Moodmagazine 22

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testo Camilla Castellani foto Nex Cassel

Lo scorso 14 maggio Nex Cassel pubblica Vera Pelle - Made In Italy, la nuova edizione del suo ultimo disco Vera Pelle uscito l’8 gennaio 2021. Nex Cassel scrive, scrive tanto e lo fa da sempre. Sono barre di chilometri macinati, aneddoti e vissuti. Il suo non è rap da copertina, perché esiste anche quello (e se nel gergo del politicamente corretto sì direbbe è giusto che ci sia, vorrei permettermi di dire: vero, ma che peccato). Il suo è rap e basta, nella sua forma più pura e genuina. E Vera Pelle - Made In Italy ne è una conferma. Un disco dove si riuniscono più e diverse influenze, sapientemente incastrate nelle barre di Nex e nelle produzioni di St Luca Spenish, che lo accompagna dal 2013. La loro sintonia artistica e umana è percepibile in tutto il disco. Un viaggio di suoni d’oltreoceano, sonorità british, beat contemporanei e rap a km zero: Hip Hop a trecentosessanta gradi. Ascoltare il disco ovviamente non ci è bastato, così lo abbiamo intervistato per farci raccontare qualche retroscena. Chi sono i giudici e la giuria nella musica di oggi? Ti senti giudice e giuria di te stesso? Io purtroppo so cosa significhi avere dei giudici davanti che decidono per i prossimi anni della tua vita. Per cui non voglio giudicare mai nessuno. Nessuno ha realmente il diritto di sputare giudizi in quel senso, però un'opinione sulle cose devi averla altrimenti saresti un ebete. Questa opinione, comunque, è un giudizio e se questo giudizio è il mio allora è un giudizio autorevole. Direi una sentenza (ride, n.d.r.). "Fino a giù" suona come un patto che fai con te stesso. È come se ripercorressi le tue radici, ringraziandole perché sono quelle che ti spingono a scrivere ancora oggi. È così? Tu che ne pensi? Il bello delle canzoni è che ognuno può dargli una propria interpretazione. Io tra l’altro cerco spesso di dare vari significati. Cerco di avere un impatto semplice, che arrivi anche live e all'ascoltatore meno preparato o più superficiale. Quasi sempre ci sono poi altri significati nascosti. Un po’ come vari strati sempre più profondi. In questo caso il pezzo parla delle amicizie tradite. La tua pelle è la tua armatura. Scrivi solo ciò che hai vissuto, e si sente. È una sorta di cronaca di te stesso: ma non ti fa paura metterti così a nudo? Rispetto ad un po' di anni fa scrivo cose meno personali. Sono sempre cose vissute, ma prima esponevo di più il mio pensiero. Mi confidavo maggiormente nelle canzoni. Forse non riuscirò mai più ad avere quella sincerità, però ora non ne ho più voglia. Il rap prima era più di nicchia e si potevano fare dei discorsi più complessi. Ora esporsi con posizioni un po' fuori dal coro crea un sacco di scocciature: le persone sono troppo polarizzate, non ci può essere un vero confronto, ma solo tifoseria. Io non mi posso permettere di dire tutto quello che penso altrimenti mi scasserebbero il cazzo e non ne ho voglia. Tra l’altro la gente non ha sempre il desiderio di ascoltare argomenti troppo pesanti. E io sono pesante e personale, nonostante mi trattenga un po’ di più rispetto a prima. Pensa, ci sono pezzi vecchi che non faccio live: sono i miei pezzi più belli ma sono troppo intensi, prima di tutto per me. Quando è uscito Vera Pelle, Vera Pelle (Made In Italy) esisteva già? I pezzi che hai aggiunto sono una costola che va a sostenere la struttura di questo nuovo progetto? “Vera Pelle” (la traccia) è l'unico pezzo del repack che ho scritto dopo l'uscita del disco, ma tutta l’operazione era stata pensata così fin dall'inizio: è stato più facile comunicare il disco in due tempi.

Penso che la comunicazione sia sempre stato un mio punto debole: ma forse questo lavoro è stato comunicato meglio, credo che la gente più o meno abbia capito cosa volessi fare. E così mi hanno seguito. È importante essere in sintonia con le intenzioni dell'artista per godere a pieno di un'opera, essere nello stesso viaggio. "Bassdown" è il pezzo, se vogliamo, da club del disco. Perché non l'hai inserito nella tracklist di Vera Pelle? È un'appendice di questo nuovo capitolo, che poi è il tuo disco? “Bassdown” è un pezzo un po' club, ma si tratta di una traccia senza ritornello con le strofe mie e di Clementino attaccate, due strofe lunghissime piene di barre. Nel disco ci sono vari hitmaker come ospiti, ma non abbiamo mai cercato la hit, solo del buon rap. Questi due progetti hanno avuto tempi di uscita ravvicinatissimi. Avevi proprio esigenza di scrivere e fare uscire così tanto materiale? Da quanto tempo ci lavoravi? Ci abbiamo lavorato tanto e abbiamo scartato altrettanti pezzi che erano fighi, ma poi abbiamo compilato il disco con questi. Vorrei dedicare ancora più tempo alla musica, ma dovrei guadagnare molto di più. Ora ho un buon supporto dai miei fan e un buon rapporto con loro, se aumentassero, aumenterebbe anche la quantità di musica. Quello con St Luca Spenish è ormai un vero e proprio sodalizio: sarà Adriacosta ma suonate proprio bene insieme. Come avete lavorato alle basi del disco? Quali sono state le influenze, se ci sono state? Io ci sento un po’ della scena francese. Mi viene in mente Lithopédion di Damso... Le basi le ha fatte Spenish mentre io nella stessa stanza scrivevo. Che fosse il suo studio, il suo salotto o casa mia a Milano. Noi per produrre dobbiamo avere due divani: uno per lui e uno per me. Siccome anche io sono un producer, è molto figo lavorare in questa maniera. L'interazione è costante. Siamo due vietcong: quando ci barrichiamo a lavorare possiamo andare avanti giorni con la giusta scorta di alcol eccetera. Preparatevi però a sentire roba mia prodotta da un altro grandissimo producer, ma anche da me. Le influenze sono arrivate dalla scena inglese e da quella newyorkese principalmente, ma in generale da tutta la musica che abbiamo ascoltato in tutti questi anni. Rap francese quasi non lo ascolto, se non quando sto con i miei amici che se lo sentono tutto il giorno, tipo Krisi. Da Come Dio Comanda a Vera Pelle (Made In Italy): come si è evoluta la tua musica? Come sei cambiato tu? E come secondo te è cambiata la scena? Io penso di essere estremamente coerente con il mio percorso, e gli elementi portanti dei miei dischi sono gli stessi fin da Colpo Grosso dei Micromala. Lì c'era il Dirty South (la trap ancora non esisteva) c'era il Boom Bap e la West Coast. Stessa cosa per Come Dio Comanda che inizia con un pezzo trap alla Harry Freud per poi viaggiare con l'hardcore newyorkese e la West Coast. Questo disco è uguale. Ovviamente cambiano i tempi, i suoni e gli ospiti ma la formula in questi casi, compreso Rapper Bianco, è la stessa. Lo Ve è diverso perché interamente prodotto da me e completamente incentrato su New York. Il mio side project, Fratelli Freschi, invece ha invece un focus musicalmente più allegro, da spiaggia. Insomma, questi sono i tre filoni che sto seguendo. Penso in questo modo di essere più vero, di non nascondere nulla dei miei gusti e della mia personalità.

