione. Il tutto, naturalmente, non inteso come chiusura identitaria, ma proprio come possibilità di conoscere se stessi e farsi riconoscere come portatori di Storia. L'immagine del mondo, i valori, i riti e gli oggetti che li materializzano sono un bene di tutta la comunità e come tali vanno salvaguardati e protetti ad opera e per il bene della comunità stessa. Anche in Italia!

A sinistra: museo di Mankon, interno.

Museo di Bandjoun, interno.

profanazione degli altari, furto, sacchegro piuttosto che troppo spesso noi siamo gio…” analfabeti davanti alla sua scrittura.” Il collezionismo privato è un'altra ricca Un gran numero di capolavori dell'arte riserva di documenti dell'arte e della africana, carichi di senso e di storia, sono oggi custoditi in prestigiosi musei cultura africana. Cito ancora Konaté: “Allo scarseggiare degli oggetti antichi, occidentali. In un intervento2 di Yacouba Konaté, professore di filosofia e corrisponde lo spirito della collezione… critica d'arte nell'Università di Abidjan, Spinto dall'interesse che ha per una o si legge: “Il museo etnologico è nato nel più famiglie di oggetti, il collezionista cuore della violenza dell'impresa colonia- sviluppa una bulimia puramente feticista. le che considerò i pezzi acquisiti come A differenza dei nuovi ricchi che espongooggetti per la conoscenza degli uomini e no sui loro corpi e sulle loro case i segni delle etnie da “civilizzare”. Michel Leiris esteriori della ricchezza, il collezionista ha svelato le pratiche che erano in corso. applica la sua volontà di potenza all'acEstorsione degli oggetti, mercanteggiacumulo di una categoria di oggetti di cui mento, ricatto, intimidazione armata, talvolta si innamora. Accanto a quelli che accumulano meccanicamente, vi sono 2 “Musées en Afrique: esthétique du coloro che si affezionano ai “loro oggetti”. désenchantement”, pubblicato dalla rivista Per ciascuno oggetto che possiedono, Africultures n°70 (2007). Le citazioni sono questi ultimi possono raccontare una state tradotte a cura della redazione. storia vissuta e più o meno toccante. Por-

tatori di valori di civiltà, questi oggetti diventano allora momenti di traiettorie singolari…”. Questi documenti di storia, di cultura, di creatività, costituiscono i materiali di eventi espositivi a volte epocali, promossi da istituzioni prestigiose. Propongono mappe preziose, vastissime, dell'arte del continente, sono occasioni di scoperte, di confronti, di discussione sulle influenze dell'arte africana tradizionale sull'arte europea, di questa sull'arte contemporanea africana. Altri terreni di riflessione, anche se rilevanti, rimangono purtroppo poco esplorati. Per esempio: che cosa resta agli africani del loro patrimonio artistico? In che condizioni si trova quanto, di questo patrimonio, è sfuggito al saccheggio coloniale, alle distruzioni che hanno accompagnato

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www.museumcam.org

Un sito, in francese e inglese, molto ricco di informazioni sui quattro musei, sulla storia della regione e sulle collezioni ospitate. Molte belle immagini permettono di compiere una vera visita virtuale.

le guerre nei vari paesi del continente, a un mercato praticato spesso a livelli di rapina? Come salvaguardare quello che resta? Come valorizzarlo, farne un elemento di sviluppo, senza strapparlo al terreno culturale che lo investe di significato e ne motiva l'esistenza? Perché è così raro che delle opere esposte sia indicato l'autore? Ancora una volta cito Konaté, per l'importanza del suo impegno nella salvaguardia e nella valorizzazione del patrimonio artistico africano: “Non potendo stabilire in modo chiaro l'autore dell'opera e fargli dire “me io”, il museo lascia a ogni visitatore la libertà di utilizzare il suo sguardo e di descrivere per effetto della visibilità così indotta, il proprio processo di senso… Ma allora dove sono finiti i soggetti creatori degli oggetti che popolano le collezioni di arti africane? Come comprendere quando invece di promuovere il soggetto, il museo ha finito per privilegiare pratiche che rendono anonime le opere delle collezioni?”. Cercando risposte a domande come queste è nato il progetto “Formation, tutelle du patrimoine culturel et artistique, développement au Cameroun”. Promosso dall'ong COE, finanziato dal Ministero degli Affari Esteri e dalla Conferenza Episcopale Italiana, il progetto ha portato alla realizzazione dei musei camerunesi di Mankon, Babungo,

Baham, Bandjoun. pour le Développement en CoopéraI quattro musei raccolgono, salvaguartion), grande conoscitore dell'arte e dano e valorizzano le collezioni dei della cultura del Grassland camerunese, palazzi reali, i tesori delle società tradi- di cui è originario, autore di numerose zionali e dei notabili di quelle comunità, ricerche sull'arte di quella regione. La supporti visibili di valori importanti, sua formazione di antropologo e di stoancestrali. Tramandano il senso della rico dell'arte, la sua grande esperienza storia, partecipano quanto la tradizione di ricercatore e di studioso hanno costiorale alla trasmissione culturale, almetuito il fondamento essenziale del lavono finché la loro esistenza è assicurata ro di formazione dei futuri conservatori, e il loro senso è riconoscibile, generadello studio e della documentazione zione dopo generazione. delle collezioni, della redazione dei Il museo è il loro luogo di conservaziocataloghi dei musei. Una personalità ne ma non li imprigiona, non li sottrae di grande valore intellettuale e umano al terreno culturale che li esprime. Gli cui si devono l'apertura e lo sviluppo in oggetti continuano la loro vita nella Cameroun della ricerca sul patrimonio realtà sociale, culturale e religiosa della artistico. Purtroppo il professor Notué collettività cui appartengono. Dal muè recentemente mancato lasciando seo escono ogni volta che la tradizione nella vita culturale del suo Paese un li chiama, per portare la loro presenza vuoto enorme che la ricchezza del suo carica di significati nello spazio e nel insegnamento potrà colmare attraverso tempo della vita comunitaria. Una conil lavoro e l'impegno dei suoi allievi. notazione questa che ha reso l'interAlla formazione dei conservatori sono vento particolarmente rassicurante per stati dedicati i primi due anni del le popolazioni interessate. Ipotesi di progetto. Una prima fase teorica di otto sradicamento di questi materiali, mamesi, residenziale, si è svolta nella segari per contribuire a un grande museo de del COE a Mbalmayo. I corsisti, venti, nazionale, suscitano una diffusa, forte erano tutti in possesso di baccalauréat, resistenza, sollecitano interrogativi taluni laureati in discipline diverse: linallarmati sulla liceità e sul senso della gue, diritto, scienze naturali. Provenivadecontestualizzazione di documenti di no dalle quattro località del Cameroun “cultura vivente” profondamente legati in cui sarebbero stati realizzati i musei, alla realtà che li esprime, estranei ad scelte secondo criteri che tenevano una logica espositiva che li espropri in considerazione la presenza di un dell'importante e insostituibile funpatrimonio artistico interessante, la zione spirituale e simbolica che essi disponibilità delle autorità tradizionali continuano a svolgere nel loro terreno ad aprire allo studio e alla fruizione di appartenenza. sociale il “tesoro” di cui sono i custodi La formazione dei conservatori ha (gli oggetti culturali della comunità, tserappresentato un impegno prioritario e gung), l'impegno dei responsabili locali qualificante del progetto. Non esisteva a destinare alla funzione di museo un in Cameroun alcun percorso formativo edificio, già esistente o da costruire. di quel tipo. Non era possibile però, per Terminata la prima fase di corso teorico la futura gestione dei musei, avvalersi residenziale, i venti corsisti sono riendi operatori sprovvisti di un'adeguata trati nei luoghi di provenienza di ciapreparazione o provenienti da altri scuno per iniziare l'anno di formazione paesi. Sarebbe stato in contrasto con pratica, condotta direttamente sul gli stessi obiettivi del progetto: formare terreno con la supervisione dei docenti. nuove professionalità nel settore della Ogni gruppo ha avuto in dotazione gli tutela dei beni culturali, per salvastrumenti necessari per il lavoro di guardare e valorizzare il patrimonio studio e catalogazione delle collezioni. artistico del paese e per creare nuove Per un anno i ragazzi hanno studiato il possibilità di lavoro ai giovani camepatrimonio artistico del loro territorio, runesi. applicando i criteri e i metodi di ricerca La responsabilità scientifica del proe di documentazione appresi durante la getto è stata affidata al professor Jean fase teorica della loro formazione. Un Paul Notué, docente di storia dell'arte aspetto importante del loro lavoro ha all'università di Yaoundé, ricercatore riguardato l'attribuzione delle opere. dell'IRD (Institut Français de Recherche Non sempre è stato possibile risalire


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all'identità degli artisti ma in taluni casi si sono potute individuare vere e proprie scuole, influenze e scambi fra diverse regioni. Io ho seguito costantemente il lavoro sul terreno, il responsabile scientifico ha fatto numerose missioni per verificare i risultati della ricerca in base ai quali si è potuta fondare la scelta dei materiali da esporre in ciascuno dei musei. L'intervento del museografo è stato l'unico per il quale ci siamo rivolti all'esterno del paese, nel quale non esisteva una simile figura professionale. Affidare a un professionista straniero l'allestimento di questo tipo di collezioni, nel contesto tradizionale del villaggio, poteva comportare problemi non facili da risolvere. Il contributo del professor Antonio Piva, docente di museografia alla facoltà di architettura del Politecnico di Milano, è stato di grande valore, molto apprezzato e rispettato dalle autorità e dalle collettività locali per la costante attenzione a valorizzare i materiali, le tecniche, le abilità artigianali locali. Nell'ovest camerunese, la regione dove sono stati realizzati i quattro musei, c'è un materiale, la rafia3, di cui l'ambiente naturale è particolarmente ricco e di cui viene fatto un uso larghissimo, con tecniche antiche e raffinate. Presente dai banchi del mercato alle pareti dell'edificio tradizionale più sacro e importante della residenza reale, la “grande case”, la rafia è un richiamo costante alla cultura e alle abilità artistiche e artigianali delle comunità locali. In tutti i musei i supporti su cui sono stati esposti gli oggetti sono stati realizzati in canne di rafia legate da liane, esattamente come i banchi di ogni mercato di ogni villaggio di questa zona. Soltanto il ripiano orizzontale è in legno: il padouk, un'essenza dal bel colore rosso vivo, che dà un forte risalto ai legni e alle argille di cui sono per lo più fatti gli oggetti esposti. Le pareti di due dei musei sono state rivestite di pannelli realizzati con canne di rafia legate da intrecci eleganti di liane. Sempre in canne di rafia sono fatti i portalampade che corrono lungo tutta la lunghezza delle sale di esposizione. Nel museo situato nella zona di produzione del 3 Genere di palma dalle cui foglie si ricava la fibra omonima.

Alcune spose reali restaurano antiche tenute cerimoniali in tessuto ndop.

tessuto “ndop”, utilizzato tradizionalmente come sfondo prezioso degli eventi più importanti della vita sociale della comunità locale, un'intera parete è stata rivestita da questi lunghi teli di cotone lavorato a mano, tinti in un blu indaco da cui restano escluse le decorazioni: una ricca simbologia tradotta in disegni geometrici tracciati sul tessuto ancora bianco, fittamente cuciti col filo di rafia prima del bagno nell'indaco perché la tintura non li tocchi. Questi interventi hanno molto contribuito ad accorciare le distanze fra il museo e le comunità, che se ne appropriavano lavorando alla costruzione degli spazi delineati dal progetto museografico, dandogli forma con i loro materiali, le loro tecnologie. Le spose reali hanno ricucito antiche tenute di notabili consunte dal tempo e dall'usura, che sono state poi montate su manichini di legno scolpiti da artisti locali. Gli oggetti e le tecniche della tradizione entravano nel museo con funzioni importanti, il villaggio si avvicinava ad un intervento del tutto nuovo che assumeva, nel concretizzarsi, caratteri familiari e riconoscibili. Alla fine del secondo anno i quattro musei erano allestiti e si aprivano ai visitatori. L'impegno nella salvaguardia del patrimonio di cultura diffuso nel territorio esce anche dagli spazi espositivi. Ogni

museo presenta un itinerario della memoria collettiva che guida attraverso i luoghi delle leggende, dei miti, della storia, della religiosità, della tradizione della comunità. Spesso caratterizzati dalla presenza dell'acqua –una cascata, un fiume– di alberi, oppure contrassegnati da pietre, riconoscibili per i resti dei sacrifici che ancora vi si celebrano, ricordano un episodio, una leggenda, un personaggio, oppure sono noti per una qualche proprietà magica o terapeutica. Sono luoghi di appartenenza e, contemporaneamente, confini che si allargano per accogliere l'esperienza dei visitatori. I quattro musei vivono, con alterne vicende, problemi e qualche successo, come molti musei al mondo. Altri villaggi hanno organizzato il loro patrimonio in strutture disseminate nel Paese lungo quella che ora si chiama “La route des chefferies”. Vi si incontrano scolari camerunesi, visitatori stranieri, famiglie camerunesi in vacanza. Piccoli tasselli di bene comune, patrimonio dell'umanità.

