rivista vdbd numero tre

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NUMERO TRE – MARZO 2009

www.viadellebelledonne.it viadellebelledonne.wordpress.com redazioneviadellebelledonne@yahoo.it

Quadrimestrale di letteratura, filosofia e arte del blog collettivo letterario Viadellebelledonne - Registrato presso il Tribunale di Sassari al n. 45408 Redazione: Alessandra Pigliaru (Dir. Responsabile), Antonella Pizzo (Dir. Editoriale), Morena Fanti, Sandra Palombo. Rivista fondata da: Lucianna Argentino, Rita Bonomo, Elisabetta Bucciarelli, Maria Pina Ciancio, Morena Fanti, Margherita Gadenz, Sandra Palombo, Antonella Pizzo, Alessandra Pigliaru, Marina Raccanelli

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SOMMARIO

STRETTOIE: Gianluca Pulsoni - Discorsi di uno sguardo amoroso; Salvatore Jemma L'emozione politica nella poesia di Roberto Roversi; Alessandra Pigliaru - L'arcipelago del corpo. Conversazione con Michela Marzano BALAUSTRE: Elisabetta Bucciarelli, Donne della rete. Intervista ad Alessandra Buccheri; Le interviste impossibili - Marina Raccanelli intervista Elena di Troia GIARDINI: Sei poesie inedite di Henri Michaux tradotte da Lucetta Frisa GIARDINI (A CURA DI FRANCESCO MAROTTA): La voce che parla dal margine - Augusto Amabili ; Yves Bonnefoy – La voce dell’ombra tra fiamma e gelo; Francesco Tomada – Antologica; Note sulla poesia di Enzo Ferrari (con testi inediti del poeta) PONTEGGI: Antonio Fiori, Tutti i cognomi. Note sulla nominazione dei poeti; Morena Fanti , La vita è solo un vuoto a rendere? Quando i libri non sono romanzi FINESTRE:Omaggio di Erminia Daeder a “Stralune” di Antonio Errico; Licio Gelli - Venerabile poesia di Francesco De Girolamo; Ilaria Ciancilla La danza della regina che inventava la Vita; Corpi e anime. Il tragico destino di tre donne ebree di Marta Ajò

PIANEROTTOLI: Anna Maria Bonfiglio - Il principe di Palagonia; Maria Gisella Catuogno Zulimo Rossellini e Ugo Foscolo RANDOM (RUBRICA A CURA DI MORENA FANTI): Il Canto di Chiara, di Paolo Perlini; Freakshow, di Giovanni Di Iacovo; La pietà, di Sergio Sozi CAMMINAMENTI: Nicola Amato, Reportage: il fenomeno sociale e comunicativo dei blog; Paola Pioppi, La “nera” fatta da una donna; Erika Ranfoni - Il tempo di Eva *** Gli autori, i dialoganti, gli artisti che hanno collaborato a questo numero: Marta Ajò, Nicola Amato, Augusto Amabili, Anna Maria Bonfiglio, Alessandra Buccheri, Elisabetta Bucciarelli, Giusy Calia, Maria Gisella Catuogno, Ilaria Ciancilla, Erminia Daeder, Francesco De Girolamo, Giovanni Di Iacovo, Antonio Errico, Antonio Fiori, Morena Fanti, Silvia Ferreri, Lucetta Frisa, Salvatore Jemma, Francesco Marotta, Michela Marzano, Maurizio Mattiuzza, Paola Pluchino, Filippo Pace, Paolo Perlini, Paola Pioppi, Antonella Pizzo, Gianluca Pulsoni , Alessandra Pigliaru, Marina Raccanelli, Erika Ranfoni, Roberto Roversi, Sergio Sozi, Francesco Tomada.

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EDITORIALE di Alessandra Pigliaru

I have been here before, But when or how I cannot tell […] DANTE GABRIELE ROSSETTI, Sudden light

La consapevolezza del ricordo che ritorna è il porto sicuro entro cui ripararsi. Così come ci si illude che quelle stanze visitate innumerevoli volte possano ancora abitare regioni inesplorate. L’architettura del terzo numero di Viadellebelledonne appartiene alla speranza dell’inatteso. Le Strettoie si aprono con un eccellente e originale articolo dal titolo Discorsi di uno sguardo amoroso. La lettura è quella di Uno virgola due, opera prima di Silvia Ferreri sulla condizione delle madri lavoratrici nell’Italia contemporanea. Lo sguardo amoroso è di Gianluca Pulsoni che incontra la filmaker dialogando e scoprendo le differenti angolature del progetto. Il secondo contributo è di Salvatore Jemma che si impegna con L'emozione politca nella poesia di Roberto Roversi, un’intensa anatomia della poetica roversiana inseparabile dalle cose del mondo. Il terzo contributo ospita le riflessioni sullo statuto del corpo di Michela Marzano, filosofa contemporanea considerata dall’Observateur tra i cinquanta pensatori più influenti di Francia. I Pianerottoli fanno largo al ritratto curato da Anna Maria Bonfiglio del principe di Palagonia Ferdinando Francesco Gravina e della sua Villa settecentesca situata a pochi chilometri da Palermo, chè tanta suggestione e curiosità produsse tra gli intellettuali che la visitarono. Maria Gisella Catuogno propone invece un singolare contributo su Zulimo Rossellini, scultore fiorentino che dedicò ad Ugo Foscolo un monumento funebre ora ospitato nel Cortile delle Magnolie dell’Università di Pavia. Random a cura di Morena Fanti offre ancora una volta sorprendenti racconti senza casualità. Il primo racconto è quello di Paolo Perlini, Il Canto di Chiara,attraverso una scrittura musicale e poetica sulla fatica e la bellezza dell'amore. Il secondo racconto è Freakshow, di Giovanni Di Iacovo, che narra il viaggio struggente dello Straordinario Serpentino Grigorij. Il terzo ed ultimo racconto è La pietà di Sergio Sozi, un dialogo muto tra Alice e il padre che permette alla protagonista di ripercorrere le tappe importanti della sua vita. Le Finestre si schiudono con le collaborazioni di Ermina Daeder, Francesco De Girolamo, Ilaria Ciancilla e Marta Ajò. Il primo è un omaggio poetico ed emozionato a Stralune, romanzo onirico e seducente di Antonio Errico. Il secondo è una recensione al Dizionario poetico di Licio Gelli, opera controversa e liricamente stridente che viene scandagliata con capacità critica e sottigliezza letteraria. Il terzo è una lettura de La ballata della regina senza testa, romanzo visionario di Filippo Pace che si correda di un’interessante intervista con l’autore circa lo sfondo del proprio lavoro. La recensione di Marta Ajò è una lunga appassionata e terribile analisi del libro di Isabel Vincent che tratta una storia vera e che racconta la sorte tragica di tre giovani donne ebree oltraggiate dalla schiavitù. Ponteggi si apre alla lettura di Antonio Fiori che cogliendo spunto dal titolo del romanzo di Saramago, Tutti i nomi, propone qualche osservazione sul peso della citazione dell’ autore vivente nella critica letteraria. Il secondo contributo è di Morena Fanti che, partendo da due testi come Cocaparty e Ho dodici anni faccio la cubista mi chiamano principessa, si interroga sul complesso, dissonante e contraddittorio disagio giovanile. Balaustre ospita l’intervista impossibile ad Elena di Troia, «rea di aver acceso una guerra tremenda per la Grecia» come ricorda Euripide; Marina Raccanelli ripercorre le fasi salienti della vita di Elena ricavando il profilo che tanto spazio ha avuto nella storia della cultura. Di tutt’altra natura è invece il contributo di Elisabetta Bucciarelli che conversa con l’energica Alessandra Buccheri, scrittrice attivissima sul 3


web e autrice del blog Angolo Nero. Giardini contiene la traduzione inedita a cura di Lucetta Frisa di sei poesie dell’abissale Henri Michaux tratte da Déplacements, dégagements. La rubrica a cura di Francesco Marotta accoglie la nota critica su Augusto Amabili, giovane e talentuoso poeta che dona alcuni suoi testi inediti. Ad Yves Bonnefoy è dedicato il secondo intervento valorizzato da una breve antologica di poesie tratte da Du Mouvement et de l’Immobilité de Douve, Hier Régnant Désert e Pierre écrite. Nutrito di testi, tratti da L’infanzia inizia da qui e A ogni cosa il suo nome, è il contributo dedicato a Francesco Tomada che si correda di diverse note critiche. In chiusura vengono ospitati i versi inediti di Enzo Ferrari, accompagnati dal testo critico curato da Francesco Marotta. In Camminamenti la penna vivace di Nicola Amato presenta un reportage sul fenomeno sociale dei blog rintracciandone la potenza comunicativa e di impatto. Paola Pioppi descrive ciò che comporta occuparsi della cronaca nera e giudiziaria da parte di una donna descrivendone difficoltà e attenzione. Per strade impervie ci conduce Erika Ranfoni che con il suo contributo consegna il Tempo ad Eva, chiave di volta della creazione. Dal prossimo numero Viadellebelledonne avrà un tema portante. Il numero quattro sarà dedicato a Il visibile e l’invisibile.

IL VISIBILE E L'INVISIBILE

Noi siamo le api dell’Invisibile. Noi raccogliamo perdutamente il miele del visibile per accumularlo nella grande arnia d’oro dell’Invisibile [RILKE]

Parafrasando Merleau-Ponty nelle sue Note di lavoro a Le visible et l’invisible, ogni visibile è invisibile. La visibilità è dunque un’implicazione dell’invisibile o viceversa? Se la visibilità avesse una zona d’ombra, un punctum caecum della traiettoria dello sguardo, non ci sarebbe alcuna contraddizione. Non c’è dualismo e non c’è dicotomia forse ma due termini che si assumono l’un l’altro nella loro stessa complessità e portata semantica. Come scaturigine di due diverse ipotesi speculative, allora potremmo dire che alla visibilità fin da Omero era legata la conoscenza e che da Platone in poi ciò che si conosce ha sempre più a che vedere con l’invisibile. Qualcosa, l’invisibile, su cui si comincia a riflettere. Ecco, dall’assunzione della visibilità come qualcosa di conoscibile si passa per una serie di vestiboli interpretativi affollatissimi. Tutto ciò che si dà alla vista è conoscibile e al contempo l’invisibile, ricorda Blanchot ne L’espace littéraire, “è ciò che non si può cessare di vedere, l’incessante che si fa vedere”. Parlando di visibilie e invisibile ci troviamo dunque in un territorio liminare in cui si riflette sia sulla poetica del contorno che sulla sottrazione metafisica dell’essere che soffoca e che lascia il posto alla sola apparizione della notte. Orlo dell’occhio inteso come strumento del vedere o contemplazione visionaria? Nella storia della cultura visibile e invisibile assumono significati differenti riguardanti i vari campi del sapere: dal cinema alla letteratura, dalla poesia alle arti visive, dalla religione alla sociologia. In ogni prospettiva analizzata accogliamo contributi nella forma di saggi, interviste, recensioni e note critiche.

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(foto Paola Pluchino)

STRETTOIE

Gianluca Pulsoni - Discorsi di uno sguardo amoroso Salvatore Jemma - L'emozione politica nella poesia di Roberto Roversi Alessandra Pigliaru - L'arcipelago del corpo. Conversazione con Michela Marzano

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Discorsi di uno sguardo amoroso di Gianluca Pulsoni Ho sempre tentato. Ho sempre fallito. Non discutere. Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio [Samuel Beckett] […] – e la demente fuga del tempo, e il lampo rapido che ci colora l’ora, a te dolente non fosse, a te che senza strepito hai accolto in sorte nuova umana semenza. [Giorgio Caproni, A una giovane sposa]

La costruzione dello sguardo Forse si può considerare “limitante” fare una separazione tra forma documentario e forma finzione? Ti dico che formalmente e oggettivamente, proprio se consideriamo la forma, il documentario ti permette molta più libertà. Tu hai visto Uno virgola due che è un film dove la macchina da presa, la fotografia etc. sono relative. Nel senso che io me ne sono un po’ fregata di quello che ho trovato al montaggio. Ho girato un po’ all’arrembaggio, e quando mi sono trovata al montaggio ho visto che c’erano dei gravi problemi di sfocatura, di macchine mosse etc., per me non è stato assolutamente un problema, perché mi sono messa nell’ottica del contenuto, e quella rimarrà la cosa importante. E lo è rimasta sempre! Con continui liti con il montatore che mi diceva, ‹‹no, guarda, questo materiale non si può montare›› e io rispondevo invece no, che si deve agire in questo modo, perché è importante che si dica e si compia quel determinato gesto in quel momento e non in un altro. L’immagine mossa o sfocata non mi interessa, e ha continuato a non interessarmi. Ovviamente, questo discorso, in un lungometraggio di fiction, verrebbe problematizzato, perché in un lungometraggio la questione è un po’ più delicata. Però, ecco, per me non è un problema così enorme, quello dell’ “assolutezza formale”. Da poco ho girato il mio primo lungometraggio di “finzione” come regista, un progetto low budget, e c’erano dei momenti in cui veniva il direttore della fotografia da me e mi diceva: ‹‹ma, guarda, Silvia, questo carrello è leggermente troppo veloce verso la fine›› piuttosto che altro. Ma chi se ne importa! Non è una cosa prioritaria. Per me in quel momento la recitazione era ottima e io credo che nel novantanove per cento del pubblico nessuno si accorgerà che quel carrello era accelerato alla fine, o che l’immagine era leggermente decentrata, o che la macchina ha seguito troppo l’attore. Non mi interessa! E in questo senso io credo che il 6


riferimento per me assoluto sia il cinema di J. Cassavettes. Che era uno straordinario direttore d’orchestra, uno straordinario direttore d’attori. E se l’immagine alle volte era sfocata, nessuno è mai comunque andato da lui a dirgli che “l’immagine non va”, perché nei suoi film c’era talmente tanto, sempre! In tutti i film e anche in immagini di quel tipo… alla fine…

Che un difetto diventava pregio. Si, che un difetto diventava pregio. E quell’immagine sfocata ci sta anche, bene, a questo punto. In quel momento. Per me l’ “assolutezza formale” e la “precisione” non esistono nemmeno nel lungometraggio. Però è chiaro però che ti è permesso meno, nel lungometraggio. Specie per una questione economica.

Discorsi Uno. È uscito nel 2007 per la Casa Editrice Ediesse, un cofanetto, dvd e libro, Uno virgola due, di Silvia Ferreri, attrice per il cinema, la televisione e il teatro, che con questo lavoro si presenta come filmaker e autrice per la prima volta. Articolato come un progetto logo-audio-visivo coerente e compatto, Uno virgola due reca un sottotitolo che è il primo indice dell’opera, ‹‹viaggio nel paese delle culle vuote››. L’autrice, cineasta e scrittrice in questo caso, si fa testimone di una realtà che si scopre man mano: la maternità, il mondo del lavoro, le sue discriminazioni. E fin dal principio con il libro: già con gli inizi della ricerca, laddove appunto ella stessa si narra e ci narra il proprio percorso alle immagini del film e però nello stesso tempo iniziando a formare una specie di “diario” segreto e parallelo del lavoro, che comprende allo stesso tempo la storia del lavoro – il set, i collaboratori, i soggetti incontrati etc. – e le storie, la ricerca sul campo che nei modi etnografici e cinematografici la Ferreri riesce a sviluppare con grande sagacia ed economia dei mezzi. Ed è proprio il tono e lo sviluppo antropologico, man mano che va avanti il racconto, a risultare come il segno distintivo del libretto dell’opera: nella cornice-preambolo; nella connotazione della ricerca come viaggio, uno dei paradigmi più forti dell’etnografia; nell’intersezione di più livelli e scoperte – su sé stessa, sui soggetti intervistati, sull’oggetto di studio nello specifico (il tasso di natalità in Italia, la maternità, i vari “tipi” incontrati, il mobbing etc.); nella problematicità di ciò che si denuncia etc. Certo, poi, “tutto si tiene” con una grande grazia: le sfumature del racconto riescono a rendere l’andirivieni e i tormenti dell’autrice, io-sé come non mai, e il suo dialogo muto con un argomento che si apre a digressioni burocratiche, sociali, civili, liriche, amicali e persino umorali. Il tutto con una precisa e solare idea di autore: come ricercatore e intercessore degli 7


eventi e delle storie che attraversa, un giro di vite che mostra l’inesorabile sfumatura tra una de-costruzione di un oggetto d’indagine con l’incontro tra soggetti. Solo che ad un certo punto mi sono accorta che la scelta per me andava verso il mondo femminile. Nel senso che le problematiche che arrivavano dall’uomo erano problematiche diverse. Se vuoi sullo stesso canale e dovuto allo stesso motivo ma la percezione era completamente diversa. E quindi era un altro argomento. Non è stata una scelta femminista […] Né però è stata una scelta per dare in qualche modo solo alle donne lo scettro del dolore. Però è vero che questo è un punto di vista femminile. Il problema deve essere visto dal punto di vista delle donne. Ed è stata una scelta assolutamente voluta e desiderata. Due. Il film di Silvia Ferreri è un esempio di come fiction e documentario siano letteralmente “forme aperte”, dai confini spesso sfumati e connotati alle volte anche da moduli altri – l’aspetto fiction come modalità inventiva; l’aspetto documentario come involucro d’esposizione. È un’opera vera e propria, la cui necessità è collimata in una espressione che attiva una percezione globale e stratificata, dei soggetti e dei sotto-temi. Le donne incontrate si espongono: come esseri femminili e come madri. I racconti scivolano via formando una trama di vissuti in perfetto equilibrio e compresenza con lo sviluppo della ricerca. Ma la peculiarità felice è che laddove c’è il libro, “si” parla delle motivazioni, sui soggetti, le scelte, i racconti di vita, la legge, il contrasto e l’indifferenza sociale e lavorativa, mentre il film invece riesce davvero anche e a “caricare” diversamente i soggetti, nella loro “presenza” fisica: le madri hanno l’auto-percezione, la possibilità di costruire l’immagine di sé. Questo le “anima”, in piena evidenza. E noi, al di là delle loro parole che registrano quanto è stato, le vediamomostrarle in prima persona, lo sguardo si fa testimone di tale condizione d’essereresistenza. Ma c’è poi di più, poiché il racconto si snoda su più piani: l’incontro con le donne che parlano di sé e della loro esperienza della maternità, nel loro intimo e nel mondo del lavoro; la frammentazione di una sequenza di un parto, nell’attesa concepimento riuscita, “immagine” e “metafora” ideale voluta fortemente dalla cineasta; il tema antropologico del dialogo tra tesi della ricerca e auto-biografia (attraverso alcune belle invenzioni figurative). E tale stratificazione di discorsi viene articolata da uno sguardo che indaga l’amore per la vita come una questione di percezione. Sempre. sicure, degne, vive, coraggiose. Grazie alla semplice attenzione e scelta registica di mostrarle in prima persona, lo sguardo si fa testimone di tale condizione d’essere-resistenza. Ma c’è poi di più, poiché il racconto si snoda su più piani: l’incontro con le donne che parlano di sé e della loro esperienza della maternità, nel loro intimo e nel mondo del lavoro; la frammentazione di una sequenza di un parto, nell’attesa concepimento riuscita, “immagine” e “metafora” ideale voluta fortemente dalla cineasta; il tema antropologico del dialogo tra tesi della ricerca e auto-biografia (attraverso alcune belle invenzioni figurative). E tale stratificazione di discorsi viene articolata da uno sguardo che indaga l’amore per la vita come una questione di percezione. Sempre. È lo sguardo come cura. “La costruzione dello sguardo” e il corsivo della seconda parte, “Discorsi” sono parti estrapolate da una lunga e bella conversazione avuta con l’autrice del lavoro, Silvia Ferreri, il 16 Settembre 2007 a Pesaro, all’Hotel Cruiser, sul lungomare della città. Il ritardo del riscontro scritto a quell’incontro, ritardo frutto di casualità esterne, non ha diminuito l’ammirazione per il suo lavoro, e, ça va sans dire, l’attenzione verso le prove future.

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L’emozione politica nella poesia di Roberto Roversi (I)

di Salvatore Jemma

Il debito che la poesia italiana ha contratto con il ‘fare’ roversiano è enorme – anche se non pienamente valutabile nelle sue implicazioni odierne; e già lo sarebbe solo per le innumerevoli azioni quotidiane accese nei confronti di un lavoro mai interrotto per una comunicazione, praticata nei fatti, della poesia. Va però aggiunta anche l’introduzione di un pensiero radicalmente differente, all’interno della forma e del contenuto poetico – del fare e del dire poetico – che si può sintetizzare in questo modo: modificare una ‘estetica’ del testo poetico per valorizzare al massimo una ‘etica’ del fare poetico. La deresponsabilizzazione dell’artista (ma, più in generale, dell’individuo sociale, che si realizza solo individuando il proprio io come il naturale luogo ove tutto si svolge e acquista significato e senso) e, in particolare, del poeta, nasce anche per negare la zona d’ombra che, tuttora, nasconde il mondo alla poesia. Per la poesia di Roversi, quindi, si dovrà parlare sempre di capacità di comprendere e di intervenire nella costruzione poetica non solo in relazione al testo, ma pure agli strumenti di intelligenza e intervento politico e sociale; poiché la relazione tra fare artistico e luogo dove quello si esplica – ciò che la modernità ha spazzato via – secondo la poesia di Roversi non solo è possibile, ma è necessario ricostruirla. Si tratta di un pensiero e un’estetica che permettono di annoverare e ricostituire compiti diversi della poesia per il tempo non solo presente. La sua figura, nell’insieme del panorama culturale del secondo dopoguerra, si caratterizza in modo autonomo e assolutamente singolare, nel senso di una battaglia e di una scelta di campo coerente che è stata mantenuta in modo solitario; ed era singolare sia per quel tempo – ma non proprio, in effetti un certo numero di intellettuali, e di artisti in genere, si affermavano anche per una serie di dichiarazioni di principio smentite poi dai fatti concreti, cioè dalle loro opere e scelte di vita – sia soprattutto per le situazioni e i tempi successivi. A Bologna, città dove è nato e dalla quale non si è mai trasferito, Roversi ha incontrato tutte le fasi storiche e letterarie del nostro Paese dall’ultimo dopoguerra ma anche, e quasi quotidianamente, le cose e le persone; e da qui ha agito e reagito. Un autore, quindi, che nel silenzio con il quale ha coltivato e sviluppato il proprio talento, ha cercato e tuttora cerca di costruire una comunicazione allargata, profonda, continuata. Può sembrare un paradosso, ma l’autore che più ha fatto silenzio attorno a sé, allontanando i moltiplicatori di immagini 9


che la moderna comunicazione ci propone da anni, è quello che oggi (come ieri) con più forza vede e parla e dice del mondo, con una lucidità rara nel panorama letterario italiano. Si rilevano, da una serie di interviste e altre scritture e notizie, quei momenti fondanti di un certo atteggiamento che il giovane Roversi venne maturando e che caratterizzeranno in seguito tutta la sua vita e il suo lavoro. Roversi nasce nel ’23, le elementari le farà «in fondo a via Galliera, alla De Amicis. (…) Al Galvani, dove ho fatto il ginnasio e il liceo, al di là degli alunni c’erano ottimi studiosi di lingue classiche. Qualcuno fece anche carriera universitaria. E c’era il filosofo marxista Galvano Della Volpe, di cui allora ovviamente non conoscevamo gli studi, ma che ha segnato senza dubbio parecchi studenti del liceo. Io ero in un’altra sezione, in classe con Leonetti, com’è noto. Allora, quando ci guardavamo attorno tra i compagni di scuola, sapevamo già che Pasolini era un alunno di valore, interessato soprattutto alla poesia (…). Quando stringemmo amicizia con Pasolini, però, cominciammo a vederci con lui quasi tutti i giorni».[1] Allo scoppio della guerra Roversi ha 17 anni: è il momento in cui un ragazzo (ogni ragazzo) sta iniziando la propria formazione, l’età dalla quale le cose partono e si dipartono cementando, e un tessuto si intreccia a formare la persona che sarà nel futuro; per cosa o quale accidente e dove la sua iniziazione alla scrittura? Roversi si ricorda, parlando di quel ragazzo e parlandone in terza persona, «rintanato senza affanno in una casa isolata, in una stanzetta non più grande di una mano, con quattro sacchi di grano appoggiati a un muro e lui seduto sul quinto, morbido morbido, vicino a una finestrella. Da lì ha preso l’avvio, si può dire, per quanto riguarda il privato atto di scrittura. Appoggiato al davanzale, sotto gli occhi i due tometti con gli scritti del frate Tomaso Campanella curati in una edizione quasi popolare dal D’Ancona, critico illustre e sodo, assolutamente affidabile. (…) [I]l giovane nel leggerlo sbalordiva, si stravolgeva, si pigliava mal di stomaco e la nausea dietro questa esaltazione gridata; ed era spinto a specchiarsi precipitoso incatenato insolente ma pazzo di curiosità per il mondo che fuori avvampava. In quanto, oltre la finestra finestrella, su un’altura di scarso rilievo ma ben definita, distante non più di quattrocento metri o forse meno, una batteria tedesca con cannoni e Nebelwerfen e cinquanta cruchi messi intorno, pronta a dare battaglia e a ricevere battaglia [2] avendo, subito prima, ben sottolineato che quell’inizio di scrittura non aveva avuto luogo «inseguendo un amore per mezza Europa, neanche partecipando a una spietata autopsia di se stesso».[3] Accade così che da quella scossa violenta e da un desiderio feroce di entrare nel mondo, volendolo conoscere poiché, dice, «[e]ro senza idee e senza forza; solo, senza “maestri” e ignorante; ignorante con disperazione, e consapevole»,[4]quel giovane raccolga un certo numero di poesie, un «risultato ottenuto quasi per sorpresa. La dedica naturalmente fu per il frate che l’aveva sorretto e aiutato: “A Th.C. vir qui omnia legerat / omnia meminerat / prevalidi ingenii / sed indomabilis”»,[5] e si tratta, come Roversi preciserà in altro luogo [6], delle Rime, pubblicato in poche copie numerate per i tipi di Landi [7] , libraio antiquario e anche editore. Ma non era quella la scrittura che stava cercando il giovane Roversi, c’era stato sì un inizio, una sorta di scintilla aveva acceso qualcosa e lo aveva bruciato, troppo velocemente forse; così, raccolte quelle copie, decide davvero di farne un fuoco e le brucia, «come se il fuoco riducendo la pagina in cenere ripulisse per un momento il mondo dal dolore di un segno distorto: impreciso, claudicante».[8] 10


In realtà, l’inizio della scrittura del giovane Roversi è, come pare ovvio che sia, più complessa e passa attraverso varî cunicoli di letture e di sentimenti lentamente maturati, con una necessità sempre presente di capire e carpire, partecipare di ciò che nel mondo succedeva; intanto una «prima poesia in qualche modo conclusa, e in ogni caso ricopiata a penna, la posso collocare nel ’39 o nel ’40… insomma, quando la Germania invase la Polonia. Si intitolava “Cavalleria Polacca”»; [9] e se il primo libro letto è un Baudelaire, I fiori del male, le «due prime letture vere» sono i Colloqui con Goethe, di Johann Peter Eckermann e le canzoni di Tomaso Campanella, «[p]ietre del mio edificio tutt’ora. Queste due punte acuminate mi portarono per rapidi e brevi passaggi trasversali a Hoelderlin; quasi subito a Hoelderlin di Diotima. Lì mi sono assestato un poco, cominciando a dipanare le mie private riflessioni». [10] Per quelle vie traverse, molto presto troverà pure la poesia di Rebora, e anche questo incontro sarà abbastanza sconvolgente e travolgente: «Mi sembrava alle volte che fosse impegnato a bucare il lucchetto della prigione di Campanella, per liberarlo. (…) Mi rendevo conto, in aggiunta, che la poesia non è solo il testo che scrivi, o che leggi; che puoi scrivere o puoi leggere; ma che richiede per essere giustamente scritta e giustamente letta, secondo le proprie opinioni, una partecipazione d’attenzione continua alle cose del mondo. Era una giovanile deduzione, che ancora conservo». [11] E non si può tralasciare Penna, una lettura certo diversa, meno stravolgente, ma costante negli anni, la levità che caratterizza quella poesia lo affascina e cattura, lo attira – per il brillio che emana, nell’ordito di quella sottile tela di ragno: «Per me è così. Anzi, era così. Mi sembrava che questa sua estrema leggerezza da fiato nel vento… ma poi ero impacciato, non riuscivo a definire bene le cose… questa sua semplicità davvero straordinaria (…). Lo leggevo, anche negli anni successivi, spinto da un continuo oltrepassare la pagina, a scavalcare le parole. (…) [U]na poesia atroce e dolcissima, da sangue su una lama che vibra». [12] Sono, queste letture, sentite e potremmo dire anche patite e maceranti, davvero propedeutiche per un lavoro e un impegno che seguiranno frenetici e costanti dal dopoguerra in poi. Dopo la poesia «Cavalleria Polacca» ne seguiranno altre, tre o quattro furono inviate a Saba che gli rispose in breve tempo: «Fu a seguito di questo contatto indiretto che cominciai a leggerlo con attenzione. (…) Certo è che ho letto Saba molto prima di Ungaretti e Montale. Subito dopo Saba ho letto Campana, nel librettino giallino di Binazzi. Però in assoluto il primo italiano che ho letto, per un incontro del tutto fortuito, è stato Thovez».[13] Poi ci sono i lirici greci nella traduzione di Quasimodo, che serviranno da matrice per Poesie, il suo primo libro, stampato nel 1942 con l’assistenza economica del prozio Rigo. «Ma già nel ’43 ero sotto le ali del frate legato nelle profonde segrete vaticane (…). Ero addirittura travolto da quella voce, da quell’ombra (…). Il 1943 era un anno tremendo. Quella di Campanella mi sembrava la mia condizione. Pubblicai in trenta copie il libretto azzurro scuro delle “Rime”». [14] Roversi rievoca la situazione sofferta, soprattutto da coloro che erano giovani in quegli anni che preparano l’entrata in guerra, per quanto veniva sottratto dal fascismo nascondendolo, affinché nulla o quasi trapelasse di una qualsiasi opposizione politica e culturale al regime: «Da studente, ricordo che l’unica misura della mistificazione ci era data non dalle cose dette ma da certe omissioni che, a mano a mano che si alzava il grado della scuola, si facevano più chiare, più riconoscibili»;[15] e ricorda ancora che «[i]n realtà, nel fascismo la mia generazione c’è cresciuta dentro “naturalmente”, ci è nata: per questo è stato così difficile farci i conti»; e alla domanda se le discussioni che coinvolgevano quel piccolo gruppetto di ragazzi, che erano principalmente, oltre a Roversi, Leonetti, Pasolini e Serra, avessero come 11


tema anche quello della situazione politica, risponde: «No davvero, non se ne parlava proprio (…). [S]i discuteva solo di letteratura. Nei momenti decisivi mi vedo solo. (…) Se non partecipai attivamente ai gruppi fascisti e anzi me ne allontanai sempre più, in un silenzio dubbioso, il merito non fu mio, ma di Antonio Meluschi e Renata Viganò. Conobbi Meluschi nel ’40, alla libreria Cappelli. Cominciai ad andare a trovarli tutti i giorni. Erano poverissimi. (…) [I]n famiglia non si parlava di antifascismo e furono loro a prepararmi poco per volta, senza sforzare la mano. (…) Non eravamo [noi giovani] preveggenti in niente, e se feci scelte diverse dai miei compagni lo devo comunque a loro».[16] Si costituiscono quindi in questo periodo, così importante e formativo per il giovane Roversi, gli elementi fondativi – seppure aggregati e consumati con quella spasmodicità di chi stava ricercando freneticamente appigli cui ancorare la propria necessità di senso, nella realtà che stava vivendo – di una programmatica ‘epicità’, elementi che costruiranno poi la trama espressiva delle sue prima prove compiute, dalle poesie uscite su Officina ai racconti che verranno raccolti nel libro Ai tempi di re Gioacchino; ma in questo momento può contare, oltre che sulle letture consumate più che compulsate, sulla propria educazione classicistica e sulla tensione etico-religiosa, due dati sui quali il critico Giuseppe Zagarrio insiste particolarmente: «la rivolta antinovecentesca di Roversi si realizza come recupero (…) dell’Ottocento classicista e mitizzante e, s’intende, quello più energico e teso ai dati di una robusta eroicità umana, insieme civile ed esistenziale; si può pensare a Carducci, più ancora a Foscolo, allo stesso Pascoli, anzi soprattutto a lui, purché in ogni caso si pensi ad essi come a strumenti di mediazione per l’approdo a un più remoto rapporto con la classicità, intendo con la grecità più originaria vuoi dei tragici vuoi soprattutto omerica».[17] Manca ancora, a questa esperienza letteraria, il fatto brutale dentro al quale il giovane Roversi entrerà a breve; lo scoppio della guerra si mescolerà con i libri e gli autori che l’hanno accompagnato, e quella li farà agire nella direzione di una chiarezza operativa che si rivelerà successivamente. In breve, quindi: dopo i bandi del novembre ’43 il giovane Roversi non sa come comportarsi, vorrebbe non andare, ma per i renitenti c’è la fucilazione; ne parla con Meluschi, per un consiglio. «Allora i primi passi della resistenza erano ancora incerti. Lui e la Viganò mi dissero: “tu presentati, poi si vedrà”»;<!--[18] così si presenta e finisce in Germania, con la Monterosa, dove viene addestrato l’esercito della neonata Repubblica di Salò; ritornato in Italia, è spedito sulle montagne piemontesi; da lì, per mezzo di un sottoufficiale già legato alla Resistenza, assieme ad altri compagni si unisce alla lotta partigiana: «patii soltanto con tutte le forze, ma non più con rassegnazione. Ero a Savigliano, appostato col mitra, nella notte d’aprile, ed ascoltavo il passo dei tedeschi in ritirata, e il canto da cruco, duro, triste che l’accompagnava; poi a Cuneo a sfilare davanti a Parri, con tutta la gente felice, in quei giorni che sono il più bel ricordo della mia vita…».[19] Ritornerà a casa nel giugno del ’45. Il ritorno, come tutti i ritorni dopo grandi tragedie e terribili sconvolgimenti, è pieno di speranza, voglia di vita e di cambiamenti, pieno di passione e di nuovi inizi, anche di riprese di qualcosa che essendosi interrotto va ricongiunto, riallacciato a una situazione la quale però è già sentita come irrimediabilmente persa o che si sta perdendo, anche per quello che era maturato tra il piccolo gruppo di amici: «Le macerie non erano soltanto nelle strade. Cinque, sei lunghi anni di una guerra mondiale spezzano ogni legame, interrompono le 12


continuità».[20] Ma intanto: Roversi ritorna e riprende gli studi interrotti: si laurea nel ’46 in filosofia con una tesi su Nietzsche, «però le mie propensioni erano prevalentemente storiche. Mi interessava la storia del risorgimento soprattutto, letta la prima volta ancora al liceo sulla documentazione interminabile ma per me ragazzetto affascinante del Tivaroni. Quei fatti minuti, sottratti alla pompa dei velluti e delle medaglie e delle barbe dei vincitori». [21] Chiede e ottiene di diventare assistente di Giovanni Natali, presso la cattedra di Storia del risorgimento all'Università di Bologna, con il proposito di indagare al di fuori della ufficialità «disponendomi non dalla parte del vincitore ma sulle carte del nemico (…). Non scartabellando a Roma o a Torino ma a Vienna (…). Niente, neanche mi ascoltavano». Così dopo due anni lascia l’Università; questo è il periodo durante il quale lavora ai racconti pubblicati poi nel ’52, di cui prima si diceva, e dove si può ritrovare sia quella sua propensione agli studi storici che il voler ‘leggere’ più approfonditamente i «fatti minuti». È il periodo che prelude a Poesie per l’amatore di stampe,[22] libro del ’54, sul quale Zagarrio formula alcune interessanti considerazioni, trovandovi intanto una ben delineata tecnica della ritrattistica e della propensione a stilare una certa galleria di eroi,[23] ma privi di quella pomposità che caratterizza generalmente l’eroe nella stereotipata retorica istituzionale. Chiusa l’esperienza universitaria, Roversi comincia a guardarsi attorno per trovare un’occupazione che gli permetta di «guadagnarsi il pane», ma con l’intento di restare fedele a quel famoso prozio Rigo che gli aveva pagato la stampa del suo primo giovanile libro di poesie; è lui che gli spiega che «time is money, che occorre agire, dedicarsi al business, “e non stare a padrone”». [24] L’occasione di lavorare con i libri vecchi, antichi, si presentò all’improvviso e «richiedeva celerità di decisione e di esecuzione. Un nobile smobilitava casa, campagne e archivio (…) questione di ore. Tutto era dunque affrettato incontrollato. L’archivio imponente e secolare capitò (…) a un grossista o rivenditore di carta straccia… che aveva insaccato tutto, il lusco e il brusco (…). Il capo commesso della libreria Cappelli, Otello Masetti, mi avvertì e decidemmo, con un prestito, di acquistare quei sacchi. (…) Fu il fondo librario di inizio». [25] Il nome della libreria venne scelto estraendo a caso da uno dei sacchi, un libro che si rivelò essere un annuario di Casa Savoia dal nome Il Palmaverde. L’esperienza parte in società con Otello Masetti, il quale in seguito si ritirerà. Masetti «aveva esperienza pratica libraria (…) cominciammo a riscontrare i volumi di quel primo acquisto in uno stanzone avuto in affidamento (…) dal parroco di San Michelino, un primo piano attaccato alla chiesa». [26] Dopo quell’iniziale sede, nei primi anni ’50 la libreria è in un cubicolo dentro un’antica torre, all’angolo tra via Rizzoli e via Indipendenza; tra il ’58 e il ’63 si trova in via Caduti di Cefalonia, ed è un negozio aperto al pubblico, un esperimento a detta di Roversi che non fu felice; successivamente si trasferisce in via Castiglione e, infine, all’inizio degli ’80 è in via De’ Poeti. [27] La libreria divenne ben presto «un centro di interessi intellettuali e culturali, che fecero della sua ‘bottega di libri’ un luogo di incontri e di lucida ricerca ideologica, che lo spinsero a trasformarsi in editore». [28]Infatti, prima ancora di essere sede ed editrice di Officina e in seguito di Rendiconti, pubblicherà nella collana «Il Circolo» testi di Pasolini, Leonetti e, di Roversi stesso, il già citato Ai tempi di re Gioacchino; editerà inoltre, per le collezioni specialistiche di Opere inedite e rare, la collana Medievalia e i volumi della Biblioteca Musicale della Rinascenza, almeno settanta opere, tra le quali Le biografie trovadoriche a cura di Guido Favati; una preziosa edizione critica a cura di Marco Boni delle Poesie di Sordello; le Poesie di Martin Soares, a cura di Valeria Bertolucci Pizzorusso; il Palmstroem e altri Galgenlieder e il Palma conocchia di Christian Morgenstern, entrambe a cura di 13


