17 minute read

Vivere l'emergenza Covid in prima linea: le testimonianze dei nostri associati

di Felice Tedesco, Emanuele Scarpa, Mariangela Fortunato

In un clima di necessità e pericolo ogni minimo errore può risultare fatale e il periodo inaspettato, duro e incerto come quello che stiamo vivendo, fa sì che emerga forte il desiderio di andare a fondo nelle cause che hanno determinato questa situazione: con buona pace dei disfattisti che sostengono che si tornerà ad essere come prima - o anche peggio, per via delle strette privazioni subite! - la pandemia non può non averci insegnato nulla. La Storia è maestra di vita! Anche quella Storia che presenta scelte forse prese senza ponderatezza e senso di responsabilità, quella Storia che ha visto rincorrersi informazioni non sempre adeguatamente vagliate e verificate, quella Storia, in definitiva, il cui grande virus veicolato era il senso della finitezza, dell'impotenza e dell'inadeguatezza dinanzi ad un nemico comune da fronteggiare. Pertanto, oltre al ciclo di conferenze sul tema Covid-19 proposte a Villa Nazareth in questi ultimi difficili mesi, è nata l’idea di poter condividere qui sul nostro giornalino alcune testimonianze di nostri amici direttamente coinvolti in questa pandemia, proprio perché potessimo imparare dalla Storia, perché da quanto successo potessimo trarre insegnamenti e possibilità di crescita. Solo fare memoria criticamente e costruttivamente può permetterci di imparare, senza dimenticare e soprattutto senza avanzare giudizi forieri soltanto di negatività e sventura.

Advertisement

Inizieremo allora con la dottoressa Antonella D'Annolfo, intervistata da Felice Tedesco. Cardiochirurga presso il policlinico San Donato di Milano e consigliera dell’Associazione Comunità Domenico Tardini , già studentessa di Villa Nazareth, ci racconta quanto in prima persona ha avuto modo non solo di vedere, ma finanche di fronteggiare, in quello che lei stessa descrive come un clima di guerra, contro un nemico subdolo e silenzioso, soprattutto se sottovalutato.

Dopo aver descritto il suo ruolo nell’ospedale, può dirci come e quanto questo ruolo sia cambiato, assieme ai suoi impegni, all’interno della giornata lavorativa? Dallo scorso settembre mi occupo di cardiochirurgia presso il Policlinico “San Donato” di Milano, una struttura privata, nata come polo specializzato della cardiologia, in cui si svolgono più di 1500 interventi l’anno. Con l’arrivo dell’emergenza Covid si è continuato a lavorare per un paio di settimane, poi tutte le attività normali di qualsiasi branca sono state bloccate e tutto l’ospedale, adeguatosi a quelli pubblici, si è dedicato all’accoglienza dei casi Covid. Nella fase più intensa abbiamo ricoverato circa 270 pazienti Covid nei vari reparti e 28 circa in terapia intensiva. E, per quanto mi riguarda, la terapia intensiva cardiochirurgica è stata tutta dedicata ai pazienti Covid. In più sono state aperte altre terapie intensive nell’ospedale, trasferite al posto di alcuni blocchi operatori: quello di cardiochirurgia è rimasto vuoto e lì è stata trasferita la terapia intensiva cardiochirurgica di quei pochi casi che si erano cronicizzati. Solo da un paio di settimane stiamo tornando alla normalità.

Valuta positivamente il modo in cui il suo ospedale ha affrontato e sta affrontando l’emergenza? Può anche provare a fare un paragone con gli altri ospedali della regione Lombardia? Credo che tutti gli ospedali, con medici e personale sanitario si siano adattati tantissimo. Non si poteva fare altrimenti! Una frase che spesso si diceva era: “È come essere in guerra”. Il paradosso è che in quel periodo per i pazienti gravi, per la mancanza di posti in terapia intensiva, gli anestesisti erano costretti a scegliere chi sottoporre alle cure e chi no. Dove fino a due settimane prima facevano il quadruplo bypass nell’ultraottantenne, adesso era il cinquantenne con uno stent coronarico che veniva candidato alla terapia intensiva. Da una parte è stato anche bello che tutti i medici di ogni specialità e grado si siano dedicati a gestire questi reparti con grande sensibilità. Per esempio il mio primario si è reso disponibile per mettere gli ecmo, altri primari hanno compilato personalmente le cartelle cliniche. Era infatti anche difficile la gestione delle carte, considerate sporche. Secondo la mia esperienza, per quanto tutti si siano adattati e abbiano fatto il possibile, è mancata una pronta comunicazione dei problemi di gestione, dei quali anche noi medici siamo responsabili. All’inizio le linee guida dell’ISS (Istituto Superiore di Sanità) prevedevano di non andare in ospedale, contattare il proprio medico telefonicamente e limitare l’uso della mascherina ai sospetti portatori del virus. Il diretto corollario di queste indicazioni, che nascevano da istanze giuste, ha causato in alcuni casi un tardivo accesso alle cure. La dedizione che ho visto è stata tanta, degli infermieri e di tutto il personale. Serviva però un po’ di comunicazione e confronto in più.