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BIBLIOGRAFIA RAGIONATA a cura di Anna Di Sapio ed Elisabetta Assorbi

Capitalismo 3.0 Il pianeta patrimonio di tutti

Gli spossessati. Proprietà, diritto dei poveri e beni comuni

Barnes Peter - Egea, Milano 2007

Bensaid Daniel - Ombre corte, Verona 2009

Una proposta che può suonare un po' provocatoria (e un po' visionaria), ma che intercetta un'opinione diffusa sull'opportunità di una riforma dell'assetto capitalistico. La versione 3.0 del sistema capitalistico dovrebbe fondarsi sulla rivalutazione e sul recupero dei beni comuni, i cosiddetti commons, che tutti possono utilizzare, ma su cui nessuno può reclamare un diritto esclusivo, come quelli ambientali o culturali, ad esempio aria, acqua, parchi, monumenti. Solo attraverso la riappropriazione è possibile fronteggiare i problemi che il capitalismo non ha saputo risolvere, come il cambiamento climatico, l'esaurimento delle risorse energetiche, il degrado ambientale e la povertà, assicurando così il funzionamento del sistema-mondo per il futuro. Perché sia possibile procedere, occorre che i beni comuni vengano gestiti in modo autonomo sia dalle leggi di mercato, sia dal controllo politico. La soluzione, per Barnes, sta nell'affidare tali beni a Fondazioni o Trust, come avviene, per esempio, in Alaska, dove in questo modo sono gestiti i proventi delle concessioni per l'estrazione di gas e petrolio.

Nel 1842 Karl Marx pubblica una serie di articoli concernenti il dibattito alla Dieta renana a proposito dei furti forestali. Diritto di proprietà, libertà di stampa, rapporto delitto/pena sono i temi di cui essi si occupano. Lo sviluppo del capitalismo comportava allora uno spostamento della linea di divisione tra il diritto consuetudinario dei poveri (la raccolta della legna secca, per esempio) e il diritto sempre più invadente dei proprietari. Due anni prima, il famoso pamphlet di Proudhon sulla proprietà aveva fatto scandalo, scagliandosi contro le giustificazioni liberali dell'appropriazione privata. Più di un secolo e mezzo dopo, le controversie in corso sul brevetto del vivente, sulla proprietà intellettuale, sul diritto all'esistenza ecc., danno a tali questioni teoriche e giuridiche una sconvolgente attualità. A partire da Marx, l'Autore ritorna sulle fonti filosofiche del dibattito per scoprire, oggi come ieri, che gli spossessati si sollevano contro la privatizzazione del mondo e la logica glaciale del calcolo egoistico. Proprietà e beni comuni: questa la sfida del presente.

Beni comuni vs merci Ricoveri G. Jaca Book, Milano 2010 Questo libro introduce un concetto fondamentale per le future sorti dell'umanità. Estranei alla dimensione privata e al valore commerciale, ma anche all'alternativa privata e statale, i beni comuni sono riemersi nella considerazione sociologica, diventando la bandiera dei movimenti progressisti mondiali che cercano una via d'uscita dal capitalismo. Il recupero dei diritti delle comunità sui beni comuni, la riappropriazione delle risorse naturali rappresenta un nuovo paradigma di società organizzata a livello locale e a partecipazione democratica, ecologicamente sostenibile, in parte anche sostitutivo del mercato, da rilanciare anche nei paesi del Nord.


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Governare i beni collettivi Ostrom Elinor Marsilio, Venezia 2006 È un classico della letteratura in materia, pubblicato dalla Cambridge University Press nel 1990, poi tradotto in diversi Paesi. Il volume affronta una delle questioni più antiche e controverse nel campo della gestione dei beni collettivi: come l'utilizzo di questi può essere organizzato in modo da evitare sia lo sfruttamento eccessivo, sia i costi amministrativi troppo elevati. L'Autrice sostiene con vigore l'esistenza di soluzioni alternative sia alla «privatizzazione» , da una parte, sia al forte ruolo di istituzioni pubbliche e regole esterne, dall'altra. Ci sono soluzioni, invece, fondate sulla possibilità di mantenere nel tempo regole e forme di autogoverno di uso selettivo delle risorse; perciò nel saggio si prendono in considerazione una gamma molto ampia di casi. Le conclusioni si basano sul confronto di casi di successo e fallimento dell'autogoverno ed identificano alcune caratteristiche fondamentali dei sistemi di gestione di risorse collettive, che hanno avuto successo. Di conseguenza vengono formulati veri e propri «principi» da rispettare nell'uso delle risorse collettive. Seguendo il metodo dell'«analisi istituzionale», risultato da precedenti lavori, sono stati necessari alcuni anni di lavoro , soltanto per leggere un sufficiente numero di casi, studiare i precedenti tentativi di sintetizzare le conclusioni provenienti da campi specializzati e sviluppare i moduli di codificazione. In seguito, si è tentato di costruire una teoria in grado di comprendere le costanti presenti nei commons. L'auspicio finale è che altri studiosi di scienze sociali continuino a monitorare e interpretare il fenomeno..

Il bene di tutti. L'economia della condivisione per uscire dalla crisi Grazzini E. - Ed. Internazionali Riuniti, Roma 2011 L'Autore, prendendo spunto dagli studi di Elinor Ostrom, premio Nobel dell'economia,e di Peter Barnes, autore di Capitalismo 3.0 (Egea, 2007), afferma che per uscire dalla duplice attuale gravissima crisi –economica ed ecologica– occorre sviluppare un'economia policentrica, che comprenda tre comparti: i beni comuni, il mercato e il settore pubblico. Il nuovo settore dei commons –ovvero dei beni che per loro natura non possono non essere condivisi– dovrebbe offrire beni immateriali e materiali aperti a tutti: quindi dovrebbe assumere un ruolo centrale nell'economia e consentire un'effettiva competizione di mercato.

Per il bene comune. Dallo stato del benessere alla società del benessere. Amoroso Bruno - Diabasis, Reggio Emilia 2010 Una rilettura critica delle esperienze di welfare europeo e dei contributi teorici, dallo Stato del benessere alla Società del benessere. Questi processi ed elaborazioni vengono approfonditi alla luce della nuova fase dello sviluppo capitalistico, imposto con la globalizzazione, e dell'insorgenza di comunità e movimenti sociali, che hanno rielaborato un'idea del welfare in direzione del Bene comune e di un'idea alternativa della Mondialità. La riflessione teorica e il progetto politico si fondono: un testo scritto per chi vuole capire, per agire.

Homo Civicus. La ragionevole follia dei beni comuni Franco Cassano Dedalo, Bari 2004 In un mondo in cui sembra possibile scegliere solo tra due forme di eterodirezione (quella del dubbio o quella del cliente), la difesa dei beni comuni e la scommessa della cittadinanza attiva sono l'unico modo per conciliare la difesa della libertà e la cura del bene comune, per sottrarsi costruttivamente alla tirannia degli Stati e a quella del mercato. “Homo civicus” è una proposta teorica appassionata, un manifesto politicoculturale che muove dalla convinzione che siano maturi i tempi per il risveglio civile del paese. La mobilitazione dei cittadini non é un movimento antipolitico, ma al contrario una straordinaria occasione per l'arricchimento della politica democratica, che chi ha a cuore il destino del nostro paese non può perdere. In ideale continuità con il “Pensiero Meridiano”, l'Autore propone una prospettiva di valore fondamentale per il Mezzogiorno. Solo la costruzione di una solida tradizione civica, fondata sulla gelosa difesa dei beni comuni, permetterà al sud di divenire un soggetto forte ed attivo della vita politica, economica e culturale del paese. È un compito tutt'altro che facile, una scommessa rischiosa, ma necessaria. Il testo è stato recensito da G. Bocchinfuso nel numero 41 di Strumenti.

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La Società dei beni comuni. Una rassegna Paolo Cacciari - Ediesse, Roma 2011 Il libro raccoglie diciannove opinioni di autrici e autori italiani che da diverse visuali disciplinari (storiche, giuridiche, filosofiche, antropologiche, ambientaliste.) si sono confrontati con il tema dei “commons”. Aria, acqua, terra, energia e conoscenza sono risorse speciali, beni primari da cui tutto dipende e la cui fruizione richiede quindi attenzioni particolari, tanto che l'applicazione a tali beni della logica del mercato ha sperimentato clamorosi fallimenti. Il riconoscimento del Nobel all'economista Elinor Ostrom dimostra che il pensiero unico neoliberista sta incrinandosi, anche dentro l'accademia. Nella sfera politica (specie in quella italiana) non vi è ancora traccia di ravvedimento: le privatizzazioni procedono, ma cresce anche l'opposizione da parte di numerosi gruppi di cittadinanza attiva, comitati e associazioni che richiedono maggiore consapevolezza nei confronti dell'uso del pianeta.

La conoscenza come bene comune. Dalla teoria alla pratica. c. Hess, E. Ostrom (a cura di) - Bruno Mondadori, Milano 2009 Oggi attraverso Internet, la conoscenza è potenzialmente disponibile per tutti con un solo click. Ma proprio nel momento della sua apparente maggiore accessibilità, il sapere è soggetto a norme sempre più restrittive sulla proprietà intellettuale, che limitano l'accesso alle risorse on-line. Queste nuove forme di censura mettono a rischio il carattere di bene comune della conoscenza. E proprio di fronte a tale pericolo, questo testo ribadisce che il sapere deve essere una risorsa condivisa, il propellente stesso per le moderne società che legano la loro prosperità e il loro sviluppo alla ricerca, alla formazione e alla massima diffusione sociale di saperi creativi e innovativi. Ma come preservare questo bene nell'epoca del neoliberismo globalizzato dell'informazione? È quindi necessario ripensare la proprietà intellettuale e il copyright, ma anche il ruolo delle biblioteche, delle istituzioni formative e delle forme di creazione e condivisione digitale dei saperi, così come il modo in cui i nuovi contenuti digitali possono essere conservati e resi disponibili attraverso il Web.

Beni comuni. Dalla teoria all'azione politica Lucarelli Alberto Dissensi, Viareggio 2011 Il concetto di bene comune va oltre quello di proprietà pubblica o privata. La grande novità rivoluzionaria del bene comune è il voler superare il rapporto escludente tra proprietario e bene: non si può prescindere da questa nozione senza aderire a un nuovo modello di partecipazione e quindi di cittadinanza attiva. In questo libro Lucarelli, redattore dei quesiti referendari sull'acqua, con contributi di Luigi De Magistris e Alex Zanotelli, ripercorre le varie tappe del cammino che ha permesso di riappropriarci del bene comune per eccellenza: l'acqua. Inoltre, ora, come assessore ai beni comuni a Napoli, spiega come si debba passare dalla teoria alla pratica, per realizzare un nuovo modello di governo partecipato dei beni comuni, come risposta vincente alla crisi di sistema che stiamo vivendo.

I beni pubblici tra regole di mercato e interessi generali. Profili di diritto interno e internazionale Colombini G. (a cura di) - Jovene, Napoli 2009 Gli interventi legislativi che hanno disciplinato la privatizzazione dei beni pubblici hanno delineato una cornice normativa che mette in luce alcune contraddizioni e limiti di fondo della sistematizzazione teorica della proprietà pubblica, incentrata, sino ad oggi, su specifici statuti proprietari di ciascun bene e sullo stretto legame fra titolarità del bene e soddisfacimento di una funzione pubblica. Accanto a questo aspetto, il processo di privatizzazione dei beni pubblici ha posto in evidenza l'ulteriore problema della loro gestione in forma imprenditoriale con la conseguente distinzione tra funzione di regolazione e funzione di gestione dei beni stessi. Gli studi dimostrano che si è giunti a un nuovo criterio di distribuzione delle competenze tra pubblico e privato, che ha portato a ricalibrare il rapporto tra regole di mercato e interessi generali.


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Il dolce avvenire. Esercizi di immaginazione radicale del presente Bosi A., Deriu M., Pellegrino V. (a cura di) - Diabasis, Reggio Emilia 2009 Il libro si compone di saggi brevi su puntuali argomenti che compongono un mosaico di riflessioni su questioni di bruciante attualità. Intellettuali affermati (Serge Latouche, Pietro Barcellona, Maurizio Chierici…) e altri studiosi, fra cui molti giovani, riflettono sulla società mondiale attraverso temi-chiave come clima, decrescita, democrazia, laicità, lavoro, migrazione, pace,salute, scienza… Il lessico usato dà ragione della complessità del nostro tempo e rende accessibile e appassionante la lettura.

I mercanti della notizia Centro Nuovo Modello di Sviluppo Emi, Bologna 2010 L'informazione è potere, non solo l'informazione dei telegiornali, ma soprattutto quella che indirettamente ci arriva dai media di intrattenimento, dalla pubblicità e dal gossip. È proprio attraverso queste forme “spurie” che l'informazione viene usata per influenzare le idee e le scelte dei consumatori. In tutto il mondo esiste un legame tra media e potere, ma in Italia risulta quanto mai profondo, perciò il nostro paese rappresenta un caso particolare. Il libro fa una radiografia chiara e precisa delle proprietà e degli interessi economici che girano attorno alla comunicazione, aiuta a riconoscere giornali ed emittenti televisive in base ai loro proprietari. Una vera e propria guida da consultare (con testi, schede e diagrammi) che aiuta il lettore a sapersi difendere dalla manipolazione.

www.onthecommons.org www.environmentaljustice.org www.decrescita.it (rete per la decrescita)

Notizie S.p.A. Michele Polo Laterza, Roma-Bari 2011 Sul pluralismo nell'informazione e sulla concentrazione nel mercato dei media si discute molto in Italia, ma con poco rigore, senza tenere conto dei dati e delle dinamiche economiche. L'Autore si interroga sulle origini della situazione attuale, su ciò che possiamo attenderci per il futuro e sulle politiche che possono rivelarsi utili. Pluralismo vuol dire avere tante voci che parlano assieme, se viene meno è la democrazia a funzionare male. Per scegliere, i cittadini devono disporre di una informazione ampia e pluralista. Ma in Italia non è così. Numeri alla mano, Polo spiega l'anomalia italiana confrontandola con il panorama europeo e avanzando alcune soluzioni.

www.facebook.com/groups/62205983998/ Su Facebook, esiste un Gruppo che si chiama La conoscenza come bene comune, periodicamente aggiornato, dove troverete numerosi eventi inerenti il tema, e dove viene caricato materiale, in italiano e inglese, per la discussione e l’approfondimento.

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PAROLE, MUSICHE, IMMAGINI

Gelem Gelem*: il lungo cammino delle genti Rom a cura di anna di sapio

e sconvolgente in una vicenda umana fra Che cosa possono avere in comune Rita Hayworth, Charlie Chaplin, Schack August le più mirabili che l'umanità intera abbia conosciuto nella sua variegata esistenza”. Steenberg Krogh, premio Nobel per la meIl mondo romanò è costituito essenzialdicina nel 1920, Juscelino Kubitschek de mente da cinque gruppi principali: Rom, Oliveira, presidente del Brasile dal 1956 al Sinti, Kale (penisola iberica), Manouche 1961, e Ceferino Giménez Malla morto du(Francia), Romanichals (Inghilterra), divisi rante la guerra civile spagnola e dichiarato in una miriade di comunità o sottogruppi, beato nel 1997 da papa Giovanni Paolo II? ciascuno con proprie tradizioni, dialetti, Un'origine romanì. Nata a New York, ma di origine spagnola, Rita Hayworth, il cui vero usi e costumi, che risentono dei condizionamenti storici, politici, linguistici, nome era Margherita Carmen Cansino, era religiosi, economici, sociali e culturali dei figlia del celebre ballerino Calo Eduardo paesi ospitanti. La popolazione romanì, Cansino e nipote del danzatore Antonio presente in ogni continente, conta oggi 16 Cansino; Charlie Chaplin nella sua biogramilioni di persone. In Europa sono undici fia rivela che sua nonna era una “zingara” milioni, presenti in tutti gli Stati. In Italia Romanichal e per questo considerata abbiamo solo Rom e Sinti, comunità di la vergogna della famiglia; Krogh era un antico insediamento; si tratta più o meno Rom danese, diventato prima medico, poi fisiologo, professore e ricercatore, insignito di 170.000 persone di cui circa il 60% sono cittadini italiani. Le comunità romanès di lauree honoris causa in varie università e membro di molte accademie; Kubitschek, straniere sono quelle di recente immigrazione, provengono dalla ex Jugoslavia e importante uomo politico brasiliano, era figlio di una Romnì di origine cecoslavacca, dalla Romania, in totale 70.000 persone. sotto la sua presidenza il paese conobbe un Al di là delle differenze hanno in comune una patria d'origine, l'India del Nord, periodo di prosperità e stabilità politica. anche se quello delle origini resta il periodo Come si concilia la realtà di queste figure più controverso: essendo rimasta per molti con la romfobia di cui ancora è affetta la secoli una cultura essenzialmente orale, nostra società, con il pregiudizio che si ha erano possibili solo ipotesi e congetture nei riguardi degli “zingari”? Grande è la disinformazione sul mondo dei “sui motivi e le circostanze che indussero gli antenati degli attuali Rom, Sinti, Kale, MaRom e genera stereotipi e pregiudizi che, a nouches e Romanichals ad abbandonare le loro volta, sono alla base delle manifestazioni razziste e xenofobe. Ben venga quindi terre natie”. (p. 19) Fondamentale l'apporto della filologia alla ricostruzione della il volume di Santino Spinelli Rom, genti storia dei Rom: studi basati sulle affinità libere. Storia, arte e cultura di un popolo milinguistiche, su alcune pratiche religiose, sconosciuto, pubblicato da Dalai, con una su alcuni tratti culturali e sui lineamenti vibrante prefazione di Moni Ovadia che somatici, sembrano confermare la provedefinisce l'opera “un viaggio appassionato

Rom, genti libere Santino Spinelli Dalai editore, Milano 2012


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“Una Nazione, non uno Stato”

*Gelem Gelem (Camminai camminai) composto da Janko Jovanović, sulla base di un canto tradizionale, e adottato come inno transnazionale al Primo Congresso Mondiale della popolazione romanì tenuto a Londra nel 1971, è il canto in cui tutte le comunità di Sinti, Rom, Kale, Manouches e Romanichals si riconoscono.

nienza dall'India, da un territorio compreso tra il Sindh, il Punjab, il Rajasthan, l'Uttar Pradesh, l'Afganistan Meridionale e l'attuale Pakistan. Tutto il primo capitolo, dedicato alla storia, ci illumina sulle migrazioni forzate che portarono le genti Rom dapprima in Persia, poi nell'Impero Bizantino e nei Principati rumeni (dove furono tenuti in schiavitù per secoli) per approdare infine in Occidente. Dall'inizio del XV secolo vi sono documenti “sempre più numerosi e precisi” che attestano l'apparire di comunità romanès in Europa, anche se la maggioranza della popolazione romanì rimase nell'Europa balcanica, sotto il dominio turco. Credevano di essersi lasciati alle spalle le guerre e la minaccia della schiavitù ma, anche in Europa e in Italia avrebbero conosciuto politiche repressive perché “la loro diversità incuteva timore e sospetto”, li faceva apparire pericolosi e privi di moralità. Eppure si trattava di un popolo che non arrivava “con le armi, né con eserciti, né, tanto meno, con pretese di conquiste (…) come tutti i documenti confermano. (…) Ma l'incomprensione e i risvolti politici e sociali portarono gli europei ad adottare, nei loro confronti, misure repressive spesso disumane, i cui danni sono evidenti ancora oggi.” (p. 83) Costretti a spostarsi di continuo per difendersi da misure repressive, questo loro continuo girovagare “fu scambiato per nomadismo e ancora oggi (…) l'opinione pubblica ha questa errata considerazione della popolazioni romanì” e i media non fanno che speculare su questo stereotipo lasciando l'opinione pubblica

Noi Rom siamo i soli che rivendichiamo una rappresentanza per la Nazione che siamo, mentre non rivendichiamo affatto, storicamente e ancor meno oggi, uno Stato. Né possiamo essere considerati una minoranza visto che siamo più numerosi delle popolazioni di svariati Stati europei. E ancor meno lo saremmo nell'Europa che vedesse compiersi ormai l'antico sogno federalista. Siamo convinti che porre questa domanda, questa rivendicazione, sia nell'interesse diretto di tutti gli europei, che si sentono «minoritari» o «maggioritari». Una rivendicazione transnazionale e per nulla pericolosa. Non è infatti difficile rendersi conto che quel che ha provocato –e continua a provocare– disastri e massacri è precisamente la volontà di sovrapporre il concetto di Nazione a quello di Stato e non la mera consapevolezza di essere parte di una Nazione, di una tradizione, di parlare una lingua comune, condividere origini e tragedie comuni (come l'Olocausto, dimenticato e del tutto celato e rimosso). L'Olocausto ha ucciso quasi seicentomila nostri fratelli, ma nessuno lo ricorda. Gli infiniti massacri europei sono puntualmente derivati –nel passato come recentissimamente nei Balcani– dalla volontà di far coincidere nazionalità e cittadinanza, Stato e Nazione. Noi siamo una Nazione, ma non vogliamo uno Stato (…) è inadatto per gente come noi, cui storicamente e attualmente non appartiene la volontà (peraltro ormai inattuale) di identificare popolo e territorio, Nazione e Stato. (…) noi vogliamo vivere da europei, come gli altri e con gli altri; cittadini a prescindere dalla nazionalità, dalla religione che si professa, dalla lingua che si parla… Europei, cittadini europei di nazionalità Rom… I Rom intendono essere cittadini europei. I Rom vogliono aiutare le nuove forme del vivere associati, le nuove norme, le nuove istituzioni dell'Europa politica fondata sul diritto. Nuove, perché è nuova la società. Una Nazione transnazionale ha bisogno di uno Stato di diritto transnazionale. Siamo davvero i soli ad avere bisogno di questo? Riuscire a dare, insieme, una risposta alla nostra «sfida» al nostro «sogno» è urgente per tutti.

Discorso pronunciato a Roma il 3 dicembre 2000 da Emil Sćuka, Presidente del Presidium dell'IRU (International Romanì Union) nell'incontro col Presidente del Consiglio Amato. (Santino Spinelli, Rom, genti libere. Storia, arte e cultura di un popolo misconosciuto, Dalai, Milano 2012, pp. 349-50)