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testo Selene Luna Grandi foto Paolo Morelli

Non me la sento di scrivere un'introduzione canonica per questa intervista. Potrei darvi le informazioni standard su Rap Inferno, dire qualcosa sull'etichetta, sulla reperibilità e sui video che lo hanno anticipato. Ma sono tutte cose che potete trovare su qualunque sito di rap. Ho poco da dire. Perché tutto quello che lui aveva da raccontare lo ha messo nel disco, come sempre, e lo ha rimarcato in questa intervista, rispondendo, a volte, a domande anche sciocche o appositamente provocatorie. Aban ha quasi trent'anni di storia da raccontare. Una storia vera, di strada, quasi infernale (a tratti). Vorrei partire con delle domande quasi esistenziali: qual è il problema del mainstream? Innanzitutto non è un problema, ma semplicemente un discorso economico che riguarda il mercato dell’industria discografica. Fin quando la musica è stata utilizzata con l’intento di essere espressione e identità, come cultura di chi si sentiva rispecchiato, il valore era molto più alto di quello che mai potrebbe calcolare qualunque schema di marketing. Bisognerebbe investire nella ricerca di artisti veri, musicisti veri, chi è davvero un talento tipo Beethoven, Bob Marley, Jimmy Hendrix, Janice Joplin, Jim Morrison, Santana, Frank Zappa, e tu avresti a disposizione una corrente culturale con dei veri e propri movimenti che vanno oltre la possibilità di poter partecipare o meno a dei concerti al costo di 50€ per degli artisti che si esibiscono per 45 minuti scimmiottando sul palco atteggiamenti e culture come stili di vita che non hanno a che vedere con la vita quotidiana di ogni persona. È proprio per questo che se il mercato musicale impone un determinato trend, chi ascolta è costretto a dare per buono ciò che sente, tanto da immedesimarsi in una musica che è frutto di ladrocinio e che porta giovani inconsapevoli a trasformarsi in attori che recitano un copione scritto da dire, con un quoziente intellettivo sicuramente inferiore alla media ma con un potere economico dato dall’immagine, ossia industrie vere e proprie che nessun altro umano potrebbe mai contrastare con il proprio lavoro. Quindi quando è il denaro che detta legge, il quoziente intellettivo non serve. Il problema è tutto qua. Quindi tu pensi che l'Hip Hop possa avere un posto nel mainstream... Io penso che l’hip hop dia da mangiare al mainstream già da quarant’anni. Se non fosse per il rap il 70% della musica elettronica nata in Europa non esisterebbe, non esisterebbero i campionamenti, non esisterebbero determinati effetti, non esisterebbe la base utilizzata da sempre per un’industria che poteva tranquillamente rubare da chi la musica la faceva in mezzo alla strada, e non dalla musica nata nei conservatori o negli studi da milioni di euro. Ormai il senso lo ritrovi di più nei testi scritti per le pubblicità che non in quelli messi nei dischi, ha più senso una barra su un assorbente che non otto barre di un deficiente che trasmette qualcosa che non ha vissuto ma che ha solamente interpretato quasi senza rendersene conto. Siamo noi (il pubblico!) che vogliamo fuffa e quindi ce la danno, o ci viene imposto? A volte me lo chiedo ancora... È un’idiozia quella di poter pensare a cosa noi cerchiamo nella musica, ma se prima di inventare la ruota l’uomo primitivo continuava a spostare i massi solo con la forza delle gambe, era perché non aveva ancora scoperto il piacere di poter trasportare 10 kg di bisonte senza dover impiegare un’intera giornata. Quando poi inventò la ruota nessun cretino continuò a spostare i massi con le gambe. Se pensiamo al mercato industriale italiano è impossibile non rendersi conto che è totalmente monopolizzato dal potere economico di industrie che sono solo società per azioni con l'intento di accumulare denaro. Ad esempio se io al mercato decido che tutti debbano vendere patate

e caccio a calci in culo i venditori di zucchine e melanzane, tutti compreranno solo patate e quindi nessuno scoprirà il gusto delle melanzane o delle zucchine e continueranno a pensare alle patate come il cibo più buono del mondo. Il discorso è così semplice e chiaro che mi chiedo come mai ancora qualcuno si faccia questa domanda. La domanda te l'ho fatta formulandola proprio con il a volte me lo chiedo perché volevo appunto avere il tipo di risposta che hai dato. Grazie. Tra l'altro funziona molto il discorso delle patate: non molti magazine offrono spunti per discussioni scomode. Non so cosa ne pensi tu, ma anche il mondo informazione è da anni paragonato al mainstream. Hai un altro punto di vista? Come in tutto il mondo dello spettacolo chi muove le leve del mercato è sempre la pubblicità. La promozione al giorno d’oggi è alla base della diffusione e dell'esistenza di un prodotto. Ovviamente se la struttura degli organi di pubblicità in questione è basata unicamente sul piano del ricavo commerciale difficilmente il prodotto che viene spinto avrà le caratteristiche necessarie per essere un prodotto di qualità. Qualitativamente parlando potrà essere perfetto nella forma tecnica, ma l’essenza che è alla base del motivo primario che spinge un artista alla creazione verrà notevolmente sminuita se il fine non sarà più l’arte in se per se, ma una retribuzione economica. Infatti anche per quanto riguarda la frangia dei blog e dei magazine di settore ci ritroviamo di fronte ad un totale impoverimento dell’intuizione del giornalista stesso quando la sua idea e il suo gusto diventano non più il punto di vista che fa la differenza in una relazione, ma un’omologazione alle richieste del mercato che rendono totalmente privi di valore articoli e le loro recensioni di qualunque valore tecnico o artistico che sia, ed è per questo che ti ringrazio di esserti accostata ad un discorso ostico e fuori trend, fuori dalla portata di riviste come Esse Magazine, per non fare nomi chiari. Sono partita dal mainstream. Ma va detto che anche nell'underground ci sono delle problematiche evidenti. Tu stesso hai anticipato il disco con “Come un clan” e all'inizio del brano fai un commento su cosa sia realmente underground o no. Evidentemente non hai capito appieno quello che dico all’inizio, «underground non si fa underground si è». Significa che l’attitudine l’impegno e la volontà di intraprendere la carriera musicale non sono dettate assolutamente dal fine di diventare famosi, avere dei soldi e avere quel rispetto falso e forgiato unicamente dagli status symbol e dai trend di oggi. Ricordo che ai tempi della vecchia scuola (e parlo di Sangue Misto, Lou X, Kaos One, Zona Dopa) l’intento del movimento si basava proprio sull’anti ego. Tutto quello che il movimento voleva vedere sul palco era unicamente musica fatta con passione, non importava se vestivi con un paio di jeans del mercato o con una felpa Gucci, perché la base del messaggio era sempre stata indirizzata verso l’esclusione dei privilegi che potevano essere comprati da chi aveva la possibilità. Sul palco volevamo vedere uno di noi, uno di quelli che si sentiva artista unicamente tramite la sua musica, non di certo grazie allo sfarzo di un Rolex. Ma lungi da me condannare la scelta di chi ama ricoprirsi di status symbol. A noi comunque non ce ne fregava un cazzo dei vestiti, ci interessava solo sapere se spaccavi e se ti meritavi un posto sul palco. In realtà ho capito quello che hai detto e che intendi. La delivery della mia domanda magari era scadente. Ad ogni modo, per i nomi che hai citato all'inizio del pezzo hai ricevuto critiche o commenti? Se lo avessero fatto a me gli avrei dedicato un disco di dissing o quanto meno avrei cercato un confronto pubblico e reale. Quello che ho di mio in questa vita è il nome, che mi sono fatto perseverando nell’ottica

