strumenti cres 58

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Strumenti

strumenti cres n.58 – supplemento al n. 476 di manitese – febbraio 2012

spunti di riflessione

proposte educative

03 Siamo a metà 09 Se l'informazione della “Grande è un bene comune Trasformazione”? 11 In teatro il cibo è 06 Hakuna Matata sensibile di Giulio Sensi

Poste italiane s.p.a. - Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1 comma 2. LO/MI in caso di mancato recapito inviare al CMP Roserio per la restituzione al mittente che si impegna a corrispondere i diritti postali.

di Elias Gerovasi e Claudia Zaninelli

di Gabriela Cattaneo e Carlo Capello

di giacomo petitti

07 Una scuola per gli sfollati Ilchamus

13 “Buon appetito! l’alimentazione in tutti i sensi”

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di Gabriella Buzzi

15 dossier

Colonialismo italiano, postcolonialismo: il presente e i suoi passati.

La storia per una cittadinanza consapevole

Possedimenti coloniali italiani sul numero del 14 /05/1939 della “Gazzetta del Popolo”

parole, musiche, immagini 38  Il grande gioco della fame (A. Baranes) a cura di Giulio Sensi

39  Cortissima storia dʼItalia 1860/2010: 150 anni (Palumbo, Verde) a cura di Elisabetta Assorbi

40  Fotogrammi migranti di Laura Morini

42  Anatomia di una assenza: presunzione o miopia? di Shara Ponti

46  Le nostre pubblicazioni


Colonialismo italiano, post- colonialismo: il presente e i suoi passati – editoriale

I volti della crisi e le prospettive comuni* La parola più usata negli ultimi sei mesi in Europa e in Italia è “crisi”. Affiancata da aggettivi diversi: economica, politica, monetaria, finanziaria, sociale, educativa, valoriale, internazionale, comunitaria, produttiva, occupazionale, istituzionale, partitica, industriale. Tanti aggettivi per descrivere un unico grande fenomeno che condiziona gli equilibri e i rapporti tra gli Stati: il limbo socio-politico-economico delle nostre società occidentali e l’impossibilità di riequilibrare nel profondo le disuguaglianze e le anomalie create. Cerco di argomentare il mio ragionamento, pur avendo a disposizione lo spazio di un editoriale. La situazione odierna del nostro come di altri paesi avanzati - che viene appunto inquadrata nella cornice della “crisi” con parecchie delle accezioni riportate nel primo capoverso - è inserita, dalla maggior parte degli analisti, in un disfacimento economico, monetario e produttivo negativo ma ciclico, cominciato questa volta (causa scatenante!) con le speculazioni bancarie relative ai mutui subprime e alle anomalie seguite non solo negli USA ma in mezzo mondo avanzato. A queste, si sono unite le stime incontrollate dei Debiti pubblici di diversi Stati sovrani che hanno trovato il loro apice nella condizione greca. La situazione contabile degli Stati - con tutto quello che concerne in chiave economica, politica, occupazionale e produttiva - testimonia un punto di non ritorno per i cosiddetti paesi progrediti: un panorama che dovrebbe indirizzarli urgentemente a ridefinirsi come soggetti sociali e istituzionali. Questo, invece, non avviene. I governi stanno agendo sull’emergenza andando a concretizzare operazioni di bilancio che gradualmente stanno sfaldando la fisionomia delle società senza nessuna idea vera di riforma e ridefinizione di nuovi quadri sociali. Stanno agendo dentro orizzonti sociali che, rispetto all’ordinamento nato negli anni cinquanta del Novecento, non esistono più. Le democrazie occidentali sono cambiate e si stanno trasfor-

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Per ricevere il periodico in formato pdf scrivi a: cres@manitese.it. un piccolo gesto che permette di ridurre la nostra impronta ecologica quotidiana.

mando in corpi ancora da definire. I governi agiscono sull’emergenza senza avere una lettura chiara degli obiettivi da raggiungere. Sono azioni finanziarie che impediscono scelte politiche guidate da grandi visioni della società non più divisa in classi riconosciute e riconoscibili secondo canoni tradizionali. Con la classe sociale scompare l’individuo, portatore di diritti e di doveri che stanno alla base dell’idea di libertà. L’individuo è diventato merce contabile da inserire in micro e macrovoci di bilancio con la finalità non di arrivare alla sua emancipazione sociale e alla sua partecipazione nella redistribuzione della ricchezza dello stato. Diventando merce, l’individuo è un numero sul quale si fanno analisi di costi e ricavi. Un soggetto di cui non si cura più la formazione, la capacità intellettuale, la tutela dei diritti, il benessere sociale, la partecipazione decisionale. «La libertà di condurre diversi tipi di vita - ha scritto Amartya Sen - si riflette nell’insieme delle combinazioni alternative di functionings tra le quali una persona può scegliere; questa può venire definita la “capacità” di una persona. La capacità di una persona dipende da una varietà di fattori, incluse le caratteristiche personali e gli assetti sociali. Un impegno sociale per la libertà dell’individuo deve implicare che si attribuisca importanza all’obiettivo di aumentare la capacità che diverse persone posseggono effettivamente, e la scelta tra diversi assetti sociali deve venire influenzata dalla loro attitudine a promuovere le capacità umane. Una piena considerazione della libertà individuale deve andare al di là delle capacità riferite alla vita privata, e deve prestare attenzione ad altri obiettivi della persona, quali certi fini sociali non direttamente collegati con la vita dell’individuo; aumentare le capacità umane deve costituire una parte importante della promozione della libertà individuale». Stanno curando un malato con terapie palliative. Non è previsto, in nessuno Stato, un nuovo quadro dentro il quale muoversi e agire. Le nostre società sono in via di fallimento. Far passare la crisi odierna come un momento che può essere combattuto e risolto con un mero piano di riforme (per lo più economico-finanziarie) è un atto reazionario. Senza cambiare la natura guastata della nostra società, ogni pensiero e ogni azione governativa si tramuta alla lunga in un fallimento sociale prima che economico. Non è pensabile che dopo questo ennesimo riflusso, qualche azione oculata e qualche aggiustamento possano ridarci fiato. L’Italia e l’Europa, così come le abbiamo conosciute fino alla fine degli anni Novanta, non esistono più. Oggi siamo dei morti che camminano. Nessuno si rende conto che l’unica via di salvezza di questi Stati è riesaminare le risorse, la società e le tipologie che li caratterizzano per avviare un processo culturale di cambiamento sostenibile che recuperi la questione dei diritti e la redistribuzione delle risorse e dei servizi. Gianluca Bocchinfuso

*Continueremo la riflessione nei prossimi dossier di Strumenti, dedicati ai Beni Comuni e a un utilizzo responsabile delle risorse.


Strumenticres n.58 – febbraio 2012

Siamo a metà della “Grande Trasformazione”? di Elias gerovasi e claudia zaninelli

Il nord del mondo è ancora leader dell’economia mondiale, ma qualcosa sta cambiando anche nella percezione dell’opinione pubblica. Cosa deve cambiare per la cooperazione e l’aiuto allo sviluppo?

Così lo chiamano gli economisti di Goldman Sachs nelle analisi degli scenari economici globali, il decennio della “Grande Trasformazione”. È innegabile che nell’ultima decade il mondo abbia sperimentato un cambiamento significativo. Il peso dei paesi Bric (Brasile, Russia, India e Cina) sul Pil mondiale è passato dall’11% del 1990 a circa il 25%. Entro il 2050, le proiezioni dicono che i Bric avranno raggiunto quasi il 40% del PIL mondiale facendo piazza pulita dei paesi che oggi sono denominati G8 nelle classifiche economiche.

Classifica per reddito pro-capite

Classifica per reddito pro-capite

1

2

6

7

7

2007

ina

mex

fra

5

ita

4

rus

3

bra

1

ind usa Chn

USa

Classifica per PIL

jap ger CHn gbr

09 USA 22 Giappone 16 Germania 56 Cina 10 Gran Bretagna 17 Francia 20 Italia 21 Media

non più i poveri quindi, ma quelli che raggiungeranno un certo benessere ed una discreta capacità di spesa, questa categoria comprende chi ha un reddito medio annuo compreso tra 6.000 e 30.000 dollari. L’India produrrà più di 50 milioni di nuovi benestanti da oggi al 2030, la Cina ne ha già sfornati oltre 30 milioni dall’inizio del nuovo millennio e il Brasile 33 milioni negli ultimi 8 anni. La Grande trasformazione contagia rapidamente la geopolitica e presuppone riposizionamenti importanti nello scacchiere internazionale. I paesi Bric infatti

2

3

4

5

6

Cina 45 USA 15 India 61 Brasile 46 Russia 28 Indonesia 60 Messico 44 Media 43

2050 fonte: Goldman Sachs

Gli analisti sostengono che questi tassi di crescita saranno accompagnati da una drastica diminuzione del numero di poveri (quelli che hanno un reddito inferiore a 2 dollari al giorno) e della malnutrizione, tendenza che effettivamente è già in corso come registra l’Indice Globale della Fame – in Brasile si registra una riduzione da 7,6 a meno di 5 e in India da 30,4 a 23,7 (dati 1990- 2010). Ancora più clamorosa sarebbe la crescita della così detta classe media,

sono i primi a cercare un riposizionamento ad ogni occasione disponibile. Rifiutano gli aiuti umanitari davanti a grandi tragedie (lo fece l’India all’indomani del terremoto del 2005 e dello Tsunami del 2006), diventano loro stessi donatori della cooperazione sud-sud, promettendo aiuti all’Europa in crisi economica attraverso l’acquisto di titoli di stato del debito europeo. A dir la verità le sopracitate proiezioni degli economisti risalgono a prima della crisi

economica che sta investendo in particolare i vecchi paesi dell’occidente ma che non risparmia anche le tigri ruggenti d’oriente e gli altri Bric. Le stime sulla crescita dei PIL sono già ridimensionate, in Brasile si passa dal 7% al 3,5%, in Cina e India il calo della domanda interna porterà ad un ribasso sulle previsioni di crescita del 2012. Fin qui i numeri degli economisti che effettivamente danno il senso di una Grande Trasformazione in atto, ma quanto e come a numeri crescenti corrisponde un benessere crescente? E come si calcolano le disuguaglianze, il rispetto dei diritti, i danni collaterali della crescita economica accelerata? Davanti a questo scenario possiamo semplicemente dire che ormai questi non sono più paesi poveri e che la cooperazione e la solidarietà vanno destinati ad altri paesi più bisognosi? Per una ONG come Mani Tese, che si batte da sempre contro la fame e gli squilibri e che ha fatto della cooperazione la sua mission, queste sono domande importanti che ci consentono di andare più a fondo, oltre le statistiche, per dibattere e capire qual è oggi e quale sarà in futuro il ruolo della cooperazione con queste realtà. eg

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Colonialismo italiano, post- colonialismo: ilpresente e i suoi passati – spunti di riflessione

Il Brasile diventa donatore La Commissione Economica per l’America Latina e i Caraibi delle Nazioni Unite ha recentemente pubblicato il report 2011 sul Panorama sociale dell’America Latina, da cui emerge una diminuzione della percentuale della popolazione brasiliana in situazione di povertà, dal 37.5% nel 2001 al 24.9% nel 2009 (vedi tabella 1). Il PIL del Brasile negli ultimi 10 anni è cresciuto dall’ 1,3% al 7% del 2010, per scendere al 3,5% del 2011, con una corrispettiva mobilità all’interno della piramide sociale del paese. Secondo lo studio “Los emergentes de los emergentes”, presentato dalla Fondazione Getulio Vargas, in base al quale la popolazione nazionale viene suddivisa in 5 categorie a secondo delle entrate mensili (A = dai 4,215 $ in su; B = fra i 4,215 $ e i 3,233 $; C = fra i 3,233 $ e i 750 $; D = fra i750 $ e i 468 $; E = al di sotto dei 468 $), la crescita economica sarebbe stata accompagnata da una riduzione delle diseguaglianze sociali. A dimostrazione di questo fatto 48,7 milioni di brasiliani (su un totale di circa 190 milioni di abitanti) sono ascesi alla classe media costituita dalle fasce A, B, C nel periodo compreso fra il 2003 e il 2011. Nonostante questo miglioramento, vale la pena ricordare che ancora 63,5 milioni di persone rientrano nelle categorie D ed E; il nuovo governo di Dilma Roussef nel mese di giugno ha lanciato un piano che prevede

la riduzione della povertà estrema nei prossimi 4 anni (Brasil sin miseria1), rivolto a 16 milioni di brasiliani, basandosi tanto sulla stabilità economica del paese quanto sul successo di programmi precedenti come Bolsa Familia2. La crescita economica e la diminuzione della diseguaglianza sociale vanno di pari passo con un’apertura del Brasile alla Cooperazione internazionale non più solo nel ruolo di paese “ricevente” ma come paese donatore: nell’ ultimo Forum sull’Efficacia dell’Aiuto (HLF4) tenutosi a Busan-Corea del Sud ai paesi del BRIC è stato riconosciuto il doppio status di economie emergenti (riceventi/ donatori). La Cooperazione Sud-Sud o trilaterale si basa soprattutto sulla condivisione e sullo scambio di esperienze fra paesi emergenti, in percorsi di sviluppo simili. Nel caso del Brasile, all’ interno del 1  “Brasil sin miseria” costituirà un ampliamento della copertura finanziaria del programma “Bolsa familia”. 2  “Bolsa familia” è un programma di trasferimenti condizionato in base al quale vengono assegnati sussidi per alimenti/ educazione/gas domestico a patto di rispettare alcune condizioni di sviluppo umano quali educazione, vaccinazione ad esempio.

Tab.1 Situazione di povertà in alcuni paesi dell’ America Latina (2002-2009-2010)-CEPAL PAESE

POVERTÀ INDIGENZA

cz

3  1,00 €=2,24 Reales

Tab.2 Fondi annuali assegnati alla Cooperazione Tecnica, Scientifica e Tecnologica (in milioni di Reales).

POVERTÀ INDIGENZA

POVERTÀ INDIGENZA

Argentina

2002

45,4

20,9

2009

11,3

3,8

2010

8,5

2,8

Bolivia

2002

62,4

37,1

2007

54,0

31,2

--

--

--

Brasile

2001

37,5

13,2

2009

24,9

7,0

--

--

--

Cile

2000

20,2

6,6

2009

11,5

3,6

--

--

--

Ecuador

2002

49,0

13,4

2009

40,2

15,5

2010

37,1

14,2

El Salvador 2001

48,9

22,1

2009

47,9

17,3

2010

46,6

16,7

Guatemala 2002

60,2

30,9

2006

54,8

29,1

--

--

--

Messico

2002

39,4

12,6

2008

34,8

11,2

2010

36,3

13,3

Nicaragua

2001

69,4

42,5

2006

61,9

31,9

--

--

--

Perù

2001

54,7

24,4

2009

34,6

11,5

2010

31,3

9,8

Venezuela

2002

48,6

22,2

2009

27,1

9,8

2010

27,8

10,7

fonte: CEPAL, 2011

Ministero Affari Esteri è stata creata l’Agenzia Brasiliana di Cooperazione (ABC) che attualmente è l’interlocutore tanto per gli organismi internazionali (bilaterali/multilaterali) donatori, quanto per i programmi di cooperazione tecnica fra paesi emergenti implementati dal governo del Brasile. Nel 2008 l’ABC ha realizzato 236 fra progetti ed attività puntuali di cooperazione Sud-Sud in 58 paesi intervenendo in vari settori fra cui quello agricolo (produzione e sicurezza alimentare), formazione professionale, educazione, ambiente, produzione di bio-combustibili. Un esempio di cooperazione tecnica Sud-Sud con organismi multilaterali è rappresentato dall’ accordo firmato nel 2002 con il Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione (UNFPA) per la realizzazione di programmi in ambito di salute riproduttiva e prevenzione HIV (settori in cui il governo brasiliano eccelle) che ha portato il Brasile a realizzare missioni tecniche nel 2004 in Paraguay, in Ecuador e ad Haiti. Dal 2005 al 2009 i fondi destinati alle attività di cooperazione tecnica, scientifica e tecnologica sono passati da 28,9 mln di reales (12,9 milioni di €) a 184,8 mln nel 2009 (82,5 milioni di €)3.

100 90 80 70 60 50 40 30 20 10 0 2005 2006 2007 2008 2009

fonte: Inchiesta sulla cooperazione internazionale allo sviluppo brasiliana, 2010


Strumenticres n.58 – febbraio 2012

Perché aiutare? India, crescita senza equità I numeri non lasciano dubbi sulla forte crescita dell’economia indiana. Dal 1991 a oggi il PIL è quadruplicato, il reddito medio è più che raddoppiato, il tasso degli investimenti è passato dal 27% al 37% (Lamont, 2011). Eppure questi numeri vengono da un paese che soffre di molti e gravi problemi: una indistricabile burocrazia, la corruzione dilagante, l’insufficienza delle infrastrutture, con il sistema idrico e fognario, le strade e i trasporti molto carenti rispetto ai bisogni, la mancanza di manodopera qualificata; le diseguaglianze economiche e sociali tra le varie classi infine raggiungono vette molto elevate. Per non parlare dell’inflazione, che ha raggiunto nel giugno 2011 il 9,44% su base annua. Secondo un’analisi di Le Monde il fenomeno non ha più origine soltanto dall’aumento dei prezzi dei generi alimentari, che tocca sostanzialmente tutto il mondo, ma anche da quello dei prodotti industriali, motivato da cause più strutturali proprie del paese, quali l’aumento dei salari dei lavoratori più qualificati, l’assenza di adeguate infrastrutture e il ritardo sul fronte delle liberalizzazioni. Ovviamente l’aumento del costo della vita si ripercuote negativamente soprattutto sulle classi più povere, quelle che vivono con meno di due dollari al giorno e che costituiscono ancora all’incirca i tre quarti della popolazione. Questi ed altri elementi sembrano motivare le accuse di molti intellettuali indiani, tra cui Amartya Sen, che continuano a sottolineare che lo sviluppo indiano, pur in sé così notevole come dimensioni, sta avanzando senza alcuna considerazione per i più poveri, i più deboli, le minoranze etniche, mirando nella sostanza a soddisfare gli interessi dei grandi imprenditori, dell’alta burocrazia pubblica e della crescente classe media. Lo confermano infatti le politiche avviate negli ultimi anni dal governo che ha iniziato a diminuire, se non a ritrattare, il proprio dovere costituzionale di fornire nelle aree marginali beni e servizi pubblici come istruzione, sanità e servizi igienici. eg

A leggere le analisi sull’economia internazionale e sulla crisi di quella europea sembrerebbe davvero che gli equilibri e i ruoli possano rapidamente cambiare. Chi deve aiutare e chi essere aiutato? La riduzione effettiva della povertà che questa crescita economica dei Bric sta portando, con tutte le sue contraddizioni, deve comunque metterci davanti ad una riflessione. Non tanto per interrompere rapporti di partenariato o bloccare gli aiuti della cooperazione, quanto per rivedere bisogni e priorità che queste dinamiche indiscutibilmente stanno modificando. Davanti allo scenario attuale in questi paesi aumentano le disparità sociali, si consolidano nuovi poteri economici e politici che spesso non badano ai diritti delle persone, in particolare dei più deboli. C’è il rischio che i poveri, pur diminuendo in termini numerici, soffrano ancora più di ieri della loro condizione, che aumenti il reddito medio pro capite ma diminuiscano le tutele per chi non entrerà nella nuova classe media benestante. Questi periodi di transizione (così li chiamano gli economisti), hanno sicuramente bisogno di una società civile forte, che guidi e controlli la politica e ne sappia

condizionare le scelte a favore dei più deboli. Su questo dovrebbe concentrare il suo sforzo la cooperazione, sostenere più efficacemente le organizzazioni locali, le associazioni, i sindacati a fare gli interessi delle comunità più svantaggiate. Essere in grado di controllare dove vanno le risorse economiche prodotte dalla crescita e dallo sviluppo, assicurarsi che l’aumento del Pil non sia prodotto a scapito dei diritti. In questo percorso credo che le ONG debbano dare un contributo significativo stringendo alleanze ancora più forti con i partner locali e rafforzando le reti internazionali che possono influire a livello politico. Si tratta di accompagnare grandi cambiamenti e tutto ciò non può essere fatto senza cambiare di pari passo la nostra percezione e quella dei donatori che con il loro contributo sostengono la cooperazione. Far capire che la lotta contro la povertà in questi contesti non sarà fatta più di assistenza e aiuto ma di battaglie comuni per i diritti e la giustizia sociale. Il nord e il sud torneranno ad essere semplici punti cardinali. eg

A sinistra, la residenza privata a Mumbay di Mukesh Ambani, proprietario del gigante petrolchimico Reliance Industries e uno degli uomini più ricchi al mondo.

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Colonialismo italiano, post- colonialismo: ilpresente e i suoi passati – spunti di riflessione

Hakuna Matata

un progetto di educazione alla cittadinanza mondiale di gabriela cattaneo e Carlo Capello

“Hakuna Matata…nessun problema”: abbiamo scelto questa nota espressione di saluto in lingua swahili per dare un nome al nostro progetto di collaborazione fra scuole italiane e scuole di Paesi del Sud del mondo. Vogliamo infatti proporre una sfida contro le difficoltà oggettive: nessun problema può ostacolare una conoscenza reciproca e una vera amicizia o può impedirci di lavorare insieme nel campo educativo. Il progetto, proposto dal gruppo di riflessione e di lavoro Portare il mondo a scuola, è nato dalla volontà di trovare strumenti sempre nuovi per educare i bambini ed i giovani alla conoscenza, alla comprensione e al giudizio critico, perché possano confrontarsi senza paura e in modo costruttivo con i fenomeni della globalizzazione e dei flussi migratori su scala mondiale. Alcune classi di una decina di scuole italiane (tre scuole materne, due scuole primarie, quattro scuole secondarie di primo grado e una scuola secondaria di secondo grado), in prevalenza lombarde, corrispondono e collaborano regolarmente con scuole di alcuni Paesi africani: RD del Congo, Camerun, Kenya. In Italia le associazioni coinvolte sono: il COE e Arezzo Ballet. Si stanno tentando collegamenti anche col Senegal e con alcune scuole dell’America Latina. La specificità del nostro progetto di educazione interculturale ha due aspetti: da un lato la concretezza di un contatto diretto degli studenti e insegnanti italiani con quelli stranieri; dall’altro la volontà di sperimentare una forma di impegno solidale, ma non assistenziale. Lo scambio avviene, quando e dove possibile, via e-mail; più spesso però il materiale di scambio viene affidato a persone dirette ai villaggi, come volontari o per lavoro. Il progetto prevede la massima flessibilità nella scelta dei tempi e dei contenuti di lavoro, per produrre il materiale di “scambio educativo”. Per aderire però al progetto, si richiede alla scuola l’inserimento di esso

all’interno del Piano dell’Offerta Formativa (POF) e soprattutto una programmazione di classe e di materia. I docenti vengono così responsabilizzati e coinvolti in un percorso di educazione alla cittadinanza inserito nelle attività disciplinari e interdisciplinari. Le condizioni per aderire al progetto sono: l’impegno di almeno un insegnante al coordinamento delle attività, la durata di almeno un anno scolastico e la partecipazione di tutta la classe: il materiale di scambio deve infatti essere il prodotto di un lavoro comune, proposto e condiviso con le scuole “gemellate”. Scriviamo “gemellate” fra virgolette, perché normalmente si intende per gemellaggio una relazione in cui una scuola italiana si impegna a raccogliere fondi per aiutare una scuola del Terzo Mondo, con cui stabilisce una corrispondenza. Il nostro obiettivo è completamente diverso: i ragazzi italiani e africani (o sudamericani) provano a educarsi insieme e attraverso lo scambio di lettere, fotografie, disegni, relazioni e progetti di studio e ricerca comuni scoprono la realtà dell’altro, la ricchezza di una cultura diversa, le difficoltà di ambienti sociali, economici e politici lontani. Sperimentano così in concreto la complementarietà dei saperi e dei modelli culturali. In genere, alla fine del percorso, sono i ragazzi stessi a pretendere anche un

impegno di aiuto agli amici più poveri; la raccolta di piccole somme, anche attraverso i tradizionali mercatini di fine anno, assume così un grande valore educativo, nella forma di un dono agli amici meno fortunati: un dono che richiede un impegno personale e che scaturisce dall’amicizia fra persone che ben si conoscono. I risultati finora raggiunti sono senza dubbio positivi. I bimbi delle scuole materne scambiano i disegni con gli amici lontani, immaginando la possibilità di giocare insieme, in un superamento fantastico di tempi e spazi, magari con l’aiuto dell’amico mappamondo personalizzato in Raymondo; sono commoventi nel loro entusiasmo e fanno sperare che l’esperienza lasci in loro un segno profondo. I ragazzini delle scuole elementari e medie (usiamo la vecchia terminologia) e gli adolescenti della scuola secondaria meravigliano nella loro serietà di impegno e nella capacità, ovviamente stimolata e guidata attraverso il lavoro degli insegnanti e dei volontari di Hakuna Matata, di andare oltre la conoscenza di situazioni particolari: a mano a mano che ricevono le informazioni sulle condizioni di vita e le testimonianze sul modo di sentire e pensare degli amici lontani, si pongono interrogativi, cercano


Strumenticres n.58 – febbraio 2012

risposte. Arrivano anche a scoprire le dinamiche di tipo economico e sociale alla base di fenomeni noti, come la povertà e gli esodi migratori, che appaiono loro sotto una luce completamente diversa nelle loro vere cause di ingiustizia e di oppressione. Questo risultato corrisponde alla convinzione, che sta alla base del Progetto Hakuna Matata: il futuro globale dipende dalla formazione delle persone. Per costruire una società più giusta e “benevola” non si può prescindere da un impegno capillare di formazione alla cittadinanza globale, sia qui in Italia sia in ogni parte del mondo. È questo un principio condiviso anche da molti insegnanti africani, che ci meravigliano nella loro adesione a questo tipo di progetto, nonostante le condizioni precarie ed estremamente disagevoli in cui operano. Riportiamo un pensiero di una Preside di una scuola secondaria di Watamu (Kenya orientale): Noi crediamo fortemente che a lungo andare il mondo sarà un posto migliore per noi e per voi e per le future generazioni, generazioni che terranno nelle loro mani un vero quadro della loro cultura, generazioni che sapranno sostenere grandi sfide sociali ed economiche, generazioni che saranno in grado di leggere e comprendere ambedue gli aspetti delle culture dell’Italia e del Kenya nel loro incrocio. Da alcuni insegnanti di quelle lontane scuole giunge un suggerimento ad andare “avanti e oltre”, cioè a trovare nuove forme di cooperazione con le scuole del Sud del mondo, che non solo superino una visione assistenziale, ma pongano come nuovo obiettivo la costruzione insieme di nuovi modelli didattici ed educativi. È una prospettiva stimolante ed entusiasmante, che vorremmo condividere con altri, già impegnati nella cooperazione internazionale.

L’educazione al centro

A Kirepari, una scuola per gli sfollati Ilchamus Per avere maggiori informazioni o per sostenere la scuola di Kirepari (Mani Tese progetto n.2257): Caterina Santinon (volontaria Mani Tese), caterina.santinon@gmail.com Redazione Strumenti cres@manitese.it

Sempre più spesso Mani Tese individua nell’educazione lo snodo centrale per migliorare la situazione socioeconomica di una comunità o di un villaggio e affrontare problemi complessi quali il lavoro infantile, l’insicurezza alimentare, il ruolo marginale delle donne, lo sfruttamento insostenibile delle risorse ambientali. Ci troviamo in Kenia, nel villaggio di Kirepari sull’isola di Kokwa, nel lago Baringo, circa 300 km a N-O di Nairobi. Il villaggio è sorto nel 2007, quando un gruppo di Ilchamus (un sottogruppo di Masai) vi si è rifugiato per sfuggire ad un sanguinoso conflitto con i Pokot, scacciati a loro volta dal lago Turkana I cambiamenti climatici, la riduzione della piovosità dovuti anche al degrado della foresta di Mau hanno messo sotto pressione le risorse naturali della zona, scatenando conflitti tra gruppi etnici diversi. I pastori Ilchamus hanno dovuto abbandonare la terraferma, perdendo il bestiame e tutti i loro averi, e si sono trasformati in pescatori. Il progetto si pone l’obiettivo di facilitare la loro riorganizzazione comunitaria e di rafforzare i rapporti di buon vicinato con la popolazione locale dell’isola attraverso il sostegno all’educazione primaria e alla formazione degli adulti e l’introduzione di buone pratiche di salvaguardia e uso delle risorse comuni.

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Colonialismo italiano, post- colonialismo: ilpresente e i suoi passati – spunti di riflessione

Azioni previste • 1. Migliorare l’accesso all’educazione primaria per i bambini di Kirepari. Attualmente 65 bambini frequentano la scuola materna, in uno spazio aperto sotto un albero mentre altri 120 bambini, dai 6 agli 8 anni, devono percorrere 8 km al giorno su un terreno accidentato per recarsi nella scuola dall’altra parte dell’isola. Il progetto prevede la costruzione di una piccola scuola composta di 4 aule per 40 alunni ciascuna, 1 blocco di latrine, 2 magazzini e 1 aula insegnanti. In questo modo si combatterà l’abbandono scolastico, particolarmente alto tra le bambine. • 2. Promuovere la raccolta di acqua piovana per aumentare la disponibilità di acqua potabile per l’igiene e l’alimentazione di alunni e insegnanti. I tetti degli edifici saranno dotati di grondaie che convoglieranno l’acqua piovana in cisterne secondo un sistema già in uso in altre parti del Kenya; la scuola potrebbe essere un esempio di buona pratica per il resto dell’isola. • 3. Rendere possibile l’accesso all’informazione e alla comunicazione per la popolazione dell’isola. Una delle aule potrà essere utilizzata anche come centro di aggregazione in cui svolgere campagne di informazione, corsi di base per adulti e di aggiornamento; sarà rifornita di giornali e periodici e dotata di pannelli solari, televisore, videoregistratore, radio, caricabatteria per cellulari. Questo intervento aumenterà le possibilità di socializzazione, scambio, formazione su temi di comune interesse per gli Ilchamus ma anche per le altre comunità dell’isola. • 4. Promuovere l’attività di riforestazione sull’isola. Attorno alla scuola verranno piantate 1000 piantine di essenze locali per formare una barriera naturale contro le raffiche di vento, contribuire al ripristino del manto boschivo e costituire una riserva di legna da ardere, diminuendo la pressione sul patrimonio forestale esistente. Il progetto si propone di diffondere anche nel resto dell’isola le buone pratiche di uso sostenibile delle risorse sperimentate nella scuola limitando la pressione umana sull’ambiente, innescando il recupero dell’equilibrio ecologico precario e rafforzando l’integrazione positiva della comunità degli Ilchamus nell’isola, diminuendo le occasioni di conflitto per l’uso delle risorse.