Invece, per quanto riguarda i pazienti, come si sono comportati nell’approccio con l’ospedale e i medici e nel loro vivere quotidiano in isolamento? Per i pazienti è stata secondo me un’esperienza di deportazione. Immagina una persona normale che a un certo punto non respira più bene, chiama l’ambulanza e finisce in un ospedale qualsiasi libero in quel momento, magari lontano da casa. Entra in un corridoio e non si sa se e quando ne uscirà, non vedrà più i suoi, non potrà ricevere visite. Alcuni in realtà potevano essere contattati dai parenti al telefono, ma altri non riuscivano nemmeno a parlare. Anche intere famiglie arrivavano ad essere divise. Noi stessi dovevamo comunicare telefonicamente con i parenti per spiegare le varie situazioni e, considerando che erano almeno 40 pazienti in reparto, è stata una parte rilevante del lavoro. Tutti loro però sono stati molto attenti a non venire in

ospedale se non ce n’era bisogno. Anzi, quando venivano contattati, i familiari al telefono ringraziavano sempre. Alcuni hanno vissuto lutti improvvisi: c’è chi ha perso padre e madre nel giro di pochi giorni. Mi sembrava fin troppa la forza con cui venivano affrontate queste situazioni, anche sentendosi dire che non c’era più nulla da fare per qualcuno che magari qualche giorno prima viveva una vita in salute e in forma. Così nello stesso tempo anche vedere gli anziani morire in un corridoio di ospedale, anziché dimetterli e fagli vivere gli ultimi momenti con la famiglia, non è stato facile. Purtroppo mi rendo conto che però sarebbe stato un rischio a livello di contagi. Il ritorno alla “normalità” adesso ha ovviamente portato ad atteggiamenti un po’ più liberi e a volte superficiali. Però nel momento di gravità ho trovato tutti molto seri e sobri.

In questo momento, in una situazione in cui i contagi sono in calo, nel suo ospedale e in quelli di tutta la regione cosa cambierà rispetto a questi ultimi mesi difficili e rispetto a prima della pandemia? Purtroppo questo argomento ancora non è chiaro a nessuno. Anche il ritorno alla normalità sta avvenendo in modo molto guardingo: non si sa bene da che parte andare, anche se si cerca di creare percorsi puliti e dedicati. La cosa più logica sarebbe creare degli ospedali Covid, come rehab di riferimento, lasciando pulite le altre strutture. Il coordinamento regionale sta lavorando in questo senso, ma ancora non si capisce quali siano questi centri dedicati.

Molti studenti fuorisede e altre persone che lavoravano a Milano, hanno scelto di ritornare tempestivamente dalle loro famiglie nonostante la gravità della situazione in quel momento. Come pensa che questo possa aver cambiato la situazione per gli ospedali della regione? Ha portato vantaggi? E come invece ha influito sulla situazione italiana? Penso che spostarsi nella fase di piena epidemia sia stato un rischio e che chi lo ha fatto fosse cosciente di non aver avuto contatti. Alla fine le zone di massima incidenza sono state proprio il lodigiano e il bergamasco. Devo dire anche che chi lo ha fatto, lo ha fatto anche un po’ incoscientemente, perché purtroppo ci sono i cosiddetti pazienti asintomatici, anche tra noi colleghi, alcuni sono stati del tutto asintomatici. Magari c’erano questi casi in quei treni partiti l’8 Marzo. Spostarsi con la Lombardia che diventava la Wuhan d’Italia quindi non è stato così prudente. Però, a parte questo, ci sono stati anche alcuni ospedali del sud e anche in Germania che hanno accolto i pazienti lombardi, rendendosi disponibili. In quel lasso di tempo non c’è stata troppa lucidità, ma c’era anche un po’ l’atteggiamento “se non ti passa, allora è Covid”, che spaventava un po’ tutti.