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della coerenza e del rispetto verso la musica rap. Ho iniziato a rappare nel 1996 e dopo qualche anno già calcavo palchi di calibro nazionale, portando avanti a testa bassa e senza indugi i valori dell’hardcore e la libertà d’azione dell’underground. Nel frattempo davanti ai miei occhi ho visto trasformarsi letteralmente la stragrande maggioranza dei rapper della mia scuola, che avevano cominciato sullo stesso mio sentiero di artisti indipendenti. Ho visto trasformarsi il suono, lo slang, l’attitudine e il valore imprescindibile del messaggio contenuto in ogni traccia. In questi 20 anni ho visto diventare ricchi oltre limite molti di quelli che consideravo amici. Perché si sono trasformati? Ma soprattutto, cosa non ha fatto trasformare te? Quello che non ha fatto cambiare me è stata una necessità che evidentemente gli altri non avevano. Ho cominciato a rappare a 16 anni. In quel periodo il rap non lo faceva nessuno perché il premio era imparare una cultura, non guadagnare dei soldi. Venivo fuori da una situazione critica per un adolescente, tra procedimenti penali, coetanei morti, totale incomprensione familiare che inevitabilmente sfociava in depressione. Quando ho cominciato a rappare è stato come imparare a respirare sott’acqua. L’unica cosa che mi desse un’emozione che potesse alimentare l’entusiasmo nel vivere divenne il rap, ogni demone lo incastravo fra le barre e ogni dolore diventava più sopportabile, mentre attorno a me scoprivo una comune dimensione dove potevo non sentirmi solo. Da allora fino ad oggi non è cambiato niente, il motivo che mi spinge a farlo è stato sempre salvarmi la vita e per riuscire a rimanere legato a quella sensazione di entusiasmo in ogni barra che scrivo dev’esserci coerenza, verità e dolore. Altrimenti la magia non funziona. Rap inferno apre il proprio comunicato alla stampa con una dichiarazione in cui parli di fini e mezzi. Qual è il tuo fine con la musica, o meglio, con l'Hip Hop? «Il fine e il mezzo e non mi trovo mai contento», Lou X. Nessuno ha mai parlato di avere un fine, per quelli come noi l’unico obiettivo è fare musica alzando costantemente il livello della tecnica e del messaggio, le uniche due costanti, assolutamente dipendenti l’una dall’altra. Già il fatto che ci si possa porre una domanda del genere porta a capire quanto la musica oggi non sia più espressione dell’umana emozione ma solo un prodotto pari ad ogni altro sul mercato. Fra tutti i pezzi che hai fatto in Rap Inferno, quello che più mi ha colpito è “Un Lupo”. Uno dei miei animali preferiti. Tu ti ritrovi in questo animale? Comprese anche le dinamiche del branco? Certo, è un animale leale pronto a morire per difendere i suoi, pronto a sacrificarsi anche nel nutrimento per dare forza a chi ne ha più bisogno in quel momento. Ma allo stesso tempo quando il lupo comincia a cambiare il suo mantello in grigio, sa benissimo che la scelta è abbandonare il branco e continuare il suo percorso da lupo solitario per poi ricominciare il ciclo, ricreando un nuovo branco e d una nuova prole sotto la sua guida. Penso sia fin troppo simile al modo in cui ho impostato il mio stile di vita rispetto a questa musica che vive delle emozioni condivisibili e percepibili non da tutti. In quale momento della tua vita ti si è ingrigito il pelo e hai abbandonato il branco? I lupi abbandonano il proprio branco in natura per due motivi: quando stanno per morire o quando decidono di voler fondare un nuovo branco. A me sono successe entrambe le cose. Quando le gerarchie del branco non collimano con i tuoi ideali di giustizia e verità è proprio il tuo branco a volerti allontanare, e quando non vuoi padroni né capi, rischi di diventare la preda. Mi pare che un lupo sia presente anche in copertina... In realtà non c’è un solo lupo, i lupi sono tre in un solo corpo come il cerbero di Dante. Le tre teste hanno dei riferimenti ben precisi, sono le teste dei tre anarchici che attentarono alla vita del re d’Italia Umberto I: Gaetano Bresci, Giovanni Passanante, Pietro Acciarito. L’artwork della copertina è stato affidato ad Andrea Carta.

Quando hai iniziato a lavorare al disco? Ci ha messo un bel po' a uscire.. I pezzi che ho inserito in questo disco non sono per forza legati ad una cronologia prestabilita dal tempo impiegato a farlo. Alcuni pezzi risalgono anche ad anni fa ma solo oggi hanno avuto la motivazione di esistere. Dopo dieci dischi dove l’ultimo, Walkin Dead, chiudeva un ciclo preciso della mia vita, Rap Inferno è una rinascita, sia dal punto di vista tecnico che da quello del messaggio contenuto in esso. I featuring sono pochi e assolutamente fuori dal mainstream, ho voluto solo chi poteva incarnare realmente le parole credibilità e coerenza come PL e Trage Santasangre, Royal Mehdi, Cannas Uomo. La produzione delle strumentali è il 50% del valore del disco, affidate per la maggior parte ad Enrique Velasquez e per il restante a dj Clas K. Credo che Kiquè Velasquèz risulti al momento in vetta ad un’ideale classifica di producer che mai si sono venduti sacrificando la visibilità pur di vivere e produrre la musica nell’essenza stessa del termine e soprattutto lontana dalle mode, dai trend. "Anfibi di Cera" è un altro di quei pezzi che solleva un po' di temi fra cui la discriminazione. Come è vissuta nella tua zona? Anche quest’anno abbiamo avuto gli ennesimi segnali di un estremo livello di intolleranza verso il prossimo. Salvini è riuscito a convogliare, rendere concrete ma soprattutto trasformare le paure insite nella fascia popolare ampliando il senso di discriminazione e di cinismo nei confronti di esseri umani nella situazione più disagiante e indegna possibile. La strada è un altro tema portante del disco. Per chi ti conosce poco, qual è il tuo rapporto con la strada? Cosa ti ha insegnato? Partiamo dal fatto che ho lasciato presto casa, intorno ai 16 anni. Dormivo in un ufficio di mio zio (buonanima) che aveva firmato l’affidamento per la messa alla prova dopo un processo a mio carico. Condividevo con il mio cane Raul la stanza e cercavo di starci il meno possibile, altro posto non c’era che la strada ad accoglierci, garantendoci sempre totale libertà e un microcosmo totalmente indipendente. Il primo rapporto fu sicuramente legato alla frequentazione di ambienti legati al mondo degli ultras e di tutto ciò che riguardava il mondo delle street culture fino ad arrivare ad ambienti spesso legati all’illegalità. Tutto questo era quasi normale in quel periodo, legale ed illegale molto spesso non invadevano la sfera della moralità, un atteggiamento diciamo più radicato al sud che al nord. Qual è la situazione di molti giovani a Lecce? Non credo che la situazione dei giovani a Lecce sia particolarmente diversa da quella di altre città del sud. La disoccupazione, la mancanza di una cultura generale che possa influire anche sul lavoro (molto spesso sottopagato e nero), a volte accettato quasi come una normalità nonostante altrove l’assicurazione e i contributi sono alla base di ogni lavoro. Basti pensare che ancora riesce a sopravvivere il fenomeno del caporalato, che vede lo sfruttamento vero e proprio delle risorse umane della fascia con meno diritti e possibilità: quella degli immigrati. Sicuramente questa città ha il pregio di saper farsi amare ed essere parte integrante dello spirito di chi la vive ogni giorno. Non meno importante è la questione che riguarda il lato della gestione dello spettacolo. I pochi locali attrezzati professionalmente danno spazio unicamente a ciò che segue il trend, limitandosi ad artisti che toccano esclusivamente ambiti più che commerciali con la loro musica. Questo è il nostro più grande ostacolo, specialmente per chi come noi non è mai andato via dalla città, e chi l’ha fatto è tornato per portare un bagaglio di esperienze e di valori che oggi rivedo in alcuni rapper di zona.

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testo Selene Luna Grandi foto Al Castellana

Vivendo a Londra ormai da anni, mi sono sempre riempita d'orgoglio ogni volta che in qualche radio british ho sentito la splendida voce di Al Castellana e la sua introduzione come di un “Italian soul singer”. Avevo avuto l'occasione di parlare con lui anni fa (quasi dieci!) su MyHipHop per l'uscita del disco Funk me to the Moon. Sembra passato pochissimo, e invece, questo favoloso artista di Trieste è stato più produttivo che mai ed estremamente quotato dal mercato estero. Il suo contributo all'Hip Hop Italiano inoltre, attraverso le sue sfumature funk e soul, è incontestabile e inestimabile. Come lui stesso racconta, dopo un paio di dischi solisti in italiano, proprio da Funk me to the Moon, l'artista riprende la scrittura e l'interpretazione in inglese lanciandosi nel mercato Internazionale. Nel novembre del 2020, in piena pandemia , propone al pubblico il singolo “Love is Here” a cui segue qualche mese fa la pubblicazione del disco The Right Place to Be. Inutile commentare la bellezza, la cura e lo stile dell'album. Procurarselo è fondamentale, soprattutto se si collezionano perle Soul e se si vuole sostenere, soprattutto in un momento come questo, la musica Italiana. L'ultima volta che ti ho intervistato eravamo su MyHipHop e parlavamo di Funk me to the Moon. Sono passati quasi dieci anni ma già allora i tuoi dischi erano in inglese. Potresti fare un piccolo passo nel passato e raccontare come è avvenuto il tuo approccio sul mercato anglosassone? Dopo l'uscita di Funk me to the moon sono stato contattato da un'etichetta giapponese e da una community inglese specializzata in Soul Music e RNB. Senza grossi preamboli l'etichetta giapponese mi propose di lavorare ad un'uscita in Giappone dell'album successivo e, allo stesso tempo, la community inglese mi fece conoscere in UK pubblicando alcuni brani di Funk me to the moon sul loro sito. Da li sono stato inserito in una Chart di artisti emergenti e ho suonato in alcune Radio specializzate. Poche chiacchiere e grossa sostanza. In seguito abbiamo contattato il più grosso ufficio stampa in ambito Soul/ RNB in Uk e da allora sono passati 3 album e tante soddisfazioni. Le radio e gli ascoltatori hanno cominciato ad apprezzarmi e a conoscermi fino a farmi approdare al #1 della UK Soul Chart con il penultimo album Souleidoscopic Luv nel 2017. Ma tu hai vissuto a Londra per un periodo o sei ancora qui? Perdonami, non ricordo. No, ma per i live, radio tour, promozione in generale e turismo ci vengo spesso. Hai mai pensato di trasferirti? Ci ho pensato, ma forse avrei dovuto farlo una decina di anni fa. Adoro London ma adoro anche il posto tranquillo dove vivo, la tranquillità alla mia età è importante e la mia città in questo è il top. Ma consiglieresti di spostarti dall'Italia? Qual è il tuo pensiero sulla fuga dei cervelli? Parlando da musicista ti dico che lo consiglierei vivamente nel caso in cui non venisse riconosciuto il tuo talento o la musica che proponi non avesse grande seguito qui da noi, ma anche soltanto per fare esperienze nuove che possano arricchirti professionalmente e artisticamente. Credo che sia nell'indole dell'artista spostarsi ed inseguire i propri sogni. Il mio sogno era quello di spostare la mia musica al di fuori del l'Italia e se fossi rimasto a vivacchiare del passato glorioso di certo mi sarei privato di tutte queste soddisfazioni. Credo che lo stesso discorso valga per la cosiddetta fuga dei cervelli. Riassumendo dico che se sei bravo e ti sei fatto il mazzo per diventarlo, vattene dove questo ti venga riconosciuto professionalmente ed

economicamente poi torna in Italia per le ferie, che a posti belli siamo imbattibili. La prima volta che hai scritto o hai cantato in inglese hai avuto difficoltà? In realtà ho iniziato a cantare con la mia prima band in inglese a inizio anni 90, e il mio primo singolo era in inglese. Ritornare a scrivere e a cantare in inglese dal 2011 è stata una gioia, non escludo in futuro di poter ricominciare a scrivere e cantare in italiano ma per ora va bene così. Quindi non è legato solo agli ultimi anni! Quindi qual è la tua esperienza nel processo creativo in un'altra lingua? Ci sono cose diverse che fai da quando scrivi in italiano? E soprattutto come, nel tempo, sei riuscito a scrivere così bene e a perfezionarti anche nella dizione? In tanti in Italia ci provano e falliscono miseramente. Come ti ho detto ho iniziato a cantare in inglese già in giovane età. Ascoltavo i dischi dei grandi artisti Soul e Funk e con la mia prima band portavo in giro un live interamente cantato in inglese, quindi, tornare a scrivere in inglese, mi è risultato naturale e mi ha tolto un sacco di problemi che la lingua italiana comporta per chi scrive brani molto ritmati. A questo aggiungi i modi di dire sintetici e il suono estremamente musicale delle parole che la lingua inglese offre. Per quanto riguarda la pronuncia, ricordo la mia insegnante di inglese delle medie che mi diceva sempre: non studi mai ma hai una pronuncia top, come fai? e io le rispondevo che studiavo sui dischi. Se parliamo invece di come è concepito il mercato discografico? Quali sono le differenze con l'Italia? Non parlerei di mercato ma di affezione, nel senso che quando la gente comincia ad apprezzarti ed affezionarsi alla tua musica, allora ti seguirà con attenzione e competenza per sempre acquistando i tuoi album e supportandoti nei live. La Soul Music è molto apprezzata in UK e il mercato è ancora florido in questo senso. C'è una grande nicchia di appassionati e un circuito di radio che promuovono sia il mainstream che gli artisti indipendenti. Quali sono i tuoi posti preferiti qui da me? Il mio posto preferito è il posto dove c'è musica, quindi ti dico che adoro il negozio di dischi tra cui il leggendario Soul Brother Record in Keswick Rd. Per la musica live c'è l'imbarazzo della scelta! Che te lo dico a fare? Per il cibo, ovunque posso mangiare una cesar salad. Veniamo ora al tuo nuovo disco. Lo scorso anno lo avevi anticipato con il singolo “Love is here”. Per I lettori italiani che non masticano bene l'inglese, racconteresti cosa dici nel brano? “Love is here” esprime lo stato d'animo del momento esatto in cui ti accorgi di essere sopraffatto dalle emozioni e non riesci più a nasconderle, il momento esatto in cui la ragione si arrende al sentimento e l'amore prende il sopravvento inesorabilmente. L'ho scritta perché mi è successo questo, improvvisamente, dopo un periodo non propriamente felice. Ora l'amore è qui. Come mai è stato il singolo che hai scelto per anticipare il disco? Non so perché in realtà. Non faccio mai un brano pensando di farlo diventare un singolo, ma forse mi sembrava giusto celebrare la felicità ritrovata e così pensava anche il mio management, quindi Bingo! "Love is here" è stato al #8 della UK Soul Chart. Chi c'è dietro al tuo disco? Etichetta, distribuzione, produzione, studio di registrazione? E soprattutto, dove si può acquistare? Lademoto Records con Believe Digital per la parte digitale e Aldebaran

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Records per stampa, distribuzione e vendita del vinile e cd. Come sempre, da oltre un decennio, la scrittura e la produzione dell'album è affidata al sottoscritto in coppia con Daniele Speed Dibiaggio (il mio partner in crime oltre che amico fraterno) per Soul Combo Productions. L'album è stato registrato e mixato da Speed al Free Jam Studio e masterizzato da Ricky Zio Carioti al One Eyed Jack Studio. In Italia invece che tipo di feedback hai avuto per questo brano e in generale per il disco? In Italia qualche radio ha suonato il singolo e ho fatto molte chiacchierate con conduttori radiofonici e giornalisti preparati sull'argomento, ma a dirla tutta, quando mi arrivano i report settimanali degli ascolti radiofonici vedo Uk, Usa, Germania, Francia e Australia e verso la ventesima posizione l'Italia. (ride, n.d.r.). La stessa cosa vale per gli streaming delle varie piattaforme digitali. Non te lo chiedo in maniera provocatoria. Sono realmente curiosa. Ti interessa ancora il parere o in generale l'appoggio del pubblico Italiano? Mi interessa l'appoggio di chiunque ami questa musica e capisca la difficoltà nel proporla in Italia e ringrazio di cuore tutti gli amici e gli amatori del genere che hanno acquistato l'album e che continuano a supportarmi con affetto e stima. Leggevo in un'altra tua intervista che in realtà The right place to be era già pronto molto tempo prima che uscisse. Cosa ti ha fatto dare il benestare alla sua pubblicazione? Vero, era pronto da un bel po', ma nessuno avrebbe previsto tutto quello che stiamo vivendo da oltre un anno, quindi insieme al management/ufficio stampa e congiuntamente con Aldebaran Records, abbiamo deciso di farlo uscire in un periodo che ci trovasse pronti e felici di promuoverlo con il dovuto amore. Se lo dovessi descrivere tu, come lo definiresti questo disco? Che sonorità ci sono? Quali contenuti? Si tratta di un album di Classic Soul, Old School, elegante e con qualche episodio contemporaneo che esprime la mia idea odierna di Funk. Un album positivo che chiude i conti con il mio passato tormentato e, grazie all'amore ritrovato, si proietta verso il futuro senza mai dimenticare le lezioni del passato. Se prendiamo a campione i dischi degli ultimi anni, quali sono le differenze fra di loro e i continuum? Qualcuno ha scritto che la mia discografia completa sembra essere un unico album senza soluzione di continuità. Ebbene io dico che non ha ascoltato bene i miei album precedenti infarciti di brani che andavano dal neo soul al funk più ignorante, passando attraverso tentazioni sperimentali e momenti jazzy. Alla fine della fiera però mi fa piacere quando me lo dicono. Io faccio Soul e farò Soul. Respiro Soul e voglio fare Soul. Nuovo o vecchio che sia, progressivo o regressivo, ma Soul. Scusa non ho capito bene forse. In pratica ti hanno detto che i tuoi pezzi sono tutti uguali? No, che i miei album si somigliano l'uno con l'altro. Ma ho già risposto. Dico solo che la coerenza e l'amore per un genere musicale non è certo un peccato, anzi, vi dico che tutti i cambiamenti di vari artisti di mezza età, fatti per restare a galla e per sembrare moderni ad un uditorio di giuovani, a me sembrano leggermente imbarazzanti. Anche se ti autotuni o cambi genere rinnegando il passato, la gente si ricorderà di te per quello che li ha fatti vibrare e star bene in quegli anni. Che significato dai al titolo? Lo hai scelto durante la pandemia o è stata una casualità? Sembra il titolo giusto per questi tempi assurdi ma in realtà l'ho scelto molto prima. Il significato è chiaro e limpido, indifferentemente dove tu sia il posto migliore in cui stare è quello dove sei con chi ami, dove c'è musica, dove sei te stesso. La copertina un po' lo spiega, un divano, una bella signorina che ti attende con un sorriso e del buon vino, uno

strumento musicale per suonare quando sei preso dall'ispirazione, un giradischi per ascoltare i vecchi vinili ... poche robe ma fondamentali. Posso chiederti come mai la scelta della stampa su vinile? Si tratta di qualcosa che fai spesso o lo hai scelto solo per questo disco? Anche il precedente Souleidoscopic Luv era in vinile. Se fosse per me, obbligherei tutte le labels a stampare almeno in numero limitato gli album in vinile. Il vinile è un elegante signore che non andrà mai fuori moda. Viva il vinile e abbasso gli audiolibri! (ride, n.d.r.) Come mai, in generale, secondo te è tornato così popolare il vinile? Per molti è un bel feticcio e fa arredamento. Per quelli come me significa suono e calore, ma in sostanza credo che una bella fetta di gente più in età si sia sfracellata gli zebedei del suono digitale e non voglia rottamare i giradischi di mille battaglie, ma anzi farli rivivere fieramente! Tu personalmente come hai vissuto i vari lockdown? Come tutti credo, con ansia e incertezza. Non si è mai pronti per una roba del genere, la paura fortunatamente non si è trasformata in depressione, ma la musica mi ha aiutato come non mai, ancora una volta, come sempre. Il mercato dello spettacolo e delle arti rientra fra alcuni di quelli che se la stanno davvero passando male. Cosa credi che possa aiutare, alla fine del tunnel, per rilanciare la musica e in generale l'intrattenimento? Non so, ma so che siamo l'ultima ruota del carro, come se non fossimo indispensabili. Allora mi chiedo: come sarebbe stato un lockdown senza gli spettacoli o i film in tv e senza ascoltare musica? Penso che la gente sarebbe impazzita, sopraffatta dalle paure. Credo sia giunta l'ora di spiegarlo bene ai governati. O si ricomincia o devono essere ristori immediati e congrui a quello che abbiamo perso da oltre un anno. Quali sono le collaborazioni più interessanti a cui hai lavorato negli ultimi anni? Ho collaborato con me stesso dopo un periodo che ci stavamo sulle scatole.. Sognando invece, quali sono gli artisti che vorresti avere nel tuo prossimo disco? Neanche tanto sognando. Sono stato sdoganato ormai in un giro di artisti internazionali di un certo livello in ambito Soul e qualora ne sentissi l'esigenza potrei stupirvi con effetti speciali. Concludo questa favolosa chiacchierata con te chiedendo la tua opinione su tutte le forme di edonismo, soldi e vestiti che sono entrate nella musica di oggi. Non solo nel rap, ma anche nel Soul e nell'Rnb. Come mai, secondo te, è cambiato il modo di porsi? Sono gli artisti a dare il trend o gli artisti danno quello che la gente vuole? Nel Soul, quello vero, quello dei Grammy, quello che in Italia pochi frequentano, non vedo eccessi. Her o PJ Morton, Ledisi o Jazmine Sullivan non hanno bisogno di sventolare soldi o lustrini. Basterebbe farsi un idea andando ad ascoltarli nei loro live su Youtube. Esiste il vestito della festa per i palchi importanti, ma esiste la tuta ginnica per tutto il resto e se proprio vuoi essere veramente Soul Classic allora devi essere vintage 70 come gli stilosissimi Paak e B. Mars ai Grammy di quest'anno. E poi per quanto riguarda il modo di porsi, a me sinceramente interessa la musica e quindi puoi porti come vuoi o come vuole la gente, se la tua musica non ha spessore, durerà poco.

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testo Claudia Sciacca foto Fabiana Di Pietro Alessia Quattrocchi

Greta Battaglia, classe ‘88, ragusana e con tante cose da dire e da urlare. La sua penna non smette mai di scrivere, soprattutto quando cala il sole. Una carezza con le unghie!, pensai dopo aver ascoltato "Le lamentele versione unplugged", brano tratto dall’omonimo EP del 2015. Si, Greta la vedo proprio così: una carezza armata, protetta da un’armatura di cobalto, una corazza che si è dovuta creare per affrontare i duri ostacoli che la vita le ha posto durante il suo cammino. Battaglia di cognome e battagliera di fatto. Ve la presento in questa intervista realizzata al telefono, durante un pomeriggio qualunque mentre Greta si trovava al supermercato per fare la spesa. Una scena surreale e ironica, tra una confezione di ketchup che non voleva acquistare e una battuta dietro l’altra. Per farti conoscere meglio dai lettori o da chi non ha mai sentito parlare di te, o comunque, ti conosce poco, raccontami come nasce Greta Greza. Greta Greza nasce all’incirca quando avevo quindici o sedici anni, prima che iniziassi a scrivere. Mi ero approcciata alla danza, ballavo, e mi sono innamorata subito della cultura Hip Hop e di tutte le sue discipline. Quindi ho iniziato ad esplorare questo mondo, finché intorno ai diciassette anni ho iniziato a scrivere i miei primi testi e a fare freestyle, subito dopo aver ascoltato le prime cose di rap italiano, Inoki, i Colle der Fomento, i Cor Veleno, i Club Dogo. Ho sentito quindi il bisogno di dare un nome a questa nuova forma artistica: finché ballavo potevo essere Greta, ma nel rap avevo bisogno di un alias, un aka. A quel punto è arrivato Urlo, un mio amico di Modica, un breaker e writer della vecchia scuola, uno di quelli che si approcciavano a tutte le discipline, uno dei miei primi maestri in queste cose. Un giorno incontrandomi mi disse: Tu sei Greta Greza! Non potrebbe essere altrimenti! Però con una sola zeta perché ricorda Gza del Wu Tang Clan. L’assonanza dei nomi Greza e Gza ha creato lo storpiamento del greza. Quindi il tuo Aka ti è stato assegnato. Si, ed è rimasto, nonostante avevo pensato di eliminare le ultime due lettere del nome, mutando in Greta Grè, perché comunque mi rimane lo slingolingo e l’assonanza, ma si riduce il peso del nome, perché in realtà il significato della parola greza deriva da grezza. Il valore che la gente gli attribuisce, come se fosse qualcosa di volgare mi è anche pesato un po'. Mentre il grezza appioppatomi da Urlo si riferiva alla purezza che può avere solo un diamante grezzo. Grezza, senza filtri, senza modifiche, senza scremature.

Sicuramente subiamo tantissimo il distacco dall’Italia e dal centro della scena rap nazionale, che oggi potrebbe essere Milano. Anche il semplice gesto di pagare la trasferta ad un artista che deve partire dalla Sicilia potrebbe non convenire economicamente agli organizzatori. A causa del Covid, secondo me, da Roma in giù la scena relativa ad eventi o anche alla distribuzione ha subito parecchio. Al sud siamo parecchio penalizzati. Non ci sono grossi organizzatori di eventi, non ci sono management capaci di gestire i vari artisti, più o meno forti o più o meno noti. E questo è uno dei dettagli che spesso spinge anche i vari artisti ad emigrare. Però è anche riconosciuto che, soprattutto nell’ambito del freestyle, i migliori degli ultimi anni sono del sud, fra cui molti siciliani. Tu hai molta esperienza anche in questo campo. Raccontami come è nato quest’amore che ti ha portato anche ad MTV SPIT. Da qualche mese mi ero trasferita a Catania, mi ero iscritta all’Accademia di Belle Arti e stavo molto spesso chiusa in camera a scrivere, assolutamente in solitaria. Una sera, uscendo per un aperitivo con le coinquiline, incontro Mario Panzone, che conoscevo già perché lo beccavo spesso ai vari eventi locali dove mi recavo per ballare: mi offre uno shot di vodka, mi piazza una birra in mano, e mi spinge dentro il cypher. Da quel momento nacque questa passione e divenne quasi una mania: cosi iniziai a partecipare a vari contest più o meno importanti, fino al Tecniche Perfette, dove ho partecipato 4 volte. Dopo il Tecniche arrivò la proposta di MTV SPIT, grazie a Mastafive che dopo avermi notato contattò Mario Panzone chiedendogli di me e di una eventuale disponibilità a partecipare alla gara. Ovviamente la risposta fu si e ricordo che iniziò proprio un’ossessione per il freestyle. Uscivo solo se c’era gente disposta a fare freestyle, altrimenti restavo a casa. Mi bastava anche solo una persona, purché si facesse freestyle. (ride, n.d.r.) Chi sono attualmente, secondo te, i freestyler che meritano? Sicuramente Reiven. Secondo me uno dei migliori freestyler italiani, le sue skills sono tutte iperpotenti... Ho poi una forte ammirazione nei confronti di Shekkero e di Morbo e comunque di tutti i membri della FEA che per me sono dei pezzi di cuore, dato che ho avuto modo di conoscerli facendoli esibire qui a Ragusa durante il Festiwall del 2019.