CONTATTO Le scuole più sensibili ai temi della salvaguardia dell’ambiente e della cooperazione e desiderose di una conoscenza più “ravvicinata” possono programmare di mettersi in contatto con una scuola keniota grazie al supporto di Mani Tese e di Necofa, partner di MT in Kenia. In attesa che la scuola di Kirepari entri in attività, si può far conoscenza con gli studenti di: Scuola Primaria di Michinda: i ragazzi seguono personalmente l’orto scolastico e sono molto attivi nei laboratori di scienze e di informatica; Scuola Primaria di Mariashoni, immersa nella foresta di Mau, sta iniziando le proprie attività, tra le quali l’orto scolastico. Sono già previsti scambi collaborativi tra le due scuole keniote. Per info: cres@manitese.it


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Se l’informazione è un bene comune di giulio sensi

I giovani avvertono sempre di più il peso dei mezzi di informazione nell’influenzare le loro coscienze e le loro scelte. Lavorarci insieme con percorsi di approfondimento, anche in forma laboratoriale, può riservare delle belle soprese. La prima è la smentita sul campo della “vulgata” che vuole riportare i giovani come fruitori acritici e inermi di tutto quello che il circo mediatico fa passare. È vero il contrario: in molti di loro esiste una grande capacità di analizzare criticamente, e smontare abilmente, ciò che i mezzi di informazione propinano. In questa sede avanziamo alcune chiavi di interpretazione e proposte operative certamente non neutre (né scientifiche) con la volontà di aprire un dibattito che già sappiamo potrà essere aspro e critico, ma che riteniamo importante visto il peso che i media, e in particolare quelli definiti “nuovi”, hanno nei percorsi di crescita dei ragazzi.

Una linea sempre più sottile

Per fare questo è necessario chiarire alcuni concetti: i mezzi di informazione sono parte integrante dei mass media, ma restano comunque una parte. Un conto è la televisione con il suo martellare 24 ore su 24, altro conto sono i telegionali e i programmi di informazione e approfondimento. Questi sono spesso i più seguiti, ma non sono gli unici ad influenzare le cosiddette coscienze dei cittadini. Basti pensare all’importanza di programmi televisivi di intrattenimento, come in passato “Il grande fratello”, oppure alle fiction sempre più determinanti nel creare e alimentare immaginari diffusi. I mezzi di informazione oggi sono sempre meno monolitici e unidirezionali, avvalendosi in maniera crescente di un ruolo apparentemente attivo dell’utente anche grazie alla diffusione del web 2.0 e dei cosiddetti “social network”. Anche questo ha contribuito a rendere sempre più labile la linea di confine fra i media, dando la possibilità ai “cittadini/ utenti” -e fra loro in particolare le nuove generazioni di “nativi digitali”- di svolgere un ruolo più attivo con tutte le incognite che un processo del genere comporta.

Il peso dei nuovi media

Tale processo è facilitato dalla dimestichezza che si ha con i nuovi media -e in particolare con tutti gli strumenti forniti dal web 2.0- i quali, è giusto ricordarlo, solo in minima parte tuttavia sono utilizzati con modalità di impegno civile e sociale, rimandendo, in particolare facebook, dominati da un utilizzo che riguarda soprattutto la sfera amicale e personale. Un dato da tenere a riferimento laddove si celebri in maniera troppo acritica le potenzialità del “popolo della rete”, il quale comunque non mette in discussione le enormi potenzialità di un’alfabetizzazione informatica precoce e accelerata. I cui pericoli ed effetti negativi sono noti a tutti ed è giusto sottolineare e affrontare (non lo faremo in questa sede). Gli studi del Censis sulla comunicazione già da un paio di anni forniscono una fotografia del rapporto fra gli italiani e i social network ed emerge appunto la poca importanza in termini di dimensioni (si parla di poco più del 3%) del “perorare cause” da parte degli italiani sui social network. Significa che la socialità sul web non è finalizzata se non in minima parte all’impegno sociale, politico e civile. Aldilà di questioni etiche, rimane il fatto che i social network racchiudono un linguaggio, al pari di quello televisivo, da cui non è possibile prescindere nel lavorare sull’informazione insieme ai ragazzi. In generale esiste una grande preoccupazione del “mondo adulto” nei confronti di dimensioni come quelle legate al web 2.0: pregiudizio dettato troppo spesso da un’incapacità di comprenderne i meccanismi che porta quindi ad una demonizzazione troppo superficiale. Conoscerne i linguaggi e le regole è invece un’opportunità per entrare in collegamento con l’espressività giovanile.

Troppe informazioni?

Un’altra vulgata molto diffusa sostiene che il web e tutti gli strumenti che ne sono seguiti con rapide trasformazioni abbiano portato ad un’invasione massiccia di informazioni, spesso di dubbia veridicità, che “bombardano” soprattutto i ragazzi, i

quali sarebbero meno provvisti di “armi di difesa” con il rischio di non distinguere più, di conoscere troppe cose e non sapere in realtà niente. È un rischio reale, insito nella comunicazione di massa del nostro tempo. Ma anche in questo caso dobbiamo guardarne le potenzialità: entrare in contatto velocemente con una dimensione nazionale o addirittura globale che porta i tanti giovani della provincia italiana a confrontarsi con questioni che vanno oltre quelle locali; potersi collegare con mondi apparentemente lontani toccandone con mano le diversità; avere più mezzi a disposizione per conoscere la realtà sociale, politica, economica e culturale che li circonda. Tutti elementi che solo venti anni fa richiedevano una fatica e un investimento anche economico spesso insostenibile. In questo senso la “società dell’abbondanza di informazioni” necessita senza alcun dubbio di percorsi educativi tesi a condividere, senza influenzarli con pregiudizi inutili, con i ragazzi una visione, la più completa possibile, di rischi e potenzialità di vecchi e nuovi media.

Da dove iniziare

Questa rapida premessa di contesto ci permette di arrivare all’obiettivo di questo contributo: come è possibile lavorare in classe sui temi dell’informazione? Proponiamo alcune piste, senza pretesa di trovare soluzioni valide per tutti e mutuando da diverse discipline (da quelle scolastiche classiche alla media education) alcuni strumenti concreti. Con una premessa: non esiste un modo “neutro” di parlare di informazione. Qualsiasi percorso possibile è inevitabilmente influenzato dalla visione del formatore sull’argomento. La nostra scelta, mutuata dal libro “Informazione istruzioni per l’uso” edito da Altreconomia nel 2010, è quella di concentrarci sul carattere di indipendenza dell’informazione, consapevoli dei problemi per la democrazia di un’informazione sempe più concentrata in poche mani -le quali mai sono di editori cosiddetti “puri”, cioé che fanno solo quello di mestiere, ma hanno altri interessi in

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Colonialismo italiano, post- colonialismo: il presente e i suoi passati – proposte educative

settori economici rilevanti-, dipendente dai fondi garantiti dalla pubblicità e influenzata dai condizionamenti della politica (come nel caso della televisione) Nè si parla solo di “giornalismo” per un motivo molto semplice: protagonisti dell’informazione non sono solo coloro che per mestiere la producono (come i giornalisti), ma sono tutti i cittadini in quanto anche l’informazione è un bene comune e assume sempre un’importanza “pubblica”. Per questo è importante far emergere subito il rapporto che i ragazzi hanno con l’informazione, chiedendo loro di spiegare brevemente come si informano. Scopriremo, molto probabilmente, che la televisione insieme ad internet assumono un ruolo quasi esclusivo nelle scelte dei ragazzi. Un dato da cui non è possibile prescindere. Può iniziare a questo punto un percorso che confronti le abitudini dei ragazzi con quelle diffuse in Italia con l’illustrazione dei dati raccolti e sistematizzati in “Informazione istruzioni per l’uso”.

Diventare protagonisti

Prendere un servizio giornalistico, che sia di giornale, televisivo, radiofonico o sul web, e “metterlo in discussione” cercando di capire da quale fonte provenga, quale linguaggio utilizzi, con quale “interesse” riporti una notizia, quali effetti provoca in tutti i suoi elementi (dai titoli alle immagini) sul lettore, è un esercizio estremamente utile. I casi di disinformazione televisiva, ad esempio, sono molti ed è possibile recuperarli anche grazie all’ausilio dei video forniti da you tube. Illustrarli, commentarli, immaginarsi come potrebbero essere stati confezionati “diversamente” può far capire, con il linguaggio che è loro familiare, ai ragazzi molto di più di qualsiasi lezione sul giornalismo. Per fare questo in “Informazione istruzioni per l’uso” avanziamo alcuni strumenti utili a livello personale quanto al lavoro in classe o con gruppi di ragazzi in qualsiasi realtà associativa. Selezionare. L’informazione non è tutta da buttare né esistono verità assolute: è di fondamentale importanza saper scegliere dove e come informarsi, sulla base della propria conoscenza e delle proprie convinzioni decidere cosa sia giusto “consumare”. Leggere un giornale è estremamente più utile che guardare un telegiornale. Se proprio non si ha tempo, meglio la radio! Variare. Cambiare spesso giornale o programma, in base anche agli interessi specifici e ai momenti particolari, è di vitale

importanza per capire che differenze ci sono nel mondo dell’informazione ed orientarsi con più consapevolezza Verificare. Può essere un buon esercizio, magari iniziando con una notizia al giorno, controllare con ricerche online, con altri mezzi o tramite conoscenze di esperti sul tema, l’attendibilità e la veridicità delle notizie o del modo in cui sono poste. Magari mettendo in comune con altri i risultati della piccola ricerca Ricercare le fonti. La provenienza di una notizia è centrale per comprenderla e contestualizzarla. È utile cercare di capire sempre, anche fra le righe, dove nascano le notizie che i mezzi riportano, magari anche con l’aiuto di ricerche parallele Decodificare. Costruzione di una pagina, di un telegiornale, di un giornale radio, gerarchia data alle notizie -con cosa si “apre”, a chi si dedica la “prima”, cosa si relega in un piccolo “box” giusto per dovere di cronaca-, scelta delle immagini o delle foto, rispondenza dei titoli al contenuto degli articoli, linguaggio usato: non sono mai elementi casuali, ma rispondono a precise decisioni e impostazioni editoriali che fanno capire cosa stiamo consumando. Prendersi il tempo giusto, magari leggendo anche solo pochi articoli, ma con maggiore attenzione, è un esercizio utile per non subire acriticamente ciò che ci viene sottoposto Aprire le finestre di casa. Fuori dai confini nazionali giornali, televisioni, radio e siti internet forniscono spesso notizie preziose per capire il mondo che abitiamo ed osservare il nostro paese da un’ottica diversa. Non limitarsi, laddove possibile, alle fonti di casa: l’informazione non ha frontiere! Chiedersi chi è il padrone. Sapere chi è l’editore e quali interessi egli abbia in gioco è centrale per capire di quale informazione ci nutriamo ed avere elementi di critica. Utilissimi per questo ed altri esercizi simili sono i siti dell’Autorità garante per le comunicazioni (www.agcom.it, in particolare la relazione annuale) e della Consob (www. consob.it) Controllare la pubblicità. È il condizionamento più forte che l’informazione subisce in questo momento. Verificare chi sono gli inserzionisti e tenere un occhio vigile su come vengono trattate notizie che li coinvolgono direttamente o indirettamente è fondamentale per sapere quali “affari” ci sono dietro e agire di conseguenza Far sentire la propria voce. I giornalisti non sono intoccabili né inarrivabili: i mezzi di informazione hanno indirizzi e

caselle di posta elettronica a cui è possibile mandare le proprie osservazioni e critiche sul loro prodotto che noi in qualche modo acquistiamo. Essere consumatori critici di informazione significa anche far sentire la nostra voce che viene presa molto più in considerazione di quanto si creda Piccolo è bello (e di qualità). Privilegiare le testate indipendenti (o che comunque assicurino un’alta qualità dell’informazione), spesso molto piccole, che vivono di risorse autonome o con finanziamenti trasparenti. In Italia esiste una galassia di informazione indipendente che deve essere valorizzata di più. Un piccolo esperimento di applicazione di queste “istruzioni”è stato fatto da quattro ragazze di 4° del Liceo di Scienze Sociali di Lucca che le hanno studiate, cercato di applicarle e reinterpretate. Ecco le “loro” istruzioni per l’uso. 1. L’utilizzo del web garantisce la libertà di selezionare ciò che ci interessa vedere, mentre la televisione, e i giornali (mass media utilizzati più frequentemente e maggiormente diffusi nel mondo della comunicazione e dell’informazione) trasmettono messaggi e notizie da loro selezionate e scelte. 2. Le informazioni in circolazione sul web non sono sempre veritiere e alcune notizie possono risultare ingannevoli. 3. Nell’acquisto dei giornali e nella visione di certi telegiornali è utile consultarne diversi, poiché alcuni possono essere politicamente schierati. 4. Leggere attentamente le notizie, venendo a conoscenza della fonte da cui provengono, e prestare attenzione all’impostazione delle informazioni. 5. All’interno dei giornali vi sono spesso degli spazi curati da opinionisti che ci permettono di confrontare le nostre opinioni con le loro, senza però farci influenzare troppo. 6. Scegliere le trasmissioni televisive con coerenza e non con superficialità. 7. Le notizie trasmesse dalla radio e dalla televisione tendono ad essere annunciate in poco tempo così da attirare l’attenzione dell’ascoltatore: analizzar-


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le quindi, successivamente, in maniera più dettagliata.

Carlo Carrà Celebrazione patriottica 1914, collage.

8. Con l’avvento dei social network vi è una maggiore circolazione di informazioni e notizie tra singoli individui: questi ci permettono di scambiare idee e opinioni con un numero di persone vastissimo ed eterogeneo. 9. Grazie ai numerosi mezzi di informazione vi è una maggiore partecipazione alla vita sociale e politica. 10. Non lasciarsi condizionare dalla televisione, la quale trasmette modelli culturali e comportamentali identici, che creano un’ identità unica, valida per tutti, in modo che è compromessa l’unicità dell’individuo.

Obiettivo: informazione bene comune

Quello delle ragazze del Liceo di Scienze Sociali è un piccolo esperimento di come un percorso orientato a “mettere in discussione” l’informazione possa dare agli studenti strumenti di auto-consapevolezza utili a smettere di “subire” l’informazione

in maniera acritica. Un passaggio ulteriore può essere a quel punto fornire una mappa, e qualche copia, di informazione “indipendente”, quella informazione su piccola scala, di cui la rivista Altreconomia è solo un esempio, caratterizzata da una maggiore libertà e dall’assenza di condizionamenti esterni, siano gli interessi economici degli editori, siano gli interessi politici, siano gli interessi degli inserzionisti pubblicitari. La quale, peraltro, molto spesso assicura una qualità e un’affidabilità delle fonti maggiore dell’informazione cosiddetta “mainstream”. Coltivarla significa anche dare un contributo “dal basso” al pluralismo dell’informazione messo sempre più in discussione dal processo di concentrazione dei media a livello globale e nazionale. Basti pensare che solo in Italia il 92% dell’informazione televisiva è in mano a 3 aziende e che il 73% dell’editoria cartacea è controllata da appena 5 aziende. A questo punto non è sacrilego qualsiasi parallelo fra l’informazione e altri beni comuni come l’acqua: il controllo, la gestione, la salvaguardia, la purezza sono fra le qualità importanti che le accomunano. E dall’informazione passano le sorti della nostra malandata democrazia.

In teatro il cibo è sensibile (e i bambini lo sanno meglio di noi) di giacomo petitti

Il 20 Novembre, Giornata Mondiale dei Diritti dell’Infanzia, è andato in scena al Piccolo Teatro Studio di Milano lo spettacolo Gnam gnam, grunf grunf, slap slap, tic tic. Cibo Sensibile, di Antonio Catalano, dedicato all’associazione Mani Tese e al suo impegno per i diritti fondamentali dei bambini nei paesi del Sud del mondo. Il racconto di un’esperienza più teatrale che didattica, ricca di spunti su un tema complesso e affascinante come quello del cibo.

Come chiudersi alle spalle le antine di un armadio. L’incontro con i mondi di Antonio Catalano è piuttosto uno scontro. Non importa quanto sei adulto, quanto è lontana la tua voglia di giostre o il tuo bisogno di giocare. Entri e ne sei catturato interamente, avanzi di due passi e senza accorgertene ti ritrovi con la bocca aperta, quell’antica smorfia di stupore che pensavi di avere dimenticato e invece riemerge ancora a ricordarti che sei stato un bambino. Catalano è per tutti i bambini, quelli con la voce bianca e quelli che si dibattono in un

corpo da adulti. Ciò che più impressiona del suo lavoro è la straordinaria capacità di cogliere l’essenza che rende semplici le cose più difficili. Il suo spettacolo parla degli universi che stanno intorno al cibo, un tema immenso che si può osservare da innumerevoli angolazioni. Quella dell’educazione alimentare, naturalmente, che si affronta a partire dalla scuola primaria, ma non solo. Il cibo è anche un diritto per tutti gli uomini, è specchio del nostro rapporto con la terra e con la natura, è strumento di socialità, di scambio, di scoperta. Catalano sa mostrar-

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lo in tutti i suoi immaginari, riuscendo inaspettatamente a spogliare il messaggio da ogni orpello senza tuttavia perderne le sfumature più importanti. Lo fa attraverso la sua arte imprevedibile e visionaria, fatta di legno, rami, giostre, oggetti che diventano altro rispetto alla loro funzione originaria, mondi pitturati senza risparmiare sui colori e decoupage. Uno stile personale e deciso, che ricorda a sprazzi le invenzioni di Bruno Munari e pesca a piene mani dalle rime di Gianni Rodari, frutto per stessa ammissione dell’autore di una lunga ricerca. D’altronde, come ben sa chi si occupa di pedagogia, l’arte di parlare il linguaggio dei bambini richiede studio, applicazione, competenze e... un pizzico di magia custodita da pochi ma importanti trucchi del mestiere. Uno dei segreti è saper sfruttare lo spazio. Catalano lo conosce a menadito e ce ne accorgiamo subito entrando al Piccolo Teatro Studio: l’alto soffitto è costellato di lampadari costruiti con dei colapasta che irradiano luce attraverso i piccoli fori, creando un’atmosfera da Isolachenoncè. Dalle pareti pendono animali parlanti disegnati su drappi colorati, appesi a metà tra realtà e immaginazione. Al centro della sala troneggia un’enorme giostra, chiusa da tende di velluto rosso. Cosa ci sarà sotto? Sembra la domanda dipinta sul viso di tutti, grandi e piccini. Intorno alla giostra degli armadi giganti messi uno in fila all’altro, un esercito di figure antropomorfe con degli armadietti al posto della pancia e una serie di scatole sistemate apparentemente alla rinfusa, che a sbirciarle ci si accorge dell’ambiente in miniatura racchiuso all’interno di ognuna, riempito di semi e ritagli incollati su fili di rame. Pare di essere in un paesaggio che avevamo

forse solo sognato, ma non si può fermarsi troppo ad osservare perché lui, col piglio da capitano di un transatlantico, guida tutti di fronte alla giostra e ci fa accomodare. Un altro segreto è saper entrare in comunicazione con i bambini attraverso i sensi: lo spettacolo ha un titolo che è tutto un programma: Gnam gnam, grunf grunf, slap slap, tic tic. Cibo Sensibile. E infatti sono i versi e i suoni onomatopeici a farla da padrone nella prima parte in cui Catalano, con l’aiuto di un attore, organizza un vero e proprio concerto invitando tutti a verseggiare e fare boccacce. L’improvvisato direttore d’orchestra gioca e fa giocare con la voce e con i suoni: acuti, bassi, urlati, silenziosi, accompagnati da gesti, prolungati, secchi, perfino gialli! Poi legge da un libro di filastrocche stralunate ma con un fondo di verità, confermando la sensazione che si prova nell’entrare. Il suo è uno spettacolo che corre su un filo, sospeso tra il reale e l’immaginario. Il cibo per Catalano è concreto e astratto allo stesso tempo, è pietanza e digestione, desiderio e ossessione. Quando apre le tende della giostra, fino a quel momento nascosta, i bambini si alzano in piedi, perché non si può restare seduti con tanta curiosità in corpo. La giostra funziona “a papà”, ovvero necessità di braccia forti per essere messa in moto. Macchine strambe, poltrone telefoniche e animali fantastici invitano a salire; al centro una libreria piena di storie sul mangiare o di fotografie da osservare, appesi al soffitto dei piccoli velieri costruiti con radici e stracci. Al segnale del direttore d’orchestra si leva un urlo di liberazione, i bambini occupano lo spazio correndo in tutte le direzioni, inseguiti dai genitori. Chi sale sulla giostra,

chi vuole scoprire i Ghiottoni, l’esercito di sculture con gli armadietti al posto del ventre e una storia in ogni pancia, chi si aggira ancora incredulo per il teatro. Gli armadi giganti sono quelli che sembrano riscuotere maggior successo. Da fuori non sono altro che normalissimi parallelepipedi di legno consumato, molto grandi e vecchi. Dentro sono tutti da scoprire. Bisogna entrarci uno alla volta e chiudersi dentro, operazione che richiede ai bambini di fare i conti con le proprie paure, ma una volta entrati ci si trova teletrasportati in un lampo. L’armadio del cielo è dipinto a tinte forti d’azzurro e di gabbiani che si sentono strillare; in quello del bosco c’è un cane o un lupo, a seconda di chi lo incontra; ce n’è uno completamente buio, uno con una scala che porta ad una soffitta piena di cose da sbirciare con una pila, uno che rappresenta addirittura la caverna di Polifemo. Si direbbe impossibile riportare un po’ d’ordine in tale confusione creativa, ma Catalano ha ormai acquisito una tale autorevolezza che riesce a richiamare tutti con un gesto. C’è ancora una stanza da vedere, e altre storie da raccontare. C’è un museo del pane circondato da fotografie di panettieri di varie nazionalità, ognuno con la sua varietà del cibo più consumato al mondo dopo il riso. Ci sono dei piccoli letti parlanti, affamati o sazi, arrabbiati o canterini, che per sentire cosa dicono bisogna avvicinare l’orecchio al cuscino. C’è un’ultima canzone che ci porta verso la fine dell’incontro. Ne usciamo frastornati, ubriachi di stimoli e citazioni. Abbiamo ricostruito la complessità di un tema sconfinato sommando tante piccole semplici esperienze vissute in prima persona cantando, correndo, toccando, ascoltando, osservando. Ora toccherà ad insegnanti ed educatori riprendere quanto


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A sinistra, immagini dello spettacolo di Antonio Catalano Gnam gnam, grunf grunf, slap slap, tic tic. Cibo Sensibile.

Buon appetito l’alimentazione in tutti i sensi

Note a margine di una mostra di gabriella buzzi

emerso con i bambini, chiedere cosa li ha colpiti di più, sfruttare lo spettacolo per trovare una rispondenza con quello che hanno appreso in classe. Catalano lascia che sia chi sa come educare ad occuparsi di tirare le fila. A lui interessa di più ricostruire il legame tra uomo e cibo, recuperando un po’ di sapienza antica e mischiandola con qualche intuizione delle sue.

L’argomento è tra quelli che maggiormente si prestano a una trattazione pluridisciplinare. Il significato del cibo travalica immediatamente quello di mera materia che viene introdotta in un organismo per fornire molecole adatte a ricostituire cellule o a dare energia. Il cibo è il primo strumento di conoscenza attraverso la madre, la prima sperimentazione del piacere per l’individuo, è la cultura di un popolo, democraticamente disponibile per tutti. Il modo di alimentarsi accompagna la storia dell’uomo, diventa simbolo nelle religioni. È comunicazione e scambio di amore tra persone. Il cibo è anche bellezza e arte nella realizzazione delle sue preparazioni. È il cibo che prima di altro determina la salute e il benessere, ma proprio per questo una sua cattiva gestione può diventare fonte di patologie, disuguaglianze sociali, danno per l’ambiente.

È il 20 Novembre, Giornata Mondiale dei Diritti dell’Infanzia. A fine spettacolo racconterò qualcosa sull’impegno di Mani Tese per garantire i diritti fondamentali dei bambini nelle zone più dimenticate del pianeta, i progetti di cooperazione nel Sud del Mondo e i programmi educativi e formativi che svolgiamo in Italia. Mentre ripenso velocemente a cosa dire la mia mente mi rimanda ad un episodio, accaduto poco prima. Ad un certo punto, come d’improvviso, Catalano ha chiamato un bambino a sé e lo ha preso sottobraccio. Ha tirato fuori di tasca un adesivo, glielo ha appiccicato sul petto e di fronte a tutti ha detto: “Ecco, io ti nomino Patrimonio dell’Umanità. Tu sei molto importante, non solo per la tua mamma e il tuo papà, ma per tutti noi”. Poi l’ha mandato a posto. Ho pensato che forse non c’era poi molto da aggiungere.

L’insegnante che si propone di parlare di alimentazione coi propri allievi non può prescindere da queste premesse, anche se, nel trattare l’argomento, darà un peso diverso ai suoi significati a seconda degli obiettivi disciplinari: più spostato verso lo studio della fisiologia dell’apparato, piuttosto che verso le proprietà degli alimenti, inserito come corollario nello studio di un’epoca e così via. BUON APPETITO l’alimenatazione in tutti i sensi dal 16 ottobre 2011 al 24 giugno 2012 presso “Museo della scienza e della tecnica Leonardo da Vinci”, Milano. www.museoscienza.org/ buon-appetito/

La mostra “BUON APPETITO l’alimentazione in tutti i sensi” si pone in questa prospettiva. Suddivisa per aree contrassegnate da colori diversi e perciò ben identificabili, esplora i diversi aspetti dell’alimentazione: perché mangi – il gusto degli altri – inchiesta sugli alimenti – chi mangia sano va lontano – un appetito consapevole. L’approccio ai diversi exhibit è interattivo

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Colonialismo italiano, post- colonialismo: il presente e i suoi passati – proposte educative

e utilizza tutti i canali sensoriali possibili, visivi, uditivi, gustativi, tattili, spesso in modo ludico, tenendo quindi vivo l’interesse durante l’intero percorso: i ragazzi che abbiamo osservato sembravano molto coinvolti e.. anche noi adulti abbiamo gradito e seguito con piacere le tappe del percorso! Vale la pena di ricordare i contenuti generali e alcune installazioni interessanti nei diversi settori della mostra. In area rosa (perché mangi) spicca il modello dell’apparato digerente dove il cervello ha il giusto rilievo al posto di comando, a sottolineare come sia importante la memoria del gusto e la motivazione alla nutrizione. Le connessioni tra piacere, salute e convivialità, nel momento in cui ci si nutre, vengono messe in evidenza con un divertente giochino che prevede il raggiungimento dell’equilibrio tra i tre fattori. E non per tutti è uguale il peso che viene loro dato: età, sesso, gusti personali influenzano l’importanza che ciascuno attribuisce al cibo. Il visitatore può perciò confrontarsi, tramite strumenti interattivi, con le inclinazioni degli altri. Il confronto continua a più largo raggio quando si passa all’area azzurra (il gusto degli altri) dove si è condotti attraverso una rassegna, che si snoda nello spazio e nel tempo, della gastronomia nei diversi Paesi del nostro pianeta, ma anche nelle diverse epoche storiche. Viene messo giustamente in evidenza sia l’evoluzione degli strumenti per la preparazione e la fruizione degli alimenti, dalla mano alla forchetta, sia il significato del consumare insieme il cibo, dal semplice stare a tavola in compagnia alla simbologia religiosa. L’inchiesta sugli alimenti (area verde), è particolarmente utile nel far ripercorrere ai ragazzi il processo che porta alla realizzazione del “piatto” che trovano pronto davanti a sé ; un processo che parte da luoghi lontani dalla loro esperienza quotidiana, dalle coltivazioni di mais, riso, patate o dagli allevamenti di mucche e galline. Viene indagata anche l’importanza dell’educazione al gusto e all’olfatto nell’alimentazione. La riflessione su ciò che significa alimentazione equilibrata come apporto dei necessari principi nutritivi e calorie adeguate alle diverse situazioni individuali, è assegnata all’area rossa (chi mangia sano va lontano), sempre comunque con lo stile accattivante che caratterizza le installazioni (quale vassoio proporre a un adolescente? quale a un giovane atleta? E a Monna Lisa?).

In area gialla (un appetito consapevole) infine, l’attenzione si sposta su quella che sembra essere la connotazione più recente dell’alimentazione: il consumo. È qui che la mostra può offrire validi spunti per l’educazione degli alunni a maturare consapevolezza sia nei confronti di tutte le influenze che si esercitano nei loro confronti per indurli ad acquistare al di là delle loro reali esigenze, con impatti negativi sia sulla salute che sull’ambiente, sia nei confronti di tutti coloro a cui è negato l’accesso al cibo, anche soltanto per la sopravvivenza. L’approccio alla mostra va comunque calibrato a seconda dell’utenza cui si rivolge, scuola primaria o secondaria di primo grado: ai docenti spetta perciò l’individuazione del percorso più adeguato. Inoltre, pur nel quadro di un complessivo giudizio positivo, si devono segnalare alcuni limiti intrinseci alla mostra. Essere interattiva infatti non significa necessariamente essere esente da impostazioni tendenzialmente teoriche. Specialmente se rivolta ai più piccoli la trattazione della tematica “alimentazione” difetta di quegli aspetti di manipolazione che sono fondamentali nelle prime fasce di età. A tale proposito, un laboratorio di cucina, con la scelta degli ingredienti, la progettazione di una ricetta e infine la sua realizzazione pratica con degustazione finale sarebbero più efficaci dal punto di vista educativo. Così come, per i ragazzi di una scuola media, la realizzazione di alcuni semplici esperimenti sui principi alimentari o sulla fisiologia della nutrizione, potrebbero risultare più efficaci dal punto di vista conoscitivo. Ecco perché a mio parere la visita alla mostra, pur valida in sé, raggiungerebbe la maggiore efficacia dal punto di vista formativo se inserita in un percorso che la preveda o come stimolo iniziale o come conclusione di una serie di attività già svolte nell’ambito scolastico. Ancora una volta insomma si riconferma l’importante ruolo di mediazione dell’insegnante quale garanzia di un esito il più possibile efficace dell’apprendimento.

NUTRIRE IL MONDO PER CAMBIARE IL PIANETA Kit didattico a cura di Mani Tese, CISV, Cres, COCOPA –2010– gratuito su richiesta scritta Il kit didattico introduce nel mondo scolastico il tema della sovranità alimentare con proposte metodologiche di lavoro per gli insegnanti, schede tematiche, carte geografiche e una serie di video sul tema.