Come crede che questa esperienza abbia influito e influirà nel suo futuro di medico? Che insegnamento si porterà dietro con sé? Pur facendo una branca molto specialistica come la cardiochirurgia, mi sento molto aperta a divagare nella medicina. Quindi l’esperienza nei reparti di Covid mi è piaciuta, è stato un interesse confermato verso la medicina interna. È stato anche bello tornare allo studio della scienza di base e dei meccanismi biologici. Secondo me questa esperienza mi lascia e dovrebbe lasciare a tutti il fatto che non bisogna perdere di vista l’essenziale, attenendosi anche nei momenti di difficoltà a schemi che però si rivelano ancore, dandoci il giusto indirizzo per non sbagliare. Bisogna in questo ovviamente rimanere flessibili, così come il personale di ogni reparto ha dimostrato di essere. Mi lascia anche la sensazione che con il ritorno alla normalità tutto potrebbe tornare come prima, perché le cose si tende sempre a dimenticarle. Essenziale significa anche che, in questa fase di ricostruzione, non si devono prendere decisioni anche sapendo che non potranno funzionare, ma che si deve fare quello che davvero serve. Si dice infatti che è mancata la medicina del territorio e non si può pensare di curare un’epidemia in ospedale. È ovvio che bisogna fare il più possibile a casa del paziente, fare educazione sul comportamento corretto, venendo incontro a chi ne ha bisogno. Si è detto quello che era utile dire, ma non si è fatto sempre quello che era utile fare. L’essenzialità e il metodo potranno sicuramente aiutare a procedere. •

Nella stessa ottica di approfondimento ulteriore sulla gestione dell’emergenza Covid-19, questa volta è Michele Loiudice, ex studente di Villa Nazareth, Consigliere dell’Associazione e laureato in Medicina e Chirurgia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma e specialista in Sanità Pubblica, a raccontarci della sua esperienza diretta nella lotta contro il Covid-19. Intervista a cura di Emanuele Scarpa.

Potrebbe raccontarci qual è il suo lavoro in tempi normali e come questo si è modificato durante l’emergenza?

"Sono un dirigente di un'Unità Operativa Complessa facente parte dell’ARES 118, mi occupo principalmente di organizzare e sorvegliare tutte le strutture che possiedono ambulanze nella regione Lazio. In questo periodo, però, c’è stato il bisogno di reinventare il proprio lavoro, orientando gli obiettivi alle necessità della pandemia. Durante il vivo dell’emergenza la nostra più grande preoccupazione è stata quella di impedire che gli ospedali restassero senza ventilatori polmonari. Pertanto, abbiamo censito tutte le ambulanze, anche quelle private, dotate di ventilatori e presenti sul territorio; in questo modo, in ogni momento, se un ospedale avesse avuto bisogno avrebbe potuto facilmente reperire il materiale per supportare le terapie intensive. Ci siamo preparati al peggio, un po’ come tutti: il nostro è stato un lavoro di seconda linea, non eravamo in corsia, ma abbiamo fatto il possibile per supportare gli ospedali e i colleghi. È davvero difficile pensare al livello di coordinazione che si deve raggiungere, anche a livello nazionale, per gestire una situazione anche lontanamente più rosea rispetto a quello che è successo: non sono i singoli ospedali che si muovono, ma è un’intera regione, un intero Paese". Continua dicendo: “Al di là del mio lavoro istituzionale, per cercare di integrare meglio varie realtà, ho creato due gruppi su Whatsapp: uno raccoglieva i colleghi di direzione medica ospedaliera impegnati nella pandemia a livello nazionale, e l’altro raccoglieva quelli impegnati nei servizi territoriali. Questi gruppi (che hanno raggiunto 250 persone in poco tempo) sono stati molto attivi durante i mesi “caldi” dell’emergenza. Ci si scambiava principalmente informazioni ed esperienze sul piano tecnico-professionale per capire come affrontare meglio il virus. La cosa bella è che questa rete, questa community, vive ancora oggi in fase post-emergenziale; adesso si scambiano richieste di lavoro o si fanno domande relative alla pratica clinica in generale, non solo al Covid".

C’è stato un pensiero particolarmente ricorrente mentre era a lavoro?