Anselmo Turazza. Libri non scontati o banali, ma autentici studi e lavori sulla poesia più sotterranea, meno prevedibile forse, non certo meno importante di quella più celebrata. Il ritorno dalla guerra, come abbiamo già detto, rifà i conti per Roversi come per i tantissimi colpiti da quella tragedia, costringendolo a riguardare il mondo e i suoi rivolgimenti con occhi affatto nuovi e a inserire quegli avvenimenti in una storia, a tuffarvicisi dentro, cominciando a nuotare controcorrente. Nei primi anni ’50 alcune delle scelte che determineranno il percorso di Roversi sono compiute: ha iniziato la sua attività di libraio ed editore, Officina è già nell’aria,[29]pubblica un primo libro di racconti e di lì a poco usciranno le Poesie per l’amatore di stampe. Possiamo affermare come propedeutica, per Roversi, l’esperienza di Officina, [30] nel senso di una preparazione della propria scrittura poetica congiunta a quella di una riflessione politica, entrambe scavate e ricavate con rigorosa pazienza. Per abituare lo sguardo, dopo un certo buio, c’era bisogno di un tempo e di una fatica; in Roversi, come da lui più e più volte affermato, si fa strada la convinzione che la rivista stesse compiendo un’operazione puramente letteraria, in una situazione che avrebbe richiesto riflessioni del tutto nuove e «[u]na lettura più diretta e più autonoma del mondo. Del nostro mondo. Una lettura più libera che spingeva a disincagliarmi dalle secche retoriche che mi invischiavano. Dico retoriche e intendo tradizionali. (…) Il dopoguerra finiva, era finito rapidamente, nei suoi necessari entusiasmi, nelle sue ultime violenze e si metteva in moto una diversa violenza, torbida e costante, inesorabile; meno manifesta ma atroce perché non lasciava scampo… dato che era finalizzata a compiere uno sterminio da anno zero contro la civiltà, il mondo, la cultura contadina. (…) Non ci fu pietà per nessuno. Alla fine restarono solo le ruote dei carri, gli alari dei camini e i gioghi dei buoi appesi nei musei-cimiteri». [31] Il limite di Officina per Roversi stava nel suo essere non altro che «una rivista fatta da letterati»; nella sua analisi, che comincerà ad esplicitare attraverso i componimenti poetici e, successivamente, con le sue riflessioni politiche, la guerra aveva stravolto ogni cosa di prima e, per l’oggi, verificava da parte dei varî poteri l’approntarsi di un nuovo stravolgimento carico di incognite per il futuro. Se negli scritti presenti nei numeri della prima serie di Officina, la presenza di Roversi appare più tesa a chiarire una lingua poetica, nella seconda serie troveranno chiarezza le riflessioni di carattere politico-ideologico attraverso un paio di scritti che, assieme a quelli di Fortini, saranno fondanti per i futuri dibattiti a cui entrambi parteciperanno. Qui Roversi indica temi che successivamente gli faranno da battistrada per le scelte future, cosicché Lo scrittore in questa società e Il linguaggio della destra si possono leggere anche come dichiarazioni di poetica che include un nuovo sguardo sulla stessa lingua poetica. Nell’intervento che appare sul n. 1 della nuova serie, indica quale dovrebbe essere l’atteggiamento dello scrittore verso la realtà: «L’uomo di cultura ha una nuova responsabilità. Se poco cammino è stato compiuto da noi dopo la grande speranza d’après la guerre, si può cercare di rovesciare in positivo gli insegnamenti cavati dagli errori passati (pluralità di contraddizioni non esplose, gelo dogmatico), badando di vincere l’iterata amarezza con l’operare, il dubbio e i sensi di fredda solitudine che alle volte sopraggiungono con la fiduciosa constatazione che i marxisants (nel senso in cui Marx dice: je ne suis pas marxiste), cercano, tentano un nuovo regnum hominis (…). Non ci si propone un rifiuto preconcetto e polemico della realtà, ma una contrapposizione più consapevole, quindi più operante, più cattiva e scaltra, alla condizione attuale e agli organismi politici che 14


la determinano». [32] Il secondo contributo, quello sul linguaggio della destra, appare sull’ultimo numero di Officina; in esso si analizza in principio, brevemente ma con esempi precisi, il linguaggio usato dal brescianesimo ottocentesco per arrivare poi all’integralismo della destra contemporanea «sia democristiana o più generalmente della destra legittimista» [33] . Con questi interventi quindi, alcune linee sono già segnate, alcune scelte già definite. Sottolineo come il nome della sezione che raccoglie tali interventi si chiami «Il nuovo impegno», [34] mentre in precedenza la sezione per gli elaborati di riflessione raggruppava tali lavori sotto il titolo «La nostra storia»; insomma, una mutazione in atto che però non troverà sfogo e realizzazione oltre quel paio di tentativi. Nel ’59, l’esperienza di Officina sta arrivando al suo termine per ragioni sia interne che esterne o, meglio, per ragioni interne che furono successivamente scambiate per quelle esterne, come più volte chiarirà Roversi. [35] Intanto: è proprio del ’59 un suo scritto su Nuova Corrente a proposito di un dibattito lanciato dalla rivista sul realismo. L’intervento di Roversi è un incisivo e rapido excursus sui relativamente pochi anni passati, da quelli del dopoguerra, con le speranze nate dalla lotta di liberazione, a quelli della ricostruzione e, successivamente, al ritorno all’ordine («il consolidarsi delle vecchie strutture»): «Fu errore credere che quell’osmosi di classi, avvenuta con troppa impetuosa concordia nel periodo resistenziale, durasse all’usura del dopo-guerra e consentisse un avvio a un rinnovamento di fondo (come si diceva), sia pure drammatico, contraddittorio e contraddetto. Fu quello, invece, il momento di un entusiasmo grezzo, smodato, refrattario ad ogni meditato giudizio: in poesia si identificò col populismo (…). Approdò a nulla (…), sarebbe bastato il richiamo di una società in progresso. (…) Il populismo dei primi anni restò embrionalmente amorfo e fu sopraffatto (o sostituito) da quella disposizione a fare che si chiamò neorealismo; un modo ambizioso e falso di vagheggiare la realtà (mentre il realismo l’affronta)»;[36]la critica di Roversi, in realtà, più che sul neorealismo si appunta su una parte di esso, una sua espressione diremmo patetica, che definisce zavattiniano; e infatti «[i]l populismo era fanfarone e granguignolesco, disarmato, senza pazienza; il neorealismo zavattiniano era di una falsità di fondo involuta ed esasperante, intellettualmente deamicisiano, decadente e calligrafico». [37] In queste parole c’è una distanza ‘ideologica’ da un certo neorealismo che spesso scivola nel lirismo patetico e, talvolta, in un certo pietismo; ma alla fine la distanza coinvolge il neorealismo tout court, prossimo come è a una visione per la condizione umana più «tempestata» in senso naturalistico, la quale viene illustrata e condannata sì, ma da una posizione di impotente spettatore (e illustratore) di quanto succede; cogliendo di quei problemi solamente la superficie, ne assume spesso solo i linguaggi e i punti di vista; pur avendo in sé «una disposizione a fare», questa resta soltanto tale. Per Roversi, al contrario, fare i conti con la realtà significa scontrarvisi, e duramente, attraverso la messa in discussione dei suoi stessi meccanismi, costruendo una riflessione sulle cose, poeticamente e politicamente – cominciando a usare «la sporca lingua» non per solo descrivere ma per sovvertire – nell’intento di sollevare la comunicazione su di un livello tale da spiazzare quel che ne è investito; e tutto questo – Roversi ne è già totalmente consapevole – «con una fatica che consente pochissima gioia (e assai scarso successo)»: [38] Rendiconti è alle porte. «Con “Rendiconti” si è inteso – sia pure attraverso scompensi che un lavoro (così) impegnato produce – ricercare nuove metodologie e aprire a nuove direzioni problematiche, 15


predisponendo, o almeno ricercando, gli opportuni agganci; quindi si è tentata (e si tenta) non tanto un’opera (un lavoro) di aggiornamento, ma una vera e propria operazione di scavo, molto cautelosa e specifica, per la verità, e senza smanie; ma possibilmente precisa, persistente e attenta». [39] Tra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60, in Italia, lo sviluppo culturale scopre il mercato capitalistico, sulla scia di un’espansione economica e di un benessere relativo, con tutto quello che ne consegue in termini di nascita di nuovi bisogni, nuovi consumi, nuovi valori (o disvalori), nuova assimilazione linguistica, nuova coesione sociale. In questa situazione Rendiconti tenta di affondare la lama della riflessione politica e sociale attraverso la scrittura e la comunicazione culturale, per cercare di giungere a una funzione diversa della letteratura e dello scrittore in questa società, non quindi una rivista culturale di impegno civile, ma uno strumento di elaborazione che considera la cultura non tanto come uno strumento ‘al servizio’, ma come il modo di costituire una ‘politica’ e una ‘realtà’; per cui si dimostra più attenta ai contributi di natura ‘scientifica’ e metodologica, anche se non disdegna quelli poetici. Questa distanza, immediata, precisa, dalla parola letteraria (poetica) che gli appare vuota se non è subito riempita del mondo e dalle cose che vi agiscono, che si patiscono anche, è quella che Roversi introdurrà fra sé (e il proprio lavoro) e la maggior parte delle ‘Lettere’ e dei letterati più acclamati; è, inoltre, quanto servirà a far scattare la polemica contro i «fermenti informali, neofuturistici ed ermetizzanti dell’avanguardia al livello dell’ufficialità. (…) Poiché queste pseudo-avanguardie sono mosse innanzi tutto dalla vecchia convinzione (che si credeva affossata) che la politica sia da tenersi distaccata dalla letteratura». [40] Il furore di Roversi, il suo «avanguardismo ideologico», come è stato definito, penetra a fondo e direttamente, non allude né illude; amarissima da ingoiare, la sua parola dice cose che, almeno in quel periodo, nessuno avrebbe voluto si dicessero – tanto meno che le dicesse un letterato e un poeta, e un poeta italiano poi. C’è una ‘moralità’ nelle parole di Roversi che è bruciante ma non per questo meno necessaria – maturata con dura pervicacia e, va detto, in grande solitudine –; parole che non consolano, se oramai sono venute meno categorie come «libertà, democrazia, regime parlamentare; che secoli di storia hanno definitivamente usurato, coprendole di sangue, di una polvere fitta, di ricordi, di dolore, di perfide contraddizioni. Nazionalismo, metafisica, misticismo», [41] parole che, in un clima da neocapitalismo trionfante e miracolo economico imperante, suonano tanto solitarie quanto totalmente vere. Per Roversi si tratta di acquisire una certa contraddizione tra l’essere della realtà (della politica, della società) e l’essere della cultura; se in Fortini, e poi anche in Pasolini, per non parlare dei novissimi, questa acquisizione si risolve innalzando il grado di sintomatologia della malattia sociale, attraverso una denuncia che trova come ‘unico’ rimedio quello di prescrivere dosi massicce di medicamenti, sotto forma di stile (e sottolineo ‘unico’ nel senso negativo che l’unicità fornisce a quel rimedio), con Roversi il discorso viene ribaltato perché possa ribaltarsi la comunicazione imperante e si possa rivoltare lo stato di cose presente (o almeno si tenti di farlo).[42] La pubblicazione feltrinelliana di Dopo Campoformio è del ’62; in quegli anni il dibattito teorico e la scrittura sia poetica che narrativa vengono sempre più precisandosi, così come si approfondisce il solco della polemica nei confronti della neoavanguardia. In un’inchiesta svolta da «Nuovi argomenti» sulla poesia, Roversi consolida un ragionamento dal quale trae 16


le ragioni sia della paventata crisi della poesia, sia del ritorno all’ordine della stessa – un suo ritorno all’ermetismo o a un neo futurismo – e, anche, della necessità che la poesia si ponga un fine affatto diverso da quello finora perseguito; Roversi si dimostra concorde col fatto che «[d]ibattiti recenti (alcuni qualificati e sottili) pare abbiano almeno chiarito che la crisi della poesia, come quella del romanzo e della critica (che questo e quella dovrebbe amministrare) sia da identificare non già in una generica degradazione dell’espressione o delle arti in genere (involuzione, ritardo, regresso ecc.), ma nella crisi più ampia, nella ferita grande, della società in cui viviamo» [43]. Roversi con molta chiarezza afferma che la poesia è chiamata ad assolvere una parte del compito nell’opera di critica verso un mondo; non essendo (non volendo essere) «una cosa bella per un prodotto “vero”», allora sarà alleata con l’analisi politica la quale concretizza gli strumenti e focalizza i contenuti cui riferire la necessità di rivolgimento dello stato presente. Le dichiarazioni di poetica di Roversi stanno tutte nelle sue prese di posizione teorico-politiche, le quali sono precisamente posizioni stilistiche – dichiarano un nuovo stile per una nuova forma da acclarare –, posizioni che si concretizzeranno e preciseranno sempre più negli anni seguenti in quel ‘sentimento politico’ che animerà tutta la sua scrittura. Questo rimarcare la propria distanza dalla scrittura, escludendola quale strumento di affermazione di istanze è solo un apparente paradosso generato da una riflessione che parte da una sorta di necessaria nemesi da compiere all’interno del panorama letterario, tutto rinchiuso nella propria ‘esclusività’. In realtà, Roversi propone un’etica inclusiva proprio nel momento in cui afferma che «neppure per un momento credo si possa scrivere per qualcuno (che sia pure il pubblico indistinto); ma semmai, per questa strada, che si debba scrivere contro qualcuno»; [44] e fa questo attraverso una poetica che desta e agita la lingua, facendola trascendere in una nuova visione della realtà, così chiarendo la dipendenza (meglio, la dichiarata non autonomia) che la sua poesia denuncia, non come fatto deprecabile, ma come oggettiva presa di coscienza di una situazione che impone alla poesia stessa di leggere il mondo. Una ‘lettura’ che tenti di costruire perlomeno le premesse (comunicative) per un cambiamento, e non soltanto le promesse di quello, attraverso l’introduzione di un pensiero radicalmente differente sia nella forma che nel contenuto poetico – del ‘fare’ e del ‘dire’ poetico. Un ‘fare’ e un ‘dire’ che si spiegano come la necessità di modificare un’estetica del testo poetico per valorizzare al massimo un’etica del fare poetico. È di questi anni una modificazione della scrittura di Roversi, che è rilevabile intanto dal romanzo Registrazione di eventi [45]il quale, sia per l’ambientazione che per l’impasto linguistico utilizzato, definisce appieno questa fase la quale comincia a delinearsi anche con l’apparire su varie riviste delle prime Descrizioni in atto. Se nella precedente produzione, l’atteggiamento era quello di «[p]artecipare con chi era calpestato» [46], in questo momento Roversi getta uno sguardo in profondità nei confronti dell’oppressione politica e, nello specifico, verso quella ‘solitudine economica’ che entra come parte rilevante della generale solitudine a cui l’uomo è costretto nella società mercificata. È su questo romanzo, ma più in generale sulla scrittura poetica di questo periodo, che si sono appuntate le critiche se non di incoerenza almeno di distanza fra la proposta di poetica – con conseguente polemica nei confronti delle modalità neoavanguardistiche – e la formalizzazione della sua scrittura. Più sopra si è dato un breve accenno di cosa Roversi intendesse nel criticare la neoavanguardia; ora, nello specifico, sarà opportuno far parlare lo stesso autore che risponde, a questo proposito, alle domande che Camon, nel suo libro intervista, gli pone. «Posso indicare 17


alcune ragioni che mi hanno spinto a scegliere quel modulo espressivo per Registrazione di eventi. Ho cercato una contaminazione linguistica del mio discorso – di quel discorso – anche dietro sollecitazioni in atto, che mi sembravano e mi sembrano legittime (…). Ho “cercato” cioè una persistente deflagrazione del discorso; soprattutto con l’assunzione ironica del tono (o di un tono) lirico, perché spero che i pochi lettori attenti almeno si accorgano che molte pagine in Registrazione di eventi sono forzatamente liricizzanti. Alcuni critici (o i pochi critici che si sono interessati) non ne hanno tenuto molto conto quando hanno espunto questa liricità “esibita” in contraddizione a certe forzature “avanguardistiche” di altre parti (…). Quel tanto di patetico che può appartenere al personaggio in Registrazione di eventi, più che dalla inquietudine per la situazione dei problemi culturali, nasce da un altro dei problemi che volevo esemplificare: da quella sorta di solitudine economica che a me pare più tipica, più scavata e dolente, più generalizzante, nella nostra società, di quanto sia la solitudine esistenziale (…). Come scrive Marx: tutto è oro».[47] C’è una precisa e netta distanza dai temi e dai proponimenti che erano proprî della neoavanguardia in quegli anni e che si delineavano fondamentalmente come letterari, anzi: solamente letterari se la preoccupazione era quella di fare un’arte da museo; è una distanza che d’altronde Roversi rivendica [48] e pratica senza infingimenti parlando di e descrivendo una realtà che non sta solo nelle parole che vengono pubblicate, ma che è rintracciabile – dolorosamente per chi intenda farlo sul serio – in ogni momento della propria vita. (segue)

1 R. Roversi, in M. Marchesini, Perdersi a Bologna. Guida insolita e sentimentale, Bologna, Edizioni interculturali, 2000, pp. 118-19. 2 Id., Guardare ascoltare. Mescolare tutto ma non in modo confuso, in Come si scrive un romanzo, a cura di M.T. Serafini, Milano, Bompiani, 1996, pp. 162-63. 3 Ivi, p. 162. 4 Id., in E. Vittorini, Notizia su Roberto Roversi, in «il menabò», I, 1960, 2, p. 101. 5 Id., Guardare ascoltare, cit., p. 166. Una piccola annotazione: in un libro uscito negli anno ’80, appare una poesia che chiude con la figura di Th. curiosamente al femminile; per questo si veda Id., Trentuno poesie dentro al cavallo di Ulisse, Ancona, Alberto Ribichini Editore, 1981, p. 15. 6 Cfr. Id., Conversazione in atto (a cura di Gianni D’Elia), «Lengua», 1990, 10, p. 23 (l’intervista a Roversi è stata ripresa parzialmente in Tre poesie e alcune prose, a cura di M. Giovenale, Roma, luca sossella editore, 2008, pp. 471-503; il passo citato è a p. 489). 7 Cfr. Id., Rime, Bologna Libreria Antiquaria Landi, 1943. 8 Id., Guardare ascoltare, cit., p. 166. 18


9 Id., Conversazione in atto, cit., p. 36. 10 Ivi, pp. 36-37. 11 Ivi, pp. 42-43. 12 Ivi, p. 28. 13 Ivi, pp. 26-27. 14 Ivi, p. 37. 15 Id., in M. Marchesini, op. cit., p. 118. 16 Ivi, pp. 120-21. 17 G. Zagarrio, Roberto Roversi, in Letteratura italiana, VI, I contemporanei, Milano, Marzorati, 1974, p. 1532. 18 Id., in M. Marchesini, op. cit., p. 121. 19 Id., in E. Vittorini, art. cit., p. 101. 20 Id., Conversazione in atto, cit., p. 49. 21 Ivi, p. 22. 22 Id., Poesie per l’amatore di stampe, Caltanisetta, Sciascia, 1954. 23 Alcune di queste figure torneranno nella già citata poesia pubblicata nel libro uscito per i tipi di Ribichini: Id., Trentuno poesie dentro al cavallo di Ulisse, cit., p. 15. 24 Id., in E. Vittorini, art. cit., p. 100. 25 Id., Conversazione in atto, cit., 10, p. 23. 26 Ibidem. 27 Nel gennaio 2007 la libreria ha definitivamente cessato l’attività, alienando il proprio fondo alla Coop. Adriatica. 28 L. Caruso e S.M. Martini, Roberto Roversi, Firenze, La Nuova Italia, 1978, p. 35. 29 Tra il ’53 e il ’54, per tramite di Giuseppe Guglielmi, Roversi incontra tra l’altro Luciano Anceschi per discutere la realizzazione di un’eventuale rivista. L’incontro, come si sa, non sortì alcun risultato. 30 «Anche in quei mesi ho imparato per me. Ho imparato dalle cose, dai discorsi, in mezzo a tante valenti persone. Ho imparato anche a stare alla larga da tante valenti persone»: R. Roversi, in L. Caruso e S.M. Martini, op. cit., p. 2. 31 Id., Conversazione in atto, cit., p. 39 (Tre poesie e alcune prose, cit., p. 492).

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32 Id., Lo scrittore in questa società, «Officina», n.s., 1959, 1, p. 18. Di ‘marxisants’ parlerà successivamente Pasolini, sul secondo e ultimo numero della nuova serie della rivista: cfr. P. P. Pasolini, «Officina», n.s., 1959, 2, pp. 69-73. 33 Id., Il linguaggio della destra, «Officina», n.s., 1959, 2, pp. 58-59. 34 Sulle modificazioni attuate nella ‘nuova serie’, e sul dibattito che l’aveva preceduta, si veda F. Leonetti, La struttura di una rivista (letteraria), «Officina», n.s., 1959, 1, pp. 13-16. 35 «Siccome Pasolini era molto bravo e il più noto, anzi, sulla via di diventare famoso, fu facile da tutte le parti stabilire che la fine di “Officina” fosse dipesa dall’epigramma sul papa… papa Pio dodicesimo… Ci fu maretta, certamente, intorno a quell’epigramma, ma niente di eccezionale, se non alcuni problemi privati dell’editore Bompiani (…). La verità più interna, molto meno interessante per il pubblico che neanche ci seguiva, era che redazionalmente ci eravamo squilibrati, nello stesso arco di tempo, con l’assunzione di Fortini, Romanò, Scalia. I quali, anche se collaboratori da sempre, e da sempre interlocutori molto attivi, tuttavia non avevano avuto la chiave in tasca della casa redazionale e consentivano a noi tre di chiudere le questioni, avendo una certa omogeneità caratteriale… e su alcuni principi di base. In questo secondo momento non fu più consentito alcun filtro, alcuna pausa riservata; il tam tam di Fortini, ad esempio, divoratore di tronchi redazionali come una termite africana, procurava perscrutando ogni dettaglio una perenne tensione. (…) Però, occorre pure dirlo, tutti i conti dentro di noi (…) non li avevamo fatti ben bene. Mi accorgevo, prima era un’impressione poi una convinzione, che si tendeva a richiederli ad altri (…). Avevo l’impressione che invece di addentrarci a ricercare dentro urgentissimi dubbi e zone tutt’ora d’ombra, fossimo promotori… o anche solo direttamente partecipi di una qualche assoluta chiarezza che ci disponevamo a distribuire»: R. Roversi, Conversazione in atto, cit., pp. 47-49. Va comunque precisato che, all’altezza del ’59, il giudizio di Roversi sul lavoro svolto da Officina è visto se non con totale soddisfazione almeno con un certo favore, il quale gli fa dire che «fu proprio la consapevolezza di dover rimeditare, con una cautela attenta e puntigliosa, e con una novità acre, se possibile, sui problemi storici e morali, a radunare l’esiguo gruppetto di “Officina” per un lavoro non so se più ingrato o faticoso, che s’è protratto per alcuni anni. Tutti eravamo sollecitati da questa esigenza di verifica che si produceva beninteso su fenomeni culturali e non politici (benché si intende, ciascuno di noi fosse vistosamente condizionato). Sospettosi, e infine disancorati dall’engagement generico e infruttuoso, ci si volgeva almeno con lucido presentimento a un’idea di letteratura più consapevole dei rapporti con la realtà e le sue strutture»: Id., Intervento in risposta a G. Sechi, Realtà e tradizione formale nella poesia del dopoguerra, «Nuova Corrente», 1959, 16, pp. 105-106. 36 Id., Intervento in risposta a G. Sechi, cit., pp. 103-104. 37 Ivi, p. 104. 38 Ivi, p. 106. 39 Id., in F. Camon, La moglie del tiranno, cit., p. 171 (Il mestiere di scrittore, cit., p. 166). Rendiconti, iniziata nel 1961, chiuderà col n. 30, nel 1977; verrà poi ripresa col n. 31 nel 1992 per essere definitivamente chiusa nel 2000. 40 Id., La settima zavorra, «Rendiconti», 1962, 4-6, p. 139. 41Ivi, p. 135. 42 Si possono notare, in un brano apparso su Nuovi Argomenti nel ’66, che anticipa l’inizio de I diecimila cavalli, alcune righe – mantenute poi nella edizione definitiva – che sembrano suonare, e lo rileva anche 20


Camon nel suo La moglie del tiranno, come risposta a quanto Fortini aveva scritto su Paragone: «Piscia sul lamento dei timidi questo suono di piffero e sul vento di vele in disarmo. La battaglia delle idee; la battaglia e le idee; niente battaglia e niente idee»: R. Roversi, La lucida organizzazione del presente (I), «Nuovi Argomenti», 1966, n.s. 1, pp. 179; poi I diecimila cavalli, Roma, 1976, p. 12. 43 Id., Risposta a 7 domande sulla poesia, «Nuovi argomenti», 1962, 55-56, pp. 77-78; ora in Tre poesie e alcune prose, cit., pp. 370-71. 44 Id., L’angoscia genera pidocchi, «Rinascita», 1967, 44, p. 13. 45 Id., Registrazione di eventi, Milano, Rizzoli, 1964. 46 Id., Conversazione in atto, cit., p. 40. 47 Id., in F. Camon, La moglie del tiranno, cit., pp. 175-77 (Il mestiere di scrittore, cit., pp. 171-75). 48 «L’avanguardia indiscutibile», per Roversi, non si è data un’estetica ma un’ideologia, mentre la neoavanguardia «rappresenta un momento di “frizione” culturale», il quale finisce sempre per esaurirsi «in una nuova proposta di rileggere i classici (e magari il modo); anzichè rappresentare un modo diverso di intendere il mondo (ovviamente: di rappresentarlo, discuterlo, disertarlo, ricomporlo)»: Id., Avanguardia e avanguardismo, Quaderni piacentini, III, 1964, 15, p. 34; ora in Tre poesie e alcune prose, cit., p. 386.

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L’arcipelago del corpo. Conversazione con Michela Marzano

di Alessandra Pigliaru

Il corpo è la scure: si abbatte sulla luce scostandola in silenzio [Antonella Anedda]

Michela Marzano è una giovane e brillante filosofa contemporanea che svolge attività di ricerca per il CNRS di Parigi. Insegna filosofia sociale ed etica e tra i suoi volumi, quasi tutti pubblicati in Francia, spicca una linea di ricerca originale e scientificamente rigorosa dettata da un lato dalla passione verso la filosofia che, come lei stessa afferma in una recente intervista, l’ha resa libera, e dall’altro dalla convinzione profonda che l’analisi e la decostruzione delle idee contemporanee siano un sintomo fondamentale per la nostra comprensione del mondo e del nostro stare-almondo. Uno stato quello della contemporaneità che ci riguarda tutti e che ci porta ad essere responsabili verso noi stessi e verso gli altri. Nel solco della tradizione fenomenologica entro cui individua sia il superamento del dualismo classico che la prima autentica apertura verso l’altro come soggetto, Michela Marzano comincia a dedicarsi alla scrittura filosofica percorrendo trasversalmente la storia delle idee. I suoi volumi più importanti sono legati alla tematica del corpo inteso come termine medio, liminare e stupefacente viatico dell’intersoggettività umana. Ecco, lo sguardo filosofico sul corpo non è solo un semplice ritratto delle nostre relazioni con l’Altro ma permette di guardare in controluce e in profondità al contempo ciò che di-noi e con-noi accade nel circostante. Uno dei nodi del pensiero filosofico che Marzano dipana con grande lucidità offrendo immagini del corpo nelle varie declinazioni possibili; quelle della nostra epoca per esempio, umiliata dall’eccesso del consumo e della tracotanza. Ma il corpo è anche un luogo, 22


anzi forse primariamente il luogo; quello dell’incontro con l’Altro da scoprire eticamente ogni volta e che tanto può dire della nostra stessa alterità. Questo corpo che dà luogo a indicibili modi di relazione, diventa un prezioso e insostituibile mezzo per conoscere e leggere la realtà.

A.P. Si è occupata per anni della tematica del corpo e del suo statuto. Una tematica spinosa e tuttavia fondamentale da un punto di vista filosofico. Perché ha sentito l’urgenza di trattare un argomento del genere?

M.M : Quando ho intrapreso gli studi di filosofia, avevo cominciato con un’idea abbastanza semplice e un po’ naif nel senso che l’idea era di poter dire qualcosa rispetto a quello che succede nella vita di tutti i giorni, nella società, quindi di poter intervenire nel dibattito pubblico con gli strumenti filosofici. Anche se ho avuto una formazione come storica della filosofia, in realtà non volevo occuparmi di storia della filosofia, e non volevo nemmeno occuparmi di filosofia analitica perché ad un certo punto nel mio percorso di dottorato l’avevo anche incontrata; mi sembrava che ci fosse una distanza troppo grande rispetto a queste ricerche filosofiche certo interessanti e la vita di tutti i giorni con i problemi che ognuno di noi incontra. Una delle finalità della filosofia in fondo è quella di poter dare a tutti degli strumenti critici per poter poi prendere delle decisioni che ci riguardano. In questo senso, il corpo rappresentava per me il punto di partenza, anche in maniera un po’ paradossale rispetto alla storia della filosofia. Spesso i filosofi hanno messo il corpo tra parentesi, a parte naturalmente la rivoluzione fenomenologica. Il corpo ha sempre rappresentato la parte più negativa dell’individuo; la parte più positiva è sempre stata la coscienza, l’anima. Mi sembrava interessante dunque da un lato interrogare la storia della filosofia rispetto al corpo e dall’altro lato che cosa la filosofia poteva dire rispetto ai problemi che noi oggi affrontiamo nella nostra corporeità; quindi il corpo rappresentava per me un punto di paragone e il segno della condizione umana nel senso che ognuno di noi è al mondo, e nel mondo incontra gli altri “nel” e “attraverso” il proprio corpo e quindi per poter avere un discorso filosofico riguardo la propria soggettività e l’intersoggettività, secondo me era importante ripartire proprio dal corpo e cercare di capirne da un lato lo statuto ontologico e morale e dall’altro i messaggi che invia in quanto limite ad una specie di ideologia dell’onnipotenza della volontà disincarnata. La sensazione che ho è che nella società contemporanea anche se si parla molto di corpo al punto che si potrebbe dire che c’è un vero culto del corpo però questo corpo di cui si parla tanto non corrisponde al corpo reale, concreto e limitato che ognuno di noi ha, ma corrisponde piuttosto ad un’immagine ideale del corpo verso la quale si dovrebbe tendere. Anche se si parla molto di corpo, la questione che si pone è: di quale corpo si parla? Non siamo ancora una volta di fronte ad una sorta di dualismo? Anche se questo dualismo non è più quello filosofico tradizionale tra l’anima e il corpo ma è una nuova forma che passa per un’opposizione e una contrapposizione tra la volontà e la materialità, come se ognuno di noi in quanto agente razionale potesse imporsi sulla materialità del proprio corpo e fare se come il corpo in quanto tale non esistesse.

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A.P.: Il Dictionnaire du corps [1], sotto la sua direzione, consta più di 300 voci e vede l’impegno di quasi 200 intellettuali. Un’opera in cui riecheggia il lavoro che porta avanti da parecchi anni. Penso alla prima voce, per esempio, che è Abject e che ha riguardato le splendide pagine del suo Philosophie du corps in cui si sofferma sui termini pur et impur. Abject che porta alla repulsione e al disprezzo appunto ma che è anche connotazione di impuro in relazione al corpo. Un corpo, una materialità votata alla morte e alla decomposizione e per questo quasi riprovevole. Cosa conta un’idea come questa nel rapportarsi al proprio corpo e a quello altrui? M.M.: Il discorso un po’ complicato legato al corpo è che effettivamente il corpo rinvia da un lato a qualcosa di impuro, nel senso che rinvia a tutto ciò che è corruzione rispetto ad una purezza disincarnata quindi rinvia effettivamente anche all’idea della morte e al tempo stesso a tutte le possibilità che ci si aprono davanti a partire dal momento in cui si assume la materialità del proprio corpo. L’aspetto di puro e impuro, sempre presente quando si parla del corpo e della vita umana in generale, è il segno di un’ambivalenza profonda che ci caratterizza tutti e che ci permette al tempo stesso di realizzare ciò che c’è di meglio (e di peggio). L’essere umano è capace di atti sublimi come di atti di barbarie atroci; c’è dunque un’ambivalenza, che è la stessa delle pulsioni, che si esprimono attraverso il corpo e che rimandano ognuno di noi a questa duplicità e ambivalenza della natura umana dalla quale non si riesce mai ad uscire. Ogni volta infatti che si è cercato di mettere tra parentesi uno dei due aspetti, (l’aspetto della purezza o l’aspetto dell’impuro), in qualche modo si è caduti in un empasse, cioè si è arrivati di fronte ad una difficoltà intrinseca che è quella di assumere la complessità della natura umana. Ognuno di noi è portato, attraverso il proprio corpo, a toccare gli aspetti più materiali della vita ma al contempo questi ultimi possono essere il punto di partenza per una trasformazione, cioè tutto il processo della sublimazione che passa attraverso le pulsioni e che può permettere la creazione a partire dal momento in cui si accettano i limiti della propria materialità. A.P.: Il binomio di puro e impuro non ha forse a che vedere anche con un giudizio morale? M.M.: Ci può essere un giudizio morale nel momento in cui si ha la tendenza a separare radicalmente il puro dall’impuro. Il giudizio morale viene meno quando si assumono i due termini della dicotomia, cioè a partire dal momento in cui non si separano le due dimensioni e si è coscienti che ognuno di noi è al tempo stesso puro e impuro proprio perché ognuno di noi si inscrive nella finitudine umana. Il problema comincia quando si crede che si possa separare la purezza dall’aspetto dell’impuro, quando si ricade in una forma di dualismo, come se si potesse immaginare l’esistenza di un essere disincarnato completamente puro spirito che non ha bisogno di passare attraverso la materialità del corpo per potersi inscrivere nel mondo e poter incontrare gli altri. Le altre persone si incontrano sempre attraverso il corpo come luogo di passaggio, non soltanto per ognuno di noi (perché noi passiamo attraverso la vita e possiamo attraverso la nostra azione 24


inscriverci nel mondo) ma anche come modo per mettersi in contatto con gli altri. La difficoltà sta nel vedere cosa si fa di questo corpo: è soltanto un mezzo attraverso cui gli altri possono toccare la nostra essenza o è in fondo un luogo di complessità i cui l’incontro con l’altro può essere sublimato? L’incontro con l’altro che passa per esempio attraverso la carezza, passa attraverso la nostra materialità ma al contempo non si riduce ad un puro contatto fisico. A.P.: C’è qualcosa di indicibile a proposito della carezza che non può essere ridotto a pura materialità. Questo è un discorso che lei, mi pare di ricordare, fa a proposito della pornografia, cioè nel momento in cui il corpo si rende strumento utilizzabile e non corpo-soggetto, non volto che racconta l’ineffabile, non persona che vive l’interezza dell’altro ma quasi un dispositivo di organi intercambiabili. Nel suo La pornographie ou l’épuisement du desir [2], tratta chiaramente della sessualità considerandola una modalità di rapporto con gli altri e con se stessi. “La sessualità è lo specchio stesso dell’umanità e delle sue contraddizioni” (p.41). Ma la sessualità non è solo accesso all’alterità e riscoperta di se stessi; riguarda anche scaturigini come l’abbandono, la solitudine e le dinamiche del desiderio. Ecco, lei scrive che la pornografia interviene quando la sessualità non esiste più nel suo significato o è addirittura impossibilitata ad esistere. “La pornografia destituisce l’umanità dai propri corpi” (p.43) E si capisce perfettamente il perché se si considera come il corpo non è più un corpo-soggetto ma un assemblaggio di pezzi, una serie di orifizi tutti indipendenti e endoscopicamente rilevanti dal punto di vista dell’economia del desiderio. Cita L’Histoire d’O ed è qui che parla di nuovo di impurità, nel senso che O s’abbandona ad accettare il proprio corpo come un “ricettacolo di impurità” e diventa cosa tra le cose. Lei crede che nel rendere il proprio corpo cosa da utilizzare o da essere utilizzata ci sia al fondo una certa idea di corpo disprezzabile, che non si ha coscienza di avere, oppure piuttosto c’è qualche cosa che si è persa a livello di percezione profonda di sé? M.M.: È una questione molto complicata perché ci sono dei momenti della vita in cui è quasi necessario passare per una riduzione a corpo-oggetto, nel senso che ognuno di noi attraversa dei momenti in cui non è altro che un corpo che altri possono utilizzare; c’è una forma di reificazione e di auto-reificazione attraverso cui è quasi necessario passare per poter poi prendere coscienza del fatto che si è qualcosa di più di un semplice corpo-oggetto. È difficile immaginare che ognuno di noi non sia altro che una persona capace di prendere le distanze dal proprio corpo. Tutta la difficoltà è che nell’avere e nell’essere il corpo ci sono differenti rapporti in gioco: c’è la coscienza del fatto che non si è unicamente un corpo-oggetto alla libera disposizione degli altri, c’è l’idea che ognuno di noi è più di un semplice corpo, ma al tempo stesso è anche vero che passando per alcune fasi in cui ci si riduce al proprio corpo si riesce a toccare il fondo della propria interiorità; si deve qualche volta passare per la strumentalizzazione per poter tornare di nuovo a scoprire la soggettività che ci abita. C’è un rapporto estremamente difficile tra reificazione e soggettività: la difficoltà nel cammino della vita è quella di esprimersi come soggetto delle proprie azioni, dei propri desideri, dei propri sentimenti, riconoscendo la necessità di essere in alcuni momenti oggetto dei desideri degli altri, oggetto delle azioni degli altri, oggetto dei sentimenti degli altri. La problematicità è quella di non perdere di vista il fatto che in ogni momento ognuno di noi è al tempo stesso soggetto e oggetto. C’è qualcosa in particolare nel desiderio sessuale che in fondo ci riduce ad essere oggetto del desiderio dell’altro; il punto è che dovremmo cercare di restare anche soggetti del nostro desiderio per fare sì che la relazione possa instaurarsi, per fare in modo che ci sia qualcosa che rilevi dell’intersoggettività che possa costruirsi e non unicamente un rapporto di utilizzazione. 25


A.P.: Un superamento di ciò che prevedeva Sartre… M.M.: Esattamente. Secondo me la posizione di Sartre rispetto al desiderio mette in scacco: il desiderio non può che fallire, perché a partire dal momento in cui si è oggetto del desiderio dell’altro, la soggettività non è più presente. Io credo che per fare in modo che il desiderio possa sopravvivere, bisogna poter continuare a desiderare l’altro e a essere desiderati; c’è una dimensione di attività e passività e i due elementi devono poter essere mantenuti in tensione; questo, secondo me, è possibile a partire dal momento in cui si cerca di considerare in maniera differente il desiderio dal semplice bisogno; il bisogno come una mancanza che si riempie e si può riempire con gli oggetti, come per esempio quando si ha fame o quando si ha sete e si mangia o si beve qualcosa per colmare il vuoto che si sente all’interno di sé. Quando si parla invece di desiderio, anche se c’è sempre questa dimensione di vuoto, non si può immaginare che l’Altro sia un oggetto da consumare, come dice tra gli altri Levinas, ma l’Altro esiste e si impone come presenza non-consumabile, come presenza che non può essere ridotta ad un semplice pezzo di pane. A.P.: Il totalmente-Altro per Levinas… M.M.: Certo, questa dimensione di totalmente-Altro, di alterità: qualcosa che resta, il resto che non può essere consumato perché è qualcosa che rinvia alla soggettività che non può essere ridotto ad un elemento della strumentalità dei semplici oggetti che si utilizzano. A.P.: È interessante il riferimento al desiderio perché mi dà l’opportunità di introdurre un tema come quello dell’anoressia a cui lei ha dato ampio spazio fin dalla sua tesi dottorale [3], scrivendo come sia un disturbo fortemente caratterizzato dalla contemporaneità. Nel Dictionnaire, è lei stessa a curare la voce Anorexie [4] insieme a Christiane Balasc-Variéras. Quale pensa sia il rapporto tra anoressia e desiderio e soprattutto che rapporto interviene con la rappresentazione di sé? Ho visto che ha curato, forse non a caso, anche la voce Miroir [5] e mi chiedevo in che termini potessero essere legati anoressia, desiderio e specchio. M.M.: La questione dell’anoressia è interessante per tutta una serie di motivi. Intanto perché rappresenta un sintomo di tutte le patologie del mondo contemporaneo nel senso che è come se il corpo stesso diventasse sintomo e indicasse un rapporto distorto, non solo con la propria immagine ma anche col proprio desiderio. Per questo c’è uno stretto legame tra la nozione di anoressia, la nozione di desiderio e la nozione di specchio. Nella società contemporanea, in cui la dimensione che domina è da un lato l’appetito e dall’altro del consumo e quindi del bisogno, tutto è lì per essere consumato, per essere divorato, per entrare nel circolo del consumo. Il problema è che il desiderio rompe questo circolo del consumo proprio perché c’è un resto che si continua a desiderare anche quando si ha un rapporto con l’Altro. Per cui il desiderio rinvia ad una mancanza ontologica che ci caratterizza tutti in quanto esseri umani e che al tempo stesso non può essere soddisfatta. È un vuoto che è lì e che deve restare perché è anche grazie a questo vuoto che si può continuare a desiderare e ad andare avanti con il progetto della propria vita. Le persone anoressiche sono per un verso nel controllo dell’immagine del proprio corpo e delle proprie sensazioni, dei propri bisogni, delle proprie pulsioni. In questa dimensione del controllo c’è il rifiuto di tutto ciò che proviene dall’esterno. Per un altro verso invece, le persone anoressiche hanno una paura profonda che il desiderio possa manifestarsi da un momento all’altro nella propria vita, per cui c’è un sentimento di autosufficienza: “Non ho bisogno di niente e di nessuno, nemmeno di mangiare”. Ecco, è in questo non-bisogno degli altri che c’è la volontà di controllare il proprio corpo in modo da evitare che il vuoto del desiderio possa manifestarsi a un certo momento, cioè quel vuoto che poi è il vuoto dell’Altro. Per questo mi sembra che sia un sintomo della società del consumo, perché nella società del consumo quello che si deve combattere è l’esistenza del vuoto, l’esistenza di qualcosa che manca e che 26


mancherà per sempre. In questa volontà di controllo del proprio corpo e della propria fame c’è in fondo un’impossibilità di poter accettare la dipendenza dall’Altro, ecco perché c’è una sorta di volontà di autarchia. In realtà il corpo ci rinvia alla dipendenza che ci lega agli altri, non solo intesi come nostri genitori per esempio, ma come esseri con cui si può costruire qualcosa. Nel rifiuto della dipendenza c’è il tentativo del controllo e in questo tentativo si impedisce al desiderio di poter emergere a tal punto che si arriva ad un’immagine deformata della propria soggettività che passa per un’immagine deformata del proprio corpo. Quando un’anoressica si guarda, non riesce a vedere un’immagine del proprio corpo ma è rinviata ad un involucro che non corrisponde alla realtà del proprio corpo e che è un involucro pieno mentre nella realtà il proprio corpo è un corpo vuoto. A.P.: Pensa che lo sguardo filosofico possa servire alla comprensione dell’anoressia? M.M.: Credo di si. L’altra caratteristica dell’anoressia infatti è quella che, in quanto sintomo, non è legata ad una patologia specifica. Le storie di anoressia sono tutte diverse, non esiste un percorso comune in cui si possa rintracciare, per esempio, il medesimo rapporto con la madre o con il padre. In questo senso l’anoressia è un sintomo che rinvia ad una serie di blocchi e di patologie ma che non sono unici, mentre, in quanto sintomo, può dire qualcosa della società in cui si è, può dire qualcosa a livello del senso, di quello a cui rinvia come mancanza di senso circa i rapporti che si instaurano tra le differenti persone nella società contemporanea; quindi penso che lo sguardo filosofico, che è un’analisi del desiderio e del bisogno, possa aiutare a mettere il problema dell’anoressia in una prospettiva non soltanto di patologia personale ma in quanto patologia di una società intera; da questo punto di vista lo sguardo del filosofo è molto diverso da quello dello psicanalista che si occupa di una singola storia specifica e non di quello che una storia specifica può indicare per una società intera. A.P.: Non si occupa dello sfondo... M.M.: Certo, cioè di quei meccanismi generali che possono spiegare una patologia personale come un sintomo di patologia sociale, di malessere sociale. A.P.: Si potrebbero fare molte considerazioni circa i rapporti che intercorrono tra il corposoggetto e il circostante. Molte considerazioni perché altrettante sono le declinazioni in cui prende forma la materialità e la percezione di questa materialità. Tuttavia c’è una particolare circostanza che è quella della morte dell’Altro che pone un corpo-soggetto dinanzi ad un corpo che non è più soggetto nella forma del cadavere. In che modo ci si relaziona al cadavere e in che modo quella carne interviene contro-di-noi o per-noi? Uno scandalo o un’ulteriorità? M.M.: Ci cono delle distinzioni. Il cadavere rinvia allo scandalo della morte e proprio per questo, per essere integrato e accettato nel pensiero e dal pensiero, c’è quasi la necessità di fare come se non fosse altro che un oggetto, per cui in quanto corpo-morto, cioè corpo non più abitato dalla vita, in qualche modo rimanda agli altri oggetti del mondo e al tempo stesso è simbolo di quello che ha significato prima di essere cadavere. Resta sempre lo scandalo della vita che non è più lì, lo scandalo del destino che ci aspetta tutti; ciò può provocare due tipi di reazioni: da un lato c’è il rigetto e dunque siamo davanti ad un corpo-morto che non ci dice più nulla della vita, dall’altro nonostante siamo consci che si tratti di un corpo-morto e che non ci possa più dire nulla sulla vita che è stata può dirci invece qualcosa sul senso della vita.

