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Editoriale Ambiente al primo posto, ma assieme alle imprese

Ambiente al primo posto ma assieme alle imprese

Se c’è un giornale che, prima che Greta Thunberg si facesse crescere le trecce, ha abbracciato il green, la transizione verde, la sostenibilità e, in generale, la bandiera dell’ambiente, questo è YouTrade. Basta sfogliare i numeri arretrati per accorgersi che l’attenzione all’equilibrio ambientale applicato all’edilizia è una delle costanti che si ritrovano sulle pagine del periodico realizzato da Virginia Gambino Editore, che vanta anche la sezione Biocasa. Quindi, avanti tutta con l’edilizia verde, benvenuti i bonus per riqualificare gli edifici e attenzione all’impatto dei materiali sul mondo naturale. Premesso questo, e aggiunto che vanno deprecate le diffuse azioni di green washing (cioè far passare per sostenibili pratiche che non lo sono con una riverniciata di verde), neppure bisogna vivere sulle nuvole. Perché non dire la verità è peggio che nasconderla. E la verità è che, purtroppo, una rivoluzione verde come quella prospettata dall’Unione Europea, che punta a raggiungere un impatto zero nei prossimi anni sarà un’impresa ardua, difficile, ostica. Non sbagliata, ma non sarà indolore. Anzi, sarà parecchio problematica sotto molti profili. Affrontarla con questa consapevolezza è meglio che gettarsi in un’impresa a occhi bendati, salvo accorgersi a metà strada che sono state fatte scelte non sempre razionali. Non a caso la Confindustria ha già fatto suonare l’allarme: «Tutti vogliamo un mondo migliore, ma occorre una governance mondiale. Non stiamo raccontando la realtà: la transizione ecologica non deve essere ideologica e integralista, altrimenti pezzi interi di filiere verranno distrutte, persi centinaia di migliaia di posti di lavoro», ha detto il presidente dell’associazione, Carlo Bonomi. Il fatto, secondo una buona parte delle imprese nostrane, è questo: l’Europa emette solo l’8% dei gas nocivi per il clima. Il resto è un regalo all’atmosfera di Paesi come Cina, India e, in misura minore Stati Uniti. La Cina dipende dal carbone ancora per il 60% del suo consumo energetico, e se si sommano gli altri combustili fossili si arriva all’87%. In sostanza, Pechino brucia la metà di tutto il carbone consumato nel mondo. E in India il carbone è il combustibile che alimenta circa il 70% della generazione di energia elettrica. Ma sarà l’Europa a sobbarcarsi i costi della svolta verde. Con conseguenze pesanti: per esempio, in Italia sono previsti 60 mila licenziamenti nella filiera dell’auto a causa del passaggio forzato ai motori elettrici. Addio filiera del distretto emiliano. Oppure, argomento già trattato su queste pagine, a essere a rischio sono le imprese della ceramica, che con l’aumento dei costi dell’energia e l’acquisto dei certificati necessari per compensare le emissioni di Co2 si troveranno con costi fuori mercato, a tutto vantaggio di cinesi e indiani. C’è, poi, la questione delle fonti energetiche. Il poco petrolio della Basilicata non basta a far marciare l’Italia, e oltretutto in ossequio all’ambiente sono stati vietati altri pozzi, nonché le trivellazioni nel mar Adriatico. Benissimo. Ma, visto che le pale eoliche (anch’esse osteggiate perché deturpano il paesaggio) e i pannelli fotovoltaici non sono in grado di fornire tutta l’energia che occorre, come si fa? Nella Ue, 14 Paesi utilizzano l’energia nucleare. La sola Francia ha 58 centrali e si prepara a costruirne altre sei. Ma gli italiani hanno votato per l’abolizione del nucleare. Eppure, quando poche settimane fa l’economista Francesco Giavazzi ha incontrato Greta Thunberg, le ha chiesto: nel frattempo, durante questa transizione, che cosa facciamo, usiamo il carbone? Risposta di Greta: «No, l’energia nucleare». Come diceva Renzo Arbore: meditate, gente, meditate.

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