
7 minute read
Sbam, ci siamo cascati ancora!
di Sara Sarzano
Consapevolezza e forme di abilità nella lotta all’abilismo
Finalmente si comincia a parlare, sempre più di frequente, di abilismo. Se ancora non sapete bene di cosa si tratta, provo a spiegarvelo qui, consapevole che il discorso sia immenso e che servirebbero manuali interi per delinearlo. È, quindi, un post un po’ lungo, ma spero avrete la voglia di arrivare fino in fondo.
Abilismo è la convinzione, più/ meno/per nulla consapevole, che essere normodotati ponga, sempre e comunque, in una condizione di superiorità rispetto alle persone disabili.
Condizione di superiorità che si concretizza in varie forme, a partire dal pietismo, passando per il girarsi dall’altra parte o fissare inebetiti, per arrivare ai pensieri eugenetici e ai crimini d’odio. Ebbene sì, la filosofia del “non lamentarti che c’è chi sta peggio”, in questo caso è abilismo. Pensare: “meno male che non sono disabile, altrimenti non so come potrei sopportarlo” (quindi, disabilità sempre e solo come tragedia) o insultare qualcuno usando termini come “Handicappato”, “Ce la fai o vuoi la 104?”, “Oh ma sei autistico?”, “Mongoloide” ecc., è abilismo.
Parcheggiare nei posti riservati alle persone disabili è abilismo; oltre che violazione del Codice della Strada
e, in determinati casi, anche reato; oltre a essere da [inserire parolaccia a piacere]. Il fatto che le Paralimpiadi si svolgano giorni dopo le Olimpiadi, con un interesse mediatico inferiore, è abilismo. L’abilismo parte dalla convinzione che l’universalmente riconosciuto è l’essere “normali”, cioè normodotati, che quindi diventa la condizione necessaria per essere socialmente accettati e accettabili.
Tutto il resto è noia, direbbe Califano, buonanima. Tutto il resto è brutto, inferiore, altro. Tutto il resto è ciò che non si vuole.

Se ci pensate, infatti, dalla notte dei tempi il mondo è strutturato solo a misura delle persone normodotate: per accedere sui mezzi pubblici ci sono scalini che manco l’Everest.
Le pubblicità utilizzano sempre persone standardizzate, 90-60-90, ovviamente mai disabili, tranne quando la pubblicità è per qualche raccolta fondi sulla ricerca e allora ecco che bisogna suscitare la pietà altrui e quindi non lo vuoi scomodare un disabile, con tutta la famiglia sofferente? A ridaje (mi perdonino gli amici romani) con il binomio senza scampo: disabilitàsofferenza. Attenzione: la ricerca è fondamentale, ma si può promuovere anche senza far leva su unidirezionati sentimenti di straziante pietismo. Nei film, recitano attori disabili solo quando la trama ha come tema la disabilità; rarissimo che, in un film non a tema, ci sia il salumiere disabile, la dottoressa disabile o l’amante disabile.
Comunque, è curioso come le persone con disabilità non se le fili mai nessuno e, poi, guarda caso, ogni quattro anni, durante le Paralimpiadi, BOOM!, ci si ricorda che esistono e che fanno cose, anche bene, anche meglio.
Ecco, però, che scatta la retorica, più veloce di Marcell Jacobs! Vi vedevo che guardavate le gare con gli occhi “alla Gatto con gli Stivali” di Shrek, vi sentivo bisbigliare “guardali, che eroi! Poverini, sono un esempio per tutti”. Frasi completamente scollate dalla realtà: infatti, loro erano alle Olimpiadi (sì, Paralimpiadi, ma sogno un unico nome, tanto è la stessa cosa) e voi sul divano. Benissimo, bello essere di esempio, non fraintendetemi. E lo so che non siete brutte persone, non vi allarmate.
Però ascoltate, per favore. Infatti, tutto questo rischia di sconfinare nell’“ispiration porn”. Vi spiego cos’è riprendendo le parole di un articolo
di Factanza: «Il termine, coniato da Stella Young, indica quella tendenza a utilizzare le persone con disabilità e le loro storie come dei feticci motivazionali, per ricordarci che “se loro ce l’hanno fatta, noi non abbiamo scuse». In questo modo si mercifica l’esperienza dell’individuo, che smette di essere tale e viene ridotto a un santino che ci ricorda quanto siamo “fortunati”.
Ricordiamolo: le persone hanno una disabilità, non sono la loro disabilità.”
Poi vorrei dirvi una cosa, cari amici normodotati: a furia di vederci come esempio di virtù, di coraggio, di tenacia e chi più ne ha più ne metta, poi vi costringete a fare una vitaccia, perché vi togliete ogni diritto di lamentarvi. Invece noi questo diritto ve lo lasciamo: lamentatevi, lamentatevi pure, così lo facciamo tutti insieme appassionatamente. Oppure lamentatevi solo voi, perché, magari, i “poveri disabili” hanno una vita molto più felice e attiva della vostra.
Comunque, lieta che le vite altrui possano servire per la vostra crescita personale, davvero, ma sarei ancora più felice se questo vi facesse anche empatizzare con le stesse, magari iniziando a combattere con noi contro le barriere architettoniche o a chiamare i Vigili quando vedete qualcuno parcheggiare, senza diritto, nei posti riservati alle persone disabili. O magari evitando di dire a una persona con una disabilità non grave o non visibile: “Ah, ma non si vede che sei disabile!”. Perché non è un complimento, bensì, indovinate un po’? Esatto, è abilismo! Perché mi stai dicendo che è una fortuna non sembrare disabile, quindi, implicitamente, mi stai dicendo che è brutto essere disabili.