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A.P.: Il suo lavoro nel Dictionnaire è di tipo interdisciplinare. Le voci sconfinano in numerosi campi del sapere. M.M.: Nonostante il punto di partenza sia filosofico, l’idea era quella di rendersi conto dell’importanza oggi di poter far dialogare discipline differenti su uno stesso oggetto. Ci sono certe volte dei limiti disciplinari che fanno in modo che alcuni aspetti di uno stesso fenomeno non possano essere visti. Aprirsi alle altre discipline permette di cogliere degli aspetti che altrimenti resterebbero nell’ombra. Da questo punto di vista credo che l’interdisciplinarietà sia molto importante, ecco perché del comitato scientifico del Dictionnaire hanno fatto parte un sociologo, uno psicanalista, un medico, una giurista proprio per poter montare una struttura capace di permettere alle differenti discipline di dialogare tra di loro. Per quanto riguarda me poi e il lavoro di ricerca, sono molto sensibile agli aspetti letterari, nel senso che una riflessione filosofica è più ricca se cerca di comprendere il linguaggio degli artisti, che si tratti di cinema, di letteratura, di poesia, di teatro, di arti visive in generale. C’è una creazione che indica delle piste di riflessione per il filosofo; ecco, l’analisi del filosofo è più di tipo razionale ma se si prendono in considerazione le intuizioni degli artisti, c’è la possibilità di uno sviluppo del pensiero che va più lontano. I vari sguardi si arricchiscono vicendevolmente. A.P.: C’è una certa tendenza nella filosofia contemporanea rispetto alla quale lo sguardo filosofico risulta essere una lente privilegiata per la lettura dell’arte contemporanea per esempio. Le categorie che si utilizzano in questa lettura sono tutte squisitamente filosofiche facendo in modo forse che si crei un’asimmetria tra l’oggetto e/o l’evento artistico da un lato e l’interpretazione filosofica dall’altro. Nel volume Il corpo a più dimensioni, a cura di Fabio D’Andrea, lei, Prof.ssa Marzano, è intervenuta con un saggio riguardante Orlan [6], artista contemporanea piuttosto discussa. Orlan infrange lo statuto del corpo e cerca di mostrare il processo della trasformazione. Paradossalmente modifica il proprio corpo per mostrare l’anarchia (mi passi il termine) con cui la natura condiziona originariamente i corpi. Il suo tentativo dunque è quello di costruire una sorta di “corpo glorioso”, un corpo che dimostri la propria personalità squarciando evidentemente i confini ordinari. Ecco, cosa pensa della necessità di esibire questo processo di trasformazione? Cioè a dire, cosa secondo lei spinge alla condivisione con l’Altro-da-noi della propria identità personale? M.M.: Rispetto a Orlan c’è qualcosa di paradossale riguardo al processo. Da un lato c’è quasi un disprezzo del corpo come un oggetto che si può trasformare a proprio piacimento a partire dall’idea che si ha di un sé al proprio interno; quindi un supporto non solo dell’opera d’arte ma identitario: io trasformo il mio corpo per fare emergere all’esterno di me quella che è l’identità che ho all’interno. Al tempo stesso però, se non ci fosse il corpo ci sarebbe l’impossibilità da parte dell’artista di mostrare agli altri ciò che tiene all’interno. Per cui c’è un doppio rapporto col corpo: il corpo come qualcosa di inutile e al contempo come qualcosa di fondamentale per poter mostrarsi internamente dopo la trasformazione corporea. Poi, effettivamente c’è il paradosso di mostrare questo processo nel senso che per Orlan c’è un’ambiguità costante nel momento in cui si cerca di definire quello che per lei è l’opera d’arte: cioè non si riesce mai a capire se l’opera d’arte è il risultato della trasformazione o se l’opera d’arte è la trasformazione stessa. Da una parte dunque c’è il corpo che viene trasformato attraverso le operazioni chirurgiche per essere trasformato e dall’altra il risultato di tali trasformazioni. Nel lavoro di Orlan ci sono innumerevoli tensioni che rendono interessante la sua operazione artistica. 28


A.P.: Le performance di Orlan sono a tratti imbarazzanti e stucchevoli come per esempio Il Bacio dell’Artista (quella dei 5 franchi infilati nel busto finto creato ad hoc dalla perfomer), mi fa pensare ad un estremo tentativo di affermazione di se stessi non come semplici attori e plasmatori ma come crocevia essenziale delle cose del mondo. Come se l’art charnel di Orlan non tenesse conto della carne altrui ma solo della propria e la utilizzasse come unico metro per misurare il circostante. L’arte carnale di Orlan non le sembra un tentativo estremo di affermazione di sé come insostituibile crocevia delle cose del mondo? M.M.: Verissimo quello che dice perché nell’arte carnale tutto passa attraverso il proprio corpo e in fondo il corpo dell’altro e l’Altro in quanto tale viene messo tra parentesi. D'altronde la sistematica volontà è quella di scioccare l’Altro e di provocarne una reazione avendo quasi un disprezzo dell’Altro. Attraverso la trasformazione del proprio corpo è come se Orlan volesse mettersi in scena dicendo: - L’unica cosa che conta sono io, un io profondo che scrivo all’esterno attraverso la trasformazione del mio stesso corpo e poco importa quello che gli altri possono provare e poco importa la reazione che questo processo può avere sugli altri perché l’unica cosa che conta sono io nel mio corpo trasformato. A.P.: Il tentativo di Orlan è quello di rinnegare anarchicamente il principio della propria costituzione. Utilizzo il termine anarchia in senso etimologico… M.M.: Si, c’è l’idea di essere il prodotto di se stessi, un’auto-produzione indipendentemente anche dalla propria storia, quindi c’è un rifiuto dell’origine ma anche un rifiuto delle proprie radici sia materiali che storiche; come se l’esistenza potesse essere un piccolo punto che si inscrive indipendentemente da tutto quello che è stato prima e che potrà essere dopo. Orlan resta intrappolata in un nuovo dualismo ontologico. Cioè a dire che non tiene conto di come siamo immersi nel corpo e che soprattutto il nostro è un corpo-soggetto. Bensì Orlan tenta di ridurre il corpo a mero strumento, considerandolo inadeguata superficie di una violenza originaria. In questo senso le operazioni artistiche non consentono di costruire un’identità extra-ordinaria che vada contro ogni modello esistente ma rispondono esattamente al desiderio della stessa artista che progetta e costruisce scientemente ogni risultato. Allora il volto non sarà più il luogo dell’incontro con l’Altro ma uno slittamento continuo nell’inseguimento di qualcuno che ha perso i confini percepibili della propria persona. Qualcuno che si neutralizza, potremmo azzardare, nel tentativo di rendersi immortale presenza. Ma se è vero che l’identità per essere considerata tale da Orlan ha poi necessità di un riconoscimento esterno da parte di chi guarda, allora il suo processo artistico non solo è transitorio ma rischia di diventare effimero tentativo di permanere nell’impossibilità di farlo concretamente. Forse si devono togliere fuori le viscere e tenerle in mano per capacitarsi di esistere? O forse è solo un urlo di dolore per l’affermazione della propria inadeguatezza. A.P.: Su cosa vertono i suoi ultimi lavori? M.M.: I miei lavori sono sempre di filosofia morale e di etica contemporanea. Mi sto tuttavia spostando verso una dimensione più marcatamente politica. Il primo dei due libri pubblicati da poco è Extension du domaine de la manipulation. De l'entreprise à la vie privée [7] in cui mi occupo del linguaggio e della manipolazione che passa attraverso il nuovo linguaggio codificato dalle pratiche di management. L’idea era quella di dimostrare come progressivamente il linguaggio del management ha invaso la vita privata e come in 29


fondo si presenta in modo da fare credere che tutto possa essere controllato attraverso una serie di ricette oltre che avvalorare l’ipotesi secondo la quale finalità della vita dovrebbe essere la performance, cioè essere superiori agli altri. Il linguaggio del management mette tra parentesi tutto ciò che riguarda le difficoltà della vita, la solitudine della condizione umana e poi le differenze specifiche ponendo in rilievo l’uniformità. Il volume uscito la settimana scorsa è invece [8] un lavoro sulla paura come sentimento strumentalizzato da un punto di vista politico. A.P.: C’è una continuità con i suoi lavori precedenti… M.M.: Da un lato c’è sempre questa idea della decostruzione del discorso o dell’immagine contemporanea che cercano di codificare sistematicamente il comportamento e le attitudini. Affronto la paura anche sotto l’aspetto delle emozioni cercando di decostruire la strumentalizzazione della paura. Senza volerlo il tema della paura è di grande attualità: con il problema della crisi c’è molta paura che viene strumentalizzata trasformandosi in una volontà di controllare tutto ciò che è estraneo, tutto ciò che è diverso o che sembra diverso, cioè tutto ciò che sembra andare oltre la possibilità di essere controllato. In realtà ciò che non si vuole accettare è che c’è sempre qualcosa che sfugge al controllo. Credo che nel momento si dovesse accettare la dimensione di impossibilità di controllare tutto si potrebbe aprire un nuovo e rinnovato rapporto con l’Altro, forse più autentico. Il pericolo odierno è invece quello di ricadere in una nuova forma di dittatura A.P.: Una dittatura del controllo pervertita in certo qual modo, una nuova forma di repressione… M.M.: Si, è una sorta di piovra a cui bisognerebbe prestare molta attenzione. La paura in questo senso gioca un ruolo fondamentale. Si rischia di tornare ad una nuova forma di fascismo. *** NOTE [1] Michela Marzano (a cura di), Dictionnaire du corps, Puf, Paris 2007. [2] Michela Marzano, La pornographie ou l’épuisement du desir, Hachette, Paris 2003. [3] Che, revisionata, ha dato alle stampe con il titolo di Norme e natura: una genealogia del corpo umano, Vivarium, Napoli 2001, cfr. pp. 97-111. [4] Michela Marzano, Dictionnaire du corps, op. cit., cfr. pp. 66-71. [5] Cfr. Ibidem, pp. 590-593. [6] Michela Marzano, Se questo è un corpo. Orlan e l’art charnel, in AA. VV., Il corpo a più dimensioni, a cura di Fabio D’Andrea, Franco Angeli, Milano 2005; cfr. pp. 263-274. [7] Michela Marzano, Extension du domaine de la manipulation. De l'entreprise à la vie privée, Grasset, Paris 2009. [8] Michela Marzano, Visages de la peur, Puf, Paris 2009. In questo originale volume, Michela Marzano ripercorre i vari volti della paura, emozione pervasiva e radicata nella società contemporanea. Lo fa in relazione al potere spiegando come quest’ultimo se ne sia sempre servito. In questo senso, Marzano 30


tratta della paura del cambiamento, della paura dell’Altro come diverso, straniero, immigrato e in qualche modo di quella paura come emozione e condizione umana (legata al senso dell’ignoto) che tanto sembra vincere e soffocarci se legata alla strumentalizzazione e al controllo perpetrato dal potere (soprattutto politico). L’analisi procede verso la riscoperta della fiducia che assunta come virtù individuale potrebbe da un lato ricondurci verso gli altri e dall’altro verso la nostra stessa alterità, facendoci pace in un certo senso. *** BIBLIOGRAFIA DELLE OPERE DI MICHELA MARZANO - Norme e natura: una genealogia del corpo umano, Vivarium 2001 - Penser le corps, Puf 2002 - La pornographie ou l’épuisement du desir, Buchet Chastel 2003 [2a ed. Hachette 2007] - Straniero nel corpo, Giuffrè 2004. - G. E. Moore's Ethics: Good as Intrinsic Value, Edwin Mellen Press 2004 - Michela Marzano - Ovidie, Films X: y joeurou y être Autrement 2005 - Michela Marzano - Claude Rozier, Alice au pais du porno, Ramsay 2005 - La fidélité ou l’amour à vif, Buchet Chastel 2005 [2a ed. Hachette 2007] - Se questo è un corpo. Orlan e l’art charnel, in AA. VV., Il corpo a più dimensioni, a cura di Fabio D’Andrea, Franco Angeli, Milano 2005; pp. 263-274. - Malaise dans la sexualité. Le piege de la pornographie, Lattes 2006 - Je consens, donc je suis, Puf 2006 - Michela Marzano - Sylvie Huet, Nains et alors ? Buchet Chastel 2007 - La mort spectacle. Enquête sur l’«horreur-réalité», Gallimard 2007 - Philosophie du corps, Puf 2007 - Dictionnaire du corps, Puf 2007 - L'éthique appliquée, Puf 2008 - Extension du domaine de la manipulation. De l'entreprise à la vie privée, Grasset Et Fasquelle 2008 - Visages de la peur, Puf 2009

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(foto di Paola Pluchino)

PIANEROTTOLI

Anna Maria Bonfiglio - Il principe di Palagonia Maria Gisella Catuogno - Zulimo Rossellini e Ugo Foscolo RANDOM (rubrica a cura di Morena Fanti) Il Canto di Chiara, di Paolo Perlini Freakshow, di Giovanni Di Iacovo La pietĂ , di Sergio Sozi

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IL PRINCIPE DI PALAGONIA: STORIA E LEGGENDA DI UN NOBILE SICILIANO di Anna Maria Bonfiglio Uno degli edifici del Settecento siciliano fra i più conosciuti al mondo, anche grazie ai resoconti che ne fecero i viaggiatori del XVIII secolo, è senza dubbio la Villa Palagonia, situata nel cuore della vecchia Bagheria, l’araba Bab-el-gherib ossia “porta del vento”, che si trova a pochi chilometri da Palermo. La costruzione è conosciuta come “Villa dei mostri”, per le strane figure in tufo che si ergono sulla sua cinta muraria, ed è stata nel tempo oggetto di studio per architetti, storici, pittori e scrittori. Se ne sono occupati persino gli psichiatri, nell’intento di stabilire quali potessero essere stati i motivi che avevano scatenato nel suo committente il desiderio di sovvertire i canoni estetici tradizionali per dare vita ad una struttura di stupefacente eccentricità. L’esterno della villa, sovrastato da un arco nelle cui facciate si ergono due guerrieri in costume spagnolo, è di aspetto convesso e nella cavità si inserisce un’imponente scala a doppia rampa che conduce al piano nobile. Per avere un’idea di ciò che era la villa (e parliamo al passato perché purtroppo dell’antica costruzione non rimane molto) dobbiamo dire innanzi tutto che in essa nulla era consueto e che le regole del classicismo erano state completamente rivoluzionate dall’inquieto gusto personale del principe. Le statue dell’esterno, in origine duecento e oggi solo sessantadue, avevano le forme più bizzarre: figure deformi, nani, musici, cavalli con teste umane e corpi umani con teste di cavallo; animali sdoppiati, donne con zampe, scimmie dal volto umano, draghi, centauri, personaggi della mitologia innestati a personaggi storici. L’interno era stato decorato quasi esclusivamente con specchi, cornici, pezzetti di vetro, frammenti di cristallo; arredato con sedie zoppe sotto i cui rivestimenti si nascondevano spuntoni, con candelabri costituiti da cocci incollati e con sculture stravaganti a rappresentare la vita e la morte. Nel suo “Viaggio in Sicilia e a Malta” lo scienziato scozzese Patrick Brydone così si espresse a proposito di Villa Palagonia: ''Il Palazzo di Palagonia per la sua bizzarria non ha uguale sulla faccia della terra... il Principe di Palagonia ha dedicato la sua vita intera allo studio delle chimere e di mostri e se ne è fatti fare tanti che più ridicoli e più strani neppure la fantasia dei più arditi scrittori di 33


romanzi e storie di cavalieri erranti avrebbero saputo creare (...) pare di essere capitato nel paese dell'illusione e dell'incantesimo.(…) La camera da letto e lo spogliatoio sembravano due scomparti dell'arca di Noè. Bestie che compaiono li dentro: rospi, ranocchi, serpenti, lucertole, scorpioni tutti scolpiti in marmo di colore adatto. Ci sono anche molti busti altrettanto stravaganti. In alcuni si vede da una parte un bellissimo profilo, girato dall'altra si presenta uno scheletro, oppure una balia con un bambino in braccio col corpo di un infante, ma la faccia è quella grinzosa di una vecchia di 90 anni”. In alcune annotazioni riguardanti la villa, alla visita della quale dedicò un’intera giornata, Goethe aveva scritto che in quegli interni “erano state accuratamente evitate le linee verticali e orizzontali, così che ciò che stava in piedi sembrasse precipitare”. Lo scrittore tedesco prese nota di tutto quanto lo circondava, elencò e classificò tutte le strane figure in forma di statue che alloggiavano nella villa, restando soggiogato da quell’assurdo mondo di mostri in pietra nei quali sembrava racchiudersi la fantasmagorica immagine della terra che li ospitava. Non era forse la Sicilia stessa terra di maghi, di fantasmi, di alchimisti? E non aveva dato i natali a quel conte di Cagliostro famoso in tutta l’Europa per le sue arti esoteriche? Anche il pittore Jean Houel fu attratto dalla “villa dei mostri ” e la descrisse come l’abitazione di un negromante piuttosto che come la dimora di un principe. Ogni teoria, ogni ricostruzione storica, ogni interpretazione hanno finito per creare attorno al principe Ferdinando Francesco Gravina di Palagonia, proprietario e artefice di quell’originale edificio, un’aura di leggenda. A questo punto sorge la curiosità per chi di tutte quelle stranezze fu il fantasioso ideatore. Chi era dunque questo personaggio che nella realizzazione della sua dimora esercitò tutta la fantasia di cui possono essere capaci un uomo e un poeta insieme, che espresse la sua genialità senza essere un artista, che fu autore e attore di un’esperienza che ebbe grande risonanza e che alimentò l’estro di molti “romantici”? Ferdinando Francesco Gravina nacque a Palermo il 25 novembre del 1722, dall’unione di Ignazio Sebastiano Gravina e Lucchese e di Donna Margherita Alliata. Dal nonno paterno, Ferdinando Francesco I, pretore di Palermo e presidente del Supremo Consiglio di Sicilia, ereditò assieme al nome la villa che egli aveva iniziato a far edificare intorno al 1715 su progetto del frate domenicano Tommaso Maria Napoli. Il disegno iniziale del vecchio principe era quello di far costruire una dimora nel verde degli agrumeti dell’antica Baharìa, luogo deputato alla villeggiatura dell’aristocrazia palermitana. Dopo averla ereditata, il nipote le diede quell’impronta particolare che l’avrebbe resa famosa nel tempo. Classificato sommariamente come “un estroso ricco in vena di stravaganze”, nel principe Gravina agirono probabilmente i segni di una genialità malata, ma al contempo destinata a lasciare un’orma. Nell’ossessiva determinazione a volersi circondare di cose inusitate, nella capricciosa attrazione per l’orrido, forse si celava una complessa personalità che assommava in sé forme di manie diverse. Il principe di Palagonia avrebbe potuto essere uno di quegli individui dotati di una fantasia talmente sfrenata da non riuscire più a distinguere il reale dall’immaginario, ma pariteticamente in lui potrebbe avere agito la volontà di lasciare qualcosa di sé che durasse, che oltrepassasse la misura del suo tempo terreno. In quello che in seguito Baudelaire avrebbe definito “il piacere aristocratico di non piacere” poteva essere contenuto il seme del desiderio di essere ricordato attraverso i secoli. 34


Ma siamo pur sempre nel campo delle ipotesi. All’inizio del XX secolo due psichiatri tedeschi, Fisher e Weygandt, si interessarono della Villa del Principe di Palagonia e, mettendo in relazione l’uomo alle immagini da lui create, individuarono una connessione fra l’espressione artistica e il carattere patologico della stessa. Dovremmo dedurne che il Principe fosse un folle e che l’opera realizzata fosse il risultato di una personalità psicologicamente disturbata? O non piuttosto che egli volesse rendere l’immagine di un rovesciamento delle apparenze? Nel salone d’entrata della Villa si trova una scritta che recita: “Spècchiati in quei cristalli e nell’istessa magnificenza singolar contempla di fralezza mortal l’immago espressa”. La figura di Ferdinando Francesco Gravina sconfina nella leggenda. Lo scrittore tedesco Achim von Arnim nel suo romanzo “Povertà, ricchezza, colpa ed espiazione della Contessa Dolores” non solo fa riferimento a Villa Palagonia ma dà fantastiche spiegazioni sull’ascendenza del Principe, riallacciando le sue origini a quelle di una nobile stirpe germanica il cui progenitore aveva avuto un incredibile rapporto con una sirena. Il Principe di Palagonia assurge, quindi, al ruolo di personaggio-simbolo e l’immobilità angosciosa dei suoi mostri diventerà lo stemma della sua inesplicabile personalità.

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Zulimo Rossellini e Ugo Foscolo di Maria Gisella Catuogno […] ed ora sull’altare di S. Giuseppe i cavesi hanno voluto far innalzare una loro statua bella, quale non hanno mai visto così bella: la statua della madonna cara ai marinai. Autore della mirabile opera è un artista che dimora al Cavo [Isola d’Elba] da tanti anni e che non può restare a lungo lontano dal mare che lo ha consolato e animato nelle vicende e nei ricordi spesso amari della sua nobilissima vita. E’ lo scultore Zulimo Rossellini fiorentino. Egli era ancora quasi adolescente quando il suo nome corse per gli ambienti artistici come il nome di un vincitore. Ma quel sorriso di buona fortuna mutò presto ; ed egli patì ingiustizia: uno dei patimenti più gravi quando colpisce l’artista nella sostanza della sua arte. E venne lo scultore fiorentino a cercare fra gli scogli dell’ arcipelago toscano la sua pace: prima a Capraia, poi al Cavo, dove rimase a condurre una vita onesta e bonaria, ora schiva e taciturna, ora abbandonata e festosa nella sua interezza nota solo a quei pochissimi che possono goderne la confidente amicizia. Ed ha un suo intimo, quasi geloso amore dell’arte, che per lui è compostezza e armonia e unità e semplicità, senza i torbidi, inquieti, insinceri attorcimenti dei ricercatori metodici di novità. Rossellini ha modellato la Madonna per la Chiesa del Cavo. Quella sua istintiva ricerca di decoro e di eleganza, quella fuga dalla vacuità degli enigmi ornamentali, quel suo gusto di modellatura limpida e chiara, quel suo tono quasi melodico dei lineamenti e degli atteggiamenti appariscono in questo ultimo lavoro come in una felicissima ripresa e progressione della sua operosità artistica. La Madonna è ritta in piedi, con il capo velato, ed un manto liscio che l’ avvolge tutta lasciando scoperta la veste davanti, che scende a pieghe ripide ed uguali come in certe statue arcaiche. E’ una immobilità quasi trepida, piena della vita inconoscibile e profonda che spira da un divino mistero, nella purissima giovinezza di quel volto dove l’amore e la pietà, senza le consuete leziosaggini, si compongono in una indissolubile forza di celeste potere. C’è in quella statua qualche cosa che ci prende a poco a poco e ci commuove per quell’ alito di beatitudine dolorosa e maestosa ch’ è proprio della santità cristiana. Così Zulimo Rossellini ha portato dinanzi all’altare la sua arte ignara di mercimoni e di servitù e fra le tante impurità del secolo, per la piccola chiesa avanti al mare, ha plasmato con l’anima assorta e con le mani esperte la immagine sacra: Mater Purissima. Queste parole di Concetto Marchesi, che apparvero sull’Osservatore romano del 20 settembre 1942, in un articolo intitolato La Madonna del Cavo, ricostruivano il doloroso destino artistico e umano di un valentissimo scultore fiorentino, Zulimo Rossellini, che fu abituale frequentatore, dagli anni ’30 fino al 1943, dell’Isola d’Elba, per lui un luogo dell’anima, che leniva, con la dolcezza del clima, dei paesaggi marini e collinari e con la schietta ospitalità dei suoi abitanti, le sofferenze di un uomo sensibile e raffinato, umiliato dalla prepotenza del potere e della storia. Le vicissitudini di questo artista fiorentino sono state ricostruite da Alessandra Povia e Massimiliano G. Rosito in un saggio dal titolo Ugo Foscolo da Firenze a Pavia cui segue il sottotitolo Settanta anni di strane 36


peripezie per un monumento eccezionale ma sconosciuto, edito nel 1998 da Città di Vita, Firenze. Dunque, Zulimo Rossellini, ancora poco conosciuto nell’ambiente artistico fiorentino, per la giovane età, risultò vincitore per decisione unanime della giuria, nell’ottobre 1910, a soli 24 anni, del concorso bandito a Firenze per erigere un monumento funebre al poeta Ugo Foscolo, le cui spoglie erano state trasferite nel 1870 da Londra in Santa Croce, accanto a quelle urne de’ forti che egli aveva celebrato nei Sepolcri. Nella relazione che motivava la scelta si esaltava l’opera del giovane scultore che rivelando una commossa e vigile fantasia di poeta mostra saper trattenerla con stile nell’arte. In effetti, il monumento di Rossellini incanta per la sua bellezza, proponendosi come mirabile sintesi del mondo lirico e della tempra morale dell’uomo cui è dedicato. Un blocco bianco di Carrara lungo due metri e mezzo e alto uno e sessanta è diventato un mirabile sarcofago, in cui il corpo disteso del poeta appare avvolto nel sudario che forma morbide pieghe, mentre il volto esprime serenità e compostezza, nell’avvenuto superamento, in virtù della morte-porto di quiete, di quelle cure che al viver suo furon tempesta. Lungo i lati del poderoso monumento, figure mitologiche come le Muse e le Grazie compongono il corteo funebre che accompagna all’Eliso il poeta, in una perfetta e commovente rappresentazione dei più autentici valori foscoliani, di quelle illusioni che, da sole, rendono la vita degna d’essere vissuta. E poi, ancora: giovinette, cerbiatti, serti di rose e libagioni, sullo sfondo di quei cipressi ed olivi, alberi tipici del dolcissimo paesaggio toscano, che egli così magistralmente cantò nel poemetto Le Grazie. Ebbene, quest’opera, per innumerevoli peripezie terminata soltanto nel 1927, in pieno regime, non entrò mai in Santa Croce: il suo autore non aveva la tessera fascista e non era persona da scendere a compromessi con la propria coscienza. Inoltre, il carattere neoclassico del monumento, la sua celebrazione della bellezza e dell’armonia come valori assoluti, non potevano soddisfare il gusto per la retorica militarista proprio del tempo. Alla scultura di Rossellini si preferì quella di Antonio Berti, l’artista del duce, che rappresentava un Foscolo guerriero e imbronciato. E così l’ormai inutile e ingombrante monumento, inconsapevole fonte, possiamo ipotizzare, di rammarico e amarezza per la fatica vanamente profusa, fu da Zulimo donato a un amico fiorentino e dimenticato per decenni in un garage, mentre il suo autore cercava pace e conforto nella quiete delle isole toscane: prima a Capraia, poi all’Elba, nel paesino di Cavo, dove, scrive Concetto Marchesi, rimase a condurre una vita onesta e bonaria, ora schiva ora taciturna, ora abbandonata e festosa, nella sua interezza nota solo a quei pochissimi che possono goderne la confidente amicizia. Ed ha un suo intimo e quasi geloso amore dell’arte, che per lui è compostezza e armonia e unità e semplicità, senza i torbidi, inquieti, insinceri attorcimenti dei ricercatori metodici di novità. Fu qui che egli abbellì la chiesa parrocchiale con la scultura della Madonna dei marinai Rossellini morì nel 1965, senza che la sua opera più importante avesse trovato una più degna destinazione. Franco Fortini, il noto intellettuale scomparso nel 1994, che era fiorentino d’origine, anche se da anni risiedeva a Milano, così si esprimeva in una pagina de La Repubblica del 25 novembre di quattro anni prima, a proposito del sarcofago foscoliano e del suo proprietario: Quando ho saputo che questa persona voleva disfarsene non ho avuto dubbi sul fatto che quel Foscolo dimenticato dovesse finire a Pavia e raccontava anche di aver assistito alla collocazione dell’opera del Berti: Era il 1934 e io piccolo avanguardista ero presente all’inaugurazione dell’altro monumento a Foscolo in Santa Croce. Insieme a tanti ragazzini ero pronto a presentare le armi al momento dell’elevazione nella messa che accompagnò la cerimonia. 37


Dunque, grazie all’intuizione del Fortini, l’opera, ripudiata da Firenze, ha concluso la sua odissea trovando finalmente un onorevole approdo nel Cortile delle Magnolie dell’università pavese, dove è stata posta con tutti gli onori il 26 novembre 1994, alla presenza del nipote di Rossellini, Paolo, il quale ha firmato una sorta di liberatoria nei confronti del monumento, che risulta così a tutti gli effetti donato all’Ateneo. Nello studio pavese, il giovane Foscolo aveva ottenuto nel 1809 la cattedra d’Eloquenza e, anche se era riuscito a tenervi soltanto cinque lezioni, la permanenza in città era durata mesi: il poeta aveva preso casa nell’antico borgo Oleario (oggi via Foscolo) e aveva scritto lettere agli amici per invitarli a raggiungerlo. Sicuramente Zulimo sarebbe fiero di una simile collocazione: lo Studio pavese, voluto da Galeazzo Visconti nel XIV secolo, modificato e ingrandito successivamente da Teresa d’Austria, è scrigno di memorie foscoliane, topos non solo geografico caro al poeta, prestigioso luogo di formazione e di cultura, e quindi degna cornice di un’opera tutta tesa a esaltare le illusioni e i miti di uno dei più grandi e sensibili protagonisti della nostra storia letteraria.

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RANDOM Musica, freak e pietas di Morena Fanti Sembra essere l’amore, presente o meno, il filo conduttore di questi racconti. L’amore e una sua visione allucinata e sognante. Un amore che non si è mai detto in Il canto di Chiara, il racconto musicalpoetico di Paolo Perlini. Protagonista è un amore che non si racconta, se non attraverso i gesti trattenuti e la musica. Michele accompagnava al piano Chiara, nei pomeriggi dei venerdì d’intimità e musica. "Devi relativizzare" diceva Chiara e lui forse non ha mai capito cosa significasse quella frase. E poi: "Rischio di farti del male" e "Mi sto attaccando troppo a te, non va bene". Quando Chiara sparisce e si mette a viaggiare per l’Europa, Michele non smette di pensare a lei e la cerca in ogni gesto e suono, e anche per le strade in occasione di un suo viaggio. Ma è solo quando rivede Luca, il fratello di Chiara, e lo riaccompagna a casa che capisce davvero il significato di certe frasi e il male che l’amore può fare. L’amore o il sognarlo allontanandosi dalla realtà. In questo racconto la scrittura di Perlini è molto musicale e segue un ritmo malinconico e tranquillo con punte di vera poesia: "Sulle note scendeva e risaliva come un aquilone, saltava, ci girava intorno, le accarezzava, era talmente intonata da glissare abilmente sull’intonazione. Inventava un ritmo che la musica in sé non possedeva, si arrugginiva al momento giusto, volava in un acuto quando meno te l’aspettavi e ci aggiungeva dei sospiri che facevano corrugare la fronte di mio padre". Di ben altro timbro sembra essere l’amore (assente) - ma sapere di un’assenza non è già presenza? - di Grigorij in Freakshow, il racconto di Giovanni Di Iacovo. Mentre Grigorij conclude un suo ciclo di vita e ‘immaginazione’, vede nei gesti degli altri i desideri mancati, i sogni di potenza e di normalità che albergano nella mente delle persone. La visione onirica/reale e il rincorrersi dei personaggi e dei ruoli, creano uno spettacolo in cui diventa difficile riconoscere i veri "mostri". Chi sono le persone che Grigorij vede mentre scende da quella terrazza sul tetto, da cui la vista si perde e si scinde nei pensieri di una vita? Dov’è il confine tra "normalità" e "diversità"? Chi sono gli eroi in un mondo in cui Giuljetta ventenne con il "corpicino che di anni ne dimostra a volte quindici a volte quaranta" -, sogna una coppa di gelato in cui affondare il cucchiaio per ritrovare il sorriso che aveva da bambina, ora che ha poche occasioni di sorridere perché si occupa di seguire/esaudire i desideri del colonnello Gunvaldis? Una scrittura molto interessante e un ritmo originale caratterizzano lo stile di Giovanni Di Iacovo in questo visionario racconto. Uno sguardo amoroso e interiorizzato è anche quello di Alice, la voce narrante del racconto di Sergio Sozi, La pietà. Alice sente la voce del padre Augusto, la ripensa leggendo una sua lettera e, seguendo il filo delle parole paterne, ci mostra la sua vita e il suo amore per Giulio, un poeta descritto come docile e tenero con queste poche ma efficaci parole: " Papà inoltre desiderava ricordarmi che la evidente docilità del mio Giulio (anche questo sapeva!) era data dalla sua innata tenerezza, sì, ma innanzitutto che qualsiasi tenerezza può ben trasformarsi in duttilità e facile accomodamento, un passo oltre il quale c'è l'ipocrisia di chi ''appende il cappello'' perché stanco di andare in giro a raccattare anime sensibili molto facili a storie da letto". Il padre si preoccupa per Alice e Alice si preoccupa delle sue parole perché Augusto è sempre suo padre anche quando lei non ne condivide le idee: " non gli diedi retta – anche se peso sì, l'avrete capito, poiché era mio padre, 39


non un pincopallino che scrive cazzate sui libri", dimostrando attenzione verso la figura paterna. E cos’è l’attenzione se non amore? La scrittura di Sozi non è mai banale, lo stile non è mai povero e anche in questo racconto riesce a mostrarci le cose importanti su cui fissare lo sguardo. Tre racconti molto diversi, tre storie avvincenti. Chi ama davvero la scrittura sa come vanno trattate le parole, dedica loro molta attenzione, come hanno fatto Di Iacovo, Perlini e Sozi.

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Il Canto di Chiara di Paolo Perlini A scuola ci credevano fratelli e qualche insegnante confondeva i nostri nomi. Perché io e Luca avevamo la stessa pettinatura trasandata e anche lo stesso giubbotto a quadri. Se questo non bastasse, su come girava il mondo le nostre opinioni erano convergenti: rotolava male. Eravamo simili ma Luca aveva due cose in più di me: un sassofono e una sorella maggiore. A me interessava soprattutto il primo, a quei tempi non era da tutti suonare il sax. Suonatori di chitarre e bassi elettrici li trovavi dappertutto, anche negli oratori parrocchiali. Lui invece, aveva scelto questo strumento a proboscide ma non perché ne avesse una passione sfrenata, anzi, la prima cosa che mi disse fu piuttosto insolita. “E’ uno strumento di complicata gestione. Fa rimbombare le pareti e cadere i quadri. Devo suonarlo dentro l’armadio aperto”. Lui avrebbe preferito suonare dell’altro ma l’unico posto disponibile nella banda “Arrigo Boito” era proprio per questo strumento. All’inizio non la prese bene, ma poi, quando il sax divenne di moda e serviva addirittura per rimorchiare, se ne fece una ragione. “Per fortuna che il bassotuba e l’ottavino non erano liberi” disse una sera facendomi l’occhiolino. Aveva appena riportato a casa due ragazze, non una! E tutte due gli avevano dato appuntamento per il giorno dopo. Era mia intenzione provare un duetto con lui, un’improvvisazione con il pianoforte. “Guarda che non sono molto bravo ad improvvisare” mi disse. “Nemmeno io, ma non importa. Tu pensa a suonare qualche nota e io mi preoccupo delle altre”. Quindi un giorno venne a casa mia e provammo alcune musiche ma non fu facile trovare un’intesa. Da quel sax uscivano delle note così piene e compatte che sembravano rimbalzare tra le pareti della stanza. Per abbinare i due strumenti bisognava essere dei bravi musicisti e nessuno di noi lo era. “Sai, mia sorella canta” mi disse durante una pausa. “Interessante”. “Cosa intendi dire?” “Dico che è interessante il fatto che lei canti. Quando la fai venire?” “Veramente è lei che vorrebbe venire. Ha bisogno di imparare qualcosa e fare pratica”. Da quel giorno smisi con Luca e mi occupai di Chiara, che non suonava alcun strumento ma a dire il vero non ne aveva nemmeno bisogno. Le diedi un testo, qualche parola che avevo scritto su una mia composizione e le dissi: “Questa è la melodia, ascoltala e poi prova a cantarla”. Suonai due volte il pezzo e prima ancora di farle un cenno lei iniziò a cantare. All’inizio dovette sistemare un po’ l’intonazione, scaldare la voce, aggiustare il tiro ma più che altro sembrava studiare il pezzo. Sì, perché in alcuni punti sbagliava in un modo così grossolano che pareva appunto voluto. “Ora ce l’ho” mi disse dopo averla eseguita tre volte. “Riproviamo”. Ricominciai con i primi accordi e dopo poche battute si aggiunse la sua voce che adesso era incredibilmente diversa. Sulle note scendeva e risaliva come un aquilone, saltava, ci girava 41


intorno, le accarezzava, era talmente intonata da glissare abilmente sull’intonazione. Inventava un ritmo che la musica in sé non possedeva, si arrugginiva al momento giusto, volava in un acuto quando meno te l’aspettavi e ci aggiungeva dei sospiri che facevano corrugare la fronte di mio padre. Ecco, se mi dicessero: “Vai su un’isola deserta e oltre ai libri e ai dischi scegli i dieci giorni più belli della tua vita”, quello ci entrerebbe di sicuro. Chiara veniva una volta alla settimana, io le insegnavo il solfeggio e i primi rudimenti al pianoforte. Lei mi insegnava a stare al mondo. Aveva quattro anni più di me, io non ero ancora maggiorenne mentre lei aveva smesso da tempo di essere una teenager, e non solo anagraficamente. Sembrava che non fosse mai sfiorata dai problemi e se questi erano proprio evidenti non se ne faceva travolgere. “Devi relativizzare” mi diceva. Questa parola a me non piaceva. Ho sempre avuta una certa idiosincrasia verso le parole contenenti troppo erre o zeta. Però prendevo nota e seguivo i suoi consigli constatando che i suoi progressi musicali andavano di pari passo con i miei. Cominciavo a vedere le cose sotto una luce diversa, ad essere meno introspettivo e più aperto, malinconico ma sereno. Attendevo i nostri incontri musicali come da piccolo aspettavo il Carosello prima di dormire e non ne saltammo mai uno. Niente e nessuno al mondo ci avrebbe fatto annullare l’impegno. “Ti piace suonare per me?” mi chiese un giorno. “Sì, molto”. “Suoni anche con altre ragazze?” “Uhm…no”. “Non mi sembri convinto” disse pizzicandomi il braccio. “Be’, la mia insegnante di pianoforte è ancora una signorina, piuttosto anziana però”. “Meno male, ne sarei gelosa. Me lo dici vero se suoni con un’altra?” “Sì, lo farò”. “Farai cosa?” chiese dandomi un pizzicotto ancora più energico. “Te lo dirò, ma non credo che suonerò per altre donne oltre a te e la mia insegnante. E tu?” “Io cosa?” “Me lo dici se ti fai accompagnare da qualcun altro?” “Certo, te lo dico” e intonò Summertime. Ci incontravamo sempre al venerdì. Lei usciva dal lavoro, veniva a casa mia e suonavamo qualcosa per un paio d’ore. A volte succedeva che era senza voce o troppo stanca e allora le insegnavo qualcosa sulla tastiera, oppure parlavamo e basta. A me piaceva tantissimo sentirla parlare in spagnolo e quando la sua voce era rugosa, da miele e fumo, se non poteva cantare le facevo recitare Garcia Lorca. Le mie note erano solo un tappeto, appoggi sui quali camminare, posare le parole, una successione di lettere quasi inutili. “Rischio di farti del male” mi disse una volta, subito dopo aver eseguito alla perfezione una scala. “Perché?” “Mi sto attaccando troppo a te, non va bene”. “Hai paura di essere un peso? Ti assicuro che non è così”, le dissi sistemando le dita sui tasti per provare un nuovo esercizio. “No, è solo…niente”. “Sicura?” 42


“Sì, era solo un pensiero negativo”. “Con il nome che porti, non puoi avere pensieri negativi”. Alzò lo sguardo, mi fece un sorriso ma non sembrava sincero. Dopo un anno lei se ne andò. Io non avevo più nulla da insegnarle, ma francamente, quel poco che le diedi poteva anche apprenderlo da sola. Se ne andò per girare il mondo con una chitarra che le avevo insegnato a suonare un po’, giusto per accompagnarsi. Me lo disse con un mese di anticipo. “Il prossimo mese parto, non ci vedremo più”. “Come sarebbe?” “Lascio la città”. Rimasi per qualche istante in silenzio, un peso nel cuore, incapace di parlare. “Suvvia, non essere triste! Cominciamo a suonare” disse, e quel suo modo di sorvolare, quell’ignorare il mio turbamento mi diede fastidio. E suonammo ma io non riuscivo a concentrarmi e neppure a parlare. Non riuscii nemmeno a chiederle dove aveva intenzione di andare, perché e con chi. La settimana dopo mi spiegò che aveva intenzione di girare l’Europa e cantare nelle strade, vivere con i soldi che le davano i passanti. “Ma poi… torni?” “Non lo so, vedremo, posso anche non tornare più”. Prima del nostro ultimo incontro pensai a cosa avrei potuto regalarle. Una muta di corde per la chitarra? Un plettro speciale, una custodia? Un quaderno tascabile, un portafogli, un maglione? Glielo dissi appena entrò nella mia stanza. “Sai, volevo regalarti qualcosa, volevo farti avere qualcosa di me…” “Ho avuto lo stesso pensiero. Scommetto però che anche tu, nell’incertezza non hai comperato nulla”. La guardai sorridendo. “Hai ragione”. “Probabilmente non c’è bisogno di alcun regalo” mi disse aprendo le braccia. E ci abbracciammo, un’ora intera, dapprima in piedi stringendoci forte e poi sdraiati sul letto, scambiandoci innocenti baci e asciugando qualche lacrima. Quella volta non ci fu musica suonata dal pianoforte o cantata dalla sua voce. Non ci furono arpeggi, scale, gorgheggi, improvvisazioni. Insieme eravamo stati così perfetti, così sublimi che ora ci restava solo il silenzio. “Ora chissà per quante ragazze suonerai” mi disse prima di uscire dalla mia stanza. “Per nessuna, lo giuro”. Mi stampò un bacio sulla fronte, mormorò un grazie e dopo aver salutato mio padre se ne andò. Non la rividi più. Nessuno di noi due ne aveva fatto cenno ma sembrava una cosa esplicita: non mi avrebbe scritto, neppure una cartolina e io non l’avrei chiamata. Ogni tanto chiedevo sue notizie a Luca. Speravo sempre che dicesse: “Sai, Chiara torna il prossimo mese”, oppure “mi ha chiesto di te, dice di salutarti”. Le uniche notizie erano invece che suonava a Parigi, suonava a Bruxelles, suonava ad Amsterdam. Ed io, ancora studente osservavo sulla carta geografica questo suo peregrinare fino a quando, complice anche il fatto che Luca si trasferì, non ci pensai più. Continuai a suonare da solo, evitando duetti e accompagnamenti, declinando con garbo ogni proposta di collaborazione. Quando componevo qualche musica immaginavo la sua 43


voce che si sovrapponeva alle note e mi dicevo: “Ecco, in questo punto lei si alzerebbe di mezzo tono, così, tanto per indispettirmi”. Qualche anno dopo, quando iniziai a viaggiare per le città europee, mi facevo sempre catturare dagli artisti di strada. Mi bastava vedere un crocchio di persone per correre subito ed unirmi a loro. Lo facevo sempre con il cuore che batteva forte, la speranza che fosse lei e allo stesso tempo la voglia di essermi sbagliato. Perché, se l’avessi incontrata cosa avrei potuto dirle? Un paio d’anni fa trovai per caso Luca che era tornato a vivere in città. Si era sposato e nell’appartamento in cui viveva, oltre ai due bambini piccoli c’era anche sua madre, rimasta vedova da poco. Un giorno mi invitò a casa sua. “Mamma, ti ricordi di Michele?” le disse presentandomi. Lei abbassò gli occhiali, mi guardò attentamente ma faceva fatica a riconoscermi. “Forza mamma, eravamo a scuola insieme!” “Ma certo, ora sì che mi ricordo. Tu suonavi il pianoforte vero?” “Sì, ero io”. “E lo suoni ancora?” “Sì” risposi timidamente. “Mi ricordo che Chiara veniva da te al mercoledì”. “Al venerdì” la corressi, come se fosse una cosa importante. “Come hai detto?” “Chiara veniva da me al venerdì, lo ricordo bene perché…” “Sì, è vero…al mercoledì andava da quell’altro, chi era…Luca, aiutami. Come si chiamava quel ragazzo che suonava la tastiera?” “Alberto?” “No, Alberto suonava la chitarra, da lui ci andava al lunedì”. Sentii una botta al cuore, come se un batterista impazzito avesse pestato duro sul pedale, facendo saltare tiranti, membrane e fusto della grancassa. Senza chiedere il permesso mi sedetti sul divano, le voci di Luca e sua madre mi rimbombavano addosso e allo stesso tempo le sentivo lontane, ovattate. “Forse ti confondi con Daniele. Non ricordi che veniva a casa ad insegnarle canto?” “No, sarò vecchia ma ricordo bene. E poi anche Daniele suonava il pianoforte. Non ricordi che avevano duettato la sera prima che partisse? Ma cos’ha il tuo amico? Si sente male…prendi un po’ d’acqua, stendigli le gambe”. “Rischio di farti del male” mi aveva detto quel giorno. E me lo aveva già fatto. O forse avevo fatto tutto da solo. ***** Paolo Perlini è nato a Verona, dove vive tuttora e dove lavora in un'agenzia di comunicazione. Ha sempre prediletto uno stile di scrittura sobrio, convinto che con la semplicità sia possibile divertire e allo stesso tempo stimolare alla riflessione. Questo ha influito sulla scrittura dei suoi racconti, alcuni dei quali pubblicati su antologie, quotidiani nazionali e siti web. E' presente nella raccolta noir "Donne Delitti Serpenti" e il volume "L'angolo Fatato" editi da Liberodiscrivere. La favola "Il vento di coriandoli" presente in quest'ultima raccolta, è stata trasportata in musica dal M° Francesco Bellomi e sarà eseguita dall'orchestra di chitarre "centocorde" di Milano il 10 marzo prossimo. Finalista al concorso di letteratura per ragazzi “Olga Visentini”, il racconto “Due Lupi in Fuga” è stato pubblicato nel 2008 per conto della Banca di Cerea.

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FREAKSHOW di Giovanni Di Iacovo

La sua memoria si placa. Fino al prossimo plenilunio nessuno turberà il professore né il carnefice senza naso di Hestas. – Davvero un bel libro. Davvero. Peccato che adesso devo morire e non potrò consigliarlo a nessuno. Così Grigorij chiude, con enfasi quasi marziale, l’ultima pagina de Il Maestro e Margherita di Bulgakov. La sua stanza è illuminata da una fila di candele sul pavimento, fissate su bottiglie di vino vuote, con la cera di vari colori sciolta e indurita sui lati a formare variegati arabeschi. Il resto della stanza di Grigorij è solo fumo e dipinti di gatti. Gatti spaventosi e terribili. Gatti che sembrano conoscere verità che l’uomo ancora ignora. Grigorij ama dipingere nel tempo libero. Dipinge sempre e solo gatti. Gatti fiabeschi, gatti inquietanti. Gatti che conoscono verità che all’uomo sono precluse. Gatti a volte troppo grandi per essere gatti, o con sguardi troppo maligni per essere creature di Dio. A volte dipinge solo un particolare: una zampa, un occhio, una schiena inarcata che si staglia contro un cielo gonfio e livido, oppure solo una coda che guizza in una camera da letto del futuro, lucente d’acciaio e fredda nelle geometrie. Grigorij ha solo la sua canottiera nera a coprirgli i tatuaggi sul petto. Si guarda le braccia. Anche i disegni più netti sono ormai raggrinziti insieme alla pelle. – Ma quanti anni ho? – si domanda con la sigaretta che gli vibra in punta di labbra. I tatuaggi sono il suo diario di bordo. Ogni significativo momento della sua vita se lo è marchiato sulla pelle. Ha ragionato su quali simboli avessero potuto racchiudere quel fatto, quelle emozioni, quella tragedia, quel dolore o quel trionfo, e poi se li è fatti tatuare. Con il suo piccolo spettacolo ha lasciato le sue mura per girare i continenti, e ha avuto modo di farsi tatuare da ogni tipo di persona. Vecchi avanzi di galera, ragazzine rockettare, clandestini, professionisti, una bella signora giapponese, un italiano alcolizzato e diversi grassi bikers. L’unico tatuaggio che non guarda con piacere, l’unico contro cui neanche il ruvido trascorrere degli anni sulla pelle ha potuto nulla, è quello lungo l’avambraccio. Le dodici cifre con la data e l’ora del giorno nero di Vittoria. Grigorij ha sempre affrontato i suoi viaggi con pochi euro in tasca, e chiedeva sconti a tutti in cambio dei biglietti per i suoi spettacoli o in cambio della restante metà della sua bottiglia di rhum. A molti faceva solo un’immensa pena, altri ne erano spaventati e coprivano gli occhi ai loro figli, disgustati non tanto dalla sua spaventosa magrezza e dai tatuaggi quanto dalla sua schiena flessibile, snodabile, deformabile. Deforme. Proprio grazie ad essa ha raggiunto la fama nei freakshow e negli spettacoli burlesque delle periferie di mezzo mondo con il nome d’arte de Lo Straordinario Serpentino. 45


Avrebbe dovuto ringraziare la Centrale. Si era suicidata regalando un fallout radioattivo e novanta anni di contaminazione a tutta l’area, ma aveva fatto anche abbassare drasticamente il costo degli affitti e i poveracci come lui non hanno potuto far altro che riavvicinarsi a quei luoghi. Ora dallo stereo nella stanza accanto sfumano, tra i primi raggi del mattino, le ultime veloci note di Lust for Life. – Dovevo leggermelo prima, tanti anni prima. Avrei anche fatto colpo su Ribka. Mi avrebbe chiesto se conoscevo Bulgakov e io le avrei risposto: “Ma certo, tesoro. Ricordo anche a memoria l’ultima frase de Il Maestro e Margherita. Senti qua…” E le avrei trafitto il cuore. Bah, non diciamo sciocchezze. Un freak è solo un freak, anche se è un freak che ha letto Bulgakov. Grigorij è in piedi a infilarsi la sua camicia preferita, quella viola che gli aveva regalato Laura Dresden quando lo aveva ospitato per un mese a Sarajevo. Avrebbero dovuto rivedersi due anni dopo, a mezzanotte, a Valka, sulla tomba di Vittoria, insieme agli altri. – Spero non si offendano, ma la pace che ci siamo promessi non sono riuscito a sentirla in nessun luogo. Mai. Pensa mentre si abbottona con calma la camicia. Poi prende le sigarette, esce dall’appartamento e sale le scale fino alla terrazza sul tetto. La terrazza sul tetto Ampia e vuota. Contro il rosso del cielo che recede, le aguzze cime delle montagne di Gaizinkal formano una linea irta di punte come l’elettrocardiogramma di un giorno che muore. Fa freddo. Puzza di smog e immobile indifferenza. Dall’altro lato il cavalcavia dell’autostrada, fiancheggiata da alti cartelloni pubblicitari, dove marciano i camion a portare in giro, come diceva Vittoria, la “polvere del mondo”. Lo sguardo di Grigorij si abbassa sul complesso dritto di fronte a lui: il titanico stabilimento della Painstav, attraversato da un velo di nebbia appena percepibile. La fabbrica che dà lavoro a tutti i giovani e i meno giovani di Valka. – Grande bastardo di quindici piani, mi hai privato della luce per tutti questi anni. E sputa giù. Poi si accende una sigaretta contemplando quel brontosauro di lamiere annerite e tubi tra i quali si stagliano tre lunghe sporche ciminiere come tre nere dita mozze a ghermire il cielo. Il cuore di tenebra di questo paesino di metallo, ruggine, fumo, freddo, fame, carbone, radioattività, violenza, sesso clandestino, malattie dell’apparato respiratorio e un ridicolo cartello alle porte della città: Benvenuti a Valka Comune amico del Nucleare Estinta la sigaretta, sputa il mozzicone. Poi si sfila l’anello. Un sinistro cerchietto di metallo annerito coronato da un acuminato uncino. Lo getta di sotto. – Prego, prima tu – sibila tra i denti. 46


Settimo piano, l’attico Mentre Grigorij precipita, i suoi occhi vengono feriti per un istante dalla sfavillante luce riflessa nel collier di Vaira Gunvaldis che alza il calice sfavillante in sintonia con suo padre, il colonnello Gunvaldis, e con una ventina di sfavillanti ospiti. Lo sfavillio incantevole sul collo di Vaira si riflette nello sfavillio del sorriso di Armand, il portaborse di suo padre. – È fatta Sindaco! Ora comandiamo noi. E da domani sono cazzi loro. Lo sfavillare incantevole della luce della gioia di Armand si riflette sullo smeraldino in bocca alla testa di leone d’oro che troneggia sull’anello d’oro dell’anziano Janis, che pizzica senza sosta le guance del nipotino Lukas. L’anziano Janis ha imbustato e spedito insieme ai suoi tre figli quattromiladuecento e due lettere agli elettori e ha poi distribuito migliaia di sfavillanti santini elettorali per il candidato sindaco colonnello Gunvaldis al mercato del Parco 36, dentro allo Snack Bar Poe, al Coral Club e ovunque transitasse qualcuno che avesse diritto di voto. Da quello sfavillante smeraldino la luce si riflette sulla montatura d’oro degli occhiali di Srecko, fidanzato storico della figlia Vaira nonché autista del neosindaco Gunvaldis. Srecko guarda la sua fidanzata con occhi colmi d’amore e soddisfazione pensando: – E se manco adesso mi sposi, puttana alcolizzata, ti passo sopra con la macchina tante di quelle volte che finalmente potrai farci credere di essere dimagrita. La montatura degli occhiali di Srecko sfavilla incantevolmente oltre filari di perfetti scaffali in acciaio e tek strepitosamente privi di libri, utilizzati per reggere vasi di fiori, riviste di moda di diversi formati, fino al solito eterogeneo zoo di bomboniere di cristallo. Deflesso da una piccola sirena di cristallo, lo sfavillio schizza fino alle unghie smaltate d’argento di Nataljia Gunvaldis, moglie ufficiale del colonnello Vladimir Gunvaldis che pensa: – Dio, ora che torno da quell’arpia di commessa che non voleva farmi lo sconto, ora che ci torno che sono la moglie del nuovo Sindaco di Valka, mi faccio leccare i piedi fino alla prossima legislatura. Finché lo sfavillio giunge al capolinea, infrangendosi nei magnifici lucidi occhi vincenti del nuovo sindaco, il colonnello Vladimir Gunvaldis. – Ho vinto io. E ora che mi levo dalle palle ‘sta mostra-mercato di zerbini umani, andrò a far sentire a Giuljetta come scopa un vincente. Sesto piano – Finalmente – pensa in un istante Grigorij, mentre prosegue la caduta – finalmente vedo quel diavoletto. Grigorij non aveva mai visto in faccia il bambino che viveva al sesto piano, ma lo beccava sempre a sgattaiolare via dal suo appartamento dopo avergli svaligiato il frigo quando lasciava la porta aperta andando a buttar giù l’immondizia. Il piccolo Jan, avvolto in una lacera giubbetta militare di un qualche ex-esercito smantellato, ha la testa fasciata, un lato della faccia gonfio e il labbro rotto. Trema scosso da brividi e suda appoggiato con le braccine al davanzale. Aspettando il corpo di Grigorij. Come Grigorij viene giù, Jan gli fa cenno con la mano, sorridendo. – Ciao Serpentino. E Grazie di tutto. 47


Quinto Piano Al quinto piano la saracinesca è abbassata. – Peccato, pensa Grigorij. In ogni caso Lo Straordinario Serpentino non potrebbe dare il suo fulmineo saluto al vecchio Dimitri poiché il suo cadavere si sta decomponendo sul letto ormai da nove giorni. Maru, il figlio, lo chiama solo a fine mese, quindi se ne accorgerà tra circa un paio di settimane. Ogni venerdì il vecchio manifestava delle brutte macchie alla base del collo e sui polsi. Sempre e solo di venerdì. Maru si limitava ad obbligare il vecchio a non fumare più la pipa con vari urlati diktat solo per esercitare su di lui un po’ di autorità. In realtà ogni giovedì pomeriggio Dimitri invitava Jelena a fargli visita nel suo appartamento. In realtà Jelena si chiamava Giuljetta, ma il vecchio preferiva chiamarla con il nome del suo primo amore sbocciato ai tempi della Scuola Primaria di Tomsk. Quando si vestiva sempre con le sdrucite camice di flanella a quadretti grandi di suo padre, dimenticandosi puntualmente di abbottonare almeno una delle due punte del colletto. Non aveva più rivisto Jelena, ma il ricordo di lei era cresciuto durante gli anni passati a lavorare nella base militare di Ventspils. Era cresciuto nei suoi pensieri e nello stretto albergo del suo cuore, collocandosi nella suite di “colei che sarebbe stata la donna giusta, la donna che mi avrebbe reso felice”. E se finalmente, dopo tutti quegli anni, il vecchio Dimitri era riuscito a sedurre Jelena, di certo non poteva permettersi le figuracce dell’età. Per questo motivo ogni giovedì, dopo aver sistemato per bene i bottoni del colletto della camicia, s’imbottiva di Viagra. Mostrò ben presto, però, i sintomi di un’allergia che si fece sempre più aggressiva. L’allergia al Viagra lo aveva messo in guardia tante volte con quelle macchie alla base del collo e dei polsi, ma il vecchio Dimitri non aveva alcuna intenzione di farne a meno perché non poteva di certo deludere la sua Jelena, che lo aveva aspettato per oltre sessant’anni. Nove giorni prima, poco dopo che Jelena era tornata a casa, aveva iniziato a sentirsi la pressione particolarmente bassa e la laringe sembrava gonfiarsi rapidamente fino a ostruirgli il respiro. Senza telefono né cellulare, crollò a terra cercando di raggiungere la maniglia della porta con le sue mani che diventavano sempre più scure e gonfie. Comprendeva bene che lo shock anafilattico lo stava uccidendo, ma nei suoi occhi brillava ancora, piena e inossidabile, la soddisfazione di aver avuto, seppur negli ultimi mesi di vita, la donna dei suoi sogni, la donna giusta, la donna che amava fin dall’adolescenza. – C’è gente che vive, lavora e poi crepa senza mai averla avuta ‘sta fortuna. Si disse Dimitri prima di soffocare. Quarto piano L’appartamento di Grigorij. La porta d’ingresso si apre e Dola, sua figlia, fa capolino all’interno. Per un maledetto frammento d’istante, il suo sguardo incrocia quello del corpo 48


del padre che precipita. Cadrà in ginocchio, si getterà a pancia a terra e non avrà più il coraggio di rialzarsi. Lo shock la condurrà a trascorrere il resto dei suoi giorni nella casa di Cura di Villa 36, costantemente distesa sul freddo pavimento di mattonelle grigie, senza mai più volersi alzare. Per paura di cadere anche lei. Terzo piano L’appartamento è completamente vuoto, tranne per un robusto gatto rossiccio che attende in un angolo. Uno dei modelli preferiti di Grigorij. Sul pavimento è disegnato con della vernice rossa un immenso numero trentasei. Nell’aria filtra del jazz in filodiffusione. Fly me to the moon And let me play among the stars Let me see what spring is like On Jupiter and Mars Il gatto rimane fermo immobile come un vero professionista. Spera che la risposta che ha tracciato possa essere utile a Grigorij quando raggiungerà l’inferno. Secondo piano La finestra è aperta su una stanza buia, un telefono squilla a vuoto. Un paio di forbici luccicano ai piedi di un grosso specchio tribale, triangolare, con la cornice di ebano nero intarsiato. Nell’istante in cui precipita, Grigorij si riflette nello specchio, e si vede morire. Primo piano Al primo piano le finestre sono aperte su una tendina gialla maltrattata dal vento con il logo di una marca di patatine. Il divano è lacero in più punti, le pareti sono dipinte d’azzurro da un pennellaccio affetto come minimo da alopecia. Accanto al frigo, tempestato di magneti come se avesse il morbillo, è appeso un grande quadro fatto di Grigorij. Raffigura una sinuosa gatta moschettiera che mena un fendente all’aria con tanto di cappello nero a falda larga con piuma, indossando provocanti stivali di pelle nera con tacco di lucido metallo. Al posto delle pupille ha due minuscole mani rosse, dal palmo aperto. Giuljetta dorme beatamente davanti alla grande Tv a cristalli liquidi, regalo del colonnello Gunvaldis, che, poggiata su una colonnina di finto marmo venato, trasmette a volume troppo forte un reality show dove un uomo in pigiama tenta di riprodurre l’inno nazionale lettone intonando Dievs, svētī Latviju! con i suoi rutti, per dilettare gli altri concorrenti e il pubblico a casa. 49


Giuljetta non partecipa a questa ilarità perché il suo corpicino di ventenne, che di anni ne dimostra a volte quindici a volte quaranta, riposa languidamente sul divano con una gamba bianca liscia che penzola fuori. L’unico che non le abbia mai chiesto di fare sesso. Almeno fino ad oggi. Beatamente dorme, Giuljetta, usando come improvvisato cuscino il bel vestito che le faceva sempre indossare il vecchio Dimitri. Dolcemente dorme Giuljetta ma non sogna né principi azzurri né una vita migliore. Sogna solo una grande, gigantesca, immensa coppa di gelato alla stracciatella e cocco con due belle cialde conficcate come due antennine. Sogna quella bella coppa di gelato, la celebre Coppa Super-Gusto che la mamma le comprava a Rīga ogni domenica d’estate. Non doveva pensare a niente. Solo sorridere e mangiare il gelato e sporcarsi e sorridere e poi mangiare ancora. Non doveva pensare a niente, né a piacere, né a guadagnarsi da vivere, né a scorticarsi via di dosso l’odore di quei porci né a nascondere bene i soldi, né a medicarsi i lividi. Doveva solo affondare quel cucchiaione nel gelato, che le colmava gli occhi di bontà e di golosa bellezza, e tirare su quel cucchiaione bello buono colmo di gelato e mangiare e mangiarselo tutta felice, sotto gli occhi felici e colmi d’amore di sua mamma, che non diceva nulla se non: – È buono, vero, tesoro mio?”. Non doveva pensare a farsi i test dell’Hiv ogni tre settimane per sapere se era viva o morta. Non doveva fingere di essere una giovane ebrea da interrogare per il colonnello Vladimir Gunvaldis. Non doveva immaginarsi che faccia potesse avere suo figlio, oggi che avrà sei anni da qualche parte nel mondo. Non doveva pensare che quello psicopatico che chiama sempre alle 23.10 potrebbe entrare dalla finestra adesso e sgozzarla con un filo di nylon come le ha sempre promesso di fare. No. Lei doveva pensare solo a nuotare felice in quella bella grande coppa di gelato che nessuno le offrirà mai più. Nuotare in quella grande bella coppa di gelato, lei piccola indifesa con la mano nella mano della mamma, e, quando il gelato finiva, sarebbe tornata a casa a mettersi comoda per godersi due ore di colorati cartoni animati e la felicità e le risate e lo stupore sarebbero proseguiti stringendo sempre il caldo tepore della mano della mamma e tutto questo la faceva sorridere nel sonno, la faceva un po’ sorridere nel sonno ma le avrebbe reso insopportabilmente più amaro, molto più amaro l’odiato risveglio. Grigorij in quell’istante ha voglia d’innamorarsi di Giuljetta. Ma in fondo lui non ha bisogno di lei, né di nessun’altra, perché è Lo Straordinario Serpentino e domani tutti i suoi fan e tutti i suoi spettatori e tutti coloro che l’hanno deriso, amato, umiliato o reso famoso piangeranno per lui. Ed è con questa speranza che Grigorij dedica a tutti loro un ultimo, definitivo, violentissimo bacio d’addio contro l’asfalto. ******* Giovanni Di Iacovo (Londra, 1975), esperto di culture borderline, ha pubblicato romanzi e racconti con molte case editrici italiane (tra cui Castelvecchi, Besa e Book Brothers) fino al successo del suo ultimo libro Sushi Bar Sarajevo (Palomar, 2006) elaborato durante gli anni trascorsi tra Mostar e Kyoto. È stato vincitore della Biennale 2001 dei Giovani Artisti dell’Europa e del Mediterraneo (sez. Letteratura), del Premio Teramo 2006 e del Bdsm Award 2008. Attualmente vive a Pescara dove svolge attività di ricerca universitaria in Culture del Mediterraneo e dirige il Festival delle Letterature. E’ presente sul web con un curioso sito-farmacia: www.giovannidiiacovo.com

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La pietà di Sergio Sozi

A Laura e a Verončica mie

Quando scrivo veramente, seriamente, per me è il compenetrarsi di tre mie anime: l'immaginifica, la concreta e l'innamorata. Innamorata di chi, in concreto e non in immagine, però, mi chiedo imperterrito – si chiede anzi una mia quarta anima, forse, o si chiede la somma della triade o del trittico anzidetto che la Quarta Anima osserva dall'alto dei Cieli, ove è concesso darci possibilità di molteplici errori, seppur triplici. Comunque mi chiedo sempre di chi io sia innamorato, già. Ma non ne temerei una risposta esauriente, meglio se dall'alto, come molti fanno, anzi la vorrei di brutto, di brutto... Ma non giunge, questo è sicuro, a vedere adesso.

''Essere più sensibili non vuol dire esser migliori, ricòrdatelo Alice. Come anche, sappi, problematizzare le cose non serve a niente, se alla fine non si ottengono delle soluzioni per i crucci. Sta' attenta all'uomo problematico, cara, dunque, perché nel fondo di ognuno c'è sempre una sicurezza potentissima: l'egoismo. Un egoismo che oggi si finge di non vedere usando, per restare ciechi nei suoi confronti, la comoda arma della problematizzazione, dello spaccamento del capello in mille fettine che non portano ad altro se non ad impazzire o a dare spazio a chi è sicuro e forte nelle sue semplici posizioni. Semplici posizioni, dico, cara: sii costantemente semplice e forte, se vuoi vivere con onore ovvero con fedeltà a te stessa, non esser mai sempliciotta bada bene, ma semplice sempre, altrimenti ti perderai in mille rivoli come un fiume deviato dagli ingegneri... E quegli ingegneri pensano sempre al proprio ego, non alla tua felicità. Mortale, sii perciò, ma inconsapevole del nero finale e, così, ammaliata dal lucore cosmico come un giglio, bada, Alice, siilo, siilo.'' Questo scrisse mio padre Augusto il primo giorno che volle spedirmi una lettera, ossia dopo tre anni che avevo lasciato casa. Conosceva la mia natura debole e una certa mia tendenza a sentire in profondità gli esseri umani, pertanto cercava di mettermi sull'avviso appena saputo che mi ero fidanzata e dunque ora convivevo con un uomo, un poeta abbastanza noto anche nel nostro paesello perché venuto a stabilirvisi dalla natia metropoli. Le notizie in un centro di ottomila anime girano. Papà inoltre desiderava ricordarmi che la evidente docilità del mio Giulio (anche questo sapeva!) era data dalla sua innata tenerezza, sì, ma innanzitutto che qualsiasi tenerezza può ben trasformarsi in duttilità e facile accomodamento, un passo oltre il quale c'è l'ipocrisia di chi ''appende il cappello'' perché stanco di andare in giro a raccattare anime sensibili molto facili a storie da letto. Non gli risposi, pur senza ritenermi offesa dal suo rompere il muro del silenzio solo per farmi la predica; ma, al contempo, evitai di prendere in considerazione le solite barbagiannate di papà, poiché lo conosco e so quanto ami vedersi nel ruolo di un qualche 51


essere, umano o animale, opposto alla sua vita reale. Sì, mio padre a quel punto faceva il vecchio barbagianni perché aveva calpestato le sue settantatré primavere da cane randagio: strenuo nel suo rifuggire la mediocrità delle semplificazioni quanto prontissimo nell'operare delle scelte facili; incerto su qualsiasi meta che oltrepassasse quelle a breve termine, perché sicuro del proprio teleologico nichilismo. Un cane randagio, insomma, che aveva messo nel cassetto, chiudendolo ma senza buttare la chiave, la propria (colpevole) disperazione e il proprio (colpevole) disequilibrio solo perché pressato dalla condiscendente tiepidità della propria (anche colpevole ma per altre cose sue) consorte, mia madre Nina. O meglio pressato, direi, dal materialismo di mia madre, la quale aveva spinto in quel robusto cassetto ogni cosmonullificazione di suo marito solo perseguitandolo sulle solite inadempienze dei cani ex randagi: e le bollette, e questo in casa lo fai male, e manchi di genio tecnico con le riparazioni. Una massa di corbellerie che alla fine, se sei un cane randagio che pensa alle stelle e manco le guarda per fifa cosmica, un po' ti amareggiano e molto di più ti dànno sicurezza barbagiannesca, ti inquadrano in un contesto fatto anche, ammettiamolo, di prese elettriche e docce. ''E fatti una doccia, Augusto, sant'iddio, è ora, no!'' Esclamava mamma Nina dopo un mese di lontananza dall'acqua di papà. Va be'. Allora papà, imitando la mamma, pensai, con quella lettera voleva inquadrare anche me, fungere da maritomamma in pectore – ché lui Giulio ormai lo vedeva nei panni del marito – e cautelarmi dall'inevitabile divorzio. Ecco. Il divorzio. Da questa piattaforma era stata lanciata l'epistola del barbagianni e da questa base (il con me taciuto vaticinio della rottura del futuro matrimonio) dipendeva il suo esser diventato improvvisamente – e giovanilisticamente eh – analista del profondo, come lo stralcio della lettera dimostrerà appieno. Comunque, come già detto, non gli diedi retta – anche se peso sì, l'avrete capito, poiché era mio padre, non un pincopallino che scrive cazzate sui libri – e continuai a vivere col mio Giulio, il fragile, il possibilista, l'irrequieto per natura. Il poeta. Sensibile. Fedele. Eccolo, il mio Giulio, lo si guardi un attimo ché ne tratteggio qualche momento di quelli usuali, quotidiani (poi arrivo io, Alice): è appena entrato in casa e si toglie il cappello, un vecchio borsalino grigio, con aria distratta, poi, posato il carico, mette sull'appendiabiti dell'ingresso il cappotto di lana blu, lungo, impolverato. Torna dal negozio ed ha la borsa della spesa con sé che lo affatica non poco, anche se egli non lo vuol dimostrare. Stiamo al terzo piano senza ascensore. Io non ci dovrei essere perché in genere sto in ufficio fino alle sedici ed ora sono le due di pomeriggio, però un po' ci sto anche, visto che Giulio fa sempre le stesse mosse. Si mette le pantofole e va a farsi il suo settimo caffè ai fornelli. Fuma. Il pensiero che dovrà andare ad insegnare l'italiano agli immigrati, alle diciannove, manco lo sfiora ancora, perché si è svegliato all'una, alle tredici. Deve ancora carburare. Si piazza davanti ad una risma di carta in sala e scrive qualcosa di idiota per se stesso, per la sua stessa opinione dico. Poi inizia a cucinare, tagliando a fette irregolari cipolle e carote. Da sempre fa pastasciutte e nient'altro, sapendo che io le accetto di buon grado. Ma ecco che io rientro, in carne e ossa. Sono ancora tediata dal mio ufficiaccio e lo saluto appena, neanche subito. Guardo se si è lavato i denti. No. Allora niente bacio, zozzetto mio di un Giulio. Però lo prendo per il collo e, famelica che resto, lo porto a letto a fare le cose più stancanti del mondo e lì mi addormo, sapendo che intanto lui si alzerà e inizierà a scrivere qualche verso in rima e così continuerà fino a notte fonda – un poemetto, un inno ai commenti di Finchirillo da Pulzatillonia degli Inni Omerici, come tutti i dementi di oggi, che ne so, cosa me ne frega: io leggo poco e non 52


certo 'sta roba, bella ma complessa e distante da me. Ah, Giulio, magari tu e la tua Musa, che non son io, foste sempre il poeta (che non guadagna una lira e pago tutto io) e la sua schiava-ninfetta. Anche il biglietto dell'autobus e le sigarette, Giulio, ti passerei per l'eternità, scarpe calde, cappotti beige e cravatte sottili color della luna. Resta così, ti prego. Eccolo, dunque, è vero, ne ho spalmato un lungo momento su carta, su questa carta. Parrebbe forse che io non conosca e non capisca a fondo e non mi compenetri (oserei affermare) con Giulio e la sua placidirrequieta dimensione poetica? Adesso infatti lo sto aspettando, nel pomeriggio assolato del paese meridionale ove viviamo. D'estate anche io sono in ferie, non solo Giulio, il mio bel poeta che ha dieci anni più di me e ancora, fortunatamente, tanti capelli in capo per quanti dolori ha vissuto con altri amori e amorazzi e per via di illusioni e matrimoni mancati o finti, e bottiglie di vino scolate nei vicoli della sua metropoli. Io, che ho sofferto finora solo per solitudine, e lui che si è giocato la sensibilità con pornografiche e altre illusorie unioni, in fondo siamo simili, se non uguali – ecco: simili perché traditi dalle illusioni, e simili perché in fondo viziati dalla comodità apparente del facile acchiappare qualcosa di fagocitabile, di consenziente, che invece ci strappa l'anima a brano a brano, come una spugna dentata, accipicchia! Io lo attendo, dunque, il mio amato tiranno, e dopo ne parlerò a te, vento. A te a cui sto dedicando queste parole, Eolo, re della dispersione nell'etere, principe delle omeriche feste infinite e sovrabbondanti. Aspetta anche tu, col tuo incessante fiato, spirante con alterne forza e levità sulle rughe terrestri di ogni dove. Lo attendo... lo attendo... Ma non si sarà perso, malsano, nella palude infetta dell'esteriorità, il mio Giulio... Vi dirò, sì, vi saprò dire. Se soltanto Eolo non continuerà ad aumentare il suo possente soffio su queste carte, ohibò, sì, su queste car... pietà, pietà... pie... (Lubiana, 13 gennaio 2009) ****** Sergio Sozi è nato a Roma nel 1965 ed è poi vissuto a Spello, Perugia e Koper/Capodistria (Slovenia). Dal 2006 risiede e lavora a Lubiana (Slovenia) come insegnante d'italiano e traduttore dall'inglese, dal francese e dallo sloveno. Dal 1989 pubblica critica letteraria, narrativa, poesia e cultura, in Italia, Slovenia e Croazia, su quotidiani (L'Unità, Il Giornale dell'Umbria, Dnevnik) riviste (Polimnia, Nova revija, Trieste Arte e Cultura, I Polissenidi, Inchiostro, ecc.) ed in volume (Oggetti volanti, poesie, Perugia 2000; Il maniaco e altri racconti, Roma 2007; varie curatele in Slovenia). Tra i vari riconoscimenti, ricordiamo la segnalazione del Premio Sandro Penna nel 1999 per la silloge poetica Oggetti volanti e quella del Premio Internazionale Lapis Histriae 2008 per il racconto Ginnastica d'epoca fredda – che verrà pubblicato anche in Italia nel corso del 2009.

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(foto di Giusy Calia)

FINESTRE: Omaggio di Erminia Daeder a “Stralune” di Antonio Errico. Licio Gelli - Venerabile poesia di Francesco De Girolamo Ilaria Ciancilla - La danza della regina che inventava la Vita Corpi e anime. Il tragico destino di tre donne ebree di Marta Ajò

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Omaggio di Erminia Daeder a “Stralune” di Antonio Errico (Manni editore) Abbandoniamo le funi che ci legano alla consistenza del reale. Perché entrare in ‘Stralune’, entrare nella scrittura di Antonio Errico, vuol dire inclinarci in un sogno dal quale non vorremmo svegliarci mai. E qui siamo nei confini onirici della rappresentazione di un ritorno. Torniamo, nel corso della nostra vita, molte volte: torniamo sui nostri passi, torniamo con la memoria, torniamo ai giorni nostri, torniamo con i piedi per terra, torniamo alle radici… ma sempre, alla fine, qualunque percorso ci abbia distratto, qualunque obbligo ci abbia condotti lontano…torniamo a casa…e tornano pure le voci di chi non c’è più e ci chiede conto, torniamo in un andirivieni tra vivi e morti, tra fantasmi portatori di silenzi e di domande, perché fusi insieme sono passato e presente nella durata interiore dei nostri accadimenti. “E’ stato come quando dentro un sogno accarezzi l’irrealtà di una figura”: con queste parole colui che racconta, ci mette in guardia l’Autore, ci introduce sul terreno instabile di una narrazione magmatica e inafferrabile. “Lontano da qui, se mai io fui lontano, lontano da qui, fuggiasco, disertore, lontano da qui, disperso, forestiero, lontano da qui, senza sorte e nome, ho capito che spesso accadono le storie indipendentemente dalla nostra volontà, che noi possiamo solo guardarle passare, sentirne il rumore, immaginarne la trama, fantasticare un finale, colare parole nella frattura che si apre tra quello che siamo e che non potremo più essere. Mai.”. Cornice e raggio, al tempo stesso. Del racconto la consapevolezza che ciò che ci accade e ciò che ci è accaduto è spesso fuori dal nostro potere di intervento: non possiamo prevedere, quindi, non possiamo rapportare al nostro codice di comprensione, non possiamo avvicinare alla nostra fisicità. Ma sotto il crinale della coscienza dimorano i nostri punti di origine, il dolore di esserci, il tempo di esserci. Dolore e memoria e tempo: come un fraseggio polifonico misurano il respiro dei monologhi interiori che si susseguono, di un Disertore, di una Madre, di una Figlia, di un’Amante, di un Padre. Se c’è stata diserzione c’è stata una guerra, ma non è guerra storicamente definita, non è guerra chiaramente delimitata, perché potrebbe essere la guerra di ognuno di noi, oppure potrebbe essere l’Ultima Guerra, sì, il Disertore racconta che “era settembre, che il grano era mietuto, l’uva ancora acerba”, e che c’è un sergente maggiore che urlando gli punta una pistola alla tempia, ricorda di essere stato ‘soldato ardimentoso di ventura’, ma sono pochi e frazionati i cenni circostanziati alle vicende della Storia con la maiuscola. Il Disertore ritorna dunque al suo paese. 55


Ha aspettato tre giorni alle sue soglie, poi “al terzo ritirarsi della luce, oltrepassò il ponte che divide il paese in scirocco e tramontana”. “Il paese somigliava a una pittura nera, a un tugurio dove tutto si degrada, era memoria livida, rappresa, era un’eco sordida, sguaiata, un teatro dove tutto si scatena, dove il presagio si fa legge vulgata, dove avvampano roghi di sospetti, si spalancano gore di spavento e rabbia, dove ogni bestemmia è una preghiera, ogni sonno inquietudine dannata, ogni amore un calappio che incatena, ogni esistenza una morte mascherata. Dalla torre gli arrivarono i rintocchi. Più fitta si faceva ora l’acquaneve. Più densa. Più porosa. Più greve.”. Immaginiamo lo scenario: è notte, silenzio intorno, qualcuno si muove oltre quel ponte, attraversa una piazza d’armi, la contrada dei Samari, l’angiporto, e, dal trivio della Candelora, giunge alla porta grande. Poi, davanti ad una casa con un giardino. “Perché ritorni, figlio…Non ti aspettavo più”. Nell’assenza subita c’è il segno di un tradimento. Quella voce, che mai assumerà contorni fisici di una ruga, di un colore degli occhi, di una spalla cadente, lamenta il tempo dell’attesa. E invoca la Fortuna, dea terribile, che non conduce parole, che impone silenzio. “Perché saggezza, figlio, è non parlare”. La madre si ribella alla schiavitù degli anni passati ad aspettare “perché da una guerra si deve ritornare. Se non si muore si deve ritornare”, pretende un risarcimento per sé nell’ubriacarsi, per un’ultima volta, di vita. Poi, sui gradini di una chiesa, dove lo conduce l’Ombra, vera Protagonista carezzevole, amara, implacabile, impaziente, brandelli di memoria si addensano intorno a un nuovo incontro, una Figlia abbandonata dal padre che aveva fatto in tempo a dirle cosa fosse la controra, a disegnarle il mare con le mani, a leggerle poesie. Lei si impossessa della sua assenza entrando, dice, ‘nei ricordi degli altri’, ne fa una professione, cercando nelle ragioni del loro esserci, la propria, nei loro ricordi i propri. E impara a calcolare il tempo di una vita. “Però pensavo che molti e pochi sono termini inadatti a calcolare il tempo di una vita. Pensavo che il tempo di una vita si deve calcolare in un altro modo, che non è con il conto degli anni che si calcola il tempo di una vita, che non sapevo in che modo si calcola il tempo di una vita. Mi dicevo che forse occorre fare il conto degli amori, forse delle passioni, dei sogni forse, che forse bisogna sommare tutte le emozioni, moltiplicare le rinunce o dividere i dolori, o sottrarre ad una ad una le illusioni. (…) Pensai che per contare il tempo di una vita bisognerebbe misurare la distanza tra il primo giorno e l’ultimo con le pulsioni che hanno regolato ogni istante, con i brividi che hanno attraversato le vene, con i ricordi dentro le pupille e le visioni del pensiero, con le esperienze comprese e con quelle rimaste un mistero.”. Allora cosa rimane dopo un amore senza misura, quando quel tempo calcolato e contato assente si è fatto carne, pietra, ossario, quando l’Altro è divenuto ospite irriconoscibile di quel tempo, quando è diventato un passante lontano, in fondo ad una strada sullo sfondo? E cosa può portare un uomo a fuggire da un amore senza misura, a tradirlo nella dimenticanza, nella battaglia altrove, in un amore diverso? Forse le pagine più scure sono quelle dell’Amante. Fosche e incatramate nella testimonianza appassionata di un sentimento assoluto e nullificante : “Sono rimasta”, dice lei, “e ho accettato di sentire la compassione come una mosca che si appoggia sulla palpebra”. 56


L’incontro finale col Padre scioglie e, insieme avvita, gli ultimi nodi del ritorno a casa, prima del congedo definitivo. L’uno e l’altro, in un crescendo di pathos e di interrogativi, alimentano dubbi sull’importanza del ritorno, sulla sua inevitabilità, sulla sua forza, sui cambiamenti che ci arrestano e ci denudano. E il Padre respinge il figlio, va’ via, lo implora, trova la tua innocenza nella dimenticanza, scopri il tuo coraggio nell’esclusione, nella disappartenenza. E dalla casa della sua infanzia, nella certezza obbligatoria del dover raccontare – unico varco a fronte di un “calcolo di dadi che più non torna” - , il Figlio rivolge al Padre una preghiera. Con la voce di un bambino, con i desideri di un uomo, con la riconoscenza di un vecchio. “Allora disse così. Padre nostro. Padre che adesso sei così lontano e solo, forse affaticato dagli anni di impazienza…”. Una preghiera memorabile, che è summa e velo di ogni turbamento infinitesimale umano, di ogni esaltazione impercettibile, di ogni commozione dilagante, che è sangue e saliva, che è ostia, che è Parola laica, eredità sacra. E altro e tanto ancora ci sarebbe da aggiungere a queste pagine gravide, ancestrali, a queste pagine di limpida poesia e musicalissima prosa, tanti i riferimenti simbolici e archetipici che le innervano, tante le concordanze di ‘pensiero e di cuore’ (per usare le espressioni dell’Autore) con la produzione del ‘900, ma qui ci soccorrono le parole di un poeta, un grande poeta salentino che scopriamo tra i ricordi paterni della Figlia: “…e sola luce/ è accesa in piazza una sala da barba”. Finibusterrae di Vittorio Bodini

Vorrei essere fieno sul finire del giorno portato alla deriva fra campi di tabacco e ulivi, su un carro che arriva in un paese dopo il tramonto in un'aria di gomma scura. Angeli pterodattili sorvolano quello stretto cunicolo in cui il giorno vacilla: è un'ora che è peggio solo morire, e sola luce è accesa in piazza una sala da barba. Il fanale d'un camion, scopa d'apocalisse, va scoprendo crolli di donne in fuga nel vano delle porte e tornerà il bianco per un attimo a brillare della calce, regina arsa e concreta in questi umili luoghi dove termini, Italia, in poca rissa d'acque ai piedi d'un faro. E' qui che i salentini dopo morti fanno ritorno col cappello in testa.

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VENERABILE POESIA di Francesco De Girolamo

Licio Gelli torna alla ribalta. In diversi ambiti, ultimamente, puntando, forse, sulla labile memoria degli Italiani, o sulla loro scarsa informazione in merito alle origini, in parte ancora oscure o “oscurate”, delle tragedie nazionali semi-sommerse della cronaca storica di questi nostri ultimi trent’anni (e più…). Esce, dunque, dal suo “eremitaggio” dorato, arioso, caratteristicamente toscano, di Villa Wanda. Noi non ci occuperemo per nulla, naturalmente, dei troppo indecorosi e complessi aspetti “politici” di alcune sue recenti esternazioni, anche televisive, ma della sorprendente, convinta e ponderosa, eppure più tollerabile e “lieve”, riproposta della sua Opera Poetica (quasi omnia). E’ da poco uscito per le Edizioni A. Car s.r.l. un volume davvero monumentale, “Dizionario Poetico”, Antologia della sua produzione in versi dal 1950 al 2008, che dispensa, nelle sue 1548 pagine, ben 2535 poesie del Nostro, già candidato al premio Nobel nel 1996, come informa anche, direi “seraficamente”, la sua ricca pagina biobibliografica del “Club degli Autori”, ( Nobel per la letteratura, si badi bene, non già, come forse Egli avrebbe addirittura preferito, per la Pace); candidatura caldeggiata, pare, da diverse Associazioni, Fondazioni ed Accademie Letterarie italiane, in qualche modo accreditate presso la Commissione per i Premi Nobel di Stoccolma, molte delle quali gli hanno già conferito, in varie forme e occasioni, ben 200 premi per la Poesia nell’arco di circa vent’anni, facendone, di gran lunga il “poeta” in attività, per lo meno quantitativamente, più “premiato” d’Italia; e non tutti, a scorrerne il lungo elenco, risultano in realtà i soliti premi di poesia “casarecci”, organizzati magari da “compagni di merende”, promossi da spregiudicate Pro Loco, ma se ne possono trovare anche di più consolidati, come il Premio Calliope, assegnato, tra gli altri, nel 1999, a Giovanni Raboni. La lunghissima serie di testi poetici è presentata in ordine alfabetico, per temi, corredata da una prefazione assai entusiastica, a tratti estasiata, del critico Amos Silvio (destino di un nome…?) Cartaria, e da un altisonante “Testamento spirituale e poetico all’Italia” dell’ex Venerabile Maestro. Tra gli accorati brani in prosa tesi a sviscerare la sua visione di sé e della vita, non possiamo assolutamente omettere: "Il dolore mi ha aiutato a conoscere me stesso e mi sono prostrato nudo davanti agli uomini e davanti a Dio come fece il santo Francesco, così ho sofferto però sono diventato uomo." Un altro brano, in versi questo, di tono quasi “confessionale”, sul quale ci sembra il caso di soffermarci, è nella poesia “Ultimi lampi di vita” (2006): Ho cercato l'amore nello specchio del passato e la tristezza ha frantumato il guscio del cuore, 58


e una muta pena ha chiuso i ricordi in una cella, una vuota sofferenza li ha privati della libertà. La sera s'appresta ad oscurare le ombre cupe e nascono echi di vita lontana e di pacata gioia; a chi importa se mi sono comportato lealmente, a chi, se tutti hanno profittato della mia onestà?

Lo stile è sobriamente, (e un po’ sciattamente, a dire il vero), tradizionale, come si vede, caratterizzato da versi lunghi, per lo più variamente ipermetri; nonostante gli asseriti, appassionati studi classici, il Nostro non deve, infatti, avere grande dimestichezza con le misure e le accentazioni metriche, che non sembra però voler ignorare del tutto per la scelta di un “verso libero”, ma, piuttosto, maldestramente imitare nella omogeneità della lunghezza meramente visiva e tipografica dei versi. Ma già prima, in una precedente lirica, “Un mondo in maschera” (2000), a Gelli sembrava premere, più di ogni altra cosa, voler dichiarare il suo credo “etico e civile” in modo ancor più perentorio e diretto:

Ciascuno di noi ha una maschera, deve sembrare ciò che non è ingannare gli altri, in un grande imbroglio che non ha più nome. Ecco le maschere torve dei magistrati che giudicano come vogliono i poteri forti, ecco i ladri di stato che si spacciano per statisti, ecco i luridi sindacalisti che dissanguano i lavoratori, la massa che subisce e si lascia ingannare, si mobilita per le cause sbagliate, mentre, ingannata, tace sui propri problemi. Un mondo in maschera, ecco cosa lasciamo ai nostri figli, una danza di folli. E la certezza che se un onesto si toglie la maschera e grida la verità, viene abbattuto.

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E qui, il suo empito “censorio” strabordante fa addirittura abbandonare ogni composto tratto classicheggiante per una versificazione più scarna e moderna, aspramente colloquiale, quasi declamatoria, e per un lessico più corrente e “basso”, ma retorico e plebeo, più che schiettamente popolaresco, in cui il verso è costruito su un ritmo più claudicante, con continui, ma non molto giustificati espressivamente, enjambement (“che giudicano come vogliono i poteri / forti, ecco i ladri di stato che / si spacciano per statisti, ecco / i luridi sindacalisti che dissanguano / … ). Qui tutta l’abissale ignoranza letteraria del particolarissimo personaggio si appalesa maggiormente, mentre per quasi tutto l’arco della sua produzione più intima, sentimentale, bozzettistica, qualcosa sembrerebbe quasi avere una sua minima dignità formale; si veda questa lirica nostalgica, “Volti così” Da sempre, tu dirai, da sempre l'eco d’una voce misteriosa risale dal cuore di un borgo antico, dal timore di risentire il peso degli anni, il vuoto della memoria che scruta le ombre del colle vicino, la solitudine senza vie d'uscita, la strana fusione di candidi soprusi e di invincibili effetti. Che cosa non darei per rivedere operoso l'antico mulino, lo specchio limpido, un verde mulino, il volto vagamente lieto di mia madre. Tra ronzii d'api l'onda cristallina della sua voce invadeva un tempo dilaniato come sempre dal dolore. Che cosa non darei per rivedere il paziente lavoro di mio padre, forte e libero, bianco di farina, per non cedere alle lusinghe del potere. In quale estinto specchio si fermò quel giorno memorabile lo sguardo antico? Volti così più non esistono.