"Una cosa che ripetevamo spesso su quei gruppi era: non abbiamo il tempo di reinventare la ruota. Questo per dire che serviva uno sforzo comune per andare avanti, insieme. I pensieri fissi che avevo a lavoro erano solidarietà e responsabilità. Solidarietà verso tutti quelli che erano a lavoro, solidarietà per le famiglie in lutto, solidarietà per chi era da solo. E poi la responsabilità, in quello che si faceva, nel capire che bisognava lavorare tutti assieme contro il virus. Ovviamente, un altro pensiero fisso era la paura di poter contagiare in qualche modo i miei cari a casa, facendo avanti e indietro per andare sul posto di lavoro. Con quel pensiero là ci devi fare sempre i conti".

Cosa pensa riguardo le relazioni post-Covid? Può un virus cambiare il nostro modo di interagire con gli altri?

"Non bisogna confondere l’apparenza con la sostanza, questo lo si faceva spesso prima quando baci, abbracci e strette di mano non erano limitati e quindi i rapporti potevano essere mascherati da queste dinamiche di contatto. Voglio dire, non è che tornando a stringerci la mano al segno di pace in chiesa, si ritorni ad avere un rapporto più limpido con quella persona.” Nelle settimane più dure, quando dai balconi si cantava puntualmente alle 18 e si urlava “andrà tutto bene”, siamo stati investiti da un’ondata di positivismo, quasi convinti che una volta passata l’emergenza nulla sarebbe stato più come prima, nemmeno noi. Ma Michele ci tiene a precisare: "Non è tanto l’auspicio o la preoccupazione ma è la volontà che ci fa trovare una nuova normalità. Dobbiamo lavorare affinché nulla sia come prima, affinché cambino davvero le cose tra di noi. Non bastano i tweet o i post su Facebook".

Lavora da anni con il SIMM (Società Italiana di Medicina delle Migrazioni), cosa dobbiamo aspettarci dal Sud del Mondo? Come impatterà la pandemia sui flussi migratori? "Attualmente, la situazione in Africa è variegata sia come presenza del virus che come risposta dei vari governi, perché non si muovono insieme come bene o male succede in Europa. In Africa c’è comunque il preconcetto che questa sia una malattia dei bianchi, portata da loro e da loro trasmessa. Questo ci fa anche, finalmente, rendere conto com’è trovarsi dall’altra parte della barra inquisitoria. Comunque, la risposta di alcuni governi inizialmente è stata simile a quella occidentale: semplicemente cercavano di limitare la serietà di questo virus, arrivando al negazionismo. Inoltre, i mezzi per mettere un intero paese in quarantena sono limitati; però, c’è da dire che almeno le aree rurali sono ben distanziate dalle zone a rischio e questo fa ben sperare. D’altra parte, diversi Paesi hanno adattato delle misure politiche simili a quelle europee, come la limitazione dei trasporti e degli spostamenti, ma le risorse sono diverse perché diverso è il contesto. Per quanto riguarda le ripercussioni sui flussi migratori, bisogna dire che non è come la situazione dell’HIV di anni fa, che aveva colpito i più giovani, più pronti a muoversi e più ricchi. Il SARS-Cov-2 non si muove così, colpisce pesantemente gli anziani e le persone che presentano altre patologie. Non credo ci sarà una grande modifica dei flussi migratori. Il problema africano sono le migrazioni all’interno del continente, non quelle dirette all’Europa. Molti stati africani accolgono nei campi profughi milioni di persone che arrivano nel paese dalle nazioni confinanti e, se, per esempio, l’epidemia dovesse arrivare nei campi di sudanesi in Etiopia, sarebbe un problema grave". •

La Dottoressa Daniela Morabito, già studentessa del nostro Collegio, geriatra, impegnata direttamente all’interno del reparto Covid dell’Ospedale di Verbania durante la pandemia, come ha raccontato a Mariangela Fortunato, ha visto completamente stravolta la sua vita e, tuttavia, ha saputo affrontare la fatica e la paura alla luce dello spirito di servizio e di cura di chi le era affidato. avevo, poiché il mio dovere era quello di prestare il mio servi

Cosa ha provato nel momento in cui vi hanno informato riguardo l’emergenza e la necessità di dare una mano in prima linea?