Tu sei di Ragusa, quante donne eravate all’interno della scena ragusana e catanese quando hai iniziato? A Catania ricordo solo Lucrezia Dea. Invece a Ragusa c'era Saphira, partita poi per l’Australia, che faceva freestyle usando anche l’inglese. Purtroppo ci siamo allontanate e non abbiamo avuto modo di confrontarci. Poi ricordo Dama, una ragazza di Noto con cui mi confrontavo spesso, per il resto ho continuato il mio percorso da donna che fa rap in autonomia.

Con la tua musica, hai dei messaggi che cerchi di diffondere o è tutto dettato da una tua condizione personale? Solitamente cerco sempre di mandare un messaggio, qualunque sia l’argomento trattato in un pezzo e cerco sempre di trasmettere la mia idea, la mia visione e i miei valori attraverso i testi. Ovviamente cambiano spesso, anche in base all’argomento che tratto, ai periodi, così come cambia il modo di vedere le cose. Mi è capitato di parlare di qualcosa e di contraddirmi nel tempo, perché magari cambio idea e questa è una cosa che secondo me fa parte della libertà. Ma solitamente quando mi esprimo cerco sempre di avere una certezza. Tutti i pezzi che finora ho fatto o che sono usciti sono tutti pezzi che sento, che reputo validi e contengono dei messaggi che tuttora mi appartengono e sono contenta di questa fermezza.

Come vedi la scena rap in Sicilia? A chiazze: c’è una bella scena a Catania e a Palermo, ma in tutte le altre province o città le realtà sono davvero piccole e molto spesso vengono inglobate da realtà più grandi. Prendi il mio caso, io vengo da Ragusa, ma vengo contestualizzata comunque a Catania, come la scena dell’hinterland siciliano occidentale magari viene inglobata ed associata alla scena rap di Palermo.

Per la tua formazione artistica hai avuto dei veri e propri punti di riferimento? Io ho sempre tratto ispirazione un po’ da tutto. Non solo dal rap, anche se ovviamente i vari Guè, Marra, Johnny Marsiglia, Rancore, Danno, Primo mi hanno non solo ispirato, ma anche fornito la motivazione giusta per la sperimentazione di cose nuove. Ma l’ispirazione può nascere da tutto, anche da un’esperienza di vita che mi ha particolarmente segnata.

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Entriamo nell’argomento donne all’interno del rap. Secondo te all’interno della scena italiana, c’è del maschilismo? In alcuni ambiti parecchio. Ora stiamo iniziando a disfarcene, ma fino a dieci anni fa gli eventi rap erano praticamente una sagra della salsiccia, c’erano davvero poche ragazze. Anche l’opinione della donna era bassa, ad esempio in molti contest dopo qualche tempo si iniziò a vietare gli insulti alla madre, alla sorella o alla fidanzata, che invece erano state sempre oggetto di punchline da parte dei partecipanti. Così come in tanti testi di album ci sono varie forme di misoginia, quella visione di donna come oggetto o utile solo relativamente al sesso... E la tua posizione a riguardo? Questa domanda mi piace. Personalmente non mi infastidisce, perché quando riesci ad interpretare una cosa con ironia e sei consapevole del fatto che determinate figure proposte possono essere offensive o poco idonee alla visione di una donna, non serve offendersi. A meno che non ci siano delle offese dirette con termini forti. Secondo me possono essere anche divertenti da interpretare, ma molto spesso sono causate anche dal modo che le donne hanno di porsi nei confronti degli uomini. Con questo non voglio fare di tutta l’erba un fascio. In quanto donne sappiamo bene come e quando ci comportiamo in maniera poco consona con qualcuno, con un ex, ecc. Magari in alcuni testi rap gli uomini si sfogano un po', ma del resto lo facciamo tutti. Tempo fa ho visto un’intervista su YouTube dove Masito diceva che il rap in Italia non ha avuto una reale evoluzione perché mancavano le donne. Secondo te è questo il vero motivo per il quale il rap non ha avuto il giusto percorso evolutivo? Per quello che ho vissuto io le donne sono sempre state desiderate, all’interno del rap. Ad esempio io sono sempre stata ammirata, motivo di confronto, di sfida, per altri rapper. La testa di un uomo solitamente ragiona in maniera diversa da quella di una donna, non sempre ovviamente (ride n.d.r.). C’è sempre stata da parte della scena maschile quel desiderio di avere delle figure forti femminili con cui confrontarsi. Non ho seguito l’intervista di Masito, ma sono sicura del fatto che se vai a indagare tutto il mainstream italiano di oggi scoverai tante figure femminili che non rappresentano realmente il ruolo di donna all’interno del rap. E qui ti volevo, cosa ne pensi della scena mainstream femminile? Non riesco a cogliere alcuna ispirazione, alcuna forma di rispetto né altro. Mi lasciano indifferente se non addirittura infastidita, il più delle volte, per la stupidità dei testi, per la stupidità degli incastri che a volte sembrano proprio scritti da qualcun altro. Purtroppo per emergere bisogna molto far leva sulla rappresentazione della donna che basa la sua carriera sul concetto dell’attrazione fisica. Personaggi alla Lil’ Kim ad esempio, rapper molto brava, che ha basato molto la sua carriera sul suo fisico piuttosto che su altri aspetti. Penso che la figura femminile vada studiata e compresa di più per capire cosa poi è in grado di generare. Soltanto due donne sono le mie fonti di confronto e di ispirazione, e non fanno parte della scena mainstream, Coozy di Roma e Narbe di Rimini. Penso che una donna inserita in questo contesto debba avere una bella corazza, quel giusto modo di approcciarsi anche con i colleghi uomini, portare sicuramente qualcosa di concreto alla scena. Però in ogni caso stiamo sempre parlando di spettacolo, e come tale, sappiamo che ci sono cose che attirano molto più di altre. Quindi se prima ero assolutamente contro nel mostrare il corpo per attirare l’attenzione sono arrivata adesso, dopo otto anni di guerra, a capire che effettivamente il pubblico e anche l’occhio vuole la sua parte. Ciò non vuol dire necessariamente mostrarsi come soft porno e non per forza dare questa immagine, però sicuramente la cura estetica e l’evidenziare particolari dettagli sicuramente attira l’attenzione e fa piacere, sia al pubblico maschile sia al pubblico femminile, sempre ammesso che questa cosa si sappia fare.