Ci si potrebbe inoltrare lungamente in tutto l’armamentario pseudo-lirico, piuttosto frusto e stantio, di cui abbonda la sterminata produzione sentimentale di Gelli, che presenta numerosissime poesie amorose per la moglie Wanda, cui ha intitolato, dopo la scomparsa, la sfarzosa Villa, sua residenza di Arezzo, ma non potrebbe che confermarci che ci troviamo di fronte, al di là della sua prolificità inesausta, ad una normalissima figura di mediocre autore di versi, né migliore né peggiore di tantissimi altri, Poeta per “autoinvestitura”, al di 60


là della minuscola, infima manovalanza critica che ha tentato di farne, risibilmente, anche un “caso letterario”. Potrebbe essere, probabilmente, proprio la sua decennale attitudine all’altrui investitura, praticata con i personaggi più disparati, nelle anche troppo tristemente note vicende nazionali, ad avergli fatto acquisire una incontrastabile capacità auto promozionale mediatica, al punto da essere arrivato addirittura a vedere una sua poesia, in televisione, recentemente letta da Alba Parietti, al cospetto di seriosi e titolati, seppur titubanti, opinionisti della circostanza. Ma, d’altronde, il nostro onnivoro Sistema Mediatico e la nostra evanescente Società Culturale, sempre più come concatenate Logge, comunicanti e bipartisan, le cui sordide affiliazioni non sono più neanche tanto segrete, si sono dimostrati sempre molto generosi con i potenti vecchi e nuovi, in qualità di aspiranti e sedicenti letterati. Basti pensare alla narrativa illeggibile di Walter Veltroni, pubblicata da un Editore come Rizzoli, e ai grotteschi tentativi poetici di Sandro Bondi, avallati da un critico, solitamene “severo”, come Davide Rondoni. Di fronte a simili nuovi “campioni” di impudicizia, le goffe velleità elegiache del vecchio Gelli, molto secondarie, rispetto a sue ben altre pregresse nefandezze, riescono a generare, forse, persino una più contenuta “deplorazione”.

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La danza della regina che inventava la Vita di Ilaria Ciancilla

“Che caldo nelle notti d'estate in Zarfrigia.E doveva essere quasi soffocante per chi correva qua e là,all'interno della foresta degli Incubi,nella vana speranza di sfuggire ai tentacoli del buio,oppresso dalla cappa di umidità che il cielo aveva imposto. E l'autunno non arriva mai quando l'inturgidirsi delle ombre annulla il movimento,ogni movimento. E una notte é una vita,forse anche di più. Se anche tu fossi stato là,in mezzo a querce,pioppi,rovi e cespugli,non saresti stato né diverso,né migliore degli altri.”( La ballata della regina senza testa)

Un esordio veramente particolare, quello di Filippo Pace, scrittore che, con La ballata della regina senza testa ( Edizioni il Filo) ha consegnato al pubblico un romanzo affascinante non solo per la sua trama ma soprattutto per l'orizzonte che sottende tutta l'opera : una corsa cieca e impetuosa verso la ricerca del senso dell'esistenza. Un senso che sfugge alle regole, alle convenzioni sociali, all'abitudine che abita talvolta le cose, le persone, i luoghi, svuotandoli della vita, del calore, della passione. Ambientato in un'epoca non precisabile, narra la storia di un ricco e glorioso regno,quello della Zarfrigia, governato da un sovrano, re Carlo, orgoglioso di essere l'ultimo testimone della stirpe Testoringia, da sempre casata di nobili ed impavidi uomini. In una notte d'inverno la sua ultima moglie, Grimilde, finalmente dà corpo, rendendola realizzabile, alla sua più grande ossessione: avere un erede maschio degno di governare alla sua morte la mitica terra. Purtroppo tutti i sogni del sovrano, cullati per anni, si infrangono su una dura realtà: la regina Grimilde dà alla luce una bambina e un attimo dopo muore, consegnando il frutto del suo ventre a Germonda e Scribonia, che diventeranno in futuro le nutrici e protettrici della piccola. Non si tratta però di una bambina qualunque, ma di uno strano esserino sprovvisto della testa. Questo evento inspiegabile e oscuro darà inizio a tutta la narrazione, la quale ruota attorno a questo personaggio femminile che con l'andare degli anni non fa altro che provocare guai di ogni tipo, mossa com'è, così come vuole il suo personaggio, da istinti lasciati liberi di fluire e privi appunto di filtro razionale. Ben presto, crescendo, Teodora, questo è il nome della giovinetta, manda in frantumi tutte le certezze del padre, incredulo nei confronti di una sorte così avversa e del regno che di lì a poco piomberà nel caos. Infatti quando la fanciulla, in età da marito, riceve dal padre la proposta di sposare un giovane di un vicino regno, la Turvenia, anziché accettare e rendere omaggio ad uno spasimante di nobili origini, innamoratosi di lei fulmineamente, decide di rifiutare la sua proposta di matrimonio, nullificando le residue speranze paterne e infrangendo ogni regola e consuetudine consolidata. Basta questo questo a spezzare per sempre l'equilibrio precario che teneva in vita il re Carlo e l'esito di tale spudoratezza é un colpo apoplettico che consegna, dopo breve agonia, il re alla morte. Intanto però è un racconto del giovane giullare di corte Melchiorre, chiamato a raccontare una vicenda che sminuisca il valore della testa (così voleva il re per cercare di convincere il 62


giovane principe della Turvenia dell'ininfluenza di questa, visto che la figlia ne era priva), ad attrarre morbosamente l'attenzione della nobile fanciulla. La storia narra di un uomo, Bernardo, il quale incapace di sopportare il fardello abominevole del corpo e di tutto ciò che esso comporta per l'uomo, si batté così strenuamente contro di esso, fortificando il cervello ed infliggendo al corpo immani torture, tanto da svegliarsi un giorno privo di questo orpello e libero finalmente dalle sue ossessioni. Bernardo, venerato in tutta la Zarfrigia come un sommo sapiente dotato dei poteri immensi dell'intelletto e della parola, soleva spesso incontrarsi con altri luminari del suo calibro nella Foresta degli Incubi, luogo non lontano dal regno, nel quale il sogno e la realtà hanno i contorni poco definiti. E' così fu che Teodora, desiderosa di incontrare il suo opposto, l'uomo senza testa, decise di scappare insieme alle sue nutrici, il giullare e ad un altro bizzarro personaggio, incontrato per caso, Cloridano, nella Foresta degli Incubi, incapace di reggere il peso della discendenza e nauseata dal giovane principe, deciso nel non rassegnarsi al suo rifiuto e volendo a tutti i costi sposarla. All'insaputa di Belisario, nella notte, i personaggi di questa storia fuggono varcando le porte di un regno in subbuglio, ormai nel caos per l'imminente morte del sovrano, allo sbando per le ultime vicende, di cui presto in molti, compreso il giovane principe, approfiteranno. La fuga forsennata li porterà verso la Foresta, luogo carico di pericoli e portatore di incontri straordinari con cavalieri senza identità, bambini con la coscienza di adulti, pittori che lavorano su tele immaginarie, uomini bizzarri, chiamati Ipnofagi, che odiano il sonno e vivono in una spelonca lontani da tutto...insomma si srotola nella seconda parte del romanzo una pars costruens, il vero cammino che attende tutti i nostri personaggi che alla ricerca di un uomo si imbattono nel loro mondo interiore e nel senso che da questo promana. Alla ricerca anche, e soprattutto, di ciò che manca per completare un'esistenza che non può vivere monca. E se tutto sembra un sogno e ci si risveglia solo a tratti, è attraverso questo passaggio nel buio, nel negativo, che i personaggi crescono e si riscoprono, nelle loro debolezze e paure ancestrali, come se la Foresta e i suoi incanti fossero una grande metafora della salvezza e della liberazione che aspetta chi sa vivere lo stupore infantile, chi sa avere uno sguardo lieto e disincantato verso la tragedia del vivere umano quotidiano. Cosa cercavi in Zarfrigia? Probabilmente la stessa cosa che cerca un bambino quando si reca alle giostre: il gioco sfrenato, libero e alieno dalle convenzioni seriose del mondo degli adulti. La Zarfrigia è divenuta così un luogo altro attraverso il quale costruire una prospettiva straniata e irriverente per osservare il mondo e permettermi di sfogare un po’ la rabbia di vivere in una società ipocrita, moralista e repressiva, che strangola il desiderio di libertà degli animi più sensibili e creativi. Viviamo in un mondo in cui tutti vogliono il volto in prima pagina e tu parli di una regina senza testa. E’ anche una critica ai tempi che corrono? La regina senza testa usa il corpo in maniera molto moderna, un po’ come le attrici, le modelle, le ragazze in cerca di visibilità che scorrazzano in Televisione. Ma ha il ‘difetto’, paradossalmente, di essere molto più intelligente di buona parte di queste e ciò la pone quale bersaglio ideale per gli strali di censori e santoni. Fa paura una donna che usa il suo 63


corpo consapevolmente. Intendiamoci: se oggi esistesse una come Teodora magari poserebbe nuda per qualche rivista, ma contemporaneamente si dedicherebbe alla ricerca scientifica e non disdegnerebbe di partecipare a iniziative culturali ed artistiche anticonformiste. Vi è, però, un capitolo nel quale prendo in giro le pagliacciate in stile Miss Italia: le ragazze sfilano nude, sorridono, si abbracciano, fingono di congratularsi con la vincente, ma in realtà non fanno che celare l’invidia nutrita nei confronti delle altre e sono illividite dalla smania di essere acclamate come le più belle. Io ci aggiungo una buona dose di ambiguità e di violenza sensualmente belluina, per rendere il tutto ancor più grottesco. Molti dei personaggi del romanzo appaiono in fuga dal passato quasi risucchiati dal futuro; dimenticare è l’unico modo di vivere? Se non avessimo il dono dell’oblio non potremmo vivere, saremmo sempre schiacciati dal passato e congelati in una forma necrotica, inconciliabile con il flusso ingovernabile della Vita. Nietzsche ha scritto delle pagine meravigliose in merito a ciò nelle sue Considerazioni inattuali. Le avevo ben presenti mentre raccontavo la storia di Teodora e dei suoi compagni. In effetti sono risucchiati dal futuro perché ne sono attratti spasmodicamente. Soffrono di una malattia che all’interno del romanzo viene chiamata nostalgia del futuro. Ne sono affetto anch’io, ma è l’unica patologia dalla quale non vorrei mai guarire. In genere si dice che scrivere aiuti a trovare se stessi, a me sembra che con le avventure della regina tu abbia trovato il tuo inconscio. E hai pienamente ragione! E aggiungo anche che lo cercavo. Senza attingere dal magma furioso delle forze dell’Es difficilmente si può corteggiare la Fantasia. Che rapporto c’è tra il ritmo impetuoso della tua scrittura e la ricerca di completezza e armonia che muove la regina verso Bernardo? Si tratta di un rapporto ambivalente e complesso, strettamente collegato ma allo stesso tempo antifrastico e implicitamente ironico, perché, a mio avviso, l’armonia è un’utopia. La vita procede per conflitti che non generano armonia, è un ribollire di sussulti e battaglie portatori di instabilità. E’ questa anche la natura dell’uomo. Eros e Thanatos si inseguono, si graffiano, si amano, si umiliano a vicenda senza soluzione di continuità. L’armonia la troviamo solo nelle grandi opere d’arte. Ma questo non è il caso della Ballata della regina senza testa. Chi sono i Nulloisti? Gli intellettuali che si contemplano, rinchiusi nelle loro inutili torri d’avorio, intenti a discettare e a disquisire sul Nulla, lontanissimi dalla realtà ed incapaci di influire sul corso delle cose. Ma anche i capocomici dei partiti politici che strepitano e non fanno che ripetere le solite formule vuote ed autoreferenziali e i corifei delle verità assolute e delle certezze incrollabili. L’Italia è sostanzialmente un paese di Nulloisti, in cui la necrosi del pensiero ha fatto il vuoto, e di psicopatici profeti che santificano la vocazione al Nulla in nome di Sua Maestà la Televisione. Però non va dimenticato che la pizza, come la facciamo noi, non la fa nessuno! 64


Con il tuo prossimo lavoro uscirai dalla Foresta degli Incubi? Non è possibile, non troverei né la forza né la voglia di giocare a scrivere altri romanzetti. Anche perché mi sto dedicando ad un genere completamente diverso da quello della Ballata della regina senza testa. In fondo, se ci si ripete che gusto c’è?

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Corpi e anime. Il tragico destino di tre donne ebree di Marta Ajò

Quella che Isabel Vincent racconta in Corpi e anime (Garzanti Editore) è una storia vera e terribile, che trova le proprie radici nella tragedia dell'antisemitismo, e che tuttavia ci regala anche una luminosa speranza. “Corpi e anime” recupera infatti dalla vergogna e dall'oblio il destino di alcune giovani donne ebree, nate e cresciute nell'Europa Orientale, le quali, per sfuggire alla straziante miseria e ai pogrom, abbandonarono i villaggi e i ghetti urbani confidando in una sorte migliore. Finirono purtroppo nelle mani della Zwi Migdal, un'organizzazione criminale interamente costituita da malviventi ebrei, che fino al 1939 avviò molte giovani alla prostituzione, destinandole alle case di tolleranza che gestiva a New York, in Sudafrica, in India e in Sudamerica. Seguendo dalla Polonia al Brasile le tracce di tre di queste ragazze, Sophia Chamys, Rachel Liberman e Rebecca Freedman, “Corpi e anime” ci racconta una vicenda straordinaria e commovente. Perché Sophia, Rachel, Rebecca e le altre polacas, seppur ridotte in schiavitù, sfruttate e oltraggiate, seppero affrontare la loro sorte con dignità e fermezza: mantennero vivo il loro sentimento religioso, malgrado l'ostracismo della stessa comunità ebraica verso queste donne immorali, e costruirono una rete di solidarietà, la ‘Società della Verità’ fondata sull'amore, sul timor di Dio e sulla fiducia reciproca. ***

Tra la fine dell’800 ed i primi anni del ‘900 l’Argentina era appena uscita dal periodo turbolento delle guerre d’ indipendenza dalla Spagna e delle successive lotte interne tra le diverse fazioni che videro contrapporsi Buenos Aires alle altre province, che non volevano perdere la propria autonomia in favore della capitale, vero fulcro dominante di un paese che stava trovando una propria identità politica ed un proprio sviluppo economico. L’economia argentina, favorita da una estesa rete ferroviaria che collegava tutte le regioni del paese con la capitale, ebbe un rapido sviluppo tra il 1880 ed il 1930, quando le sue merci venivano esportate verso i mercati europei. In quel periodo la popolazione aumentò di sette volte, provocando un vero 66


stravolgimento nella fisionomia culturale del paese. La storia argentina dei primi cinquant’anni del ‘900 è caratterizzata dapprima da una forte crescita economica, che segnò la mentalità nazionale e l’ambiente urbano della capitale, dove affluirono migliaia di emigrati europei. In quegli stessi anni, con i flussi migratori si sviluppò con forza uno dei commerci più crudeli che segna la storia di quel paese: la tratta delle bianche. A questo commercio si dedicarono con particolare ferocia ed interesse gruppi di immigrati ebrei, già segnati dalle origini del nazismo. Quelli che si dedicarono a questo lavoro si costituirono in un’associazione, la “Zwi Migdal” che gestiva circa tremila bordelli, quasi tutti nella capitale. A Rio de Janeiro, nel 1913, molte delle 431 case di tolleranza della città erano controllate da ebrei affiliati all'organizzazione. I responsabili della tratta delle bianche furono attirati dalla Rio di fine secolo, giunti lì per eludere i controlli delle autorità di Buenos Aires, intuendo rapidamente il potenziale del mercato del vizio commercializzato in quella che all'epoca era una città sempre più industriale e dove si mescolarono agevolmente ai nuovi immigrati . Naturalmente gli ebrei non erano i soli ad approfittare delle ragazze povere e a detenere il monopolio sulla tratta delle bianche perché all’epoca altre bande criminali di varie religioni e nazionalità avevano fatto la stessa cosa per decenni. Seppure secondo gli storici, giapponesi e cinesi svolsero il ruolo di maggior rilievo in quello che divenne eufemisticamente noto come «il Traffico», ciò che contraddistinse la “Zwi Migdal” fu il suo concentrarsi su donne e ragazze ebree indigenti che venivano indotte con l'inganno a contrarre matrimoni religiosi. Quando partivano dai porti europei, la maggior parte delle giovani che si ritrovavano poi a fare le prostitute a Rio de Janeiro, Buenos Aires e New York, si credeva in procinto di raggiungere i rispettivi mariti in America. Molte di loro non superarono mai lo shock legato alla consapevolezza che i «mariti» erano in realtà protettori che avevano già «sposato» molte altre ragazze per lo stesso scopo. Tuttavia, le documentazioni dimostrano anche che molte, al contrario, sapevano quale destino le aspettava in America. Alcune divennero persino abili tenutarie di bordello e reclutatrici per conto della “Zwi Migdal”. Numerose organizzazioni antischiaviste cercarono di fermare il Traffico. Avvisarono le autorità statunitensi e piazzarono nei porti alcuni loro rappresentanti incaricati di mettere in guardia le fanciulle sui pericoli della tratta delle bianche. Ma questi sforzi da parte della comunità internazionale furono vani. Il Traffico traeva vigore dall'estrema povertà che, all'inizio del secolo, pervadeva le comunità ebraiche dell'Europa orientale. Molte delle ragazze ebree reclutate per la prostituzione provenivano da ghetti urbani sovrappopolati o da shtetl rurali disperatamente poveri. La prima tappa di questa catena di montaggio del vizio erano le «case di istruzione» in cui le donne e le ragazze appena arrivate imparavano il mestiere; gestite da tenutarie spesso sposate con figure di spicco del mondo malavitoso, erano sparse in tutto lo scalcinato distretto a luci rosse nel centro di Rio. Una volta arrivata in città, una nuova recluta poteva restare in una casa d'istruzione anche per due settimane. L' «istruzione» consisteva nel convincerle in tutti i modi ad accettare quel lavoro; venivano percosse e sfruttate finché, apparentemente, acconsentivano a fare le prostitute. In seguito venivano portate a «lavorare alla finestra», ovvero a mettere in atto l’arte dell'adescamento sporgendosi dalle finestre dei bordelli, «una rosa tra i capelli, un'altra in mano, sorridendo ai giovanotti di passaggio». Le «mense» loro destinate erano altrettanto squallide. Nell'ultimo decennio dell'Ottocento a Rio c'erano tre cucine clandestine di questo tipo, allestite come mense dell'esercito, dove le prostitute mangiavano oppure dove i pasti venivano preparati per poi essere recapitati nei vari postriboli. 67


L'elaborata infrastruttura faceva in modo che le donne introdotte clandestinamente in America dall'Europa orientale fungessero da importanti rotelle dell'ingranaggio di quelle che erano efficientissime imprese basate sullo sfruttamento. In un destino parentale fra povere, alcune riuscivano a ritagliarsi un ruolo di partnership con i propri sfruttatori, infierendo su ragazze disgraziate come loro, acquisendo, probabilmente, la stessa ferocia dei loro aguzzini. Le ragazze che rifiutavano di obbedire o osavano denunciare i protettori alla polizia erano spesso vittime di un trattamento crudele: alcune venivano seviziate, altre uccise. *** Il reporter francese Albert Londres, fu molto attento al fenomeno e a documentare in quale modo gli sfruttatori europei introducessero clandestinamente in Argentina queste ragazze. Le autorità si preoccupavano essenzialmente della folla cenciosa che viaggiava nella stiva. Erano quelli i nuovi arrivati problematici, da chiudere immediatamente dietro il cancello metallico verde dell' ostello per gli immigrati. Avevano i pidocchi? Quale genere di malattie stavano introducendo in Argentina? Avevano denaro? Un lavoro? Amici o parenti nel paese? Come intendevano sopravvivere? Ma ben poche delle nuove arrivate destinate alla prostituzione finivano nell'ostello per gli immigrati dove forse sarebbero state salvate da una vita di schiavitù nei fatiscenti bordelli che fiancheggiavano il porto a La Boca, letteralmente la bocca del Rio de la Plata. “La Boca: la Bocca di Buenos Aires. Il più meridionale dei tre grandi porti del mondo. Per arrivare alla Boca bisogna fare altri tre chilometri. Osservate la mappa: vedrete che le donne che sono lì non potrebbero effettivamente scendere più in basso di così. La Boca è la fine del mare. (…) La Boca è come una coscienza che, appesantita di tutti i peccati morali e trascinata a riva, sopravvive alle maledizioni del mondo” (Albert Lourdes). Inizialmente, molte di coloro che si ritrovarono poi nelle case chiuse di La Boca giungevano in Argentina come clandestine, spacciandosi per lavandaie quando s’imbarcavano nei porti europei. Forse erano prive di documenti di viaggio e minorenni. Senza dubbio quasi tutte si credevano dirette in Sudamerica per lavorare come sartine o commesse. Ben poche sapevano quale destino le attendeva. Quando il transatlantico attraccava a Buenos Aires, un gruppetto di passeggiatrici e sfruttatori. Si rivolgevano a loro con domande in yiddish, indirizzate alle giovani donne stanche e intontite che sbarcavano da sole, per attirare la loro attenzione. L'opera di reclutamento era davvero facile? Le poverine finivano cosi di buon grado nei postriboli? Giungevano così in fretta a fidarsi ciecamente di costoro? I protettori «venivano a vederle, a esaminarle, a tastarle accuratamente, perché un dente marcio o un lineamento deformato da un incidente facevano diminuire più o meno considerevolmente il valore intrinseco dell'oggetto». Un vero e proprio mercato dove non era insolito che le autorità locali, per esempio alti papaveri della politica o giudici che erano sul libro paga dei papponi, si dedicassero a un piccolo tour delle aste per poter visionare in anteprima la nuova «merce» giunta dall'Europa. Normalmente il banditore parlava ad alta voce mentre le donne erano costrette a sfilare nude nella stanza, «queste infelici fanciulle, come Frine, esibite davanti a questo areopago di persone meschine». In quel «mercato mobiliare costituito da donne», come lo definì un quotidiano locale, gli spettatori erano incoraggiati ad «avvicinarsi alle schiave per tastarne le forme oppure esaminare certe parti anatomiche onde determinare il 68


loro valore per i bordelli». Alcuni compratori si comportavano come se si trovassero a un'asta di bestiame, ghermendo il seno delle povere tutte, infilando loro le dita in bocca per esaminarne i denti e tirando loro i capelli. Le vergini spuntavano il prezzo più alto, di solito tra le trecento e le quattrocento sterline, una somma cospicua nell'Argentina fin de siècle. Naturalmente il prezzo era giustificato: un «esemplare» grassottello, avvenente e virginale valeva tanto oro quanto pesava e, in qualche mese di lavoro, poteva guadagnare più del triplo del suo prezzo d'acquisto. Unica differenza per gli sfruttatori era considerato lo stato gravidico della donna poiché nessuno di essi desiderava sobbarcarsi il fardello rappresentato dall'acquisto di una donna incinta. Ci sarebbero state spese ospedaliere o parcelle per l'aborto. Naturalmente le si poteva facilmente detrarre, come tutte le altre spese, dai guadagni delle prostitute ma alla fin fine una ragazza gravida non costituiva un prodotto pregiato. Non come una vergine che, a prescindere dall'aspetto fisico, poteva essere pagata cifre astronomiche. A Rio de Janeiro, la rete di postriboli controllata dagli sfruttatori provenienti dall'Europa orientale era organizzata in modo impeccabile. I protettori univano le loro risorse finanziarie per assoldare un esercito di cuochi, tenutarie, avvocati e altri dipendenti il cui unico scopo era far sa che l'attività dei loro bordelli procedesse senza intoppi. Il distretto a luci rosse era dominato, a quei tempi, da ex schiave di colore che si erano date alla prostituzione. Una donna di colore ultracinquantenne nota nel mondo della malavita come Barbuda, dominava i cosiddetti bordelli delle schiave; specializzata nello sfruttare «schiave nere giovani e belle» da lei acquistate negli anni in cui la schiavitù era ancora autorizzata. Tra le dipendenti era famosa per la sua brutalità, imponendo «castighi barbari» a quelle che rifiutavano di cooperare. Anche se le schiave di colore rappresentavano il punto di forza dei quartieri a luci rosse di Rio, l'afflusso di nuovi immigrati e la ricchezza in rapida crescita dell'élite bianca provocò un'enorme domanda di prostitute straniere. *** La maggior parte delle donne di piacere ebree lavorava nelle cosiddette case da cinquanta cent e da un dollaro che, per usare le parole del Bureau di igiene sociale di New York, erano semplicemente «inadatte all'abitazione umana». Le meretrici ebree erano per lo più destinate alla clientela proletaria, «di solito scaricatori di porto, camionisti, spazzini, carbonai, soldati e marinai, immigrati giunti di recente e con bassi standard morali, e operai di ogni genere». Lavoravano come schiave, soggette a quello che un ispettore definì il «brutale» trattamento dei protettori. Il registro contabile di un bordello da cinquanta cent attesta che una certa prostituta ricevette 273 uomini in due settimane, «una media di 19 al giorno (il suo picco fu 28 in un solo giorno) , fruttando alla casa 136,50 dollari». Altre due donne dello stesso postribolo ricevevano tra i 120 e i 185 uomini a settimana, con una di loro che soddisfò 49 69


clienti in un unico giorno. Naturalmente, quasi tutte soffrivano di malattie veneree di ogni genere. Gli studi d'igiene condotti nella città agli inizi del secolo scorso mostrano che circa l'ottanta per cento delle prostitute di Manhattan aveva una malattia trasmessa per via sessuale che spesso le portava alla morte, una morte solitaria e priva di ogni conforto. Quelle che assistevano ai loro funerali sicuramente temevano la stessa fine tanto che ad un certo punto, decisero di impedire che anche a loro toccasse lo stesso destino. “In vita sopportavano umiliazioni, abusi ed emarginazione, ma la morte era diversa. La mattina di buon' ora, quando nei bordelli regnava il silenzio, quante di loro restavano sveglie a pensare alla morte nell'angusto letto dall'intelaiatura metallica, accanto a un cliente che russava? L'idea di mori re non le tormentava, era il rischio di farlo senza dignità che le ossessionava. Qualcuno si sarebbe ricordato di loro? Ci sarebbe stata una lapide con il nome sulla loro tomba? Qualcuno avrebbe recitato il Qaddish per loro?”. Le prostitute e gli schiavisti coinvolti nella tratta delle bianche nell'America latina erano rigorosamente banditi dalla comunità ebraica rispettabile, l’unica che avrebbe potuto aiutarle. Costrette alla schiavitù sessuale lontano da casa ed evitate proprio dai loro simili, le prostitute ebree di Rio de Janeiro fondarono quindi una propria organizzazione religiosa e caritatevole che non ha precedenti storici in nessuna parte del mondo. L'organizzazione nacque come confraternita funeraria volta ad assicurare un'adeguata sepoltura ebraica alle sue iscritte, che nel 1916 avevano già acquistato l'appezzamento a Inhauma per farne il loro cimitero e prima degli anni Quaranta comprarono un edificio al centro di Rio che trasformarono in sinagoga e uffici amministrativi. Benché il suo nome ufficiale, tradotto dal portoghese, fosse Associazione filantropica e funeraria ebraica, la maggior parte dei suoi membri la chiamava con il suo nome ebraico, Chesed Shel Errmess, “Società della Verità”. Le donne che ne facevano parte si definivano «sorelle» e quelle che costituivano il consiglio direttivo divennero note come «sorelle superiori». In concorrenza a questa, anche i protettori fondarono organizzazioni benefiche e religiose di mutuo soccorso dirette da loro stessi ma in realtà per assicurarsi una prosperità duratura e conquistare un prestigio che non si sarebbero mai visti concedere all'interno di comunità di ebrei perbene. A New York i principali responsabili di questa “tratta”, che possedevano e gestivano i bordelli del Lower East Side in cui lavoravano prostitute dell'Europa orientale, formarono nel 1896 l'Associazione benefica indipendente che, fondata come società finalizzata al commercio e ai servizi funebri, nel suo periodo di maggior successo guadagnava più di un milione di dollari netti grazie al commercio di carne umana nella sola New York Ma l'organizzazione creata dalle donne a Rio de Janeiro era unica perché fondata non dagli oppressori bensì dalle oppresse. «L'aspetto straordinario di questa vicenda è che in nessun'

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altra parte del mondo le prostitute, soprattutto ebree, si sono riunite per creare una propria associazione religiosa» (Zevi Ghiivelder) che mantennero in vita per più di mezzo secolo. Fu proprio nei primi anni del Novecento che alcune di loro cominciarono a parlare della creazione di una loro società funeraria, un progetto davvero radicale per un gruppo di donne emarginate decise a metterlo in atto da sole. Il l0 ottobre 1906, una prostituta chiamata Mathilde Huberger convocò una riunione straordinaria in un fatiscente bordello nei pressi del porto. Lei e le altre otto polacas che vi si presentarono sapevano a stento leggere e scrivere, ma in qualche modo riuscirono ad abbozzare il progetto per un'organizzazione che chiamarono Associazione ebraica benefica e funeraria. Avevano scopi davvero ambiziosi: oltre ad aprire una sinagoga intendevano fondare una scuola religiosa per i loro figli, e con le quote mensili che il direttivo avrebbe raccolto dalle iscritte si sarebbe istituito un fondo speciale volto a fornire alle donne tutto quello di cui potevano avere bisogno durante la vecchiaia: farmaci con prescrizione medica, visite di specialisti, cure ospedaliere e shabbat. *** Anche Sophia Chamys, Rachel Liberman e Rebecca Freedman, le tre donne ebree di cui racconta la Vincent, erano giovani donne ebree cresciute nell’Europa Orientale e anche loro per sfuggire alla miseria , abbandonarono i villaggi e i ghetti cittadini, alla ricerca di una sorte migliore. Anche loro furono ridotte in schiavitù e costrette a prostituirsi, come accade a migliaia di altre donne ebree. Giudicate impure dalla comunità semitica ed espulse dalle sinagoghe, venne loro rifiutata la sepoltura ebraica.. Seppur oltraggiate e sfruttate, Sophia, Rachel e Rebecca, affrontano la loro sorte con fermezza e dignità mantenendo viva la loro fede. Il racconto che fa l’autrice, ci riporta a quella moltitudine di polacas arrivate con il piroscafo, ignare della propria sorte; a Sophia Chamys che, tredicenne, non aveva mai conosciuto un uomo come quello che credette suo marito e anni dopo, in Brasile “quando raccontò la sua storia alla polizia, ricordava ancora il profumo dell'olio di lavanda che lui usava sui capelli e la sensazione che le davano i suoi fazzoletti di seta sulla pelle. Ma soprattutto ricordava le sue mani, cosi eleganti e lisce, come quelle di un bambino. Nello shtetl alla periferia di Varsavia, dove lei divideva con i genitori e la sorella minore una casetta dal tetto di paglia con una sola stanza, tutti avevano mani da lavoratore: deformi, perennemente screpolate, bruciate dal sole e coperte di vesciche indurite” e che forse credeva davvero di essere arrivata in quel paese, incredibilmente ricco e fiabesco, 71


chiamato America. Le morti erano molto frequenti fra le polacas e Rebecca Freedman si offrì di lavare i loro cadaveri “In qualità di ebree pie, tutte le prostitute avrebbero dovuto essere ansiose di collaborare al tahara, la purificazione e preparazione rituale dei cadaveri alla sepoltura, ma la verità è che ben poche di loro avevano il coraggio di rimanere ferme accanto ai corpi afflosciati e nudi delle colleghe per lo più giovani donne - stesi sul tavolo di marmo bianco nella casetta accanto al cimitero. Ben poche riuscivano a costringersi a ripulire da sangue secco ed escrementi le vittime di un omicidio o a fissare troppo attentamente l'espressione tormentata delle suicide, molte delle quali sembravano affrontare la morte con l'intontimento sbigottito di sempre, gli occhi sgranati come se avessero davvero compreso l'orrore del loro atto solo quando ormai era troppo tardi. Per alcune l'odore putrido della carne in decomposizione era semplicemente troppo. Impregnava i vestiti, si insinuava sotto la pelle, rivoltava lo stomaco. Ecco perché erano cosi grate a Rebecca e non si interrogavano mai sulle sue motivazioni, sulla sua ossessione per la purificazione. La donna maneggiava i cadaveri con grande solerzia e profondo rispetto. Con dita pazienti staccava la garza incrostata di sangue dalle ferite da coltello, chiudeva delicatamente gli occhi itterici delle vittime della febbre gialla, sfilava gli indumenti cenciosi fradici di sudore, lisciava con acqua e una spazzola i lunghi capelli arruffati, toglieva addirittura il sudiciume da sotto le unghie. A quel punto, con l'aiuto di un'altra donna, versava l'acqua contenuta in varie caraffe di terracotta allineate sotto il tavolo di marmo, svuotandole sul corpo della defunta. Sapeva che questo simboleggiava il miqwè o bagno rituale finale a cui si sottoponevano le donne ortodosse dopo ogni ciclo mestruale. Per anni immaginò che l'acqua lavasse via la vergogna e le sofferenze delle ragazze degli shethl, le fanciulle venute così volentieri in America a cercare fortuna solo per ritrovarsi completamente inermi e sole. Esisteva forse un destino peggiore che morire di febbre gialla, in miseria, su un materasso puzzolente in un bordello di scandole così lontano da casa? Sì. Per un ebreo era di gran lunga peggio morire senza dignità e con l'anima macchiata. Quante prostitute ebree erano spirate senza la redenzione finale delle acque? Quante erano morte impure?” Rebecca Freedman non era presente alla prima riunione della Società della Verità, ma non aveva alcuna importanza. I suoi servigi e la sua ossessiva dedizione all'ente le valsero il rispetto delle donne, che sarebbero giunte a definirla la loro regina. Rebecca Freedman non è sepolta nel cimitero delle prostitute a Inhauma. Quando morì, nel 1984, la Società della Verità era ormai scomparsa da tempo e non restava nessuno che potesse seppellirla nel camposanto che era diventato il simbolo della sua lotta. Quasi tutte le sue amate sorelle erano scomparse già da molti anni. Rebecca, che viveva ai margini della società, lottando per conquistare la dignità e il diritto di praticare la sua religione, riposa tra gli ebrei «perbene» nel cimitero ebraico di Caju. ***

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Purtroppo le cose raccontate in questo libro, basate su documenti ed una ricerca precisa, non ci allontanano molto dalla realtà delle odierne schiavitù cui le donne sono sottoposte. Pur essendo passato ormai più di un secolo, giovani donne dei paesi dell’Europa dell’est vengono indotte al mestiere di prostitute e subiscono gli stessi violenti maltrattamenti, quando non se ne ritrovino i cadaveri. All’ epoca dei fatti narrati non solo povertà ma anche, o inoltre, l’antisemitismo, convogliarono una moltitudine di ebrei/e fuori dai propri paesi. All’interno di questi gruppi di uomini, disposti a tutto per cogliere un benessere facile, la prima azione che si compì fu lo sfruttamento verso il più debole. Nel caso di genere, verso le donne si è compiuta (e si compie) una vera e propria azione criminale e discriminatoria che appare difficilmente estirpabile alle radici della storia. La miseria è la prima imputata, responsabile all’origine di questo percorso; ma una volta che essa conduce verso il degrado e lo sfruttamento, le cose assumono una luce ancora più sinistra. Quello che colpisce ancora è la scala di potere che si forma fra oppressori ed oppressi nella gestione dello sfruttamento. Si stabilì, infatti anche fra le sfruttate, una sorta di leadership e alcune di esse si offrirono come collaboratrici dei malfattori nell’adescamento prima, nell’obbligo all’esercizio di prostituzione poi, infine nel controllo totale della persona. Un ciclo vizioso: la società contro gli ebrei, gli ebrei contro le ebree, le nere contro le bianche, le ebree inserite nel giro contro le giovani reclute…una sorte di gironi infernali che in questo libro si evincono con molta crudezza. Eppure, nonostante tutto e alla fine, l’unica forma di solidarietà che queste donne riescono a mettere in atto è proprio fra di loro, quando prendono coscienza che davanti alla morte sono tutte, indistintamente, sole e abbandonate come cani sul ciglio della strada. L’autrice si sofferma nel raccontare come, nonostante quell’immane tragedia, la loro “Società della verità”, nacque, si organizzò e crebbe; essa consenti, se non di eliminare il dolore dell’esclusione, di recuperare almeno la dignità umana. Ed è tutto ciò che rende tragico ma anche straordinario il racconto di Isabel Vincet.

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(foto di Paola Pluchino)

CAMMINAMENTI Nicola Amato, Reportage: il fenomeno sociale e comunicativo dei blog Paola Pioppi, La “nera” fatta da una donna Erika Ranfoni - Il tempo di Eva

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Reportage: il fenomeno sociale e comunicativo dei blog di Nicola Amato

Quando parliamo di blog ci riferiamo in genere a una sorta di diario personale che viene messo online per poter essere fruito dall’utenza della Rete. Io ritengo che etichettare un blog semplicemente come un diario sia alquanto riduttivo. Vedremo perché nel proseguo di questo articolo. Dedichiamoci ora a scoprire cos’è nello specifico e come è nato. Il termine blog, che comunemente utilizziamo, non è altro che la contrazione di web-log, che tradotto dall’inglese significa "traccia su rete". Il fenomeno ha iniziato a prendere piede negli Stati Uniti quando, il 18 luglio 1997, è stato scelto come data di nascita simbolica del blog, riferendosi allo sviluppo, da parte dello statunitense Dave Winer del software che ne permette la pubblicazione (si parla di proto-blog), mentre il primo blog effettivamente pubblicato lo si ha il 23 dicembre dello stesso anno, grazie a Jorn Barger, un commerciante americano appassionato di caccia, che decise di aprire una propria pagina personale per condividere i risultati delle sue ricerche sul Web riguardo al suo hobby. Per quanto concerne invece la versione tronca "blog", è stata creata da Peter Merholz che nel 1999 ha usato la frase "we blog" nel suo sito, dando origine al verbo "to blog" (ovvero: bloggare, scrivere un blog). La nascita dei primi servizi gratuiti dedicati alla gestione di blog ha fatto sì che anche in Italia venissero di moda i blog. Attraverso i blog, la possibilità di pubblicare documenti su Internet si è evoluta da privilegio di pochi (università e centri di ricerca) a diritto di tutti (i blogger, appunto). Ma chi sono in realtà i blogger? Bella domanda! Sarebbe il caso ora di entrare in maniera più approfondita nel merito di chi effettivamente sono i blogger, cosa scrivono, cosa vogliono, che rapporti sussistono tra loro ed i blog su cui scrivono. Ho voluto analizzare il fenomeno sociale e comunicativo dei blog, pertanto, per diversi mesi, armato di tanta pazienza ed altrettanta curiosità, ho trascorso ore ed ore giornalmente a leggere, analizzare e monitorare tantissimi blog, ad interagire con molti blogger, a scoprire chi c’era dietro un blog, quale personalità vi si nascondeva dietro e se il personaggio recitato sul blog corrispondeva effettivamente alle peculiarità reali del blogger. Ho cercato di chiedermi cosa spingesse un blogger a scrivere determinate cose anzichè altre, ho cercato di entrare nella sua mentalità e nel suo ambiente socio-culturale. Il risultato? Dati straordinariamente interessanti. Vediamone alcuni. Iniziamo dai blog che hanno come tematica principale o esclusiva quella del sesso. Sono tantissimi, una miriade. Perchè? La ragione per cui molti, anche i maschietti più insospettabili e che invece nel blog si dedicano all’arte del "tacchinamento" e ad approcci di 75


tipo sessuale molto espliciti, e le donne più morigerate nella vita comune che sui blog invece si trasformano dedicandosi al sesso online e all’esibizionismo postando una marea di fotografie pornografiche che farebbero arrossire persino una pornostar, è proprio dovuto alla peculiarità del canale trasmissivo di questo atto comunicativo, ossia Internet. La Rete, infatti, consente di interagire con chiunque in maniera anonima o con dati personali, nickname per esempio, puramente fittizi, in modo che non possano ricondurre a collegamenti con la persona reale che c’è dietro. E si sa, protetti dall’anonimato, molti individui sono portati ad assumere atteggiamenti che esulano dai normali comportamenti di vita quotidiana, proprio per il fatto di essere irriconoscibili. Si da sfogo così alle proprie frustrazioni, ai propri desideri più reconditi e magari repressi nella vita reale. Una sorta di doppia personalità, insomma. Si scopre così che molti blogger che nella vita reale sono timidissimi diventano sfacciati nelle interazioni del blog o viceversa, oppure persone comunemente mansuete nella vita quotidiana che si trasformano in iene feroci ed adulatori della violenza, quasi come se il blog rappresentasse una valvola di sfogo sociale. Ecco perchè dicevo all’inizio di questo reportage che sarebbe riduttivo definire un blog semplicemente un diario personale con pensierini giornalieri. E’ qualcosa di più, molto più complesso e strutturato di quanto non si pensi. E’ un fenomeno sociale da tenere in seria considerazione. Sebbene abbia riscontrato diversi casi in cui non si palesava eccessiva differenza tra il blogger in quanto normale individuo e il blogger "attore" che recita la parte nel blog, sono comunque tantissimi i casi che ho riscontrato a conforto della tesi di trasformazione socioculturale. Sento già la domanda di qualche lettore perspicace che vorrebbe chiedermi come ho fatto a scoprire la vera identità di alcuni blogger e a confrontarla con quella falsata del blog. Iniziamo allora col dire che un’altra cosa che ho riscontrato nel tipo di comunicazione nei blog, a parte una diffusa carenza di efficacia comunicativa, ad eccezione naturalmente di alcuni casi, è proprio la scarsa pianificazione della comunicazione attraverso il blog. "Nonpianificazione" che porta inevitabilmente a minare il campo dell’anonimato rendendo così il blogger come colui che si nasconde dietro un dito. A volte basta un piccolo errore, il non aver considerato un dettaglio, che tutto il castello di anonimato cade come una pera cotta, come pure i buoni propositi di essere efficaci al cento per cento. Qualche esempio? Il blog di una stupenda ragazza, all’incirca una trentina d’anni. Il suo profilo, con foto estremamente hard e molto sexy, è di quelli che mette in circolazione gli ormoni maschili alla sola sua lettura. Leggendo poi i contenuti dei vari post si ha una vera e propria apoteosi di danza di ormoni. Ebbene, tutto il blog è impostato in questo modo, a parte un piccolo errore. Infatti, nella parte del blog di solito riservata ad informazioni sulla navigabilità, c’era una lunghissima lista di link apparentemente tutti consoni al tipo di argomentazione espresso nel blog. Uno in particolare, però, attirò la mia attenzione in quanto aveva un testo che non aveva nulla a che fare con la terminologia sessuale ma si riferiva a una scuola di danza del ventre. Non ho potuto fare a meno allora di seguire il link e mi sono trovato davanti ad una serie di fotografie. Una di quelle ritraeva una ragazza, intenta ad eseguire un passo di danza del ventre. Guardandola meglio mi convinsi che si trattava esattamente della stessa persona. Sono riuscito così, navigando nel sito della scuola di danza, a scoprire nome, cognome, professione, indirizzo di casa e persino che la donna in questione era sposata con due bambini. Per levarmi completamente il dubbio l’ho contattata nella messaggeria privata del blog e, vincendo la sua resistenza e diffidenza, dopo diversi giorni di interazione alla fine sono riuscito a farmi dire ciò che volevo sentire, ovvero la conferma che fosse proprio lei. 76


Una tranquilla e comunissima mamma dunque, il cui unico sfizio è quello di andare a scuola di danza, ma che nell’anonimato, o ritenuto tale visto che l’ho scoperta, toglie i freni inibitori. Altri esempi significativi in cui sono riuscito a palesare gli errori di comunicazione commessi nel blog e che hanno reso vano il principio dell’anonimato sotto cui i blogger credevano di nascondersi sono davvero tanti. Ne cito solo alcuni senza entrare nel merito delle storie, altrimenti l’errore comunicativo lo commetto io rischiando di uscire dal seminato e quindi da quanto pianificato. Emblematici sono i casi di una importante manager di una nota catena di fast food che sul blog si da all’esibizionismo più sfrenato, oppure alla giornalista di una emittente privata locale che sul blog si trasforma in una appassionata del sesso orale. O ancora, un dirigente di alto livello che nel blog diventa adepto delle tecniche più particolari del sesso quali bondage, slave e mette chiaramente annunci nel quale si cercano delle "padrone" che lo facciano soffrire e lo trattino come l’ultimo dei cani. Sembrano certamente dei paradossi, ma vi garantisco che è tutto vero. Altra tematica molto ricorrente nei blog ho riscontrato essere la poesia. Noi italiani siamo davvero un popolo di poeti. Esistono una marea di blog dedicati alla poesia. La cosa straordinaria è che non sono blog di poeti veri e propri ma gente comune che fa i lavori più disparati e che attraverso il blog riesce ad esercitare la vena poetica repressa e la propria passione per i versi. Anche qui molti sono gli insospettabili, molto più le donne degli uomini, gente che a vederla dal vivo mentre esercita la propria attività lavorativa non gli daresti un centesimo di considerazione per quello che concerne la poetica; cassiere di supermercati, parrucchiere, operai, ingegneri, sarte, casalinghe, che di colpo si trasformano in creatori di versi poetici davvero profondi e talmente concepiti bene da rendere difficile un raffronto con una poesia creata da un professionista dei versi. Strettamente correlati ai blog di poesia vi sono poi tutti quelli dedicati alla scrittura, ai racconti, al giornalismo, ai commenti su vicende quotidiane. Per non parlare poi di quelli dedicati all’amore, alla passione, ai sentimenti. Una consistente fetta inoltre riguarda i veri e propri diari personali dove vengono inseriti pensieri vari sugli argomenti più disparati e vicende di vita quotidiana vissute. Concludo questo reportage con altre due tipologie di blog che hanno destato il mio interesse e alimentato la mia curiosità. Ho constatato che ci sono tanti "non blog", ovvero, il blogger si è preoccupato di crearsi un account, lo ha riempito con i dati relativi al profilo e, stranamente, non ha creato nessun blog pur essendo spesso online. Ha creato insomma una sorta di finestra sul mondo da cui si affaccia per vedere cosa succede e come la pensa la gente. Si badi bene, a prima vista potrebbe sembrare una partecipazione esclusivamente passiva, ma non è così. Infatti, questo tipo di blogger, pur non avendo uno spazio tutto suo per esternare i suoi pensieri, è comunque attivissimo, e lo fa commentando tantissimo i blog altrui. Ultima tipologia di blog di cui vorrei parlarvi è quella degli indecisi. Gli indecisi sono quelli che, come i blogger precedenti, hanno creato un bel profilo ma in aggiunta hanno fatto lo "sforzo" di creare il loro blog. Si tratta molto spesso di blog quasi vuoti o con pochissimi post e, di solito, il primo inizia con frasi del genere: "...non so cosa scrivere....i miei amici hanno insistito che lo facessi...ce l’hanno tutti il blog e quindi anch’io ci provo a 77


farlo...". Di solito questo blogger trascorre tutto il tempo che è online a leggere, senza commentarli, i blog altrui, con la speranza che prima o poi gli venga un’idea brillante su cosa scrivere sul proprio. Davvero un fenomeno sociale dilagante da tenere in costante monitoraggio quello dei blogger, la cui peculiarità è insita nel fatto che camminano in equilibrio precario su una sottile e fragile linea rappresentata da finzione e realtà inculcando confusione, o forse false credenze, nel lettore che fruisce della comunicazione dei loro blog. Il fattore rilevante, e per certi versi pericoloso di tutto ciò, è che spesso i blogger stessi cadono nel vortice della crisi di identità rimanendo invischiati nel dualismo realtà-finzione.

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La “nera” fatta da una donna di Paola Pioppi

C’è sempre un dettaglio che colpisce e dal quale inizia a raccontare: la vecchia pistola usurata, il pezzo di marciapiede calpestato poco prima da un uomo che aveva appena ucciso e stava fuggendo, il bossolo a terra circondato da un cerchio di gesso, gli occhi sbarrati di un ragazzo steso sul tavolo anatomico, il berrettino rimasto abbandonato accanto alle lamiere di un’auto in cui sono morte due persone, la posizione composta di chi sembra che debba rialzarsi da un momento all’altro, e che invece non lo farà mai più. Poi la concitazione di medici e infermieri, l’odore del sangue che ti rimane in testa per ore, la frase sbagliata che ha fatto scattare l’aggressione, che ha spinto la vita della vittima in una direzione drammatica. Le grida di chi soffre per una ferita fisica o per il dolore di una notizia straziante, capaci di penetrarti e angosciati più della vista del corpo esanime di uno sconosciuto su cui si è accanita la peggiore violenza. La cronaca nera e giudiziaria è un susseguirsi di accadimenti oggettivi, di racconti fatti sulla pelle di persone che in quel momento sono vulnerabili e fragili, perché distratte dalle disgrazie, incapaci di comprendere e reagire ciò che si sta affollando attorno a loro. E’ un gioco di equilibri delicati, difficili da percepire se non dopo anni di faccia a faccia con cui infligge e chi patisce, chi indaga, chi ci guadagna e chi cerca di salvare. Fare cronaca significa cercare di capire in fretta i motivi e le persone, le contingenze, significa fare sempre il possibile per non sbagliare e non screditarti, distinguere buone e cattive fonti, fare tanto in poco tempo, perché un quotidiano si confeziona in poche ore e deve avere tutto. Fare la cronaca nera, e anche la giudiziaria, da un punto di vista femminile, significa faticare per sgombrare il campo dalla faciloneria di chi arriva con scollatura e minigonna che sostituiscono la preparazione tecnica, mettere da parte l’attimo di sconcerto in cui devi renderti conto che ancora bisogna confrontarsi con questo. Significa passare le giornate in ambienti maschili e maschilisti, verticalizzati e militari, tenergli testa, capire quando devi mettere da parte per presentare il conto più lungo e quando devi azzannare subito, quando puoi parlare e – soprattutto – quando devi stare zitta. Sbagli, per eccesso o per difetto, e un po’ alla volta aggiusti il tiro. Ti imponi delle regole e decidi che non vuoi 79


regali e nemmeno favori, perché non servono a guadagnare la fiducia. Semini per anni e aspetti, finché qualcuno inizia a chiederti di essere la sua voce, di raccontare un fatto con le tue parole, si confida sapendo che non verrà mai tradito, e che tu lo tutelerai anche di più di quanto non faccia lui stesso. Finché ti avvicina una piccola donna che tre settimane prima ha ucciso quattro persone e ti dice: “Ho letto l’articolo che parla di me: lei ha scritto le cose proprio come le ho dette io… non credevo che i giornalisti facessero anche così…”.

Paola Pioppi è giornalista, corrispondente del quotidiano Il Giorno. Da sette anni organizza la rassegna di narrativa poliziesca La passione per il delitto, di Monticello Brianza. E' consulente organizzativo del Premio Azzeccagarbugli al Romanzo Poliziesco di Lecco.

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Il Tempo di Eva di Erika Ranfoni

DITTICO EVA ADAMO ROBERTO MATARAZZO “Tre cose io trovo mirabili anzi quattro, che mai conoscerò: la via dell'aquila addentro il cielo, la via del serpente sopra la rupe, la via della nave nel cuore del mare, la via di un uomo in un corpo di donna” (Proverbi 30, 18-19).

La Storia dell'uomo, la sua memoria e il suo tempo iniziano dopo la Creazione. Il soffio divino è anima, la terra è materia, il cielo è mondo. Ma qualcosa manca. L'uomo è un Io perfetto ma defettibile: è un eterno senza ritmo, è un cuore che non pulsa, un'epidermide che non vibra. E' bocca senza Verbo. Nella sua perfezione nulla sorprende, nulla emoziona, nulla tocca e sanguina. Nulla è mirabile perché tutto è evidente. Ma come in ogni opera d'arte che si rispetti, c'è nell'Incipit dell'ontologia dell'Uomo un secondo atto, un colpo di scena, l'Altra possibilità celata e rivoluzionaria. Il suo nome è Eva. Sinuosa forma, vibrante materia ricavata non dalla terra ma dalla carne stessa del suo Uomo, Eva è creata per trasformare l'Uno in Due. Eva è la sanzione dell'incompletezza mutata in evento miracoloso. Eva genera il segreto dell'Essere nel mistero della relazione e della inter-azione. L'incontro tra Adamo ed Eva è l'epifania della Creazione, la rivelazione di due volti, due 81


identità che nel riconoscersi ed amarsi sanciscono l'uno il diritto dell'altro all'esistenza. “I volti di un uomo e di una donna non sono essenze statiche, ma mobili. Appaiono in temporanea sospensione nell'istante dell'incontro. In quello d'amore, in particolare. L'incontro d'amore ha un tono che definirei apocalittico; rivela lo straordinario avvento della faccia d'uomo o di donna, coi loro trucchi e verità, svelati nel rendez-vous dell'esistenza” (Nadia Fusini, I volti dell'amore, Mondadori Milano 2003) . L'uomo è Imago divina che, dunque, raggiunge l'apice della sua perfezione solo nell'istante in cui lo sguardo innocente dei due volti di Adamo ed Eva s'incontrano. Uno sguardo sancisce il diritto e il peccato dell'esistenza. Ma c'è una fondamentale differenza tra i due sguardi, una differenza intesa nei termini di una radicale ed ontologica diversità tra i due esseri femminile e maschile. L'uno scopre, l'altro ascolta, l'uno risveglia, l'altro attende. Eva da anello mancante diviene il motore mobile di una ri-voluzione nel perfetto e statico cosmo dell'Eden. “E Dio avrebbe preso l'uomo e deposto nel giardino dell'Eden, per lavorarlo e custodirlo. Poi il Signore Iddio comandò su Adamo dicendo: Di ogni albero del giardino mangiare potrai. Dell'albero della conoscenza del Bene e del Male non mangerai, giacchè nel giorno in cui ne mangerai di morte morirai”. ( Genesi 2, 15-17) “Non morireste affatto! Infatti il Signore sa che, nel giorno del vostro mangiare da esso, i vostri occhi si spalancherebbero e sareste come il Signore, conoscitori del Bene e del Male! Allora vide la donna che l'albero era buono, ne mangiò e ne diede anche al suo uomo, che era con lei e questi ne mangiò” (Genesi 2,24; 31-13). Sono questi i passi cruciali della Genesi, i passi che segnano la Caduta dell'uomo nello stato di Essere radicalmente storico e temporale. Quattro le parole feconde di colpa: conoscenza-morte-occhi-mangiò. Scrutando attentamente queste parole ci si accorge facilmente di come esse siano divise in due coppie di genere diverso. La coppia Conoscenza-Morte rimanda a qualcosa di astratto, la coppia Occhi- Mangiò denota qualcosa di concreto e sensibile. Eva Vede, desidera conoscere, freme, vibra la sua anima al solo pensiero di gustare il sapore e il sapere. Eva poggia le sue labbra sulla polpa carnosa del frutto proibito e ne offre al suo uomo. Adamo afferra e morde e con Eva e come Eva si trasforma. La meraviglia, lo stupore, la sensazione vibrante del desiderio, il morso della fame di conoscenza sancisce la metamorfosi dell'Essere immortale in perituro Essere Vivente. La vita si paga con la morte. Umano troppo Umano il tocco di Eva, il suo ingegno tradisce il disegno divino. “Antico dono di donna, il cibo,. E' anzi il primo gesto che la donna compie. Prima di parlare, e prima di generare e prima di morire. Il suo primo gesto è una mano che coglie, una bocca che assaggia, un braccio che porge insieme a due occhi che dicono: Prendi”( Elena Loewental, Eva e le altre, p.91, Bompiani Milano 2007). Eva è la rivoluzione del tempo. Eva è la pietra angolare del nuovo incipit del miracolo della vita, capace di mutare la colpa in giorni, attimi ed istanti, costruiti ad uno ad uno con spasimi, dolore, gioia, stupore. Eva è la chiave di volta della Creazione. E' Lei, non Adamo, a caricarsi la colpa, a squarciare il velo cristallino del perfetto Eden. Eva ascolta, Eva sceglie, prima paladina di una volontà libera e candida. La sua carne, prima immortale, porterà per sempre il dono del peccato, il frutto dell'ardore e della passione. Il suo grembo si squarcia, come quel velo, per mostrare il cibo proibito: la Vita. Paradosso divino, Eva è condannata a custodire in sé il segreto della mortalità e a generare attraverso di esso il mistero ed il miracolo dell'eternità del reale. Dal morso mortale Lei, solo Lei, Via Mirabile, genererà il soffio della vita. Labbra del peccato, le sue, saranno il nuovo Verbo di carne e sangue, labbra mortali, periture e madri dei nostri battiti, dei nostri occhi, delle nostre lacrime, dei nostri sorrisi. Eva madre del Presente. 82


(Foto di Paola Pluchino)

PONTEGGI Antonio Fiori, Tutti i cognomi. Note sulla nominazione dei poeti Morena Fanti , La vita è solo un vuoto a rendere? Quando i libri non sono romanzi

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Tutti i cognomi Note sulla nominazione dei poeti di Antonio Fiori La potenza creatrice della nominazione. Parodiando il titolo di uno dei più bei romanzi di Josè Saramago, Tutti i nomi, mi accingo a fare qualche osservazione sul peso della citazione dell’ autore vivente nella critica letteraria. Già nella Bibbia si dispiega tutta la forza della Parola, che quando nomina, per il fatto stesso di nominare, chiama all’esistenza il nominato. Questa interpretazione attraversa i secoli e con Heidegger raggiunge, con particolare riferimento alla poesia, una notissima sistemazione teoretica. Non deve dunque meravigliarci troppo il desiderio di molti autori d’essere nominati, antologizzati o anche solo inseriti in un lungo, pure opinabile elenco di nomi da ricordare. È una questione di vita o di morte, trattandosi, nientemeno, dell’esistere o del non esistere. Il discorso però, prima ancora d’incominciare, riesce a complicarsi: una certa critica militante pratica ad esempio, da molto tempo, la famigerata stroncatura a carico dello scrittore di turno. Non paga, per inconfutabili ragioni di coerenza, prende spesso a bersaglio anche storici della letteratura, recensori e giornalisti, rei di sviste, sopravalutazioni e sottovalutazioni del tutto inescusabili. È in questo acceso panorama che si collocano le legittime aspettative dei nostri autori. I loro atteggiamenti, sotto questo profilo, sono molto variegati e consentono di individuare – anche in base all’aneddotica - numerose categorie e sottocategorie: ci sono i questuanti, gli ansiosi, gli alchimisti, gli sfrontati…Tutti comunque attenti ad informarsi ed informare, comunque invidiosi, quasi sempre delusi. Limitandomi al campo della poesia italiana, che meglio conosco, ne azzardo una panoramica. Esiste un primo insieme di poeti che si tiene fuori della mischia, che non partecipa, d’iniziativa, a eventi di alcun genere e resta in paziente attesa di riconoscimenti (premi alla carriera, pagine di enciclopedie, tesi di laurea o monografie sulla propria opera); in apparenza distaccati e poco informati, sono in realtà, quasi sempre, informatissimi e orgogliosissimi. Si tratta di poche decine di poeti. Un secondo gruppo di autori, più nutrito del primo, è piuttosto attivo e sembra gratificato dal proprio ‘fare’. Questi poeti spesso dirigono una rivista letteraria, un premio, una fondazione o un circolo culturale. In genere sono in contatto tra loro e con un numero rilevante di altri poeti. Seguono abitualmente le rispettive produzioni letterarie e sono ormai 84


presenti, in modo diretto o indiretto, sulla rete telematica. Stiamo parlando, all’incirca, di un centinaio di autori. Un terzo gruppo di poeti è fitto di nomi, sono autori meno noti ma sempre iperattivi. Hanno quasi tutti almeno un paio di pubblicazioni alle spalle, si confrontano costantemente nell’ambito di comunità virtuali o regionali, in molti partecipano a premi importanti di poesia e a blog letterari, collettivi o personali. Il desiderio di molti di loro, non troppo nascosto, è di riuscire un giorno a fare il ‘salto’ e ritrovarsi nel gruppo precedente. Possiamo stimare che questo terzo gruppo di poeti sia composto da tre/quattrocento persone.

Il quarto gruppo è un mistero. Non si riesce a quantificare il numero, le caratteristiche, le ambizioni dei suoi poeti. Non si sa neanche se leggano con costanza buona poesia, se conoscano la storia della nostra letteratura, se abbiano qualche autore di riferimento, se siano consapevoli d’essere in cammino. Eppure è da questo bacino che la poesia sta attingendo e attingerà ancora. Ed una certa parte di responsabilità, a questo proposito, ricade sui ‘gruppi dirigenti’ di cui si riferiva prima. Si tratta comunque, certamente, di molte migliaia di persone. Tra esse, cercare per credere, si nascondono perle di grande valore. In questo descritto panorama, che forse farà sorridere gli addetti ai lavori, che senso dovremmo dare alla citazione, all’apparire del nome (e del cognome)? Intanto bisogna dire che tutti o quasi i poeti dei primi tre gruppi sono comparsi, almeno una volta, in riviste, quotidiani nazionali, antologie di premi, archivi di vario genere; più d’uno è già citato in manuali di storia della letteratura o in antologie scolastiche. Bisogna inoltre osservare come oggi sia più significativo, per far sentire la propria voce, il concreto operare, il fare, il poiein piuttosto che la nominazione tout court. La rete dà inoltre una possibilità di vita virtuale sufficientemente lunga per lasciare una traccia e potersi – per primo l’autore – ritrovare e rimettersi in discussione. Direi anzi, da questo punto di vista, che i recuperi in rete del nome, coi motori di ricerca, sono assolutamente impietosi e bisognerebbe trarne una lezione per l’autocontrollo della propria produzione e la sua ‘deriva’ nel web. Come avrete notato, nessun nome né cognome di poeta italiano compare, volutamente, in questa nota; sta a chi legge, se crede, provare l’effimero gioco della propria e altrui collocazione nei gruppi e nei caratteri qui abbozzati. L’invito serio, invece, è di rileggersi e interrogarsi continuamente. Qualche lettura consigliata Massimo Onofri, Recensire, Donzelli, 2008 Alfonso Berardinelli, Poesia non poesia, Einaudi, 2008 Alberto Bertoni, Trent’anni di Novecento, Book, 2005 Andrea Afribo, Poesia contemporanea dal 1980 ad oggi, Carocci, 2007 Marco Ercolani, Vertigine e Misura. Appunti sulla poesia contemporanea, 2008, La vita Felice 85


La vita è solo un vuoto a rendere? Quando i libri non sono romanzi di Morena Fanti Il disagio giovanile è una cosa che ben conosciamo, un passaggio inevitabile della crescita, un modo spesso doloroso per raggiungere chi siamo e diventare adulti. Mai come in questo periodo però questo disagio ha avuto un peso così forte e un aspetto così preoccupante. Dalla lettura di Cocaparty (Bompiani, Grandi AsSaggi 2008) e di Ho dodici anni faccio la cubista mi chiamano principessa (Bompiani, Grandi AsSaggi 2007), libri basati su storie vere, quelle di Cocaparty raccolte in strada da Federica Angeli ed Emilio Radice*, e quelle di Ho dodici anni raccolte sul web da Marida Lombardo Pijola*, emerge una realtà angosciante e dolorosa, una famiglia distrutta e senza valori. L’attenzione mancata, il tempo che sembra non esserci mai, sono i nuovi modus della nostra società, di questi anni convulsi che ci scivolano sopra senza lasciarsi dietro nulla se non ferite. Dall’inchiesta di Angeli e Radice è uscito anche un articolo, pubblicato su "la Repubblica", che ha suscitato molto scalpore e anche un certo allarme, soprattutto nelle forze dell’ordine che si sono sentite colpite da ciò che usciva da questo articolo: una loro impotenza nell’arginare certi fenomeni sociali. Dal fronte famiglie, invece, nessuna reazione. Eppure sono le famiglie ad essere chiamate in causa più direttamente, scrivono gli autori, perché a drogarsi è una generazione di ragazzini. Basta uscire in strada e osservare – la ricerca è stata fatta a Roma, ma ciò non ci deve né consolare né tranquillizzare - i gruppi di giovani e giovanissimi (parliamo anche di dodici/tredicenni) che sono ovunque, si muovono compatti e sono spesso riconoscibili dal modo di vestire o da altri segni distintivi che li accomunano e li fanno sentire ancora più "gruppo". Al gruppo non importa nulla di nessuno. Importa solo il gruppo e il riconoscersi negli altri che ne fanno parte. Il gruppo diventa la loro "famiglia". Perché in fondo, una vera famiglia a volte non l’hanno. I padri e le madri sono distratti. Fino a diventare assenti nella considerazione dei figli, presenti solo quando diventano diretti antagonisti e si oppongono a quella che i ragazzi credono (sentono) essere la loro vera vita, quella a cui aspirano. Ma come sono queste famiglie? Alcune sono benestanti, abitano belle case e possiedono begli oggetti, oggetti che diventano simboli e feticci dell’importanza, della visibilità delle persone. Oggetti che servono ad avere il rispetto degli altri: Da Cocaparty, pag 30 86


"Quando il sabato sera o la domenica pomeriggio esco con Luigi (il figlio del vostro carissimo amico l’avvocato, quello che abita ai Parioli, ha la Smart per spostarsi in città, la Lamborghini e Espada da collezione, il Suv nero della Porsche per andare a Porto Ercole e il quindici metri della Beneteau per prendere il tè sopra coperta) e vado in discoteca o in giro per Roma, non faccio altro che sballarmi pippando cocaina. La sniffo, me la fumo, e a volte vorrei pure provare a schizzarmela. Così, tanto per vedere se l’effetto è lo stesso, se al posto del palato e delle labbra e della gola ti si addormenta, che so, il braccio o la gamba o la vena. E vorrei dirvi che fra noi è normale, e che non mi stanco mai, perché la coca è la droga più fica del mondo, quella che non ti fa più essere timido e che non ti fa vergognare di un cazzo, quella che ti fa stare bene e che ti impone. Perché, se c’è una cosa che ho imparato da voi, cari genitori, è che bisogna sapersi imporre. Vero, papà (che poi non sei il mio vero papà)? L’hai sempre detto anche tu: "Al comando ci devono stare quelli che sanno comandare." E io ti ho preso alla lettera. E siccome qui fra di noi tutti vogliono comandare, e vogliono rispetto, e vogliono che le ragazze non facciano le stronze ma facciano le donne, noi pippiamo." La droga diventa allora un ‘approccio chimico per la comunicazione’ un acceleratore violento’, un ‘passaporto di complicità’ per integrarsi e per sentirsi riconosciuti. E chi si droga pensa sempre di essere più bravo degli altri e pensa che a lui non procurerà danni o incidenti. Da Cocaparty, pag 63 " Forte la coca, ti mette diritto come una spada, lucido come uno specchio. Ti fa sentire tutto positivo. A me piace da morire, e non è vero che poi è così pericolosa. Anzi, io quando la prendo mi sento più sicuro. Metti che guidi, no? Beh, io guido meglio. Se prima avevo un’incertezza, con la coca non ce l’ho più, può capitare la cosa più improvvisa e so subito che fare. Sono stronzate quelle che dicono che è pericolosa, sono cazzate allo stato puro. Tutto sta nel manico. Se uno è incapace non c’è nulla da fare, con la coca o senza. Ma se uno è in gamba tutto gli gira meglio. Ed è la stessa cosa nel sesso. Fantastico… devi solo provare…" "Devi solo provare". Ed è così, infatti, che iniziano i ragazzi: facendo una prova, spinti da amici o da qualche spacciatore che bazzica i luoghi ‘giusti’, quelli in cui sa di trovare nuovi discepoli da educare alla sniffata. Di giorno anche vicino alle scuole (e anche dentro alle scuole: i ragazzi che fumano o tirano da più tempo, fungono da spacciatori intermedi) o nei luoghi di ritrovo dei gruppi, e la sera nelle strade e nei locali della movida: locali in cui si beve e si balla tra musica assordante e ci si "sballa" tutti insieme. Tra queste strade, vicino a questi locali, passa anche Nando, un parcheggiatore abusivo che in strada ci passa le serate e che ha visto le trasformazioni del quartiere e anche delle persone. Alla notte "ci sono un mucchio di ragazzini che non hanno mai niente da fare, beati loro, hanno i soldi in tasca e del resto se ne fregano", e le ragazze ballano sui tavoli mezze svestite e poi escono a tirare un po’ di coca e quando la finiscono la cercano da chi ce l’ha, oppure cercano qualcuno che possa dare loro i soldi per comprarsela. Vendendo quello che hanno, anche il loro corpo, in cambio di una dose. Sballo, alcol, coca, musica, sono le cose che cercano e quelle che vogliono. Solo quelle e al diavolo il resto del mondo. Di fronte a questi comportamenti, di fronte ad una situazione che sembra inarrestabile, cosa si può dire? Poco, o forse nulla. Ci si sente impotenti. Da Cocaparty, pag 102: "Parola di Nando: il mondo si è rigirato, però sembra che a nessuno gliene frega niente. E allora anch’io mi faccio i cazzi miei". Molto impressionante anche la testimonianza di un medico del pronto soccorso che vede 87


arrivare ragazzini in fin di vita, magari dopo un incidente in motorino successo perché la droga aveva rallentato le reazioni e annebbiato il cervello, oppure successo perché la coca rende aggressivi e basta un gesto, o uno sguardo che sfotte, per scatenare una rissa. I ragazzi, spesso adolescenti, arrivano in barella, feriti, e non vogliono confessare di aver fatto uso di droghe. E i genitori implorano il medico di salvarli. Ma dove eravate prima?, chiede il medico. E poi si interroga: da Cocaparty, pag.135: "… e io non sono solo un medico, sono anche un padre di famiglia. In ogni adolescente che arriva qui vedo i miei figli e mi dico: io che parlo tanto, poi lo so fare davvero il papà? Siamo o non siamo dei bravi genitori? Oppure un giorno mi rinfacceranno: "Dove stavi mentre noi ci sbattevamo in giro, mentre anche noi ci ubriacavamo e giravamo per strada strafatti di cocaina? Dove sto?[…] Sto qui con la mia sapienza professionale che è del tutto insufficiente a contrastare quello che è una sorta di ematoma umanitario". Mancanza d’attenzione per questi figli, il rifiuto di parlare dei problemi illudendosi che tutto vada bene e che l’argomento non li tocchi: questi sono i comportamenti che vengono riportati in queste pagine, questo è il quadro ‘disastrato’ che esce di queste nostre famiglie. A volte si preferisce non parlare di una cosa piuttosto di affrontare le discussioni che potrebbero sorgere. Forse evitando di dare importanza all’argomento, si può fingere che non esista? O forse pensiamo di saperne abbastanza. Ma noi, cosa sappiamo di queste droghe e degli effetti che hanno sui nostri ragazzi? Quanto pesa la noredrenalina, la dopamina, quanto dura l’emivita della cocaina? pag.143. E’ sempre il medico che parla: " … già, l’emivita. Nessuno sa cos’è l’emivita. E’ il tempo dell’effetto, il tempo che quella robaccia ti tira su e poi ti butta a terra, depresso, con le crisi isteriche, con i rumori strani che ti ronzano nel cervello, con la pelle che ti sembra animata dagli animaletti, con le spie che ti perseguitano, con i nemici che si nascondono dietro al frigorifero. Nessuno sa niente di niente e però se la prendono, la "neve", perché fa fico, perché fa forte. […] Lo volete sapere cos’è la cocaina? E’ una droga violenta. E’ una droga maledetta, che arriva qui sotto forma di fantasma, di overdose invisibile, e noi, disarmati, dobbiamo sconfiggerla." Ma la coca non è l’unico feticcio dei nostri ragazzi, non è l’unico stimolo che guida i loro gesti. Cosa si nasconde dietro gli adolescenti (spesso dodici-tredicenni) che riempiono le discoteche il sabato pomeriggio? Che cosa cercano queste bambine cresciute in fretta mentre si dimenano sopra un cubo lasciandosi guardare dai coetanei ma anche non, che si infiltrano nei locali per guardare proprio loro, queste ragazzine che qualche mese prima giocavano ancora con le bambole? Cosa li spinge a questi atteggiamenti? L’urgenza di bruciare le tappe, l’aggressività che spinge a dimostrare di esistere, di essere, ma anche una forte devozione al guadagno e agli affari. Questi ragazzi hanno il mito del corpo, del sesso, dell’apparire, e tutto ciò significa fare soldi, avere carriera e successo. Le loro famiglie sono prive di autorevolezza, i genitori sono figure opache e non 88


riconosciute nel loro ruolo genitoriale. Sentono il vuoto, questi ragazzi, e cercano ogni modo per chiedere attenzione, ascolto, aiuto e non precipitare in quel buco di nulla che abbiamo regalato loro. Ecco che vestirsi in un certo modo serve a dare loro delle conferme: "Sono visibile, sono bella e mi guardano. Ho un’identità". Ed ecco che certi oggetti diventano il simbolo del loro stare attaccati al mondo, del loro "esistere" per gli altri. Il modo convulso con cui scambiano messaggi con il telefono, l’uso del pc e delle chat, sono cordoni ombelicali che li tengono uniti agli amici e che quindi, li rendono vivi. da Ho dodici anni faccio la cubista, pag.171 Elisabetta "Forse stasera mi uccido, ma non è sicuro. Rinvio se la strega mi ridà il cavo del pc che mi ha sequestrato e io posso connettermi a msn e chattare e aggiornare il diario sul mio blog e abbellire il template, così Luca lo guarda e vede com’è bello e mi ama di nuovo, mi chiede scusa e poi torna da me e io non devo più uccidermi, non proprio oggi che in televisione danno The O. C. seconda serie, e si saprà se Marissa finalmente scopa con Ryan, o se invece trova il coraggio di tradire Lou. Non voglio morire senza saperlo. Posso sempre uccidermi più tardi". pag.175 "Quando il mio cellulare tace, io non appartengo. Sono un’ombra. Mi metto a digitare freneticamente per non scomparire, squilli a Carlotta, cuoricini a Luca, sms per Massimo, Nicola, Antonio, bastano due parole, dove sei, come va, che fai, il senso non conta, non conta neppure la risposta, conta soltanto esserci, comunicare, stendere un filo tra due capi per interrompere il vuoto, attraversarlo." E poi c’è sempre questo senso di inadeguatezza che li fa sentire indifesi verso la vita, quella vita che ti "tende le imboscate". Nessuno ti prepara ad affrontarla e soprattutto non i genitori che a volte si limitano a chiedere se hai studiato e se vai bene a scuola e la mamma ti prepara la cena a base di minestrone, quando i problemi di questi ragazzi, ciò che loro sentono come problemi, sono ben altri: pag.172 "Che cosa conta essere impreparati in storia quando si è impreparati alle imboscate della vita, anzi è la vita che è impreparata a te, non ti capisce, ti maltratta, e ti rovina addosso, ti seppellisce sotto un mucchio di macerie? Luca, la disco, il cellulare, il pc, msm, la chat, gli amici, la musica e i film da scaricare, il template, tutto finito, un deserto, è un’ecatombe e io sto morendo soffocata, mi sto spegnendo, mi sto consumando come una candela in questa casa, intrappolata in una cucina triste che puzza di brodaglie davanti a una ciotola con il minestrone, un liquido verdastro nel quale mi pare di vedere galleggiare i pezzi sminuzzati di me stessa, e lei che continua a prepararlo tutte le sere anche se sa che lo odio, come una strega che prepara i suoi filtri malefici…" Si sentono spesso impotenti gli adolescenti, sentono di non avere il controllo su niente, in una vita in cui tutti vogliono comandarli e dire loro cosa devono fare, dai genitori agli insegnanti, e alla fine trovano una forma d’espressione nell’agire contro se stessi, 89


graffiandosi e infliggendosi piccole ferite sulle braccia (facilmente occultabili sotto lunghe maniche difensive) pag.182 "Mi graffio da quasi un anno. Mi chiudo in bagno e lo faccio. Quando la lametta incide la mia pelle e un fiotto di sangue mi scivola sul braccio, è come se tutto il male uscisse da me e la mia anima si svuotasse dal dolore, travasandolo tutto nel mio corpo. A volte mi sento stupida e cerco in questi gesti un senso e non lo trovo. Ma non so fermarmi. Provo un piacere acuto, un’ubriachezza, come se fossi dotata di un superpotere sul mio corpo, come se fossi in grado di imprimergli delle modifiche, dei cambiamenti." Per alcuni di questi ragazzi la rabbia è la grande amica, la compagna che non si allontana mai dal loro fianco e anche l’unica che può tenerli ancora qui. La rabbia verso il mondo, verso i genitori e chiunque voglia esercitare su di loro un’autorità, chiunque voglia imporre il proprio pensiero o esprima un giudizio. da Ho dodici anni faccio la cubista, pag.133 Saverio "Nessuno può sapere come volo quando mi calo le pasticche o mi fumo i cannoni o sniffo o bevo e ballo e sono fatto, e dentro di me si libera la rabbia e io la lascio scorrere e la rovescio fuori come un’onda, così che infranga ogni argine interiore e poi travolga tutto, gli oggetti, le persone e la vita maledetta che mi fa gli agguati ma io l’affronto, anzi, la sfido, la provoco senza lasciarmi intrappolare. E’ la mia complice, la rabbia, che se ne sta rannicchiata come una belva nella parte più profonda di me stesso […] Io mi chiamo Saverio e ho dodici anni, E ognuno di questi anni è servito a dilatare la mia rabbia, a farla crescere finché non è diventata grande come me, simmetrica, profonda, inseparabile, sempre benvenuta, la mia vera compagna, il mio destino, io e lei da una parte, insieme, e il resto del mondo dall’altra." La rabbia monta dentro di loro e diventa un’onda inarrestabile che li spinge ad essere cattivi verso i loro coetanei, e a terrorizzarli in veri episodi di bullismo, arrivando anche a rubare per avere i soldi che servono per la droga e soprattutto, per sentirsi potenti, per essere "qualcuno". Rubare è quasi come avere un lavoro: pag. 148 "Rubare è come un gioco, una sfida, basta aspettare la preda che hai scelto fuori dalla scuola e poi terrorizzarla. […] Rubare è la mia febbre. Mi fa sentire in gamba, più adulto, più efficiente, come se avessi già un lavoro." Uscire dal quartiere che puzza e andare in centro è un modo per pensare al futuro, per desiderare il riscatto da quella vita che sentono solo come un peso. La rabbia genera pensieri

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terribili, anche di violenza verso chi penserà di fermare questo futuro. Fra rabbia e violenza il passo è breve e ognuna alimenta l’altra: pag.151 "Andare in centro è come lanciarsi nello spazio, lasciare un mondo per cercarne un altro negato ai terrestri, lontano, sconosciuto. […] Loro, invece, non guardano mai te. Non esisti, sei aria, non sei nulla, come se avessi scritto in faccia da dove vieni e ciò che sei e ti portassi addosso la puzza di periferia, di quelle case buie dai muri scrostati, del cielo sudicio, degli zingari sotto i ponti, dei poveri, degli straccioni. […] Ma un giorno, lo giuro, io sarò un altro. Andrò lontano, un giorno. […] Se qualcuno prova a fermarmi, io lo ammazzo. Non è difficile, basta che chieda aiuto alla mia rabbia. Lei arriverà immediatamente, benvenuta. Lei mi risponde sempre. Non mi lascia solo." La conclusione a cui arrivano questi adolescenti è che i grandi mentono e ai grandi non si deve credere. Da Ho dodici anni faccio la cubista, pag.34 Ilaria "Non credere ai grandi, sai, sono bugiardi. Usano male gli occhi, le orecchie, le parole. Ti vedono senza guardarti, ti sentono senza ascoltarti, ti parlano senza sapere mai le cose. Vorrebbero farti diventare come loro, vorrebbero che tu tradissi le regole del gruppo, anche se poi così non saresti più nessuno. Spariresti. Io, se avrò dei figli, non chiederò mai loro di essere diversi dagli altri e poi sparire. Non dirò bugie. Non le avrei dette neppure al non-bambino." Ma il messaggio che arriva forte e chiaro è che quando non mentono, i grandi tacciono, soprattutto sulle cose importanti, e il silenzio diventa la colonna sonora di quelle case, spesso molto belle, in cui le famiglie abitano: Da Ho dodici anni faccio la cubista, pag.56-57 Filippo "… chiudo a chiave. Il territorio è al sicuro. Non ci saranno più attacchi fino a cena. Allora bisognerà uscire allo scoperto: venti minuti seduti attorno al vuoto, mamma, papà, io, mia sorella Chiara e il silenzio, anzi, i rumori del silenzio, perché anche il silenzio ha i suoi rumori: piatti, posate, liquido che sgorga nei bicchieri, e i passi del filippino, la sigla del telegiornale. Tutte le case hanno un audio, e il nostro è quello. […] Non a tavola, no, a tavola non si litiga, si rimanda a dopo, con la tensione che si gonfia nel petto e fa contrarre i volti e contamina l’aria che respiri. […] dopo la frutta, via, si può rientrare, ognuno nel proprio territorio, al sicuro, finalmente." Ma questi sono solo discorsi, direbbe qualcuno. La verità forte e tagliente che esce da tutto ciò è una cosa difficile da digerire, ed è il senso di vuoto che è impossibile da eliminare e che

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i nostri ragazzi sentono come presenza incombente della loro vita. A volte come unica presenza: da Cocaparty, pag. 127 "Siamo i figli della generazione di mezzo. Non abbiamo né un posto né uno scopo. Non abbiamo la Grande Guerra né la grande depressione. La nostra grande guerra è spirituale. La nostra grande depressione è la nostra vita" (M.F.) * Federica Angeli e Emilio Radice sono giornalisti di Repubblica. Si occupano di cronaca nera e Radice è caposervizio. Marida Lombardo Pijola é inviata speciale del Messaggero.

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(foto di Paola Pluchino)

GIARDINI Sei poesie inedite di Henri Michaux tradotte da Lucetta Frisa GIARDINI A CURA DI FRANCESCO MAROTTA La voce che parla dal margine - Augusto Amabili Yves Bonnefoy – La voce dell’ombra tra fiamma e gelo Francesco Tomada - Antologica Note sulla poesia di Enzo Ferrari (con testi inediti del poeta)

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Sei poesie inedite di Henri Michaux * Tradotte da Lucetta Frisa

Pigrizia Pigrizia: sogno senza fine che sogna la vita imperturbabile, parentesi fluida Intorno, mappe, progetti, partenze, palazzi cadono, si alzano, si rialzano, Pigrizia sogna sul suo pozzo che si approfondisce.

Paresse Paresse: rêve sans fin qui rêve indérangée La vie, parenthèse fluide Alentour, projets, plans, départs, Des édifices tombent, montent, remontent, Paresse rêve Sur son puits qui s’approfondit Pianure dove si plana Pianure sopra alte pianure di nuvole dove si plana si plana si planerebbe per sempre. Infine la terra lievemente riaffiora bassa, costruita, troppo costruita, appiattita vasto tappeto percorso dall’alto,da molto in alto, verso imperiosi tracciati a lunghe linee. L’ala grande, dove siamo, vira …si posa. 94


Ritorno, piste, corridoi… l’aria smorta talpe buie rientrano nel buio.

Plaines où l’on plane Plaines par-dessus de hautes plaines de nuages on plane on plane où l’on planerait toute la vie La terre pour finir revient faiblement Basse, batie, trop batie, aplatie Large tapis parcouru de haut, de très haut, Vers d’impérieux tracés en longue lignes. La grande aile,où l’on est, vire …se pose Retour, réseaux, couloirs…l’air si fade Taupes obscures rentrant dans l’obscur Situazione-busto Busto senza testa, addio testa, a questa apparizione che interferisce sempre. Sorrisi che spìano, il busto fa a meno di parole, fili che annodano, riannodano trattengono Senza spiegazioni, perfetto, il busto simile a un Faraone. Chi può spogliare un busto? Adesso a gruppi… Busti che passano.

Situation-Torse Torse sans tête, adieu à la tête, cette comparse qui toujours interfère De sourires qui épient, le torse se passe 95


de paroles, ficelles qui nouent, renouent retiennent Complet sans explication, le torse à l’égal d’un Pharaon Qui peut dépouiller un torse ? Des ensembles à présent… On voit passer des torses Dove posare la testa ? Un cielo un cielo perché non c’è più la terra, senza un’ala, lanugine o piuma d’uccello, senza vapori solo, solo cielo un cielo perché non c’è più la terra Dopo il colpo di grisù nella testa, la disperazione,l’orrore, dopo che più nulla c’è stato, tutto affondato, devastato, persa ogni via d’uscita, un cielo gelidamente cielo Ora ostruito,sbarrato, colmo di macerie; un cielo nato dall’emicrania della terra spogliata del cielo cielo perché non c’è più posto per posare la testa Traversato, ristretto, rientrato, tarpato, a tratti sfatto, nelle esplosioni e nei fumi irrespirabile buono a nulla un cielo introvabile, ormai.

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Où poser la tête ? Un ciel un ciel parce qu’il n’y a plus la terre, sans une aile, sans un duvet, sans une plume d’oiseau, sans une buée strictement, uniquement ciel un ciel parce qu’il n’y a plus la terre Après le coup de grisou dans la tête, l’horreur, le désespoir après qu’il n’y a plus rien eu, tout dévasté, sabordé, toute issue perdue un ciel glacialement ciel Obstrué à présent, barré, bourré de débris ; ciel à cause de la migraine de la terre dépourvue de ciel un ciel parce qu’il n’y a plus nulle part où poser la tête Traversé, rétréci, rentré, rogné, défait intermittent, irrespirable dans les explosions et les fumées bon à rien un ciel désormais irretrouvable Dettati Teste curve Diligenti Nessuna si rialza Non lo permette il dettato Gli insegnamenti si aggiungono agli anni Dei movimenti si avvertono gli atti, a volte,seguono una sorta di certezza Richiami insistenti: risposte a un dettato iscritto in ciascuno, in piccolo, in piccolissimo Non si annoiano a obbedire a un dettato? Una volta, nella sua grandezza 97


L’Infinito coi suoi nomi sacri… Restato solo, minimo, tenace attraverso gli anni e le rughe, il sordo dettato continua, sempre in silenzio gli infimi dèi incorporati comandano senza parlare.

Dictées Penchées Têtes appliquées Aucune ne se relève La dictée ne le permet pas Les enseignements s’ajoutent aux ans Des mouvements sont ressentis Des actes parfois suivent des sortes de certitude Insistants attraits : réponses à une dictée Inscrite en chacun, en petit, en tout petit Ça ne les gêne pas d’obéir à une dictée ? Autrefois, dans sa grandeur L’Immense aux noms sacrés… Restée saule, menue, tenace traversant les ans,les rides, la sourde dictée continue, en silence toujours les infimes dieux incorporés commandent sans parler

Sul tagliamare Sopra un alto tagliamare che solca un mare senza onde un essere in piedi curvo in avanti Passano obliqui altri tagliamare Il loro occupante anche lui curvo Nessun porto. Porti ignoti 98


A volte qualche segnale da tagliamare a tagliamare che allora si avvicinano.

Sur étrave Sur une haute étrave fendant une mer sans flot un être debout penché sur l’avant Passent obliquement d’autres étraves leur occupant pareillement penché Pas de port. Ports inconnus Quelques signes parfois d’étrave à étrave qui alors se rapprochent

*In Déplacements, dégagements, Paris, Gallimard, 1985, pp. 39-45 e 52.

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La voce che parla dal margine. Augusto Amabili (con testi inediti del poeta) di Francesco Marotta

“Distruggete i manoscritti, ma conservate ciò che avete tracciato a margine, per noia, per disperazione e come in sogno”. (Osip Mandel'štam)

L’epicentro del dramma, di quell’ “evidente / prova di morte / ch’è diventata la vita”, dello spazio sgranato dall’arsura nel quale/intorno al quale si consuma – e si (ri)genera: in una sofferta, sotterranea tensione catartica che ne orienta l’intero alfabeto – la scrittura di Augusto Amabili, è esattamente rintracciabile e circoscrivibile (perché tale viene poi restituito dall’autore, attraverso cadenze dissonanti e sghembe o frammentate istantanee, in tutta la sua umorale e meditata compiutezza, come in una sacrale offerta di sé senza ripensamenti, senza nessuna concessione estetizzante o moralistica) nella percezione netta del rischio che la parola poetica, usurata dall’esposizione all’inessenziale, si trasformi, come accade quotidianamente, in una rituale e blasfema epifania di segni incapaci di ascolto, privi di essere e sostanza (“La pagina / piena, stropicciata a margine / argina appena / l’afrore dei vuoti a perdere”): praticamente, in uno sguardo neutro, orizzontale, svuotato della profondità lacerata/lacerante che sola permette di cogliere l’ampiezza del taglio e il processo di sedimentazione di quel grumo convalescente che condensa la cicatrice e la memoria, il principio ultimo, senz’altro riscontro che la sua permanenza, di una speranza mai dismessa (“una croce / fortunatamente di luce / (che) / raggiunge la fronte e la benedice”). Il “rischio”, leggibile nella natura stessa della frana, nella dantesca ruina che investe le regioni più profonde del reale e le dispone a una lenta, inesorabile rarefazione in funzione del nulla di pensiero e di spirito che inietta nelle vene dei giorni, va comunque affrontato e vissuto, stazione dopo stazione, col volto consapevole di chi è in cammino sulla via crucis di una sacra rappresentazione senza resurrezione e senza ascesi: con le stesse pupille vigili di chi attraversa la malattia mortale che riverbera il suo veleno dal senso alla lingua e dalla lingua al corpo, in un percorso che è accumulo progressivo di coscienza critica e, contemporaneamente, certificazione dell’impossibilità della guarigione in forme che siano diverse dalla trasformazione di noi stessi in un corpo di ferite (“nella lapide a rotelle / di me stesso che è il corpo sono imploso”). Coscienza e certezza allora non significano resa, bandita da un dire che, tormentando la lingua, si costringe a reinventarsi ogni volta, ma accettazione del baratro (“trovo distruttivo violare il tentativo / fallito di un volo additandolo dal suolo”), volontà di accamparsi e di dimorare sui margini, su una linea di confine che si sposta sempre più in là, a ogni tentativo di definirne le 100


coordinate in modo certo e univoco: quasi che l’esilio sperato nelle terre materne del verso, come un sofferto approdo/ritorno alla matrice dove immergersi e scomparire per sempre alla vista/artiglio della storia, fosse nient’altro che una impietosa, voluta riemersione alla visione e agli strali del rogo, dell’intrico venoso di umanità in fiamme al cui riverbero accecante si sono mossi i primi passi, verso un’oltranza alimentata da quella stessa luce ferita. La discesa a precipizio nella ruina, quasi ad afferrare e ad abbracciare, nei frammenti dolenti che marcano come lampade d’ombra le strade, la propria stessa polvere, per trattenerne il respiro, l’anemos che tuttavia resiste e ancora non si appartiene completamente al silenzio, segna, per Amabili, la linea di demarcazione di una predisposizione vocazionale, una mimesi impura che si gioca, nell’atto della scrittura come nella vita, in un’offerta definitiva e irreversibile, che affonda le sue radici in una remota cristologia paganeggiante senza altari e senza officianti: quella del proprio corpo, eletto a emblema sacrificale di ogni rimozione e di ogni abbandono operati dalle logiche del dominio e della reificazione imperanti. Più il bisturi infetto del presente affonda nella carne viva di cui si nutre e con cui alimenta i suoi sterili bagliori, tanto più il corpo-poesia resiste e si dispone a farsi strumento, a lasciarsi attraversare dalla miriade di voci-vite in transito inquieto: una sorta di calice sonoro dove le parole malate, e le storie agonizzanti o ebbre che si trascinano, si immergono per un battesimo che non redime e non guarisce, ma è pura restituzione, sillaba dopo sillaba, di una stilla di dolore e di fraterno legame con le cose, che altrimenti andrebbe perduta, consegnata per sempre al deserto e all’oblio. C’è bisogno di una morte che si imprima col fuoco negli specchi del segno, affinché altra vita riprenda a scorrere, a riconoscersi e a tentare con movimenti di marea il primo argine, a ricostruire dalle macerie la dimora e il canto della prima lingua; c’è bisogno di un sacrificio maturato con pazienza nel silenzio, figlio dell’assenza e dell’attesa, alimentato dalla sete e dal buio che sciamano inudibili a rovescio di ogni cono di luce, ricondotto ad altezza di occhi e di sguardi capaci di ascolto, di rabbia e passione, di dolcezza e timore, di orgoglio e disperata dedizione: c’è bisogno di immolare, strappandola a morsi dalla superficie incrinata del foglio, tutta quella poesia che tradisce la sua originaria e inappagata tensione all’insorgenza, quella che, ammantata di perfezione formale e di ricercata effimera bellezza, di aspirazioni senza sangue e di raffinate epistasi di (im)mondo, essa stessa vuoto simulacro di albe artificiali senza mattino e senza tramonto, non sa più farsi grido. Perché altra è la bellezza, sanguinante e muta, che bussa alle porte del verso: ed è tutta nella mano ancora capace di accogliere e dare voce a ogni ferita, che in quell’atto/attimo sa ricreare la stretta che unisce e il suo destino, diventare un’unica urlante sostanza con essa (“Ora che sei Luce / come chi ci precede / prega per me / che sono solo a chiudere il cancello.”): con tutto il carico di dolore, di storia taciuta o negata, che ogni creatura si trascina, come un dono inesprimibile e inconfessato, nel passaggio. La poesia è allora il labbro colmo di parole delle strade disegnate per ardere tra i resti, i rifiuti e i frantumi, ancora palpitanti e vivi (“i buchi degli aghi / come i fori dei chiodi sono solchi di terra / che permettono al seme di fecondarla”), di una qualunque periferia dell’esistere: madre dei sentieri liminari, senza geografia e senza mappa, che custodiscono intatta l’eco smisurata di tutti quei passi, senza vicenda e senza voce, che li hanno attraversati: proprio come il lume in lontananza, irraggiungibile, che conserva tutta la libertà di una rosa fiorita, all’insaputa della morte, sulla pelle piagata delle notti. 101


*** Testi inediti di Augusto Amabili Occorrerebbe coprire di pudore il presente e spedirlo affrancato in una busta al primo che capita Di fronte ad un'evidente prova di morte ch’è diventata la vita, abituata com’è a contrariar se stessa e gli altri nonostante le febbri. L’aureola d’uranio sul cranio della vallata fa da passerella al male che sfila in una notte stupidamente amica dove tintinna e rintocca l’ugola della campana paesana e una croce fortunatamente di luce raggiunge la fronte e la benedice. *** La bruttura delle mura senza denti dei ruderi e l’usura simboleggiano di ognuno uno strano destino, perfettamente anonimo e ad unanime disumano che per la carne è inconcepibile uscirne indenne introiettata dentro l’oscuro da un indomito spasmo che è stato amore. È il tre ottobre, e a ottobre alcune porte rimangono aperte le altre, cioè le nostre troveranno altrove la chiave. *** La pagina piena, stropicciata a margine argina appena l’afrore dei vuoti a perdere 102


in disparte come sagome una canzone e alla fine disordine nuovoloso odore, tempo perso e carta scartata che solo a rifletterci verrebbe subito fame di lieto fine, ma sono contento che qualcuno abbia mentito parlando d’ironia della vita a un malato perché spiritualmente la quiete sebbene inquinata, s’impossesserà dell’aria e delle sue ossa. *** Semibraccata e preda per indole delle domande che un inconsistente attuale magicamente elude - L’angoscia, sfacciata, fiuta e sguiscia dalla scia della grondaia rotta fino in fondo alla fogna, per pisciare e sciogliere la neve perenne inghiottita dalle mie vene, e sarà che è novembre ma io non prevedo schiarite. *** Anthony convincimi che la poesia non ha fretta e che i buchi degli aghi come i fori dei chiodi sono solchi di terra che permettono al seme di fecondarla “Pietas et Plexiglas sulla zolla” e mea culpa se a stento, riconosco il sapore del solito mai normale del mio umore impigliato nell’etere e non era mia intenzione andarmene - La verità è che ultimamente gli alti e bassi sono più vertiginosi, quasi da crisi. Raccogliere regali è solo un alibi ostinato di uno slang tossico. E intanto la brina nuova bagna e impollina insana. 103


*** Asciuga il cuscino dal decupito dello stelo che sfregando ho sciupato ti prego, trovo distruttivo violare il tentativo fallito di un volo additandolo dal suolo, il carrello spinto sul pavimento per la spesa resta provvista finita. Al supermercato nella lapide a rotelle di me stesso che è il corpo sono imploso e ho compreso che gli ombrelli non riparano dai pericoli Davide. Sgozzano gli agnelli nel regno dei cieli. *** Io porto a spasso il vomito del bove finto al contrario del fascino o dei toni forti del ferro arrugginito di un rapporto Tu, insieme alla sviolinata di una musica non condivisa L’utilità di una lampadina spenta Perché hai perso il contatto con l’argilla scultore? Forse perché l’ultimo pasto te l’hanno servito su un piatto rotto? - non lo voglio sapere fratello Ora che sei Luce come chi ci precede prega per me che sono solo a chiudere il cancello. *** Con la pancia sulla panca per dirla a mo’ di filastrocca hai l’impressione che la cinghia stringa maledetto Febbraio 2008 Ti ho paragonato ai rottami di uno sfascio Sei contento? Il verde diabete s’è reciso il polso e non vi era rosso ma bensì il beffardo primato della gioia a noleggio semaforo giallo chicchirichì il gallo. Alcool in decibel contro etilometro e perdo lo stimolo, Nebbia baldracca d’officina e fabbrica non si fa ritorno senza almeno un pieno, lo insegna la parabola - del cucchiaio e della fiala. *** 104


Disperatamente disinibiti stipendiati attendiamo diagnosi dai referti a prescindere acredine post trauma verso il responso: coma. Lunedi 35 gradi 14:10 nello spogliatoio il cambio letale la mancanza di coraggio, rinuncio - lavorio continuo alludo al tedio, al tedio operaio la versione moderna di un antagonista in attività di condanna. La merda lavora alla gogna e nella gola ristagna. *** Odiando l’audio la pellicola in bianco e nero tende inspiegabilmente al sonoro Sorte accondiscendente, ho voluto te nella mia collezione di miti sfatati il bene rende sufficientemente egoisti e dando per scontato l’acquisto presume il macchinista il biglietto di sola andata prospetta una destinazione ignota e non importano i discorsi esclusi, con rimorso ho rimosso i grilli La fratellanza protegge l’alleanza protegge il gregge e Bianca cuce a pelle una pace atroce.

Augusto Amabili è nato nel 1976 a San Benedetto del Tronto (AP). Vive e lavora a Spinetoli (AP) dove suona la chitarra elettrica in alcune formazioni rock-noise locali, dipinge e scrive. Frequenta il gruppo artistico legato a La Gru. Nel 2008 ha pubblicato per Fara la sua prima plaquette poetica, La convalescenza.

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Yves Bonnefoy – La voce dell’ombra tra fiamma e gelo “Douve même morte sera lumière encore n’étant rien.” Se il compito della scrittura poetica è quello di “rovinare le sacre verità” (come afferma Harold Bloom) e poi esplorare il lampo del “mondo sprofondato nell’oscurità“, Douve (1) è la stessa oscurità in cui il mondo si immerge: un intero alfabeto condensato nell’ombra, completamente raccolto nel fuoco di una intuizione che non si fa parola se non per testimoniare l’irriducibile ineffabilità dell’atto: se il verso è un “ragionare poetico“, la sua esistenza si giustifica solo come un tentativo di descrivere una materia indicibile, un mondo senza orientamento, forse “un territorio dell’inconscio, nel quale la simmetria è totale, ma i cui valori sono rovesciati” (Matte Blanco). Se lo spazio naturale è il luogo della verifica di una condizione senza salvezza, la poesia si riconosce in figure e forme epurate dalle incrostazioni della storia, in un rapporto tra sostanze immutabili e primordiali (notte, fuoco, albero, pietra, acqua, alba) che assumono lo statuto di simboli. Douve si presenta, essenzialmente, come simbolo/ombra (2) dell’essere, un essere strappato agli orizzonti cristallizzati dell’ideale e che si rivela e si risolve nell’esperienza concreta della finitudine e della morte: la morte, nel suo movimento incessante, nelle mille e mille forme della metamorfosi (3) corporea, si profila in tutta la sua lacerante trasparenza come uno specchio, una soglia al di là della quale il finito riscopre la sua radicale primogenitura rispetto ad ogni forma di rappresentazione concettuale. La poesia incarna lo sguardo oltre la soglia, l’inoltrarsi in territori perpetuamente cangianti nella elementarità delle forme che si susseguono: la pupilla incontra il paesaggio e vi si ingloba; la voce stessa, l’eco che si specchia nel verso, diventa forma, sostanza e paradigma del divenire, coscienza del limite, sguardo che anela all’indicibile della visione appena trascorsa, dove l’unica decifrabilità del movimento metamorfico consiste nell’immobile, ammutolita partecipazione alla rappresentazione. Dalla ricerca surrealista (da Paul Èluard, in particolare), Bonnefoy deriva una tendenziale linea di contrapposizione alle poetiche che si articolano intorno a idee e concetti eternati e trasmessi in forme armoniche, nelle quali gli oggetti perdono la loro fisicità e consistenza per elevarsi al rango di pure forme del pensiero: ad esse il poeta contrappone un movimento dal basso attraverso il quale l’ente reale, investito dalla luce del divenire e della metamorfosi, si snatura, si rende “altro” rispetto al concetto che lo limita e lo fissa in una immobilità senza voce, dove la parola non è che vuoto simulacro di inesistenze. La figura in cui questa metamorfosi si compie è un nome, Douve, che ha luogo, consistenza e destino di vertigine, di essere-senza-durare nelle lettere che compongono il suo alfabeto, la sua dimora inviolabile, il suo rogo fiammante di fenice (4): una figura femminile sottratta ai cieli della bellezza ideale, figura di carne/sangue/desiderio abbandonata alla fiamma e al gelo della deformazione e della devastazione, creatura che dall’orrore del disfacimento corporale trae la luce che illumina il reale, l’evento, mettendone in evidenza la sostanziale alterità rispetto agli universi della concettualizzazione, delle regole, della norma. Douve è lo sguardo che accompagna l’essere nella sua discesa agli inferi, al suo disfacimento e alla sua autorivelazione; è sguardo 106


che si guarda dall’interno (in quanto esso stesso, contemporaneamente, soggetto di anticipazioni e di lacerazioni e oggetto della sua osservazione) e, proprio perché tale, si fa voce, voce che tenta l’indicibile, poesia. La poesia diventa, quindi, coscienza della finitudine, luce proiettata sulla notte dell’essere, sapienza e scrittura che si rivelano nell’atto di una parola restituita al senso originario, un senso che non è mai un unicum, un postulato invalicabile di significati definiti, un contratto universo sillabico, ma un grumo ardente di potenzialità che il poème raccoglie nella sua inesausta tensione a varcare la soglia, a penetrare nel regno dell’improbabile (5), nel profondo della vita stessa riportata alla sua terrestrità, alla sua oscura e indecifrabile solarità. Una intenzione chiaramente antimetafisica, quindi, presiede alla nascita di Douve: la purezza dell’eidos platonico, l’armonia formale di un principio unificatore del reale e dell’essere che trova nel pensiero il luogo del suo dispiegarsi e nella parola l’atto che lo rivela e lo ipostatizza, al di là della vicenda in cui l’ente reale si realizza come esistenza concreta - il luogo di una memoria che si fa voce solo per chiudere l’indicibile in un reticolo di segni che officiano un illusorio possesso - lascia il posto a una poetica dove il reale, con i suoi simboli viventi in perpetua metamorfosi, nel trapasso inarrestabile delle forme e degli oggetti (ad iniziare da quelli della mente) in un cosmo di alterità irriducibili, diventa la mappa, il théatre in cui ogni trascendenza rivela la sua cifra corporea, s’invera sull’orizzonte del divenire che ne definisce il senso: l’esperienza fondamentale della morte, “l’ivresse imparfaite de vivre“, “présence sans issue, visage sans racine“. La morte, esperienza che il simbolo della bellezza classica ha costantemente rimosso, sublimandola, dalla pupilla della poesia levata a scrutare nelle profondità della “notte dell’essere“, assume le fattezze cangianti di un corpo femminile che è pura ombra, “immobilità e movimento“, disfacimento e rinascita, fuoco che si offre e fuoco a cui ci si immola, in un gioco infinito di rimandi in cui l’alto si definisce solo a partire dal basso, dall’infimo: solo calandosi fino al dolore delle sue radici, ogni creatura trova la ragione ultima del fuoco e del gelo che la sostanziano, fino a scoprire che ogni altezza, ogni cima è esilio, naufragio: soltanto l’immobile (uno dei nomi/attributi di dio) vive la lontananza dalla morte come limitazione ed esclusione che ne condiziona l’essere, la pensabilità, la dicibilità: la vera trascendenza non è un “itinerarium mentis ad deum“, ma una descensio dei ad inferos. Solo la poesia può dare testimonianza di questa vertiginosa discesa, una poesia che è costretta a farsi materia sonora del viaggio, a fondersi coi passi, il paesaggio e la strada, in quanto il suo essere qui e ora è il segno di una lacerante impossibilità del dire. Douve è il cammino e l’approdo, la sorgente e la foce di una poetica generativa dello strappo, del frammento e della deriva, del segno che frantuma vecchi legami nel linguaggio: se nulla esiste prima del dire, l’indicibile dell’origine è materia stessa della parola, materia di deserto e di esilio, di tenebra e di luce, immagine di immagini, una presenza assente che nominando il mondo lo riscrive col suo nome più vero, il primo e l’ultimo, il-nulla-di-nome: al di là del riconoscimento di un ordine semantico che riduce gli abissi dell’oltre a pensiero, esorcizzandone la radicale alterità, escludendoli dal fluire naturale delle cose, dall’eterna, irrivelata, metamorfica epifania dell’esistenza. [Tratto da: I Nomi Propri dell’Ombra, a cura di S. Baratta e F. Ermini, ed. Moretti & Vitali 2004]

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1) Yves Bonnefoy, Du Mouvement et de l’Immobilité de Douve, Mercure de France, 1953, ora in Poèmes, Paris, Gallimard, 1982, che comprende anche le successive tre raccolte poetiche dell’autore, opere nelle quali è avvertibile, pur in mancanza di riferimenti espliciti, se non la voce almeno la pronuncia di Douve: Hier Regnant Desert, 1958; Pierre Ecrite, 1965; Dans le Leurre du Seuil, 1975. 2) Cfr. C.G. Jung, Tipi Psicologici, in Opere, a cura di L. Aurigemma, Torino, Boringhieri, 1969. Il significato cui Jung riconduce il termine e la netta distinzione rispetto al segno, è quello che meglio si adatta a rendere la complessità evocativa del linguaggio poetico di Bonnefoy: simbolo è la più adeguata formulazione per indicare qualcosa di relativamente sconosciuto, ma la cui esistenza è attestata come necessaria. 3) Cfr. Piero Bigongiari, Poesia francese del Novecento, Firenze, Vallecchi, 1968, pp. 235 e sgg. 4) Cfr. Gaston Bachelard, La Psicoanalisi del Fuoco, tr. it., Bari. Dedalo, 1973 e, soprattutto, Poetica del Fuoco, tr. it., Como, Red Edizioni, 1990. 5) Yves Bonnefoy, L’Improbable, Paris, Mercure de France, 1959, tr. it., Palermo, Sellerio, 1982. Cfr., in modo particolare, il saggio L’atto e il luogo della poesia, pp. 115-148. *** Testi Da: Movimento e immobilità di Douve (Du Mouvement et de l’Immobilité de Douve, 1953) Teatro (Théâtre) I. Je te voyais courir sur des terrasses, Je te voyais lutter contre le vent, Le froid saignait sur tes lèvres. Et je t’ai vue te rompre et jouir d’être morte ô plus belle Que la foudre, quand elle tache les vitres blanches de ton sang. * Ti vedevo correre sulle terrazze, ti vedevo lottare contro il vento, il freddo sanguinava sulle tue labbra. E ti ho vista lacerarti e gioire di essere morta, tu più bella della folgore, quando macchia i vetri bianchi del tuo sangue. 108


II. L’été vieillissant te gerçait d’un plaisir monotone, nous méprisions l’ivresse imparfaite de vivre. «Plutôt le lierre, disais-tu, l’attachement du lierre aux pierres de sa nuit: présence sans issue, visage sans racine. «Dernière vitre heureuse que l’ongle solaire déchire, plutôt dans la montagne ce village où mourir. «Plutôt ce vent…» * L’estate al declino ti screpolava di un piacere monotono, noi disprezzavamo l’ebbrezza incompiuta della vita. «Meglio l’edera – dicevi – l’attechire dell’edera alle pietre della sua notte: presenza senza sbocco, viso senza radici. «Ultimo vetro felice che l’unghia del sole lacera, meglio un villaggio sul monte, dove morire. «Meglio questo vento…» III. Il s’agissait d’un vent plus fort que nos mémoires, Stupeur des robes et cri des rocs – et tu passais devant ces flammes La tête quadrillée les mains fendues et toute En quête de la mort sur les tambours exultants de tes gestes. C’était jour de tes seins Et tu régnais enfin absente de ma tête. * Era un vento più forte delle nostre memorie, stupore di vesti e grido di rocce – e tu passavi davanti alle fiamme la testa quadrettata, le mani incrinate e tutta desiderosa della morte sui tamburi esultanti dei tuoi gesti. Albeggiava dal tuo seno e tu regnavi infine assente dalla mia mente. IV. 109


Je me réveille, il pleut. Le vent te pénètre, Douve, lande résineuse endormie près de moi. Je suis sur une terrasse, dans un trou de la mort. De grands chiens de feuillage tremblent. Le bras que tu soulèves, soudain, sur une porte, m’illumine à travers les âges. Village de braise, à chaque instant je te vois naître, Douve, A chaque instant mourir. * Mi risveglio, piove. Il vento ti attraversa, Douve, distesa resinosa assopita accanto a me. Sono su una terrazza, in una buca scavata dalla morte. Grandi cani di foglie tremano. Il braccio che tu sollevi, fulmineo, su una porta, mi illumina attraverso le età. Villaggio di brace, a ogni istante ti vedo nascere, Douve, a ogni istante morire. V. Le bras que l’on soulève et le bras que l’on tourne Ne sont d’un même instant que pour nos lourdes têtes, Mais rejetés ces drapes de verdure et de boue Il ne reste qu’un feu du royaume de mort. La jambe démeublée où le grand vent pénètre Poussant devant lui des têtes de pluie Ne vous éclairera qu’au seuil de ce royaume, Gestes de Douve, gestes déjà plus lents, gestes noirs. * Il braccio che solleviamo e il braccio che volgiamo occupano lo stesso istante solo nelle nostre menti grevi, ma dismesse le vesti di verde e di fango non rimane che un fuoco del regno dei morti. La gamba sradicata dove il gran vento penetra spingendo avanti a sé volti di pioggia non vi illuminerà che alla soglia di quel regno, gesti di Douve, gesti sempre più lenti, gesti neri. 110


VI. Quelle pâleur te frappe, rivière souterraine, quelle artère en toi se rompt, où l’écho retentit de ta chute? Ce bras que tu soulèves soudain s’ouvre, s’enflamme. Ton visage recule. Quelle brume croissante m’arrache ton regard? Lente falaise d’ombre, frontière de la mort. Des bras muets t’accueillent, arbres d’une autre rive. * Quale pallore ti sferza, fiume sotterraneo, quale arteria in te si spezza, dove l’eco rimbomba della tua caduta? Il braccio che tu sollevi, s’apre improvviso, s’infiamma. Il tuo volto indietreggia. Quale nebbia montante mi strappa il tuo sguardo? Lenta falesia d’ombra, confine della morte. Braccia mute ti accolgono, alberi di un’altra riva. * Da: Ieri deserto regnante (Hier Régnant Désert, 1958) Terre du petit jour L’aube passe le seuil, le vent s’est tu, Le feu enclos dans la laure des ombres. Terre des bouches froides, ô criant Le plus vieux deuil par tes secretes clues, L’aube va refleurir sur tes yeux de sommeil, Découvre-moi souillé ton visage d’orante. Terra dell’alba L’alba oltrepassa la soglia, si è acquietato il vento, il fuoco rinchiuso nel chiostro delle ombre. O terra di bocche fredde, che gridi il lutto più antico dai tuoi segreti anfratti, l’alba rifiorirà sui tuoi occhi di sonno, rivelami, infangato, il tuo viso di orante. * 111


L’éternité du feu Phénix parlant au feu, qui est destin Et paysage clair jetant ses ombres, Je suis celui qui tu attends, dit-il, Je viens me perdre en ton grave pays. Il regarde le feu. Comment il vient, Comment il s’établit dans l’âme obscure Et quand l’aube paraît à des vitres, comment Le feu se tait, et va dormir plus bas que feu. Il le nourrit de silence. Il espère Que chaque pli d’un silence éternel En se posant sur lui comme le sable Aggravera son immortalité. L’eternità del fuoco Fenice che parla al fuoco, destino e terra chiara che irraggia le sue ombre, io sono colei che tu aspetti, gli dice, vengo a perdermi nella tua dimora fonda. Ella osserva il fuoco. La sua nascita, il suo insediarsi nell’anima oscura, e quando l’alba compare ai vetri, come il fuoco si taccia, dorma sotto altro fuoco. Lo nutre di silenzio. Spera che ogni piega di un silenzio eterno, posandosi su di lui come la sabbia, la sua immortalità renda più fonda. * Une voix Écoute-moi revivre dans ces forêts Sous les frondaisons de mémoire Où je passe verte, Sourire calciné d’anciennes plantes sur la terre, Race charbonneuse du jour. Écoute-moi reviver, je te conduis Au jardin de présence,

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L’abandonné au soir et que des ombres couvrent, L’habitable pour toi dans le nouvel amour. Hier régnant désert, j’étais feuille sauvage Et libre de mourir, Mais le temps mûrissait, plainte noire des combes, La blessure de l’eau dans les pierres du jour. Una voce Ascoltami rivivere nei boschi sotto il fogliame della memoria dove verdeggiante trascorro, sorriso calcinato di antiche piante sulla terra, stirpe carbonacea del giorno. Ascoltami rivivere, ti conduco al giardino di presenza, abbandonato alla sera e ricoperto d’ombre, abitabile per te nel nuovo amore. Ieri deserto regnante, ero una foglia selvatica e libera di morire, ma il tempo maturava, nero compianto delle valli, la ferita dell’acqua nelle pietre del giorno. * Da: Pietra scritta (Pierre écrite, 1965) Un fuoco ci precede (Un feu va devant nous) L’arbre, la lampe L’arbre vieillit dans l’arbre, c’est l’été. L’oiseau franchit le chant de l’oiseau et s’évade. Le rouge de la robe illumine et disperse Loin, au ciel, le charroi de l’antique douleur. O fragile pays, Comme la flamme d’une lampe que l’on porte, Proche étant le sommeil dans la sève du monde, Simple le battement de l’âme partagée.

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Toi aussi tu aimes l’instant où la lumière des lampes Se décolore et rêve dans le jour. Tu sais que c’est l’obscur de ton cœur qui guérit, La barque qui rejoint le rivage et tombe. L’albero, il lume L’albero invecchia nell’albero: è l’estate. L’uccello valica il canto dell’uccello e si allontana. Il rosso della veste illumina e disperde lontano, in cielo, il carreggio dell’antico dolore. Oh fragile paese, fragile come la fiamma del lume che portiamo quando è vicino il sonno nella linfa del mondo, semplice il battito dell’anima condivisa. Anche tu ami l’istante in cui la luce dei lumi trascolora e sogna nel giorno. Tu sai che è l’oscurità del tuo cuore che guarisce, la barca che raggiunge la riva e vi ricade. * Les chemins Chemins, parmi La matière des arbres. Dieux, parmi Les touffes de ce chant inlassable d’oiseaux. Et tout ton sang voûté sous une main rêveuse, O proche, ô tout mon jour. Qui ramassa le fer Rouillé, parmi les hautes herbes, n’oublie plus Qu’aux grumeaux du métal la lumière peut prendre Et consumer le sel du doute et de la mort. I sentieri Sentieri, tra materia d’alberi. Dèi, tra i ciuffi del canto instancabile degli uccelli. E tutto il tuo sangue arcuato sotto una mano sognante, oh vicina, oh tutto il mio giorno. Chi raccolse il ferro arrugginito, tra le alte erbe, più non dimentica 114


che ai grumi del metallo può attecchire la luce e consumare il sale del dubbio e della morte. * La patience, le ciel Que te faut-il, voix qui reprends, proche du sol comme la sève De l’olivier que glaça l’autre hiver? Le temps divin qu’il faut pour emplir ce vase, Oui, rien qu’aimer ce temps désert et plein de jour. La patience pour faire vivre un feu sous un ciel rapide, L’attente indivisée pour un vin noir, L’heure aux arches ouvertes quand le vent A des ombres qui rouent sur tes mains pensives. La pazienza, il cielo Cosa ti manca, o voce che riprendi, in prossimità del suolo come la linfa dell’ulivo che l’altro inverno strinse nel suo gelo? Il tempo divino che occorre per riempire questo vaso, sì, nient’altro che amare questo tempo deserto e colmo di luce. La pazienza per tenere vivo un fuoco sotto un mobile cielo, l’attesa indivisa per un vino nero, l’ora dalle arcate dischiuse quando il vento ha ombre che vorticano sulle tue mani pensose. * La lumière, changée Nous ne nous voyons plus dans la même lumière, Nous n’avons plus les mêmes yeux, les mêmes mains. L’arbre est plus proche et la voix des sources plus vive, Nos pas sont plus profonds, parmi les morts. Dieu qui n’es pas, pose ta main sur notre épaule, Ébauche notre corps du poids de ton retour, Achève de mêler à nos âmes ces astres, Ces bois, ces cris d’oiseaux, ces ombres et ces jours. Renonce-toi en nous come un fruit se déchire, Efface-nous en toi. Découvre-nous Le sens mystérieux de ce qui n’est que simple Et fût tombé sans feu dans des mots sans amour. 115


La luce, mutata Non ci vediamo più nella stessa luce, i nostri occhi e le mani non sono più gli stessi. L’albero è più vicino e più viva la voce delle sorgenti, i nostri passi risuonano più profondi, fra i morti. Dio che non sei, posa la tua mano sulla nostra spalla, abbozza il nostro corpo col peso del tuo ritorno, completa l’unione delle nostre anime con gli astri, i boschi, le grida degli uccelli, le ombre e i giorni. Rinuncia a te in noi come si squarcia un frutto, cancella noi in te. Rivelaci il senso misterioso di ciò che è semplice e, senza fuoco, seme caduto in parole senza d’amore.

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Francesco Tomada - Antologica

Da: L’infanzia vista da qui, prefazione di Maurizio Mattiuzza, illustrazioni di Gennj Volk, Gorizia, Editrice La Quercia, “Sottomondo”, 2005.

( I disedifici)

Double face (pensiero all’uscita del turno di notte) Guarda le gru di Marghera altissime e bianche nel buio come radici di alberi piantati a rovescio nella terra dunque questo non è cielo ma un cielo capovolto questa non è 117


vita ma quello che alla vita viene tolto

Su un verso di Antonella Anedda Anch’io di Sarajevo ricordo l’immagine di una donna che corre verso il rifugio proteggendosi la testa come se piovesse la pace che viviamo ha la fragilità delle cose che succedono per caso essere sorpresi in strada troppo lontani da un riparo e bagnarsi solamente oppure morire

Auschwitz, 3 marzo (a Daniel) Anch’io ho camminato lungo i binari dove fermavano i treni dei deportati volevo capire quel poco che posso della colpa e del dolore ma sono un uomo troppo piccolo e questa pianura è troppo vasta e vuota è terra distesa a sottolineare ciò che manca è neve caduta a coprire ciò che resta così dovrebbe essere il silenzio qualcosa che si vede si tocca e congela per sempre un angolo del cuore ad Auschwitz una volta almeno si dovrebbe andare tutti, rimanere muti muti muti scegliere un nome a caso fra i sopravvissuti io ho scelto Rose che allora era bambina e poi chiedere scusa di essere arrivati troppo tardi di esser nati troppo tardi forse di esser nati

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(I grani di riso) * Hanno arato i campi stamattina e nel sole freddo dell’inverno il dorso delle zolle brilla lucido come un diamante estratto dal profondo io credevo che il dentro della terra fosse buio: non capivo dove i semi prendessero il coraggio e i crochi il colore della loro fioritura

Astronomia privata Ho cinque nei sul braccio sinistro e già da bambino li univo in una forma di incudine come una costellazione in negativo sul cielo roseo della pelle che delimita lo spazio alla vista ma non lo rinchiude e non sai dove prosegue l’infinito se dentro o fuori o semplicemente ti attraversa

( La famiglia)

La famiglia 119


Mio nonno aveva i gesti lenti di chi sposta l’aria e il volto vestito solo con una limpidezza di occhi ma questi capelli che così presto mi vengono bianchi sono il segno che dentro alle vene è rimasto qualcosa di te? sono gli stessi capelli che danno al tuo ricordo il candore di pane azzimo?

A Giordano (ora posso usare il tuo nome) Avevi il sole diritto negli occhi e in te ho riconosciuto ogni colore che intreccia il cesto dell’iride mi sono riempito della tua immagine era acqua gelata che scende nella gola e poi più in basso al punto esatto sopra il diaframma dove il respiro si ferma ed esita prima di tornare indietro adesso dicano pure dicano pure che non mi assomigli

Impercezione Dormi e il tuo corpo si fa sottile come un quadrifoglio tra le pagine e non è carta ma stoffa di lenzuola e non è libro ma tu portaci fortuna in questa escoriazione fino al vivo che per paura di essere banali solo di rado chiamiamo amore 120


( L’infanzia vista da qui)

A mia madre Guardo la casa dove vivi sola la stessa dove anch’io sono nato e ho vissuto dici che più niente ti lega a questa terra che verrai ad abitare più vicina a me non si sa mai, un’influenza o soltanto un mobile da spostare intanto hai rinnovato le stanze cambiato la cucina lucidato i pavimenti dipinto la ringhiera dello stesso colore bruciato che ha sempre avuto è come se prima di andare tu mettessi in ordine i ricordi e ho paura di pensare che hai più di settant’anni e senza dirmi niente per non farmi preoccupare ti stai preparando a qualcosa di più grande di un trasloco

Senzavino Mio nonno diceva che mangiare senza vino in tavola gli ricordava il tempo della guerra mia nonna gli sopravvisse a lungo quando anche lei morì trovammo milleduecento bottiglie vuote allineate come soldati lungo il muro dietro alla legnaia dopo pranzo negli ultimi anni lei si sedeva sul divano con un sorriso strano che allora non capivo pensavo che fosse per qualcosa alla televisione 121


invece aveva approfittato della pace

Aras – Ad Alessio (uno) Ti ho regalato il disegno di una farfalla dalle ali colorate mi dici “appendilo più in alto dove il ragno non arriva” le mie mani sono capaci di mescolare acquarelli ma sono i tuoi occhi a vedere la leggerezza del volo (due) E poi davvero una farfalla ti si è posata sulla palpebra ed è rimasta ad ali giunte fidandosi di te camminavi tenendo un occhio aperto per guardare in terra ma con quello chiuso vedevi molto più lontano (*) So come muoiono le farfalle come un uomo disteso di schiena su di un prato guardano tutto il cielo che hanno attraversato e poi allargano le ali sopra l’erba per allontanare la fatica e pensano per sempre di volare

(notturno, due note per un ritorno) 122


Dal ventre di mia madre mi trassero a fatica, avevo una mano sugli occhi come a coprirmi dalla luce e non passavo, non passavo. Mio zio si fermava ogni giorno davanti alla culla, poi mi guardava la testa e diceva: ”Non prenderà mai una forma normale”. Aveva ragione, ho ancora i lineamenti non regolari, ma stanotte c’è una luna comprensiva che mi segue verso casa e la sua luce lieve cambia i miei difetti in ombre. Un capriolo è uscito dai campi, è rimasto nel fascio dei fari con le pupille brillanti come diamanti a mezz’aria. Ho frenato, mi sono fermato, dopo un secondo lunghissimo è andato via. Come le bestie abbagliate quando aspettano la morte, così io chiedo ci prenda la vita: di schianto e noi lì ad aspettarla ad occhi serrati, con quel coraggio che io non ho avuto neppure nascendo. ***

Nota critica di Maurizio Mattiuzza Spezza il tempo dell’amore e del dolore con la stessa familiarità severa con cui spesso si spezza il pane questo bel libro di Francesco Tomada. E lo fa con gli occhi, le parole, i ricordi già un po’ post-contadini, di chi guardava passare i treni da lontano e già sapeva le città e gli imbrogli di un doversi vivere sopra quello che si è sempre stati. La terra, la nostra, conosciuta eppure immaginata “vuota dentro”, scavata, derubata di sé, fondamenta per le case di mattoni venute su a casaccio negli anni ‘70 e non grembo, madre, vita per la vita, sono il tratto evidente di una poetica che racconta, con leggerezza profonda, l’orizzonte stranito e confuso di questa sua e mia generazione che ancora non riesce a sentirsi tale. L’infanzia vista da qui è quindi prima di tutto, leggendola, un luogo nascosto da cui guardarsi e guardare ciò che si era e ancora e sempre si è. Padri e madri, figli, nipoti, uomini e donne in cerca di un sé binario e molteplice che sia anche duraturo e si faccia ciclo degli affetti. Così mentre è chiaro il quando, che è ieri, domani, adesso, rimane di soppiatto il dove, l’angolo da cui si osserva, quasi come se, usciti da lì, da quell’istante che è erba e ginocchia sbucciate, sudore di magliette stinte dal sole, tutto, tranne l’amarsi, non sia altro che un non luogo esteso e abbandonato. Una periferia dell’essere dove niente è più visibile in concreto. La casa ha tremato scrive Francesco, ma ha retto. Ha retto da dentro, nonostante le difficoltà del viversi accanto e del dover, a volte, giudicare, correggere, consigliare, senza poter mai sapere davvero come è che si fa. 123


A dover abitare e poi spiegare, a chi ti viene dopo, un pianeta in cui gli alberi sono gru che hanno radici verso il cielo. Sono, questi di Francesco, versi candidi e nervosi, macchie di calore che affiorano profonde lungo i muri di una quotidianità piena di inciampi ma anche di occasioni per provare a dimostrarsi veri. Timidezza e coraggio, voglia di giorni lievi, di amore sempre. Parole per chi resta mentre un treno parte e divide, per vedersi dentro un dopo che non può e non vuole essere solo tempo da consumare nell’attesa, ma che sanno anche, indignate, dire al mondo quello che al mondo manca. Scritte per dire e per capire quello che noi ancora possiamo capire della colpa e del dolore e, al contempo, afferrare quella necessaria sventatezza dell’essere che ci serve per intervenire nel presente. Per raccontare un tempo che si vorrebbe più ricco di strette di mano e di bicchieri da cui si beve in due. Cerchi di vino sul tavolo di un bar, lenzuola in cui provare a sognare senza dormire. Un labirinto di strade conosciute e, proprio per questo, mai sgombere veramente dagli agguati dell’abitudine. Versi larghi, con poche rime, una poesia “street” lucida e asciutta ma anche sempre piena di colori virati all’imprevisto. Viaggiarla in queste pagine è quasi come aprire la finestra su quella luce docile che hanno, qui da noi, certe mattine di settembre. Sentire, mentre l’estate andrà chissà dove, che ci tocca sempre di cercare altre prove e nuovi indizi per decifrare questa nostra avventura d’invecchiare che è, spesso, anche un doppio errare fatto di sbagli e giri a vuoto nel vuoto. Una raccolta intensa e meditata che scava, con una forte ispirazione, un darsi alla vita rimanendo sempre pieni di domande irrisolte, un andare di giorni assaporati e sofferti a pieno, senza schivare mai né gioie né amarezze. Mani e anni aperti ad un dentro della terra che è mistero e rinascita perenne, prospettiva di radicamento e anche di volo. Partenze e ritorni, mappe mai troppo chiare. Leggere queste poesie è farsi un’idea del paradiso come di un posto piccolo e anche un po’ precario, affollato solo da chi ti ama e proprio per questo cerca, perdona. E, mentre cammina, stringe e spera. 124


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Da: A ogni cosa il suo nome, prefazione di Fabiano Alborghetti, Sasso Marconi (BO), Le Voci della Luna, “Materiali”, 2008.

(Altri luoghi)

Il terremoto del ‘76 Quando venne il terremoto del ‘76 era sera e io avevo otto anni uscimmo tutti di corsa nei cortili così come eravamo, noi bambini già in pigiama ricordo la casa che tremava nel buio e non ho mai pensato che potesse cadere ma avevo paura, paura per il rumore e perché si muoveva la terra e restava ferma l’aria una cosa sconosciuta 125


il contrario del vento (sono queste le righe che cercavo per Rose) Cosa c’è nel museo di Auschwitz ci sono scarpe abbastanza da calzarne i piedi di una intera generazione occhiali per vedere tutti i panorami d’Europa valigie per milioni di possibili ritorni a casa tutti questi oggetti sono rimasti uguali a prima il nome sulle etichette il fango secco sulle suole solo una cosa è andata avanti – non posso chiamarlo proprio vivere – c’è una stanza intera di capelli sono ingrigiti sul pavimento aspettando i giovani di allora che nella vecchiaia non li hanno mai raggiunti (In suo nome) (parla lei) Sembrava bello che costruissero le case al posto dei campi poter vivere in un posto dove prima si era solo lavorato forse ho sbagliato perché era il tempo della tv in bianco e nero e non ho mai guardato fino in fondo il colore dei tuoi occhi ma in te ho creduto davvero mi sembravi la liberazione dopo un’infanzia di mattoni e stracci e fratelli da crescere forse ho sbagliato perché le ragazze di buona famiglia hanno fretta e così tanta paura della solitudine da correrle incontro forse perché lavoravi come meccanico di aerei e ho pensato che sapevi aggiustare le cose e se tornavano a volare i mostri da dieci tonnellate di metallo allora avrei potuto farlo anch’io che un giorno ci avevo provato saltando dal secondo piano del fienile con un ombrello per paracadute e un poco di leggerezza dovevo averla già dentro di mio se non mi ero fatta niente (parla lei) Abbiamo ristrutturato una casa per viverci travi a vista e odore di malta e legno un nido d’amore dicono ma io 126


non ho mai visto animali con un nido di cemento a volte stiamo insieme come è scritto che si deve fare a volte tu esci e non so dove e con chi vai quando avrò una figlia per prima cosa le insegnerò che gli uomini certe sere vengono troppo presto ma in altre non arrivano mai (parla lei) Un giorno voglio crocefiggerti sul letto usando le mie braccia riprendermi il piacere ed il dolore della prima volta per ogni notte in cui sei stato indifferente sarò il giudice e la pena tu sarai la terra dove scavo un solco passando e ripassando con i piedi la traccia a semicerchio consumata dai cani alla catena (parla il figlio) Come tutti gli anziani raccontavi cento volte lo stesso episodio di quando andavi a scuola in bici sotto le nevicate di quando ti sei ammalata di difterite un poco abbiamo avuto pazienza ma dopo abbiamo detto basta è da allora che hai cominciato a prepararci ogni settimana un piatto diverso di cucina friulana polenta frico gnocchi di zucca quel cibo povero che un giorno era l’unico possibile e sarà che passi sempre la domenica mattina ma la tua non sembra una semplice gentilezza piuttosto una comunione: questo è il mio corpo prendete e mangiatene tutti (parla lei) Io non sono mai stata brava con la rabbia l’ho sempre mantenuta fino a consumarmi l’ho trasformata in silenzi così lunghi da disimparare le parole in espressioni così misurate da dimenticare i sorrisi credo che per questo le spalle mi si siano incurvate sotto una tensione che le prende da dentro come se un cavo legasse le scapole alle ginocchia lo sento il cavo che passa proprio in mezzo al cuore lo sento il cuore che pulsa come un uccello nella sua gabbia di costole a volte ho pensato che se non fosse stato per i figli avrei aperto questa gabbia l’avrei lasciato volare via (parla lei) 127


Adesso se volessi potrei raccontare ma le frasi mi costano ancora fatica ogni congiunzione copre un respiro da prendere ogni verbo definisce un gesto che poteva essere diverso così queste parole le scrive il solo figlio che ci resta da te ha preso gli occhi e la rabbia da me i silenzi lo sguardo: quello che in lui vive non sei tu e non sono io ma un uomo che è cresciuto come una radice nello spazio tra di noi (parla il figlio) A volte la vedo camminare china in salita ricorda certi anziani quando riempivano le tasche di sassi per resistere al vento ma penso che il vento lei lo porti dentro il muoversi dell’aria che non trova un posto dove stare l’anima che sbatte come una tovaglia stesa ad asciugare sui fili del bucato – è da lì che sale quel profumo di sapone che lei tratteneva fra i capelli nelle poche volte in cui l’ho abbracciata avrei dovuto dirle che odoravano di nuvola e di shampoo Palmolive lei si irrigidiva come se a stringerla fosse di nuovo mio padre avrei dovuto dirle che non sono io il passato che rivive (parla lei) Il figlio di mio figlio ha sette anni e chiede proprio a me com’è sopravvivere a un infarto e chissà come si vedono le cicatrici sul cuore se si potesse appoggiarci le dita le sentiresti come una linea un poco più dura del resto è muscolo che non riesce più a pulsare ma si tiene alle parti buone, le segue ed è il suo modo di tornare a vivere forse per questo d’istinto gli allungo la mia mano e lui la prende ***

In trincea con la vita – Nota critica di Stefano Guglielmin Un libro che sia tale rigetta ogni tentativo di riduzione. Quando si parla di poesia il lettore avveduto si aspetta che nella trama fonica del verso vi sia un riverbero di significazioni, uno sconfinamento in altri territori. Il verso dunque funge da cerniera tra uno stimolo estetico ed uno conoscitivo: è una linea di confine. La bellissima raccolta, fin dal titolo, di Francesco Tomada, A ogni cosa il suo nome, tematizza tale confine, la frontiera, rendendola geografica, memoriale, affettiva, storica: c'è umanità (tanta), una grande abilità nel 128


raccordare il privato con la storia, la memoria col presente, gli oggetti (e i luoghi) con la parola, senza scorciatoie. Un oggetto si manifesta nella sua evidenza, come i resti del MIG nel museo di Karlovac, ma improvvisamente viene trascinato in una girandola di sensi, ricordi, prospettive, politiche e private, storiche e emotive. La concretezza che Tomada ha saputo donare alle cose (e agli affetti) non si spegne nella fredda denotazione, ma squarcia un mondo, indica una strada percorribile tra parole e referenti, si decanta in finissimo distillato di pensiero, lascia lì il lettore a interrogarsi; il poeta ci fa toccare con mano la più porosa grana della nostra e altrui esistenza quando ci conduce in dolenti e amare chiuse (un colpo di fioretto, a ben guardare), un assunto che d’improvviso scarta di lato, apre un varco in quella che sembra una conclusione quasi sentenziosa, e invece pone ulteriori domande, infligge più profonde ferite, ci ricorda che “tre diviso due fa zero” (nasce così la parola FRAGILE sui cartoni di una famiglia bosniaca che parte; i dieci centimetri che rappresentano una distanza siderale…). La sezione In suo nome, a metà strada tra un dialogo a distanza e un salmo responsoriale, investe con intensità travolgente – in un pathos che fa a meno della retorica –; più calata nella storia Io vivo qui, specie il vibrante e rabbioso prosimetro VII che ristabilisce equità, al di là di ogni artefatta ideologia, e restituisce quanto perduto (un nome, una vita) ad un pubblico ufficiale che decide di schierarsi dalla parte dei partigiani comunisti. La materia su cui si traccia questa frontiera è sottile, fragile e rende la terra di confine, che Tomada abita, la martoriata terra di tutti. Leggendo questo libro ci si ricorda che una visione, una lettura non tendono al bello, ma a qualcosa che è più simile ad ustioni sulla pelle e a un malessere dalle parti dello stomaco e che, dopo, qualcosa cambierà per sempre. *** Francesco Tomada è nato nel 1966 e vive a Gorizia. La sua prima raccolta, “L’infanzia vista da qui” (Sottomondo), è stata edita nel dicembre 2005 e ristampata nel marzo2006; nel 2007 ha vinto Premio Nazionale “Beppe Manfredi” per la migliore opera prima. Del 2008 è “A ogni cosa il suo nome” (Le Voci della Luna). È vincitore e segnalato in diversi altri concorsi. I suoi testi sono stati pubblicati in Slovenia, Canada, Francia, Slovacchia, e tradotti anche in altre lingue. E' inserito nell'antologia "Dall'Adige all'Isonzo. Poeti a Nord-Est" (Fara 2008)

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Note sulla poesia di Enzo Ferrari (con testi inediti del poeta) di Francesco Marotta

Il nostro movimento frenetico di attraversamento dei giorni porta con sé, quale inevitabile corollario di dispersione e dimenticanza, l’impossibilità da parte della memoria di registrare e conservare tracce durature dei territori che la nostra pupilla attraversa. Eppure, ciò che a nostra stessa insaputa essa registra nelle dimore profonde dello sguardo, non si cancella, permane come una sospensione indefinibile e interminata pronta a farsi materia di canto, vuoto nel quale la bellezza si accende in sembianti di realtà quotidiane, visibili, familiari: una sostanza che rimembra, in un uno con le immagini che è capace di plasmare in nuove forme, la radice inviolata dei volti e il loro destino, fosse anche soltanto l’attimo, che credevamo perduto per sempre, in cui il tempo si lascia guardare, immobile, nello specchio dei doni che reca in sorte o nel dolore delle ferite che segnano di echi inudibili il nostro cammino. E’ questo lo spazio della poesia, proprio questa urgenza che tracima da ogni passo, da ogni paesaggio o frammento che cerca di resistere all’assenza che lo chiama, come una barca che la marea sospinge, vincendo ogni resistenza, al suo approdo naturale: spazio che si rivela, in tutta la sua pienezza, quando il trasalimento è ascolto maturo o stupore infantile; quando la mano che tenta la pagina si fa essa stessa segno e voce, e ogni altro orizzonte, intorno, non è che il confine, la dimora che erigiamo a protezione di ciò che vogliamo, e ancora possiamo, salvare dall’oblio: di ciò che ci riscatta agli occhi delle stagioni che migrano, e ci strappa alle sabbie raggelate dei deserti che esse lasciano alle loro spalle. Credo che la vocazione poetica di Ferrari si iscriva proprio tra le maglie di un reticolo memoriale siffatto, ne sia nient’altro che la premessa, da una parte, e, contemporaneamente, una sostanziale e inviolabile disposizione ed emanazione: vocazione che si iscrive in una “luce rosata e umida” dove gli uomini (“Restituiamo la trama dei versi / diamo spazio alla gente seduta, in piedi, che cammina assieme”) e le cose (“ogni forma, segno / che il caso ha voluto lungo la strada”) convivono e trascolorano, trapassando gli uni nelle altre, in una comunione dinamica, in una tensione costante a ridefinirsi a contatto con i segni elementari che la natura incide sulla pagina delle nostre vite: come se quel legame, per incanto e virtù di suoni e di colori, dovesse valicare i limiti del foglio e riversare nel presente, in forme ancora vive, le schegge superstiti dei suoi fantasmi d’inchiostro. Tutto quello che guardiamo, giorno dopo giorno, ci parla nella sua lingua sempre viva che, per essere ancora tale e rendersi udibile, non chiede altro che il silenzio del nostro ascolto: è la lingua pura e fraterna dell’accoglienza, la lingua dei segni della terra e delle acque, dei cieli e dei voli che l’aria ospita, un alfabeto capace di segnare, e di insegnare, il cammino verso la dimora che aspetta, “che lascia aperta la porta / a qualcuno che deve arrivare”. E’ la terra 130


della poesia e della vita, del loro connubio indissolubile che solo uno sguardo affrancato può cogliere: lo sguardo del bambino che stringe “la conchiglia dei versi” come un caleidoscopio di colori cangianti, sfavillante di forme segrete tutte da scoprire, da inventare, da animare, da strappare alla quiete o da restituire al movimento che ne fa luce: seguendo il ritmo, sempre da riscrivere in sillabe e accenti nuovi, che ha la cadenza tutta umana, inestinguibile, del desiderio, “la traccia luminosa / tra le braccia del buio” che ripete eternamente il ciclico alternarsi delle stagioni. Se solo questo ci è dato sapere, nello spazio finito che leopardianamente ci contiene, allora “la gioia del giorno / lo sguardo della luna / il vento della macchia / il semplice saluto” non sono altro che i mille umili volti coi quali il mistero della vita si compone in forme a misura umana e l’esistenza stessa, tutta, parla da queste lingue all’occhio attento e vigile della poesia. C’è nelle cose, a saperle leggere nella radicalità della loro presenza e nel loro lento, inesorabile trascorrere, la somma degli anni e dei segreti che da sempre ci parlano, anche quando neghiamo la bellezza e il conforto di quelle voci al nostro passo disattento, lasciando che la nostra vicenda si consumi senza mai trattenersi negli angoli in ombra dove il senso del creato ama rivelarsi. Fermarsi anche solo per un attimo, lasciarsi abbracciare da un’ala che inventa dal nulla la sua rotta, o incantare dalla spuma delle acque che suggerisce ai venti il segreto di ogni vela, è scorgere quel senso che coniuga in un lampo la nostra vicenda personale al respiro solo presentito, inesplorabile del tutto. E questo, ogni volta, “con i semplici gesti / dell’onda sul lungomare”, come quando, da bambini, con un semplice tratto di matita, si faceva zampillare una sorgente nel bianco deserto di un foglio: e quella era proprio acqua, la prima, l’inviolata, l’unica capace di saziare la nostra sete “prima di dire / la nota / il tema umano / della quiete”.

***

Enzo Ferrari – Poesie inedite (2008-2009)

OCCHI A COLORI Occhi irritati fissano il vuoto le lacrime sono le nuvole in una sorda lotta notturna l’anima è la maschera che infrange le nostre catene. Un volto femminile nell’azzurro mattino mi seduce. Volevo partire forse fuggire: 131


mi prendo un bacio carnoso che mi svela le melodie della terra.

RAGNATELA Una pista di sangue è giusto seguire lo sguardo fino al vulcano sempre aperto che è dentro di noi al centro della terra. Fuoco nero che sa di inferno la luce sfarina una musica di faville immobili corpi compenetrati avviluppati in una tela infimo estremo di speranza blocco d’aria mancanza di respiro angosciosa resistenza spada nel cuore forma ambigua di presenza e d’assenza non dipende da noi amare la preda pura disperazione di un’età felice dalle attese tradite

METALLI cieca, feroce, furente mantiglia coperta di sangue degenere figlio del tempo per fare di tutto il mondo un grande crimine: ogni parola è sempre la stessa sempre capovolta 132


parole gelate e brutali smisurate violenze sfregi perforano le nuvole in anticipo sullo stupore arrivano i morsi le muraglie cedono si dispera esaurita la vita coperta da una ragnatela che infiamma e non fonde. L’acido sbrana il metallo.

VELI Hanno giocato nervosi sul filo spinato nei recinti tra zaffate di escrementi le bestie impetuose dalle mani rapaci aprono le otri dei venti e il mondo si rovescia con sangue senza vocali squarciando il creato Dici eterno riposo forse paludata sciocchezza l’ira è gelida tremano le ossa i volti dei manichini le pietre dei sepolcri.

COME UN LIMONE L’angelo gravato dal peso della corazza e della spada leva gli occhi acquosi. Le menti delle bambole mai sole in un corpo leggero. 133


Il nero si addensa sui tuoi pensieri nelle scale di polvere: Le anime sono logorate in giorni senza cornici tentano l’ultimo inutile azzardo. La sorgente è prosciugata. Tenendosi a galla libero da scorie di banalità una cruda sete di libertà è odio infinito concentrato, spremuto come un limone Cosa succede nell’attimo secco, quando la luce si spegne?

OGNI GIORNO Un verso d’amore tenero dolce assolato è l’essenza di vita. Ogni giorno c’è un bambino maldestro e impaziente che ti insegna. Cala il sipario sui teatrini delle nostre infamie. Gli occhi stupefatti dei fanciulli tengono gelosamente prigionieri i fiori della gratitudine.

IL GIRASOLE Il girasole e la sua ombra scacciano la luna 134


e persino la morte dicono sempre le stesse parole d’amore oscillano come il pendolo della vita vibrano sotto i colpi della tempesta. Meticolosa ambiguità. Inattesa combinazione. Si sveglia presto la mattina, un banale, premuroso consiglio: segui l’aquilone, ricomponi le crudeli bambole spezzate.

IL TROVATORE Volti bianchi Bocca nera mostri dall’apparenza sovrumane incatenano turbini di suono. Statue superbe sono lontani i veli La sera pare ambigua Nei languidi rumori che franano. Senza occhi i volti fissano il vuoto. Dietro le nuvole un ultimo saluto profumato di lavanda Un segno di speranza tenero e grandioso.

ROSA NEL CIELO Vedo il giorno che verrà. Il trionfo della fantasia spande sereno illusioni immagini macerate, un linguaggio che va da solo. 135


Una forza alata rosa di carta bruciante e armata s’incolla tra le nubi, una cosa di questo mondo. Un’esplosione di colore sparisce nella perfezione.

ATELIER Ai due manichini, chiedo informazioni per il viaggio. Il miele della vita ha depositato un amaro veleno: ho paura quando scende la sera, quando sento il peso della tristezza quando parlo da solo così da me compreso. In qualche quaderno fermo la mano grido la voce afona dei miei sogni.

LE MUSE INQUIETANTI La terra si sposerà con l’acqua e il cielo. Il bianco del muro della stanza è un barlume di neve. Nell’abbaglio del giorno profumo gradito della terra bagnata foglie abbondanti vino da amare in mezzo a queste pietre. Rose in cornice in un vaso senz’acqua tra mani senza pensieri attizzano la sera.

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PRESENZE ho lasciato andare per l'ultima volta la mano che seminava il suo fiore preferito mentre l'allegria degli occhi si prendeva gioco della sofferenza la sua presenza era un incantesimo colmo di rugiada giusto prima del sorgere del sole

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(Foto di Paola Pluchino)

BALAUSTRE Elisabetta Bucciarelli, Donne della rete. Intervista ad Alessandra Buccheri Le interviste impossibili - Marina Raccanelli intervista Elena di Troia

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Donne della rete. Intervista ad Alessandra Buccheri di Elisabetta Bucciarelli

Sono in tante e sono toste. Gestiscono siti e blog. Scrivono nel tempo libero, spesso anche di notte. E leggono, leggono moltissimo. Ne abbiamo incontrata una, giovane e piena di grinta. Con la tastiera affilata e un senso della frase piuttosto sviluppato. Alessandra Buccheri, si presenti alle Belledonne. Palermitana trapiantata (provvisoriamente?) a Roma, 36 anni, formazione giuridicoumanistica, appassionata di libri, in particolare gialli e noir. In generale curiosa e sofferente di sindrome da horror vacui (il tempo libero va necessariamente riempito con qualcosa di utile/divertente/stimolante). Vivo alla perenne ricerca dell’equilibrio tra il bisogno di avere il controllo delle mie attività e il desiderio di imprevisti, novità, eventi inattesi che mi stravolgano la vita. Attiva sul web, presente negli snodi virtuali più gettonati, come Facebook, mente pensante e attiva di Angolonero. Ci racconti di cosa si tratta e quando è nato?

L’Angolo Nero (http://angolonero.blogosfere.it) è un blog del circuito Blogosfere, un network di blog di informazione “professionali”. È nato quasi tre anni fa (saranno tre anni a novembre), quando lessi su un free press che il neonato network era in cerca di blogger che scrivessero per argomenti o aree tematiche. Io in quel periodo mi occupavo di libri gialli, noir e affini per una rivista di genere, Il Falcone Maltese. Però lo spazio sul cartaceo era contingentato e c’era sempre tanto, troppo materiale inviato dagli editori che dovevo necessariamente scartare. Ho pensato che un blog potesse essere una valida alternativa. Ho proposto il tema alla redazione di Blogosfere, loro lo hanno approvato. Il nome del blog lo abbiamo scelto insieme (o meglio, lo hanno scelto loro fra tre mie proposte): mi è piaciuto talmente tanto che è diventato il mio nick, AngoloNero. Cosa significa gestire un sito/blog tutto da sola? Quanto tempo dedichi a questa attività? Grande autonomia, nessuna riunione di redazione per decidere come dividere gli argomenti, responsabilità in prima persona, nel bene e nel male, di ciò che si scrive. Tutto questo comporta un certo impegno. Variabile, a seconda delle giornate: ci sono pezzi più semplici (ad esempio le segnalazioni) e pezzi più complessi, come le recensioni o le interviste, che tra

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l’altro presuppongono un lavoro preliminare di lettura. Ma L’Angolo Nero è una grande passione e mi piacerebbe avere ancora più tempo da dedicargli. Amici, amiche. Più quelle/i reali o quelle/i virtuali? Gli amici sono quelli con i quali, almeno una volta, hai bevuto un caffè o una birra insieme. Il resto sono… fantasmi. Poi è vero che i due mondi si intersecano: attraverso il virtuale è facile tenersi in contatto con gli amici reali; e viceversa, molti degli attuali amici reali erano all’inizio semplici contatti virtuali. Ma l’impatto visivo, uditivo, emotivo che dà un incontro dal vivo è per me a tutt’oggi insostituibile: fino a quando non ci conosciamo di persona non possiamo dirci realmente “amici”. Dal tuo osservatorio privilegiato dove pensi stia andando la letteratura di genere. A dispetto delle polemiche che ciclicamente vengono riproposte sulla morte del giallo, credo che la letteratura di genere avrà ancora lunga vita. Proprio in questi giorni leggevo che alla Fiera del libro di Francoforte, conclusa ieri (19 ottobre, n.d.A.) il giallo è stato protagonista: segno che verrà ancora pubblicato e letto in dosi massicce. E in tutte le sue molteplici sfumature. Volendo fare (facili) profezie, credo che il futuro molto prossimo del giallo italiano viri nettamente al “nero” – e non potrebbe essere diversamente, visti i tempi che corrono. Donne e uomini che scrivono. Cosa ti piace delle prime e cosa dei secondi. La verità: non noto grandi differenze. E per fortuna. Odio la distinzione di generi fra scrittori di genere (il gioco di parole era servito su un piatto d’argento, non ho potuto evitarlo…). Mi piacciono sia scritture al maschile che scritture al femminile, con le rispettive diversità, che spesso non sono riconducibili al sesso. Il sogno nel cassetto di Alessandra. Ho pensato per un quarto d’ora a questa domanda. E mi sono venute in mente tante piccole cose, ma nessuna veramente degna di nota. La verità è che per il momento sto bene come sto, non desidero nulla… salvo forse i 95 milioni della prossima estrazione del Superenalotto!

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Le interviste impossibili Marina Raccanelli intervista Elena di Troia D.“Signora, chiamarla? “

Regina,

dea…come

posso

R.“Chiamami semplicemente Elena, Elena figlia di Zeus!...anzi, no, chiamami Principessa. Ti spiegherò dopo perché preferisco questo appellativo.” D.“Principessa, m’inchino innanzitutto davanti alla maestà della sua persona, del suo impareggiabile eterno mito! Desidero, in secondo luogo, ringraziarla immensamente per l’onore che mi fa, dopo un millenario silenzio, nel concedermi questa intervista. A questo proposito, se mi permette, le espongo la mia prima domanda: per quale motivo ha deciso di incontrarmi e rispondere alle mie domande, sia pure in incognito, nel grande segreto di questa località – che non posso rivelare – e completamente avvolta da un candido velo, che nasconde le sua famosissima, universalmente nota bellezza? ” R.“Non metterai in dubbio, mi auguro, la mia identità…perché, sappilo, mai e poi mai farò scivolare questo velo dal mio volto!” D.“Per carità, Principessa, non tema…ho ricevuto assicurazioni nelle più alte sfere sul fatto incontrovertibile che avrei incontrato qui proprio lei, e non il suo simulacro o doppio, di cui favoleggiavano già il poeta Stesicoro e lo storico Erodoto, ed in seguito altri scrittori. E poi, anche attraverso il prezioso lino sottile che si adagia sulle sue auguste forme e sui suoi lineamenti perfetti, trapela uno splendore che non può essere se non il suo!” D.“Donna del ventunesimo secolo, abituata alle banali fattezze di divette e veline, ho il mio orgoglio, io! Non posso rovinare la mia mitica fama (e quando dico mito, lo dico nel senso autentico del termine), mostrando i danni alla mia incantevole carnagione provocati da secoli e secoli di tristissima dimora fra le cupe tenebre dell’Ade.” R.“Capisco, Signora…Principessa, mi scusi: da donna a donna, posso capirla. Per quanto, sa , la curiosità è tanta…se per caso cambiasse idea…”

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R.“Mai! Passiamo alle risposte, prego. Ah, sì…tu vuoi sapere, donna di un altro tempo, perché mi sono voluta concedere alle tue domande: ecco, desidero far sapere finalmente la verità sulla mia persona, perché tanti, troppi, hanno parlato e scritto di me, quindi alla realtà dei fatti si sono sovrapposte così tante e tali abominevoli menzogne, che ho deciso infine sia giunta l’ora di far sentire la mia voce.” D.“Ma come mai proprio in questo preciso momento?” R.“Purtroppo, qui ho molto, troppo tempo per pensare e amaramente riflettere. A questo punto, apro una parentesi: molti – tra i quali un certo Simon Mago – hanno pensato che il mio augusto padre Zeus mi avesse riservato, dopo la fine terrena, un trattamento preferenziale, schiudendomi i Campi Elisi: errore! Bieche congiure di corte, lassù all’Olimpo, hanno convinto il grande vecchio a chiudere un occhio mentre precipitavo quaggiù – tutto per amor del quieto vivere, lui che deve sempre destreggiarsi fra quelle iene pettegole, che vivono di ambrosia ma non fanno altro che litigare. Preferisco non fare nomi, per quel senso di rispetto che non tutti hanno avuto per me, in vita…e anche dopo. Qui invece le ombre mi trattano sempre con grande deferenza; i nuovi arrivati si avvicinano a me, si inchinano e mi porgono i debiti omaggi; a volte, mi raccontano le ultime novità dal mondo. Così, anche quaggiù veniamo a sapere molte cose… Tutto sommato, poi, non mi rammarico più di tanto di essere rimasta esclusa da questi famosi Campi Elisi: e che mai saranno, in definitiva? Un luogo dove, mi dicono, le ombre sono tristi proprio come qui; non fanno altro che rimpiangere la vita terrena, le piccole grandi gioie e perfino i dolori del mondo, vivo d’erba e di sole! Donna che vivi ancora in quel mondo, adesso ti risponderò: desidero parlare ora, perché mi sono accorta che le dicerie sul mio conto, a distanza di millenni, non smettono ancora. Le trovo fuori controllo, aberranti. Il mio tempo non è il tempo di voi lassù; io penso molto molto lentamente. Mi dicevo: pazienza se i vecchi Troiani, Alceo, Pindaro, Eschilo hanno parlato male di me; pazienza se hanno inventato intorno a me fantastiche storielle Virgilio e ancor più Seneca, se Luciano mi ha preso in giro nella sua “Storia vera” (sic!); non importa se popoli interi mi hanno considerato l’emblema della seduzione (e questo mi va bene) ma anche della rovina, fatta persona in una donna! Non voglio soffermarmi sui dettagli, sul pullulare di leggende, racconti e poemetti, nati sfruttando il mio nome. Basti dire, come esempio di assurdità, che il “saggio” Pitagora si è permesso di affermare che, quando si scatenò la guerra di Troia, ero una brutta vecchia. Però i secoli passavano, e cominciavo a perdere la pazienza! E’ vero, nel “Roman de Troye” un certo Benoit non mi mise poi in una cattiva luce, e fece ammirare ai suoi lettori la mia passione d’amore e la mia bellezza; però Goethe (dicono sia un famoso poeta tedesco, dunque un barbaro!) ha avuto il coraggio di inventarsi una relazione tra la nobile sottoscritta

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e un certo Faust, praticamente il Diavolo, né più né meno! E mi ha fatto fare anche un bambino con lui, e lo ha chiamato Euforione! Bugie, bugie! Passi poi per Gluck e Saint Saëns (li perdono perché amo la musica!), ma un certo Offenbach ha ridicolizzato me, Paride e Menelao. E se Giovanni Pascoli anche lui ha inventato, almeno ha scritto dei versi davvero carini a elogio della mia voce. Invece, non posso proprio sopportare come mi rappresentano attraverso quella balorda invenzione che chiamano cinema: fanno vedere alla gente, chiusa in una stanza buia, una serie di scene e scenette, e gli attori, invece di avere sul volto una maschera come nel vero e unico teatro, che è quello greco, sono dipinti e truccati, hanno capigliature assurde e vestono abiti ridicoli, ma soprattutto dicono cose che non stanno né in cielo né in terra! E soprattutto, Elena non è per niente divina, ma una donnetta assolutamente comune, priva di quel vero e autentico fascino che ai miei tempi si chiamava “charis”! Per questo, ho avvertito ad un certo punto che la misura era colma, e ho deciso di parlare.” D.“Principessa, ma che cosa mi può dire di Omero? Anche lui si è reso colpevole di falsa testimonianza nei suoi confronti?” R.“Ah Omero, il grande Omero! Assolutamente no, il poeta – vate è stato superiore in confronto a certe meschinità. Omero è epico, e questo è quanto. Omero racconta i fatti, non li deforma. Per Omero ho un debole, senza i suoi poemi forse non si sarebbe conservata la mia memoria: è vero, non si sarebbero raccontate anche tante malvagità su di me, ma ciò non è avvenuto per colpa del grande poeta. Omero affida a ciascuno le sue responsabilità: in primis, sono stati gli dei a volere la guerra di Troia. Come avrebbero potuto gli uomini opporsi, e, a maggior ragione, una debole donna come me? Perché tutte le donne sono per natura più influenzabili dalle circostanze degli uomini; lo dice Atena stessa. O non è così? Mi giunge voce dal vostro mondo che oggi vengono sostenute anche opinioni diverse da questa…” D.“In effetti, secondo autorevoli studi ed uno sviluppo sociologico ormai assodato, le differenze tra i sessi esistono, ma le donne non devono essere considerate inferiori agli uomini…” R.“D’accordo, ne riparleremo più avanti…certo, certo, di fronte a me quale uomo poteva resistere? Menelao era furioso con me quando mi trovò nella città di Troia, nel momento della conquista, aveva la spada sguainata e stava per uccidermi; eppure, bastò che mi togliessi un attimo il velo dal volto e dal seno, e cadde ai miei piedi…però, questo fu a causa della mia bellezza.

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Ma torniamo ad Omero. Omero riconosce, come è giusto, una responsabilità maggiore della mia a Paride, perché ha tradito il rapporto di amicizia stabilitosi tra di lui e Menelao a Sparta, dove era ospite – anche questo è da sottolineare – e si è spinto al punto di insidiare, durante una momentanea assenza del re, la sua legittima consorte, che , come tutti sanno, sono io. Il grande poeta non mi fa pesare la mia colpa, si comporta come un signore nei miei confronti; solo Ettore, valorosissimo eroe, è stato altrettanto umano verso di me. Ho pianto disperatamente, quando l’ho visto uccidere da Achille ed ho visto lo scempio del suo cadavere. Voglio che tu sappia, donna del 2000, che lui solo non mi ha trattata come una straniera a Troia; solamente lui non mi ha fatto sentire come una reietta, un’esclusa nella città in cui mi aveva condotto un figlio del re, con quello che tecnicamente si può considerare un rapimento…anche se, devo ammetterlo, io ero alquanto d’accordo. Ah, se l’ho pagata cara, la mia follia d’amore con Paride! Afrodite mi accecò, quando mi pose davanti il bellissimo, elegante principe Paride: lo aiutò a parlarmi con grande dolcezza e persuasione, e lui mostrò dei modi tanto più raffinati del mio solido e forte, ma un po’…come dire, noioso, scontato consorte…mi prospettò una vita diversa, in una grande città esotica come Troia…tra parentesi, bisogna dire quanto piccola e squallida fosse, allora e non solo, la famosa Sparta… Tuttavia, ma non fu per questo che gli cedetti: il motivo essenziale e più vero fu l’alone di luce, misteriosa e imperativa insieme, della quale mi apparve circondato Paride, quando lo vidi la prima volta: lo amai da subito non per un motivo particolare, ma perché mi apparve come l’incarnazione dell’Amore stesso. Poi, si mise a parlare…e io, sciocca, mi lasciai tentare e fuggii con lui senza pensare alle conseguenze! L’impatto con la cruda realtà dei fatti fu terrificante. Nella città assediata, mi resi conto ben presto che la vampa d’amore si stava smorzando, giorno dopo giorno: l’atmosfera era plumbea, gli abitanti di Troia furono quasi tutti, immediatamente, concordi nella loro ostilità verso la straniera, colpevole di quanto stava succedendo. Mi sentivo sola, sempre più sola, e Paride, anziché consolarmi con le belle parole di prima, era diventato taciturno quanto il laconico Menelao; ma soprattutto mi resi conto di quanto poco virile fosse il mio amoroso principe. D’accordo, non tutti possono essere dotati di capacità guerriere in modo eccelso; tuttavia, guardando il campo di battaglia dall’alto delle mura, notai quanto pigro e restio fosse Paride nel compiere il suo dovere di difensore della città. Scansava più che poteva gli incontri ravvicinati col nemico, al massimo usava le frecce. In un duello con Menelao, fece una ben magra figura; la mia stima nei suoi confronti giunse, in questa circostanza, a livello zero. La mia folle passione stava naufragando miseramente; l’amoroso alone intorno alle membra aggraziate di Paride era scomparso. 144


Mi sentivo così depressa, che mi sorpresi a parlare con la mia figura nello specchio; gridai nei miei propri confronti l’ingiuria, che i Troiani mi sussurravano alle spalle: “cagna”! avrei voluto morire, anzi, non essere mai nata!” D.“Ma non ci fu, Principessa, chi nell’antichità prese le sue parti e la difese?” R.“Intanto, cara, gli stessi che mormoravano dietro di me, se appena mi voltavo cadevano fulminati dalla mia bellezza! Ma la mia era, ogni volta, una ben triste vittoria, perché, per chiunque pensasse anche solo al mio nome, bellezza voleva dire rovina, distruzione, morte! Eschilo giunse a formulare un’ardita etimologia di “Elena” dalla radice “distruggere” (έλεĩν), creando una serie di composti quali: “Distruttrice di navi, di città, di uomini”. Anche Pindaro e Alceo – ahimè – si sfogarono in vere e proprie maledizioni nei miei confronti. Euripide mi volle difendere, sì, però a modo suo: si divertì a portare alle estreme conseguenze l’invenzione – del resto non sua – di un “eidolon”, o immagine o “doppio”, che io avrei avuto, e che sarebbe stato il vero colpevole delle mie malefatte. Era un’idea molto stuzzicante per gli spettatori, e infatti a tutti piacque la sua tragedia “Elena”; dirò di più, l’introduzione di un “doppio” aveva qualcosa di misterioso e conturbante. Ma si trattava di un falso! Se non lo so io, che sono Elena di Troia in persona; anzi, Elena ormai ombra, in momentaneo permesso dalla sua eterna prigione. C’è un unico, labile elemento di verità in questa trovata dell’”eidolon”: molto spesso, mentre ero a Troia, sola e non più innamorata, e anche in altre circostanze che poi chiarirò, mi sentivo come astratta da me stessa, non realmente viva, simile quindi a un’immagine fatta d’aria. Ma non lo ero; se mi pizzicavo, sentivo nelle carni un fastidio pungente.” D.“Ma allora, Principessa, nessuno la comprese veramente?” R.“Se penso ad un’anima sorella, al di là delle reali parentele, al di là delle apparenze, mi viene in mente solo lei, Saffo, la grande poetessa di Lesbo…si tuffò per un amore deluso dalla rupe della sua isola, e non era affatto brutta come uomini invidiosi vollero insinuare! Solo la sua anima appassionata poteva mettersi dalla mia parte in modo sincero, e infatti scrisse di me in una stupenda poesia, dedicata ad una compagna che partiva dal tiaso. Mi piacque tanto, quando Saffo giunta nell’Ade me la recitò sussurrando, che me la feci ripetere molte volte finchè non la imparai a memoria. Te la posso ripetere verso per verso: “Un esercito di cavalieri, dicono alcuni, altri di fanti, altri di navi, sia sulla terra nera la cosa più bella: io dico, ciò che si ama. È facile far comprendere questo ad ognuno. 145


Colei che in bellezza fu superiore a tutti i mortali, Elena, abbandonò il marito pur valoroso, e andò per mare a Troia; e non si ricordò della figlia né dei cari genitori; ma Cipride la travolse innamorata.”

D.“E’ una poesia bellissima, Principessa, ed è nota ed ammirata anche al giorno d’oggi…” R.“Prima di terminare le mie confidenze, giungendo a dirti le cose più tristi, ma anche alcune fra le più belle della mia vita, che pochi conoscono, vorrei da te, donna del 2000, una conferma che tu divulgherai quanto io ti ho detto e quanto sto per dirti, per amore della verità e per rispetto nei miei confronti.” D.“Ve lo prometto con tutto il cuore, Principessa!” R. “Ma dove verrà detto o scritto tutto ciò? Ho sentito parlare di una rivoluzionaria invenzione, che permette di “stampare” migliaia di libri…” D.“Per il momento non vi posso promettere la stampa di un libro, da parte mia, ma vi assicuro che, attraverso un altro mezzo ancora più nuovo, chiamato “internet”, avrete senz’altro molti lettori, da subito; almeno, spero…poi, quando si spanderà la notizia, che farà senz’altro scalpore, chissà…” R.“Benissimo, dunque proseguo con i fatti principali della mia vita. Qualcuno mi ha attribuito un altro marito, Deifobo, che avrei sposato dopo la morte di Paride e prima di riunirmi a Menelao. Bugia. Altri hanno favoleggiato di una mia eterna unione ideale con Achille, dopo la morte di ambedue: sarebbe avvenuta in un tempietto nell’isola di Leukè, alle foci del Danubio. Altra bugia. Siamo tutti e due quaggiù, nell’Ade, Achille ed io; fra l’altro, ci ignoriamo a vicenda: le nostre ombre suscitano, l’una nell’altra, tristi ricordi legati ai tempi della famosa guerra…e poi, non è il mio tipo. Numerosissime assurde fantasie aleggiano anche intorno alla mia nascita, con visioni di cigni, oche, uova, aquile, uomini, divinità…inseguimenti ed inganni cosmici nella notte fatale, che vide generarsi, dall’unione di Giove con Leda (ma forse anche con la dea Nemesi), e di Leda con il marito Tindaro, non solo la sottoscritta, ma anche i gemelli Castore e Polluce. Io non posso dire nulla di certo, perché i miei ricordi coscienti non risalgono tanto indietro nel tempo; certamente vi fu una notte molto movimentata, ma mia madre era una donna 146


onesta e non ebbe alcuna responsabilità in questo pasticcio: fu ingannata, come me e come moltissime altre donne attraverso i secoli. Ed ora, mia carissima donna del ventunesimo secolo ( mi sto affezionando a te, vedi…abbiamo così poche distrazioni nell’eterna grigia routine dell’Ade!), ti racconterò i fatti più brutti, ma anche più sereni della mia vita. Il tempo stringe, sento che l’ombra mi chiama…un brivido mi percorre tutta, devo assolutamente farmi forza!” D.“Coraggio, mia dolce Principessa! A proposito, come mai “Principessa” e non “Regina”?” R.“Tra non molto capirai. Come tutti sanno, sono nata a Sparta, anche se qualche altra città vorrebbe rubare alla mia patria il vanto di avermi dato i natali…sono cresciuta libera e spensierata con le mie compagne di gioco; ah, che tempi furono quelli! Correvamo lungo il fiume Eurota su prati di smeraldo fino a stordirci per la stanchezza; poi ci riposavamo sotto un boschetto di platani. I nostri corpi erano forti ed armoniosi, perché non li mortificavamo rimanendo immobili e rinchiuse nelle case, come le fanciulle ateniesi; facevamo esercizi di ginnastica, nude e unte d’olio come i maschi. Quante chiacchiere infantili e scherzetti allegri, vicine all’acqua che scorreva con amichevole mormorio! Poi, le gare di corsa, le danze sfrenate, simili a cerbiatte o baccanti… Imparavamo i sacri canti e io guidavo sempre il coro, perché avevo una bellissima voce fin da ragazzina, morbida e carezzevole. A proposito, il poeta Teocrito mi dedicò uno splendido epitalamio, e fece parlare le mie compagne con versi ispirati alla nostra vita serena e carica di gioiosa aspettativa nella vita. Il mio seno e i miei fianchi non erano ancora sviluppati, ma già molti uomini mi mettevano gli occhi addosso; quanto a me, non capivo che cosa rendesse infiammato il loro sguardo. Magari il tempo si fosse fermato! Ecco perché amo essere chiamata “Principessa”: questo era il mio appellativo, quando ero giovane ed ancora ignara delle perfidie degli uomini, della inclemente crudeltà della vita. La natura e il mondo erano brillanti e incontaminati, intorno a me: ogni giorno nasceva nuovo e puro, mi alzavo dal letto respirando un senso di pienezza tranquilla, se c’era il sole andavo a correre con le mie compagne, se pioveva mi lasciavo lavare dalle gocce d’argento! Detto tra parentesi, non voglio più parlare di tutta la sporcizia che mi fu buttata addosso durante la mia lunga vita; l’unica parentesi di gioia, di estasi addirittura, dopo l’infanzia, furono i primi tempi con Paride. Una fiammata, quale solo due adepti di Venere potevano vivere; con un retrogusto di amara cenere, però, nel ricordo. Non volli in vita, e non voglio tuttora, ripensarci più di tanto; troppo forte l’intreccio di gioia e dolore!” D.”E la vostra vita dopo il ritorno a Sparta, Principessa?” 147


R.”Indubbiamente, devo ringraziare Menelao per avermi ripreso con sé dopo la guerra di Troia, e per avermi sempre trattato in seguito come una regina; io mi comportai in modo irreprensibile, da quel momento. I nostri rapporti erano improntati ad una grande cortesia, in apparenza. Ma io, dentro, mi sentivo fredda, passiva, come fossi già morta. L’unico periodo della mia vita che ricordo con intatta allegria è quello dell’infanzia e dell’adolescenza lungo le rive del fiume…un sogno, che non mi sazio mai di tornare a sognare! E che fu bruscamente interrotto dall’uomo che violò la mia innocenza, estirpò con la violenza la mia fiducia nella vita, negli uomini, nel mondo. A distanza di secoli mi costa dirlo…le parole mi escono a stento…eppure, prima che l’ombra dell’Ade mi risucchi, devo finalmente dire ciò che qualcuno forse sospettò, ma i più tacquero per non infangare la memoria di un grande eroe…ma io, solo io conosco il dolore fisico e la vergogna, l’incredulo stupore, lo strazio…Teseo, sì, proprio lui!” D.”Ma come, Principessa, incontraste anche lui? Io non ne sapevo nulla…” R.”Mi vide ai bordi dell’Eurota, sola e semiaddormentata dopo una lunga corsa con le amiche. Ero appoggiata al tronco del mio platano preferito, quello cui appesero poi la mia corona nuziale quando mi sposai con Menelao, e che fu chiamato per sempre “l’albero di Elena”. Aprii gli occhi all’improvviso, udendo un specie di grugnito: un uomo muscoloso e scuro di pelle, con i capelli già in parte sbiancati dall’età, mi stava guardando e respirava affannosamente. Sapevo chi era, lo avevo visto nella reggia di mio padre, e anche lui aveva visto me. Non disse nulla: semplicemente, mi aggredì e mi penetrò con la forza. Nessuno mi sentì urlare, forse solo Zeus lassù sull’Olimpo, che tuttavia sembrò infischiarsene. Quando Teseo finì di dimenarsi, si abbandonò per un po’ sul mio corpo dolorante; poi, il grande “eroe” mi voltò le spalle e se ne andò come niente fosse accaduto. Io, che nella mia ingenuità non avevo ben capito che cosa fosse successo, rimasi a lungo immobile, quasi annichilita. Decisi di non dire nulla a nessuno del fatto; assurdamente, mi sentivo in colpa per la violenza subita. Ma nulla fu più eguale a prima per me, per tutto il resto della mia vita. Mi hanno chiamata “distruttrice di uomini e città”: ma io vi chiedo, signori del Ventunesimo secolo e di sempre, chi fu realmente il “distruttore”. Teseo mi fece conoscere la violenza distruttiva che l’essere umano cova in sé, sempre pronta a scoppiare. Teseo mi infilò nel corpo e nell’anima quel germe. Molti anni dopo, venne alla luce ed esplose, bruciando uomini, donne e città. 148


Ma io lo so, ora, che la colpa non è mia che in piccolissima parte. Maturando a contatto con vicende molto più grandi di me, vivendo con più dolore che gioia, più fatica che spensieratezza, sono arrivata a comprenderlo.”

Per questa “intervista impossibile”, mi sono liberamente ispirata alla seguenti letture: Roberto Galasso, “Le nozze di Cadmo e Armonia”, Adelfi Edizioni, 1988 Maurizio Bettini – Carlo Brillante, “Il mito di Elena – immagini e racconti dalla Grecia a oggi”, Einaudi, 2002 Euripide, “Elena”, introduzione e traduzione di Massimo Fusillo, BUR, 1997

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