Già da metà febbraio, sentivamo ciò che stava accadendo nel mondo e la percezione era quella di un pericolo imminente, che poteva coinvolgerci da vicino: ce ne siamo resi conto nel momento in cui è stato chiuso il reparto di Medicina di Verbania, a causa del primo caso in ospedale non riconosciuto subito, che ha creato un focolaio all’interno dell’ospedale stati chiamati per dare una mano in quel reparto, nonostante non lavorassimo lì. Ho provato grande preoccupazione e incertezza su come sarebbe stato curare una nuova malattia di cui si conosceva poco, con la necessità di adottare uno stile

di lavoro totalmente differente rispetto a quanto ero abituata sino a quel momento. Allo stesso tempo, tuttavia, sentivo di dover mettere da parte tutte le paure e preoccupazioni che stesso. In quel momento, ci siamo resi conto che saremmo

zio, dal quale non potevo sottrarmi, nonostante potessi sentirmi inadeguata, poiché si trattava di un’emergenza.

Come è stato il rapporto con i pazienti e con i familiari degli stessi?

Il rapporto con i pazienti è stato certamente differente da quello cui si è abituati nel corso della normale pratica clinica, a causa della barriera rappresentata dai mezzi di protezione, che impedivano a tratti anche il contatto visivo con gli stessi.

Anche la nostra comunità ha voluto dare un contributo concreto durante l'emergenza sanitaria. Grazie alla presenza di un'autoemoteca Ad Spem un gruppo dei nostri studenti ha potuto donare il proprio sangue per far fronte alla riduzione di donazioni.

Al contempo, si trattava molto spesso di pazienti con una complessità e gravità clinica, che non rendeva certo semplici le cose. Avevo, soprattutto all’inizio, una grossa difficoltà, perché veniva impedita una comunicazione con il paziente, che spesso è fatta di sguardi, sorrisi, che permettono di esprimere vicinanza, ma pian piano mi sono accorta che, nonostante le bardature, siamo riusciti lo stesso a farci sentire vicini a loro. Per quanto riguarda il rapporto con i familiari, è stato molto complesso: abbiamo sempre dato loro la possibilità di chiamarci per informazioni, dato che qualsiasi tipo di visita o contatto non era possibile. La grande difficoltà è stata rappresentata dal dover comunicare non solo situazioni molto spesso critiche, ma anche abbastanza imprevedibili. Ho sempre, tuttavia, ammirato in loro la grande compostezza, che li ha caratterizzati, nonostante la grande sofferenza che si trovavano a vivere: comprendevano e capivano l’imprevedibilità della situazione, ma anche le nostre difficoltà nel fronteggiarla.

Come ha vissuto all’interno della sua famiglia il suo ruolo in prima linea durante la pandemia?

Nei primi tempi, soprattutto, una delle mie più grandi preoccupazioni era mettere a rischio l’incolumità dei miei familiari, ma al contempo non potevo sottrarmi dall’incarico che mi era stato affidato. La cosa che mi è più mancata è stato non abbracciare i miei figli e andare a trovare i miei genitori, anziani, verso i quali nutrivo una grande preoccupazione per il pericolo di infettarli. Nonostante ciò, la mia famiglia ha compreso l’importanza di quanto stavo facendo e ho sempre potuto contare sul suo grande sostegno. Da un punto di vista professionale e personale, cosa le lascerà il periodo di emergenza appena vissuto?

Da un punto di vista professionale, è stata certamente l’occasione per mettermi in gioco e alla prova con situazioni diverse e anche più complesse rispetto alla mia quotidiana esperienza lavorativa: si è certamente trattato di un’occasione per crescere professionalmente. Anche da un punto di vista relazionale, l’emergenza è stata arricchente, poiché ha permesso che, come gruppo di lavoro, ci sentissimo più uniti e in vicendevole sostegno e che ciascuno tirasse fuori il meglio di sé. Chi aveva più esperienza aiutava i meno esperti e così siamo riusciti a fronteggiare la situazione, nonostante le difficoltà, molto spesso anche di natura burocratica. Se non avessimo fatto squadra tra noi, non saremmo riusciti a gestire questa situazione. Sul piano personale, ho superato numerose difficoltà e ho compreso alcune falle organizzative dell’ospedale, di cui ci saremmo dovuti accorgere prima: dovremmo, perciò, essere più in grado da questo momento in poi, di affrontare e combattere cose che non vanno sin da subito, senza lasciarle passare. Infine, certamente in questo periodo sono emersi aspetti molto importanti del nostro lavoro, a cui dovremmo dare più valore, come il bene del paziente e la relazione con lo stesso, a discapito invece di aspetti più prettamente burocratici ed economici, che stavano pian piano togliendo alla medicina il suo valore fondante. •

This article is from: