Sardonia Marzo 2023

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SARDONIA

Trentesimo anno/Trentième année Marzo 2023 / Mars2023

Domani mangeremo gli insetti ?

Ester Balletto Secci nota Esbas Karel

Arte e Tradizioni Popolari

Josephine Sassu Artista Su bakulu

Aquilegia Nuragica

Grazia Deledda al Ministero

Il mistero Ellen Rose Gilles

Deledda o della labile immortalità

Antonio Gramsci La questione meridionale e la Sardegna

Ci ha lasciati Tonino Casula

Ma chi era Tonino Casula ?

Tonino Casula si racconta

Gli italiani non esistono

La Donna ne fata ne strega

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Foto chiaracossu

Cagliari Je T’aime

Programma di creazione di Esposizioni e Manifestazioni Artistiche

nella città di Cagliari a cura di

Marie-Amélie Anquetil

Conservateur du Musée du Prieuré Directrice de la revue

“Ici, Là bas et Ailleurs”

Espace d’exposition

Centre d’Art

Ici, là bas et ailleurs

98 avenue de la République 93300 Aubervilliers

marieamelieanquetil@ gmail.com

https://vimeo.com/channels/ icilabasetailleurs

Vittorio E. Pisu

Fondateur et Président des associations

SARDONIA France

SARDONIA Italia

créée en 1993

domiciliée c/o

UNISVERS

Elena Cillocu via Ozieri 55 09127 Cagliari

vittorio.e.pisu@email.it

http://www.facebook.com/ sardonia italia

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https://vimeo.com/channels/ cagliarijetaime

SARDONIA

Pubblicazione

dell’associazione omonima

Direttore della Pubblicazione

Vittorio E. Pisu

Redattrice Luisanna Napoli

Ange Gardien

Prof.ssa Dolores Mancosu

Maquette, Conception Graphique et Mise en Page

L’Expérience du Futur une production

UNISVERS

Commission Paritaire

ISSN en cours

Diffusion digitale

Questo numero di Sardonia arriva con notevole ritardo dovuto all’accumularsi di eventi sia attuali che in preparazione che ci hanno occupato e ce ne scusiamo con i nostri lettori che mi hanno chiesto come mai il mensile non fosse stato ancora pubblicato. Per di più il sito dove solitamente lo potete consultare ha iniziato a ridurre il numero di pagine che possono essere pubblicate gratuitamente, quindi abbiamo anche ridotto, nostro malgrado, le informaziomni che abbiamo scoperto e che volevamo proprovi.

Notiamo che alcune previsioni si avverano, sopratutto le più catastrofiche e già dall’autunno scorso aspettavamo il crack finanziario negli Stati Uniti ed ecco con la Sylicon Valley Bank é finalmente arrivato, trascinando con lui le economie mondiali, come se non bastassero le altre situazioni climatiche, epidemiche e belliche in corso.

Con la primavera che arriva possiamo però renderci conto che niente sarà più come prima e ci dovremo inventare nuove maniere di vivere, di comportarci, di lavorare, di creare. Il cambiamento climatico che molti continuano a voler negare si ingegna invece a ricordarci come siamo niente rispetto alle condizioni metereologiche sempre più violente che arrivano fino a privarci d’acqua nei luoghi che ne furono sempre i più dotati ed ad inondarci la dove la penuria era di rigore, spingendoci quindi a porci delle domande sulla necessità di considerare diversamente non solo le risorse idriche ma tutta la produzione agricola che ne dipende.

Ho letto recentemente che questa attività ha conosciuto ultimamente un rinnovato interesse sopratutto dai più giovani e, non solo molte iniziative si sono create, ma risultano per lo più reddittizie ed in grado di spoddisfare non solo i bisogni degli eventuali consumatori ma anche quelli dei produttori che spesso negli utlimi anni producevano in perdita assoluta. Anche i grandi distributori sono obbligati a modificare le lor abitudini affronte della perdita di percentuali importanti della loro clientela usuale.

Quindi tra l’intelligenza artificiale che sembra essere il nuovo eldorado, la transizione dai motori a combustione a quelli elettrici che suscitano nonostante tutto tante questioni, e che nel frattempo trovano sostenitori di pratiche alternative con carburanti ecologici, la consapevolezza dell’impossibilità di continuare a delegare la produzione manifatturiera nei paesi che sempre di più stanno raggiungendo gli standard di vita occidentali, non mancano le situazioni che fanno di questi anni venti del ventunesimo secolo il vero momento del cambiamento.

Ci rimane sempre e comunque l’Arte, in ogni formato ed espressione e la produzione non solo attuale ma anche quella che riscopriamo dopo anni di ignoranza ed oblio, ci permettono di credere che niente é ancora perduto e che se dobbiamo nonostante tutto fare uno sforzo per cambiare, ci sarà sicuramente benefico e saremo stupiti di constatare quanto abbiamo tardato a consentirlo. Buona lettura. Vittorio E. Pisu

L’Università di Wageningen nei Paesi Bassi ha calcolato che, su circa un milione di specie conosciute di insetti, ne esistano poco meno di duemila commestibili: due miliardi di persone già li mangiano abitualmente.

Secondo la Fao, sono entomofagi (cioè considerano normale alimentarsi con alcuni insetti) 36 Paesi africani, 23 americani, 29 asiatici e anche 11 europei.

INSETTI PRELIBATI.

Quelli più consumati sono i coleotteri (31%), seguiti da bruchi (18%), api, vespe e formiche (14%), cavallette, locuste e grilli (13%).

Anche ragni e scorpioni, che non sono insetti, fanno parte della dieta di molte popolazioni.

Locuste, bruchi e simili sono ricchi di proteine, calcio e ferro, e il loro consumo ha un impatto ambientale enormemente inferiore a quello degli allevamenti di mucche, maiali o polli.

Detto questo, è certo che mangiamo insetti anche senza saperlo: molti alimenti, infatti, contengono anche frammenti di insetti che finiscono sui cibi durante i processi di lavorazione.

I prodotti più a rischio sono le farine e i derivati, il cacao, il caffè e le marmellate.

Ma tranquilli: ali, antenne e zampette non fanno male. Un’alimentazione a base di insetti sembrerebbe es-

sere la soluzione a tanti problemi che affliggono l’umanità e il Pianeta in cui viviamo: porrebbe un freno alla fame nel mondo, ridurrebbe le emissioni di gas a effetto serra e il consumo di acqua e suolo, e allo stesso tempo darebbe al nostro organismo la quantità di proteine di alta qualità, acidi grassi e micronutrienti fondamentali di cui ha bisogno.

Ma esiste (anche) un lato oscuro a quella che sembra la panacea di (quasi) tutti i mali?

È la domanda che si sono posti alcuni esperti di alimentazione dell’Università di León (Spagna), secondo i quali occorre fare attenzione ai rischi sanitari connessi al consumo di insetti (rischi che, vale la pena evidenziarlo subito, sono in gran parte evitabili prestando attenzione alle modalità di conservazione e consumo).

Tanto per cominciare, gli insetti potrebbero contenere alcuni antinutrienti, cioè composti che si formano con processi di degradatazione, conservazione, cottura ecc., presenti in vegetali e animali, che impediscono o rendono più difficile l’assorbimento dei nutrimenti: tra questi, il più diffuso negli insetti è la chitina, principale componente dell’esoscheletro degli artropodi, che ha un effetto negativo sulla digeribilità e l’impiego delle proteine.

(segue pagina 4)

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Foto giovannideligios

(segue dalla pagina 3) Altri esempi di sostanze antinutrienti sono i fitati e gli ossalati, che riducono l’assorbimento di minerali come il calcio, lo zinco, il manganese, il ferro e il magnesio.

Esistono poi anche due categorie di insetti tossici: i fanerotossici, le cui tossine vengono attivate nel tratto gastrointestinale e la cui pericolosità per l’uomo è limitata a possibili danni provocati durante il passaggio dalla bocca all’esofago; e i criptotossici, portatori di sostanze tossiche per l’uomo.

Tra questi vi sono ad esempio alcuni scarafaggi che contengono testosterone, e il cui consumo prolungato nel tempo può provocare, tra gli altri, problemi di fertilità e cancro al fegato.

Come i pesci, anche gli insetti possono essere contaminati da alcuni patogeni come la salmonella, l’E. coli o il Campylobacter.

La soluzione in questo caso è piuttosto semplice e consiste nella cottura: le alte temperature eliminano, o comunque riducono sostanzialmente, la presenza di microorganismi patogeni.

A volte poi gli insetti ospitano parassiti: è il caso, ad esempio, di mosche e scarafaggi, nei quali sono stati ritrovati diversi tipi di protozoi e vermi parassiti in varie fasi di sviluppo.

Anche in questo caso, basta congelare gli inset-

DOMANI MAGEREMO GLI INSETTI?

ti per eliminare il rischio contaminazione, poiché le basse temperature uccidono i parassiti pluricellulari.

C’è poi anche la contaminazione chimica, uno dei rischi maggiori collegati al consumo di insetti, principalmente quelli selvatici: nel 2007, ad esempio, diversi bambini e donne incinte della comunità di Monterrey (California) si intossicarono mangiando cavallette importate dal Messico che presentavano alti livelli di piombo.

Tra le sostanze che si trovano frequentemente negli insetti vi sono alcuni metalli pesanti (come piombo, appunto, rame e cadmio) e pesticidi.

Un ultimo rischio è quello relativo alle allergie, un tema ancora poco studiato: la sintomatologia associata al consumo di insetti è varia, e va dal semplice prurito allo shock anafilattico. Probabilmente però, sostengono gli esperti, è sufficiente che gli insetti vengano correttamente processati per ridurne la potenzialità allergenica.

Insomma, non sembra esistano grossi impedimenti sanitari al consumo di insetti, ma bisogna prestare particolare attenzione all’elaborazione e alla conservazione (come già facciamo con carne e pesce) di questi novel food.

Per ora, l’ostacolo più grande da superare in Occidente è quello normativo, oltre a una certa naturale

Foto focus.it

repulsione che noi occidentali abbiamo verso questi cibi esotici: ad oggi, l’Europa ha autorizzato il consumo di solo tre tipi di insetti – le tarme della farina, le locuste migratorie e i grilli domestici.

Chiara Guzzonato

Gli hamburger in provetta a base di cellule bovine sono roba vecchia!

La nuova frontiera della sicurezza alimentare passa dalle colture di cellule di insetti geneticamente modificate per crescere ancora più in fretta.

Non avete già l’acquolina in bocca?

L’allevamento è un’attività essenziale per l’alimentazione umana, ma ha anche effetti deleteri sull’ambiente: oltre a essere uno dei principali emettitori di gas serra, ha un impatto importante sul consumo di suolo e di risorse idriche, sulla deforestazione (per fare spazio a pascoli e a coltivazioni per nutrire gli animali), sulla diffusione dei fertilizzanti.

Se vogliamo immaginare di nutrire una popolazione umana che punta ai 10 miliardi di unità, riducendo il nostro impatto ambientale, occorre pensare ad alternative più sostenibili.

Le proposte non mancano: dalla dieta vegana (o vegetariana) alla carne sintetica, dai prodotti geneticamente modificati all’alimentazione a base di insetti. Perché scegliere una strada piuttosto che un’altra,

quando possiamo optare per una soluzione ibrida che le comprenda tutte?

Secondo uno studio pubblicato su Frontiers in Sustainable Food Systems, un’alternativa sostenibile all’allevamento tradizionale, altamente nutriente e riproducibile su larga scala, potrebbe essere la carne di insetto coltivata in laboratorio, in colture di sospensione a base di proteine animali e con tecniche di ingegneria genetica che permettano di ottenere una ancor più rapida crescita del “prodotto di base”, oltre che un sapore accettabile. Un gruppo di ricercatori della Tufts University (Massachusetts) ha ragionato su una tecnica che sia un punto di intersezione tra tutte le opzioni vagliate, e che ne risolva alcune criticità.

Le colture di cellule animali sono ancora un processo lento e costoso, che al momento richiede ancora più risorse energetiche dell’allevamento di animali, e che non garantisce minori emissioni di inquinanti: una strada che non pare destinata al mercato, almeno nell’immediato.

Anche se esistessero e fossero commercializzabili animali geneticamente modificati, per emettere meno metano o essere immuni alle infezioni richiederebbero comunque grandi quantità di suolo e di acqua, continuando a influire su deforestazione e perdita di biodiversità. (segue pagina 6)

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(segue dalla pagina 5) Chi ama la carne non è sempre disposto a rinunciarvi per sostituti a base di proteine vegetali, e il consumo di carne d’allevamento è comunque in crescita - anche, ma non solo, nei Paesi più popolosi e a più rapida crescita economica.

Infine gli insetti, benché nutrienti e più sostenibili quanto a utilizzo di risorse, non sono ovunque una scelta alimentare culturalmente ben accettata. Secondo la nuova analisi, contrariamente alle colture di cellule di mammiferi e altri vertebrati, quelle di insetto richiedono meno risorse e meno energia, perché questi animali sono capaci di sopravvivere e moltiplicarsi in condizioni di temperatura, ossigeno e pH più varie, e perché richiedono minori quantità di glucosio.

Eventuali alterazioni genetiche necessarie alla produzione su larga scala sono più semplici, perché già ampiamente studiate per mettere a punto insetticidi o debellare parassiti. Inoltre, passate ricerche hanno già identificato nella soia e in alcuni lieviti potenziali mezzi di coltura cellulare poco costosi e ugualmente efficaci.

Anche i ritmi di produzione sarebbero più rapidi. Se le colture di cellule muscolari di mammifero devono essere effettuate uno strato alla volta su una superficie di crescita, quelle di insetto possono

aggregarsi liberamente e in alta densità in un mezzo di sospensione, con un notevole risparmio di tempo e di risorse. Le cellule di insetto sembrano anche “accettare” modifiche più facilmente di quelle di altri animali.

Si potrebbe per esempio ricorrere all’optogenetica, una tecnica di ingegneria genetica per farle contrarre ripetutamente in risposta a stimoli luminosi, in modo che arrivino ad assumere una consistenza “carnosa”, più simile a quella di animali che siamo più abituati a consumare.

Nei laboratori alimentari dei prossimi decenni potrebbero “pulsare” silenziosamente dischi di cellule di insetti, attivati da impulsi luminosi, in grandi piscine a base di soia.

Se lo scenario non vi stimola l’appetito, è perché è praticamente impossibile immaginare di che cosa sapranno. Forse di aragosta, granchio o gambero, le creature filogeneticamente più vicine, ma pare presto per pensare al sapore.

«Nonostante il suo immenso potenziale, la carne di insetto coltivata in laboratorio non è pronta per il consumo», spiega Natalie Rubio, prima autrice dello studio. «La ricerca è al momento orientata a padroneggiare due processi: lo sviluppo controllato di cellule di insetto in muscoli e grasso, e la combinazione di

Foto focus.it

queste colture 3D in una consistenza simile a quella della carne.

Per quest’ultimo campo, un’opzione promettente sono le spugne a base di chitosano, una fibra derivata da un fungo presente nell’esoscheletro degli invertebrati».

Il capitolo “sapore” arriverà solo in seguito. Ma da molto tempo consumiamo, forse senza saperlo un prodotto derivato direttamente da un insetto e presente in moltissimi alimenti di consumazione estremamente comune.