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Latcho drom Buon viaggio tony gatlif Documentario durata 103' Francia 1993

disinformata e preda dei pregiudizi. (p. 88) In realtà –sostiene Spinelli– le comunità romanès “non accettavano e non accettano non l'integrazione, ma il ‘modo’ in cui questa viene richiesta, ovvero attraverso una coercitiva assimilazione che presume una totale e umiliante spersonalizzazione. Come chiedere a un italiano che vive in Giappone di diventare ‘giapponese’ rinunciando totalmente alla propria identità.” (p. 95) Una storia contrassegnata da ripetuti episodi di repressione e di persecuzioni, che nel ‘900 vedrà in Europa il Porrajmos, il genocidio di Rom e Sinti da parte del nazifascismo; le cifre delle vittime oscillano da 500.000 a un milione e mezzo. Nel dopoguerra nessun Rom o Sinto fu invitato al processo di Norimberga, mancò la loro testimonianza. Il Porrajmos –ricorda l'Autore– è l'equivalente della Shoa degli Ebrei, ma non è altrettanto conosciuto, né ricordato. Il racconto di Spinelli non si limita alle pagine dolorose della storia del suo popolo, il suo intento è quello di farci conoscere la variegata cultura di Rom, Sinti, Kale, Manouches e Romanichals, di farci entrare nella loro quotidianità, ci offre gli strumenti per capire la mentalità romanì, la filosofia di vita, ci mostra l'apporto di questa cultura alla cultura europea. Musica, canto, danza sono i linguaggi artistici più praticati da tutte le comunità romanès nel corso dei secoli. “Gli stili musicali romanès hanno seguito parallelamente l'evolversi delle vicende storiche e sociali di un popolo costretto alla mobilità coatta, alla dispersione e all'oppressione in ogni parte del mondo, ma che ha saputo

conservare straordinariamente i suoi tratti culturali essenziali. La musica romanì riflette fedelmente lo stato d'animo di un popolo che ha fatto del dolore e della precarietà gli emblemi del proprio virtuosismo artistico ed essendo figlia di un lungo travaglio fisico, morale e psicologico, non può non avere connotati dissonanti, melancolici, graffianti, ribelli, ma allo stesso tempo è una musica viva, briosa, piena di ritmo incalzante e di vita, com'è il carattere della popolazione Romanì.” (p.248) Dall'incontro dell'arte e della cultura romanì con la cultura dei paesi ospitanti sono nati nuovi generi musicali come ad esempio il Flamenco, che ha affascinato compositori e musicisti celebri come Bizet, De Falla e tanti altri; in Francia si è affermato il Jazz Manouche diffuso su scala planetaria. I ritmi, le forme, le melodie e le armonie della musica romanì hanno influenzato moltissimi musicisti, soprattutto a partire dal Romanticismo, basti pensare alle Rapsodie Ungheresi di Liszt, alle Danze Ungheresi di Brahms, alla Cigànské melodie di Dvorák, alla Dance Tsigane di SainSaëns, alla Carmen di Bizet per ricordarne solo alcuni. Franz Liszt, in particolare, capì l'importanza di questa musica tanto che fu il primo a dedicarle un saggio1 in cui scrive: “Hanno inventato la loro musica e l'hanno inventata per se stessi, per parlarsi, per cantare fra loro, per mantenersi uniti e hanno inventato i più commoventi monologhi.” (p.263) 1  F. Liszt, Degli Zingari e della loro musica in Ungheria (1859). Ad ispirare le Rapsodie ungheresi fu il violinista Rom moldavo Barbu Lautaru (1775-1858) che colpì molto Liszt

La musica romanì –ricorda Spinelli– fa parte di una cultura in cui “il sacro, il simbolico, il magico, la comunità, le regole familiari, si fondono con la quotidianità, la determinano e la sostengono, sopportando le durezze, spesso disumane, di una vita vissuta, sovente, ai margini di tutto.” (p.269) Numerosi sono oggi i musicisti appartenenti alle diverse comunità romanès, che suonano in Orchestre sinfoniche o Orchestre da Camera, anche se spesso nascondono la loro origine per paura di ripercussioni negative. Oltre ai musicisti molti sono gli intellettuali, giornalisti, scrittori, editori, saggisti, poeti, drammaturghi, romanzieri, che hanno prodotto opere in lingua romanì o nella lingua del paese in cui risiedono. The Pilgrims Progress, un classico della letteratura inglese, è opera di un Romanichal inglese, John Bunyan (1618-1688). La produzione letteraria romanì si è sviluppata soprattutto a partire dalla seconda metà del Novecento, in particolare negli ultimi quarant'anni. In epoca più recente tra gli autori che si sono affermati a livello internazionale si possono ricordare Matéo Maximoff (1917-1999) dai cui romanzi sono stati tratti dei film come Le Gitan del 1975; Veijo Baltzar, che scrive sia in romanì che in finlandese, i cui romanzi La strada infuocata e Il regalo delle nozze di sangue hanno avuto un grande successo; il poeta Jòse Heredia Maya, Jorge Bernal, Jimmie Storey, Luminita Mihai Cioabà, Margarita Reisnerová, Dragoljub Acković, la poetessa bulgara Sali Ibrahim vincitrice del Premio del Presidente della Repubblica Italiana al Concorso Artistico Internazionale “Amico Rom” di Lanciano (Chieti). “Un apporto immenso –scrive Spinelli– ma sconosciuto o non riconosciuto alle comunità romanès”. Poco conosciuto anche l'apporto della popolazione romanì in campo teatrale. A Mosca nel 1931 nasce il Teatro Romen il cui repertorio è andato diversificandosi nel corso degli anni, e i cui attori devono saper danzare, cantare e recitare. La compagnia stabile conta sessanta attori di cui dieci Rom. Dalla sua scuola sono usciti diversi artisti che hanno raggiunto fama internazionale. Una compagnia teatrale che recita esclusivamente in lingua romanì è la Compagnia Phralipé (fratellanza) nata in Macedonia poi stabilitasi a Colonia, in Germania; fra le loro proposte la versione romanès di Giulietta e Romeo di Shakespeare e di Edipo Re di Sofocle. Nel 1992 nasce in Slovacchia il Teatro Romathan grazie


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alla giornalista Romnì Anna Koptovà; la Romnì Elena Lacková è autrice di Horiaci Cigansky Tabor (Brucia il campo dei Rom), un'importante opera teatrale sul genocidio dei Rom; di grande impatto il dramma Kosovo mon amour (1999) di Jovan Nikolić e Ruždija Russo Sejdović, rom serbi residenti in Germania, che tratta della ricerca dell'identità romanì nel conflitto tra serbi e albanesi nel Kossovo. In Italia la prima opera teatrale in lingua romanì Duj furàtte mulò (Due volte morto) vede la luce nel 1994 ad opera di Santino Spinelli e Daniele Ruzzier, premiata al XXI Premio Internazionale Flaiano di Pescara per il teatro inedito. Lo sguardo strabico dei gagè (i non rom) finisce per vedere solo le questioni sociali che riguardano i rom mentre non vede gli aspetti culturali ed artistici di questo popolo transnazionale. Anche nel campo delle arti visive troviamo artisti appartenenti alla popolazione romanì diventati famosi come il Rom albanese, residente in Inghilterra, Ferdinand Koçi che è ritrattista, pittore di talento e illustratore di libri. Nel 2007 alla biennale di Venezia ha esposto le sue opere la Romnì Kiba Lumberg, regista e pittrice già affermata in Finlandia. Il mondo romanì, la sua realtà sono stati spesso immortalati in opere di pittori gagè come Van Gogh (The Caravans), Monet (La gitane à la cigarette), Renoir (La piccola bohémienne), Manet (Gitanos), per restare ad epoche a noi più vicine, ma anche Caravaggio (La buona ventura), Piazzetta (Indovina), l'elenco potrebbe continuare. In campo cinematografico si è distinto il regista francese Tony Gatlif, di madre Romnì e padre algerino, con i film Latcho Drom (vuol dire Buon Viaggio ed è il tipico saluto in lingua romanì) del 1993, Gagio Dilo (Lo straniero matto) del 1997, Canto Gitano del 1981, Swing del 2002, che hanno ottenuto riconoscimenti internazionali. Da ricordare anche i documentari dedicati al Porrajmos: Das Falsche Wort (La parola sbagliata) e Wir Sind Sintikinder und Nicht Zigeuner (Siamo Sinti, non siamo bambini Zingari) di Melanie Spitta, Sinta tedesca. In Italia Maria Bako, Romnì ungherese, è stata la protagonista del film di Silvio Soldini Un'anima divisa in due, mentre la giovanissima Romnì Laura Halilović, torinese di origine bosniaca, è l'autrice del documentario Io, la mia famiglia e Woody Allen. Numerosi i film e documentari che hanno come soggetto il mondo romanò o interessanti artisti romanès, come i documentari

Porrajmos (2011) e Tzigari, una storia Rom (2009) di Fabio Parente; Baro Romano Drom (2003) di Gioia Meloni, prodotto dalla Rai. Dura invece la critica rivolta dall'Autore ai film del serbo Emir Kusturica giudicati “pieni di becero folklorismo e di dannosi stereotipi”. A lungo si è sostenuto che le comunità romanès non avevano una “loro” lingua o una “loro” cultura mentre nel libro di Spinelli scorrono lunghi elenchi di personalità, artisti, intellettuali, appartenenti al mondo romanò, che sottolineano in modo indiretto quanto grande sia la nostra ignoranza su quella realtà e quella cultura, e quanto colpevole l'ignoranza dei media. La parte finale del libro ripercorre le tappe della legislazione internazionale concernente la popolazione romanì, i vari provvedimenti presi da organismi istituzionali come Onu, Parlamento europeo, Ocse: tanti buoni propositi, ingenti somme di denaro spese, ma le comunità romanès continuano ad essere discriminate, emarginate, sconosciute presso l'opinione pubblica. Seguono le tappe del movimento politico romanò e delle organizzazioni politiche romanès internazionali, che iniziano a sorgere fin dalla prima metà del XX secolo “per la salvaguardia del patrimonio culturale e per il riconoscimento dei fondamentali diritti di questa etnia transnazionale”. Il

Django Reinhardt Chitarrista jazz, di etnia sinti, nato in beglio nel 1910. Fu uno dei pionieri del jazz europeo e il padre di quello che oggi è conosciuto come jazz manouche o gipsy jazz. Tra i suoi brani più celebri: Minor Swing, Manoir des mes reves, Tears, Nagasaki, Belleville e soprattutto Nuages.

sogno di creare un movimento unito e rappresentativo resta ancora incompiuto, la popolazione romanì resta politicamente frammentata e divisa. In Italia è nata nel 1990 l'Associazione Thèm Romanò (Mondo Romanò), prima vera organizzazione autonoma di Rom e Sinti italiani con una vocazione interculturale e aperta a tutti, rappresentante in Italia dell'International Romanì Union (IRU), dell'European Roma and Travellers Forum (ERTF), e dell'European Romanì Union (ERU). Fra gli obiettivi: la volontà di porsi come soggetti di confronto e di non essere considerati semplici oggetti di studio; la difesa dei diritti umani, la valorizzazione della cultura romanì. Un libro da leggere e da far leggere nelle scuole come scrive Moni Ovadia nella Prefazione:“Ogni persona perbene deve sapere ciò che in questo momento si consuma contro i nostri concittadini europei Rom e Sinti, anche attraverso la falsa retorica dell'emergenza con il suo corredo di stanziamenti comunitari che spesso riempiono le tasche di chi sfrutta e strumentalizza la logica dell'emergenza stessa. (…) Santino Spinelli, Rom italiano, professore e musicista, in arte Alexian, offre alle nostre coscienze un dono prezioso. Facciamone buon uso.”

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Né pubblico né privato – parole, musiche, immagini

a cura di Elisabetta assorbi

La lettura dei saggi del sociologo polacco è sempre piacevole, per la capacità del nostro di comunicare in modo schietto e chiaro, utilizzando metafore illuminanti, nonché originali. In questo saggio d'occasione, sulla scorta di venti brevi conversazioni-riflessioni con Riccardo Mazzeo, un amico intellettuale italiano, Bauman si occupa del ruolo dell'educazione e degli educatori dell'attuale generazione di giovani, i più incerti sul futuro che si siano mai avuti finora. Anche in campo educativo, il ruolo dell'Europa futura ha a che fare con i migranti e l'Autore fa subito notare che la loro presenza, in questo mondo multicentrico e multiculturale, presuppone l'inevitabilità di sviluppare in modo permanente e quotidiano l'arte di vivere con essi, tanto più che le nostre scelte, “i nostri doveri di cittadini… vanno di pari passo con i loro diritti” (pag. 14). Dal punto di vista pedagogico, Bauman apprezza Gregory Bateson, soprattutto per la sua identificazione dei tre livelli di