Ma io disabile ci sono davvero e non devo apparire diversa, non devo apparire “normale”, perché essere una persona con disabilità non toglie nulla alla mia persona.
Ma la cosa che mi fa più infuriare è che io stessa credevo fosse un complimento. Infatti, anche tra le stesse persone disabili circola l’abilismo. Un altro esempio? Quando una persona con disabilità fisica reputa “inferiore” un’altra con disabilità intellettiva e ringrazia di “non essere come lei, almeno”. Insomma, una triste gara a chi è più “normale”. Ci ero cascata anch’io, sapete?
Poi ho preso coscienza di essere nata immersa in una società abilista che, inevitabilmente, condiziona il tuo agire, il tuo pensare, il tuo guardare.
Nascere in una società abilista, inizialmente, ti fa vergognare di avere una disabilità, almeno fino a quando prendi coscienza del fatto che dovrebbe essere la società a vergognarsi.
Per anni non ho accettato il mio corpo perché io stessa non lo reputavo “normale”. Per anni, il mio obiettivo è stato apparire “normale”, non stare bene nel mio corpo. Per anni, non volevo farmi vedere mentre, per esempio, venivo aiutata a salire certe scale, perché mi vergognavo. Mi vergognavo anche di dover chiedere aiuto. Mi vergognavo di non essere “normale”, perché sapevo che,

agli occhi degli altri, sarei apparsa “diversa” e, quindi, “da scartare”. Non reputavo il mio corpo attraente. Ma poi, fortunatamente, ho capito e, con fatica, mi sono ripulita dal fango abilista che mi sono ritrovata addosso (mi sto ripulendo tutt’ora). Con fatica, sono finalmente riuscita a fare mio un immenso e luccicante “CHI SE NE FREGA!”. Siamo tutti permeati di qualche forma di abilismo, anche tu che stai leggendo, nessuno escluso. Ma la bella notizia è che possiamo levarcelo di dosso: il primo passo per combattere il nemico è conoscerlo! Ed eccoci qua, appunto. Bisognerebbe essere bombardati da immagini di corpi diversi, di tutti i tipi. Tanto quanto si è bombardati di corpi stereotipati, addirittura finti.
Quello che manca è la rappresentazione della realtà vera, variegata.
È un meccanismo mentale facilissimo: se io continuo a vedere sempre e solo una cosa fatta in un certo modo, appena osservo qualcosa che si discosta da ciò che ho sempre visto, la sento lontana da me e la respingo. Ecco, dunque, che la disabilità non mostrata, non rappresentata, viene percepita come un corpo estraneo, da “guardare ma non toccare”, oppure da non guardare neanche. Vi lascio qui una poesia di Franco Arminio, un bellissimo esercizio di Bellezza che possiamo abituarci a praticare come rimedio all’aridità degli occhi: “GUARDARE. Io guardo ogni cosa come se fosse bella. E se non lo è vuol dire che devo guardare meglio.”
Perché le persone disabili non sono persone speciali, sono persone;

e adesso vi vedo che state pensando che sì, è vero, forse non siamo persone speciali, ma “persone con bisogni speciali”. Eh no! Neanche quello! Eccolo, l’abilismo, amici cari: i bisogni speciali nascono in un mondo standardizzato, che ha come metro di paragone una sola fetta di persone e non tutte le persone. Mi dispiace dirvelo così brutalmente, ma là dove ci sono bisogni speciali, c’è discriminazione. Perché significa che non si è pensato per tutti. I bisogni delle persone con disabilità sono anche i vostri.
Perché è normale essere disabili: non finirò mai di ripetere che anche voi lo siete quando vi rompete una gamba e usate le stampelle, anche voi lo siete quando invecchiate e non riuscite più ad allacciarvi le scarpe, anche voi lo siete quando dovete far salire vostro figlio con il passeggino su per i gradini di un treno regionale (che manco l’Everest, vedi sopra), ecc. ecc. Sogno un mondo in cui non si riduca tutto a un eterno, insopportabile paragone, tra ciò che è “normale” e ciò che non lo è. Sogno occhi abituati alla normale diversità. Perché è la diversità a essere normale. La normalità è variegata. Anzi, una normalità non esiste, ognuno ha la sua.
LaSara @BriocheSalata