La cocciniglia è un colorante ricavato dall’omonimo insetto appartenente alla famiglia della coccoidea, in particolare dalle femmine della specie Dactylopius, Dactylopius coccus e della specie Kermes vermilio.

L’acido carminico, che è la molecola colorata, può essere estratto anche da batteri modificati a tale scopo.

L’insetto secerne un liquido molto denso e intensamente colorato che usa come involucro per proteggersi dai predatori. Per produrre un chilogrammo di colorante occorrono circa 80-100 mila insetti.

Una volta ottenuta la polvere macinando l’esoscheletro degli insetti, questa viene trattata con acqua calda per estrarre l’acido carminico.

La cocciniglia viene utilizzata per produrre una parte dei coloranti rossi utilizzati nell’industria alimentare

(l’additivo alimentare E 120 è un sale di alluminio dell’acido carminico) e, in misura minore, nella tintura dei tessuti.

Dato l’elevato costo, ultimamente viene spesso sostituita da coloranti o miscele di coloranti di origine sintetica come E122 - E124 - E132 nei prodotti alimentari commerciali (obbligatoriamente elencati in etichetta come additivi alimentari con la relativa sigla europea).

In alcuni soggetti può dar luogo ad allergie.

Usi

Un liquore dal tipico colore cremisi ottenuto con la cocciniglia è l’alchermes che prende il nome dalla parola araba al-qirmiz.

Prima dell’avvento dei coloranti azoici, i prodotti rossi di pasticceria e molte altre bevande rosse come aperitivi, bitter, vermut e bevande gassate erano colorati con la cocciniglia.

Che viene utilizzata inoltre per tingere i tessuti e in pittura permettendo dal xvsimo secolo. in seguito all’importazione dalle Americhe. un rosso molto più vivo.

Autori Diversi

www.focus.it/scienza/salute/insetti-nel-piatto-cisono-rischi-per-la-salute

www.focus.it/ambiente/ ecologia/carne-di-insetto-coltivata-in-laboratorio-ecco-il-cibo-del-futuro

www.focus.it/cultura/curiosita/quanti-insetti-sono-commestibili?

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ster Balletto Secci, anche nota col nome d’arte Ebas Karel, è nata a Klana, in Croazia, ex territorio italiano e ora ex territorio iugoslavo, ma risiede da parecchi anni a Cagliari in Sardegna.

Le sue tecniche di espressione sono: grafica, china, lavis. Incisioni: acquatinta, punta secca, lineoleografia.

La sua attività espositiva ha inizio nel 1994 con la partecipazione al “Premio Levico” patrocinato dall’Assessorato al Turismo della Provincia di Trento per il concorso nazionale FENACOM. In questa occasione ha presentato un lavoro a china, “Giardino in Montevideo”, e un’altra opera, sempre a china “Vista del lago”, con cui si è classificata 2° all’estemporanea sul tema “Levico e i suoi dintorni”.

Nel 1995, sempre al “Premio Levico” ha ricevuto una menzione speciale per l’acquerello “Giardino in Malaga”.

Nel 1998 ha partecipato alla 1° Biennale d’Italia di arte contemporanea al Trevi Flash Art Museum. Sempre in quell’anno inizia a dedicarsi alla pittura su vetro, ceramica e all’ncisione approfondendo le tecniche dell’acquaforte, acqua tinta, punta secca e linoleografia.

Alcune di queste incisioni sono state riprodotte e inserite nel libro “Così è anche se non vi pare” una delle quali, col titolo

ESTER BALLETTO SECCI ESBAS KAREL

“Pace”, costituisce l’immagine di copertina.

A Cagliari ha partecipato a diverse mostre collettive tra le quali ricordiamo quelle del ‘95 alla galleria d’arte La Bacheca e nei locali dell’associazione Intergrafica, e quelle del ‘96, ‘97 e ‘98 nella galleria Il Colore.

Sempre nella galleria Il Colore nel ‘98 realizza una personale.

Nel ‘96 ha realizzato delle maschere in cartapesta per il saggio della scuola Afrodanza di Donatella Padiglione.

Easter Balletto Secci è una pittrice poco nota al grande pubblico ma di sorprendente talento.[...]

Artista di cui lo scrittore Antonio Romagnino ammira la “grande varietà degli strumenti espressivi” [...]

Due aspetti della produzione artistica di ester Balletto: il mprimo riguarda l’espressione grafica, manifestata in una serie di chine e incisioni che fermano paesaggi ed angoli sopratutto della sua città, Cagliari; il secondo é quello del colore. esempio insopsettato di delicatezza mista a vitalità, fantasia coniugata alla capacità tecnica.

Vale la pena di sottolineare che i primi suoi lavori furono disegni ed incisioni [...] Emozione per l’occhio e per lo spirito può definirsi il passaggio dal bianco al nero al colore, talvolta pacato e talaltra vivace, ma

Foto sbaskarel
E

Jean Marie Drot, artista, collezionista, autore, é stato consigliere culturale all’Ambasciata di Francia ad Atene dal 1982 al 1984 e direttore di Villa Medici dal 1985 al 1994. Durante gli anni ‘50 ha diretto diversi film sull’arte come “The Children of Varsavia” del 1956, in collaborazione con Roman Polański, o “La Rome di Giorgio De Chirico” (1957), con lo stesso artista.

Ha inoltre lavorato al primo canale della televisione vaticana negli anni ‘50.

sempre permeato di serena luminosità, che l’artista esprime attraverso l’acquarello [...] Ma quel che maggiormente tocca l’intimità e l’informale, [...] è la piccola babele cromatica di donnine e di cappellini è una delizia che inoltra ad un altro passaggio quanto mai interessante : le creazioni geometriche.

“Ma non sono bizzarrie, ed invece è un volo largo come un gabbiano, che conduce un’anima inquieta. Assettata sopratutto di colore, che viene prima del disegno, precede e trasborda sempre dalle linee. [...] L’informale non é per questa artista un cons enso facile alla contemporaneità ma vive della stessa partecipazione che aggredisce i luoghi e le figure umane. [...]

Negli anni ‘60 ha realizzato 14 film per la televisione sulla vita artistica della prima metà del secolo “Les heures chaudes de Montparnasse”: Drot è autore di un’opera audiovisiva catalogata dall’I.N.A. di oltre 200 film tra cui vanno ricordate le serie “L’Art et les hommes” e “Journaux de voyages”.

Jean marie Drot diceva che le opere d’Arte sono come dei talismani che ci proteggono quando li abbiamo insieme a noi. Sono assolutamente d’accordo con lui, e direi di più, le Opere d’Arte sono delle prove d’amore.

La quale non deve intendersi come disarmata ingenuità e invece apprezzarsi per una schiettezza che non tentenna neppure quando affronta soggetti impegnativi.”

Sue incisioni si trovano in alcune chiese di Cagliari come quella Del Carmine, Dell’Annunziata, di Sant’Ignazio, Sant’Avendrace e San Giuseppe. Altre opere si trovano presso collezionisti privati di: Cagliari, Q.S. Elena, Torre del Greco, Roma, Verona, Levico, Milano, Londra e Buenos Aires.

I Francesi dicono “Il n’y a pas d’Amour, il n’y a que des preuves”.

E sono effettivamente queste manifestazioni, questi prodotti, queste opere che impediscono il loro autore di dormire fino (segue pagina 10)

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Foto esbakare

(segue dalla pagina 9) a quando non le ha terminate, che sono delle manifestazioni dell’Amore che portano all’Umanità, alla Terra, alla Storia, alla Bellezza, eccetera, e queste Opere parlano di loro, senza che se ne rendano subito conto e parlano allora di noi, di tutti noi, e se non parlano di noi, non sono opere d’Arte, sono delle produzioni tecnicamente riuscite ma senza anima.

Mi rendo conto a che punto organizzare una mostra d’Arte sia una cosa sempre difficile, sia perchè in effetti si rivolge ad un pubblico sempre più ristretto, ed anche perchè necessita di un insieme di volontà e di energie che non sono spesso facili a mettere insieme.

Per di più e specialmente qui in Sardegna ci sono delle ragioni specifiche, storiche e sociologiche che impediscono, che ostacolano, che cercano di sminuire queste manifestazioni.

Non so se vi ricordate ma la prima cosa che é stata chiusa al momento del lockdown sono stati i musei, i teatri, le biblioteche, i luoghi della cultura, perché questo mondo liquido e mercantile dove viviamo, ha dei problemi con la Cultura, con la Conoscenza, con il Dialogo e sopratutto con l’Arte. Ma c’é di più perché la Sardegna, che ha visto la sua progressione politica e sociale, che si era affermata con i giudicati e la Carta de Logu, negata e

ARTE E TRADIZIONI POPOLARI

riportata al feudalesimo dagli Spagnoli.

Che durante quasi trecentocinquant’anni hanno impedito la formazione di una borghesia moderna come essa si sviluppava ed esisteva in Italia ed in Europa, e dove si manifestava attraverso il commissionamento di opere sia architettoniche che pittoriche e sculturali che comandava agli artisti del suo tempo.

In Sardegna niente di tutto questo, e se cento anni fa i pittori del tempo, e la borghesia che ne acquistava le opere, avevano la stessa visione delle cose, oggi tutto questo é perduto.

Prima di tutto perché la società liquida nella quale noi viviamo é diventata come i Lotofagi dell’Ulysse di Omero, che dimenticavano assolutamente tutto, sottomessi unicamente ai loro desideri di acquisizioni di beni sempre nuovi e sempre diversi.

E praticamente quello che viviamo noi oggi, dove l’obsolescenza programmata dei beni di consumo é fatta in modo da obbligarci a rinnovare costantemente i nostri utensili di uso corrente, sopratutto avendo il sentimento, abilmente coltivato dai media di ogni sorta, di non essere mai all’altezza della situazione, non abbastanza magri, non abbastanza belli, non abbastanza chic, non abbastanza qualsiasi cosa che si possa immaginare, ed i nostri desideri fittizi sono incanalati in modo che la produzione industriale, che

Foto robyanedda

ormai si svolge lontano anche dalla nostra esperienza personale, e sopratutto nei paesi che praticano non solo dei salarii da fame ma che ignorano anche qualsiasi protezione sociale, possa continuare a ricordarci che anche noi potremo subire la stessa sorte. Ma l’Arte appunto sfugge a questo sistema ed è per questo che ne é nemica, e disturbante per la società consumeristica nella quale sopravviviamo. Sia perchè si tratta di prodotti unici ed irripetibili e creati da un solo individuo (non sto parlando dei falsi artisti stile Jeff Koons ed altri sfruttatori della credulità capitalistica) ma anche perchè la strategia degli artisti é spesso e volentieri all’opposto di quella mercantile.

Bisogna dire però che qui c’é un errore che molti artisti, e direi sopratutto in Sardegna commettono. Sono convinti che le loro opere parlino per loro e quindi non hanno bisogno di rilasciare interviste (quando mai gli si presentasse l’occasione par altro rara perché solitamente i media preferiscono consacrarsi al famoso che lo è già e da tempo) ne di scrivere dei testi, né di creare dei cataloghi ragionati delle loro opere, ne di fare in modo che le loro produzioni siano descritte, commentate, anche criticate se possibile ma presenti nel maelstrom delle migliaia di informazioni che ci vengono imposte ogni giorno.

Certo nelle scuole l’insegnamento dell’Arte tende a scomparire, mentre molti artisti si concentrano sul significato e non sul significante, che spesso richiede molto lavoro e la padronanza di numerose tecniche.

Così oggi l’artista, specialmente e sopratutto in Sardegna, deve necessariamente avere un altro lavoro che lo faccia vivere, quando non debba assolutamente espatriarsi per trovare una riuconoscenza altrove.

Nemo profeta in patria dice il proverbio, ma qui sembra essere la regola, senza parlare di altre tare specificamente sarde che sono l’invidia e la gelosia che fanno che é difficile strutturare delle sinergie e sopratutto arrivare a realizzare dei progetti concreti quando per di più sono ambiziosi.

Se l’artista, in Sardegna o altrove, visibilmente in contraddizione flagrante con la società stessa dove vive, non arriva a rendersi vsibile ad ogni livello di communicazione, non potrà mai riuscire a realizzare pienamente il suo potenziale, senza contare che semplicemente la sua esistenza ed il suo operato contraddicono formalmente la società stessa di cui é nonostante tutto il prodotto eccezionale, quello di cui la società farebbe a meno, e che cercherà in ogni modo di trasformare in un prodotto commerciale, destinato alle alte sfere della società, (segue pagina 12)

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Sfumature di Sartiglia e Carre de Segare con le opere di Simeone Biselli a Mario Satta Mutos svoltasi all’ Arrubiu Art Gallery Cafè Via Mazzini 88 09170 Oristano a partire dal 3 febbraio e fino al 3 marzo 2023 vedi il video https://vimeo. com/796220352
Ho letto questo testo introduttivo al vernissage della mostra

(segue dalla pagina 11) utile per normalizzare dei profitti illeciti, e ultimo avatar della corsa ad una spettacularizzazione della società dove le valutazioni astronomiche di opere di artisti scomparsi da centinaia di anni mal nascondono la negligenza di cui sono stati l’oggetto in vita, e queste astronomiche quotazioni fanno ancora parte del gioco consumeristico del “m’a tu vu ?” destinato ad una percentuale infinitesimale della populazione che dispone di più della metà delle richezze nazionali, mentre nel frattempo, il resto della popolazione sempre più precarizzato e sempre più pauperizzato dispone solamente delle immagini che i mass media gli riversano senza sosta e sopratutto con tempi di fruizione sempre più limitati, anche un clip di 3 minuti é diventato troppo lungo, senza contare che, non avendo nessuna formazione, é incapace di comprendere le opere d’Arte quando per caso ne é spettatore. A contrario, le esposizioni degli artisti scomparsi da più di quattrocento anni, e piuttosto esecrati in vita, diventano il luogo di pellegrinaggi alimentati da file interminabili di visitatori spesso e volentieri ignari di quello che vedranno e senza disporre delle chiavi che gli permetterebbero di capire che se le opere del Rinascimento, per esempio, sembrano rappresentare una realtà facilmente

comprensibile, i numerosi rebus et indovinelli che li costellano rimangono assolutamente sconosciuti ai più.

Per finire, l’interesse e l’amore per la Sartiglia o i diversi Carre Segare della Barbagia e dell’Ogliastra sono dovuti semplicemente al fatto che ci riuniscono e che al dilà dell’egoismo individualista, commerciale e meschino che sembra imporsi in questi ultimi anni, queste manifestazioni non solo ci rimettono insieme e ci fanno capire a che punto non possiamo esistere da soli ma che facciamo parte di una communità, di un insieme a cui dobbiamo non solo lealtà, ma presenza in atti ed in opere.

Solo così anche l’Arte, la sua pratica, la sua vicinanza, la sua quotidiana presenza, riusciranno a riscattarci da questo mondo inumano dove la nostra individualità illusoria ritroverà il suo sentimento di appartenenza e non solo al popolo di cui é parte ma anche dell’universo animale e vegetale di cui siamo solo un piccolo tassello e la nostra disparizione che prepariamo con grande impegno ed ineluctabilità non cambierà quasi niente alle sorti di questo pianeta, anzi se ne troverà alleggerito di un elemento che ha prodotto solo catastrofi sempre più distruttrici dell’ecosistema che lo contiene e il cui sconvolgimento sta accelerandone la scomparsa. Vittorio E. Pisu

Foto arrubiuartgallerycafè

Josephine Sassu, Emsdetten (Germania), 1970

Vive e lavora a Banari

Studio visit di Nicolas Martino

Josephine Sassu, artista, ha studiato all’Accademia di Belle Arti “Mario Sironi” di Sassari, fucina di molti giovani talenti emersi nella seconda metà degli anni Novanta e ‘registrati’, proprio allora, in presa diretta da Giuliana Altea e Marco Magnani (curatori nel 1999 dell’importante mostra Atlante. Geografia e storia della giovane arte italiana, testimoniata dal catalogo edito da Politi e tenuta al Masedu – Museo d’arte Contemporanea di Sassari).

A differenza di altri suoi coetanei che si sono trasferiti a Milano, Londra o Berlino, Sassu ha deciso di rimanere a vivere e lavorare in Sardegna, dove oggi affianca all’attività artistica quella didattica.

Josephine Sassu, che del suo vivere a Banari (SS), a contatto con la natura, ha fatto un punto di forza per la sua ricerca, concentra il suo lavoro in un fare manuale di ascendenza squisitamente femminile, nelle declinazioni più tradizionali (cucito, ricamo, biscotti, disegno calligrafico, lavori in cera, ceramica, plastilina) convertite in saperi che veicolano altri, più profondi, significati, oltre quelli della propria evidenza estetica. Con raffinata ironia (cifra, questa, che la caratterizza) Josephine tratta tematiche esistenziali, riguardanti il

SASSU ARTISTA

JOSEPHINE

nostro quotidiano ma anche valori universali. Nel ripercorrere il suo lavoro, attraverso le opere che sono in studio, i cataloghi e le opere che Josephine mi fa vedere online, viene subito in mente il riferimento a Italo Calvino, alla sua leggerezza e all’ironia come tratto caratteristico della produzione culturale post-moderna.

L’altro riferimento, immediatamente artistico, è al genio infantile di Pino Pascali, con il quale Sassu condivide anche una certa passione per i mass media e soprattutto per l’impronta che la cultura di massa ha lasciato nelle diverse generazioni. Quelle cresciute, per esempio, con la tv a colori, i cartoni animati dei Barbapapà, le merendine Motta e i giocattoli della Lego. Un immaginario raccontato, con grande successo, dalla trasmissione “Rai Anima mia” condotta da Fabio Fazio e ideata, tra gli altri, da Tommaso Labranca.

Molte sue opere sono, quindi, giocattoli, come già quelle dell’artista scomparso prematuramente nel 1968, che uniscono alla dimensione ludica quella inquietante di un mondo che spesso, come nelle favole, è altro da quello che sembra: una fata è anche una strega, un giardino può diventare una foresta che inghiotte, un orsetto, come nel film Gremlins, può trasformarsi in un mostro.

(segue pagina 14)

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Foto quadriennaleroma.org

(segue dalla pagina 13)

Il lavoro della Sassu si muove al confine tra ciò che è quotidiano e familiare e l’Unheimliche, il perturbante di freudiana memoria, in uno spazio liminare che spesso, però, quando siamo bambini, non ha confini ben definiti.

Una recente mostra, negli spazi del museo di arte ambientale “Organica” nel parco del Limbara, a cura di Giannella Demuro, risulta particolarmente interessante per ‘entrare’ nel lavoro dell’artista.

Il titolo, “Se non posso ritornare scimmia provo a diventare giardino”, esprime il senso del paradosso di marca dadaista, e al tempo stesso sintetizza l’interesse per il ritratto come auto-analisi: in una serie di fotografie di grandi dimensioni Sassu si è ritratta con il volto coperto, di volta in volta, di elementi vegetali diversi, dando vita a una sorta di progressiva auto-trasformazione in giardino.

Se da un lato questo lavoro esprime l’interesse per il narcisismo patologico che scaturisce dalla mania di massa dei selfie, dall’altro entra nel cuore di una ricerca contemporanea che rimette in discussione i confini, stabiliti molti secoli fa, tra i diversi regni naturali – quello minerale, animale e umano – evocando un’unità del vivente che si dà in modi diversi ma senza gerarchie, in una continua metamorfosi che sembra attraversare,

sempre di più, tutto ciò che esiste.

È probabilmente intorno a questa capacità di tenere insieme nello stesso registro temi seri e leggeri, o se vogliamo quelle che una volta si sarebbero chiamate high culture e low culture, che risiede l’importanza di questa pratica artistica, all’interno di una ibridazione delle culture che mette fuori gioco austerità e seriosità d’altri tempi.

Insomma, un’attitudine simile a quella di certa pop-filosofia che si occupa di temi cosiddetti leggeri perché lì trova la chiave di volta per comprendere i fenomeni emergenti del contemporaneo.

D’altra parte, proprio questa attitudine, ci porta a pensare che tutto il lavoro ne potrebbe guadagnare ulteriormente se trovasse l’occasione di trasformarsi in pratica didattica diffusa sul territorio, ovvero se si facesse essa stessa, sempre di più, metodo pedagogico rivolto sì alle generazioni di artisti più giovani, ma anche alla cittadinanza tutta che ne guadagnerebbe in salute e autonomia.

https://quadriennalediroma. org/josephine-sassu/

https://www.artexhibition.

it/it/artisti/josephine-sassu www.shmag.it/eventi/12_01_2022/overlap-a-cagliari-la-mostra-fotografica-di-josephine-sassu-e-giusy-calia/

Calava la notte sulle case basse e sui viottoli stretti di Cuccureddu.

Chiusi il libro di letteratura italiana e uscii dall’ampia cucina lasciandola al buio: nel camino riluceva un po’ di brace e sulla sedia vicina brillavano, verdissimi, gli occhi di Rubiolu, un gatto rosso che accompagnò la mia infanzia.

Mi chiusi la porta alle spalle, rassicurando con un fischio la mannalissa che belava di tristezza nella stalla sotterranea, e attraversai la strada per entrare, proprio di fronte a casa mia, nello stretto cortile di tziu Peppinu.

Il portoncino di ingresso altro non era che un insieme di assi sconnessi, poggiato ad una vite antica, che raggiungeva con onde scure il primo piano della casa. Pochi metri al buio prima di deviare ad angolo retto e fare pochi passi lasciandosi a destra la scala che portava alle camere da letto e a sinistra lo scantinato con formo della calce; in fondo al budello, mi aspettava una cucinina bassa, spoglia, dove tutto il giorno stavano vicino al focolare tziu Peppinu e tzia Peppina: due vecchietti da tempo scomparsi, ma che hanno illuminato i miei vent’anni.

Ero in terza liceo e, finiti i compiti a casa, era mia abitudine andare a trovarli per ascoltare i loro raccon-

SU BAKULU

ti e leggere qualche articolo della Domenica del Corriere, che compravano regolarmente: erano due vecchi analfabeti, ma curiosissimi e sempre ansiosi di imparare.

La sera, però, ero atteso con ansia perché dovevo leggere l’ultimo capitolo di un volumetto comprato nell’edicola di tziu Giuanni Pobori: il libro di “su dimoniu ki mossiada a su sugu”, come tzia Peppina aveva tradotto “Dracula” in stretto dialetto ierzese... il diavolo che mordeva il collo.

I due vecchietti erano terrorizzati e nel contempo affascinati dal Vampiro e seguivano con ansia la lettura delle sue imprese. Fuori il silenzio era totale, pesante; e quando fu spezzato dall’ululato del cane di S’Assu ‘e Cupas, che provocò il raglio insistente de sa bestiola nella stalla accanto, tzia Peppina disse: “bai Peppi’ e fedda citiri”, ma lui era terrorizzato dal Vampiro e non volle uscire.

Trattennero il respiro quando Dracula fu trafitto dal paletto di frassino e urlò la sua rabbia contro chi lo mandava definitivamente all’inferno.

Tziu Peppinu commentò pensieroso succhiando su sigarru: “ma adessi eru?”. E io, sadicamente: “commenti est beru Deus”. Poi toccò a tzia Peppina raccontare.

Mi avvicinai al fuoco, tesi le mani alla fiamma; e ascoltai.

(segue pagina 16)

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Foto quadriennaleroma.org

(segue dalla pagina 15) “Tui, fus pitikeddu e non ddus has connotus... eri piccolo e non li hai conosciuti...ma in biginau, in quella casa dove tua madre mette la legna e la capra, vivevano molti anni fa dus sposus, Lillina e Boboreddu.

Liliana era una ragazza bona, troppu per quei tempi, e quando la mamma si accorse che si era innamorata di Boboreddu, non ne fu per niente contenta.

Certo, Boboreddu era un bel ragazzo, laborioso, e aveva un giogo di buoi piccoli e robusti, richiesto per i terreni alti dove la vigna si stendeva in lunghi terrazzamenti e c’era sempre il pericolo di cadere in basso, ferendosi e scornando gli animali, che poi si dovevano sacrificare.

Scuru, chè allora sarebbe caduto in miseria se i compagni non lo avessero aiutato a comprare un atru pegus, pagandogli la carne del bue macellato e integrando quei pochi solo con offerte de animas onas.

Però, Boboreddu imbuccada in bingia troppo spesso, si ubriacava in su cilleri di Chicchinu Pissuesantu e si prendeva a bucciconis con gli altri carradoris, che era cosa de non creiri.

Ma Lillina ne era innamorata.

Boboreddu aveva un sorriso simpatico e i denti bianchissimi e l’alito buono e si lavava ogni sabato col sapone masna-

ta, che quando poi si avvicinava ai suoi buoi non lo riconoscevano e a quelle povere bestie quel profumo penetrante faceva storcere il muso e drizzare le orecchie.

E lo sposò, nella chiesa di sant’Elmo piena di parenti e di rose.

Ma già alla prima notte di nozze Lillina si accorse di non avere avuto una buona idea a portarselo nel suo letto.

Boboreddu aveva bevuto con gli amici, cantato a battorinas fino a notte inoltrata e quando l’aveva raggiunta nella stanza sotto l’incannuciata era cottu a supa. Lillina ebbe il suo daffare a fargli concludere qualcosa; poi lui vomitò l’anima e si addormentò russando, agitando le mani e bofonchiando ogni tanto parole senza senso.

La prima volta che Boboreddu, ubriaco fradicio, le diede uno schiaffo, restò sconcertata.

Nessuno l’aveva picchiata in casa sua: il babbo era morto che lei era così piccola da non ricordarlo, e la mamma l’aveva trattata come una cicaredda de sa credensa...mai un colpo, mai una parola dura.

E quando il marito la investi di colpi dati alla cieca e con furore, si raggomitolò nel suo vestito e subì in silenzio, come un cane fedele incapace di capire la violenza del padrone.

Foto vitorio e.pisu

Si vergognava troppo e la mattina fece rotolare giù per la scala una vecchia damigiana, che tziu Chicchinu aveva foderato di vimini.

Si ruppe in mille pezzi e lei disse ridendo che aveva cercato di salvarla, ma era precipitata dalle scale ferendosi: e mostrava i lividi sulle braccia e sulle gambe e un occhio pesto che non la faceva vedere. Sua madre non le credette.

La portò da detta Loi, che le passò sui lividi un unguento di erbe e le unse l’occhio ferito con una mistura di rospo e di geco.

Poi la sera arrivò dalla figlia con un fascio di legna. Le parlò a lungo.

Era sera fatta quando Boboreddu trovò a fatica l’uscio di casa sua.

Era cottu ke santu lazzaru e gli sembrò che la porta opponesse una certa resistenza, come se tra essa e il muro ci fosse qualcosa.

Il primo colpo lo prese al collo e lo stordì; e mentre si girava per capire cosa succedeva, un colpo più forte lo prese alla spalla e il dolore lo trafisse fino alla punta delle dita.

Urlò, prima di cadere per terra sotto la violenza dei colpi.

Lillina colpiva come una furia e il bastone roteava sul marito riverso sul pavimento colpendolo sulla

schiena, sulle gambe, sulle braccia. Non si sarebbe mai fermata ed era talmente esaltata dalla vendetta che riscattava la sua umiliazione, che lo avrebbe ucciso a corpus.

Si fermò solo quando scivolò sul pavimento pieno di sangue e quando sentì sotto il colpo lo scroscio di una mano fratturata... “scudi, scudi a sa surpa”, le aveva detto la mamma, picchia picchia, ma non sulle mani che gli servono per lavorare... “ma non a ir manus ka teppidi trabalgiai”.

Gopai Luisu stava nella casa accanto e aveva sentito un urlo.

Si era allarmato, si era messo in ascolto, ma non sentendo più nulla aveva continuato ad aggiustarsi unu cosìngiu alla luce del fuoco.

Ma balzò in piedi quando sentì bussare forte alla porta e le vice di Lillina: “Gopai Lui’, bengiada ka Boboreddu dd’hanti appetigau ir bois”... venite ché il bue ha calpestato Boboreddu.

Gopai Luisu non disse nulla, anche se era strano che due buoi fossero entrati in s’apposentu po appetigai su meri.

Poi vide il bastone pieno di sangue e con noncuranza disse a Lillina: “sciacueddu e attaccheddu”... lavalo e nascondilo.

E siccome era un bravo compare, caricò il corpo esanime sul cavallo e lo portò da dottor Iosto.

Passando vicino a Cresia (segue pagina 18)

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(segue dalla pagina 17)

‘e Susu sentì Boboreddu agitarsi e lamentarsi...”ohoohiohi, sa skina.” ... la schiena.

Gopai si mise a ridere: “Solu sa skina... adessi mala a scorgiai”.

Dottor Iosto si divertì un sacco a contare i colpi su quel corpo martoriato: “Ahahaha, mancu in gherra una cosa aicci...”. Steccò una mano rotta, diede un cinquantina di punti di sutura e disse a Lillina che osservava tutta compunta di fargli dei bagni con acqua e sale sulle gambe e sulle braccia...”po su sali bai de tziu Pauliccu, ddu pagu eu”...è sghignazzava tutto contento.

Non ci fu piu bisogno che a Boboreddu gli passasse un’altra surra.

Non bevve più e per un attimo su cilleri di tziu Chicchinu rischiò di chiudere.

E con Lillina fece due figli: Bastianeddu e Battistina, belli ke gravellus. Crebbero bene, i due bambini, col gatto Bagadiu e il cane Baccicai.

E Lillina rideva di gusto quando le chiedevano...”ih, Lilli’, tottus kustus nominis in Ba...”

Ba...stava per “bakulu”...a ricordare, se mai ci fosse stato bisogno, quel bastone che aveva raddrizzato qualche idea storta e sbagliata. Quel Bakulu restò poggiato sempre dietro la porta... come la croce processionale d’argento dentro la sagrestia di San Sebastano.

E, per le grandi pulizie di Pasqua, veniva lucidato solo da Lillina, che nel farlo rideva e gli parlava: splendente, con tutti i nodi in evidenza e le venature robuste a ricordo di un vigore senza pari.

Inizialmente i bambini chiesero alla mamma qualcosa su quel bastone, ma si accontentarono di sapere che era un ramo di un albero magico di S’è Cuboni, un campo aperto vicino a casa.