Conversazioni sull'educazione Zygmunt Bauman in collaborazione con Riccardo Mazzeo Erikson, 2012

a cura di elena la rocca

Venivamo tutte per mare Julie Otsuka Bollati Boringhieri, 2012

Agli inizi del ‘900 gli Stati Uniti furono la meta agognata di in grande flusso migratorio, gente in cerca di fortuna o più semplicemente di un'occasione per fuggire alla miseria: più di 14 milioni di persone cercarono rifugio e speranza in quella terra che veniva sbrigativamente chiamata “l'America”, l'America per eccellenza, l'Eldorado… La maggioranza di questi migranti veniva dall'Europa, ma un numero consistente dall'Asia (398.405) e soprattutto dal Giappone: in un primo momento partirono i maschi, poi li raggiunsero migliaia di giovani donne giapponesi, richieste appunto dagli immigrati che si erano già insediati negli Stati Uniti. Si trattava delle “spose in fotografia”: prima di partire si sposavano per procura con un uomo di cui spesso avevano visto solo la fotografia e lo raggiungevano piene di ansie ed aspettative. Proprio la storia di queste donne vuole narrare Julie Otsuka, giapponese californiana, erede di quella lontana migrazione. Affascinata dalle storie di queste donne, su cui si è accuratamente documentata, l'autrice decide di raccontarle in modo che potremmo definire “collettivo” ricorrendo ad un “noi” che si presenta come soggetto narrante, espressione dell'intero gruppo. Non c'è quindi una protagonista, né un

gruppo di personaggi principali che si stagli sullo sfondo, ma un soggetto collettivo, “noi”, spose in fotografia, giovani giapponesi che andiamo a raggiungere un uomo mai visto, accettato per obbligo, per necessità o per bisogno di fuga. Un io collettivo che si frantuma di volta in volta in mille rivoli, in mille storie individuali, frammenti anonimi di una storia più vasta. Il romanzo (anche se per certi aspetti si tratta più di un poema che di un romanzo) si sviluppa attraverso una serie di brevi capitoli: la traversata in mare con le sue speranze ed angosce; l'incontro con i mariti mai visti prima. La delusione: le foto tanto studiate nel viaggio erano un inganno, a volte rappresentavano l'uomo di vent'anni più giovane, a volte addirittura un amico dello sposo. Alla delusione segue la prima notte di nozze, con la sua impazienza e la sua violenza, sesso tra due estranei, spesso una ragazza vergine ed un uomo sicuro dei propri diritti. E poi il lavoro, un lavoro continuo, totalizzante, nelle condizioni più dure ed umilianti, in un mondo estraneo, spesso ostile ed incomprensibile. Poi le gravidanze, i parti, i figli cui non si può badare più di tanto “ li lasciavamo in qualche canalone nei dintorni mentre raccoglievamo e insaccavamo le cipolle e


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apprendimento umano e in proposito le considerazioni qui svolte sembrano persino banali nella loro evidente verità: “per essere preparati ( i giovani) hanno bisogno di un'istruzione che sia utile, dei saperi pratici, concreti,spendibili” (pag. 31). Questo presuppone che la scuola, per essere qualificata, debba essere aperta, diffonda apertura e non chiusura mentale. Con quest'opinione l'Autore intende evitare l'ipersemplificazione della considerazione sull'apprendimento citatagli da Mazzeo e appartenente alla scrittrice Paola Mastrocola. Costei, insegnante frustrata nei tentativi di far apprendere nozioni di letteratura italiana agli allievi, sembra intender l'apprendimento come acquisizione “di tutto ciò che l'insegnante spiega”, tanto da proporre la “libertà di non studiare”. Bauman insiste invece, in educazione, sul concetto di scelta, giacchè “non esiste situazione che non presenti più di un'opzione” (pag. 34): è quindi indispensabile essere consapevoli della gamma di possibilità che ci

circonda, la quale contiene opportunità, oltre che pericoli. L'Autore è quindi sì preoccupato, ma non disperato dell'attuale situazione dell'educazione (e lo dichiara). La critica del sociologo all'attuale società globale fa quindi da battistrada per una “rivoluzione culturale” che Bauman auspica in modo provocatorio: “la depravazione è la miglior strategia della deprivazione”, recita il titolo di un capitoletto del saggio, nel senso che la cultura attuale (liquido-moderna secondo la metaforica e famosa definizione) non è più quella dell'apprendimento e dell'accumulazione, come nelle culture studiate da storici ed etnografi. “L'arte del surf ha preso il sopravvento sull'arte dello scandaglio”, dice con una bella metafora (pag. 46), con il risultato che l'apprendimento auspicato oggi dalla società è solo quello frettoloso. Infatti “…la fulmineità è il lato più attraente della distruzione… nel nostro mondo ossessionato dalla velocità” (pag.50). Se un tempo la laurea offriva lavori remu-

nerativi, oggi si pensa ai giovani come a un mercato da sfruttare, afferma l'Autore e lo spiega ampiamente come problema politico globale, analizzando in proposito la vicenda recente, del settembre 2011, delle sommosse avvenute a Londra. In queste manifestazioni dai risvolti violenti e tragici, il modo di essere consumatori è stato protagonista: è stato un ammutinamento, non una rivolta, agito da chi si era sentito umiliato dall'esibizione della ricchezza da parte di chi comunque ne negava l'accesso ai cosiddetti consumatori squalificati, cioè poveri e proprio perché poveri, esclusi. L'analisi trasborda a questo punto nella considerazione dello shopping compensativo come una sorta di atto morale del nostro tempo, criticamente stroncato in modo chiaro e dialettico. Insomma, sono venti capitoletti fruibilissimi, che culminano nell'ennesima diatriba su locale e globale, categorie che Bauman considera in egual modo notevoli, non fosse altro perché costrette anzi “condannate a coabitare”.

cominciavamo a cogliere le prime prugne… e ogni tanto li chiamavamo per avvisarli che c'eravamo ancora” (pag.71). Ed i figli crescono, troppo alti, troppo grossi, troppo chiassosi, “Mi sento un'anatra che ha covato le uova dell'oca”. (pag.85) “Parlavano un inglese perfetto, come quello della radio, e quando ci sorprendevano a inchinarci davanti al dio della cucina e a battere le mani, alzavano gli occhi al cielo ed esclamavano «Mamma,per favore»”. (pag.85). I figli acquistano le abitudini del nuovo mondo e si vergognano un poco dei genitori, ma sanno anche come muoversi in una società che continua ad emarginarli perché di colore: a nuotare all'Ymca vanno solo di lunedì “il lunedì è il giorno della gente di colore” (pag. 88), e prima di andare al ristorante telefonano sempre “Servite i giapponesi?”. (idem) Così mentre i figli crescono e le condizioni di lavoro migliorano le nippo-americane si inseriscono faticosamente nella nuova strana società in cui si trovano a vivere, ma il processo viene bruscamente interrotto da Pear Harbour, l'attacco trasforma di colpo i nippo-americani in sospetti, se non addirittura in traditori. La voce narrante ricorda le diffidenze, gli arresti, i timori, le dicerie più o meno assurde che di colpo

coinvolgono la comunità giapponese. “Le signore del club cominciarono a boicottare le nostre bancarelle di frutta, perchè temevano che la merce fosse avvelenata con l'arsenico. Le assicurazioni ci cancellarono la polizza. I lattai smisero di consegnarci il latte a domicilio”. (pag.94) Sia per evitare che fossero vittime dell'isteria collettiva, sia perché visti come spie, quinte colonne del nemico, il Governo decise di spostare tutti i giapponesi sulla West Coast ed i presidente Roosvelt firmò un'ordinanza che tra l'altro autorizzava la costruzione di veri e propri campi di concentramento, chiamati “centri di trasferimento”. Oltre 120.000 giapponesi (due terzi dei quali erano nativi cittadini americani) furono allontanati dalle loro case ed imprigionati nei “centri di trasferimento”. Julie Otsuka rievoca l'angoscia, lo stupore ed il disorientamento di fronte a queste scelte incomprensibili. “Forse la Chiesa sarebbe intervenuta in nostro favore, o magari la moglie del Presidente. O forse c'era stato un terribile equivoco, e in realtà quelli da portar via erano altri. «I Tedeschi» suggerì qualcuna. «O gli Italiani» disse qualcun'altra”. (pag.113) L'autrice conclude la sua ricostruzione parlando delle giapponesi e più in generale della comunità nippo-americana in terza

persona plurale, la voce narrante diventa quella collettiva immaginaria dei vicini di casa, gli abitanti di quelle cittadine “liberate”: “I giapponesi sono scomparsi dalla nostra città. Le loro case sono sprangate e vuote. Le loro cassette della posta cominciano a traboccare”. (pag.125) Tra soddisfazione, indifferenza o rimorso la comunità statunitense si abitua alla scomparsa dei propri vicini di casa, della cameriera o del fruttivendolo: “Sappiamo solo che i giapponesi sono da qualche parte là fuori, in un posto o nell'altro e probabilmente non li incontreremo mai più in questo mondo”. (pag140) Così finisce la narrazione di Julie Otsuka, un romanzo breve che coinvolge il lettore e apre una finestra su un pezzo di storia ingiustamente poco noto; l'uso del “noi”, unito ad una prosa quasi ipnotica, dà voce all'angoscia e alla sofferenza di chi non ha voce ed è certamente in grado di sintetizzare in poche frasi molte storie ed esperienze diverse, ma alla lunga diventa ripetitivo, coinvolgente ed irritante insieme, proprio perché spariscono le persone e rimane solo l'angoscia e la sofferenza. Purtroppo l'angoscia e la sofferenza sono sempre uguali a sé stesse.

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a cura di gianluca bocchinfuso

ritorio nazionale (come fa l'autore di questo testo parlando della “La scuola della pace” e della Longhena di Bologna o di quella di “frontiera” del quartiere Zen di Palermo), la inseriscono nel discorso generale come esempio da seguire o riferimento ideale. Il testo di Alex Corlazzoli –maestro precario e giornalista– sembra muoversi sui due assi sopra enunciati con una chiosa extra libro in cui l'intervista al maestro Mario Lodi, l'amato autore di Cipì, permette di viaggiare Alex Corlazzoli nel tempo e nello spazio riflettendo sulle Altreconomia Edizioni, 2011 dinamiche e i sentimenti che rendono la scuola veramente una palestra di formazione e di educazione. Periodicamente, in Italia, vengono pubblicati libri di maestri e insegnanti sulla scuola. Si rimane un po' scettici sull'impianto del libro di Corlazzoli perché –al di là delle inteE, spesso, capita di trovarsi di fronte ad analisi che fanno una fotografia della nostra ressanti narrazioni che svelano il suo “fare scuola attiva” con i bambini sempre attento realtà scolastica ai più conosciuta (precaall'inclusione, alla realtà italiana, ai “temi riato, assenza di fondi, strutture fatiscenti, forti” della nostra quotidianità, alla cornice Riforme o pseudotali sbagliate) oppure ad dell'educazione alla cittadinanza, alla vocaanalisi che, prendendo in prestito qualche sana e proficua esperienza presente nel ter- zione a far ragionare i “suoi” bambini, a ren-

Riprendiamoci la scuola. Diario d'un maestro di campagna

22° Edizione del Festival Cinema Africano, Asia e America Latina A colloquio con Manuela Pursumal, responsabile dello Spazio Scuola a cura di Anna Di Sapio e Shara Ponti

Il primo Festival del cinema africano risale al 1991, nel corso di 22 anni molti sono i cambiamenti apportati; nel 2004 si è allargato ad Asia e America Latina; si sono ampliate le sezioni; nel 2008 si è aperto lo spazio del Festival Center, luogo di ritrovo per gli ospiti e il pubblico, dove si organizzano attività culturali e ricreative; quest'anno abbiamo notato la mancanza della retrospettiva; nel corso del tempo sono aumentati i premi, alle Giurie ufficiali si sono aggiunte le Giurie studenti e docenti, ampliando quindi lo spazio dedicato alla scuola… un work in progress… Sì, anche se i cambiamenti, come l'apertura ad Asia e America latina, ad esempio, non hanno rappresentato un cambio di rotta, ma un'occasione per permettere ad altri paesi di rendere visibili i loro film. Inoltre già da qualche anno era stata

creata la sezione “Finestre sul mondo” perché molti registi di altri continenti chiedevano di partecipare, in questo modo si permette anche uno scambio Sud-Sud. L'Africa continua comunque ad occupare un posto centrale. Alcuni cambiamenti sono dovuti alle difficoltà economiche, sempre più difficile reperire risorse soprattutto dalle istituzioni. Ecco perché quest'anno mancava la Sezione retrospettiva. Anche lo Spazio scuola, di cui mi occupo io, nel tempo si è ampliato, oltre alle proiezioni riservate alla scuola di base e alle scuole secondarie, si è cercato di coinvolgere anche gli studenti universitari, poi c'è stata l'introduzione della Giuria degli studenti e infine quella dei docenti. Ma il lavoro con le scuole, le classi, gli in-

segnanti non si limita alla settimana del Festival, prosegue durante tutto l'anno. Come si è arrivati a istituire le due Giurie dei docenti e degli studenti? Nel 2000, alla X edizione del Festival, si costituì per la prima volta una giuria di studenti per l'assegnazione del Premio Ministero della Pubblica Istruzione al miglior cortometraggio africano in concorso. Era formata da quindici alunni scelti con la collaborazione della Consulta Studentesca di Milano e, in parte, in base a spontanee richieste di studenti. La partecipazione del Ministero ci permise di potere provvedere all'edizione italiana del film selezionato dagli studenti e ai tempi realizzammo infatti la versione VHS. Nel corso degli anni ci sono stati degli aggiustamenti dovuti a


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derli curiosi, al sentirsi comunque sospeso di anno in anno senza un progetto didattico duraturo– in molte parti i ragionamenti caldi sono incentrati sulle scarse risorse destinate alla scuola (Primo quadrimestre, pp. 9-44) o su lotte che, in alcuni casi, perdono di vista i bisogni impellenti di un sistema scolastico calato nella realtà del proprio tempo, mantenendo posizioni ferme su sani principi che rischiano di diventare solo slogan (Secondo quadrimestre, pp. 45-88). Sulla difesa e la centralità della scuola pubblica siamo d'accordo tutti. Insegnanti giovani e meno giovani. Il richiamo a Piero Calamandrei (Discorso al III Congresso in difesa della Scuola nazionale, Roma 1950, pp. 6-7) è fondamentale e pertinente. Ma di quale scuola pubblica abbiamo bisogno? E quale “profilo professionale docente” dobbiamo ritagliarci per una rinnovata scuola pubblica che finalmente esca dal suo ruolo di “ammortizzatore sociale” per tutti (tanti!) quei docenti che si sono ritrovati

su una cattedra non per scelta ma perché hanno visto fallire altri progetti professionali? E come arrivare ad un “inquadramento giuridico ed economico” coerente con l'importanza strategica del lavoro del docente senza attivare un corretto, coerente e sano processo di formazione e di merito? Come capire che non tutte le scuole si muovono dentro al ruolo didattico e pedagogico a loro assegnato, perdendo la strada della qualità dell'apprendimento dei ragazzi e della loro formazione scolastica e culturale, trasformandosi così in luoghi da cui gli studenti transitano e di cui ci si dimentica? Come superare l'idea e la pratica della scuola come contesto di lavoro part-time? Ci sarebbe piaciuto trovare risposte e proposte anche su questi e altri temi. Se non altro per evitare che il corpo insegnante appaia solo come soggetto che ha subito la catastrofe di cui si narra. La difesa del posto di lavoro fine a se stessa, alla lunga, fa perdere di vista il valore più profondo

condizioni contingenti, per cui è venuta meno la collaborazione col Ministero, ma è subentrata quella con CEM Mondialità. Dal 2006 anche la Fondazione ISMU ha istituito un premio al miglior cortometraggio africano con valore pedagogico e la selezione viene appunto effettuata da una giuria di docenti. Le Giurie vengono formate sfruttando i contatti che abbiamo con docenti e scuole, soprattutto con quei docenti molto interessati che seguono da sempre il festival per interesse personale, e che continuano a lavorare sui film in modo costante. Negli ultimi sei anni la Giuria studenti è realizzata in collaborazione con la Fondazione L'Aliante di Milano, che si occupa di sostenere adolescenti in difficoltà e accompagna gli studenti stranieri nel processo di apprendimento della lingua italiana e dell'integrazione scolastica. I ragazzi delle scuole pubbliche e private che fanno parte della Giuria si ritrovano nella sede dell'Aliante per l'attività di visione, analisi e valutazione dei cortometraggi. L'impegno è notevole perché gli incontri sono almeno dieci della durata di due ore ciascuno, inoltre ci sono gli impegni della Giuria studenti durante la settimana del Festival: incontro con i registi dei corti e la serata di premiazione. In base ai Premi CEM Mondialità, ISMU e altri premi di Enti collaboratori, il COE riesce ogni anno a realizzare l'edizione

italiana in DVD di ben cinque cortometraggi africani e in questo modo promuove la visibilità di opere significative sui temi del dialogo interculturale e della cittadinanza mondiale. Non solo le scuole ma anche le sale cinematografiche d'essai, le parrocchie e le associazioni possono organizzare minirassegne su questi temi, valorizzando opere di registi giovani e di qualità. Come vengono scelti i cortometraggi da sottoporre alle due Giurie, come si arriva a scegliere il film vincente? All'interno del Festival esiste una Commissione che opera una selezione, e per quanto riguarda i cortometraggi africani, tende a privilegiare quelli che nel loro insieme restituiscono la pluralità e la complessità dell'Africa, sia per i temi trattati, sia per lo stile narrativo e l'idea di cinema che lo sorregge, sia per la provenienza geografica e culturale. In genere si scelgono film di autori giovani o giovanissimi, che hanno più difficoltà a far vedere le proprie opere. Gli studenti e i docenti si riuniscono, in sedi diverse e in giorni diversi, e visionano i film selezionati. È molto importante la visione collettiva, perché in questo modo si condividono le emozioni suscitate dai film, poi si discute, ci si confronta e si arriva alla decisione finale, per cui gli studenti scelgono quello che, a loro parere, maggiormente contribuisce a pro-

della scuola perché trasforma insegnanti e studenti in numeri per cattedre e istituti facendo –con ruoli diversi– lo stesso gioco di chi decide sulla scuola non dal Ministero della pubblica istruzione ma da quello dell'economia e finanza. Gli insegnanti (anche attraverso il sindacato) dovrebbero trovare la forza di porre al centro delle loro istanze il “profilo professionale docente” coerente con un'idea di scuola non solo “resistente” ma che sappia costruire percorsi di ricerca-azione positivi per l'apprendimento dello studente e l'insegnamento del docente. Al centro del discorso va posta la “formazione permanente” della classe docente, in ingresso e in itinere. Docenti come ricercatori che, attraverso il loro “fare scuola”, ragionino su esiti, bisogni, risorse, livelli. Un docente che sia riconosciuto e riconoscibile socialmente e professionalmente per pretendere che il suo lavoro sia posto al centro della società e delle scelte dei governi nazionali.

The mirror never lies Lo specchio dice sempre la verità

Kamila Andini Drammatico durata 100' Indonesia 2011

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muovere una cultura di pace e un interscambio culturale, i docenti quello che ha un maggior valore pedagogico. Per motivi contingenti si è provato una volta a vedere i film in sottogruppi, ma ha funzionato poco. Come ho detto prima, il percorso della Giuria studenti è più lungo di quello della Giuria docenti. I ragazzi vedono i film una prima volta poi stabiliscono una graduatoria e rivedono una seconda volta cinque o sei corti che a maggioranza sono piaciuti di più e tra questi scelgono, dopo la seconda visione, il film vincitore. Tutti gli anni ci accorgiamo come sia importante questo rivedere non soltanto il film ma anche il primo giudizio e come attraverso il confronto si possa poi ridefinire la propria posizione iniziale. Quest'anno anche la Giuria docenti ha voluto rivedere due o tre corti prima di emettere il proprio verdetto e anche per questa Giuria è stato importante questa possibilità di rivedere un filmato. Tenete presente che parliamo di copie inviate dalle case di produzioni o dai registi in versione originale con sottotitoli in inglese e francese quindi anche la comprensione dei testi in prima battuta non è per tutti così immediata E la collaborazione con l'Università come funziona? Lo Spazio Università del Festival, attivo da circa dieci anni, offre agli studenti la possibilità di fare uno stage formativo. In generale si tratta di universitari degli Atenei lombardi i cui studi sono legati alla comunicazione e ai linguaggi audiovisivi, alla formazione ed alla mediazione culturale, alle relazioni internazionali, all'interpretariato e alle lingue straniere. C'è quindi chi affianca la direzione artistica collaborando alla redazione del catalogo e ai rapporti con le varie Giurie, chi dà una mano alla promozione del Festival presso le comunità straniere, le ambasciate e i consolati, con lo scopo di creare delle collaborazioni, e alla distribuzione di materiali promozionali. C'è poi chi affianca l'Ufficio stampa del Festival o le attività di traduzione e gestione dei sottotitoli, e chi supporta le attività e l'organizzazione del Festival Center, dove vengono organizzate mostre, laboratori, incontri con i registi e altre attività collegate alle culture dei tre continenti. I tirocinanti collaborano anche allo Spazio Scuola coordinando le giurie docenti e studenti, accompagnando i registi ospiti e facendo assistenza durante le proiezioni per le scuole. Agli studenti tirocinanti se ne affiancano altri come

Case départ Caselle di partenza Fabrice Eboué, Thomas Ngijol, Lionel Steketee Commedia durata 94' Francia 2011

volontari che collaborano all'accoglienza degli ospiti e alle attività nelle sale cinematografiche. La collaborazione di tirocinanti e volontari è preziosa anche per incrementare i rapporti con l'università e gli studenti universitari. Nelle proiezioni per le scuole ci sembra che, nel corso del tempo, i cortometraggi abbiano sostituito i lungometraggi: Come mai? Perché sono più fruibili da un pubblico giovane abituato a play station e videogame? Non li hanno sostituiti del tutto, quest'anno al Festival abbiamo proiettato due lungometraggi. Poi bisogna ricordare che è sempre più difficile, anche in occidente, trovare finanziamenti per fare film, dunque è più facile fare un corto. Ma ci sono motivi anche più squisitamente didattici. Vedere due o tre cortometraggi invece di un unico lungometraggio, dà la possibilità di creare confronti tra l'uno e l'altro, tra il genere e il linguaggio scelti dai vari registi. Dalla visione di più cortometraggi risalta meglio la complessità del continente, oppure la somiglianza di certe situazioni comuni a noi e a loro. In questi anni abbiamo assistito a un cambiamento dei linguaggi, dei generi, delle visioni da parte della nuova generazione di cineasti africani. Prendiamo il corto algerino Garagouz di Abdenour Zahzah, uno stile cinematografico, realistico e poetico, che racconta la storia di un burattinaio e di suo figlio che girano per le campagne del paese, col loro camioncino, per portare lo spettacolo ai bambini dei villaggi. Nel loro girovagare si trovano ad affrontare l'eterna lotta del bene e del male, come i burattini delle loro storie. Possiamo far vedere poi

Lezare dell'etiope Zelalem Woldemariam, fiabesco e surreale, che racconta la solitudine, l'emarginazione di Abush, un bambino di strada sempre alla ricerca di qualcosa per sfamarsi, mentre la comunità è intenta a seminare nuovi alberi per arginare la desertificazione e sembra non accorgersi del suo dramma. Infine un film di fantascienza di una regista keniana, (molto vicino al modo di vedere film dei nostri ragazzi) che parla dell'acqua, un problema che ci riguarda tutti. Ecco, il confronto tra questi tre cortometraggi fa scaturire una riflessione non solo sui problemi e la complessità dell'Africa ma anche sulla nostra realtà perché sono racconti aperti all'universale. Il microcosmo del villaggio di Abush diventa allora simbolo dello scenario sociale e politico a livello mondiale, in cui prevale la cultura dell'esclusione, dell'indifferenza. Anche il trio Amal, Deweneti e Lucky, raggruppati nello stesso Dvd, può funzionare molto bene. Amal di Ali Benkirane affronta il problema della scolarizzazione delle bambine nei villaggi rurali del Marocco. Amal e suo fratello vanno a scuola, ma un giorno il padre decide che solo il maschio può continuare a studiare. Si infrange così il sogno di Amal, scolara studiosa e appassionata, di diventare medico. Amal non può che accettare, subire, ma consegna a suo fratello il suo stetoscopio giocattolo e attraverso questo gesto ci interpella nella nostra responsabilità. Deweneti di Dyana Gaye affronta il tema della solidarietà e generosità di un bambino nei confronti degli adulti. Ousmane, un piccolo talibé (allievo della scuola coranica) chiede l'elemosina per le strade di Dakar, è simpatico e trova


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sempre la parola giusta per convincere i passanti a gettare una moneta nel suo barattolo. Un giorno scrive una lettera a Babbo Natale per chiedergli di esaudire i desideri delle persone che si sono mostrate caritatevoli nei suoi confronti. Lucky del sudafricano Avie Luthra affronta il tema dell'incontro-scontro fra culture e il superamento del pregiudizio. Lucky è un orfano che abbandona il villaggio per recarsi a Durban da uno zio che invece non si occuperà affatto di lui per cui Lucky dovrà affrontare da solo la realtà urbana e fare i conti con l'ostilità, la paura e la diffidenza della gente, in particolare di una vicina di casa, una indiana che odia i neri. Ma sarà proprio l'anziana donna indiana che finirà per prendersi cura di lui. I cortometraggi sono più fruibili didatticamente anche perché nello stesso Dvd ne troviamo raggruppati tre, quindi è più facile per la scuola e il docente procurarseli, si possono fare varie combinazioni, soprattutto il tempo di proiezione è ridotto, rispetto al lungometraggio, il docente può farlo vedere nelle sue ore, può far vedere un corto alla volta e riproporne la visione se la discussione che ne scaturisce lo richiede.

zione razziale, dei diritti di cittadinanza1. Per quanto riguarda gli studenti di origine straniera ho potuto notare che durante il Festival alcuni trovano il coraggio di superare la timidezza per esprimere la soddisfazione di poter vedere storie che provengono dalle aree geografiche d'origine della loro famiglia, di sentir discutere e approfondire problemi che spesso sono comuni (la globalizzazione, il cambiamento climatico, il divario tra ricchi e poveri, l'acqua…), di veder registi e film trattati su un piano di parità, si sentono essi stessi un po' protagonisti. Riescono anche a parlare del loro vissuto, delle discriminazioni subite, dei docenti che li hanno aiutati a superare le difficoltà, esprimono il piacere di seguire film parlati nelle loro lingue. Un film, un corto può piacere più di un altro, possono esserci pareri diversi, ma la discussione che segue aiuta comunque a capire, a fare confronti, a riflettere su punti di vista diversi, specialmente per quello che riguarda realtà meno conosciute o conosciute in modo frammentario e stereotipato. Quest'anno per le quinte elementari e le medie è stato proiettato The Mirror Never Lies (Lo specchio non mente) lungometraggio dell'indonesiana, Kamila Andini. Pakis è un'adolescente che ha perso il padre, disperso in mare dopo una battuta di pesca, e non riesce ad elaborare questo lutto, tema quanto mai universale. Per le superiori la scelta è caduta su Case départ (Casella di partenza), opera di tre registi francesi dalle origini multiculturali. Avevo qualche perplessità sulla scelta di una commedia invece ha riscosso grande consenso, qualche ragazzo mi ha confessato di aver già visto il film e di essere stato contento di averlo potuto rivedere. Il tono comico e leggero del racconto surreale (due fratelli si trovano catapultati nel 1780 e ridotti a lavorare come schiavi in una piantagione) enfatizza l'assurdità della schiavitù. A parte lo Spazio Scuola, quest'anno il Festival in generale ha visto più presenze giovanili e ha funzionato molto bene il blog dove i giovani hanno postato recensioni dei film visti2.

Le reazioni degli studenti italiani coincidono con quelle degli studenti di origine straniera o divergono? Quali film risultano più accettati, quali creano maggior dibattito? Direi che lo Spazio Scuola del Festival è soprattutto un luogo di incontro. Durante le proiezioni del mattino possono ritrovarsi assieme 300/400 ragazzi. Uno spazio in cui si incontrano studenti e docenti, educatori e mediatori culturali e anche i protagonisti della manifestazione: registi, attori, giornalisti. La presenza dei registi aiuta molto i ragazzi nella riflessione sul rapporto Nord-Sud, che richiede approfondimenti al di là dell'emozione del momento. Molti dei docenti e delle classi che partecipano hanno avviato o consolidato percorsi di conoscenza sul cinema dei tre continenti, sulle tematiche del rapporto Nord-Sud, del dialogo o del conflitto tra culture, quindi non si limitano a lavorare solo nel periodo del Festival, ma continuano Tra i film di cui disponete al COE, quindi durante tutto l'anno. Certo dipende molto facilmente accessibili anche agli insegnanti dall'interesse e dalla passione del docente; che vogliano lavorare sull'intercultura c'è una classe della scuola media di Milano partendo dal cinema, quali ritieni essere che ha creato un blog “Sconfinamenti” e una radio dove è possibile riascoltare le interviste 1  v. www.sconfinamenti.net/blog/archives/ che i ragazzi hanno realizzato durante gli category/festival-del-cinema-africano il blog incontri alla Feltrinelli per la Sezione Il razzi“esplosivo” dell'Istituto Comprensivo “Borsi” smo è una brutta storia, che segnala e premia film che affrontano i temi della discrimina2 www.cinemafricasiamerica.com

particolarmente interessanti per i giovani e perché? Quali le tematiche più interessanti, a tuo parere, da affrontare? I corti, come dicevo prima, sono tutti interessanti, comunque il docente può consultare il sito del COE (www.coeweb. org/catalogo_film/) dove può effettuare la ricerca per aree geografiche (Maghreb, Africa Nera, Asia) o per tematica (acqua, ambiente, bambini, cinema, colonialismo/storia d'Africa, commedie, disagio giovanile, donna, film d'animazione, genocidio/scontri civili/guerre, globalizzazione, handicap, immigrazione); una volta operata la scelta trova una scheda del film con dati tecnici e sinossi, e l'indicazione di altri film sulla stessa tematica, che non sono più in catalogo (dei film acquisiti occorre ogni anno rinnovare i diritti e questo comporta una spesa non indifferente) ma restano disponibili nell'archivio COE. Il docente può comunque telefonare e ricevere consigli e indicazioni. È cambiata negli anni la produzione cinematografica africana? Molto, c'è una ricchezza di linguaggi, di generi e di stile nel recente cinema africano3. I cineasti dell'ultima generazione raccontano un'Africa attuale, microcosmo di dinamiche ormai planetarie: decadimento dei valori tradizionali, cambiamento dei modelli educativi, problemi legati alle migrazioni, le ferite ancora aperte dei conflitti etnici, come in Ruanda, ma anche le speranze e i sogni, i temi della denuncia e del riscatto. Sono opere che intrecciano presente e futuro, documentazione e fiction, fantascienza e attualità, sogno e realtà, e sorprendono per la freschezza, la forza e l'energia che trasmettono. Spesso hanno come protagonisti dei giovani con la loro capacità di essere artefici di un cambiamento possibile, come in Garagouz in cui il viaggio di Mokhtar e del piccolo Nabil è anche una metafora della resistenza del sogno di fronte a un presente corrotto che sembra senza sbocco, e sembra preannunciare i movimenti di protesta che hanno interessato recentemente il mondo arabo.

3 Si veda l'articolo di Olivier Barlet di Africultures I cinque decenni del cinema in Africa, una carrellata sul cinema africano dalle origini ai giorni nostri, su www. cinemafrica.org/spip.php?article561&var_ recherche=barlet%20olivier

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Cinema e didattica. Sguardi interculturali C. Bargellini, A. Barzaghi, M. Clementi, G. Lessana, M. Pursumal Collana Strumenti, Fondazione Ismu, Milano 2012 La pubblicazione apre con alcune riflessioni di fondo sulle due parole chiave “intercultura” e “cinema”. Intercultura da intendersi come incontro dialogico tra storie, narrazioni, identità plurime che si trasformano in un continuo processo discorsivo. Educazione interculturale come relazione educativa definita in termini processuali e dinamici. Cinema non come semplice supporto alla didattica, né come strumento per avviare un dibattito, ma come creazione artistica e produzione sociale, come gioco di sguardi tra regista e realtà del film, tra film e spettatore, tra spettatore e propria storia personale. Cinema nella sua dimensione interculturale in quanto meticcio, intreccio di narrazioni e di sguardi, capace di attraversare frontiere. Dimensione che, per essere adeguatamente valorizzata, deve prevedere un approccio interculturale alla visione che tenga conto del setting, delle modalità comunicative, dello stile di lavoro, dei ruoli degli attori presenti, dello spettatore come soggetto sociale. La seconda parte “Fare didattica interculturale con il cinema” si compone di proposte operative riguardanti l'utilizzo didattico di opere filmiche con approccio interculturale: un lungo e un cortometraggio, scelti per la qualità del prodotto filmico e per la loro valenza interculturale e pedagogica. I percorsi e le attività vengono presentati a livello esemplificativo e fanno parte di un più ampio patrimonio di sperimentazioni condotte negli anni dagli insegnanti che hanno partecipato ai percorsi formativi promossi dalla Fondazione Ismu e dall'Associazione COE. La sezione dedicata al lungometraggio “Una storia: due narrazioni” è rivolta alla scuola secondaria di secondo grado: i materiali e le attività si snodano a partire dal film Hyènes, trasposizione cinematografica del regista senegalese Djibril Diop Mambéty del testo teatrale La visita della vecchia signora di Friederich Dürrenmatt. La scelta dei testi e degli autori è stata dettata dalla spendibilità in classe dei temi che, affrontati con linguaggi diversi e in modo originale e avvincente, permettono riflessioni e attività didattiche di ampio respiro su alcuni grandi e complessi nodi della cultura contemporanea. La di-

mensione interculturale di questa proposta non si esaurisce nella dialettica degli sguardi tra un autore svizzero e un regista senegalese o tra culture europee e africane, ma ciò che emerge in modo preponderante dallo studio comparato dei due testi è l'universalità di una condizione umana che soggiace all'incontro con le diversità e che travalica ogni confine geografico, linguistico e culturale. La sezione dedicata al cortometraggio “Un film, tanti percorsi” presenta approcci diversi del fare didattica con il cinema a partire da uno stesso cortometraggio, Amal del regista marocchino Ali Benkirane, vincitore del premio Ismu 2006, nell'ambito del 16° Festival del Cinema Africano, d'Asia e d'America Latina di Milano. Il percorso proposto nella scuola primaria, “Le emozioni…Silenzi e Parole”, ha la peculiarità di sviluppare, nella didattica, un approccio metodologico che porta i bambini a “fare poesia”. Il secondo percorso, “Cinema e Sogni”, sviluppa il tema legato ai sogni, ai desideri, ai progetti. Anche il percorso sperimentato nella scuola secondaria di secondo grado “Un sogno, un Diritto” indaga il tema delle aspirazioni e del progetto di sé, agganciandosi al tema dei diritti universali, in particolare dell'infanzia e dell'adolescenza. L'approccio interculturale, trasversale a tutti i percorsi, prende così forma nell'esplorazione delle emozioni, dei diversi punti di vista, del confronto, del dialogo, dell'ascolto di sé e dell'altro per operare incroci e connessioni e contribuire a

creare un pensiero dialogico e cooperativo. La terza parte “Tanti film, tanti percorsi” offre alcuni suggerimenti per costruire percorsi di cinema a partire da tematiche specifiche riferite al mondo dell'infanzia e dell'adolescenza: l'amicizia capace di oltrepassare diversità sociali e culturali dei soggetti coinvolti; le relazioni educative importanti che si stabiliscono tra bambini e soggetti adulti diversi dai genitori; sogni, speranze, desideri e progetti di vita che si infrangono contro i pregiudizi sociali e la faticosa realtà; la percezione della diversità e i pregiudizi sociali che rendono difficile una vita sociale serena; le drammatiche esperienze che accorciano le tappe dell'infanzia e proiettano in anticipo nel mondo degli adulti. Per rendere fruibili altri materiali che non è stato possibile inserire nella pubblicazione, si è scelto di creare una sezione on line reperibile nelle pagine del Settore Educazione del sito della Fondazione Ismu all'indirizzo www.ismu.org. Potranno essere consultabili e scaricabili, ad esempio, altri percorsi didattici sperimentati sugli stessi film e su altri corti; l'analisi filmica, sequenza per sequenza, del lungometraggio Hyènes e del corto Amal; interviste a registi e autori ed altro ancora. La sezione on line è da considerarsi come work in progress: vuole infatti diventare un punto di incontro e di scambio fra insegnanti e operatori attraverso i suggerimenti e la messa in comune di materiali qualificati, sperimentati e didatticamente fruibili.

Hyènes Iene Djibril diop mambéty Drammatico durata 90' Senegal , Francia, Svizzera 1992


Strumenticres n.59 – giugno 2012

SEGNALAZIONI BIBLIOGRAFICHE L'IMMIGRAZIONE RACCONTATA AI RAGAZZI. VENT'ANNI DI PROPOSTE DELL'EDITORIA PER L'INFANZIA Lorenzo Luatti (a cura di) Nuove esperienze, Pistoia 2011

SCRIVERE IL FUTURO A PIÙ MANI. L'ORIENTAMENTO NELLA SCUOLA MULTICULTURALE L. Luatti e C. Melacarne (a cura di) Vannini editrice, 2012

Le narrazioni dell'esperienza migratoria sono Oggi più che mai i giovani, italiani al fianco di ormai una presenza abbastanza diffusa nei libri “nuovi italiani”, incontrano difficoltà ed esprimono per ragazzi, e consentono ai giovani lettori di inquietudini nel progettare il proprio futuro. Il conoscere i vissuti dei tanti ragazzi immigrati o volume, attraverso contributi teorici, ricerche emfigli di migranti, che sono i protagonisti di queste piriche e “buone pratiche” presenta l'orientamenstorie. Questa pubblicazione, che propone un'amto come un processo da costruire nel tempo e dal pia ricognizione su tali scritture, si prefigge due “basso”, in forma “corale” e condivisa, attraverso obiettivi: a) far conoscere l'esistenza di un vasto la collaborazione di scuola, famiglia e territorio. corpus narrativo che affronta l'esperienza migrato- Un prezioso strumento nelle mani di insegnanti, ria sotto molteplici sfaccettature, b) indagare sul operatori, genitori. modo in cui la tematica migratoria è proposta e sviluppata. Il catalogo si articola intorno ad alcuni temi prevalenti (il viaggio, storie di integrazione scolastica, amicizia e amore, le nuove famiglie, le seconde generazioni) e su alcuni generi e filoni narrativi (enigmi e misteri-le storie in “giallo”; storie favolose). A conclusione di ogni sezione sono indicate in elenco “Altre letture” (altri libri che affrontano il tema specifico della sezione e di cui si offre una breve descrizione), “Altri libri” (libri tematicamente affini anche se inseriti in altra sezione).

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Né pubblico né privato – editoriale

Pubblicazioni Collana Crescendo Cres Mani Tese - Emi 1. Arcipelago Mangrovia Narrativa caraibica e intercultura Rita Di Gregorio, Anna Di Sapio, Camilla Martinenghi pagg. 256, 2004 - € 12,00 Il quaderno cerca di fornire una panoramica della narrativa caraibica insulare dell'ultimo secolo per favorire il superamento di stereotipi e offrire chiavi di lettura e spunti di riflessione per l'educazione alla differenza. Le schede di presentazione degli autori e delle opere sono suddivise per aree linguistiche. Ipotesi di percorsi didattici. e strumenti utili per gli stessi, completano il testo.

3. Cittadini under 18 I diritti dell'infanzia e dell'adolescenza Daniela Invernizzi pagg.213, 2004 - € 11,00 Il testo presenta un approccio globale alle problematiche dell'infanzia e dell'adolescenza e, dopo aver descritto lo scenario culturale generale, propone esperienze di processi partecipativi locali e globali e suggerisce stimoli educativi per lo sviluppo di attività di ricerca e di sperimentazione centrate sulla tutela e la promozione dei diritti delle giovani generazioni.

5. “Terra è libertà” La questione agraria in America Latina Luca Martinelli, Annalisa Messina pagg.144, 2005 - € 9,00 Terrà è il punto di partenza per riflettere sui concetti di latifondo, riforma agraria, migrazione, libero commercio, diversità biologica, risorse naturali, diritti dei popoli indigeni, movimenti sociali, assumendo un punto di vista interdisciplinare che spazia dall'ambito sociale a quello politico, economico, culturale.

2. All'incrocio dei sentieri i racconti dell'incontro Kossi Komla-Ebri pagg.192, 2004 - € 10,00 I racconti di Kossi Komla-Ebri, ambientati in Africa, in Francia e in Italia, attingendo al vissuto quotidiano, parlano di amore, di viaggi, di nostalgia, di fierezza e di dignità e smascherano gli stereotipi con lo strumento dell'ironia. I temi dei racconti sono approfonditi dall'autore stesso nelle interviste e nei documenti della seconda parte, completata da un apparato didattico per un'educazione interculturale.

4. “La tela del ragno” Educare allo sviluppo attraverso la partecipazione Michele Dotti, Giuliana Fornaro, Massimiliano Lepratti pagg.238, 2005 - € 13,00 Questo Manuale pratico-teorico, frutto dell'esperienza sul campo degli animatori e delle animatrici del CRES di Mani Tese, analizza e decostruisce gli stereotipi più diffusi riguardo alla povertà mondiale e illustra tecniche di partecipazionee di coinvolgimento attivo utili per accompagnare i ragazzi verso la conoscenza e la comprensione critica delle problematiche attuali.

6. Uno, nessuno, centomila (ir)responsabili. Itinerari didattici di educazione alla cittadinanza Michele Crudo pagg.160, €12 - 2006 L'Educazione alla cittadinanza, anche in rapporto ai controversi modelli sociali che la nostra società propone, può diventare una pratica didattica per aiutare lo studente a capire l'universo degli adulti, a mediare tra gli opposti e arrivare ad un proprio punto di vista in un'ottica di mondialità. Alcune esplorazioni didattiche realizzate attraverso l'uso sistematico dello strumento filmico completano il testo.

Kit didattico

Nutrire il mondo per cambiare il pianeta a cura di Mani Tese, CISV, Cres, COCOPA 2010 - gratuito su richiesta scritta Il kit didattico introduce nel mondo scolastico il tema della sovranità alimentare con proposte metodologiche di lavoro per gli insegnanti, schede tematiche, carte geografiche e una serie di video sul tema.

Tutti i materiali possono essere richiesti a cres@manitese.it . Si può effettuare il pagamento on-line su www.manitese.it, su c.c.p. 291278 intestato a Mani Tese, con bonifico bancario Banca Popolare Etica IBAN IT 58 W 05018 01600000000000040


7. Ri/conoscersi leggendo Viaggio nelle letterature del mondo. a cura di Rosa Caizzi pagg. 256, 2006 - € 13,00 Un viaggio attraverso le letterature araba, nigeriana, sudafricana, indiana, afroamericana, cinese e la recente letteratura della migrazione può aiutare ragazzi e ragazze del Nord a stimolare la curiosità nei confronti della diversità, a combattere gli stereotipi sulle altre culture, a indagare la contemporaneità di altri paesi, a guardare con occhi nuovi la loro realtà, a relativizzare il proprio punto di vista.

9. Il cinema per educare all'intercultura Marina Medi 2007 - € 10,00 È importante che l'educazione all'informazione e ai media trovi spazio in modo organico nella programmazione curricolare diventando strumento di cittadinanza e di comunicazione interculturale. Il testo suggerisce una serie di riflessioni metodologiche per un uso critico dei media, che parta da alcune cautele indispensabili quando si propone agli studenti un lavoro che utilizzi il cinema, e presenta piste di lavoro da realizzare nelle scuole e percorsi didattici già sperimentati che possono servire da stimolo.

8. Perché l'Europa ha conquistato il mondo? Massimiliano Lepratti pagg. 124, 2006 - € 10,00 L'Europa non ha conquistato il mondo per investitura divina, né in quanto civiltà superiore. Il capitalismo del Nord del mondo affonda le radici nello sfruttamento economico e nei contributi di pensiero e tecnico- scientifici di aree lontane. Il testo indaga la storia della costruzione di un sistema di squilibrio internazionale che non esisteva fino ad alcuni secoli fa, attraverso un approccio che integra i livelli politico, economico e culturale. A corredo carte storiche e un'appendice didattica.

10. L'economia è semplice Massimiliano Lepratti pagg. 125, 2008 - offerta minima € 5,00 Basta spiegarla con parole non tecniche e diventa comprensibile a chiunque. L'economia viene scomposta nelle sue parti elementari presentando di ciascuna il funzionamento , il collegamento con gli altri aspetti della vita, la dimensione globale che coinvolge i paesi del Sud e le fasce povere della popolazione mondiale. È la conoscenza dell'economia internazionale a farci comprendere più a fondo la realtà di oggi e a motivare al cambiamento degli stili di vita e delle scelte di consumo.

11. Il lontano presente: l'esperienza coloniale italiana. Storia e letteratura tra presente e passato Anna Di Sapio, Marina Medi pagg. 284, 2009 - offerta minima € 5,00 Non può esistere futuro senza memoria. Il testo vuol essere uno strumento per rileggere pagine della nostra storia che abbiamo rimosso. Operazione particolarmente necessaria a scuola. Per coglierne la complessità non ci si può limitare ad un'analisi storiografica ma occorre mettere a confronto punti di vista diversi e utilizzare anche fonti nuove come romanzi e film.

Collana CrescendoCres Mani Tese - Ed Lavoro 1. Le migrazioni, a cura di D. Barra e W. Beretta Podini - 1995 2. Percorsi interculturali e modelli di riferimento, M. Crudo - 1995 3. Educare al cambiamento, AA. VV. - 1995 4. La conoscenza dell'altro tra paura e desiderio, M. Crudo - 1996 5. Lo straniero, L. Grossi, R. Rossi - 1997 6. Letterature d'Africa. percorsi di lettura, L. Bottegal, R. Di Gregorio, A. Di Sapio, C. Martinenghi - 1998 7. Penelope è partita, M. Crudo - 1998 8. Portare il mondo a scuola, a cura di ONG Lombarde, IRRSAE Lombardia, Provveditorato agli Studi di Milano - 1999 9. La gatta di maggio, R. Abdessemed - 2001 10. La sfida della complessità, M. Medi - 2003 Noci di cola, vino di palma. Letteratura dell'Africa sub sahariana L. Bottegal, R. Di Gregorio, A. Di Sapio, C. Martinenghi - 1997 (fuori collana)

PROMOZIONE: 3,00 € ciascun libro (spese di spedizione incluse)


un concorso per invenzioni …di classe! Eccoci finalmente all'epilogo di Cibinviaggio, il concorso per le scuole che Mani Tese ha lanciato nell'ambito della campagna internazionale “Food for World”, presentato nel n°57 di Strumenti. La prova su cui le classi si sono cimentate richiedeva creatività, inventiva e logica. Gli studenti hanno dovuto mettere in campo le proprie competenze e utilizzare materiali poveri per inventare un gioco originale e divertente, con obiettivi e regole chiare, il più possibile cooperativo e naturalmente coerente con il tema proposto, quello del viaggio dei cibi intorno al mondo.

Ad aggiudicarsi la cena a km 0 in palio sono stati: la I° E della scuola media “Rinascita-Livi” di Milano con il gioco Carrello intelligente la III°D del Liceo

“Tommaseo” di Venezia con il gioco Esploradoca

Al di là dei premi e delle classifiche il concorso ha rappresentato per gli studenti un'occasione per confrontarsi, riflettere, imparare divertendosi e soprattutto per lavorare insieme in vista di un obiettivo comune, sperimentando in prima persona il significato e l'importanza dello spirito cooperativo. Sarebbe impossibile raccontare in poche righe le regole, gli obiettivi e le caratteristiche di tutti i giochi in concorso… Vi invitiamo perciò a curiosare nel nostro blog:

Organismo contro la fame e per lo sviluppo dei popoli.

Redazione Luigi Idili (dir.), Luca Manes (dir. resp.), Angela Comelli, Alberto Corbino, Chiara Cecotti, Giosuè De Salvo Elias Gerovasi, Giovanni Mozzi, Giacomo Petitti, Lucy Tattoli.

Gruppo redazionale per il supplemento “Strumenti Cres” Donatella Calati (segretaria di red.), Giacomo Petitti (responsabile di red.), Elisabetta Assorbi, Gianluca Bocchinfuso, Piera Hermann, Elena La Rocca, Laura Morini, Shara Ponti.

Direzione, redazione e amministrazione Piazzale Gambara 7/9, 20146 Milano Tel. 02/4075165 cres@manitese.it www.manitese.it

Stampa: Staff S.r.l. - Buccinasco (MI)

Progetto grafico e impaginazione: Riccardo Zanzi

Hanno collaborato a questo numero: Elisabetta Assorbi, Costanza Bargellini, Alessandra Barzaghi, Gianluca Bocchinfuso, Mara Clementi, Michele Crudo, Anna Di Sapio, Piera Hermann, Elena La Rocca, Gabriella Lessana, Carlo Petitti, Giacomo Petitti, Stefano Rodotà, Shara Ponti, Manuela Pursumal, Giulio Sensi, Bianca Triaca

Gli articoli pubblicati rispecchiano il punto di vista degli autori, non necessariamente quello della Redazione. Quando non specificato, gli autori sono formatori Cres.

Il Cres,costituito da esperti ed insegnanti, cura le attività formative di Mani Tese in campo scolastico. Obiettivo fondamentale della sua iniziativa di ricerca e di innovazione didattica è la diffusione di una nuova cultura dello sviluppo e della mondialità nella scuola.

www.manitese.it/blog-educazione Potrete scegliere se divertirvi facendo la spesa intelligente tra bambini capricciosi e attenti guardiani, chiedere un prestito alla Banca della Terra, cercare di acchiappare il cibo spazzatura, oppure sperimentarvi con un Tabù in tour, Esploradocando tra quiz alimentari e corse con i sacchi. Buon divertimento!

Si può sostenere la rivista StrumentiCres con una offerta minima di 10,00 € specificando “Sostegno a StrumentiCres”: Versamenti on-line su www.manitese.it, su c.c.p. 291278 intestato a Mani Tese, con bonifico bancario Banca Popolare Etica IBAN IT 58 W 05018 01600000000000040


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