Dossier

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dossier cres – febbraio 2012

a cura di Anna Di Sapio e Marina Medi

Colonialismo italiano, postcolonialismo: il presente e i suoi passati.

La storia per una cittadinanza consapevole

E. De Seta

18  La memoria del colonialismo italiano tra censura e rimozione di marina medi

22  Per una storia del colonialismo italiano: scrittrici e scrittori africani e italiani di anna di sapio

25  Da sudditi a migranti Dal razzismo in colonia al riemergere del razzismo di D. Rosa, M.l. Cornelli, R. Tironi

L’altro nel nostro immaginario di anna di sapio

30  Italiani, brava gente? Un libro, una riflessione

di elena la rocca

32  La Libia del dopo Gheddafi tra ricostruzione e transizione politica di giovanni fercioni

36  Per saperne di più Nel 2011 cadeva l’anniversario dei 150 anni dell’Unità d’Italia, celebrato con numerosi eventi, ma anche il centenario della conquista della Libia: nel settembre 1911 iniziava la guerra italo-turca con la quale l’Italia si preparava a conquistare la quarta sponda, una guerra coloniale iniziata dallo stato liberale e continuata poi dallo stato fascista. Probabilmente questo secondo anniversario sarebbe passato in sordina (vista la difficoltà degli italiani a fare i conti con il colonialismo) se non fosse stata la cronaca a costringerci a ricordarlo. Infatti a distanza di cento anni, tra il marzo e l’ottobre 2011, l’Italia si è trovata coinvolta, nel quadro dell’alleanza Nato, nei bombardamenti sulla Libia. Il 2011 è stato caratterizzato dalle rivolte del Nord Africa e del Medio Oriente, che hanno scosso il mondo arabo e che

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Colonialismo italiano, post- colonialismo: il presente e i suoi passati – dossier

potrebbero modificare in profondità le guerre e la corruzione sono all’ordine docente di Storia dell’Africa, ma a tutti gli assetti politici e costituzionali dei del giorno, può essere questo un fatto noi, sulla possibile memoria del passato paesi interessati. Massimo Campanini slegato dal passato storico di dominacoloniale e sulle sue ferite e suture, gli nell’articolo Le rivolte arabe: rinascita zione coloniale subita? La guerra civile entusiasmi e le delusioni. Da conoscere della democrazia? prima di individuasomala o le scaramucce tra Eritrea ed e riconoscere. Forse anche, in una certa re i fattori comuni e quelli divergenti Etiopia sono dinamiche isolate e locali misura, condividere. Come sta facendo che hanno caratterizzato le rivolte fa o forse qualcosa è ascrivibile al passato la nuova letteratura italofona proveuna breve analisi storica per spiegare coloniale?”3 niente da scrittori africani in Italia, per L’incontro coloniale ha pesantemente contro chi e che cosa le rivolte si sono nascita o sorte, che richiede con forza influito sulla realtà economica, politica, indirizzate e scrive: “Per comprendere un faticoso confronto con le molte amnesociale e culturale delle popolazioni le trasformazioni politiche, economiche sie e rimozioni circa il nostro passato. Il e sociali che hanno condotto all’afferma- conquistate sia negli anni della colonia passato ‘africano’ del paese, un passato sia successivamente, ha segnato in zione dei regimi autocratici nel Medio – e una memoria – che ci riguarda tutti.”6 La realtà in cui viviamo è una realtà profondità la storia dell’Africa ma anche Oriente, e segnatamente nel mondo complessa, in cui i problemi hanno dell’Italia, diventata oggi meta di flussi arabo, sarebbe necessario prendere le migratori provenienti anche dalle sue ex assunto una dimensione planetaria e mosse dal processo evolutivo di quello i processi di globalizzazione carattecolonie. che Roger Owen ha chiamato «stato rizzano non solo gli aspetti economici, “Occorre domandarsi – scrive l’antrocoloniale» ovvero lo stato moderno ma anche quelli sociali e culturali. Se pologa Barbara Sòrgoni – che cosa ha creato e imposto dalla dominazione si vuole far maturare negli allievi uno comportato l’esperienza coloniale italiacoloniale. L’espansione coloniale e sguardo complesso e critico su di sé e na (...) quali conseguenze e quali lasciti imperialistica delle potenze europee possiamo rintracciare come ancora attivi sul mondo l’insegnamento della storia ha prodotto, evolvendosi, stati “moderdeve far sì che lo studente conosca i nel tessuto delle pratiche discorsive e ni” in cui le strutture amministrative processi storici fondamentali della realtà sociali delle società coinvolte.”4; mentre e gestionali erano copiate sui modelli lo storico Nicola Labanca ricorda che in cui vive, ma deve anche far scoprire europei, le ideologie dominanti erano “il periodo coloniale si è rivelato un la ricchezza e la pluralità delle espresquelle provenienti dall’Europa, le classi inestinguibile serbatoio della memoria sioni culturali nello spazio e nel tempo, dirigenti erano spesso collaborative e collettiva: un magazzino dove dispositivi deve cioè “intrecciare la riflessione perciò compromesse coi governi coloideologici sono stati accantonati, per storiografica con le Educazioni trasverniali e interessate, attraverso il sistema ritornare in azione – in contesti nuovi e sali, cioè con quelle proposte formative coloniale, a consolidare e trasmettere i diversi – ma non meno efficaci.”5 che,utilizzando i saperi e gli strumenti propri privilegi.”1 Anche altri, tra gli storici dell’età moder- Racconta Alessandro Triulzi che a partire di più discipline, si costruiscono attorno na e contemporanea e tra gli africanisti, dalla seconda metà degli anni Novanta, a una problematica giudicata cruciale sostengono che la “storia dell’espansioquando i primi studenti africani o figli di per la convivenza civile (la cittadinanza, ne europea in Africa ha influito sull’uniafricani residenti in Italia sono apparsi l’ambiente, l’intercultura, la pace, i diversalizzazione della forma Stato e sulla nella sua classe, ha cominciato “a perritti, lo sviluppo ecc.) in modo da offrire creazione di un mercato mondiale dei cepire un nuovo tema di fondo, il brusio strumenti per comprendere la realtà capitali e del lavoro rimodellando l’intesommesso e a volte vociante delle molte attuale e orientarsi in essa.”7 Gli adolescenti, i giovani sembrano ro sistema internazionale (…) un’impresa memorie sull’Africa rimaste latenti nel essere più interessati all’attualità conche ha comportato uno stravolgimento nostro paese che le nuove presenze temporanea che non al passato per cui della geopolitica mondiale e una sisteafricane tra noi sollevavano o facevano risultano indifferenti e passivi nello stumatica negazione delle culture dei popo- emergere da un lungo letargo. Insieme li ‘altri’, con una dicotomia fra europei e a molte domande, non solo dirette a me, dio della storia, considerata noiosa. Per mesi i media, soprattutto la televisione, ‘indigeni’ che la stessa scienza, oltre alla ci hanno bombardato con immagini delle politica, pretendeva oggettiva e naturale 3  Igiaba Scego, La ricostruzione dell’immaginario violato in tre scrittrici italofone del Corno D’Africa. rivolte arabe e della guerra in Libia, la e che come tale non aveva bisogno di Aspetti teorici, pedagogici e percorsi di lettura, Tesi guerra è spesso presente nelle cronache essere spiegata in termini storici.”2 Igiaba Scego, scrittrice italiana di di dottorato, Università degli Studi Roma Tre, aa dei nostri giorni, noi come gli studenti riorigini somale si chiede: “Se oggi l’Africa 2007-8, p. 12 Orientale dominata dagli italiani è una 6  Alessandro Triulzi, Insegnare l’Africa, in www. 4  Barbara Sòrgoni, Pratiche antropologiche nel delle zone più povere del mondo, dove 1 MassimoCampanini, Le rivolte arabe: rinascita della democrazia?, Quaderno di Relazioni Internazionali, n. 15 novembre 2011, pp. 80-92 2  Gian Paolo Calchi Novati, L'Africa d'Italia. Una storia coloniale e postcoloniale, Carocci, Roma 2011, p. 14

clima dell’Impero, in Riccardo Bottoni ( a cura di), L’Impero fascista. Italia ed Etiopia (1935-1941), Il Mulino, Bologna 2008, p.425. V. anche Il razzismo dei “colti” e Parole sporche, parole pulite, in Parole parole parole... Restituire senso e dignità alle parole, Dossier di “Strumenti” n.57/2011

5  Nicola Labanca, Oltremare, Il Mulino, Bologna 2002, p. 468

news.unina.it/dettagli_area.isp?ID=6814

7  v. Marina Medi, Il passato è una terra straniera? L'area geo-storico-sociale in dimensione interculturale, Bollettino n. 27 di Clio92, febbraio 2009, pp. 26-32; www.clio92.it/index. php?area=3&menu=11&page=510; Paolo Bernardi (a cura di), Insegnare storia. Guida alla didattica del laboratorio storico, UTET, 2006


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ceviamo dai media immagini dei conflitti in corso, immagini dei soldati italiani in Afganistan o in altre aree, si può partire dall’attualità per esplorarne la profondità storica in un movimento circolare di andata e ritorno dal presente al passato. Il tema delle guerre contemporanee si presta ad essere problematizzato e intrecciato con quello della crisi dello Stato-Nazione, della globalizzazione. Da quanto detto finora risultano -sia pure in modo implicito – i motivi che ci hanno spinto a preparare questo dossier: la ricorrenza del centenario della guerra

Studi postcoloniali

Analizzare gli effetti che la colonizzazione ha avuto, e continua ad avere, sui paesi e sui soggetti colonizzati è uno degli obiettivi degli studi postcoloniali, un’area disciplinare difficile da definire perché si tratta di un ambito di ricerca che spazia dalla critica letteraria alla alla sociologia, dalla storia all’antropologia, dall’economia alla geografia. Un settore di indagine nato nel mondo anglofono, che in Italia ha tardato ad affermarsi, e che si propone come una sfida epistemologica e politica ai saperi accademici tradizionali. Si possono rintracciare le sue radici nel pensiero legato alle lotte anticoloniali, nella critica all’eurocentrismo e all’imperialismo occidentale prodotta dai movimenti di liberazione nazionale che hanno influenzato il processo di decolonizzazione ( conclusosi negli anni Sessanta e Settanta del XX secolo con la conquista delle indipendenze), ma anche nei movimenti radicali afro-americani, caraibici e sudamericani, nel movimento per i diritti civili. Radici diverse, ibride e transnazionali che rendono difficile definirne l’ambito con un unico approccio perché questi studi rappresentano un insieme di posizioni eterogenee. In questa prospettiva il colonialismo viene visto come evento cruciale nella storia dell’umanità perché rappresenta un fenomeno “costitutivo” della modernità capitalistica occidentale da cui discende il nostro presente. “Il colonialismo - scrive Ania Loomba - è stato, in fin dei conti, un sistema economico globale e, al tempo stesso, un’ideologia. E il suo funzionamento si basava sulla capacità di persuadere alcuni della loro superiorità e altri della loro inferiorità. Senza una comprensione della cultura del colonialismo non è possibile analizzare nemmeno le sue

italo-turca del 1911; le rivolte nei paesi dell’altra sponda del Mediterraneo; la convinzione che la formazione di una cultura storica favorisca la comprensione del presente, contrassegnato in modo significativo dalle migrazioni; l’importanza di conoscere e studiare il nostro passato coloniale; l’importanza del tema per una educazione alla cittadinanza, ai diritti, alla pace. Data la complessità dell’argomento non potevamo che limitarci ad offrire qualche spunto di riflessione su alcuni aspetti particolari: rimozione e latenza

dinamiche economiche; viceversa, ignorare le sue dinamiche economiche significa proporre un’analisi superficiale del fenomeno e della sua eredità attuale.”1 Secondo Miguel Mellino i postcolonial studies hanno messo in evidenza da una parte che la modernità non può essere compresa senza un’analisi del colonialismo e dall’altra che lo sviluppo delle scienze sociali, delle discipline letterarie e umanistiche, della cultura in generale, non può essere compreso senza una considerazione delle dinamiche coloniali, oggi come ieri. Ma hanno anche sottolineato l’importanza di uno spostamento dello sguardo che non può rivolgersi solo ai protagonisti occidentali della storia, ma deve rivolgersi anche ai dominati, il punto di vista deve essere molteplice. “In definitiva il postcolonialismo ha reintrodotto un approccio alla storia in quanto fenomeno globale, non solo europeo o relativo alle sole classi dominanti: un decentramento che in parte era già stato svolto dal marxismo, anche se molto spesso questo debito, all’interno degli studi postcoloniali, non viene quasi mai riconosciuto.”2 Postcoloniale non va inteso quindi in senso temporale, ma nel senso che persiste una condizione coloniale nel rapporto tra l’Occidente e gli altri. Questo non vuol dire che il colonialismo si presenti con le stesse caratteristiche del passato perché le logiche di dominio sono diverse, perché i centri di potere e la geografia del capitalismo mondiale sono sicuramente molto più complessi oggi, ma queste logiche hanno le loro radici nel vecchio

della memoria, responsabilità dei media e della scuola per lo spazio ridotto che a questo periodo storico viene dato e per l’inadeguatezza metodologica, per cui gli studenti non riescono a coglierne la complessità e a riconoscerne le implicazioni con il presente; ; l’apporto che può dare la narrativa per lo studio del periodo coloniale; l’importanza di capire quanto dell’immaginario coloniale sopravviva ancora oggi e influisca nella relazione con gli immigrati. Infine una bibliografia aggiornata sia dal punto di vista storiografico che letterario.

colonialismo. Un settore di ricerca complesso – quello degli studi postcoloniali - che provoca entusiasmo in molti e scetticismo in altri, un campo di studio le cui difficoltà derivano dalla sua natura interdisciplinare e interculturale. Nonostante i difetti che possono avere – sostiene Ania Loomba - gli studi postcoloniali hanno “aperto un dibattito internazionale consentendo di esaminare i legami storici e anche le differenze fra diversi luoghi e diverse culture. Specialmente nel campo della letteratura, gli studi postcoloniali hanno fortemente rinnovato e riconfigurato la letteratura comparata e anche l’insieme di discipline note col nome di ‘letterature del Commonwealth’, ‘letteratura del mondo’ o addirittura ‘letterature del terzo mondo’. Questi campi di studio o non si occupavano degli squilibri del colonialismo, o li accettavano adottandone le gerarchie.3 Gli studi postcoloniali contemporanei hanno rivitalizzato il lavoro comparativo, ma hanno anche permesso che in quelle università, sino ad allora chiuse e conservatrici, potessero nascere spazi legittimi dedicati allo studio di letterature non occidentali.”4 Con l’edizione italiana del suo testo Loomba si augurava di poter aiutare il lettore a cogliere le potenzialità intellettuali e politiche degli sviluppi recenti di quest’area di ricerca, di esplorarla e di assumere nei suoi confronti una posizione critica.

1 Ania Loomba, Colonialismo/ Postcolonialismo, Meltemi, Roma 2006, p.8

3  v. Armando Gnisci (a cura di), Letteratura comparata, Bruno Mondadori, Milano 2002, in particolare cap. IX. Multiculturalismo, studi postcoloniali e decolonizzazione e cap. X. Femminismo e “gender studies”

2 Mauro Buonocore intervista Miguel Mellino, in www.meltemieditore.it

4 Ania Loomba, op. cit., Prefazione all’edizione italiana

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Colonialismo italiano, post- colonialismo: il presente e i suoi passati – dossier

La memoria del colonialismo italiano tra censura e rimozione di marina medi

“[…] sappiamo che senza dimenticanza non esiste memoria, e che nell’idea stessa di memoria è implicita una presa di distanza, la coscienza del tempo trascorso: altrimenti non possiamo più parlare di memoria ma di fissazione, di ossessione. Tuttavia, dimenticare e storicizzare è una cosa, rimuovere è un’altra. Le cose dimenticate scompaiono perché non significano più niente; quelle rimosse rimangono, nascoste, perché significano troppo. E continuano a tormentarci per riemergere improvvise come fantasmi.” 1 1 Alessandro Portelli, Roma tra guerra, Resistenza e liberazione: storia, memoria e immaginazione in un’ottica contemporanea, Roma, 3 marzo 2005, p.7, scaricabile da www.italia-liberazione.it/it/60moliberazione/RELATORI/PORTELLI.RTF

Nel 2011 è caduto il centenario della conquista italiana della Libia, ma davvero pochissime sono state le situazioni in cui questo fatto è stato ricordato ed è diventato occasione di riflessione. Certo, nell’anno appena trascorso, ad attirare di più i riflettori sulla storia c’è stato il centocinquantenario della proclamazione del Regno d’Italia, ma anche in quella ricorrenza non sarebbe stato senza significato far notare che per tutta la prima metà dei suoi 150 anni l’Italia è stata impegnata a costruirsi un impero coloniale. Conquistare e sfruttare colonie, infatti, non è un fatto storico di scarsa rilevanza; al contrario interviene nelle scelte economiche e politiche di una nazione, incide nell’immagine di sé e nella relazione con gli altri popoli, lascia tracce permanenti nell’immaginario collettivo. Eppure gli italiani di oggi conoscono ben poco del passato coloniale italiano. Persino gli insegnanti di storia difficilmente sanno dire con qualche dettaglio quando e in che modo è finito il colonialismo italiano. Su questi avvenimenti nel dopoguerra è scesa una cortina di silenzio che è durata per decenni. Certo non è facile ripensare ai periodi difficili o vergognosi del proprio passato, ma, come sappiamo dalla rielaborazione collettiva del nazismo fatta in Germania dagli anni Sessanta, questa riflessione è necessaria per capire la propria storia, per recuperare un dialo-

Per molti anni anche la produzione storiografica non ha potuto essere d’aiuto per conoscere il passato coloniale italiano. Infatti, fino alla fine degli anni Settanta la documentazione coloniale rimase coperta da segreto militare e i

pochi storici interessati al tema vennero accusati, tra insulti e polemiche, di essere “antinazionali” e di voler ledere l’onore dell’Esercito italiano. Dunque per anni quella parte di storia è rimasta così poco conosciuta che, quando gli stati africani richiesero all’Italia forme di risarcimento del passato coloniale, molti italiani ne provarono meraviglia e fastidio Ma fortunatamente alla fine degli anni Ottanta una nuova leva di studiosi di provenienze disciplinari diverse (storia politica, storia sociale, antropologia, storia dell’Africa ecc.) ha ripreso interesse per l’espansione coloniale italiana e ha cominciato a produrre una grande quantità di studi, utilizzando molta documentazione inedita (i documenti ufficiali che finalmente erano diventati accessibili, memorie e lettere di soldati e coloni, racconti orali, foto) e delineando nuove piste di ricerca, specie sui drammatici episodi di repressione attuati a danno delle popolazioni2. Queste ricerche non solo hanno dimostrato come il coloniali-

1  Per altro è di questi giorni la notizia che, secondo un sondaggio commissionato all’istituto demoscopico Forsa dal settimanale tedesco Stern, in Germania un giovane sotto i 30 anni su cinque non ha alcuna idea di cosa sia accaduto ad Auschwitz durante la Seconda guerra mondiale. Invece la percentuale di tedeschi che non è in grado di associare alcun evento al nome di Auschwitz scende al 5% sopra i trent’anni.

2  Tra le molte pubblicazioni di questi ultimi anni, per esempio, quella di Eric Salerno,Uccideteli tutti. Libia 1943: gli ebrei nel campo di concentramento di Giado. Una storia italiana, Il Saggiatore, 2008, recupera alla memoria la vicenda del campo di concentramento di Giado, a sud di Tripoli, dove dal maggio 1942 furono rinchiusi 2527 ebrei libici che poi, dopo l’8 settembre, vennero trasferiti in Italia, dove furono prelevati dai tedeschi.

go intergenerazionale, per affrontare le nuove sfide del presente1. In Italia però è mancato completamente un ripensamento critico e un dibattito pubblico sull’esperienza coloniale, che invece in altri paesi erano stati imposti dal processo di decolonizzazione del secondo dopoguerra. Ma gli italiani persero le colonie durante la guerra mondiale ad opera degli Alleati e non per una lotta di liberazione nelle colonie e questo ha favorito da una parte la rimozione collettiva, dati i grandi problemi del dopoguerra, dall’altra, in chi aveva vissuto nelle colonie, un’incapacità di elaborare un lutto privato, un senso di perdita dovuto alla fine di un sogno, collegato alla propria giovinezza perduta.

La difficile ricerca storiografica


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LAND GRABBING: NUOVO COLONIALISMO? Viene definita land grabbing l'appropriazione di terreni, in Paesi del Sud del Mondo (soprattutto Africa), da parte di multinazionali, di governi di altri paesi, di grandi fondi di investimento La terra viene venduta, o affittata a lungo termine, senza il consenso delle comunità che ci abitano (spesso da anni) o che la utilizzano per coltivare e produrre il loro cibo. Un fenomeno che dallo scoppio della crisi finanziaria del 2008 è cresciuto enormemente, lasciando intere comunità senza terra e senza futuro. Gli investitori cercano terre dove coltivare cibo per l’esportazione, per i biodiesel, o semplicemente per fare profitto. Non sempre l’acquisto di terre è un problema, ma lo è quando avviene senza informazione. Molto spesso le promesse di risarcimenti non si avverano, le comunità rimangono a mani vuote mentre le grandi aziende incassano.

Roiatti F. Il nuovo colonialismo. Caccia alle terre coltivabili Università Bocconi, Milano 2010 De Castro P. Corsa alla terra. Cibo e agricoltura nell'era della nuova scarsità Donzelli, Roma, 2011 Liberti S. Land grabbing. Come il mercato delle terre crea il nuovo colonialismo minimum fax, 2011

smo italiano non sia stato né diverso, né più umano, né più tollerante degli altri, contrapponendosi al mito dell’“italiano brava gente”, ma hanno anche fatto vedere quanto sia povera una ricostruzione della storia di quel periodo se si limita solo agli aspetti politici, istituzionali, militari o diplomatici. Come scrive Nicola Labanca, “l’espansione coloniale fu fenomeno molto più complesso che un semplice gioco di uffici e cancellerie: fu un fenomeno economico, demografico, culturale, sociale.”3 A questa nuova fase di ricerca ha contribuito da una parte la produzione letteraria (anche in italiano) di scrittori e scrittrici africani, che ci permettono di conoscere i vissuti dei colonizzati, dall’altro il lavoro degli storici africani che, anche nell’ambito degli studi postcoloniali, hanno cominciato a ricostruire la storia dei loro paesi, rivendicando una diversità di approccio storiografico tra colonizzati e colonizzatori. Finora è stata sporadica una pratica di collaborazione tra storici italiani e africani per ricostruire quella parte di passato comune. Ma l’evoluzione degli studi storico-coloniali è rimasta spesso confinata nelle aule universitarie e nelle biblioteche, con uno scarso impatto sull’opinione pubblica, anche perché né i media né il mondo politico l’hanno recuperata e fatta propria, come si è visto in questi mesi con il centenario della conquista della Libia. A livello dell’opinione corrente, quindi, del colonialismo italiano si continua ad avere una visione giustificatrice e assolutoria, che insiste sul debito dei colonizzati verso gli italiani che hanno lasciato nei loro paesi grandi opere e infrastrutture; si crede ancora al mito del colonialismo diverso, fatto cioè non solo per sfruttare le risorse dei paesi colonizzati, ma per valorizzarle, un colonialismo equo con le popolazioni, perché fatto da italiani, che da sempre uniscono genio e bonarietà e sono geneticamente incapaci di atrocità.

La responsabilità dei media e della scuola

A questa conoscenza scarsa e fallace del passato coloniale italiano contribuiscono in maniera determinante la produA destra: locandina del film Luciano Serra pilota, diretto da Goffredo Alessandrini nel 1938.

3  N. Labanca, L’imperialismo coloniale dell’ultima delle grandi potenze. Una rassegna di studi e problemi, in “Africa e Mediterraneo” n. 2/96

zione cinematografica e l’insegnamento scolastico della storia. Sono questi, infatti, a mio parere gli strumenti che costruiscono l’immaginario di tipo storico (certo non una vera conoscenza…) condiviso a livello di massa: i film, perché utilizzano spesso ambientazioni e personaggi del passato (anche quando non vogliono affrontare specificamente un argomento di tipo storico) che rimangono fissati nella memoria; la scuola, perché prevede la storia come materia nel corso di tutto il curricolo e questo non può non lasciare una traccia nella formazione di chiunque, anche se la storia non è certamente la materia più amata dagli studenti e se gli apprendimenti puntuali ben presto svaniscono. Nel periodo fascista cinema e scuola sono stati in prima linea per sostenere la politica coloniale e farla interiorizzare ad adulti e bambini. Che cosa è successo dopo? Il cinema Durante il fascismo furono prodotti moltissimi film di fiction e documentari ambientati in Africa (ovviamente ricostruita a Cinecittà) per dare del continente un’immagine esotica, seduttrice, ma anche infida e pericolosa, mentre si sottolineava il ruolo pacificatore e civilizzatore dell’Italia. Nel 1936 venne addirittura creato un reparto fotocinematografico del LUCE interamente dedicato alla documentazione della guerra d’Etiopia che si trasferì in Africa Orientale e mandò settimanalmente in

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Colonialismo italiano, post- colonialismo: il presente e i suoi passati – dossier

Italia resoconti sulla “gloriosa marcia” delle truppe italiane. Nel dopoguerra questa produzione, ovviamente, sparì dalle sale, ma anche il tema scomparve, tanto che fino ad oggi sono stati prodotti solo quattro o cinque film che si ambientano nell’Africa italiana, ma solo per trattare singoli episodi comici o drammatici che poco servono a comprendere quel periodo storico, mentre i programmi televisivi sul tema sono stati scarsi e confinati in orari notturni. Forse era necessario un po’ di silenzio dopo l’orgia della retorica coloniale. Ma il silenzio è diventato oblio e così alle generazioni successive, quelle nate dopo la guerra, quasi nulla è arrivato delle conquiste coloniali italiane e dei crimini che le hanno accompagnate, quasi nulla dell’adesione di massa a quell’avventura e delle motivazioni retoriche che l’avevano sostenuta. Il cinema italiano tace e quando sono arrivati film stranieri che trattavano l’argomento, sono stati censurati o attaccati perché giudicati offensivi per l’Italia e il suo esercito, come è successo a Il leone del deserto di Mustafà Akkad (USA – Libia, 1980, 81’) o a Fascist legacy, di Ken Kirby e George Farley, (Gran Bretagna, 1989, 100’).

composizioni scritte o grafiche servivano per raccontare storie di esploratori e missionari, descrivere territori e popoli, ricordare la gloria di Roma antica “culla della civiltà universale”, ribadire il diritto alla conquista ed esaltare l’eroismo italiano. La storia stessa nei testi fascisti si concludeva con l’Impero, “destino dell’Italia dominatrice”. Nel primo dopoguerra, per il ritardo nella trasformazione dell’impianto dei manuali, il colonialismo italiano ebbe ancora abbastanza spazio e gli argomenti che lo giustificavano rimasero gli stessi: il bisogno di sbocchi per la popolazione contadina, la missione civilizzatrice e la bonomia degli italiani, l’eroismo e l’operosità del soldato-colono. A partire dagli anni Settanta, invece, il tema praticamente è sparito dai manuali: se va bene sono poche righe di testo con qualche aggiunta (una cartina, un’immagine, una breve testimonianza, una citazione letteraria o storiografica) al margine della trattazione della politica liberale prima, fascista poi. Qualche manuale addirittura non ne parla, altri saltano la fase di fine Ottocento o la conquista della Libia, anche se tutti dedicano almeno un cenno all’Etiopia e alla proclamazione dell’Impero. Certo i temi di grande importanza nella La scuola Se negli anni del fascismo il cinema storia del Novecento sono moltissimi e ebbe il compito di sostenere la propaun testo per la scuola qualche scelta di ganda, fu la scuola che più servì per rilevanza deve pur farla, ma il fatto che radicare l’ideologia coloniale a livello tutti i manuali concordemente trascudi massa, così come era successo anche rino il colonialismo italiano e che il nel precedente periodo liberale. Libri di “canone” non lo contempli non può che testo, materiali scolastici, argomenti di lasciarci il dubbio di una precisa volontà

di rimozione di un passato collettivo che si vuole dimenticare. Della ricca produzione storiografica e letteraria di questi ultimi decenni pochissimo è entrato nei testi: un accenno alle azioni criminali durante la conquista e specialmente all’uso dei gas, qualche immagine che potrebbe permettere una riflessione più critica, come la rappresentazione della battaglia di Adua da parte di pittori etiopi o le vignette della propaganda fascista e della satira anticoloniale. Ma ancora oggi sono molti i non detti: per esempio non si ricorda che la legislazione razziale fu messa in atto anche nelle colonie ed ebbe gravissime conseguenze. Ancora il linguaggio rischia di veicolare un giudizio implicitamente filo italiano: “500 italiani furono massacrati dalle forze abissine di re Alula”(Giardina, Sabbatucci, Vidotto, 2002).

Un materiale di studio che non permette di imparare

Il fatto che il colonialismo italiano sia così mal conosciuto non dipende solo dallo spazio ridotto che al tema viene dato nei manuali e nei curricoli scolastici, ma dal modo stesso con cui lo studio della storia viene proposto dai testi e si trasmette nell’insegnamento della maggioranza degli insegnanti. L’impianto manualistico, infatti, è di tipo cronologico-sequenziale, fortemente etnocentrico e interessato prevalentemente agli aspetti politico-istituzionali, militari e diplomatici. Di conseguenza, se si parla di colonialismo italiano lo si fa nei tre momenti in cui l’Italia ha dato il via ad azioni di conquista (prioritario il ruolo che le guerre hanno sempre assunto nel canone scolastico!), e questo nell’esposizione manualistica avviene in capitoli diversi, lontani tra loro di molte pagine, mentre non c’è quasi cenno a quello che succede tra un periodo e l’altro. Il risultato è che diventa difficile seguire il processo e cogliere lo spessore temporale della dominazione italiana in Africa4. Le scelte 4  Non è un caso che nell’immaginario comune sul colonialismo italiano è facile che sia presente l’Etiopia, perché è stata quella più esaltata dalla propaganda fascista ma dove in realtà la presenza italiana è durata meno di cinque anni e non ha mai assunto le caratteristiche di una vera colonizzazione.