Poi non chiesero più nulla.

Quando a Lillina ddi fudi calada su paralisi, volle che su bakulu le fosse messo vicino al letto.

Per la prima volta in trent’anni su Bakulu lasciò il suo posto e Boboreddu e i figli lo portarono come in processione dalla malata.

E quando Boboreddu glielo porse, Lillina lo fulminò con lo sguardo e poi fece una risata gorgogliante, da bambina dispettosa”. Tzia Peppina tacque.

Poi diede un sospiro: “Ti ddu nau, filgiu miu, si stimanta meda Lillina e su pubiddu, ma non appu mai cumprendiu poita, morendusì, Lillina abbia chiamato a sè la figlia Bonarina e le abbia affidato su bakulu...boh, non l’ho mai capito perché, morendo, Lillina abbia affidato il bastone alla figlia Bonarina”.

Tziu Peppinu smise di succhiare su sigarru.

Mi guardò e mi sorrise con una bocca senza denti.

Foto wikipedia.org

In Sardegna esiste una delle piante più rare di tutto il mondo. Pensate che pare ne siano rimasti solamente dieci esemplari.

Si tratta di una pianta endemica dell’Isola, l’Aquilegia Nuragica, ne rimangono pochissimi esemplari, una decina, racchiusi in una superficie di soli 50 metri quadri tra gli strapiombi del celebre canyon di Su Gorropu, nel Supramonte.

E’ molto difficile sapere davvero quanti esemplari di questa pianta sono rimasti, a causa dell’inacessibilità della zona in cui cresce.

L’Aquilegia Nuragica, che chiaramente è a serissimo rischio di estinguersi, sviluppa dai tre ai cinque fiori violacei bellissimi (anche se il colore può variare dal bianco al blu). Si tratta di una pianta tossica che, di conseguenza (e per fortuna) non è soggetta al pascolo da parte degli erbivori.

La cosa grave è che, nonostante la su rarità, allo stato attuale non ci sono misure di tutela a favore di questa specie, nonostante un progetto di legge in tal senso presentato al consiglio regionale della Sardegna presentato nel 2006. Aquilegia nuragica (Arrigoni & E.Nardi, 1978), comunemente nota come aquilegia dei nuraghi, è una pianta erbacea perenne appartenente alla famiglia delle Ranunculaceae, endemica della Sardegna.

È geneticamente distinta dalle altre specie del genere

Aquilegia presenti in Sardegna e dall’Aquilegia vulgaris, che in Sardegna non è presente.

L’origine del nome del genere (aquilegia) non è chiaro. Potrebbe derivare da Aquilegium (cisterna) o Acquam legere (raccoglitore d’acqua) per la forma particolare che ha la foglia nel raccogliere l’acqua piovana; come anche da aquilina (piccola aquila) a somiglianza dei rostri dell’aquila.

Resta comunque il fatto che il primo ad usare tale nome sia stato il Tragus (altro botanico del 1600), e quindi il Tournefort (Joseph Pitton de Tournefort 1656 - 1708, botanico francese) e definitivamente Linneo che nel 1735 sistemò il genere nella sua Polyandria pentagyna.

L’epiteto specifico nuragica si rifà chiaramente ai nuraghi, tipiche costruzioni in pietra dell’isola sarda. Il fusto ed i rametti sui quali si sviluppano le inflorescenze sono eretti e possono raggiungere una lunghezza variabile tra i 20 ed i 45 centimetri.

La parte bassa si presenta glabra mentre la parte alta è ricoperta da una fine peluria ghiandolare.

Le foglie sono organizzate in rosette basali lunghe tra i 15 ed i 25 centimetri, bipartite o tripartite, dalla forma cuoriforme o rombiforme e con i margini variamente lobati e dentellati, a differenza di Aquilegia barbaricina i cui margini fogliari non presentano dentellature.

(segue pagina 20)

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AQUILEGIA NURAGICA

(segue dalla pagina 19)

Sviluppa da tre a cinque fiori solitari costituiti da due ordini, interno ed esterno, di 5 tepali tra i quali quelli interni assumono la forma di un cappuccio rovesciato entro il quale si trova il nettare.

La parte terminale dei tepali interni assume la forma di sperone fuso alla base con gli altri. Il colore dei petali esterni varia dal blu al bianco. Il frutto è costituito da una capsula deiscente dalla forma appuntita.

L’apparato radicale è costituito da un rizoma piuttosto grosso dal diametro variabile tra gli 8 ed i 15 millimetri sul quale si innestano le foglie basali.

È una pianta endemica della Sardegna.

Il suo attuale areale è rappresentato da una superficie di 50 mq tra gli strapiombi del canyon di Gorroppu, nel Supramonte.

A causa della perdita dell’habitat naturale e dell’impatto esercitato dall’uomo Aquilegia nuragica è classificata nella IUCN Red List come specie in pericolo critico di estinzione.

Essendo tossica non è soggetta al pascolo da parte degli erbivori.

La specie è stata inserita dalla IUCN nella lista delle 50 specie botaniche più minacciate dell’area mediterranea. Allo stato attuale non esistono misure di tutela a favore di questa specie, nonostante un progetto di legge in tal senso del consiglio regionale della Sardegna presentato nel 2006. https://it.wikipedia.org/ wiki/Aquilegia_nuragica

Quando si parla di saldare debiti non più procrastinabili con Grazia Deledda, ce n’è uno che il sistema celebrativo del 150esimo è riuscito a colmare con la luminosa opportunità di un racconto internazionale di Deledda. Attraverso le specifiche direttive del Comitato celebrativo si è inteso evitare le facili agiografie e si è finalmente usciti dalla patetica, dolente ed eterna dimensione peroratoria nei confronti di Grazia Deledda, cioè la condizione limitante di doverne documentare le competenze, ad onta di un Nobel.

Basta, direi.

Il miracolo compiuto da questo percorso celebrativo, così come è stato pensato, organizzato e posto in essere, è stato quello di far coabitare in spazi fisici diversiin maniera capillare a livello scolastico, dalla Sardegna a New York, da Doha ad Atene, da Bruxelles a Mosca - il proposito arrivato a pieno compimento di deprovincializzare una figura capitale della cultura mondiale, inspiegabilmente caduta in un pericoloso oblìo. Credo che l’identità culturale italiana sia fortemente legata alle sorti divulgative di Grazia Deledda.

Da decenni i sardi si piangono addosso per gli scarsi numeri relativi al turismo culturale, tuttavia si rimane saldamente àncorati a un turismo stagionale e balneare. L’ambizione intellettuale, al di là della conclusione del

Foto cityandcity
Giornata della donna alla biblioteca del Ministero dell’Istruzione e del Merito I libri di Grazia Deledda dal 7 al 9 marzo 2023 dalle ore 09:00 alle ore 13:00 e dalle ore 14:00 alle ore 15:00 Ministero Istruzione via Dandolo 3 00153 Roma Tel.39 06 5849 4500 https://www.miur.gov. it/sede-e-contatti

150esimo, è un percorso a lunga gittata. L’impronta divulgativa segnata dal comitato è un format virtuoso che dovrebbe valere per ogni futura scelta connessa al turismo culturale.

Esportare la statura culturale di Deledda, farne un processo culturale itinerarante, è stata un traino per chi ancora la conosce poco, o la ha dimenticata. Intervenire a New York ha comportato un’interazione diversa rispetto al dialogo con le nazioni del Mediterraneo, offrirla agli universitari è stato diverso che porgerla agli studenti delle superiori, scriverne sui giornali e stato diverso che curarla per gli atti accademici. Un lavoro indefesso ma appassionante e una conclusione logica che sia inflessibile auspicio per il futuro: la Letteratura è viaggio e Grazia Deledda deve continuare a viaggiare.

Ilaria Muggianu Scano

Il Ministero dell’Istruzione e del Merito celebra la Giornata internazionale della donna con un’esposizione di libri di Grazia Deledda custoditi presso la Biblioteca “Luigi De Gregori”.

I testi saranno esposti dal 7 al 9 marzo. L’esposizione del MIM avrà come protagonista Grazia Deledda, una delle più grandi scrittrici del Novecento, premio Nobel per la letteratura nel 1926 e simbolo straordinario di riscatto, modernità e progresso.

Della scrittrice, saranno esposti “Il Dio dei viventi”, romanzo del 1922, visionabile in una rara e pregiata versione del 1926 della casa editrice Fratelli Treves, Milano, “Romanzi e novelle”, edito da A. Mondadori, Milano nel 1941, e “Il libro della terza classe elementare: letture, religione, storia, geografia, aritmetica”, edito da La Libreria dello Stato, Roma, nel 1930, un interessante ausilio didattico per la scuola, compilato dall’autrice che si dedicò per alcuni periodi anche all’insegnamento. Arricchiscono la mostra una serie di volumi sulla condizione femminile nel Novecento e alcune biografie di importanti donne della storia italiana, custoditi anch’essi tra il patrimonio librario del Ministero.

L’esposizione prevista sarà aperta dalle ore 09:00 alle ore 13:00 e dalle ore 14:00 alle ore 15:00. L’accesso per il pubblico esterno è in via Dandolo 3.

Per il personale del Ministero dell’Istruzione e del Merito non occorre prenotazione.

L’iniziativa su Grazia Deledda sarà replicata nel mese di settembre, in occasione della ricorrenza della nascita della scrittrice.

https://www.orizzontescuola.it/giornata-della-donna-alla-biblioteca-del-ministero-i-libri-di-grazia-deledda-dal-7-al-9-marzo/

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asceva nel marzo di 144 anni fa a Philadelphia

Ellen Rose Gilles, una studiosa destinata a incarnare l’icona dell’emancipazione femminile, quella disturbante, quella che non é tollerata dalla famiglia da cui si congeda presto per conquistare l’Italia e la Sardegna, quell’ emancipazione che non é tollerata dalla famiglia aristocratica sassarese del suo giovane amante, non é tollerata, a quanto scrive il Washington Post, dai protagonisti di un’indagine sulla faida orgolese che la geniale ed eclettica studiosa conduceva da tempo.

Quella stessa insofferenza che armò la mano di chi la uccise, ormai cento anni fa in terra sarda, dove il mistero tragico venne liquidato presto come un suicidio ma in America la stampa più accreditata proseguì per lungo tempo indagini e congetture sul cold case che appassionò l’opinione pubblica per anni e anni.

Ad oggi solo una certezza su Ellen Rose Gilles: la perdita precoce di un’ottima studiosa e quella rosa bianca sulla tomba nel cimitero sassarese che quotidianamente un misterioso sconosciuto deposita pietoso in memoria dell’ ardimentosa amante del sapere. È un caso questo sospetto oblio?

Ellen è una ricca ereditiera amante delle lettere,

IL MISTERO ELLEN ROSE GILES

passione che estenderà presto alle scienze filosofiche, all’antropologia, interessi e studi che convergeranno nel suo lavoro di gornalista documentarista.

Ellen Rose, figlia di George Giles, nasce nel 1874. Il padre, morto quando lei è ancora giovane, è uno dei maggiori protagonisti dell’alta finanza americana, figura di spicco di Chesnut Street, cuore pulsante del movimento finanziario del nuovo continente che solo a fine secolo si sposterà nella newyorchese Wall Street.

“Il caso Giles” dettagliata biografia di Ellen Rose, scritta a quattro mani da Alberto Mario Pintus e Maria Giovanna Cugia, edito dall’ Associazione Storica Sassarese, aiuta a ricostruire gli ultimi anni dell’impavida americana, quelli in cui Ellen, dovunque passi crea grande ammirazione e invidia, ad un tempo, delle autoctone per quella donna che ammalia una terra intera con la sola forza della passione per la cultura unico veicolo di progresso per la donna europea, come presto si persuade Ellen.

”Nel mondo raffinato di Philadelphia la famiglia Giles era sicuramente ben introdotta.

Anche dopo la morte di George, la famiglia mantenne un tenore di vita dispendioso, viaggiava da un continente all’altro, aveva sempre disponibilità di cifre anche elevate in contanti.

N
Foto sassarinews.it

Alla sua morte, Ellen lasciò una grossa somma di denaro, 40.000 dollari, una cifra enorme per l’epoca. Queste erano solo le disponibilità liquide, che andavano sommate alle varie proprietà immobiliari di famiglia, senza considerare i gioielli. Al momento della morte le vengono trovate 300 lire italiane”.

La vocazione primaria di Ellen Rose é viaggiare. Conclude i suoi studi nel prestigioso college Bryn Mawr di Philadelphia.

Nei primi anni del ‘900 risultava residente a New York ma viveva stabilmente a Firenze e nel 1906 si trasferisce a Sassari.

Negli anni 1920-1922 Ellen aveva ospitato Georgiana Goddard King, che aveva conosciuto al Bryn Mawr College al tempo degli studi.

La King, in seguito ai suoi interessi di ispanista e di storica dell’arte, si era interessata alla cultura artistica dell’isola, e le amiche Ellen e Anna Rose Giles l’avevano aiutata a conoscere alcuni studiosi locali e l’avevano accompagnata in varie località dell’isola. Riesce a trasfondere il suo entusiasmo pr la conoscenza al suo clan interamente femminile: madre, nonna e sorelle.

È il 1906 quando l’indomito animo nomade di Ellen viene sedotto dalla Sardegna.

Si trasferisce stabilmente a Sassari ma misteriosamente manterrà per tutta la vita la propria rsidenza a Firenze.

Analogamente si comporterà sua madre Anna Rose, che vivrà per sempre in Sardegna, morendo molto anziana.

La curiosa vicenda della madre di Ellen prosegue dopo la morte della figlia, nel 1937, con il trasferimento a casa del parroco di Ollolai, don Onnis, nella Barbagia più profonda, conosciuto durante un incontro con il pittore Carmelo Floris.

Secondo gli autori della biografia tale convivenza risulta quanto meno bizzarra dal momento che Anna Rose non era e non fu mai cattolica.

Sembrò, a tutti gli effetti la misteriosa ricerca di un terreno franco di protezione personale.

L’amicizia della madre di Ellen con il celebre artista sardo è testimoniata da un fitto carteggio.

Sulla permanenza ad Ollolai rimane poco a causa dell’ altrettanto enigmatica distruzione dell’archivio parrocchiale.

Rimane traccia invece del singolare antagonismo artistico che incrinò, dapprima i rapporti tra Anna e il Floris e, successivamente, persino con la figlia, dalla quale, da quel momento, iniziò un progressivo allontanamento.

Notizie sulla singolare condizione familiare sono addirittura riportate su una delle prime testate nazionali, (segue p.24)

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(segue dalla pagina 23) il “Giornale d’Italia”, che riportava della lite fra mamma e figlia per la vicendevole accusa di plagio di un’opera. Alcuni dei disegni di Anna Rose possono essere ancora ammirati nella Biblioteca Universitaria di Sassari.

Per il censo americano madre e figlia risultano essere, rispettivamente, letterata e artista.

Mentre Ellen, abbastanza disinteressata al denaro, si fermerà stabilmente a Sassari, fidandosi di un consulente europeo, sarà Anna, scaltra e guardinga nella gestione degli affari, gestirà sempre personalmente gli interessi economici, facendo la spola da un continente all’altro.

Dopo la prima laurea Ellen frequenterà le Università di Berlino e della Sorbona.

Intanto aveva raggiunto un’ottima conoscenza di numerose lingue che parlava fluentemente: italiano, francese, tedesco, spagnolo, arabo, cinese e un discreto controllo del latino e del greco.

Continua a studiare e viaggiare tra la Germania, la Francia, la Toscana, l’Africa, l’Australia e il medio Oriente dove si trattiene per gli scavi di antiche civiltà.

In questo periodo le verrà riconosciuta un’elevata competenza nella traduzione delle iscrizioni dell’antica civiltà babilonese, per le quali era considerata un’autorità

assoluta.

Quando giunse nell’isola per la prima volta, decise di raggiungere Sassari da Cagliari in groppa ad un cavallo da lei acquistato. Dove si trovano oggi gli studi di Ellen Rose Gilles? “Quando sarà finita l’opera mia e dovrò tornare in America per pubblicare il mio libro per le cui traduzioni in italiano ed in altre lingue ho già ricevuto varie proposte” rispondeva Ellen al cronista de “La Nuova Sardegna” che, nel 1907, le chiedeva quando avrebbe abbandonato la Sardegna.

Il manoscritto però non vedrà mai la luce.

Dopo lunghe e minuziose ricerche, Alberto Mario Pintus e Maria Giovanna Cugia, ritrovano in America le ricerche di Ellen inserite nell’opera “Sardinian painting” dell’antropologa Georgiana Goddard King, e alcune fotografie relative alla tonnara di Carloforte che la Giles inviò all’archivio del Bryn Mawr College.

Sono, tuttavia, davvero numerosi gli articoli che la giornalista letterata corrisponde a varie riviste americane su costume e cultura italiana.

Ellen viene assassinata alle 8 di sera del 15 gennaio 1914, in via Roma n. 87 a Sassari. la luce morente del focolare illumina una rivoltella abbandonata sul pavimento.

Foto wikipedia.org

È l’arma che Ellen ha acquistato pochi giorni prima e che ora le ha tolto la vita.

La Nuova Sardegna titola con “Impressionante suicidio”, di ben altro avviso il New York Times, il Washington Post e il resto della stampa americana secondo i quali “Una ragazza del Bryn Mawr è stata uccisa in Sardegna”.

Il suicidio però non spiegherebbe perché l’ogiva del proiettile ha trapassato le carni senza lacerare gli abiti di Ellen.

Non sappiamo che fine abbia fatto il testamento della vittima e cosa veramente fosse a conoscenza della cameriera, Maria Filippa Rovetti.

Chi è il giovane nobile sassarese che lasciò la città la notte in cui morì la studiosa e che tutti dicevano suo amante?

Se dovessi fare un bilancio direi che siamo appena ad un 60% delle ricerche.

Il mistero è davvero grande.

Come fitto è il mistero attorno all’identità della persona che, all’indomani della pubblicazione della biografia di Ellen, si reca una volta alla settimana a posare un fiore bianco sulla tomba di un’appassionata amante della Sardegna, che l’isola ha ammirato, talvolta invidiato ma che non ha saputo riamare con lo stesso ardore. Ilaria Muggianu Scano

DELEDDA O DELLA LABILE IMMORTALITA’

«Conserva le mie lettere, o Andrea mio!

Chissà l’avvenire!

Forse io diventerò grande e alla mia morte vi sarà chi racconterà la mia vita.

I posteri vedranno come io ho saputo soffrire ed amare e diranno bene di me, come si parla bene di tutte le anime che hannosofferto e gioito per una nobile idea».

Così Grazia Deledda scriveva, in una lettera senza data del 1893 (tuttora inedita), all’allora fidanzato (il maestro Andrea Pirodda), prefigurando per sé un destino diimmortalità letteraria.

A più di ottant’anni dalla sua morte permane ancora il dubbio che, nonostante il conferimento del Premio Nobel, un tale destino non si sia pienamente compiuto.

Sarebbe infatti assai arduo, persino oggi, rispondere in maniera univoca alla domanda se la sua opera sia compresa o esclusa dal canone dei classici della Letteraturaitaliana dell’Otto-Novecento.

E ancora valutare se i suoi storici detrattori, o gli altrettantoacritici attuali iper-estimatori, le abbiano fatto più bene o male nel lungo percorso, assai accidentato, svolto per comprenderne davvero, appieno, la sua figura di donna e discrittrice di una modernità quasi inimmaginabile

(segue pagina 26)

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(segue dlla pagina 25) (e dalle attribuitele non rare ingenuità e approssimazioni), in un tempo e un luogo ai confini del mondo conosciuto qual erala Nùoro di fine XIX secolo.Forse una prima indicazione, di massima, potrebbe fornirla la recente istituzionedell’Opera Nazionale deleddiana, che dunque ne sancisce ufficialmente l’ingresso ormainei classici.

Ma ci sono voluti circa novant’anni dall’attribuzione del Premio Nobele, come si sa, non dipende da un decreto ministeriale la sopravvivenza di un autorenell’immaginario letterario dei popoli. Quel che è certo è che, in qualche misura, sia stata la stessa Deledda a fondare un canone (quello della moderna letteratura sarda in lingua italiana) i cui semi credo siano stati fatti germogliare nella serra dei suoi carteggi prima di essere trapiantati nella sua letteratura. Con questo canone, in un modo o nell’altro, le scrittrici e gli scrittori isolani a lei successivi si sono trovati a dover fare i conti ; non in tutti i casi, a mio parere, conpiena consapevolezza e anzi spesso utilizzando modelli interpretativi superati e bana-lizzanti.

E forse la prova “provata” di questa colpevole incapacità di giudizio (irrilevantesia esso finora stato negativo o positivo) risiede anzitutto nel non aver sempre capitoche la

Deledda, costruendo il proprio personaggio di scrittrice, costruiva insieme una idea di Sardegna “adattata” alle aspettative dei suoi lettori non sardi (Angioni, 2012), quegli stessi lettori che erano e sono capaci di apprezzare i diari di viaggio di Valery o Balzac, o peggio di Lawrence.

Una lunga teoria di viaggiatori, distribuita nell’arco di circa tre secoli, dopo unsopralluogo più o meno fugace, aveva dato un consistente contributo a collocare laSardegna, nell’immaginario del lettore europeo extraisolano, entro le coordinatedell’esotico “a portata di mano”, in una dimensione galleggiante «a metà strada fra realtà e fiaba.

Un’isola […] primitiva, leggendaria» (Atzeni, 1999: 13), come annotava nelle carte raccolte in “Raccontar fole” .

Che ancora scrive: «La Sardegna descritta dai narratori e viaggiatori europei è un territorio magico e demoniaco, selvaggio e misterioso, luogo di visioni, soglia dell’ignoto» (Atzeni, 1988).

Tale immaginario è ulteriormente sostenuto dalla descrizione di un quadro economico «povero, primitivo,quasi esclusivamente pastorale» (Atzeni, 1999: 41) e si appiattisce su una sorta di lectio facilior che arriva ad apparentare i sardi con i nativi dell’America settentrionale.

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Eppure, malgrado le condizioni descritte siano in realtà comuni ad altre aree geografi camente periferiche della Penisola, spiccano, nelle pagine dei viaggiatori in Sardegna, le analisi che delineano per l’Isola una dimensione temporale differente rispetto a quella,percepita come più dinamica, del resto d’Italia.

Il diverso, l’altro da sé, si riconduce dunque, in tutto e per tutto, al selvaggio ignarodella cultura europea. E se fin dai tempi classici tale alterità veniva dislocata alla periferia del mondo allora conosciuto, tanto dal punto di vista geografico, quanto daquello culturale, non essendo possibile ricollocare la Sardegna fuori dal contesto del Mediterraneo occidentale, ci si trova costretti a traslare metaforicamente la cultura degli indigeni verso i limiti del Nuovo Mondo.

Oppure, ed è l’altra soluzione ampiamente praticata, si travisano le coordinate temporali tagliando fuori l’Isola dalla modernitàe dalla conseguente idea di progresso, il che equivale a negarle l’ingresso nella Storia.

Questa idea mitica di “insularità” sarda come capacità o condanna di sfuggire altempo della storia, incardinata nella «immagine didattica di preistoria nella storia» cui fa riferimento Febvre (1949), si contrappone a quella che reinterpreta la Sardegnacome osservatorio storico privilegiato, aperto, che dalla linea della

costa permette diassistere alla «storia generale del mare» (Braudel, 1949) e delle dominazioni e dei traffici e delle civiltà diverse che l’hanno attraversato.

In realtà si tratta di immaginicomplementari, che insieme contribuiscono alla realizzazione di un processo voltoa ricomporre gli apparenti strappi nella trama della storia attraverso la rivalutazione diquei fenomeni che, considerati marginali rispetto alla grande Storia, e persino rispettoalla grande storia letteraria, europea, sono stati fino a questo punto trascurati e che invece rivelano una loro peculiare ricchezza solo nell’adozione di un punto di vistaperiferico e di una prospettiva “dall’interno” della realtà studiata.

Si dovrà aspettare il pieno Novecento e uno scrittore del calibro di Giuseppe Dessì per rilevare come per la Sardegna tale (presunta) esclusione dalla storia sia stata insieme «la debolezza e la forza del suo popolo», il segreto dell’Isola, giacché questa è «una terra nella quale la storia [deve] ancora cominciare e questo a dispetto della sua apparente decrepitezza»(Dessì, 1995: 161).

L’identità rischiava dunque di essere schiacciata fra le suggestioni precipitatedall’esterno —le quali dissolvevano la specificità culturale degli autoctoni non di rado assimilandola,(segue p 28)

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(segue dalla pagina 27) come si accennava, al mito del selvaggio (buono o cattivo a seconda delgusto e delle mode)— e il disincanto con il quale si guarda, dall’interno, ai processi diomologazione sociale imposti dai più violenti accadimenti della Storia.

Rischiava, cioè,di perdere la possibilità di costruirsi autonomamente «fuori dagli schemi folklorici e daicomplessi di subalternità politico-culturale» (Cerina, 1992: 10).

I “selvaggi” che popolano i resoconti dei viaggiatori “stranieri” tra la fine del Settecento e i primi del Novecento cedono la ribalta, nella pagina della Deledda, ad altri colorati protagonisti forse non troppo dissimili nella sostanza, quegli abitatori di un isola-mondo perfettamente circoscritta la quale, mentre galleggia da tempo immemorabile uguale a se stessa, è apparentemente destinata a non entrare nel tempo progressivo della Storia. Un esotismo, o meglio un “autoesotismo”, che si è fatto mitopoiesi, e così forte da riuscire a convincere gli stessi sardi d’essere, e d’essere stati sempre, così come laDeledda li ha raccontati, «confondendo il verismo con la verità» (Dessì, 1971: 307-311),e dunque senza quella necessaria dose di ironia che, per Meletinskij, è «la condizioneindispensabile della mitologizzazione moderna» (Meletinskij, 1993).

Ma Grazia è oltremodo consapevole, e lucido e definito è il suo programma,fin dallagiovinezza. Appena diciannovenne, scrive a Maggiorino Ferraris, allora Segretario diredazione della Nuova Antologia, della quale assumerà la direzione a partire dal 1897:«Avrò tra poco vent’anni e a trenta voglio avere raggiunto il mio scopo che è quello di creare da me sola una letteratura completamente sarda»

(Lettera a Maggiorino Ferraris,s.g., s.m., 1890, ora in Scano, 1972: 249).

E ancora, l’anno successivo, a Stanis Manca:«amo immensamente il mio paese e sogno di poter un giorno irradiare con un miteraggio le fosche ombrie dei nostri boschi, di poter un giorno narrare, inte[r]a, la vita e lepassioni del mio popolo, così diverso dagli altri, così vilipeso e dimenticato e per ciò piùmisero nella sua fiera e primitiva ignoranza».

(Lettera a Stanis Manca, 1 agosto 1891; orain Folli, 2010: 72-73)

Eccole, le tracce di quel “deleddismo” —che della scrittura deleddiana non è inrealtà che la parte più esteriore e superficiale, lucrando sul quale molta della peggioreletteratura sarda degli ultimi anni ha costruito la propria fortuna editoriale. Fortuna chesi basa ancora sulle aspettative di una ricezione giocata sul falso fondamento che laSardegna sia ancora là, im-

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mobile, uguale a quella costruita dall’astuzia letteraria diGrazia Deledda ben più di un secolo fa. Ma la riduzione della Deledda al deleddismo(con l’immancabile sfilata di re pastori, banditi, sanguigni sacerdoti, sfilate e santuari, maghe e questuanti, e tutta una teoria di folklorismi costruiti ad arte) è il peggior errore commesso da una parte della critica ai danni di una scrittrice e di una donna articolata e complessa, sospesa fra più mondi in opposizione: la provincia e la ribalta internazionale (conquistata ben prima del Nobel grazie alle numerose e prestigiose traduzioni); la propria femminilità ribelle e indipendente costretta a soggiacere alle regole del «natio borgo selvaggio» e l’anelito verso una moderna emancipazione dalla famiglia d’origine,dalla società e dal ruolo; un certo conservatorismo nella visione del mondo (ad esempiole posizioni critiche verso la possibile legge sul divorzio) e l’anelito verso la più urgente modernità, che sono alcuni degli aspetti, se pure apparentemente contraddittori, checostituiscono la sua poliedrica personalità.

Personalità che è a tutt’oggi difficilmente ricostruibile giacché, caso più unico che raro fra i grandi scrittori del Novecento, persino fra quanti non siano stati insigniti del Premio Nobel, la sua produzione (letterariaed epistolare) non è ancora stata integralmente

studiata e resa disponibile, neppure pergli addetti ai lavori.

Quando ciò finalmente avverrà, quando finalmente Grazia, e non già Cosima, sarà salvata dal destino di lungo oblio nel quale l’abbiamo imprigionata, destino tanto più doloroso per una scrittrice che ha consacrato l’intera sua vita privata e letteraria alla costruzione del proprio eternarsi, riusciremo forse a fare i conti con la rimozione selettiva alla quale l’abbiamo da circa un secolo condannata, relegandola sostanzialmente nel folklore.

Perché il folklore non fa paura, può anzi essere persino consolatorio. Mentre credo invece che ancora faccia paura, o possa farla, l’idea che una “don-nina” nuorese di fine Ottocento, minuta e incolta, possa aver concepito e strutturato un vero e proprio sistema letterario il cui centro fosse la stessa Deledda che «con il suo metro qualifica tutte le vicende umane» (Mannuzzu, 2010: 53), la sua inquietudine moraleche lei per prima è incapace di distinguere dalla vita.

E insieme che abbia concepito erealizzato una macchina da guerra complessa e moderna che la conducesse, finora unica donna d’Italia, al Nobel. Fa paura perché non si riesce, ancora, a incasellarla in un genere letterario nazionale preconfezionato (segue pagina 30)

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(segue dalla pagina 29) (verista? naturalista? regionalista? romantica? decadentista?), sebbene, come osserva Massimo Onofri, «il verghismo e il dannunzianesimo [siano] quasi sempre dati di partenza nei romanzi e nei racconti di Deledda» (Onofri, 2015: 158).

In una lettera del 1893 ad Andrea Pirodda scrive: «Se il signor Campus ti ripete che io son verista chiedigli dove si trova, nei miei scritti,questo verismo.

Scommetto che si troverà imbrogliato per indicartelo.

Ma se io sono invece romantica, nei miei scritti, e romantica sentimentale? Oh, che vada a quel paese certa gente che parla di me!…». (Lettera inedita ad Andrea Pirodda del 29 settembre [1893], n. 86)

Dati di partenza seppure declinati in una prospettiva “radicalmente” nuova, conuna attenzione originale al “femminile”: «domani stesso comincierò [sic] a scrivere l’articolo sulle donne sarde, mettendoci […] tutto il mio sapere e tutto l’immenso amore che nutro per il mio paese tanto pittoresco quanto disgraziato.

Ho studiato assai sulla donna sarda, moderna, e credo che essa sia semprela stessa come ai tempi di Eleonora, perché il così detto progresso non si è punto diffusonei popoli sardi che conservano tutti i tipi, le tradizioni

e i costumi dei secoli passati.

Pur troppo le storie sarde non parlano delle donne, non ci danno alcuna notizia sui costumi ei caratteri femminili, ma, ripeto, io son convinta che cento, cinquecento anni fa, tutto era eguale ai giorni nostri, nel popolo e forse anche nella borghesia e nella nobiltà. Ad ogni modo io mi atterrò a ciò che meglio conosco, cioè alle donne sarde moderne, alle vere sarde, quelle del centro, delle montagne, le donne dei sardi pelliti, immortalati dal bollo di Marco Tullio che non ci voleva molto bene…». (Lettera ad Angelo De Gubernatis,1 novembre [1892])

Fa paura la sua indipendenza di donna-scrittrice, che non si piega alle regole del villaggio e ha la forza di rivendicare per se stessa un ruolo non subalterno nei rapportidi coppia:

«Le tue parole “ mia moglie non andrà con me e tanto meno da sola a visitarlo”, mi fecero pensare più di quanto tu credi. Pare che tu dimentichi che io sono una scrittrice, e che quindi, pur restando una donna onesta, ho diritto, andando a marito, d’una certa libertà di azione. Anche senza esser scrittrice esigerei questa libertà, e specialmente da te che seidifensore dei diritti della donna. Finché non ti offenderò, finché le mie azioni non lederannola fede che ti dovrò, tu non avrai diritto di proibirmele.

Foto ibolli.it

Se sei geloso e se non avrai fiducia in tua moglie, bisogna che me lo dica fin d’ora. Io, per conto mio, non fo che ripeterti cheodio la volgarità, e che certe pretese, certi vecchi pregiudizi coniugali non sono altro chevolgarità, alle quali non mi sottoporrò mai. Anche pigliando il tuo nome, serberò intera la mia personalità, e, purché abbia la coscienza di non offenderti ingiustamente, serberò le mie amicizie, le mie relazioni, la mia libertà. Salvo poi a concederti quanto più potrò, ove tu non parli di diritto». (Lettera ad Andrea Pirodda del 21 gennaio 1899, n. 168)

E in un tempo in cui scrittrici ed eroine di una femminilità da romanzo d’appendice sacrificavano se stesse e le proprie vite illanguidendo fino a morire per l’amore ideale, con intelligente ironia scrive in una lettera al proprio fidanzato:

«Non si muore di amore, no.

Tutt’al più si può pigliare una solenne indigestione» (Lettera inedita ad Andrea Pirodda del 29 settembre [1893], n. 86).

Fanno paura la sua determinazione:

«Scrivo da quattro anni: il mio sogno, la mia Idea, per non dire il mio ideale, è di fare,un giorno, qualche poco di bene al mio paese: alla mia terra sconosciuta, dimenticata,dilaniata dalla miseria e dall’ignoranza. E spero di riuscire: come, quando, non lo so anco-

ra,ma spero di riuscire perché ho molta buona volontà e un grande coraggio». (Lettera ad Angelo De Gubernatis del 1 novembre [1892]), e la sua consapevolezza, ai limiti della presunzione:

«Io sono forse […] una donna superiore, dalla intelligenza profonda: sento che ciò che ho di più in intelligenza mi manca in cuore; non so abbandonarmi alla passione appunto perché ho la forza di poter esaminare profondamente ciò che accade in me.

Tu, Andrea, meritavi d’incontrare una donna inconsapevole, che ogni altro affetto sacrificasse all’amore, una donnina di casa, che vivesse esclusivamente per te, in te e nel tuo amore». (Lettera inedita ad Andrea Pirodda del [14 marzo 1896], n. 97)

Nello sterminato monologo, il cui pretesto è occasionalmente la lettera (spesso d’amore) del momento, o l’articolo di costume piuttosto che il racconto, la Deledda compie un’indagine approfondita prima di tutto su se stessa, sui suoi limiti, letterari, etici e persino fisici, rivelando come le migliaia di sue pagine abbiano in realtà lei stessa come unico, vero interlocutore.

Nella scrittura, anche e soprattutto quella epistolare, Grazia impara a conoscersi einsieme si costruisce, scavando contemporaneamente le (segue pagina 32)

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(segue dalla pagina31) fondamenta per la fabbrica dei suoi stessi personaggi.

Una scrittura esercitata con funzione terapeutica: i vasti doloridella sua esistenza reale ricomposti e acquietati nell’ordinata razionalizzazione dellavita che è la pagina vergata.

Così funziona il mito, che attraverso il racconto esorcizza,gestisce e rende tollerabile ciò che è angosciante, incomprensibile, intollerabile.

Perché la scrittura, questo “coraggio” della scrittura cui non può sottrarsi, «come costretta da una forza sotterranea», rimarcherà in Cosima, sebbene nel suo piccolo ambiente, familiare e paesano, ciò rappresenti un ostacolo al compimento di un destino segnato alla nascita per ogni donna, diviene un grimaldello, la leva grazie alla quale sollevare se stessa oltre le pareti anguste di una casa che sa essere insieme nido e prigione. «Non faccio nulla, senti. Mi levo il più tardi possibile e passo la mattina facendo la calza, ricamando, cucendo, andando da un punto all’altro della casa senza poter trovare né pace né sollievo, aspettando il mezzogiorno, che viene alla fine, lentissimamente. Lo aspetto perché allora, dopo pranzo, posso nuovamente coricarmi. E mi corico fino alle quattro e leggo, senza mai poter chiuder occhio.

Dalle quattro alle sei scrivo, dopo le sei passo il resto della sera come un’anima dannata, andando nuovamente da una camera all’altra, e poi giù all’orto, e poi ancora sopra, provando ogni cosa, escogitando ogni mezzo per passare la sera… in attesa della notte, e poi del domani, sempre eguale, sempre lo stesso»

(Lettera inedita ad AndreaPirodda del 14 agosto 1893, n. 82); «Io non esco mai, mai non vedo nessuno, non ho un pensiero che possa divergere il perenne movimento doloroso del mio cervello…»

(Lettera inedita ad Andrea Pirodda del 29 set-tembre 1893, n. 86).

Ma perché questo avvenga è necessario che sull’altare della scritturaa Cosima si sacrifichi Grazia.

E lei lo fa, con determinazione e consapevole lucidità: «Avrò gloria, avrò fortuna, avrò dell’oro, sarò sempre invidiata, sarò la prima donna della Sardegna… ma non sarò mai felice… mai, mai, mai!

E lascerò sempre la disgrazia dietro di me, intorno a me, nelle anime a me più care…».

(Lettera inedita ad Andrea Pirodda del6 luglio 1893, n. 76)

https://www.academia.edu/39116673/Grazia_Deledda_o_della_labile_immortalita_2018

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Gli scritti di Gramsci sulla Sardegna, compresa la Questione Meridionale, mostrano un approccio antropologico affine alla prospettiva di studiosi come Geertz e Clifford nella mappatura di fenomenicomplessi, sia per la loro stratificazione interna che per le modalità antagonistiche in cui si collocano rispetto a interessi e movimenti sociali attivi nella contesa per l’egemonia.

In riferimento alla letteratura considerata come pratica simbolica, il metodo filologico gramsciano, anche nelle varianti del termine rielaborate da Edward Said, chiarisce come gli intellettuali, nonostante la contiguità con formazioni egemoniche, evolvano in gruppi autonomi responsabili della creazione e diffusione di una critica contro le forme subalterne nel Sud del mondo globalizzato

Se lo consideriamo, prendendo alla lettera Tom Nairn, precursore e testimone di una globalizzazione che attraversa e contamina il Primo e il Terzo Mondo, finendo per svuotare di senso questa stessa denominazione e ripartizione, Gramsci offre gli strumenti per avviare un dibattito sulla geografia culturale della Sardegna privo di preclusioni nei confronti della sua presunta arretratezza.

Se si dovesse sintetizzare questo processo in un solo termine, si potrebbe ricorrere a quella condizionede-

LA QUESTIONE MERIDIONALE E LA SARDEGNA

terminata dalla «filologia vivente», ovvero la «compartecipazione, per compassionalità all’organismo collettivo».

Si tratta, nelle parole di Gramsci, di una grandenovità a livello politico, una fase che trascende i dati frutto di un mero calcolo statisticoo di una fredda analisi razionale. Abbiamo di fronte uno sconvolgimento che nell’arte politica porta la sostituzione nella funzione direttiva dell’organismo collettivo all’individuo singolo, al capo individuale.

I sentimenti standardizzati delle grandi masse che il singolo conosce come espressione della legge dei grandi numeri, cioè razionalmente, intellettualmente, eche egli, se è un grande capo, traduce in idee-forza, sono conosciuti per ‘compartecipazione’ per ‘compassionalità’ e se l’organismo collettivo è innestato vitalmente nelle masse, conosce per esperienza dei particolari immediati, con unsistema di ‘filologia vivente’ per così dire. Credo sia possibile collocare la letteratura sarda del tardo Novecento nel segno della filologia vivente, intesa come processo, e in cui gli autori, pur senza ambizioni di leader, certo si pongono davanti all’oggetto della loro scrittura con un’attitudine fortemente compartecipativa.

Abbiamo inoltre un corpus di testi caratterizzati da (segue pagina 34)

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(segue da pagina 33) grande varietà distili e linguaggi, la cui ricezione è in costante crescita a livello nazionale einternazionale, elementi che portano con sé anche un confronto con istanze primatrattate quasi esclusivamente in cerchie specialistiche, o dalle scienze sociali.

Storicamente il grande dibattito sull’Autonomia, esaurita la fase eroica di Ichnusa, migra su altri lidi, diffondendosi anche in ambito letterario e qui, fin dal fenomeno Gavino Ledda, coagula in temi e narrazioni di forte impatto emotivo e sociale, cheoperano in osmosi rispetto alla realtà coeva. Non è semplice trovare un denominatore comune per generazioni diverse di autori, ma si può ragionevolmente affermare che lo scrittore sardo contemporaneo rientra nel novero di quelli che Gramsci, sulla base della sua esperienza all’Ordine Nuovo, definiva «nuovi intellettuali»:

Il modo di essere del nuovo intellettuale non può più consi stere nell’eloquenza, motrice esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni, ma nel mescolarsi attivamente alla vita pratica, come costruttore, organizzatore, ‘persuasore Antonu su Gobbu ”, permanentemente’ perché non puro oratore, e tuttavia superiore allo spirito astratto matematico; dalla tecnica lavoro giunge alle tecnica scienza e alla

concezione umanistica storica, senza la quale si rimane ‘specialista’ e non sidiventa ‘dirigente’ (specialista +politico).

Il nuovo tipo di intellettuale che prende forma nell’elaborazione dei Quaderni è dotato di competenze tecniche, domina i saperi della modernità senza essere uno specialista, il suo umanesimo non è inteso in senso paludato ma militante.

Il suo omologo, lo scrittore sardo, persuasore permanente esiste da tempo, ha molti volti e gioca un ruolo importante nella coscienza di sé dell’isola.

A livello narrativo, ricorre alla vis come consapevolezza individuale del tempo trascorso, dislocazione e bilancio insieme del passato, in proiezione futura. Molta di questa letteratura ha fatto propria questa doppia visione secondo modalità che sono state proprie dell’antropologia isolana.

Mi riferisco in particolare agli studi di Andreas Bentzon ricuperati e illustrati da Cosimo Zene.

In primoluogo sul versante metodologico, Bentzon sollecitava «un atteggiamento più creativo verso modi alternativi di esplorare un dato soggetto», convinto com’era che «la buona scienza ha in comune con la ‘buona arte’ il fatto di saper andare oltre la realtà, intervenendo su ciò che esiste come possibilità».

Lo studioso danese attribuiva grande importanza alla

Foto andrea salvino

creatività sia per rivitalizzare l’antropologia che per attuare una vera e propria rivoluzione «non portata avanti sanguinosamente per la ricerca del potere ma, alcontrario, una rivoluzione silenziosa capace di farci apprezzare, attraverso la riflessioneintellettuale, lo sforzo fatto da uomini e donne per creare e mantenere via una società».

La prospettiva utopica sottesa a una scoperta dell’esistente che avrebbe del rivoluzionario riporta a un dialogo del 1979 in cui Pietro Clemente e Giulio Angioni discutono dell’attualità di Gramsci partendo dal concetto di egemonia. In questoscambio si confrontano visioni discordanti dei modelli attraverso cui vedere la stessarealtà che, analizzata dall’antropologo, sarebbe poi stata raccontata dallo scrittore.

Le due prospettive che qui si confrontano avrebbero caratterizzato l’evoluzione sia dellaletteratura sarda che della cultura italiana dell’ultimo mezzo secolo. Angioni mette l’accento sul carattere dinamico, di processo, dell’egemonia, come assunzione e interiorizzazione di idee che «vengono socialmente promosse e incanalate in funzione dell’esercizio del potere», in un contesto dove, coerentemente con il dettato gramsciano, sarà il cons enso a prevalere sulla coercizione.

L’opinione di Clemente, il quale preferisce concentrarsi «sul processo piuttosto che sull’espressione del potere,sull’egemonia come processo e soprattutto ‘sull’altra parte’, cioè sull’essere egemonizzati» riflette a gr andi linee le problematiche prioritarie all’interno del pensiero foucaultiano e poststrutturalista, nel quale, ricorrendo a una generalizzazione cheovviamente ne impoverisce la ricchezza concettuale, si segue il pensiero di Althusser, che vede l’individuo moderno oppresso da tetragoni e immutabili apparati statuali.Angioni non nega questo aspetto, ma la sua posizione presenta un lato originale e foriero di sviluppi inattesi, visto che egli immagina l’egemonia come un processo in gran parte endogeno, in cui essa si afferma «anche solo attraverso una riplasmazione euna reinterpretazione e omeostatizzazione di ciò che veniva da fuori con ciò che stava dentro, anche solo con l’amalgama potente della religione». Questo riconoscimentodel residuale, talmente forte da far pensare ad un’agnizione, in realtà è il nesso che lega ricerca etnologica e scrittura in Angioni.

Tra la Sardegna dei tempi di Gramsci e quella documentata da Angioni, vi è stata un’altra guerra mondiale, la ripresa delle lotte dei contadini per la conquista della terra, una monca (segue pagina 36)

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(segue dalla pagina 35) riforma agraria e infine l’abbandono delle terre da parte dei braccianti e dei figli dei coltivatori più o meno autonomi, che costituivano lamaggior parte del corpo sociale agricolo in Sardegna, mentre le aziende più grossedi massaius mannus e i consorzi agrari, che ebbero strumenti e capitali, poteronosviluppare colture intensive e irrigue meccanizzando i cicli produttivi secondo un’organizzazione di tipo capitalistico.

La scrittura di Angioni non solo privilegia e asseconda la mobilità sociale e il portato dell’ibridazione (contro la precedente purezza), ma è dotata di una perspicacia metanarrativa, nel senso di accentuazione geocritica (in cui convergono lingua, toponimi eforme di metissage locali) in cui c ’è una risposta ai problemi posti dalle influenze esterne, e, al contempo, un bilancio di una cultura sarda valutata in contrappunto.

Un solo autore come metonimia di generazioni di scrittori serve solo a mettere inluce tendenze differenti rispetto a quella rilevate nella Deledda o in Satta, ma all’interno di una continuità antropologica, che è sì residuale, ma critica e ricca di spunti cheindicano, o almeno alludono, ad un percorso di emancipazione culturale e materiale.

Una vera e propria microfisica del potere, in tempi storici diversi, giocato nella sfera enegli spazi

della famiglia (dai racconti A fogu a intru e Sardonica) o nelle cosiddettestanze del potere (Le Fiamme di Toledo) fino agli scenari distopici del medioevo già globalizzato dell’ultimo “Sulla Faccia della Terra”: una scrittura che fonde la prospettivadel narratore e un determinato modo di agire, di cui apprendiamo logica e senso.

Da qui il suo carattere organico: dalle metafore della voce narrante, e dall’impianto neo-realistache veicola il portato di un’analisi storica che è diagnosi sul presente. Angioni ripropone (fra gli altri, e l’elenco sarebbe lungo, da Sergio Atzeni a Marcello Fois) un ritorno del romanzo storico come filologia del territorio, e insieme sua marcatura.

Una prospettiva orizzontale che si sostituisce al discorso evolutivo e verticalizzato secondouna concezione univoca di progresso.

La filologia è la filigrana di questa scrittura così come per Gramsci è uno strumentoindispensabile per recuperare il passato, e, insieme a questo, il pensiero di un autore. Adessa si accompagnano una serie di accorgimenti tecnici che ripropongono, comeauspicato da Marx, «un lavoro minuzioso e condotto col massimo scrupolo di esattezzae di onestà scientifica».

La stessa onestà scientifica necessaria a raggiungere il livello Clemente Angioni

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i ha lasciati questo mercoledì 8 marzo Tonino Casula, protagonista assoluto dell’arte, non solo in Sardegna. Ne ripercorriamo la traiettoria romantica, scientifica, ipermoderna e, sempre, dinamica.

Geniale, sagace e ironico, Tonino Casula è stato artista dal multiforme ingegno, impegnato ed innovativo insegnante, intellettuale militante e promotore dell’avanguardia con una ricerca costante nell’arte, scientifica e sperimentale ma insieme aperta a contraddizioni, esuberanza e gioco.

Nato nel 1931 cresce esplorando Barbagia e Sulcis con il padre operaio guardafili. Sin dall’infanzia sente il richiamo di arte e universo delle immagini e, praticamente cieco (con un visus di un 1⁄50 e un 1⁄25), non sa di non vedere e legge, osserva, disegna e dipinge in continuazione: copia i classici, ritrae marine, il lavoro umano e tutto ciò che lo ispira. Con il dopoguerra e la maggiore età è impegnato come militante comunista (rimanendo sempre, per suo modo di essere, eretico) e lotta per la libertà dal bisogno, la libertà dall’ignoranza e la libertà dalla paura.

CI HA LASCIATI TONINO CASULA

In linea con questi principi decide di fare l’insegnante.

Maestro elementare a venti anni ad Iglesias, con gli alunni lavoratori del Mercato Civico e suoi amici, occupa un ramo delle scuole elementari maschili per le lezioni: è il suo Istituto Smol’nyj e ai detrattori appare il Palazzo d’Inverno dopo l’Ottobre Rosso.

Ha come tecnica d’insegnamento sperimentazione e ironia, ritmo, capacità di ammaliare e varietà di temi e approcci, strada che lo porterà alle proposte didattiche più innovative.

Immediatamente dopo inizia ad utilizzare la macchina da presa a scuola, passandola poi agli alunni e realizzando nel tempo e con le varie classi i “suoi” filmini super8.

A inizio anni Cinquanta comincia ad esporre da autodidatta ed esplora, per oltre un decennio, opere d’arte, stili e poetiche e nel suo dipingere vaga dalle parafrasi dei classici ai periodi: del Rock And Roll, delle Ossa, delle Storie di cavalli e diventa uno dei protagonista della scena isolana e viene prestissimo scoperto dal critico Corrado Maltese, accademico (segue pagina 38)

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(segue dalla pagina 37)appena arrivato all’Ateneo di Cagliari.

A fine del decennio si avvicina alla città, diventando uno dei promotori delle numerose iniziative di impegno artistico, intellettuale e sociale. Due interventi chirurgici agli occhi tra ’63 e ’64 la sua seconda venuta al mondo: recupera oltre 7/10 e studia teorie percettive e Gestalt.

Folgorato dal Criterio Transazionale è cocreatore nel 1966 del Gruppo Transazionale portando avanti ricerche sull’ambiguità della visione con Spazi, Transazioni e Inganni «optical» in parallelo esplorando i materiali della contemporaneità e il loro uso artistico.

Gli anni Settanta e Ottanta, vedono le serie Vietato e i Plexiglas, le indagini su linguaggio, arte e semiotica e pubblica numerosi volumi su percezione, segni e didattica con importanti case editrici come Einaudi.

Continua a sostenere spazi culturali e si applica in operazioni di arte pubblica mentre collabora con giornali, radio e televisione dirigendo format innovativi: per la RAI le interviste Frullarte e, con i testi di Gaetano Brundu, i radio-

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https://vimeo.com/476938275

https://vimeo.com/526409773

drammi Odissea, Percorsi quasi onirici. A fine anni Ottanta si immerge nella computer art, dai Casula 88 alle Diafanie fino alla sua produzione più vicina al presente, i Cortronici di video arte, ricerca sul cinema astratto che ha continuato fino ad oggi insieme divertendosi con le perle video Tanto per dire e giocando sempre con segni e cose.

È stato artista, innovatore e maestro: Tonino Casula si declina in romantico, scientifico, ipermoderno e del nuovo dinamismo. Ha creato dipinti, sculture, istallazioni, arte pubblica, musica, videoarte, opere radiofoniche, cinematografiche e teatrali, è stato scrittore, saggista, critico, ricercatore e mille altre cose.

Amava dire di essere il più grande artista vivente (il pensiero che avesse ragione c’è) e che i segni sono quelle cose che elabori quando pensi: stanno al posto delle cose ma non sono le cose di cui stanno al posto. Anche su questo ha ragione.

Carlo Maccioni

https://artslife.com/2023/03/12/la-morte-di-tonino-casula-artista-libero-e-dal-multiforme-ingegno/

Foto artribune

CI computer sono inutili. Essi possono dare solo risposte”. apovolgendo, con fare dadaista, questa affermazione di Pablo Picasso, il lavoro dell’artista cagliaritano Tonino Casula mira, attraverso un uso eccentrico e non convenzionale del computer, a creare immagini che, proprio in virtù dell’assenza di un’intenzionalità genitrice, propongono interrogativi continui. Artista e pittore elettronico (nella foto), protagonista sin dalle origini della sperimentazione video italiana contemporanea, Casula inizia prestissimo la sua attività.

Dapprima partecipa come pittore a mostre collettive in Italia e all’estero, aderendo a diversi movimenti tra cui il Gruppo Transazionale. Successivamente orienta la sua produzione verso sperimentazioni affini all’optical art, per poi approdare all’arte digitale. Lo storico d’arte Corrado Maltese ha riconosciuto nel lavoro di questo artista un principio di astrazione geometrica volto all’individuazione di “varie forme percepibili e suscettibili di produrre otticamente indeterminatezza, inganno e ambiguità”.

L’interesse di Casula per le teorie della percezione, rimasto costante nel corso degli anni, è strettamente legato ad un disturbo della vista congenito, risolto

MA CHI ERA TONINO CASULA?

all’età di 33 anni, che ha fortemente condizionato il suo approccio cognitivo.

Come lo stesso Casula ha più volte raccontato, guarire dal suo stato di quasi cecità è stato come “venire al mondo due volte”. In età adulta ha imparato a vedere, conoscere e riconoscere gli oggetti nello spazio, formare il proprio sguardo costruendo quella rete di simboli e di segni che prima riusciva a cogliere solo in piccola parte.

Il lavoro sviluppato sulle immagini è divenuto, nel corso delle sue continue sperimentazioni, sempre più immateriale; volto ad una sintesi anima-computer, uomo-tecnologia di raro equilibrio formale e contenutistico.

Nel 1988, dopo aver abbandonato la pittura, realizza le sue prime opere computergraphics e nel 1990 inizia ad elaborare le diafanie: immagini prodotte al computer, fotografate come appaiono sul monitor e proiettate in forma di diapositive, una tecnologia volutamente obsoleta, in antitesi con la macchina che ha generato le immagini stesse. Nelle diafanie, è il valore estetico a emergere. L’osservatore non è tenuto a seguire una storia, anzi, è libero di inventarla a seconda della carica evocativa che attribuisce alle immagini, senza sentirsi costretto all’interno di una logica narrativa. Dalla seconda metà degli anni ’90(segue pagina40)

39

(segue dalla pagina 39) si dedica invece ai cortonici 2D, 3D, Stereo (visibili sul canale YouTube dell’artista: https://www. youtube.com/user/toninocasula).

In queste opere centrale è il tema della complessità e la potenza del programma che utilizza ne è dimostrazione.

Casula ne fa un uso libero, inconsueto ed incoerente. In un interrogatorio continuo tra uomo e macchina sottopone input al computer che li rielabora, cogliendo sovente di sorpresa l’artista stesso e dando vita a creature che, per quanto volutamente aniconiche, risultano tuttavia metafore della realtà.

Nei cortronici il legame con la musica si fa puntuale e fondante: la volontà non è però quella di un’esatta corrispondenza tra immagine e suono, bensì quella di verificare se e come i vari linguaggi concorrenti (visivo, musicale, talvolta letterario e teatrale) riescano a coesistere in una struttura complessa non ancora condizionata da convenzioni linguistiche.

Grazie ad una sensibilità diversa e ad un’operatività non lineare, mobile e discontinua Casula ci accompagna in un percorso di esplorazione degli aspetti psicologici della percezione.

Il suo lavoro, che indaga i molteplici parametri tecnici e simbolici di questo nuovo mezzo, contribuisce all’individuazione di

diverse ipotesi di lavoro nonché alla definizione stessa di arte elettronica. Nel 1958 partecipa al Gruppo ’58 di Cagliari (di cui fanno parte, tra gli altri, Mauro Staccioli e Gaetano Brundu).

Dal 1963 comincia a interessarsi di percettologia e di psicologia (gestaltica prima e transazionale poi) orientando la sua produzione artistica verso sperimentazioni affini alla Optical art di quegli anni.

All’inizio del 1966 è tra i fondatori e animatori del Gruppo Transazionale di Cagliari, sotto la guida di Corrado Maltese (docente all’Università di Cagliari dal ’57 al ’69). Ha collaborato con riviste (Rinascita Sarda) e giornali (Unione Sarda), realizzato programmi radiofonici (per la Rai: Il frullarte, Con la colla e col coltello, Cioè, Bloc notes; per Radio 24 ore: Arte 24), e televisivi (per la Rai: Made in Sardinia, Classidra, L’altro occhio di Polifemo), oltre a documentari e interviste ad artisti e storici dell’arte (tra cui Gaetano Brundu, Aldo Contini, Gillo Dorfles, Maria Lai, Ermanno Leinardi, Angelo Liberati, Costantino Nivola, Rosanna Rossi, Giò Pomodoro, Pinuccio Sciola, Marisa Volpi). Nel 2013 è in Argentina per un incontro (a cura dell’Istituto Italiano di Cultura) con studenti e professori della ‘Facultad de Artes’ Unc di Còrdova.

Ha pubblicato saggi di divulgazione e didattica (Einaudi 1977-1991) Gaia Dallera Ferrario

Foto toninocasula rock’nroll 1956

Al compimento del mio 90° compleanno, che fa cifra tonda e q. b. (quanto basta), arrivo a una riflessione tanto banale quanto melanconica.

Nasce dal ricordo di una cinquantina di anni fa, quando realizzai un’intervista a Pinuccio Sciola per Radio 24 ore.

Fuori onda, strafatti di vino, ci immergemmo allegramente in un dibattito sulla capacità di memoria che, nel tempo, i nostri rispettivi oggetti artistici avrebbero conservato di noi due.

Pinuccio sosteneva che i suoi l’avrebbero conservata molto più a lungo dei miei, perché nulla dura più della pietra.

Aveva ragione. Infatti, per costruire i miei, io avevo ripudiato tele, tempere, oli e acquerelli, troppo carichi semanticamente di un passato fastidioso, preferendo materiali come il plexiglass, la plastica autoadesiva, il cloruro di polivinile e le vernici nitro acriliche, che parlavano la lingua del presente.

Aveva ragione lui perché, già allora, mentre noi due disputavamo sul tempo, alcuni dei miei materiali erano già entrati in un inarrestabile processo di obsolescenza: alcune delle plastiche autoadesive cominciavano ad accorciarsi, i famosi pallini a staccarsi.

TONINO CASULA SI RACCONTA

Non c’è dubbio: le pietre di Pinuccio durano più a lungo, mentre i miei oggetti possono conservare la mia memoria per tempi ristretti e solo se protetti, posto che conservare la mia memoria rappresenti davvero un desiderio irrefrenabile del mondo e non una forma non tanto nascosta della mia vanità.

Comunque sia, per farli durare più a lungo, hanno bisogno non solo di cure, ma anche di essere amati e, in ogni caso, conservano la memoria di un Tonino Casula che non c’è più, un Tonino Casula che, 30 anni fa, imboccava un sentiero dove una diversa e impalpabile materialità dava vita ai suoi oggetti in forma di diafanie e di cortronici.

Ciò avveniva con una potenza di fuoco creativo mai provata prima, una potenza creativa moltiplicata dal “cretino veloce” come molti di noi chiamavano affettuosamente il computer, la cui presenza era ormai diventata pervasiva, per quanto non lo fosse ancora la rete.

Eccomi all’aspetto melanconico della mia riflessione.

Gli oggetti che producevo e ancora produco, per manifestarsi nella loro immaterialità, necessitano di supporti tecnologici che, purtroppo, sin dalla nascita sono destinati a un’obsolescenza programmata, cioè nascono (segue pagina 42)

41
Foto angelopili gruppo speleo aloefelice

(segue dalla pagina 41) con la data di morte incorporata: allo stato attuale, sono morti i proiettori multivideo per diapositive, indispensabili per le diafanie, sono morte le stesse diapositive (i giovani non sanno neppure cosa siano) e anche le pellicole fotografiche per crearle se ne sono andate.

Io stesso, a causa di quei supporti, mi sono trasformato in un artista obsoleto, obsolescente in progress, con la data di morte artistica incorporata.

Meno male che ho provveduto a digitalizzare le mie diafanie, così possono essere viste nella rete, forse per sempre, come le pietre di Pinuccio.

O forse no, perché anche la rete, chi può dirlo, a sua volta potrebbe diventare obsoleta.

Certo non si possono vedere nei musei, perché chi vuoi che abbia pensato a munirsi di proiettori multivision che quando si bruciavano le lampade, già allora, non si sapeva come sostituirle, anch’esse progettate con la data di morte programmata.

Oppure sì, qualcuno che ci ha pensato c’è, chi sa, mi rifiuto di credere che proprio nessuno ci abbia pensato.

Meno male che le ho digitalizzate.

Anche i cortronici, venuti dopo, si possono vedere nella rete. Forse per sempre, forse no.

Quelli tridimensionali sicuramente ancora per poco e solo da chi possiede un televisore 3D, sempre sperando che non si guasti, perché i televisori di quel tipo hanno già concluso la loro obsolescenza, uscendo definitivamente dalla produzione.

Non so se esistono musei nel mondo, la cui lungimiranza permetta ad artisti come me di non morirsene mentre sono ancora vivi in carne e ossa. Certo, non esistono nella mia città.

Nella mia città, gli “addetti” sembrano pensare solo a forme d’arte a cui bastano muri, chiodi e piedistalli per mostrarsi.

Un po’ mi dispiace che i giovani rampanti, quelli palestrati all’arte dall’Università e che circuitano intorno alla Galleria comunale, forse in attesa di sostituire gli “addetti” con la vincita di un concorso a punti, spinti da un pur tiepido refolo rivoluzionario, non abbiano ancora innalzato cartelli di protesta per la mancanza di un televisore 3D in Galleria: …un piccolo passo per l’uomo… (com’è che diceva l’astronauta?).

Tonino Casula (24 giugno 2021)

https://youtg.net/canali/culture/37403-tonino-casula-fa-90-le-mie-opere-con-data-di-morte-programmata-o-forse-no

Foto ebay.it

Gli Italiani? Non esistono.

«Si tratta solo di un’aggregazione di tipo geografico.

Abbiamo identità genetiche differenti, legate a storie e provenienze diverse e non solo a quelle» spiega Davide Pettener, antropologo del Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell’Università di Bologna, che ha creato una banca di campioni di Dna per tracciare la storia genetica degli Italiani, insieme a Donata Luiselli del Dipartimento di Beni Culturali di Ravenna e collaboratori.

Lo studio rientra in un progetto mondiale finanziato dalla National Geographic Society.

Maschi e femmine

«Coinvolgendo i centri di donazione Avis abbiamo raccolto 3 mila campioni di sangue di italiani provenienti da tutte le regioni»

racconta Pettener.

«Di questi ne abbiamo per ora utilizzati circa 900. Ogni persona coinvolta doveva avere i 4 nonni provenienti dalla stessa provincia.

I primi dati, pubblicati sulla rivista PlosOne, hanno riguardato i cosiddetti marcatori uniparentali: il cromosoma Y, trasmesso per via paterna e il Dna mitocondriale, per via materna».

Risultato?

«Si pensa in genere che la variabilità genetica in Italia segua un cambiamento graduale secondo un asse Nord-Sud.» spiega l’esperto.

Invece, dal punto di vista del cromosoma Y (linea paterna), emerge, a parte la Sardegna, un’Italia divisa secondo una linea più longitudinale, che separa una zona nord-occidentale da una sud-orientale.

Ciò non si osserva però con il Dna mitocondriale (linea materna), che ha una distribuzione più omogenea, spiegabile con la maggiore mobilità femminile legata a pratiche matrimoniali che prevedevano lo spostamento della donna.

Il quadro complessivo è frutto di spostamenti lungo due traiettorie diverse iniziati nel neolitico, con l’avvento delle tecnologie agricole e dell’allevamento.

Nei periodi successivi è successo di tutto: Germani, Greci, Longobardi, Normanni, Svevi, Arabi sono passati lasciando i loro geni».

Malattie

La storia genetica degli Italiani, però, non è stata influenzata solo dalle migrazioni.

Anche l’adattamento alle diverse pressioni selettive è stato determinante, influenzato la suscettibilità a malattie diverse.

A sancirlo è un altro studio, pubblicato su Scientific Reports, (segue pagina 44)

43
GLI ITALIANI?

(segue dalla pagina 43) coordinato dal gruppo di Antropologia Molecolare e Adattamento Umano del Dipartimento di Scienze Biologiche Geologiche e Ambientali (BiGeA) dell’Università di Bologna.

«L’evoluzione delle popolazioni dell’Italia settentrionale è stata condizionata da un clima freddo, che ha reso necessaria una dieta molto calorica e grassa» spiega Marco Sazzini, ricercatore del BiGeA

«La selezione naturale ha favorito in queste popolazioni la diffusione di varianti genetiche in grado di modulare il metabolismo di trigliceridi e colesterolo e la sensibilità all’insulina, riducendo il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari e diabete.

Clima diverso e contributo genetico di altre popolazioni mediterranee hanno fatto sì che gli abitanti dell’Italia centro-meridionale mantenessero più diffusamente varianti genetiche responsabili di una maggiore vulnerabilità a tali malattie».

Oltre al clima e alla dieta un altro fattore che ha indirizzato gli adattamenti genetici degli Italiani, soprattutto in Sardegna e nell’Italia centro-meridionale sono le malattie infettive. In Sardegna, ad esempio, la malaria ha rappresentato una delle principali pressioni ambientali, mentre nel Sud la selezione naturale ha

GLI ITALIANI? NON ESISTONO

potenziato le risposte infiammatorie contro i batteri di tubercolosi e lebbra, le quali potrebbero però essere una delle cause evolutive alla base di una maggiore suscettibilità a patologie infiammatorie dell’intestino, come per esempio il morbo di Crohn.

Il caso della Sardegna

A proposito di Sardegna, un aspetto interessante di questi studi è quello relativo all’analisi delle popolazioni isolate.

«I Sardi» sottolinea Pettener, «si differenziano da tutte le popolazioni italiane ed europee.

Mentre la Sicilia è stata un hub per tutte le popolazioni mediterranee, la Sardegna conserva le più antiche tracce non avendo subito invasioni e si è differenziata da tutte le popolazioni europee al pari di Baschi e Lapponi.

«Lo studio delle popolazioni isolate, come e più della Sardegna, per esempio come quella Arbëreshë (le popolazioni di lingua albanese stanziate in alcune zone del Sud), i Ladini, sparsi nelle valli delle Dolomiti, i Cimbri dell’Altopiano di Asiago o i Grichi e i Grecanici del Salento e della Calabria è interessante perché ci permette di vedere come eravamo, presumendo che ci siano stati pochi innesti nel tempo di Dna differente. Una vera macchina del tempo».

https://www-corriere-it.cdn.ampproject.org/

“Ho provato a esplorare l’universo femminile da uno sguardo maschile. Non è stato semplice perché mi sono chiesto se da uomo ne avessi le competenze e il diritto. Ma davanti al numero di femminicidi che ogni anno non accenna a diminuire ho provato a rispondere a tutta questa violenza osservando la crisi dell’uomo che è sotto gli occhi di tutti”. antropologo e saggista Bachisio Bandinu, ex giornalista del Corriere della Sera ed ex direttore de L’Unione Sarda, nel suo ultimo saggio pubblicato per Sardinia edizioni “Femina né fata, né strega” compie un’analisi molto coraggiosa e originale sulla questione femminile. E parte dalla riflessione della donna nella società agro-pastorale di ieri fino alla donna emancipata di oggi.

Bandinu osserva che il codice patriarcale non è più dominante.

Come sta reagendo il maschio in Occidente a questo cambiamento? La violenza di genere diffusa in tutti gli strati sociali, senza distinzione di età, classe e titolo di studio, è la risposta.

“Partiamo dalla considerazione che la liberazione della donna mina l’autorità del maschio. Anche dei maschi che si considerano più evoluti. Che teoricamente sposano l’emancipazione femminile.

La teoria rivoluzionaria sulla crisi del maschio:

“La donna né fata né strega”

L’antropologo

Bachisio Bandinu esamina i cambiamenti sociali e la questione femminile, dalla cultura tradizionale patriarcale fino ai giorni nostri.

Ma soprattutto affronta

il tema della crisi del codice

culturale maschile

Soprattutto quando questa liberazione è affettiva (ancora più che politica ed economica).

La presenza, facciamo un esempio, di un altro uomo risulta insopportabile”. L’antropologo parla di “un tracollo narcisistico che spesso sfocia nel femminicidio perché la sua donna ideale non è più fata ma strega”.

L’uomo di oggi risulta dunque non ancora pronto all’accettazione che accanto a sé ha una donna cioè una persona con pari dignità e libertà. Un maschio violento è sempre un figlio che non ha ancora reciso il simbolico cordone ombelicale materno.

La novità che troviamo in questo saggio sta nel distribuire la colpa di una madre dominante anche con il padre, una figura assente e non collaborativa nella vita familiare. Dietro questi uomini dunque ci sono genitori responsabili di non aver dato autonomia al proprio figlio che in età adulta cerca una donna che simbolicamente sia la madre.

“Quando questa donna lo lascia è anche la madre che lo lascia”.

I padri di questi maschi non hanno compiuto la loro funzione di modello, non c’è stata dunque una proiezione in età infantile dell’io maschile.

Ma Bachisio Bandinu porta anche la sua esperienza di intellettuale nato e cresciuto in Sardegna (all’interno quindi di un (segue pagina 46)

45
Foto corirriere.it
L’

(segue dalla pagina 45) contesto molto ben definito) per raccontare una dimensione agro-pastorale diffusa in tantissime parti d’Italia e non solo, ancora nel secondo dopoguerra.

Ne è lui stesso testimone attraverso la differente educazione che i genitori impongono alle sorelle.

“L’uomo è sempre stato escluso dal mistero della nascita e da quello della morte.

Nei contesti di cui parliamo non entrava nella stanza del parto così come non era ammesso nella stanza del pianto (un pianto che era un rito più che una esperienza singola e intima)”.

La donna era dunque la padrona sì delle emozioni ma in un recinto deciso dai maschi.

Non era padrona della propria affettività e dunque di se stessa, in sostanza del suo destino. E come veniva controllata dalla comunità maschile?

L’uomo si è autoimposto nella Storia un codice di leggi per evitare la distruzione della comunità.

“Nelle donne invece questo codice riguarda prima di tutto il controllo della sessualità per uno sviluppo della famiglia che fosse consacrato dal potere religioso ma specialmente da quello maschile. E non pensiate che queste regole siano meno importanti di quelle destinate ai maschi.

In verità la regolamentazione della famiglia e

LA DONNA NE F ATA NE STREGA

dunque della vita quotidiana di una donna che non aveva alcuna libertà di movimento (pensate al fatto che le donne dovessero chiedere il permesso per uscire di casa e avere comunque un valido motivo per farlo) e il concetto stesso di fedeltà fisica, risultano il più importante dispositivo per mantenere la comunità ordinata”.

Perché si parla allora di società matricentrica nel contesto agro-pastorale? “Nella società sarda, quella da dove provengo io, addirittura si è parlato per decenni di matriarcato erroneamente.

Di certo in quei sistemi la femmina era al centro della famiglia e della comunità per il suo ruolo determinante nell’educazione dei figli.

Ma sempre muovendosi all’interno del codice patriarcale che la rendeva subordinata all’uomo che detiene potere spazio temporale e affettivo: è il maschio che ha sempre chiesto la mano alla femmina, dall’antica Roma fino a pochissimi anni fa”.

Ma Bachisio Bandinu in questo saggio si occupa anche di una questione più attuale.

Cioè di come la lotta per la parità stia rischiando di trasformarsi in un deleterio processo di omogeneizzazione.

Secondo l’antropologo:

“Una ragazza che dice ‘voglio essere uguale a un ma-

Foto katiacordasilio
Foto blogspot

schio’ non compie una vera rivoluzione femminista. Perché sotto l’apparente libertà personale la donna si sta arrendendo al codice maschile che è l’unico codice che ancora tutti e tutte conosciamo.

Un pesante bagaglio che ci portiamo dietro anche senza volerlo e che sarà difficile abbandonare in uno schiocco di dita”.

Ha ragione dunque Bandinu nel metterci in guardia da queste degenerazioni che, basta entrare in una scuola, sono sotto gli occhi di tutti e tutte.

Il fenomeno del bullismo delle ragazze sui ragazzi non è parità di genere, ma una appropriazione da parte delle femmine di violenti modelli maschilisti.

Le differenze sono la vera forza di una società evoluta che non omologa e sceglie invece modelli di poteri distanti dalla sopraffazione patriarcale.

L’uguaglianza dovrebbe restare solo nei diritti e nei doveri.

Crediamo che questo grande intellettuale di 84 anni sia riuscito alla perfezione nell’obiettivo di dare una lettura al fenomeno della violenza di genere capendo che questa sia un problema maschile. Non era assolutamente facile.

Vi consigliamo di leggerlo. Claudia Sarritzu https://cultura.tiscali.it/libri/articoli/Lo-sguardo-di-un-uomo-sulla-questione-femminile/

Bachisio Bandinu (Bitti, 22 febbraio 1939)

è un antropologo, giornalista e scrittore italiano. Nel 1967 consegue la laurea in Lettere e Filosofia presso l’Università di Cagliari con una tesi dal titolo “Antonio Fogazzaro e il modernismo”. Nel 1971 si diploma in Giornalismo con un elaborato dal titolo “Montale giornalista” presso la Scuola Superiore delle Comunicazioni Sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

Nello stesso istituto, nel 1973 si diploma in Radio e Televisione.

Nel 1972 si iscrive all’Ordine dei giornali-

sti della Lombardia, nel 1987 all’Ordine dei giornalisti della Sardegna. Esponente non accademico della Scuola antropologica di Cagliari, allievo di Ernesto de Martino e di Alberto Mario Cirese al pari dei suoi coetanei Giulio Angioni e Placido Cherchi, è studioso di cultura tradizionale della Sardegna interna in trasformazione repentina negli ultimi decenni, e si occupa in particolare di questioni d’identità culturale e politica.

Fra il 1965 e il 1987 insegna Lettere presso l’istituto tecnico industriale di Varese[2]. Poi, fino al 1997, è docente dell’istituto tecnico “Pertini” di Cagliari. Dal 1973 al 1985 collabora con il Corriere della Sera.

Nel 1976 ha scritto, con Gaspare Barbiellini Amidei il saggio Il re è un feticcio, nel quale analizza il rapporto tra il mondo tradizionale della pastorizia e la civiltà dei consumi in Sardegna.

Nel 1980 ha pubblicato Costa Smeralda, contributo all’analisi del rapporto tradizione/innovazione.

Nel 1993 ha vinto il Premio Funtana Elighes e nel 1999 è stato nominato direttore de L’Unione Sarda, ruolo ricoperto fino al 2001.

È presidente della “Fondazione Sardinia” e da anni risiede a Olbia. wikipedia.org

https://www.ibs.it/libri/ autori/bachisio-bandinu

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