Strumenticres n.58 – febbraio 2012

In verde, cartoline umoristiche disegnate da Enrico De Seta e destinata alle truppe impegnate in Africa Orientale – Italia, 1935-1936 In alto a destra, cartolina commemorativa della I adunata delle truppe coloniali a Roma in occasione del I anniversario dell'Impero – Italia 1907 Nella pagina a fianco, copertina di quaderno destinato alle scuole elementari – Italia 1936

coloniali appaiono solo come variabili nelle dinamiche di politica interna, mentre non c’è traccia dell’organizzazione della colonia, della vita quotidiana, delle aspettative e delle delusioni di chi ha partecipato a questa impresa. E ovviamente nessuno spazio è dato al punto di vista delle popolazioni colonizzate, non ci sono informazioni sull’impatto del colonialismo sull’organizzazione economica, politica e culturale di quei paesi o sul rapporto delle sue genti con gli italiani durante la dominazione coloniale. Tantomeno si fa cenno ai problemi sorti nelle ex colonie italiane in anni successivi e che sono oggi più vivi che mai. Infatti il rapporto tra l’Italia e le sue ex colonie non si è esaurito nella mancata elaborazione dell’esperienza coloniale. È continuato, invece, con i cosiddetti “aiuti allo sviluppo”, con i contratti per il rifornimento petrolifero, con le politiche migratorie e di contenimento dei flussi nel Mediterraneo, con la recente partecipazione alla guerra nel Nord Africa. Non ci si deve meravigliare, quindi, se alla fine di questo studio mal proposto non rimanga niente o al massimo qualche brandello di nozioni che non riescono a costruire una trama temporale ed esplicativa e, se vengono ricordati, è perché, più di altri, hanno colpito

l’emozione o la fantasia. Ma questo è il limite proprio dell’impianto manualistico dello studio della storia che non propone un lavoro di ricerca intorno a temi e problemi in modo che gli studenti possano comprenderne la complessità, possano riconoscerne le implicazioni con il presente (trovando quindi senso allo studio) e possano orientarsi nel dibattito storiografico che li ha accompagnati. Brandelli di memoria, dicevo, rimangono da questo modo di presentare la storia. Poco utili e apparentemente poco dannosi. Ma quando questi brandelli si uniscono a quelli che provengono dagli altri canali con cui si forma la memoria comune, proprio perché non sono accompagnati dallo sviluppo di reali competenze storiche arrivano a produrre un giudizio che si sedimenta in un immaginario collettivo, che nel caso del colonialismo italiano potremmo dire essere questo: è vero, abbiamo avuto le colonie, ma era un colonialismo anomalo, diverso e marginale rispetto a quello degli altri paesi coloniali, un “colonialismo straccione”, un po’ da burletta, arrivato in ritardo e per nulla remunerativo, minore e quindi responsabile di meno danni. Questo giudizio autoassolutorio viene rafforzato dall’immagine dell’ita-

liano in colonia, un po’ ridicolo nella sua tronfia retorica, ma poi bonario con la gente e impegnato a portare sviluppo e progresso in una regione avara, a cui ha dato più che preso. È il mito dell’“italiano brava gente”, che continua imperterrito fino ai nostri giorni e che testimonia di un paese dove una vera elaborazione dell’esperienza coloniale non è mai avvenuta e dove non si è mai veramente messo in discussione il razzismo presente nella cultura italiana, con la scusa che le leggi razziali sono state solo una concessione agli alleati nazisti. Invece violentemente razzista è stata anche l’Italia liberale che ha conquistato le sue prime colonie; e questo razzismo, accompagnato dalla generale ignoranza sull’Africa e la sua storia, è giunto fino ad oggi e lo vediamo rivolgersi, a volte bonario a volte feroce, verso tutti gli immigrati con la pelle scura che arrivano nel nostro paese. Certo non si può affidare solo alla scuola il compito di mettere in discussione questa ideologia dominante, ma è certo un peccato perdere l’occasione di parlarne proprio quando i libri di testo affrontano il periodo storico in cui il razzismo più ha guidato gli italiani sia nella giustificazione teorica che nell’azione pratica.

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Colonialismo italiano, post- colonialismo: il presente e i suoi passati – dossier

Per una storia del colonialismo italiano: scrittrici e scrittori africani e italiani di anna di sapio

Kebedech Seyoum1 (…) Ci eravamo quasi dimenticate della celebrazione quando degli scoppi, come di tuoni fragorosi, ci fecero trasalire. Saba uscì dall’alloggio per chiedere cosa stesse succedendo. «Non sappiamo», rispose uno degli ascari di guardia nel cortile. A distanza di mezz’ora dagli scoppi cominciammo a sentire urla di gente che scappava. Da quel momento iniziò il finimondo. Due ore dopo il maggiore si presentò in caserma ansimando. Era tornato a piedi. Con il suo arrivo la notizia dell’accaduto si sparpagliò per tutta la caserma. Due giovani avevano gettato delle bombe per uccidere il maresciallo Graziani. Il maggiore, assieme a due capitani, radunò gran parte dei soldati e insieme uscirono. Prima di lasciare la caserma ci impartì un ordine: “Non uscite, per qualsiasi motivo, finché non torno”. Nei tre giorni successivi Addis Abeba conobbe l’inferno. Non vi era un attimo di silenzio. Nessuna tregua, sia di giorno che di notte. Sempre spari e raffiche di mitra e bombe. Il tutto accompagnato da urla strazianti di donne, uomini, bambini. Urla come di bestie al macello. Una densa nube di fumo avvolgeva tutta la città. Ovunque si sollevavano lingue di fuoco e spirali di fumo nero, che si mescolavano a quello già galleggiante a mezz’aria e alla tensione da battuta di caccia. Dopo quei tre giorni il maggiore, assieme ai due capitani e ai soldati italiani, tornò in caserma. Al quinto ci diede il permesso di uscire. Varcammo il cancello convinte di essere già consapevoli di ciò che avremmo trovato fuori. (...) Ma nonostante la preparazione mentale, ciò che stava fuori dalla caserma, nelle strade, era così orribile che per anni mi causò incubi notturni. (…) Tornammo indietro. Non uscimmo nei giorni seguenti, fino a quando la città non venne ripulita sia dagli uomini che dal vento, generoso, spirante da nord. E il soffio spettrale smise di portare in giro il fetore. E quando varcammo nuovamente il cancello, una decisione era ben chiara nella testa mia e di Saba: scappare, unirci alla resistenza, unirci a Kebedech Seyoum. (Gabriella Ghermandi, Regina di fiori e di perle, Donzelli, 2007, pp. 183-4)

1  Il racconto si riferisce ai disordini e alla rappresaglia seguiti all’attentato a Graziani. Chi racconta all’epoca era una ragazza, assieme a sua sorella si trovava al servizio di un’ufficiale italiano. Kebedech Seyoum è una figura leggendaria di donna combattente nella resistenza etiopica.

La conquista dell’Etiopia: nasce l’Impero Alla fine degli anni Venti Mussolini cominciò a registrare un calo del consenso che non si manifestava tanto nei confronti della sua persona, quanto del regime e della sua incapacità, abbastanza visibile ormai, di risolvere i problemi di fondo del Paese. Il duce ritenne quindi giunto il momento di tornare alla vocazione originaria del fascismo: la guerra e la creazione di un impero coloniale. Nel 1932 Mussolini cominciò a rivendicare nei suoi discorsi l’egemonia italiana sul Mediterraneo e a definirlo romanamente Mare nostrum. Quindi invase l’Etiopia, l’unico paese, oltre la Liberia, rimasto indipendente in Africa. L’invasione fu condannata dalla Società delle Nazioni, che definì l’Italia “Paese aggressore” e la punì bloccando i rifornimenti di materiale bellico e di altri generi minori. Il provvedimento fu talmente blando (tra i generi proibiti non compariva il petrolio!) da non arrecare alcun danno concreto; in compenso, permise a Mussolini di coalizzare il popolo contro quelle che furono chiamate le “inique sanzioni” e di varare una rumorosa campagna di orgoglio patriottico e di spirito militaresco. La Guerra d’Etiopia continuò quindi (dal 1935 al 1936) e si concluse con la sconfitta del negus (“imperatore”) Hailé Selassié. Questa vittoria fu ottenuta mobilitando 400000 uomini, usando contro la popolazione civile gas e lanciafiamme e bombardando gli ospedali da campo della Croce Rossa. Immediatamente dopo venne proclamata la nascita dell’Impero coloniale italiano, costituito da Etiopia, Libia, Eritrea e Somalia. Vittorio Emanuele III fu insignito del titolo di imperatore. In quel periodo Mussolini toccò l’apice della sua popolarità e contemporaneamente iniziò il percorso che lo avrebbe portato alla rovina: si alleò infatti con la Germania, dove si era stabilito un altro regime di ispirazione fascista. (V. Calvani, Il colore della storia. Vol. 3 Il Novecento, A. Mondadori, Milano 2008, p.155)


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Il confronto fra questi due brani, il le memorie italiane.1 primo tratto dal romanzo Regina di fiori Perché utilizzare testi letterari per e di perle di Gabriella Ghermandi (molto trattare di colonialismo e di storia? Lo abbreviato per ragioni di spazio) e il se- storico Claudio Pavone in un’intervista condo da un libro di storia per le medie rilasciata a “Tuttolibri” alla domanda “Come considera l’uso di fonti lettera(integrale), è abbastanza esemplificarie?” rispondeva: “Calvino e Fenoglio tivo del diverso impatto emotivo che i come Tolstoj e Grossman: fonti letterarie due brani possono avere sul lettore. indispensabili per chi scrive la storia. Lo Regina di fiori e di perle abbraccia considero fondamentale. Dicevo ai miei un arco temporale che va dal 1935 studenti: se volete studiare la campagna al 2000; la struttura è quella di un di Russia di Napoleone, leggete prima racconto-cornice in cui si incastonano Guerra e pace. Oggi direi: se volete altri racconti. Mahlet, la protagonista, studiare la guerra in Russia durante nel 1990 rientra in Etiopia dopo un soggiorno di studio in Italia e non trova il secondo conflitto mondiale, leggete prima Vita e destino di Vassilij Grossman, più il vecchio Yacob, uno degli anziani centrato sulla battaglia di Stalingrado.”2 della famiglia cui era particolarmente Un testo letterario riesce a spiegare legata, morto durante la sua assenun’epoca, un momento, un problema za. L’elaborazione del lutto si rivela difficile per Mahlet, ad aiutarla saranno storico, meglio di un saggio, fa sentire i racconti di conoscenti e di sconosciuti, come si viveva la vita quotidiana nella sua concretezza, nella sua particolarità, che riguardano storie del passato. I contribuisce quindi a far capire gli evenracconti dei suoi interlocutori trattano ti, il senso di ciò che accade. Prendiamo di un passato che etiopi e italiani hanad esempio Memorie di Adriano della no in comune e, grazie ad essi, Mahlet Yourcenar, una finta autobiografia di riconquista una memoria personale e Adriano che ci dice cose molto più intencollettiva. se, più ricche di quel mondo così lontano Il tema della memoria è affascinante, ma estremamente complesso. Gli ultimi da noi di quanto non faccia un trattato di storia romana. O Il quarto secolo di Edoudecenni hanno visto un notevole proliferare di studi relativi alla memoria, sia ard Glissant, grande scrittore caraibico scomparso nel 2011, un romanzo che dal punto di vista storico che socioloabbraccia tutta la storia della Martinigico, il tema richiederebbe quindi un ca, dall’inizio della tratta degli schiavi discorso a parte che qui non possiamo a oggi, e attraverso le traversie di due certo affrontare. Però vale la pena accennare al fatto che famiglie non solo evoca una parte della mentre nel passato esisteva uno stretto drammatica storia martinicana,ma lascia intuire anche le profonde ripercussioni legame tra memoria e politica, oggi di questa sul presente. il legame è piuttosto tra memoria e media, come ha ben illustrato Giovanni Un’opera letteraria ci mostra individui immersi nel loro tempo, nel loro conteDe Luna nel suo recente La repubblica sto, ce li mostra nella vita quotidiana, del dolore. nei vari ruoli sociali; dà la possibilità di Oggi in Italia di disponiamo di un capire che esistono visioni del mondo discreto corpus di opere di scrittrici e scrittori che provengono dalle nostre ex colonie, alcuni sono nati in Italia da 1  Spiace, per motivi di spazio, doversi limitare genitori originari del Corno d’Africa, alal romanzo di Gabriella Ghermandi e a quello tri sono nati nelle ex colonie da genitori di Flaiano, può comunque servire come italiani o vi hanno soggiornato. Queste esemplificazione per capire le potenzialità di autrici/ori possono aiutarci a rileggere questi testi non solo dal punto di vista storico criticamente il passato, possono aiuma anche interculturale. Per altri esempi si tarci ad acquisire un doppio sguardo, rimanda a A. Di Sapio, M. Medi, Il lontano soprattutto se facciamo interagire le presente:l’esperienza coloniale italiana. Storia e memorie e il punto di vista africani con letteratura tra presente e passato, EMI, Bologna 2009, Parte Prima, e alla Bibliografia

2  È stato Ettore il mio primo eroe garibaldino, A. Papuzzi intervista Claudio Pavone, “Tuttolibri”, n. 1756 del 12/03/2011, p. XI

diverse, punti di vista diversi e ci permette di sperimentarli nell’immaginazione, possiede quindi ampie potenzialità conoscitive, estetiche, critiche. Ogni esperienza letteraria abbraccia la sfera psicologica e relazionale, ma anche quella cognitiva, permette di insinuarsi in vicende, emozioni, punti di vista vissuti o fantasticati da altri esseri umani. Il lettore fa un’esperienza di identificazione, di proiezione e introiezione, interpreta argomenta; come scrive Iosif Brodskij “la diversità umana è la materia prima della letteratura, oltre a costituirne la ragion d’essere (...) letteratura è una maestra di finesse umana, la più grande di tutte, sicuramente migliore di qualsiasi dottrina”.3 Il romanzo registra tempestivamente, riesce a cogliere e a preannunciare le crisi della sensibilità collettiva; di ogni persona coglie una molteplicità di identità così come i sogni e i fantasmi, esprime la complessità dell’individuo e della società. Ma torniamo a Regina di fiori e di perle. Da bambina Mahlet ha ascoltato il vecchio Yacob raccontare la sua storia. Da giovane Yacob si unisce alla resistenza e combatte contro gli italiani,il giorno in cui scopre che sua sorella Amarech ama Daniel, soldato italiano, e aspetta un figlio da lui, reagisce negativamente. Daniel attende con impazienza l’ordine di smobilitazione perché così potrà sposare Amarech e formare una famiglia, invece scopre che lo aspetta il rimpatrio in Italia e una condanna a cinque anni di reclusione per aver infranto il decreto 880 che vieta appunto ai soldati italiani di unirsi a donne etiopi. “Tu ci puoi andare con le donne di qui, – urla Daniel a Yacob – ma devi trattarle da prostitute. Non puoi amarle, avere figli con loro, sognare una famiglia. Se fai una cosa del genere loro applicano il decreto. Capito Yacob! C’è una legge italiana che mi condanna perché amo tua sorella e avrò un figlio da lei. La grande Italia civilizzatrice. Ecco il suo vero volto.” A questo punto Daniel decide di unirsi alla resistenza etiopica e chiede a Yacob di aiutarlo a raggiungere i suoi amici guerriglieri. La storia d’amore di Amarech e Daniel suggerisce il tema delle leggi razziali, dei meticci, del madamismo, degli 3  J. A. Brodskij, Dall’esilio, Adelphi, Milano 1988 p. 15

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italiani che militarono nella resistenza. Nella realtà coloniale l’incrocio tra culture è inammissibile. Sulla stampa pseudo-scienziati spiegavano che i figli di unioni miste rischiavano tare fisiche e morali, che il meticciato era la rovina degli imperi e della civiltà giustificando quindi le “Norme relative ai meticci” che proibivano al padre italiano di riconoscere il figlio, che disponevano altri odiosi provvedimenti discriminatori. Il madamismo dapprima tollerato e preferito al rapporto occasionale con prostitute in seguito viene ritenuto pericoloso per l’integrità della razza e per il prestigio dell’Italia imperiale. I meticci, nati da unioni miste, avrebbero potuto essere un ponte tra le due culture finiscono invece per essere rifiutati da una parte e dall’altra. La realtà dei meticci è uno dei tanti drammi scaturiti dalla colonizzazione e si prolunga anche al di là del periodo coloniale, come in Somalia durante l’AFIS (Amministrazione fiduciaria italiana). Lo storico burkinabé Joseph Ki Zerbo ha in più occasioni ribadito che l’incontro tra Europa e Africa fu un incontro mancato, perché non fu un incontro tra pari, ma tra chi si credeva superiore e chi veniva considerato un essere inferiore da civilizzare. Il colonialismo ha prodotto relazioni deformate tra le culture, che durano ancora.”4 Regina di fiori e di perle rimanda a Tempo di uccidere di Ennio Flaiano, i due romanzi ricompongono realtà complementari ma di cui finora era stato possibile vederne solo una.5 Lo sguardo del protagonista di Tempo di uccidere6 è quello di un ufficiale di un esercito coloniale, uno “sguardo cieco” che vede solo un’Africa primitiva, arretrata, senza tempo, e africani inerti, quando compaiono i resistenti etiopi vengono definiti briganti. Aleggia in tutto il romanzo un senso di disagio, di colpa. L’Africa che emerge dal racconto di Flaiano è “un paesaggio, uno spazio inquietante (…) 4  J. Ki Zerbo, Africa/Europa, un incontro mancato, “Kuma” n. 5/2002, www.disp.let. uniroma1.it/kuma/kuma5.html 5  C. Lombardi Diop, Tempo di sanare, Postfazione a Regina di fiori e di perle, Donzelli, Roma 2007, p. 259 6  Per più di cinquant’anni è rimasto pressoché l’unico romanzo italiano che abbia riguardato il passato coloniale

Ritratto di Kebedech Seyoum 1935. Alla morte del marito, dejac Aberrà Kassa ucciso dagli italiani, prese il comando della sua armata continuando la resistenza.

pieno d’insidie, un luogo che logora i nervi” un luogo in cui “affiorano imperiosamente i lati oscuri della coscienza dell’uomo occidentale” accompagnati da angoscia, turbamento, malessere, per cui al protagonista non resta che desiderare di andarsene perché la partenza viene vista come liberazione. Una liberazione illusoria perché il tornare alla normalità della vita quotidiana non dissolve il malessere della coscienza, lo rimuove soltanto.7 Regina di fiori e di perle ci restituisce la voce, lo sguardo del colonizzato, ci mostra un’Africa reale, africani che resistono all’occupazione coloniale, una resistenza di popolo quella etiopica, fatta di nobili e contadini, di donne anziane e giovani, di preti e militari, di figure eroiche di guerriglieri/e, di infiltrati etiopi nell’esercito italiano (ascari di giorno, informatori di notte), di soldati italiani che, come Daniel, combatterono a fianco degli etiopi. I due romanzi di Flaiano e Ghermandi sono in qualche modo speculari, “indicano al lettore che guardarsi allo specchio cercando solo la propria immagine è un gesto che (...) ha conseguenze fatali. (…) Regina di fiori e di perle è quindi non 7  G. Tomasello, L’Africa tra mito e realtà. Storia della letteratura coloniale italiana, Sellerio, Palermo 2004, cap. VIII, La terra della disfatta. L’Africa come incubo e desolazione. Berto, Tobino e Flaiano

soltanto un romanzo sulla realtà del passato etiopico, ma anche un’interrogazione sull’identità della memoria coloniale italiana. Come in uno specchio, l’identità riemerge dal passato, fornendoci la metà mancante, finora sfocata o nascosta, invitandoci a guardare.”8 La lettura di entrambi può aiutarci a ragionare su chi siamo, chi siamo stati e possiamo rischiare di ridiventare. L’arrivo di migranti dall’Africa ha fatto riemergere una memoria coloniale fin qui nascosta o rimossa, ha riattivato meccanismi, pregiudizi, rappresentazioni sull’altro africano, riaperto il dibattito su identità e memoria divisa della nazione. “In un’epoca – sostiene Uoldelul Chelati Dirar - caratterizzata da massicci flussi migratori che, con una delle frequenti ironie della storia, ripercorrono in senso inverso le grandi rotte dell’espansione coloniale, questa situazione di vuoto culturale, ha comportato per l’Italia la totale impreparazione al contatto con i nuovi cittadini. Da un lato le amministrazioni (almeno quelle disponibili) si sono viste costrette all’affannosa ricerca di strumenti culturali idonei, dall’altro la popolazione si è trovata in una situazione di sostanziale confusione, oscillando tra un incerto solidarismo ed una timorosa ostilità. Si pone quindi urgente per la cultura e più in generale per la società italiana l’imperativo di individuare strategie opportune per superare questa situazione di impasse.”9 Leggere le opere di queste scrittrici/ ori permette di affrontare alcune delle questioni storiografiche più attuali, che i libri di testo spesso ignorano; ci dice molto sull’immaginario collettivo, costruito durante l’epoca coloniale e che sopravvive; queste opere fanno scaturire una visione complessa delle ex colonie italiane, paesi che il senso comune ancora oggi individua come “arretrati”, “poveri”, “primitivi”, “selvaggi”; ci raccontano della nostra storia coloniale, delle migrazioni, delle discriminazioni, degli incontri, dei mescolamenti di lingue. Una lettura utile non solo per percorsi di storia, ma anche per percorsi 8  C. Lombardi Diop, cit., pp.258-9 9  U. Chelati Dirar, L’Africa nell’esperienza coloniale italiana:la biblioteca di Guerino Lasagni (1915-1991), Il Nove, Bologna 1996, p. 36


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di educazione interculturale, ai diritti, alla pace, alla cittadinanza.10 Regina di fiori e di perle termina con queste parole: “E loro, i tre venerabili anziani di casa, me lo dicevano sempre negli anni dell’infanzia, durante i caffè delle donne: ‘Da grande sarai la nostra 10  v. M. Gusso, “Il laboratorio con le fonti letterarie”, in P. Bernardi (a cura di), Insegnare storia. Guida alla didattica del laboratorio storico, Utet, Torino 2006, pp. 150-165; A. Di Sapio, M. Medi, op. cit., Prima e seconda parte

cantora’. Poi un giorno il vecchio Yacob mi chiamò nella sua stanza, e gli feci una promessa. Un giuramento solenne davanti alla Madonna dell’icona. Ed è per questo che oggi vi racconto la sua storia. Che poi è anche la mia. Ma pure la vostra”. Gabriella Ghermandi non ci chiede di pentirci o di vergognarci, ci chiede di condividere, ci invita all’elaborazione di una memoria che – come scrive Cristina Lombardi Diop nella Postfazione al romanzo - segni finalmente il tempo di sanare quella ferita

invisibile,11 senza rimuovere o agitare “gli spettri o le vanaglorie del passato, ma cogliendo le storie degli uni e degli altri, quelle buone e quelle cattive, perché insieme compongono la loro storia che è anche la nostra.”12 11  C. Lombardi Diop, cit., p.258 12  A. Triulzi, Una storia di etiopi e di italiani, “Lo straniero”, agosto/settembre 2007, n. 86/87, www.lostraniero.net/archivio-2007/32agosto/215-una-storia-di-etiopi-e-di-italiani.html

Da sudditi a migranti Dal razzismo in colonia al riemergere del razzismo di Daniela Rosa, Maria Laura Cornelli, Rita Tironi*

*Daniela Rosa, Maria Laura Cornelli e Rita Tironi, già insegnanti di storia nelle scuole superiori, collaborano con la Tavola della Pace di Bergamo

A livello scientifico il concetto di razza è stato completamente decostruito, ma questo non ha purtroppo posto fine al razzismo. Esempi quasi quotidiani di esclusione verso stranieri vedono protagonisti non solo semplici cittadini ma, cosa assai più preoccupante, uomini politici ed istituzioni (vedi ordinanze di sindaci che negano la residenza a immigrati o vietano iscrizioni alla scuola di figli di immigrati senza permesso di soggiorno ecc.). La legge italiana sulla cittadinanza è fortemente restrittiva e, unico esempio nella UE, si basa sullo ius sanguinis. Vari saperi (psicologia, sociologia, antropologia culturale ecc.) hanno indagato il complesso fenomeno. In questo percorso cerchiamo di vedere il problema da una prospettiva particolare, di tipo storico, chiedendoci se questa permanenza del razzismo nella società di oggi può essere messa in relazione con il razzismo così come si è espresso e codificato nell’età coloniale. 1. Per illustrare alcuni aspetti del razzismo coloniale e per vedere quale immagine dell’Africa e degli africani veniva divulgata, sono significativi sia i documenti ufficiali, sia quella “letteratura antropologica di massa” spesso di grande tiratura, costituita da

romanzi coloniali, articoli di giornali, vignette ecc. pubblicati negli anni del colonialismo sia liberale sia fascista (1882-1941)1. Gli autori (Alfredo Oriani, Eduardo Ximenes, Alessandro Sapelli, Ildefonso Stanga, Lidio Cipriani, Giuseppe Lucidi, Guido Milanesi, Ferruccio Caressa, Reginaldo Giuliani...) sono italiani di diversa estrazione e professione, scrittori, militari, scienziati, giornalisti, o semplici viaggiatori che si fanno “etnografi per caso” dopo aver vissuto un’esperienza nelle colonie. In età liberale, quando l’Africa era ancora assai scarsamente conosciuta, i testi rimandano l’immagine di un continente esotico, selvaggio, primitivo; in essi è sempre presente il senso di superiorità del bianco e la scarsa empatia verso la popolazione locale; l’atteggiamento, quando è benevolo, è paternalistico, ma non mancano disprezzo ed espressioni di disgusto. Due esempi. Il primo è tratto da Alfredo 1  Il materiale a cui qui si fa riferimento è stato reperito dalle autrici in occasione di una mostra sul colonialismo italiano da loro organizzata presso la Biblioteca A. Mai di Bergamo e contiene alcune centinaia fra immagini e pagine di testi dell’epoca. Il CD L'Italia e le sue colonie africane si può richiedere a: dossier.colonie@gmail.com

Oriani, scrittore fecondo molto osannato durante il fascismo, che nel 1887 scrive: Un’Africa orribilmente nera e selvaggia si è rivelata alla storia, ma il suo clima che in molti luoghi è una vampa, i suoi deserti che hanno l’ampiezza dei mari, la loro aridità che fa pensare ad una maledizione, e che una volta si supponevano uniformi in tutto il suo centro, non sono che una varietà della sua natura. Ora si sa che fra le sue montagne si trovano territori incantevoli, regioni prodigiose di bellezza e di feracità sulle quali vive ancora la più feroce razza che il sole abbia mai annerito.2 Ed ora alcuni excerpta da Eduardo Ximenes, direttore della rivista “L’Illustrazione italiana”: … erano strani abitanti di quelle grotte … Il colonnello intimò agli invisibili trogloditi di comparire, e si mostrarono infatti tre musi neri che sembravano diavoli … ci spiano con occhi di scimmia … neri come scarafaggi … con la mano bianca sul palmo come le scimmie3 2  Alfredo Orani, La lotta politica in Italia, Cappelli, 1946 3  Eduardo Ximenes, Sul campo di Adua. Diario. Marzo-giugno 1896, Milano, Treves, 1897

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Col fascismo si accresce il rapporto gerarchico e autoritario fra colonizzatori e colonizzati e si avviano politiche segregazioniste che culminano nelle seguenti leggi razziali, specifiche per la popolazione di colore. Nel 1936, le Direttive del Ministro delle Colonie Lessona, stabiliscono fra l’altro che si arrivi gradualmente a tenere separate le abitazioni dei nazionali da quelle degli indigeni; che sia evitata ogni familiarità tra le due razze; che i pubblici ritrovi frequentati dai bianchi non siano frequentati dagli indigeni; che sia affrontata con estremo rigore — secondo gli ordini del duce — la questione del «madamismo» e dello «sciarmuttismo». Nel 1937 il decreto legge n. 880, “Sanzioni sui rapporti di indole coniugale tra cittadini e sudditi” recita: Il cittadino italiano che nel territorio del Regno o delle Colonie tiene relazione d’indole coniugale con persona suddita dell’Africa Orientale Italiana o straniera appartenente a popolazione che abbia tradizioni, costumi o concetti giuridici e sociali analoghi a quelli dei sudditi dell’Africa Orientale Italiana, è punito con la reclusione da un anno a cinque anni. Nel 1939 il decreto legge n. 1004, “Lesione del prestigio della razza” , crea un reato ad hoc per accentuare la distanza fra cittadini e sudditi. Ne riportiamo il primo articolo: Agli effetti della presente legge si intende lesivo del prestigio di razza l’atto commesso dal cittadino abusando della sua qualità di appartenente alla razza italiana o venendo meno ai doveri che da tale appartenenza gli derivano di fronte ai nativi, così da sminuire nel loro concetto la figura morale dell’italiano. E infine nel 1940 la Legge n. 822, “Norme relative ai meticci”, certamente la più odiosa. Essa stabilisce che il meticcio assume lo statuto del genitore nativo ed è considerato nativo a tutti gli effetti; che non può essere riconosciuto dal genitore cittadino; che non gli può essere attribuito il cognome del genitore cittadino; che il suo mantenimento, l’educazione e l’istruzione sono a totale ed esclusivo carico del genitore nativo; che sono vietati gli istituti, le scuole, i collegi, i pensionati e gli

In epoca fascista, e con l’avallo di “scienziati” (antropologi, medici) e uomini di chiesa, si consolida la costruzioTuttavia, forse anche meglio delle leggi, ne della differenza di potere fra gruppi, la letteratura e la pubblicistica dell’epo- differenza priva di carattere naturale ma definita da specifici rapporti storicoca ci permettono di cogliere il vissuto coloniale e ci rimandano una più imme- sociali. Come si è visto, anche i rapporti di diata percezione dell’Altro. genere e il controllo delle pratiche Anche qui due esempi. Il primo è un pas- sessuali sono un aspetto a cui le leggi so tratto dal romanzo di Giorgio Milaneprestano un’attenzione particolare, si, all’epoca scrittore di grande successo, mentre i testi della letteratura coloniale, nel quale si narra una impossibile storia spesso illustrati da documenti fotografid’amore dal tragico esito fra un colono ci, oscillano fra esotismo ed erotismo. italiano e una giovane araba: Per qualche attimo le loro due razze 2. Per quanto riguarda la documentaziosi studiarono in silenzio come in una ne del riemergere del razzismo, il libro sosta di duello tra scimitarra e spada. di Paola Tabet, La pelle giusta, riporta i Eretti agli orli di un incolmabile abisso, risultati di un’indagine, realizzata con entrambi sentirono confusamente come l’ausilio di centinaia di insegnanti di l’impossibilità di appartenere alla scuole elementari e medie di tutt’Italia, stessa creazione. […] Bella sì, ma araba. volta a indagare le forme dell’immaginaE al suo giudizio vertebrato da quell’orrio dei bambini nei riguardi dei neri. Il goglio europeo che include il privilegio presupposto di partenza è che i bambini su ogni altra razza della terra, ella non non si nascondono dietro l’ipocrisia e appariva che come un essere inferiore, l’ostentazione dei buoni sentimenti e non degno di troppa considerazione che quindi sia questa l’ottica migliore e ch’era bene lasciare dall’altro lato per sondare la presenza di un sedidell’abisso4 mento profondo di un sentire di tipo “razzista”. Dalle migliaia di temi raccolti Il secondo esempio è tratto da un artiemerge pressoché unanimemente un colo scritto da un cappellano militare razzismo inconsapevole che induce a che morirà nella guerra d’aggressione ritenere che quei comportamenti e le all’Etiopia, Reginaldo Giuliani, nel quale dichiarazioni di tipo razzista, di gente si mescola missione civilizzatrice, pacomune e di politici, a cui abbiamo ternalismo e sentimento di superiorità: accennato sopra, rappresentino solo la Poveri morettini! Visi mai lavati perché punta dell’iceberg di un modo di pensanessuno ha insegnato l’arte di cavar re ben più radicato. l’acqua, né la necessità dell’igiene, né Nei temi persiste lo stereotipo di un’Ala gioia della pulizia! Ma quando l’Italia frica-Eden accanto a un’Africa creduta di Mussolini potrà dare a tutti i moretancora all’età della pietra, dove regnano tini dell’Africa quella camicia nera che solo miseria e ignoranza; nei confronti qualcuno di essi ha già sostituito ai dei neri emergono sentimenti di paura e luridi cenci, quando in questa santa fra- schifo, ed anche qui ritorna lo stereotiternità di bimbi neri e di militi bianchi po del nero sporco e incivile e in alcuni vi sarà la completa intesa, forse allora casi viene prospettata la necessità di potranno compiersi i desideri dei grandi una vera e propria apartheid. E rispunta missionari italiani, del Cardinale Massa- anche, dai temi dei bambini più “buoni”, ia, di Monsignor Comboni, che si spense la missione civilizzatrice. ripetendo: “O Africa o morte!”.5 3. C’è una relazione fra il vecchio razzismo coloniale e l’attuale? La sorprendente consonanza di rappresentazioni fra razzismo coloniale e 4  Giorgio Milanesi, La sperduta di Allah, Alberto “razzismo inconsapevole” dei bambini, Stock, Roma, 1927 suggerisce a Paola Tabet l’idea di una 5  Reginaldo Giuliani, Con le camicie nere del continuità fra i due razzismi: internati speciali per meticci, anche se a carattere confessionale.

gruppo battaglioni d’Eritrea, ripreso da A. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Milano, Mondadori, 1992, vol.II, pp.538-39

Un motore di automobile può essere spento, può essere in folle, può andare


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a 5.000 giri. Ma anche spento è un insieme coordinato, gli elementi messi a punto e collegati tra loro e, con un’opportuna manutenzione, pronti a entrare in movimento quando la macchina viene accesa. Il sistema di pensiero razzista che fa parte della cultura della nostra società è come questo motore, costruito, messo a punto e non sempre in moto né spinto alla velocità massima. Il suo ronzio può essere quasi impercettibile, come quello di un buon motore in folle. Può al momento buono, in un momento di crisi, partire. In ogni caso, in modo e misura diversi, consuma informazione, materiali, vite. Con l’arrivo in Italia degli immigrati dai paesi del “terzo mondo”, in particolare dalla metà degli anni ’80, questo sistema viene registrato e messo in moto, subisce un’accelerazione e si pone in modo più scoperto. Il suo rumore allora, da rumore di fondo, intermittente e a volte quasi non percepibile, specie a un orecchio non avvertito o meglio semplicemente assuefatto, diviene costante. Il discorso razzista diventa quotidiano, invadente, circola veloce, pressoché ovunque, in una forma o nell’altra, che siano battute, barzellette o scambi di opinioni, come discorso della gente o dei media. Circola tra gli adulti e circola in maniera costante anche tra i bambini. Questo sistema non nasce a un tratto quando arrivano in Italia gli immigrati. Come se essi, le loro persone, fossero necessarie per far nascere delle rappresentazioni razziste, o quasi che tali idee fossero causate da loro. No, questo sistema di pensiero si è formato ben prima, è un sistema di lunga costruzione, che ha subito revisioni e mutamenti, capace di integrare elementi di ricambio. […] Anche in Italia il motore è ripartito. L’immaginario sui neri, formatosi in altra situazione storica, è recuperato e, qua e là con remore e tabù, viene allo scoperto. 6 Anche l’antropologa Barbara Sorgoni evidenzia una continuità, riferita in questo caso al ruolo e all’immagine femminile: Due nicchie del mercato del lavoro in Italia sono riservate quasi esclusivamente alle donne immigrate: il lavoro 6  Paola Tabet, La pelle giusta, Torino, Einaudi, 1997, pp. vi-viii

domestico e la prostituzione. Come non pensare al ruolo pressoché unico delle donne colonizzate come domestiche e concubine degli italiani o, durante l’impero, come prostitute per gli stessi? Analogamente risulta difficile comprendere la lunghezza e le resistenze che incontrano ancora oggi i progetti giuridici che intendono facilitare l’acquisizione della cittadinanza per i cittadini stranieri residenti da anni in Italia, senza riconoscere che la legge attuale si basa ancora sullo ius sanguinis. Ultimo ed unico caso in Europa, la preminenza del “sangue” più che del “suolo” è dimostrata dal fatto che essa viene applicata persino ai nati in Italia (pur se da genitori stranieri). Si tratta di un diritto di matrice interamente coloniale, che trova la sua naturale collocazione unicamente all’interno di un pensiero che fonda le differenze culturali e nazionali su basi razziali. Il fatto che ancora oggi tale legge appaia ai più naturale, o comunque difficile da modificare, mostra ancora una volta la presa profonda che saperi, conoscenze e credenze forgiate nel periodo coloniale hanno avuto nella costruzione della cultura contemporanea italiana. 7 Nicola Labanca, uno dei maggiori storici del colonialismo italiano scrive: La presenza ormai stabile anche in Italia, sul territorio nazionale, di centinaia di migliaia di lavoratori e lavoratrici di estrazione non italiana e spesso africana (anche se solo in piccola parte provenienti dai paesi ex colonie) ha offerto, dalla fine degli anni Settanta, una base oggettiva al riemergere di stereotipi coloniali, di pregiudizi e odi di natura razziale. Pur da tempo terminato, il periodo coloniale si è rivelato un inestinguibile serbatoio della memoria collettiva: un magazzino dove dispositivi ideologici sono stati accantonati, per ritornare in azione – in contesti nuovi e diversi – ma non meno efficaci. […] Torna invece un esotismo di maniera, un gusto per quel vecchio incontro con l’Altro, una nostalgia di abbandonate posizioni coloniali. Non si oppongono più le “strade” ai “gas”, ma si favoleggia 7  Barbara Sorgoni, Pratiche antropologiche nel clima dell’Impero, in R. Bottoni (a cura di) L’impero fascista. Italia ed Etiopia (1935-1941), Bologna, Il Mulino, 2008, p.427

di come era bella la colonia, di quanto era esotica, di quante emozioni dispensasse quella frontiera all’italiano del tempo. È evidente che tanta genericità è favorita da quell’affievolimento della memoria diretta dovuta al trapasso generazionale. Ma è altrettanto evidente che si scorgono in essa l’affievolirsi dei vaccini che una buona conoscenza della storia potrebbe inoculare.8 Lo storico Alessandro Triulzi parla di latenza della memoria coloniale e di radicamento di «un sistema percettivo razzista», e aggiunge: Il difficile incontro tra ex colonizzatori ed ex colonizzati non avviene più all’interno di rapporti codificati di dominio nel lontano oltremare, ma è qui tra noi, nelle nostre case, si riempie di tensioni accresciute dai diversi divari di ricchezza e potere che caratterizzano le nostre città. La crudezza degli attuali rapporti di lavoro e i mancati diritti degli immigrati non possono che sollecitare direttamente il ritorno e la recrudescenza di comportamenti individuali e di gruppo da collegarsi agli antichi immaginari e alle prassi di dominio che hanno caratterizzato l’Italia coloniale di ieri, e continuano a strutturare le mentalità e i comportamenti dell’Italia postcoloniale di oggi.9 4. Da quanto esposto emerge con evidenza che sono rimasti nell’immaginario collettivo contemporaneo stereotipi diffusi in età coloniale. Non è tuttavia documentata, ma solo supposta in base alle sorprendenti analogie individuate, una diretta derivazione del razzismo attuale da quello coloniale, la cui dimostrazione richiederebbe una approfondita analisi (che ancora manca), che tenga conto della discontinuità temporale e della profonda diversità dei contesti storici. Tuttavia si possono fare alcune riflessioni.

8  Nicola Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Bologna, Il Mulino, 2002, p.469 9  Alessandro Triulzi, Ritorni di memoria nell’Italia postcoloniale, in R. Bottoni, (a cura di) L’Impero fascista. Italia ed Etiopia (1935-1941), Bologna, Il Mulino, 2008, p.589

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Colonialismo italiano, post- colonialismo: il presente e i suoi passati – dossier

▪▪ a. È mancata per decenni una revisione critica del nostro passato coloniale, per quanto riguarda sia i crimini di guerra che le leggi razziali. Gli studiosi parlano di volta in volta di oblio, rimozione, latenza, «memoria sfuocata». Angelo Del Boca, Nicola Labanca, Alessandro Triulzi, Gian Paolo Calchi Novati ne hanno analizzato le cause e avviato una revisione storica, che solo negli ultimi anni ha cominciato a incrinare il mito degli “italiani brava gente”. ▪▪ b. La Tabet evidenzia come i mass media (televisione, fumetti, film, pubblicità) continuino a proporre vecchi stereotipi sulle persone di colore e un’immagine “primitivistica” dell’Africa. Questo può essere conseguenza sia dell’ignoranza della complessa storia dell’Africa e delle sue antiche civiltà, sia della mancata revisione culturale di cui si è detto sopra che ha permesso di fatto la trasmissione di un pensiero acritico che si è attivato in occasione della recente immigrazione e che si presta ad una curvatura di tipo razzista. ▪▪ c. A questo punto non si può che sottolineare l’importanza del compito che spetta alla scuola come fornitrice di conoscenze e analisi critica per superare il grave ritardo culturale del nostro paese non solo riguardo al vecchio colonialismo e al razzismo che lo ha connotato, ma anche riguardo alla conoscenza dell’Africa nella sua storia e nella sua realtà attuale.

L’“Altro” nel nostro immaginario di anna di sapio

L’immagine di me stesso, l’immagine dell’altro, l’immagine che io mi faccio di me stesso, l’immagine che lui si fa di me, le paure, gli stereotipi che plasmano, modellano il mio comportamento, inducono quello degli altri. Come certi paesi sono ricoperti di mine antipersone così nei nostri cervelli sono seminate rappresentazioni apprese fin dalla più tenera età, attraverso i media, la famiglia, le letture, la scuola, le conversazioni quotidiane in cui si colma il vuoto delle parole che ci mancano con delle generalizzazioni: “gli arabi”, “le donne sono tutte uguali”, “loro”.... Ci si dimentica che stereotipi e pregiudizi alimentano il nostro immaginario collettivo, che è il risultato di una stratificazione millenaria, fatta di condizionamenti ambientali e culturali di varia natura, anche se non tutti questi condizionamenti hanno inciso nella stessa misura o la stessa intensità. L’immaginario è una struttura archetipica della storia e della cultura dell’uomo da cui non si può prescindere e che condiziona e orienta la nostra educazione, struttura la nostra identità, definisce la nostra storia presente e futura. È antico quanto l’uomo ed è presente in ogni cultura, ha radici profonde in ogni società e si comunica

da una generazione all’altra creando identità e appartenenza. È costituito da norme, valori, credenze, simboli, riti, da un insieme di rappresentazioni condivise del mondo e della storia. Quando la vita di una determinata collettività muta radicalmente, quest’ultima si dà allora un altro sistema di valori, crea un altro orizzonte mitologico, crea altri miti. I miti precedenti diventano inattuali. L’immaginario è oggetto di studio dell’antropologia, della sociologia, della psicologia, della filosofia, della storia, e va delineandosene l’importanza anche per la pedagogia e la didattica. Si può parlare di immaginario personale e di immaginario collettivo, ma anche di immaginario medievale (rinascimentale, risorgimentale), di immaginario familiare, giovanile, scientifico, c’è un immaginario rurale ed uno urbano... il campo è vastissimo e la frontiera è mobile. L’immaginario si trasforma nel tempo, oggi è abitato da miti legati al mercato e al consumismo, al fascino “dell’apparire”. La società di oggi è sempre più governata dai media e dal potere delle immagini imposte dai media, che Edgar Morin ha analizzato già negli anni Sessanta del XX secolo nella sua opera L’industria culturale.1 “Per cinque secoli – scrive Ryszard Kapuscinski2 – l’Europa ha dominato il mondo, non solo politicamente ed economicamente, ma anche culturalmente. Ha imposto la fede, stabilito la legge, le scale di valori, i modelli di comportamento, le lingue. Le nostre relazioni con gli altri sono sempre state sbilanciate in nostro favore; vale a dire, da parte nostra, quanto mai autoritarie, apodittiche e paternaliste. La secolare esistenza di un assetto così ingiusto e diseguale ha creato tra i suoi partecipanti una serie di consuetudini dure a morire. (...) L’Europa, ancora rigidamente chiusa nel suo eurocentrismo, sembra non vedere, o non voler vedere, che sul nostro pianeta stanno acquistando 1  E. Morin, L’industria culturale, Il Mulino, Bologna 1963 2  R. Kapuściński, L’altro, Feltrinelli, Milano 2007, pp.32-3


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peso, dinamismo e vita varie civiltà extrauropee che con sempre maggior determinazione aspirano a sedersi alla tavola rotonda del mondo. L’Europa si trova davanti a una sfida. D’ora in poi non potrà più sedercisi nella sua solita veste di esclusività, immunità e autocrazia.” Oggi l’incontro tra culture, storie, religioni e lingue diverse non è più situato altrove, ma è qui e ora, al centro della nostra vita quotidiana, allora la “ragione” occidentale deve aprirsi a nuovi percorsi, deve instaurare un rapporto più critico e non arrogante. Con le migrazioni contemporanee l’Altro è diventato prossimo, è il nostro vicino di casa, il nostro compagno di banco. Come fare per instaurare una relazione che non sia più quella coloniale? In questi anni in cui le società occidentali diventano sempre più multiculturali non possiamo non chiederci come potrà avvenire un incontro tra culture che non riproduca le forme di sopraffazione che prevalsero in passato. “Oggi – sostiene Marco Aime – assistiamo sempre di più al diffondersi di fondamentalismi culturali che finiscono per condurre a un razzismo senza razza. Il tutto per mascherare tensioni e conflitti di tipo economico e politico” e “l’elemento di incompatibilità, nella moderna politica dell’esclusione, non è più la razza ma la cultura”.3 “Il mondo è una Maschera che danza, e per vederlo bene non si può rimanere fermi nello stesso luogo” dice lo scrittore nigeriano Chinua Achebe, e Salman Rushdie suggerisce: “Solo quelle persone che escono dalla cornice vedono il quadro per intero”. Poiché questi autori sono esseri che vivono tra due (o più) culture, sono in grado di osservarle entrambe da una certa distanza, di scrivere da una doppia prospettiva, sono in grado di tradurre i parametri culturali dell’una e dell’altra. Questi scrittori ci suggeriscono di ascoltare voci diverse, di indagare punti di vista diversi, di 3  M. Aime, La storia vista da Timbuctù, “Carta” n. 42/2005; Eccessi di culture, Einaudi, Torino 2004, p.98

esercitare e affinare il giudizio critico per capire meglio le relazioni interculturali tra l’Occidente e gli Altri. Per uscire dall’egocentrismo o dall’etnocentrismo occorre imparare a “spostare il centro” come dice lo scrittore keniano Ngugi wa Thiong’o, imparare l’uso del decentramento perché noi siamo allo stesso tempo identità e differenza (di solito invece l’identità sono io e la differenza è sempre l’altro). Occorrono altri occhi per un viaggio interiore, per imparare a guardare l’altro per quello che è, ora e qui. La rappresentazione di me che l’altro mi restituisce nel decentramento arricchisce la comprensione della mia stessa identità. Il problema non è quello di dimostrare che la propria cultura è etnocentrica o peggio ancora di rifiutarla, il che oltretutto sarebbe irrealistico perché con essa perderemmo, oltre alla memoria, anche gli strumenti del comunicare. Non si tratta di denunciare o sentire sensi di colpa per quanto di sbagliato la nostra civiltà ha fatto nei confronti di altre civiltà, si tratta di abbandonare una visione monoculare che appiattisce per una visione nuova che ci permetta di capire meglio la realtà complessa in cui viviamo. Si tratta di far emergere pregiudizi e stereotipi che ognuno porta in sé e capire quali sono i meccanismi che li determinano, capire che i mezzi di comunicazione di massa, e la televisione in particolare, hanno un ruolo fondamentale. Non possiamo abbandonare la nostra cultura, non possiamo farne a meno, ma possiamo sottoporla a indagine critica, cercare e riconoscerne i limiti, possiamo mettere in causa il processo di formazione delle categorie con cui operiamo. Dobbiamo rinnovare la conoscenza di noi stessi, mettendoci a confronto con gli altri, problematizzandoci in rapporto agli altri. E interrogarci sul processo storico che è alla base della nostra specificità culturale. Come afferma l’antropologo americano Clifford Geertz “I problemi, essendo esistenziali, sono universali; le loro soluzioni,

essendo umane, sono diverse”.4 Il pensiero occidentale ha inseguito per secoli “la coerenza e la riduzione del molteplice all’unità del sé” e oggi si trova impotente di fronte al dinamismo, alla complessità e alle ingiustizie di un presente in cui il nord del mondo (il 12% della popolazione mondiale) detiene l’86% della ricchezza planetaria e rappresenta l’88% dei consumi mondiali. Negli ultimi anni non è solo aumentato il divario tra paesi ricchi e paesi poveri del mondo, si è accresciuto anche il divario economico e culturale fra individui, fra classi sociali all’interno di uno stesso paese. Avremmo bisogno - come sostiene l’antropologa Callari Galli - di un pensiero della diversità, capace di riconoscere che “ogni universo è un pluriverso”, capace cioè di riconoscere la molteplicità nell’unità e l’unità nella molteplicità.5 Le sfide del presente impongono uno sforzo transdisciplinare e interculturale per una educazione alla complessità umana. Siamo come un viaggiatore, un esule in territori inesplorati, che disponga di mappe obsolete e abbia invece bisogno di nuove mappe per risognare il mondo. La trasformazione graduale e irreversibile della nostra società (italiana ed europea) in senso multiculturale ci interpella in prima persona a intraprendere un percorso di trasformazione radicale delle premesse culturali, delle abitudini, dei comportamenti, delle modalità relazionali. Un impegno che riguarda non solo la sfera cognitiva, intellettuale ma anche la sfera emotiva, affettiva.

4  C. Geertz, Interpretazioni di culture, Il Mulino, Bologna 1987, p.342 5  Callari Galli, Ceruti, Pievani, Pensare la diversità. Per un’educazione alla complessità umana, Meltemi, Roma 1998, p.9

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Colonialismo italiano, post- colonialismo: il presente e i suoi passati – dossier

Italiani, brava gente ?

Un libro, una riflessione. di elena la rocca

Un popolo intero per anni ha inneggiate l’uso di gas tossici, furono sganciate to “al duce che alla vittoria ci conduce”, delle bombe micidiali, cariche di iprite, ha cantato che si aprivano a 250 metri dal suolo “faccetta nera, sarai italiana creando una pioggia mortale. Il regime noi ti daremo un’altra legge e un altro Re” fascista riuscì a nascondere la verità oppure in modo più prosaico agli Italiani, mentre respingeva dura“in Italia si sta stretti mente tutte le accuse in proposito della allungheremo lo stivale fino all’Africa stampa estera. È però interessante Orientale”, notare che, caduto il fascismo, la verità mentre celebrava il risorto Impero. non venne subito a galla anzi, nonoLo stesso popolo, caduto il suddetto stante le prove, il dibattito si protrasse Impero, sembra averne completamente per anni e solo nel 1996 l’ala negaziodimenticato l’esistenza: guerre colonista, guidata da Indro Montanelli, si niali, invasione di uno stato sovrano, arrese e riconobbe l’evidenza dei fatti. repressione violenta, tutto scomparso. Oppure si può ricordare la proibizione Una rimozione che ha coinvolto tutti: di proiettare in Italia il film “Il Leone la politica, le istituzioni, l’opinione del deserto” del regista siroamericano pubblica. I testi scolastici dedicano Mustapha Akkad che racconta la storia mediamente poche pagine alle guerre di Omar al Mukthar, il guerrigliero parcoloniali italiane e ne tacciono gli tigiano libico, catturato poi ed impicaspetti peggiori, la repubblica “nata cato dal maresciallo Graziani. Il film in dalla Resistenza” ha cominciato fin da Italia è stato proibito perché giudicato subito a rimuovere e nascondere, tanto “lesivo dell’onore dell’esercito italiano”. è vero che i criminali di guerra italiani E stiamo parlando del 1981! non furono consegnati alle nazioni che L’opinione pubblica è quindi autorizintendevano processarli, né furono pro- zata a rimuovere le guerre in Libia, cessati in patria.1 Visto che l’Italia non Somalia, Etiopia anche perché sente rispondeva alle richieste in proposito il proprio impero molto al di sotto dei dei vari stati, nel 1945 gli Alleati stessi grandi imperi coloniali inglesi e franceinoltrarono a Roma le liste dei presunti si o, per il passato, spagnoli e portocriminali che gli stati interessati (Jugoghesi, per cui in po’ se ne vergogna: slavia, Grecia, Albania, Etiopia, Gran troppo piccolo, troppo breve. Quando Bretagna,Francia, URSS) avevano conpoi la rimozione è impossibile ed in segnato alla Commissione delle Nazioni qualche modo si deve/dovrebbe fare Unite. Ciò nonostante l’Italia continuò i conti con la realtà, interviene il mito a tergiversare e nel 1946 istituì una “italiani, brava gente” a rasserenare gli Commissione di inchiesta presso il Mianimi, a permettere un’autoassoluzionistero della Guerra, in definitiva tutto ne. Si pensa che il nostro colonialismo si dissolse nel nulla. Il problema dei sia stato differente perché noi siamo criminali di guerra quindi non fu mai af- differenti: brava gente appunto, addifrontato, si preferì dimenticare a costo rittura troppo sentimentali, incapaci di di rinunciare a chiedere alla Germania essere duri, di farci rispettare. Il mito la consegna dei suoi criminali di guerra. infatti contiene in sé anche una forma Anche in molti altri casi emerge la stes- di autocritica rispetto ad una presunta, sa tendenza a rimuovere, si pensi per eccessiva bontà ed è quindi un mito esempio all’uso dell’iprite: nella campa- multiuso: serve per negare i propri gna d’Etiopia Mussolini autorizzò e in eccessi e sentirsi a posto con la propria un certo qual modo gestì personalmencoscienza, ma funziona anche in senso contrario per incitare ad una maggior 1  Cfr. M.Battini, Peccati di memoria. La mancata durezza, esercitando una repressione Norimberga Italiana. Laterza 2003 più violenta e crudele: ci si può dire di

volta in volta che “in questa situazione non è il caso di essere i soliti italiani, troppo buoni e sentimentali.” Può persino servire da giustificazione per una classe dirigente incapace, basti pensare per esempio alla prima guerra mondiale quando il generale Cadorna (e non solo lui) spiegava il proprio fallimento con l’eccessiva “mollezza” dei soldati italiani. Classi dirigenti che, pur sentendosi particolarmente buone, hanno dimostrato una singolare indifferenza nei confronti dei propri soldati e della loro sorte: particolarmente indicativo di questa indifferenza/durezza è il caso dei soldati italiani prigionieri dell’Austria nella prima guerra mondiale. Mentre gli altri stati belligeranti inviavano soccorsi ai propri prigionieri, il governo italiano, premuto dal comando supremo dell’esercito, non solo si rifiutò di provvedere direttamente ai prigionieri, ma boicottò i tentativi delle famiglie e della Croce Rossa. Solo gli ufficiali potevano ricevere soccorsi tramite appunto la Croce Rossa. Il rifiuto ubbidiva ad un disegno preciso, doveva infatti servire a scoraggiare ogni tentazione di resa, fuga o ribellione da parte dei combattenti. In ogni modo costò la vita ad oltre 100.000 italiani, morti per malattia, ma soprattutto di fame, (alla fine del 1917 i prigionieri erano circa 600.000) Italiani brava gente: mito dunque multifunzionale, tramandato in modo acritico, tanto da essere ancor oggi vivo e vitale, basti pensare a certi dibattiti sull’immigrazione e sulle condizioni dei migranti. Parte dell’opinione pubblica sembra pensare che gli immigrati si dirigono tutti, solo ed esclusivamente in Italia, perché “siamo troppo buoni”. Il mito che è servito a “coprire” il colonialismo e le sue nefandezze, serve ora ad emarginare i migranti, criminalizzare i clandestini senza provare nessun complesso di colpa, né interrogarsi sul proprio razzismo. A sfatare questo mito, dimostrandone


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l’infondatezza, si impegna Angelo Del Boca in “Italiani, brava gente ?”, (Neri Pozza Editore, 2005) quasi un “libro nero degli Italiani” come recita la presentazione editoriale. Dalla cosiddetta “guerra al brigantaggio” fino ai giorni nostri Angelo Del Boca esamina gli episodi più efferati, gli eccidi più barbari spesso giustificati proprio con la barbarie degli altri, fossero popoli africani visti come “subumani”o sloveni giudicati un gradino poco superiore. Il discorso di Del Boca si snoda attraverso il tempo e non mi sembra qui il caso di ripercorrerne tutte le tappe, vorrei sottolineare però alcuni comportamenti che mi hanno colpito in modo particolare: prima di tutto la tendenza a creare universi concentrazionari ed utilizzare la deportazione di massa per risolvere i problemi generati dall’occupazione. Dopo il primo sbarco in Eritrea, di fronte all’opposizione della popolazione locale, l’isola di Nocra fu trasformata in un campo di punizione, un penitenziario orrendo, tanto che Del Boca parla di “inferno”, questo penitenziario funzionò dal 1887 al 1941. Durante la prima guerra in Libia rivoltosi o semplici civili furono deportati in Italia, in seguito, più precisamente tra il luglio e il dicembre 1930, per debellare la resistenza di Omar al Mukhtàr, si scelse di deportare l’intera popolazione della Cirenaica convogliandola in campi di concentramento che si trovavano nel Sud bengasino e nella Sirtica. Allo stesso modo l’occupa-

zione della Slovenia, che nei propositi propria “diversità”. di Galeazzo Ciano doveva essere “molto Nel luglio 1900 l’Italia partecipa alla liberale” si trasformò in “un’operazione spedizione contro i Boxer, il contingendi autentica bonifica etnica” (pag. 235) te internazionale si macchia di inutili con l’utilizzo di una serie di campi di massacri, saccheggi, stragi cui parteconcentramento tra cui il più imporcipa attivamente anche il contingente tante era quello di Arbe (isola di Rab). italiano, eppure Mario Valli scrive “Non Attaccare la popolazione civile è certapossiamo fare a meno di affermare che mente il modo più rapido ed efficace di il soldato italiano, di carattere mite, ribloccare qualsiasi forma di ribellione, fugge, in massima, da atti di violenza […] ma non si può definirlo un atteggiamen- È in lui si potrebbe dire una rozza bontà to troppo buono, un modo di portare d’animo e, se pure è capace di atti villani, la civiltà. Allo stesso modo colpisce per deficienza d’educazione, difficilmenl’esplosione di violenza collettiva che te giunge ad eccessi di crudeltà.”(pag. caratterizza alcuni momenti partico99) Il mito si afferma subito tanto che larmente critici, per esempio nel 1937 Salgari nel 1903 in uno dei suoi raccondopo l’attentato alla vita del marescialti, “Lo schiavo della Somalia”, narra la lo Graziani, viceré d’Etiopia migliaia di storia di un “moretto” che, salvato da italiani, riversatisi nelle strade davano marinai italiani, a sua volta indica loro inizio ad una furiosa caccia all’uomo la via della salvezza “andare con taliani abbattendo chiunque incontrassero: per miei benefattori…Taliani essere buoni” tre giorni Addis Abeba fu devastata da (pag. 50) questa furia. Rimane incerto il bilancio Interessante notare che questo è l’unidei morti: da un minimo di 1400 a un co racconto di Salgari che abbia avuto massimo di 30.000 a seconda delle come sottotitolo “una storia vera “ . fonti. Nessuno ha mai pagato per questi E così in ogni occasione vediamo delitti, nessuno è stato arrestato o riapparire questo stereotipo, dopo processato e questa impunità è un’altra le campagne libiche o l’aggressione costante che colpisce e meriterebbe all’Etiopia o la guerra in Slovenia. La uno studio particolare. Resistenza è l’unico momento storico Come appare evidente non si tratta di in cui scompaiono gli “Italiani, brava un vero e proprio libro di storia anche gente”, così commenta Del Boca: se i singoli episodi sono ricostruiti in “Ci siamo naturalmente chiesti il perché. modo scientifico e documentato, ma è Forse la nostra non è la sola valida rispoun libro a tesi che vuole dimostrare l’in- sta, ma pensiamo che possa avvicinarsi fondatezza di una convinzione diffusa. alla verità. I venti mesi che vanno dall’8 Forse sarebbe stato interessante parlasettembre 1943 al 25 aprile 1945 hanno re di più del mito in sé documentandolo visto tanta violenza, tanto sangue, tanta nei vari momenti storici, mentre Del esibizione pubblica di corpi martoriati, Boca tende a dare questo aspetto per che a nessuno poteva venite in mente di scontato e ne parla in modo marginale, rispolverare un mito già di per sé incontuttavia è possibile ricostruirne il filo sistente e che comunque la realtà brutale rosso attraverso i vari momenti storici. di ogni giorno non avrebbe potuto che Lo stereotipo nasce infatti alla fine del vanificare”. (pag.286) Il confronto era 1800, più precisamente agli esordi troppo duro e serrato per lasciare spadella politica coloniale italiana, quando zio all’ipocrisia e all’autoassoluzione. nel 1885, sotto il governo Depretis, una In ogni modo gli “italiani brava gente” spedizione italiana tenta di invadere riappaiono subito dopo e purtroppo ci la fascia costiera etiopica tra Massaua accompagnano ancor oggi. e Assab. Pasquale Stanislao Mancini, Naturalmente anche gli altri popoli allora ministro degli esteri, dichiara creano miti, si raccontano favole autoche l’Italia “non poteva continuare a assolutorie, basta pensare al “fardello rimanere spettatrice inerte di fronte dell’uomo bianco” tanto celebrato da alla barbarie tra la civiltà e la barbarie” Kipling o alla convinzione statunitense (pag.49). di intervenire sempre per la demoL’Italia quindi inaugura la propria crazia e la libertà. Tutto questo non politica coloniale ricordando il proprio impedisce però che sia dovere di ogni passato e la funzione civilizzatrice di popolo affrontare e demistificare le Roma e sottolineando fin dall’inizio la proprie favole ed autogiustificazioni.

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Colonialismo italiano, post- colonialismo: il presente e i suoi passati – dossier

RIVOLTE ARABE Perché un articolo sulla Libia del dopo Gheddafi in un Dossier dedicato al colonialismo italiano? Il 2011 è stato contrassegnato da un evento “imprevedibile”, la rivolta che dalla Tunisia si è rapidamente propagata all’insieme del mondo arabo, compresa la Libia la cui storia è legata alla nostra. Le rivendicazioni sono state e sono dappertutto le stesse: libertà, giustizia sociale, democrazia. Certo, la strada intrapresa resta ancora in salita, piena di incognite, ma –fanno notare gli analisti– tornare indietro è impossibile, si sono aperti

scenari nuovi nel Mediterraneo, tutta la geopolitica della regione risulta modificata. Tra il XIX secolo e l’inizio del XX, Francia, Italia, Regno Unito hanno esteso il loro dominio sul Maghreb e il Vicino Oriente instaurando colonie e protettorati, la presenza italiana in Libia si è protratta dal 1911 al 1943. In seguito le potenze occidentali, che predicano la democrazia agli altri, per anni hanno sostenuto regimi corrotti e violenti facendo prevalere i propri interessi materiali sugli ideali democratici; l’Unione europea (e l’Italia) invece di tentare un salto di qualità per la propria politica

estera, è sembrata più preoccupata di creare una barriera per arginare le ondate migratorie. L’Italia, distesa al centro del Mediterraneo la cui storia è ricca di guerre e tragedie ma anche di incontri e di scambi, potrebbe essere un ponte tra Europa e Nord Africa, per un rapporto finalmente paritario. Occorrerebbe –sostiene Calchi Novati– che l’Europa ripensasse un modello di società continentale in grado di convivere con un modello di società araba o africana superando tutti i condizionamenti che determinano la diseguaglianza.

La Libia del dopo Gheddafi tra ricostruzione e transizione politica di giovanni fercioni*

Research assistant del Programma “Mediterraneo” dell’Ispi

La morte di Gheddafi e la caduta del suo regime hanno rappresentato per molti, tanto in Libia quanto in occidente, il punto di partenza per una nuova fase storica e quindi l’occasione per la democratizzazione dello stato libico in conformità con i valori di emancipazione popolare che hanno motivato le rivolte della “primavera araba”. Tuttavia, come dimostrato dall’incerta esperienza egiziana, la deposizione del dittatore non è che il primo passo di un lungo e incerto processo di trasformazione politica, istituzionale e, in un certo senso, socio-culturale. Su quest’ultimo aspetto, i paesi nordafricani, e in particolare la Libia, si ritrovano a confrontarsi con la pesante eredità lasciatagli da decenni di autoritarismo, che ha profondamente segnato gli equilibri sociali, influenzando fortemente le culture politiche nazionali. La Libia post-autoritaria si ritrova quindi ostaggio di una forte frammentazione sociale, di fazionalismi, d’identità tradizionali (claniche, regionali e tribali) e da una fondamentale debolezza dello stato. Allo stesso tempo, il paese si appresta ad affrontare un

delicato processo di trasformazione senza potersi appoggiare a delle solide istituzioni che garantiscano la continuità delle basilari funzioni statali. A tutto questo si aggiungono le difficoltà create dalla guerra civile, che oltre a causare sostanziosi danni materiali ha acuito le rivalità interne.

L’eredità di Gheddafi e divisioni settarie

Il periodo d’instabilità sociale e politica in Libia non è finito con la fine delle ostilità. Al contrario, la disgregazione del vecchio regime ha reso evidenti le contraddizioni interne al sistema di governance di Gheddafi, lasciando un vuoto politico-istituzionale che l’attuale leadership politica fatica a colmare. Sia il governo ad interim sia il Consiglio Nazionale Transitorio (CNT) hanno serie difficoltà nel imporre la propria autorità nel paese. La debolezza dell’identità nazionale a scapito d’identità tribali e claniche è alla base dell’instabilità sociale del paese, ed è una conseguenza della particolare forma di governo creata da Gheddafi. In teoria, il regime libico, battezzato dallo

stesso Gheddafi Jamahirya, o “governo delle masse”, voleva essere una forma di governo alternativa sia alla democrazia occidentale sia al socialismo con la creazione di una sorta di democrazia diretta in cui il popolo si esprimeva tramite assemblee popolari senza la mediazione di partiti politici o d’istituzioni rappresentative. In realtà, il potere politico rimaneva saldamente nelle mani di Gheddafi, che si era assunto il controllo della ricchezza petrolifera del paese. La Libia è, infatti, un “rentier state”, cioè, uno stato che dipende finanziariamente dagli introiti delle rendite garantite dall’esportazione di materie prime - in questo caso il petrolio – piuttosto che dalla tassazione. In un rentier state il patto sociale tra popolazione e potere politico è ribaltato rispetto alle democrazie, che si fondano sul principio liberale “no taxation without representation”. Controllando le rendite petrolifere Gheddafi era in grado di mantenere il potere ridistribuendo la ricchezza nazionale tra la popolazione nella forma di sussidi, servizi e finanziamenti, in cambio della acquiescenza verso la sua


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gestione del potere. Inoltre, il leader ha attentamente evitato che si potessero formare centri di potere alternativi che minacciassero il suo ruolo di gestore esclusivo delle risorse nazionali. Infatti, in quarant’anni di regime, Gheddafi ha sistematicamente evitato di costituire istituzioni statali in grado di frapporsi tra il suo potere e la popolazione. Al contrario, il suo potere si basava su rapporti “informali”, basati principalmente su legami tribali clanici, al di fuori delle istituzioni, creando un delicato equilibrio tra le varie comunità, utilizzando la rendita petrolifera per premiare la fedeltà e, allo stesso tempo escludere i dissidenti dalle risorse nazionali. Da una parte, questo ha ostacolato la formazione di un’identità nazionale forte, in quanto l’affiliazione tribale che regolava in parte l’accesso o meno alle risorse nazionali e quindi lo status sociale dei cittadini, manteneva una forte influenza nella vita quotidiana. Allo stesso tempo, questa strategia, basata di fatto sul divide et impera, ha alimentato le rivalità e il sospetto tra le comunità libiche, che sono la causa principale dell’instabilità politica attuale. In questo contesto, la mancanza di solide istituzioni in grado di mediare i conflitti sociali non fa altro che alimentare i sospetti e le ostilità reciproci. Le rivalità regionali e claniche hanno creato divisioni e rivalità tra le forze ribelli già prima della fine del conflitto. I ribelli libici si sono organizzati in comitati locali autonomi nelle città e nei villaggi, spesso assumendosi la responsabilità politico-amministrative delle loro comunità, tentando di riempire il vuoto lasciato dalla dissoluzione del regime. Questi comitati hanno spesso tentato di mantenere in funzione alcuni servizi essenziali, e una parvenza di ordine pubblico nel caos causato dai combattimenti. Tuttavia, questi comitati hanno spesso guardato con sospetto e diffidenza sia il CNT sia il governo transitorio, e ne hanno spesso contestato l’autorità. In parte questo è una conseguenza dell’inefficienza del governo centrale nel garantire finanziamenti per le amministrazioni locali e sostegno agli insorti che, a volte, ha portato le autorità locali ad

accusare il CNT di sottrarre deliberatamente i fondi. Allo stesso tempo, in particolare le comunità della Tripolitania, non hanno mai visto di buon occhio il CNT a causa della predominanza di esponenti della Libia orientale (la Cirenaica). Per esempio, in settembre durante la formazione di un nuovo organo esecutivo transitorio, quando l’allora capo dell’organo esecutivo del CNT Mahmoud Jibril è stato violentemente accusato dai ribelli tripolitani di aver favorito le candidature di esponenti della comunità Warfalla a scapito dei rappresentati delle regioni occidentali. Più recentemente, il 21 gennaio, una folla di alcune migliaia di persone si è riunita per protestare davanti ad un edificio governativo a Bengasi dove si stava tenendo una riunione del CNT. I manifestanti, che protestavano contro quella che percepivano come la progressiva marginalizzazione di Bengasi e delle comunità della Cirenaica a favore dei tripolitani, hanno lanciato molotov e granate contro l’edificio. Questi episodi sono un esempio delle difficoltà incontrate dalle autorità nel giostrarsi tra le rivalità tribali e settarie del paese.

Illustrazione di Enrico Bertuccioli, licenza Creative Commons by-nc-nd 3.0

Il collasso del potere centrale

Il frazionamento della società libica si era già manifestato durante il conflitto con la proliferazione spontanea di gruppi di combattenti rivoluzionari tra le comunità locali e tribali. Le milizie hanno riempito il vuoto politico-istituzionale creatosi con lo sgretolamento del vecchio regime e hanno assunto sempre più spesso responsabilità di ordine pubblico, sia nelle comunità in cui sono sorte che in quelle che hanno conquistato durante il conflitto. In alcuni casi, i combattenti irregolari si sono coordinati con consigli provvisori locali formatisi autonomamente da esponenti della società civile e hanno contribuito ad arginare il caos causato dalla diserzione delle forze di polizia. Altri gruppi, invece, si sono distinti per atti di sciacallaggio, furti e saccheggi nei villaggi “liberati”. Spesso si sono verificati scontri tra milizie tribali e tra dicembre e gennaio vi sono state numerose sparatorie nella capitale tra gruppi rivali. Nel contesto caotico che inevitabilmente segue ai conflitti civili, le rivalità settarie hanno avuto e ancora stanno avendo effetti deleteri per la sicurezza e la stabilità sociale. Molti miliziani hanno reclamato il diritto di punire individui “con le mani sporche di sangue”, cioè persone sospettate di complicità con atrocità vere o presunte commesse dalle forze lealiste. Il fenomeno ha spesso assunto la forma di una caccia alle streghe che molti osservatori locali e internazionali temono possa degenerare in conflitti settari. Anche dopo la fine delle ostilità vi sono stati casi di attacchi e esecuzioni sommarie da parte di alcune delle forze ribelli. Particolarmente vulnerabili si sono rivelati gli immigrati provenienti dall’Africa subsahariana che, a causa della loro carnagione, sono stati spesso oggetto di violenze ed esecuzioni sommarie perché scambiati per mercenari sudanesi di Gheddafi. Secondo gli osservatori internazionali, molti presunti lealisti sono tuttora tenuti in prigionia dai miliziani e sono spesso vittime di processi sommari. Al momento è impossibile reperire cifre esatte sul numero di persone imprigionate arbitrariamente dai ribelli ma, per avere un’idea, è sufficiente notare che secondo stime dell’ONU in dicembre

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gli insorti avevano in custodia 7.000 persone solo a Tripoli1. La gestione delle milizie rivoluzionarie, la loro smobilitazione, il loro disarmo ma soprattutto il ripristino dell’autorità dello stato centrale su questioni di ordine pubblico e giustizia rimane una delle questioni più urgenti per il governo ad interim. Tuttavia, i ripetuti tentativi di inglobare le milizie nell’esercito regolare e di ristabilire il controllo sul paese hanno incontrato serie difficoltà. In parte questo è dovuto alla debolezza intrinseca delle istituzioni ereditate dal vecchio regime. Tuttavia, in alcuni casi questa debolezza è stata successivamente acuita dai tentativi di auto epurazione di molti enti e ministeri, che hanno cercato autonomamente di eliminare il personale considerato troppo compromesso con il vecchio regime, causando confusione e seri problemi di efficienza. Lo stato centrale rimane quindi incapace di assicurare le sue funzioni più basilari: al momento, la polizia ha a malapena il controllo della capitale mentre la magistratura non ha ancora ripreso la propria attività, lasciando 1 “Holding Libya Together: Security Challenges after Qadhafi”, International Crisis Group Middle East/ North Africa Report N°115, 14 December 2011.

Illustrazione di Paolo Lombardi, licenza Creative Commons by-nc-nd 3.0

l’amministrazione della giustizia e il mantenimento dell’ordine nelle mani delle milizie locali. Allo stesso tempo, la debolezza dell’autorità centrale è dovuta alla scarsa legittimità popolare del CNT e del governo transitorio rispetto ai comitati locali e alle milizie. Infatti, sia le formazioni combattenti sia gli organi para-amministrativi formati dai ribelli godono di un maggior radicamento nelle comunità locali, dove risultano più familiari e degni di fiducia rispetto a un governo di tecnocrati non eletti che hanno spesso vissuto per lungo tempo in esilio. Le stesse milizie godono di una certa popolarità all’interno delle loro comunità di origine, dove sono visti come eroi e liberatori. Inoltre molti degli abusi da loro commessi si sono verificati contro gruppi “ostili”, mentre hanno spesso protetto le loro comunità da altri combattenti. Infine, la smobilitazione e reintegrazione dei miliziani nella società offre serie difficoltà oggettive difficilmente risolvibili. Già prima delle rivolte, la scarsa diversificazione economica del paese, causata dalla dipendenza dall’industria petrolifera, ha reso il mercato del lavoro libico incapace di assorbire le nuove generazioni. Infatti, le formazioni irregolari hanno reclutato principalmente dalla massa di giovani disoccupati. I danni umani e materiali causati dal conflitto hanno solamente peggiorato la situazione e ci vorranno anni di radicali riforme economiche e politiche d’investimenti perché l’offerta di lavoro possa soddisfare la domanda. I ministeri dell’interno e della difesa hanno pubblicamente dichiarato che assumeranno ciascuno 25.000 reduci, per venire incontro alle necessità degli ex-combattenti, ma ci vorrà comunque tempo prima che questa iniziativa venga portata a termine. Questo esercito di disoccupati armati sta creando seri problemi di ordine pubblico. Si è registrato negli ultimi mesi un aumento forte di crimini come ra-

pimenti e rapine commessi da ex-miliziani che faticano a reintegrarsi nella società. Il fatto che gli ex-combattenti siano spessa armati fino ai denti, disponendo dell’armamento usato durante il conflitto, incluso lanciarazzi e armi anticarro, rende la polizia governativa assolutamente inadeguata ad arginare il fenomeno. Tuttavia, il governo ha fatto alcuni passi avanti grazie ad una maggiore collaborazione con le milizie ancora non smobilitate.

Nuovi attori politici e prospettive future

La Libia si appresta quindi ad affrontare la transizione politica in un clima estremamente volatile e incerto. Il 22 novembre, Mustafa Abdul Jalil, presidente del CNT ha nominato il governo transitorio, confermando premier Abdurrahim El-Keib, che era succeduto a Jibril il 23 ottobre. Il CNT si è pubblicamente impegnato a indire le elezioni per un’assemblea costituente entro otto mesi dalla dichiarazione di liberazione del 23 ottobre, quindi attorno alla fine di giugno del 2012. Per quanto il governo libico abbia disperatamente bisogno della legittimità concessa da un mandato popolare, non si può fare a meno di sottolineare le enormi difficoltà che l’attuale stato d’instabilità pone all’organizzazione di libere elezioni in un paese che manca quasi totalmente di esperienza democratica. Contrariamente a Egitto e Tunisia, dove la parvenza di pluralismo aveva nei suoi limiti permesso la formazione di partiti d’opposizione, per quanto deboli e politicamente innocui, la Libia rimane ancorata principalmente alle identità tradizionali come forma di organizzazione politica collettiva e non ha nessuna familiarità con la politica di partito. Per certi versi, fanno eccezione i gruppi islamisti, la cui reale forza politica rimane al momento difficile da stimare. Il termine islamista può essere semplicistico, poiché copre in realtà un ampio spettro politico. Fra i principali esponenti vi sono i Fratelli Musulmani che tradizionalmente hanno sostegno tra le classi medie educate e i professionisti. Essi sono emersi dopo decenni di clandestinità quasi contemporaneamente all’inizio delle rivolte e si stanno attualmente imponendo come gli


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attori politici più attivi e presenti nella società civile, nei comitati cittadini e nelle associazioni d’imprenditori che le finanziano. Un altro prominente gruppo d’ispirazione islamista è il “Movimento islamico libico per il cambiamento” (i cui esponenti sono comunemente conosciuti come al-muqala: “combattenti”), che ha origine da una formazione di militanti che negli anni ’80 ha combattuto in Afghanistan contro i sovietici. Dagli anni ‘90, gli al-muqala sono stati oggetto di una brutale ma efficace repressione del regime in seguito ad un loro tentativo di rovesciare Gheddafi con le armi. Secondo la commissione ONU 1267 – una delle tre commissioni delle Nazioni unite che si occupa di terrorismo - gli al-muqala avrebbero avuto stretti legami con al-Qaeda. Tuttavia, i leader del movimento, incluso il suo fondatore Abdel Hakim Belhaj, hanno ufficialmente rinunciato alla violenza nel 2009 e sono stati liberati da Gheddafi dopo un decennio di detenzione. Durante l’insurrezione, sono stati tra i primi gruppi a unirsi agli insorti ma hanno mantenuto un profilo estremamente prudente, arrivando addirittura a sottomettersi al comando del CNT. Gli al-muqala hanno cominciato a uscire allo scoperto in seguito alla conquista del bunker di Gheddafi, divenendo più attivi nei vari consigli militari e lo stesso Belhaj è divenuto in agosto responsabile del comitato militare di Tripoli. Quest’ultima mossa ha destato serie preoccupazioni tra i libici laici e gli osservatori internazionali a causa della tempistica delle circostanze che hanno preceduto la nomina. Infatti, per l’incarico era stato inizialmente designato il generale Abdel Younis, che è stato però assassinato in circostanze misteriose in luglio. Younis era una figura di spicco che per molti rappresentava una flebile speranza di riportare ordine tra le formazioni ribelli e ristabilire l’autorità centrale sulla miriade di milizie2. In Libia molti sospettano che il suo assassinio mirasse a garantire libertà d’azione alle milizie islamiste e quindi hanno visto la successiva nomina di Belhaj come un’ulteriore prova che i gruppi religiosi 2  Arturo Varvelli “Il petrolio libico tra incertezze politiche e nuova concorrenza internazionale”, ISPI Analysis No. 87, Dicembre 2011, p. 2.

intendano assumere una posizione egemonica in vista delle elezioni. Allo stesso tempo gli islamisti, nonostante siano rappresentati nel CNT, hanno spesso criticato gli organi transitori per essere di carattere eccessivamente laico nel loro complesso. Essi sostengono che le nomine siano state pensate per rassicurare i governi occidentali, in particolare i paesi coinvolti nelle operazioni militari della Nato, a scapito della rappresentanza dei valori tradizionali della società libica. Tra settembre e ottobre, il presidente Jalil, nel tentativo di arginare le divisioni, ha fatto alcune concessioni retoriche per rassicurare i gruppi religiosi, dichiarando pubblicamente che la Sharia sarebbe stata la base fondamentale della legislazione (13 settembre), e che la legge che attualmente proibisce la poligamia sarebbe stata abolita (23 ottobre)3. Queste dichiarazioni sembrano aver ottenuto scarsi risultati pratici - a parte destare nervosismo tra i partner occidentali e i liberali libici – ma ha contribuito ad un generale abbassamento dei toni. In generale, i gruppi islamisti sono rimasti particolarmente vaghi sia in termini di programmi politici sia per quanto riguarda l’assetto costituzionale cui aspirano. Alcuni indicano la Turchia e la Malaysia come possibili modelli per la Libia del dopo Gheddafi, sostenendo il ruolo dell’Islam come collante identitario e morale della società. Secondo molti laici, la vaghezza e l’apparente moderatismo celano aspirazioni politiche estremiste, mentre i religiosi si difendono sottolineando la necessità di assicurare l’unità nazionale prima di affrontare questioni politiche che potrebbero alimentare divisioni in un momento estremamente delicato. Infine è bene notare nell’immediato futuro che i legami tradizionali e i sistemi di clientele rimarranno i principali fattori di aggregazione politica e saranno determinanti nel decidere i futuri equilibri politici nella Libia del dopo Gheddafi. In questo senso, la 3  BBC News “Libya: NTC’s Jalil vows state based on ‘moderate Islam’”, 13 Settembre: www.bbc. co.uk/news/world-africa-14894264; BBC News “Libya’s new rulers declare country liberated”, 23 Ottobre: http://www.bbc.co.uk/news/worldafrica-15422262.

questione della gestione della ricchezza petrolifera è centrale in un paese che è stato abituato ad associare il potere politico con il potere economico. In un certo senso, le risorse petrolifere offrono alla Libia un vantaggio rispetto agli altri paesi nordafricani in transizione, le cui economie dipendono in larga parte da investimenti esteri, in particolare europei, e che hanno quindi seri problemi a gestire il malcontento socio-economico responsabile in larga parte delle rivolte dello scorso anno. Tuttavia, la scarsa diversificazione dell’economia libica vincola il paese ai meccanismi di potere del rentier state, che sono una minaccia intrinseca per il processo di democratizzazione. Nell’attuale stato d’instabilità sociopolitica, il paese è esposto agli opportunismi di attori nazionali e internazionali. Sarà assolutamente necessario stabilire un sistema di gestione degli introiti dell’industria petrolifera equo e trasparente in modo da evitare che le rivalità settarie e politiche si tramutino in una lotta per il controllo delle risorse nazionali che avrebbe conseguenze devastanti per la stabilità e l’integrità territoriale del paese. Paradossalmente in questo frangente l’attuale segmentazione del potere politico potrebbe avere conseguenze positive nel medio e lungo termine. In mancanza di un attore politico dominante, la necessità economica di assicurare la continuità della produzione e dell’esportazione del greggio potrebbe portare i vari attori a trovare un accordo comune. Inoltre, gli stessi comitati locali e le altre forme di autogoverno offrono le basi per la formazione di un assetto istituzionale decentralizzato, che sia più ricettivo delle identità e bisogni specifici delle comunità locali. Questo contribuirebbe a impedire un eccessivo accumulo di potere a livello centrale evitando che la Libia torni ad essere dominata da un sistema centralizzato e arbitrario di ridistribuzione della ricchezza.

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PER SAPERNE DI PIÙ Storiografia*

▪▪ Mezram K. e Varvelli A. (a cura di), Libia. Fine o rinascita di una nazione?, Donzelli, Roma, 2012 ▪▪ Bassi G., Labanca N., Sturani E., Libia.Una guerra coloniale italiana, Museo storico italiano della Guerra, Rovereto 2011 ( volume pubblicato in occasione delle due mostre sulla Libia aperte a Rovereto fino al giugno 2012) ▪▪ Calchi Novati G.P., L’Africa d’Italia. Uno storia coloniale e postcoloniale, Carocci, Roma 2011 ▪▪ Cresti F., Non desiderare la terra d’altri. La colonizzazione italiana in Libia, Carocci, Roma 2011 ▪▪ De Luna G., La repubblica del dolore: le memorie di un’Italia divisa, Feltrinelli, Milano 2011 ▪▪ Morone A.M., L’ultima colonia. Come l’Italia è tornata in Africa 1950-1960, Laterza, Roma-Bari 2011 ▪▪ Morone A.M. (a cura di), Gli italiani e l’Africa tra colonialismi e migrazioni, “Altreitalie” n. 42/2011 ▪▪ Aruffo A., Il colonialismo italiano. Da Crispi a Mussolini, Datanews, Roma, 2010 ▪▪ Alessandro Boaglio, Plotone chimico. Cronache abissine di una generazione scomoda, a cura di Giovanni Boaglio e Matteo Dominioni, Mimesis, Sesto San Giovanni 2010 ▪▪ Del Boca A. (a cura di), La storia negata. Il revisionismo e il suo uso politico, Neri Pozza, Vicenza 2009 ▪▪ Labanca N. (a cura di), Guerre vecchie, guerre nuove. Comprendere i conflitti armati contemporanei, Bruno Mondadori, Milano 2009 ▪▪ Rochat G., Le guerre italiane in Libia e in Etiopia dal 1896 al 1939, Editore Gaspari, Udine 2009 ▪▪ Bottoni R.(a cura di), L’impero fascista: Italia ed Etiopia (1935-1941), Il Mulino, Bologna 2008 (Atti convegno) ▪▪ Del Boca A., Le guerre coloniali del fascismo, Laterza, Roma-Bari, 2008 ▪▪ Del Boca A., Italiani, brava gente?, Neri Pozza, Vicenza, 2008 ▪▪ Del Boca A., A un passo dalla forca. Atrocità e infamie dell’occupazione italiana della Libia nelle memorie del patriota Mohamed Fekini, Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2008 ▪▪ Dominioni M., Lo sfascio dell’impero. Gli italiani in Etiopia 1936-1941, Laterza, Roma-Bari, 2008. ▪▪ Bertella Farnetti P., Sognando l’impero. ModenaAddis Abeba (1935-1941), Mimesis, Sesto San Giovanni, 2007 ▪▪ Labanca N., Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna, 2007 (con una ricca bibliografia ragionata di 70 pp.)

▪▪ Nani M., Ai confini della nazione. Stampa e razzis-mo nell’Italia di fine Ottocento, Carocci, Roma, 2007 ▪▪ Rampazzi M.; Tota A., La memoria pubblica. Trauma culturale, nuovi confini e identità nazionali, UTET Università, Torino 2007 ▪▪ Stefani G., Colonia per maschi. Italiani in Africa Orientale: una storia di genere, Ombre corte, Verona, 2007 ▪▪ Traverso E., Il passato: istruzioni per l’uso. Storia, memoria, politica, Ombre corte, Verona, 2006 ▪▪ Labanca N., Una guerra per l’impero. Memorie della campagna di Etiopia, 1935-36, Il Mulino, Bologna, 2005 ▪▪ Rochat G., Le guerre italiane 1935-1943. Dall’Impero d’Etiopia alla disfatta, Einaudi, Torino, 2005 ▪▪ Salerno E., Genocidio in Libia. Le atrocità nascoste dell’avventura coloniale italiana, Manifestolibri, Roma, 2005 ▪▪ Volterra A., Sudditi coloniali. Ascari eritrei 19351941, Franco Angeli, Milano, 2005 ▪▪ Labanca N., Venuta P., Bibliografia della Libia coloniale (1911-2000), Olschki, Firenze, 2004 ▪▪ Lenci M., All’inferno e ritorno. Storie di deportati tra Italia ed Eritrea in epoca coloniale, BFS edizioni,Pisa,2004 ▪▪ Goglia L., Grassi F., Il colonialismo italiano da Adua all’impero, Laterza, Roma-Bari, 2003 ▪▪ Labanca N. (a cura di), La Libia nei manuali scolastici italiani (1911-2001), Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente, Roma, 2003 ▪▪ Del Boca A., L’ Africa nella coscienza degli italiani. Miti, memorie, errori e sconfitte, Mondadori, Milano, 2002 ▪▪ Triulzi A. (a cura di), Dopo la violenza, costruzioni di memoria nel mondo contemporaneo, L’ancora del mediterraneo, Napoli, 2002 ▪▪ Labanca N., Posti al sole. Diari e memorie di vita e di lavoro dalle colonie d’Africa, Museo storico italiano della guerra, Rovereto, 2001 ▪▪ Castelli E., Laurenzi D., Permanenze e metamorfosi dell’immaginario coloniale in Italia, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2000 ▪▪ Sorgoni B., Parole e corpi. Antropologia, discorso giuridico e politiche sessuali interrazziali nella colonia Eritrea (1890-1941), Liguori, Napoli 1998 ▪▪ Del Boca A., Gli italiani in Libia. Comprende: 1 Tripoli bel suol d’amore, 1860-1922, Roma-Bari, Laterza, 1997; 2 Dal fascismo a Gheddafi, RomaBari, Laterza, 1997 ▪▪ Del Boca A., Gli italiani in Africa orientale. Com-

prende: 1 Dall’unità alla marcia su Roma, Mondadori 1999; 2 La conquista dell’impero, Mondadori 1999; 3 La caduta dell’impero, Mondadori 1996, XI; 4 Nostalgia delle colonie, Oscar Mondadori, 1996 ▪▪ Del Boca A., Una sconfitta dell’intelligenza, Italia e Somalia, Laterza, Roma-Bari 1993 ▪▪ Fanon F., Pelle nera maschere bianche. Il nero e l’altro, Tropea, Milano,1996 ▪▪ Memmi A., Ritratto del colonizzato e del colonizzatore, Liguori, Napoli, 1983

Letteratura*

Testi generali

▪▪ Mauceri M.C., Negro M. G., Nuovo Immaginario Italiano. Italiani e stranieri a confronto nella letteratura italiana contemporanea, Sinnos, Roma 2009 ▪▪ Comberiati D., La quarta sponda. Scrittrici in viaggio dall’Africa coloniale all’Italia di oggi, Edizioni Pigreco, Roma, 2007 ▪▪ Gnisci A. (a cura di), Nuovo Planetario Italiano. Geografia e antologia della letteratura della migrazione in Italia e in Europa, Città Aperta Edizioni, Troina (En) 2006, ▪▪ Ricci L., La lingua dell’impero. Comunicazione, letteratura e propaganda nell’età del colonialismo italiano, Carocci, Roma, 2005 ▪▪ Pagliara M., Il romanzo coloniale. Tra imperialismo e rimorso, Laterza, Roma-Bari, 2001 ▪▪ Tommasello G., La letteratura coloniale italiana dalle avanguardie al fascismo, Sellerio, Palermo, 1984

Fumetto

▪▪ Manfredi G., Volto nascosto, 14 volumetti, Sergio Bonelli editore, 2007-2008

Un libro a parte

▪▪ Knud Holmboe, Incontro nel deserto, Longanesi, Milano 2005 (un danese convertito all’Islam attraversa nel 1930 il Nord Africa scoprendo il vero volto del colonialismo italiano)

Narrativa*

▪▪ Abate A., Ultima estate in suol d’amore, Neri Pozza, Vicenza 2011 ▪▪ Aden Sheikh M., La Somalia non è un’isola dei Caraibi.Memorie di un pastore somalo in Italia, Diabasis, Reggio Emilia, 2010 ▪▪ Mohamed Aden K., Fra-intendimenti, Nottetempo, Roma 2010


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*Storiografia, Letteratura, Narrativa: i testi sono elencati in ordine cronologico a partire da quelli più recenti

▪▪ Ramzanali Fazel S., Nuvole sull’equatore. Gli italiani dimenticati. Una storia, Nerosubianco, Cuneo 2010 ▪▪ Giardina R., Il mare dei soldati e delle spose, Bompiani, Milano 2010 ▪▪ Scego I., La mia casa è dove sono, Rizzoli, Milano 2010 ▪▪ Sibhatu R., Aulò, Canto-poesia dall’Eritrea, Sinnos, Roma, 2009 ▪▪ Matar H., Nessuno al mondo, Einaudi, Torino 2008 ▪▪ Scego I., Babilonia, Donzelli, Roma, 2008 ▪▪ Stella G. A., Carmine Pascia (che nacque buttero e morì beduino), Rizzoli, Milano, 2008 ▪▪ al-Koni I., La patria delle visioni celesti e altri racconti del deserto, e/o, Roma, 2007 ▪▪ Ali Farah C., Madre piccola, Frassinelli, Milano, 2007 ▪▪ Ghermandi G., Regina di fiori e di perle, Donzelli, Roma, 2007 ▪▪ Dell’Oro E., L’abbandono. Una storia eritrea, Einaudi, Torino, 2006 ▪▪ Flaiano E., Tempo d’uccidere, BUR, Milano, 2006 ▪▪ Spina A., I confini dell’ombra, Morcelliana, Brescia, 2006 ▪▪ Garane G., Il latte è buono, Cosmo Iannone editore, Isernia, 2005 ▪▪ Nasibù M., Memorie di una principessa etiope, Neri Pozza, Vicenza, 2005 ▪▪ Capretti L., Ghibli, Rizzoli, Milano, 2004 ▪▪ Magiar V., E venne la notte, Edizioni La Giuntina, Firenze, 2003 ▪▪ Marrocu L., Debra Libanos, Il Maestrale, Nuoro, 2002

Sitografia

▪▪ Tobino M., Il deserto della Libia, Oscar Mondadori, Milano, 2001 ▪▪ Cavagnoli F., Una pioggia bruciante, Frassinelli, Milano, 2000 ▪▪ Ramzanali Fazel S., Lontano da Mogadiscio, Datanews, Roma, 1994 ▪▪ Dell’Oro E., Asmara addio, Torino, Einaudi 1993 (Dalai Editore 1997) ▪▪ Berto G., Guerra in camicia nera, Marsilio, Vicenza, 1985

Immaginario e Razzismo

▪▪ AA.VV., Négripub, l’immagine dei Neri nella pubblicità, Somogy, Torino 1994 (poi Edizioni Gruppo Abele, Torino) ▪▪ Abruzzese A., L’intelligenza del mondo. Fondamenti di storia e teoria dell’immaginario, Meltemi, Roma 2001 ▪▪ Castelli E., (a cura di), Immagini & colonie, Centro di documentazione del museo etnografico TAMBURO PARLANTE, Montone 1998 (con CdRom) ▪▪ Barbujani G., Cheli P., Sono razzista, ma sto cercando di smettere, Roma-Bari, Laterza, 2008 ▪▪ Certini R., (a cura di), L’immaginario una “frontiera avanzata” della formazione e della scuola, Carocci, Roma 2004 ▪▪ Durand G., L’immaginario. Scienza e filosofia dell’immagine, Red edizioni, Como 1996 ▪▪ Faloppa F., Parole contro. La rappresentazione del “diverso” nella lingua italiana e nei dialetti, Garzanti, Milano, 2004, ▪▪ Gallini C., Giochi pericolosi. Frammenti di un

▪▪ Barbujani, Guido, v. sito: http://web.unife.it/progetti/genetica/Guido dove si trovano power point utilizzabili e un test di attribuzione alle razze, didatticamente utile ▪▪ Barbujani, Guido, Questioni di razza, intervento registrato in www.lepianediredona.it/lepiane/lontanopresente/lontanopresente_10.htm ▪▪ Triulzi, Alessandro, Da sudditi a migranti: la parabola postcoloniale italiana, intervento registrato in www.lepianediredona.it/lepiane/lontanopresente/lontanopresente_anno.htm ▪▪ Calchi Novati G.P., La Libia così vicina e così difficile da capire intervento registrato in www.lepianediredona.it/lepiane/lontanopresente/lontanopresente_11.htm ▪▪ Correva l’anno. Un posto al sole. L’impero fascista (racconta Del Boca). Rai 3 novembre 2010 1. www.youtube.com/watch?v=GEg1wTuUfME&NR=1 2. www.youtube.com/watch?v=ZYnG8i8THWM&NR=1 3. www.youtube.com/watch?v=g4_uzlAkikI 4. www.youtube.com/watch?v=mtcQBKxB-UA&feature=related ▪▪ La storia siamo noi, Taliani. Rai Educational 5. www.lastoriasiamonoi.rai.it/puntata.aspx?id=77 6. www.lastoriasiamonoi.rai.it/puntata.aspx?id=78 7. www.lastoriasiamonoi.rai.it/puntata.aspx?id=79

immaginario alquanto razzista, Manifestolibri, Roma 2000, pp.151 ▪▪ Kapuściński R., L’altro, Feltrinelli, Milano 2006, pp. 77 ▪▪ L’immagine dell’Altro nell’adolescenza, Unicef/ RC (Ricerca e cooperazione), Roma 2002 ▪▪ Sclavi M., Arte di ascoltare e mondi possibili. Come si esce dalle cornici di cui siamo parte, Mondadori, Milano 2003

Studi postcoloniali

▪▪ Albertazzi S.,Vecchi R., (a cura di), Abbecedario postcoloniale: dieci voci per un lessico della postcolonialità, Quodlibet, Macerata, 2001 ▪▪ Chambers I., Paesaggi migratori. Cultura e identità nell’epoca poscoloniale, Meltemi, Roma, 2003 ▪▪ De Robertis R., Fuori centro. Studi postcoloniali nella letteratura italiana, Aracne, Roma, 2010 ▪▪ Gnisci A.,(a cura di), Letteratura comparata, Bruno Mondadori, Milano, 2002, in particolare cap. IX. Multiculturalismo, studi postcoloniali e decolonizzazione e cap. X. Femminismo e “gender studies” ▪▪ Loomba A., Colonialismo/Postcolonialismo, Meltemi, Roma, 2006 ▪▪ Mellino M., La critica postcoloniale, Roma, Meltemi, 2005. ▪▪ Mezzadra S., La condizione postcoloniale, Verona, Ombre corte, 2008. ▪▪ Young R. J., Introduzione al postcolonialismo, Meltemi, Toma, 2005

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PAROLE, MUSICHE, IMMAGINI

a cura di Giulio Sensi

Il grande gioco della fame Andrea Baranes Altreconomia, 2011 La fame è un gioco per niente divertente. Il libro di Andrea Baranes -che si occupa di campagne su istituzioni finanziarie private per la Campagna per la Riforma della Banca Mondiale- è ironico e provocatorio. Il contesto è quello del mercato globale, i protagonisti personaggi oscuri che si giocano a dadi la sorte di milioni di persone. Un libello chiaro ed essenziale, utile sia a chi si avvicina al tema per la prima volta sia a chi vuole trovare nuovi linguaggi e strumenti per lavorarci sopra, affrontando questioni spesso complesse con la dovuta semplicità. Dalla crisi dei subprime del 2007 e le sue conseguenze sui mercati finanziari e sulla pelle delle persone, Baranes racconta abilmente quali sono stati i passaggi che hanno portato il cibo ad essere sempre più una merce su cui fare profitti molto più sicuri di tanti altri prodotti finanziari diventati poco affidabili e spesso meno redditizi. Fra i massimi protagonisti lo “speculatore”, il

ruolo più divertente, quello che muove i fili a pancia e portafoglio pieno. Il terreno di gioco è tutto il mondo, soprattutto quella parte di “sud” sempre più appetibile per la fertilità delle proprio terre. Si scopre così perchè il mercato del cibo è così importante per chi vuole speculare, perchè il cibo stesso è nelle mani di pochi, quali sono gli elementi che concorrono alla formazione del prezzo, quali sono gli effetti della diminuzione delle scorte. A divertirsi meno sono invece i piccoli contadini, quelli che soffrono la perdita sempre più drammatica della propria sovranità alimentare. I prezzi del cibo vengono decisi nelle borse merci e influenzati dalla finanza internazionale e dai “commodity index funds”, provocando effetti catastrofici in milioni e milioni di poveri. Ad aggravare il quadro le quotazioni fluttuanti del dollaro e del petrolio a cui sono legati, per il mercato e per l’utilizzo di materie prime, le sorti delle coltivazioni, in particolare quelle intensive e orientate all’esportazione. Ma speculazioni fatte bene hanno bisogno di sofisticati prodotti che solo la finanza può fornire: ecco che un modo, piuttosto noioso in verità, di guadagnare è l’acquisto e la vendita di materie prima agricole e titoli azionari di imprese coinvolte nella produzione e distribuzione del cibo. Più divertente il land grabbing, l’accaparramento di terre fertili nel sud del mondo in cambio di pochi spiccioli. Se si vuole essere ancora più sottili possiamo invece affidarci ai derivati: contratti finanziari il cui valore è basato o deriva da quello di un qualsiasi altro titolo o bene “sottostante” che può essere materiale, finanziario, valuta o un altro prodotto derivato; oppure un “future”, scommessa sul valore futuro di una data quantità di prodotto. Il meccanismo della finanza spiegato da Baranes fornisce utili informazioni anche a chi non è esperto di tali temi. Con la solita ironia, l’autore poi ricostruisce gli “obiettivi del gioco”, sempre legati al profitto che è possibile fare con le materie prime agricole. Si passa poi ai personaggi: dai perfidi “hedge funds” alle potenti banche, dalle grandi imprese agroalimentari ai risparmiatori inconsapevoli i quali alimentano in maniera

spensierata il grande gioco della fame con i loro soldi. Baranes passa poi a chiarire alcuni concetti base: perchè il mercato del cibo è ideale per chi vuole speculare che ruolo hanno i mercati globali e quelli locali, quali gli effetti della diminuzione delle scorte, in che modo, pur aumentando i prezzi, i contadini si impoveriscono. Con costanti riferimenti a ciò che è accaduto negli ultimi anni, Baranes approfondisce il ruolo di ciascun giocatore, anche tramite alcuni esempi concreti come il mercato del riso, alimento base nella dieta di molti paesi insieme al grano. Le fluttuazioni dei loro prezzi sono strettamente collegate: come ha spiegato la Fao, lo shock della domanda di riso è stato in gran parte determinato dalla necessità di bilanciare la mancanza di grano disponibile per i consumatori. Ma questo grande gioco, che abbiamo ripercorso per sommi capi, ha anche dei “guastafeste”: arrivano gli attori “scomodi”, i movimenti che in tutto il mondo da molti anni lottano e operano per affermare e costruire la propria sovranità alimentare. Le loro proposte, che il lettore di Strumenti ha avuto modo di incontrare nei numeri precedenti, vanno nella direzione opposta: indebolire i meccanismi della speculazione e rafforzare la capacità dei piccoli agricoltori di tutto il mondo di garantire la propria sussistenza e vivere del proprio lavoro. Una sezione finale affronta alcuni aspetti più tecnici e specialistici utili all’approfondimento. Conclude il testo un ottimo quiz che potrebbe essere utilizzato in qualsiasi percorso formativo per testare l’apprendimento delle regole del grande gioco della fame: conoscerle per combatterle. Reperibile nelle botteghe del commercio equo e sul sito di Altreconomia


Strumenticres n.58 – febbraio 2012 a cura di elisabetta assorbi

Cortissima storia d'Italia 1860/2010: 150 anni gianguido Palumbo Libro + Dvd, Ediesse, 2011

Si tratta di un progetto multimediale che propone una sintesi stringatissima audiovideo-testuale della storia unitaria italiana, dieci capitoli che l’Autore del testo scritto, Palumbo, ha voluto esporre come un canta/conta storie, ad usum migrantium. Convinto che per legge nei prossimi anni aumenteranno i corsi di informazione civica per i “nuovi italiani”, ha fornito un libretto di agile lettura che, a parere di chi scrive, risulta forse un po’ difficile, perché in molte parti presuppone alcune conoscenze culturali, che la possibile utenza del testo non possiede, conoscenze di cultura generale proprie di chi vive o è nato in Italia. Mi spiego meglio: accanto a dati storicoletterari inconfutabili, ben raccontati e precisi, ci sono affermazioni non spiegate ed oscure per lettori stranieri. Ad esempio, relativamente al periodo 1900/1922 (pag. 13), corsivo mio: “Il futurismo lanciato da Marinetti con il manifesto del 1909 influenza, non solo in Italia, tutte le arti di quegli anni, proponendo un secco rifiuto del romanticismo e l’esaltazione della modernità industriale basata sulla forza (…), sul valore del rumore, sulla sintesi poetica estrema”. Nulla viene spiegato, perché si passa subito oltre, parlando di Pirandello ed altri autori… pur usando un linguaggio semplice. Nel terzo capitolo, “dal ’22 al ’33 “, dopo un excursus sulla dittatura fascista egregiamente svolto, comincio a notare che la mancanza di didascalia alle foto (basterebbe il nome di chi è rappresentato) diviene una vera pecca: le immagini anche tragiche dei corpi accatastati nei campi di sterminio nazisti meriterebbero una piccola spiegazione, non fosse altro che per l’orrore che mostrano, tanto quanto sarebbe utile, per capire il testo, sapere i nomi dei “grandi” a Yalta. Viene un sussulto per la mancanza di didascalie a pagina 48, capitolo 9: le foto accostate di Riina, dei giudici Falcone e Borsellino e della strage di via D’Amelio (che sembra un incidente stradale incomprensibile) credo siano un rompicapo per il lettore straniero, anche perché resta oscuro il contesto. Credo che la comprensibilità e la comprensione “da parte del maggior numero di persone di ogni età e conoscenza minima della lingua”, auspicata nella quarta di copertina, non sia sufficiente per affermare che questo testo sia utile agli stranieri neo arrivati. La decifrazione/comprensione non è assimilabile alla formazione culturale cui vuol far accedere il lavoro in questione, SE

rimane priva di riferimenti precisi, seppur sintetici, e di spiegazioni puntuali. In appendice al testo della Cortissima Storia si trovano dati statistici interessanti, risultanti dal Censimento non però del 2011, come sembra, ma ovviamente quelli raccolti nella consultazione precedente. Inoltre è stata stampata, senza commenti, la Costituzione nella formulazione del 1947, senza aggiornamenti. Il CD che è parte integrante del cofanetto è lo strumento forse più utilizzabile, in quanto si presta ad una fruizione semplice ed usa un linguaggio adatto e già ampiamente sperimentato dai giovani “nativi digitali” anche stranieri. Talvolta la comprensione del testo letto, che come si può verificare è lo stesso del libro, è in parte penalizzata dalla velocità di scorrimento delle immagini. Ad esempio il capitolo del decennio comprendente il Sessantotto è forse davvero troppo veloce, anche a parere di chi vorrebbe veder meglio le immagini d’epoca, che sono scandite, nel video, dall’alternarsi di dischi di vinile sui quali sono impresse le fotografie, vertiginosamente cambiate come i dischi, appunto, sul piatto di un giradischi. Sicuramente i griot senegalesi e i cantanti popolari citati nell’introduzione dall’Autore (pag. 5), come coloro che validamente hanno conservato vive le tradizioni, (e Palumbo stesso vuol fare un racconto “popolare”) ci parlerebbero delle vicende dell’Italia unita in modo sì cortissimo, ma più tranquillo e pacatamente comprensibile.

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Fotogrammi migranti di Laura Morini

Già da qualche anno le storie di migrazione sono scelte da molti autori per rappresentare con diversi registri, dal tragico al comico, problemi individuali e collettivi che segnano quotidianamente il tempo presente. Proprio in questi ultimi mesi, per una felice coincidenza, sono comparsi sui nostri schermi tre film interessanti e originali, che escono dalla serialità della produzione cinematografica e si impongono allo spettatore per l’efficacia comunicativa delle scelte stilistiche strettamente connesse con la realtà che intendono rappresentare. Si tratta di “Terra ferma” di Crialese, “Io sono Li” di Andrea Segre e “Miracolo a Le Havre” di Aki Kaurismaki. Tre film molto diversi, ma accomunati da un forte impegno nella ricerca di un cinema “vero” , in cui si abbandonano sia i toni della “denuncia”, (a volte semplificatori), sia quelli dell’amabile commedia di costume. Con scelte stilistiche assai diverse i tre registi riescono a rappresentare la complessità dei fenomeni che ci troviamo a vivere, e fanno della migrazione un tema centrale di riflessione sulla base del quale capire anzitutto noi stessi, valutare ciò che abbiamo in comune con chi arriva da esule in un paese ignoto, riflettere su vecchi e nuovi stili di vita, sui cambiamenti in corso nella nostra società, sulle scelte che facciamo o che siamo indotti a compiere e di cui non vorremmo assumerci la responsabilità. Vedere questi film è un’occasione per uscire dal proprio contesto di esperienza quotidiana e partecipare, anche ingenuamente, ad altre vite, a storie che ci sfiorano appena ma che ci impongono uno sguardo più attento su noi e sugli altri, alla ricerca di un criterio per definire il nostro ordine mentale e orientare i nostri comportamenti.

Terra ferma Emanuele Crialese Drammatico durata 88' Italia-Francia 2011 In Terra ferma Crialese cita, fin dal titolo, la memorabile stagione del neorealismo italiano. Racconta, dal punto di vista degli abitanti di una piccola isola (Lampedusa?), le vicende di un gruppo di africani approdati fortunosamente sulle nostre coste. L’assunzione del punto di vista degli isolani è resa visivamente attraverso i movimenti di camera dal basso verso l’alto che inquadrano ad esempio la nave traghetto proprio nel momento dell’approdo, quando “scarica” sul molo merci e turisti. Anche i tentativi dei profughi di raggiungere la costa sono ripresi dalla spiaggia, dove solo alcuni riescono ad approdare a nuoto. Il mare deposita sulla sabbia indumenti abbandonati, resti di imbarcazioni, tracce che vengono cancellate prima dell’arrivo dei turisti. La storia procede individuando diverse tipologie di personaggi: chi rimane attaccato alla propria esperienza e ai valori tradizionali, chi è in cerca di un cambiamento esistenziale, chi si adatta rapidamente ai mutamenti traendone profitto economico. I profughi, approdati sull’isola, sono dolorosamente sradicati dalla loro terra, a rischio della vita, ma anche la madre di Filippo, giovane vedova, spera di lasciare Lampedusa per ricostruire altrove una vita migliore per sé e per il figlio. Il suo progetto è intralciato dall’arrivo di una donna africana, prossima al parto, fortunosamente approdata e soccorsa dall’anziano suocero che era uscito in barca con il nipote. Il vecchio pescatore rispetta la legge del mare che impone di portare a bordo chiunque si trovi in difficoltà. Incorre in questo modo nelle sanzioni della guardia costiera che gli sequestra il peschereccio. Filippo è combattuto: collabora con la madre che, dapprima a malincuore, aiuta la donna a partorire, vede la commozione delle due donne che imparano a capirsi e a volersi bene. È diviso fra i valori a cui il nonno lo ha educato e il modello di comportamento “moderno” e utilitarista dello zio. Alla fine anche lui farà d’impulso la sua scelta drammatica e avventurosa. Questa volta il regista riprende dall’alto la piccola imbarcazione che il ragazzo cerca di guidare verso la terra ferma con il suo carico di “clandestini”, sfidando il mare in tempesta, le leggi dello stato e la prudenza. Il finale rimane sospeso, lasciando allo spettatore la responsabilità di elaborare le immagini e riflettere sulle storie e i problemi che il regista ha rappresentato.


Strumenticres n.58 – febbraio 2012

Io sono Li Andrea segre Drammatico durata 100' Francia-Italia 2011 Assai diverso l’approccio di Andrea Segre, documentarista, qui alla sua “opera prima”, che sceglie di iniziare il suo racconto dopo l’arrivo di Li, giovane donna cinese, in Italia. “Io sono Li” si apre con l’immagine, in primo piano, di fiori-lumini di carta delicatamente posti a galleggiare sull’acqua. Subito pensiamo di essere in prossimità di un lago o di un fiume nel lontano oriente, ma poi la scena si allarga e vediamo l’ambiente circostante: siamo in un’ angusta stanza da bagno in cui alcune donne compiono il rituale tradizionale per celebrare “l’anniversario del poeta” mentre una voce in sottofondo ammonisce: basta con queste cose, non siamo in Cina, siamo in Italia! Li, che ama la poesia e vuole ricordare, con i gesti della tradizione, un grande poeta del suo paese, è una giovane donna immigrata, stretta nelle maglie dell’organizzazione che le ha pagato il viaggio, procurato lavoro e alloggio in Italia, in cambio tiene in pugno la sua vita e pretende il rimborso del “debito” prima di consentirle di riabbracciare suo figlio, rimasto in Cina con il nonno. Dal centro Italia, dove lavora in un laboratorio tessile, viene spedita a Chioggia, per gestire un bar recentemente acquistato dai suoi “protettori”. Ambientarsi nel nuovo lavoro non è facile: bisogna anzitutto farsi pagare i debiti contratti dai clienti abituali. Intendersi è un problema, viste le limitate competenze linguistiche di Li e l’uso stretto del dialetto da parte dei suoi interlocutori. Con scelta non banale il regista ci aiuta a capire i dialoghi con sottotitoli in italiano che traducono sia le battute in cinese che quelle in chioggiotto: un efficace esempio di intreccio fra realtà locale e globale, che è poi in sintesi il tema del film. Li è paziente e tenace; gli avventori, vecchi pescatori sul punto di andare in pensione, non sono ostili, tranne qualche balordo di periferia, disorientato come gli altri di fronte ai cambiamenti in corso, ma più ignorante e violento. Dopo le lunghe giornate di lavoro la ragazza torna al piccolo appartamento in cui divide una stanza con una connazionale che la accoglie con gentilezza silenziosa. Di questa giovane sappiamo poco: la osserviamo, in un lento piano-sequenza mentre, sola sulla spiaggia, nella luce livida dell’alba, si concentra quasi in un rituale di purificazione, eseguendo gli armoniosi movimenti del tai chi. A lei e ad un vecchio pescatore sloveno, da trent’anni al lavoro

nella laguna di Chioggia, che improvvisa poesie in veneto, Li confida la sua pena segreta: la nostalgia per il figlio lontano e l’ansioso impegno per ricongiungersi a lui, che la costringe ad accettare ogni imposizione dall’“organizzazione”. Fra lo sloveno, “poeta”, e Li nasce un’amicizia, forse un amore che conforta entrambi, permette di godere del mare e della luce della laguna nelle belle giornate… Purtroppo c’è chi fra gli avventori trova “pericolosa” questa intimità e provoca la reazione dei padroni cinesi. Li e il vecchio pescatore devono allontanarsi entrambi da Chioggia imboccando strade diverse. Il film racconta dunque una storia dura, che contiene semi di violenza, ma il regista sa trattare con delicatezza anche temi spinosi (come la prostituzione e la mafia cinese), è attento a rendere la verità umana dei suoi personaggi, aiutato dall’interpretazione intensa dei protagonisti: Zhao Tao e Rade Sherbedgie. Il contesto è arricchito dalla presenza di attori come Marco Paolini, Giuseppe Battiston, Roberto Citran che danno spessore e calore a personaggi di contorno solo apparentemente minori. Memore della sua esperienza di documentarista Segre rappresenta con particolare attenzione gli ambienti di lavoro e il paesaggio. Le belle immagini della laguna, straordinariamente fotografata in terse giornate spazzate dalla bora, ci mostrano vicinissime le montagne innevate, viste dal mare, e offrono agli spettatori un tocco di bellezza che non è semplice cornice formale, diventa piuttosto chiave di lettura per la comprensione del film. La storia di Li e degli spaesati avventori del bar si chiude con un messaggio di speranza affidato ai progetti di un bambino, alla bellezza della natura e alla poesia del quotidiano. . Proprio da queste emozioni siamo incoraggiati a conciliare inquietudini e ansie del nostro io profondo con la riflessione che ci aiuta a progettare il presente, a rafforzare la nostra capacità di radicarci e sradicarci continuamente in una realtà liquida, a stabilire relazioni positive con chi ci sembra diverso e lontano, ma ci è vicino nello sgomento che prende tutti (soprattutto i più anziani) di fronte al rapido passare del tempo, al mutare delle nostre città, alla ingovernabile provvisorietà della vita.

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Miracolo a Le Havre Aki Kaurismäki Commedia durata 93' Finlandia-FranciaGermania 2011 Fra i tre film che abbiamo scelto l’ultimo apparso nelle nostre sale è “Miracolo a Le Havre” di Aki Kaurismaki. Chi conosce il regista finlandese sa quanto scelte etiche ed estetiche siano saldamente intrecciate nel suo inconfondibile stile cinematografico. Qui si confronta, come Crialese, con la questione scottante dei profughi che arrivano in Europa. Questa volta una grande famiglia africana, guidata dall’anziano capo, si è nascosta in un container in partenza per l’Inghilterra. Il pianto di un neonato allerta la polizia portuale che, ad armi spianate, fa irruzione nel cargo. Approfittando dei primi attimi di confusione, ad un rapido cenno del nonno , un ragazzino riesce a fuggire. Mentre tutte le forze dell’ordine sono mobilitate alla sua ricerca, il ragazzo casualmente viene notato da Marcel, un “intellettuale lustrascarpe” che vive con la moglie in un povero sobborgo della città portuale. Attorno a questa coppia di “resistenti” si addensa la solidarietà di amici e conoscenti che cercano di favorire la fuga del ragazzo verso Londra, dove già vive e lavora la madre. Nulla di nuovo, storie che accadono tutti i giorni; ma questa volta a raccontare è un regista geniale e “radicale”. Kaurismaki costruisce apparentemente una fiaba a lieto fine, ben lontana dalla realtà che conosciamo dai mass media. Tutto nel suo film è nitido e minimale: dalla recitazione contenuta nei gesti e quasi “distillata” degli attori, all’aspetto spoglio ed essenziale, ma non squallido degli ambienti. I personaggi sono quasi tutti anziani che continuano a vivere emozioni da giovani, in un ambiente apparentemente immutato dagli anni ‘50. Viene da chiedersi: si tratta di una “ operazione nostalgia”, sia pure mirabilmente realizzata? In realtà l’autore ha scelto un registro “antirealistico” proprio per dare “verità” al suo film ed esprimere la sua volontà di resistere ad un mondo che non condivide. Non condivide le leggi sulla migrazione, la prevalenza dell’economico, la sovrabbondanza dei consumi, toni e forme assunte dalla comunicazione mediatica. Marcel Marx (nome certo non casuale del protagonista) ha lasciato la grande città e le sue ambizioni intellettuali per vivere felicemente con poco, a fianco di una donna coraggiosa e saggia, con vicini affettuosi e discreti che sanno essere solidali con i più deboli. Questo è il mondo che si è costruito con cura, questa è la realtà che il regista ha creato per noi spettatori: a ricordarci che, se vogliamo, forse “un altro mondo è possibile”.

Anatomia di una assenza: presunzione o miopia? di Shara Ponti

Quando si parla della Libia, raramente è per la sua cultura o la sua produzione letteraria. Argomenti all’ordine del giorno riguarda(va)no Gheddafi (prima come dittatore, ora per la sua ignominiosa morte), le sue carceri e la repressione degli oppositori politici e intellettuali, il caso Lockerbie, il petrolio, il crudele trattamento degli immigrati …. ma non un cenno di curiosità per la voce proveniente dalla letteratura libica. In parte ciò è anche dovuto al fatto che per anni gli intellettuali sono stati tenuti in uno stato di paura, di timore di possibili imprigionamenti e torture. Ma non solo. Il 2011 segnava un secolo dalla occupazione e colonizzazione italiana della Libia. Ricorrenza oscurata forse da quella sicuramente più importante dei 150 anni della unione d’Italia? Giustificazione sufficiente per l’assenza di qualsiasi riconoscimento ufficiale a quest’altra ricorrenza?


Strumenticres n.58 – febbraio 2012

Se poco si è ricordato e rielaborato sulla nostra colonizzazione recente (come se fosse legata al fascismo e con la sua caduta chirurgicamente risolta) ancor meno si è tenuto aperto un canale di ascolto alle voci di intellettuali o scrittori libici. Pochissimo è stato tradotto per il pubblico italiano. Sembrerebbe impossibile (ma così non è) che Hisham Matar, che attualmente vive in Inghilterra, sia una delle rare voci letterarie che ci porta al cuore della Libia sotto Gheddafi. Prima del 2006, quando uscì per Einaudi il suo primo romanzo Nessuno al mondo, poco si poteva leggere in italiano. Infatti proprio nel 2006 usciva, per le edizioni manifestolibri, Fuga all’inferno e altre storie di Muhammar Gheddafi (sì proprio lui, non è un’omonimia!), passato quasi sotto silenzio. Interessante invece perché è libro di narrativa ma fortemente politico, come ben illustra Valentino Parlato nella introduzione, dove giustamente riconosce come l’autore sia anche stato quello che ha contribuito a fare della Libia una nazione. Nei dodici racconti ‘il pastore del deserto’ (come spesso si autorappresenta) con arguzia e ironia si rivolge al suo popolo nella formula della favola e dell’apologo, toccando problemi di grande pregnanza non solo per la Libia: inurbamento, natura, orgoglio beduino, tecnologia e modernità, tradizione, superstizione, fanatismo, istruzione, potere, dignità della donna. La prosa è scorrevole, appassionata e talvolta poetica, molti i riferimenti al Corano che, insieme alla cultura occidentale e al nasserismo, costituisce la fondamentale ispirazione dell’autore. Nell’insieme però la prevalenza del tono apologetico ne fa un testo monotono e unidirezionale. Sicuramente più noto internazionalmente come scrittore è Ibrahim al Koni di cui in italiano sono stati tradotti tre libri: Pietra di sangue, Jouvence, 1998 (edizione araba 1990), Polvere d’oro, Ilisso, 2005 (1990 in arabo), La patria delle visioni celesti e altri racconti del deserto, edizioni e/o (assolo), 2007 (racconti in arabo tratti da varie antologie dal 1986 al 1998). Al Koni è un beduino, o Tuareg, del deserto libico. E il deserto è al centro dei suoi racconti e romanzi, che ci fanno immergere nella immensità del deserto, del profondo legame tra uomini e animali (il muflone, il cammello e la gazzella i più presenti), della solitudine, della immanenza divina, della bellezza sublime e della spietata crudeltà, della semplicità fisica degli elementi e della complessa forma di elaborazione fantastica che gli stessi

richiedono, del tempo sospeso in un eterno presente in cui talvolta irrompe violenta la storia. La storia di uomini del nord che profanano l’armonia che il nomade riesce a instaurare con l’ambiente circostante. Non di rado il riferimento è alla Libia dopo il 1911, investita dalla violenza coloniale italiana (governo Giolitti). Ciò restituisce ai libici e anche agli italiani la memoria di tempi conclusi ma da noi poco rielaborati. Ma ci fa anche dialogare con magia e realismo, con un mondo arcaico che rischia di scomparire, vuoi a causa dei confini, avulsi dalla realtà locale, tracciati dalle potenze coloniali nel corso del XIX secolo (che impongono barriere artificiali all’errare dei nomadi in tutto il Sahara), vuoi per la scoperta del petrolio (che per le popolazioni locali ha spesso significato lo sconvolgimento dell’habitat e l’estinzione di piante e animali), vuoi per il dirottamento e lo sfruttamento verso nord delle acque dalle falde fossili sotterranee (uno dei lavori pubblici avviati sotto Gheddafi dal 1984). Del prolifico scrittore libico Ibrahim al Faqih, dell’unico breve racconto tradotto in italiano dobbiamo ringraziare Isabella Camera D’Afflitto (meritoria per la conoscenza e diffusione in Italia di gran parte delle opere tradotte dall’arabo) che cura l’encomiabile antologia Scrittori arabi del novecento Bompiani, 2002 da cui si può leggere L’uomo che non aveva mai visto un fiume (1981 in arabo), dai toni surreali che risentono di un certo umorismo anglosassone. Nel 2006 per Le Nuove Muse, sempre a cura di Isabella Camera d’Afflitto, esce il romanzo Dalla Mecca a qui di al-Sadiq alNayhum, che lo pubblica in arabo nel 1970. Il protagonista, il pescatore ‘negro’ Masùd, può essere paragonato ai personaggi di al-Koni con cui condivide una solitudine quasi assoluta, l’amore per la natura (qui il mare, elemento nel quale passa gran parte della giornata, come nell’hemingwayano Il vecchio e il mare) e gli animali (tartarughe marine, ma anche gabbiani, topi…), che osserva e coi quali intrattiene verbosi rapporti. Solo con loro sa condividere fino in fondo i propri sentimenti, emozioni e pensieri, che non riesce a rivelare e a spartire (perché così è la tradizione) nemmeno con la moglie. Tra i suoi acerrimi nemici gli umani, soprattutto il feghì (lettore del Corano, figura molto rispettata dalla comunità) i marabutti e i pescatori che fan uso di bombe. Come in al-Koni, il clima di amore per la natura stride inevitabilmente con lo sfondo

spaziale e temporale che è l’insediamento del governatore italiano a Bengasi, avulso dal contesto, in indifferente contrasto con il territorio libico, i cui abitanti, come tutti i popoli della terra, anelano ad essere liberi. Diverso da al-Koni è senz’altro l’uso della lingua, che richiama fortemente lo stream of consciousness modernista. Paladino della libertà della donna (su cui scrive più di un saggio, nessuno tradotto) è anche sostenitore di una diversa coniugazione tra islam e democrazia. Scrittore poliglotta (sette lingue parlate!), deve la sua formazione intellettuale (così come tanti altri intellettuali libici della sua generazione –nasce nel 1937 a Bengasi–, per esempio Ibrahim al-Koni e Ahmad Ibrahim al-Faqih) alla influenza della cultura occidentale, data la lunga permanenza in Europa. Per Newton&Compton nel 2011 è stato tradotto in italiano Le donne del vento arabo, l’ultimo romanzo dell’unica rappresentante femminile: Razan Moghrabi. La scrittrice libica ha al suo attivo numerosi racconti e un paio di romanzi pubblicati in arabo. Selezionato per il Booker Prize arabo, questo romanzo, sotto la patinata e dorata superficie delle banalità quotidiane, dà conto della vita delle donne nel mondo arabo, ne testimonia la resistenza o la ribellione di alcune, il senso di spossessa-

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mento delle maggioranza di esse, anche di quelle più privilegiate. Si ha la sensazione di striscianti ingiunzioni e angherie in contesti familiari tradizionalisti, così come di discriminazioni per leggi non scritte di una società maschilista, cui spesso si adeguano non senza sfruttarne i vantaggi. Ma si coglie anche come alcune non si rassegnino e non smettano di desiderare e lottare per un futuro diverso, fatto di scelte personali, di dignità, di speranza di vita pienamente vissuta, di libertà e possibilità di muoversi liberamente: richieste fondamentali per le attuali giovani generazioni e tanto più per le donne del ventunesimo secolo. La trama sottolinea un duplice viaggio. Di Bahija che dal Marocco fugge -ripudiata dalla famiglia e condannata dalla comunità per aver perso la verginità prima del matrimonio- e giunge a Tripoli, dove trova impiego come domestica, in attesa di raggiungere l’Europa, la Francia, attraverso l’Italia. Di quattro donne la cui vita si incrocia con Bahija a Tripoli, tutte molto ricche e apparentemente molto vicine alle occidentali della stessa classe sociale, ma piegate a vite infelici, pur se non sembrano voler rinunciare alla speranza di un cambiamento. Tra loro intermittentemente affiora una innominata Scrittrice, io narrante che di ognuna coglie il desiderio di raccontarsi. Il viaggio di Bahija e quello nella vita delle donne di Tripoli saranno da lei documentati quando, su uno dei tanti barconi della speranza che la porta in Italia, affiderà a un registratore, donatole dalla Scrittrice, le sue memorie libiche femminili e i suoi sogni di cambiamento e nuova vita. Per quanto riguarda il modo di affrontare le tematiche e la scrittura, purtroppo più che di romanzo si può parlare di romanzo rosa. Ingenuità, presunzione letteraria, poca capacità di dare una visione non stereotipata delle ‘personagge’, spesso schiacciate in cliché alla ‘JR’ televisiva, ne fanno una lettura scontata che può destare insofferenza. Ci si chiede come mai tradurre in italiano proprio questa autrice. Non ci sono altre voci femminili più interessanti? Degna di nota è sicuramente la pubblicazione presso la casa editrice Carocci del saggio La letteratura della Libia, dall’epoca coloniale ai nostri giorni di Elvira Diana (anche traduttrice dall’arabo), nel 2008. Seguendo la linea diacronica del sottotitolo, analizza la produzione letteraria libica, esclusivamente narrativa, di racconti –genere privilegiato- e romanzi, i cui personaggi, come per molti scrittori postcoloniali, sono

spesso alla ricerca di una identità. Non si può negare che proprio la letteratura è uno specchio privilegiato di una società poiché ne riflette i mutamenti. Una società, quella libica, permeata di profonde radici arabe e berbere, i cui intellettuali hanno risentito della formazione e dei fertili scambi con l’Egitto ma anche del nomadismo e misticismo dei beduini del deserto. Da non sottovalutare anche i molti che, spesso per ragioni politiche, hanno studiato in Occidente e quindi si confrontano nei loro scritti con gli aspetti più anacronistici della cultura di origine, ma criticano anche l’occidente che dal progresso e dall’emancipazione ha spesso saputo ricavare e dare vita a società estremamente materialiste e infelici. Molto interessante e ben documentato, intelligente, di lettura coinvolgente e ricca di spunti, un altro saggio letterario, la cui prima edizione risale al 2007, ma che ha trovato la pubblicazione definitiva nel 2011 presso Caravan edizioni: La quarta sponda. Scrittrici in viaggio dall’Africa coloniale all’Italia di oggi. Autore Daniele Comberiati, giovane studioso che sa farsi incantare dalle storie personali delle autrici intervistate e dalle storie narrate nei loro libri, in bilico tra ricostruzione memorialistica e invenzione, dove la Storia è sempre ramo portante - quella della (dis)avventura del colonialismo italiano in Africa e le conseguenze sui destini individuali e collettivi. Qui dunque le romanziere sono solo donne, nate e spesso cresciute in una delle colonie, spesso da coppie miste o di origine italiana, la cui caratteristica è quella di scrivere in italiano. Per quanto riguarda la Libia la scrittrice menzionata è Luciana Capretti, la cui famiglia dopo l’avvento di Gheddafi fu tra quelle che (negli anni settanta), anche se residenti da più di una generazione in Libia, furono costrette a espatriare dalla Libia senza poter portare alcunché dei loro beni immobili, mobili o in denaro. Ghibli è l’interessante romanzo di questo periodo postcoloniale che fu doloroso per i nostri ‘coloni’, abbandonati al loro destino e rimossi dal ricordo della madrepatria1. Sempre sulla scrittura femminile, anche se non di provenienza libica, scava il denso e 1 Dello stesso periodo del romanzo di Luciana Capretti è un altro romanzo ambientato a Tripoli Un’ultima estate in suol d’amore di Alma Abate per Neri Pozza, uscito ancora più recentemente: 2011. Anche lei nata a Tripoli, è passata attraverso le vicende di espulsione dalla Libia, di cui racconta.

molto interessante La voce dell’altra. Scritture ibride tra femminismo e postcoloniale di Lidia Curti per Meltemi, 2006. L’autrice, docente di letteratura inglese contemporanea, oltre a saggi su femminismo, psicoanalisi, cinema e letteratura, ha anche curato, tra l’altro, La questione postcoloniale (insieme a Iain Chambers, 1997). Nel presente saggio esplora la scrittura delle rappresentanti di una diaspora etnica, culturale e identitaria, più o meno famose, del mondo anglofono e francofono senza trascurare il sempre più folto gruppo delle straniere che scrivono nella nostra lingua. Voci della fuga e del nomadismo, della dislocazione e della diversità della realtà postcoloniale. Voci che meritano attenzione e ascolto perché se sono espressione di spaesamento, divisione e dolore da una parte, dall’altra testimoniano nuove possibilità di lettura del senso della realtà, oltre che di paradigmi letterari.2 E sicuramente voce della fuga, della dislocazione e della diversità postcoloniale è Hisham Matar rifugiato politico e migrante anche lui, dato che vive in Inghilterra e scrive in inglese. Per Einaudi nel 2011 è uscito il suo secondo romanzo: Anatomia di una scomparsa. Come il precedente Nessuno al mondo, riesce a trasmetterci come eventi storici e personali straordinari vadano a incidere profondamene non solo nell’ordinario scorrere della vita delle persone che li subiscono, ma fin dentro la loro stessa sostanza, tanto da forgiarli e trasformare la loro vita in un continuo rivissuto dell’evento. Per questo dà al racconto una forma 2 Sul ricco fronte degli studi postcoloniali, che in Italia sembra stia decollando solo in questi ultimi anni, val la pena anche citare il recente saggio Memorie oltre confine. La letteratura postcoloniale italiana in prospettiva storica di Gabriele Proglio edito da Ombre corte, 2011 (prefazione di Luisa Passerini). Lo studioso si occupa sostanzialmente di letteratura postcoloniale in lingua italiana, interessante dato che sottolinea come soprattutto l’Italia sia punto di incrocio di una rete di canali di migrazione e quindi i soggetti migranti, al centro della trattazione, nella loro esperienza e scrittura favoriscono l’ibridazione delle culture e delineano così un universo terzo che si pone tra quello di partenza e quello di arrivo. La letteratura resta anche qui la via maestra per capire che cosa stia succedendo nella cultura e nelle società.


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circolare, che non giunge a una conclusione, a una fine. Nato a New York nel 1970 e cresciuto tra Tripoli, il Cairo e Londra, Matar è una delle voci più significative della numerosa diaspora libica. Con i due romanzi ha dato corpo non solo ai suoi personali vissuti ma a quelli di tutti gli oppositori del deposto Colonnello. Perché se alla fine dell’agosto 2011, in una delle battaglie decisive tra i ribelli e i fedeli di Gheddafi, lo scrittore ha perso un cugino, l’evento destinato a cambiare la sua esistenza è accaduto nel 1990 quando suo padre, intellettuale oppositore del regime, costretto all’esilio in Egitto dal 1979, fu prelevato dalla casa del Cairo dove viveva con la famiglia dalla polizia egiziana e consegnato ai servizi segreti libici. Da allora solo due sole lettere dal famigerato carcere di Abu Salim, dove i prigionieri venivano regolarmente torturati e uccisi, ha tenuta viva la speranza della sua sopravvivenza. L’ultima di queste missive porta la data del 1996. Ma qualcuno che aveva visto il padre in un carcere segreto per prigionieri politici a Tripoli nel 2002 ha potuto mandargli un messaggio solo di recente: «È debole, ma sta bene» “È una notizia sconvolgente. Sconvolgente come possono esserlo gli uragani o le alluvioni.” dice lo scrittore in una intervista al Guardian del 16 gennaio 2011. E prosegue: “È incredibile come la realtà irrompa nel luogo prezioso e quieto dei sogni. Come se la vita provasse invidia della finzione. Quante volte avrei desiderato avere un padre qualunque, uno che invecchia a casa propria.” E aggiunge: “Mio nonno combatté contro l’esercito invasore italiano, mio padre e mio zio hanno resistito alla dittatura di Gheddafi, e ora uno dei miei cugini è rimasto ucciso combattendo con le forze ribelli durante la presa del quartier generale del colonnello a Tripoli.” E riflettendo aggiunge: “In fondo sia i dittatori che i romanzieri cercano di riscrivere la storia. Ma mentre i dittatori scrivono cattivi romanzi, intolleranti al cambiamento e penetrando anche negli ambiti più privati della nostra vita, i romanzieri sono interessati a una narrativa che rispecchia la vita, in storie che esprimano empatia e le contraddizioni di ciò che significa essere umani e avere emozioni e sentimenti. In fin dei conti la mia vera patria è la scrivania a cui scrivo “. La sua battaglia Hisham Matar, a differenza dei suoi parenti, la combatte con la sua voce letteraria che è limpida e dalle venature poetiche, che scava nel doloroso ricordo degli eventi, sul filo di una narrazione

fluida e attentamente calibrata a restituire, come in un’ode d’amore, un mondo che è scomparso. Una voce che in entrambi i romanzi è quella dell’inconsapevolezza tipica di un bambino, che non riesce mai ad afferrare la realtà pur interrogandone come può il mistero, continuamente troppo più grande di lui; un bambino cui manca la piena comprensione degli eventi ma la cui visione, pur se confusa e distorta, conserva una inconscia obiettività. Nel primo romanzo del 2006, Nessuno al mondo, Einaudi (tradotto in ventidue lingue e finalista in prestigiosi premi internazionali) è di Suleiman, bambino di nove anni, la voce narrante che racconta di sé e della sua famiglia in una soffocante Tripoli di fine anni ’70 sotto il regime, la cui polizia segreta si insinua nel quotidiano e ne controlla i movimenti in modo non sempre occulto ma pervasivo; in un quartiere benestante di villette, in una casa che rappresenta un rifugio caldo e accogliente ed è tenuta viva nel ricordo dai suoi odori, dai suoi riti rassicuranti e da personaggi che non si dimenticano facilmente. In Anatomia di una scomparsa è Nuri, adolescente dodicenne, l’io narrante. L’interessante artificio letterario è che sia Nuri che Suleiman vedono i se stessi bambini o pre-adolescenti all’epoca dei fatti dalla prospettiva di adulti, senza che la condizione di maturità modifichi la percezione infantile o adolescenziale cruda e crudele degli eventi, che sono il corpo di entrambi i racconti. Sicuramente in entrambi i romanzi il perno narrativo su cui trama ed eventi sono articolati è la vivisezione, l’anatomia della perdita, dell’assenza. Del padre amato, ma da cui invano i protagonisti attendono palesi segni d’amore: questi rimane distante e severo, poco comunicativo nelle sue manifestazioni affettive. È una elegia alla figura del padre scomparso la relazione col quale, di insopprimibile importanza nella evoluzione di un bambino in adulto, è lasciata deliberatamente incompiuta. È il tentativo di ricongiungersi ad un padre assente e misterioso, il motore della scrittura di Hisham Matar. È anche il racconto teso e commovente di un’infanzia paralizzata da questo non sapere, dalla sospensione nel dubbio, dall’incertezza sulla sorte di una persona cara, ma anche dall’incertezza dei sentimenti. Di contro a questa ineffabile presenza maschile, si stagliano figure femminili complesse e vitali. Rappresentano un universo che sa attraversare la vita in

modo dolente e doloroso, apparentemente sconfitto ma alla fin fine vincente. In Nessuno al mondo è la contraddittoria e umanissima Mama, la madre, ad essere vicino al figlio. Lei, giovanissima vittima di un matrimonio combinato a cui si è opposta inutilmente, in un mondo le cui ferree leggi morali sono dettate da una indiscussa permeanza patriarcale (forse per questo era più significativo il titolo inglese In the Country of Men), è lasciata spesso sola dal marito, lontano per misteriosi viaggi d’affari. Il calore del suo corpo accogliente o abbandonato, la vivezza dei suoi racconti (anche se bolla Shehrazade come traditrice che…Per salvarsi la vita accettò la schiavitù), la fierezza del suo comportamento, sono ciò che passo passo, amorevolmente, Suleiman si trova accanto e attraverso cui si forma un’idea del mondo. Nonostante alcuni suoi comportamenti ribelli o azioni disturbantemente feroci stiano ad indicare quanto la violenza che permea l’ambiente socio-politico esterno penetrino facilmente, siano inconsciamente assimilate. Lo sfondo è quello della pesantissima repressione da parte del regime del Colonnello della rivolta studentesca e degli intellettuali libici ispiratori. Nel romanzo, veritieri episodi sono i raccapriccianti interrogatori dei prigionieri politici trasmessi pubblicamente in TV, in un clima violentemente intimidatorio. A uno di questi, come in un film con personaggi conosciuti, assisterà l’attonito Suleiman. Anche Baba, il padre di Suleiman, colto intellettuale contro la dittatura, finirà nelle voraci maglie della polizia segreta. Ricomparirà grazie a una instancabile ricerca e umilianti petizioni di Mama, fiaccato nel corpo e nello spirito, ma sostenuto dall’amorevole cura di lei. Anatomia di una scomparsa non si svolge in Libia. È ambientato nella prima al Cairo parte nella casa di famiglia di Nuri adolescente, per poi proseguire ad Alessandria d’Egitto, e in Europa: principalmente Inghilterra e Svizzera.“Avevo 8 anni quando lasciammo Tripoli e sono legato al paese”. Le ragioni dell’esilio non sono lontane da quelle che in modo così sofferto descrive in questo suo ultimo romanzo, che forse per la reiterazione tematica, per lo svolgersi in una grigia e inerte terra straniera non è così intrigante come il primo. Perché è ancora la storia di una scomparsa: il rapimento annunciato ma non atteso del padre (nella sicura Svizzera), in quanto dissidente, da parte (si suppone) della polizia segreta (libica?) il cuore del testo. Di lui si perderan-

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Colonialismo italiano, post- colonialismo: il presente e i suoi passati – dossier

no le tracce, non si saprà più niente. Anche se il padre è l’essenza della mancanza, della privazione, della mutilazione affettiva, il vuoto attorno a cui il protagonista ruota in cerca di verità e senso, sono di fatto le donne, i loro corpi, i loro gesti e il loro sapere a dare significato allo scenario. Sono loro a sciogliere le ambiguità comportamentali, amorose e affettive paterne. Dalla madre Ihsan, donna infelice ed eterea, attratta dal freddo del nord Europa, che vive in un sospeso silenzio la malattia e la morte che ne spegne il corpo; alla troppo giovane e bellissima matrigna Mona, anglo-egiziana, il corpo che riporta il padre al sorriso e Nuri alla scoperta del desiderio sessuale (“Sentivo il desiderio come un sasso nella bocca”); alla domestica Naima, corpo accudente e obbediente, figura della dedizione familiare, presenza rassicurante e nume protettore della casa cairota; per finire alla imprevista amante svizzera, la bella e piacevolmente matura Béatrice. Sono facce diverse, variazioni sul tema della stessa determinazione a vivere, quantomeno a far sopravvivere. Attraverso loro Nuri arriverà a ricostruire come in un puzzle un ritratto sorprendente del padre Kamal Pasha. Un figlio che vorrebbe essere come il padre (“Un uomo che obbediva alla propria legge”), che finisce inghiottito dall’ombra. A poche pagine dalla fine, Matar prepara l’ultimo colpo di scena. Anatomia di una scomparsa è fatto di frasi fulminanti, di sguardi e di silenzi. Perché tutto ciò che è taciuto è la vera linfa vitale della letteratura. “Una delle tragiche caratteristiche delle relazioni umane è che il solo modo in cui possiamo misurare la vera identità di una persona sembra essere dopo che ci ha lasciati” ribadisce Matar nella sua casa di Londra. E il romanzo si chiude, circolarmente, nella casa di famiglia del Cairo, con Nuri che, adulto ma non dimentico, aspetta: “Ho trovato il suo vecchio impermeabile, quello che era solito appendere dietro la porta dello studio. …Avrà bisogno di un impermeabile quando torna. Questo può ancora andargli bene. Lo rimisi al suo posto”.

Pubblica Collana Crescendo Cres Mani Tese Ed Lavoro 1. Le migrazioni a cura di D. Barra e W. Beretta Podini – 1995 2. Percorsi interculturali e modelli di riferimento M. Crudo – 1995 3. Educare al cambiamento AA. VV. – 1995 4. La conoscenza dell’altro tra paura e desiderio M. Crudo – 1996 5. Lo straniero L. Grossi, R. Rossi – 1997 6. Letterature d’Africa. percorsi di lettura L. Bottegal, R. Di Gregorio, A. Di Sapio, C. Martinenghi – 1998 7. Penelope è partita M. Crudo – 1998 8. Portare il mondo a scuola a cura di ONG Lombarde, IRRSAE Lombardia, Provveditorato agli Studi di Milano – 1999 9. La gatta di maggio R. Abdessemed – 2001 10. La sfida della complessità M. Medi – 2003 Noci di cola, vino di palma. Letteratura dell’Africa sub sahariana L. Bottegal, R. Di Gregorio, A. Di Sapio, C. Martinenghi – 1997 (fuori collana)

PROMOZIONE: 3,00 € ciascun libro (spese di spedizione incluse)

Tutti i materiali possono essere richiesti a cres@manitese.it . Si può effettuare il pagamento on-line su www.manitese.it, su c.c.p. 291278 intestato a Mani Tese, con bonifico bancario Banca Popolare Etica IBAN IT 58 W 05018 01600000000000040


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zioni Collana Crescendo Cres Mani Tese Emi 1. Arcipelago Mangrovia Narrativa caraibica e intercultura Rita Di Gregorio, Anna Di Sapio, Camilla Martinenghi pagg. 256 – 2004 – € 12,00 Il quaderno cerca di fornire una panoramica della narrativa caraibica insulare dell’ultimo secolo per favorire il superamento di stereotipi e offrire chiavi di lettura e spunti di riflessione per l’educazione alla differenza. Le schede di presentazione degli autori e delle opere sono suddivise per aree linguistiche. Ipotesi di percorsi didattici. e strumenti utili per gli stessi, completano il testo. 2. All’incrocio dei sentieri i racconti dell’incontro Kossi Komla–Ebri pagg.192 – 2004 – € 10,00 I racconti di Kossi Komla–Ebri, ambientati in Africa, in Francia e in Italia, attingendo al vissuto quotidiano, parlano di amore, di viaggi, di nostalgia, di fierezza e di dignità e smascherano gli stereotipi con lo strumento dell’ironia. I temi dei racconti sono approfonditi dall’autore stesso nelle interviste e nei documenti della seconda parte, completata da un apparato didattico per un’educazione interculturale. 3. Cittadini under 18 I diritti dell’infanzia e dell’adolescenza Daniela Invernizzi pagg.213 – 2004 – € 11,00 Il testo presenta un approccio globale alle problematiche dell’infanzia e dell’adolescenza e, dopo aver descritto lo scenario culturale generale, propone esperienze di processi partecipativi locali e globali e suggerisce stimoli educativi per lo sviluppo di attività di ricerca e di sperimentazione centrate sulla tutela e la promozione dei diritti delle giovani generazioni. 4. “La tela del ragno” Educare allo sviluppo attraverso la partecipazione Michele Dotti, Giuliana Fornaro, Massimiliano Lepratti pagg.238 – 2005 – € 13,00 Questo Manuale pratico–teorico, frutto dell’esperienza sul campo degli animatori e delle

animatrici del CRES di Mani Tese, analizza e decostruisce gli stereotipi più diffusi riguardo alla povertà mondiale e illustra tecniche di partecipazionee di coinvolgimento attivo utili per accompagnare i ragazzi verso la conoscenza e la comprensione critica delle problematiche attuali. 5. “Terra è libertà” La questione agraria in America Latina Luca Martinelli, Annalisa Messina pagg.144 – 2005 – € 9,00 Terrà è il punto di partenza per riflettere sui concetti di latifondo, riforma agraria, migrazione, libero commercio, diversità biologica, risorse naturali, diritti dei popoli indigeni, movimenti sociali, assumendo un punto di vista interdisciplinare che spazia dall’ambito sociale a quello politico, economico, culturale. 6. Uno, nessuno, centomila (ir)responsabili. Itinerari didattici di educazione alla cittadinanza Michele Crudo pagg.160 – €12 – 2006 L’Educazione alla cittadinanza, anche in rapporto ai controversi modelli sociali che la nostra società propone, può diventare una pratica didattica per aiutare lo studente a capire l’universo degli adulti, a mediare tra gli opposti e arrivare ad un proprio punto di vista in un’ottica di mondialità. Alcune esplorazioni didattiche realizzate attraverso l’uso sistematico dello strumento filmico completano il testo. 7. Ri/conoscersi leggendo Viaggio nelle letterature del mondo. a cura di Rosa Caizzi pagg. 256 – 2006 – € 13,00 Un viaggio attraverso le letterature araba, nigeriana, sudafricana, indiana, afroamericana, cinese e la recente letteratura della migrazione può aiutare ragazzi e ragazze del Nord a stimolare la curiosità nei confronti della diversità, a combattere gli stereotipi sulle altre culture, a indagare la contemporaneità di altri paesi, a guardare con occhi nuovi la loro realtà, a relativizzare il proprio punto di vista. 8. Perché l’Europa ha conquistato il mondo? Massimiliano Lepratti pagg. 124 –2006 – € 10,00 L’Europa non ha conquistato il mondo per investitura divina, né in quanto civiltà superiore. Il capitalismo del Nord del mondo affonda le radici

nello sfruttamento economico e nei contributi di pensiero e tecnico– scientifici di aree lontane. Il testo indaga la storia della costruzione di un sistema di squilibrio internazionale che non esisteva fino ad alcuni secoli fa, attraverso un approccio che integra i livelli politico, economico e culturale. A corredo carte storiche e un’appendice didattica. 9. Il cinema per educare all’intercultura Marina Medi 2007 – € 10,00 È importante che l’educazione all’informazione e ai media trovi spazio in modo organico nella programmazione curricolare diventando strumento di cittadinanza e di comunicazione interculturale. Il testo suggerisce una serie di riflessioni metodologiche per un uso critico dei media, che parta da alcune cautele indispensabili quando si propone agli studenti un lavoro che utilizzi il cinema, e presenta piste di lavoro da realizzare nelle scuole e percorsi didattici già sperimentati che possono servire da stimolo. 10. Il lontano presente: l’esperienza coloniale italiana. Storia e letteratura tra presente e passato Anna Di Sapio, Marina Medi pagg. 284 – 2009 – offerta minima € 5,00 Non può esistere futuro senza memoria. Il testo vuol essere uno strumento per rileggere pagine della nostra storia che abbiamo rimosso. Operazione particolarmente necessaria a scuola. Per coglierne la complessità non ci si può limitare ad un’analisi storiografica ma occorre mettere a confronto punti di vista diversi e utilizzare anche fonti nuove come romanzi e film. 11. L’economia è semplice Massimiliano Lepratti pagg. 125 – 2008 – offerta minima € 5,00 Basta spiegarla con parole non tecniche e diventa comprensibile a chiunque. L’economia viene scomposta nelle sue parti elementari presentando di ciascuna il funzionamento , il collegamento con gli altri aspetti della vita, la dimensione globale che coinvolge i paesi del Sud e le fasce povere della popolazione mondiale. È la conoscenza dell’economia internazionale a farci comprendere più a fondo la realtà di oggi e a motivare al cambiamento degli stili di vita e delle scelte di consumo.


E=mc2

Appunti di educazione alla cittadinanza mondiale Un grande spazio, dove trovano cittadinanza riflessioni e proposte didattiche. Una bacheca per scambiare informazioni, appuntamenti, contatti. Un cartellone con tanto spazio bianco per scrivere, commentare, partecipare. Tutto questo e molto altro è E=mc2 – Appunti di educazione alla cittadinanza mondiale, il nuovo blog di Mani Tese dedicato ad insegnanti, animatori sociali e studenti di ogni età, ovvero a tutti coloro che desiderano confrontarsi su come sia possibile oggi osservare da un punto di vista educativo-pedagogico temi come consumo consapevole, cittadinanza attiva, integrazione e intercultura, risorse e sostenibilità, diritti umani.

Organismo contro la fame e per lo sviluppo dei popoli.

Redazione Luigi Idili (dir.), Luca Manes (dir. resp.), Angela Comelli, Alberto Corbino, Chiara Cecotti, Giosuè De Salvo Elias Gerovasi, Giovanni Mozzi, Giacomo Petitti, Lucy Tattoli.

Gruppo redazionale per il supplemento “Strumenti Cres” Donatella Calati (segretaria di red.), Giacomo Petitti (responsabile di red.), Elisabetta Assorbi, Gianluca Bocchinfuso, Piera Hermann, Elena La Rocca, Laura Morini, Shara Ponti.

Direzione, redazione e amministrazione Piazzale Gambara 7/9, 20146 Milano Tel. 02/4075165 cres@manitese.it www.manitese.it

Stampa: Staff S.r.l. – Buccinasco (MI)

Progetto grafico e impaginazione: Riccardo Zanzi

Hanno collaborato a questo numero: Elisabetta Assorbi, Gianluca Bocchinfuso, Gabriella Buzzi, Gabriela Cattaneo, Maria Laura Cornelli, Anna Di Sapio, Giovanni Fercioni, Elias Gerovasi, Elena La Rocca, Marina Medi, Laura Morini, Giacomo Petitti, Shara Ponti, Daniela Rosa, Giulio Sensi, Laura Tironi, Claudia Zaninelli

Gli articoli pubblicati rispecchiano il punto di vista degli autori, non necessariamente quello della Redazione. Quando non specificato, gli autori sono formatori Cres.

Il Cres,costituito da esperti ed insegnanti, cura le attività formative di Mani Tese in campo scolastico. Obiettivo fondamentale della sua iniziativa di ricerca e di innovazione didattica è la diffusione di una nuova cultura dello sviluppo e della mondialità nella scuola.

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