Mettiamola così, mi dispiacerebbe vedere una ragazzina che twerka in perizoma su Tik Tok sopra ad un mio pezzo. Con gli amici rappusi con cui sei cresciuta ti sei mai sentita sottovalutata? Oddio, sicuramente si, ma se è capitato hanno fatto in modo di non farmelo intendere. Ma sinceramente non mi è mai capitato di essere giudicata o sottovalutata dai miei amici. La gente in generale magari ha avuto dei pregiudizi, le classiche critiche di cui parlavamo prima, che riguardano la donna all’interno della scena. Di solito si ricredono appena ascoltano i miei pezzi o vedendomi performare e dicono «no, aspetta un attimo!». (ride n.d.r.) Visto che il rap ormai è musica per ragazzini senti di avere una qualsiasi forma di responsabilità nei confronti di chi ti ascolta o pensi che un rapper e/o un artista in generale non dovrebbe avere questa responsabilità? Certo che sento di averla, perché sappiamo bene che un ragazzino, i cui pensieri e valori non sono ancora ben definiti, nel momento in cui ascolta un artista deve essere influenzato in maniera positiva. Un rapper ha la responsabilità di fare in modo che chiunque ascolta deve poter interpretare bene quello che sta sentendo. Non deve mai dare una visione sbagliata delle cose o magari un modo sbagliato di interpretarle, perché potrebbe essere molto rischioso. Prendendo ad esempio l’argomento della droga questo è stato spesso visto e male interpretato, perché un ragazzino può pensare ad una sorta di emulazione, quando in realtà la maggior parte dei rapper che ne parlano lo fanno perché ci sono passati sopra e non è bello. Il messaggio spesso viene interpretato male. La droga in realtà è un problema molto più grande di quello che si possa pensare. Con l’avvento della trap molte droghe sono state passate come fighe e molti ragazzini che ascoltano i testi hanno cercato di emulare i rapper con delle conseguenze gravissime. In una recente intervista Noyz ha risposto in maniera opposta a questa domanda... Sono scelte personali dell’artista. Sono delle responsabilità, ma anche questo fa parte del gioco, se le interpreti come forme espressive. Nell’ultimo disco di Gue, l’intro è un messaggio registrato dove dice di non emulare, di non prendere come esempio questo stile di vita. Non dico che sia una paraculata per poter parlare di alcune cose, penso che sia un modo intelligente di presentare un disco e i contenuti. Un messaggio di allerta molto forte e molto bello. Il pubblico viene istruito prima dell’ascolto. Parliamo un po’ del tuo disco. Il disco è nato durante la quarantena in seguito ad una proposta fatta dalla Believe, l’etichetta discografica, e grazie ad un contest su Instagram. Siamo stati in dieci a vincere questa sorta di concorso, su cinquemila partecipanti. Durante la prima quarantena, appunto, gli organizzatori mi hanno chiesto un prodotto in cambio della distribuzione. Ho realizzato due EP durante la mia carriera, il primo è stato Le Lamentele, il secondo Ansia & Greta, che non ha quasi visto la luce perché non è mai stato completato a dovere. Sentivo il bisogno di fare questa cosa, ma non avevo la spinta giusta, quindi è nato principalmente da questo. Il disco è stato creato insieme al mio producer Peppe Serpe, detto anche JDS, amico di vecchia data, un bravissimo ragazzo che ha avuto la possibilità di vivere in Inghilterra e in Olanda e quindi di essere contaminato da altre forme di rap e di trap. Quasi tutti i beat del disco sono stati prodotti da lui, a parte quello con Fresh Jhonny, dove c’è il featuring con Velheno, artista della scena catanese che stimo e a cui voglio un sacco di bene. Il brano "Superquarantena" invece è nato con Kanaglia, che è un altro caro amico di vecchia data. Ho due feat con JDS ed un pezzo con Er Drago. Il titolo del disco si chiamerà Certe Cose.

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All'interno ci sono pezzi più introspettivi e pezzi principalmente rap, quindi autocelebrativi, ma trattati a modo mio. L’unico tema che forse non viene trattato in maniera esplicita è l’amore, perché lo reputo un argomento delicato, dove non mi sento particolarmente pronta a sbilanciarmi per quanto riguarda le mie idee, che sono a tratti molto ciniche, a tratti molto fredde. E a volte sono anche storpiate dalla paura che io ho per l’amore. Nella mia vita non ho mai fatto pezzi che siano o possano essere definiti lovely, infatti non mi sento ancora pronta. Da poco tempo abbiamo collaborato per la realizzazione del mio progetto di tesi di laurea. Ho scelto di sviluppare la Terapeutica artistica con le detenute del Carcere di Bollate usando come mezzo di espressione le discipline hip hop. Uno degli elaborati finali prevedeva la realizzazione di un brano rap. A causa della pandemia non è stato possibile svolgere il resto degli incontri e tu, Greta Greza, sei stata la penna che ha dato voce alle detenute prendendo spunto dalle tematiche trattate all’interno del carcere, i loro pensieri e le loro paure. La traccia si chiama "Foglio bianco" e sarà una special track all’interno del tuo disco. Come ti sei sentita nel realizzarla? Ho sentito una grande responsabilità ma allo stesso tempo è stata una cosa che, per tutto quello che mi hai raccontato del progetto e sulle ragazze che stanno vivendo questa realtà, sicuramente ha toccato particolarmente il mio animo. Il pezzo è stato scritto in una notte, il provino è stato fatto la mattina seguente da me, da sola, e soltanto giorni dopo sono riuscita a vedere nel complesso questo progetto e ho realizzato che è qualcosa di molto importante. Mi hai dato la possibilità di poter parlare e di poter descrivere degli scenari che mai avrei potuto immaginare. Mi hai fatto entrare in un contesto che non avrei mai potuto vivere nel modo in cui tu lo hai vissuto, me le hai raccontate ed è stata una bella esperienza, sono super fiera di questo progetto. La traccia è bellissima.

Molti rapper si stanno cimentando in queste attività ludiche, ricreative e terapeutiche all’interno di scuole, carceri minorili e centri di vario genere. Pensi che il rap possa essere davvero un mezzo terapeutico? Si, lo è. Lo è sicuramente per ogni artista e potrebbe diventarlo per ogni persona anche se vissuta in maniera meno intensa, perché scrivere e interpretare dei testi, renderli musicali, poterli registrare è uno dei modi migliori di passare il tempo. Una forma di creatività che ti porta non solo a staccarti da determinati pensieri e problemi, ma ti porta anche ad interpretarli, ad assimilarli e metabolizzarli in maniera diversa, proprio grazie a questa forma ricreativa ed espressiva. Penso sia una delle migliori cure che possiamo avere al giorno d’oggi nell’ambito musicale. Non è solo musica, è proprio quella forma di pensiero e di approccio che ti porta a poter dire tutto, senza filtri, senza censure, senza preoccupazioni alcune. La forma più libera che abbiamo a livello di musica in Italia. Il rap può quindi essere funzionale anche per individui che si trovano al di fuori dello stesso contesto rap? Si, diciamo che tutti potrebbero avere la possibilità di esprimersi, ma magari non tutti apprezzano il boom bap o la black music, o non tutti sono in grado di andare dietro determinate metriche, determinati schemi compositivi. Quindi penso che non sia una cosa proprio da tutti, nel senso che poi diventa un fatto abbastanza personale. Al di là del sesso, dell’orientamento sessuale, dell’età, deve esserci anche un interesse e una passione nei confronti di questa forma espressiva e non è detto che tutti riescano ad apprezzarla o a cimentarsi ed immedesimarsi in questa forma espressiva.



testo Francesco Guglielmelli foto Andrea Scardovi

È strano intervistare un amico, una persona che conosci bene e con cui condividi tanto, ma è allo stesso tempo risulta entusiasmante perché è possibile far emergere alcuni aspetti dell'artista che non sempre risaltano, soprattutto ad occhi meno attenti. Andrea Duna Scardovi, breaker di fama internazionale con la Break The Funk e proprietario del Duna Studio di Russi, è sempre stato un punto di riferimento per la scena romagnola, catalizzatore di molti eventi ed iniziative e punto di convergenza per tanti appassionati di questa cultura. In questa intervista racconta fra le tante cose il suo incontro con l'hip hop e le tante connessioni create nel corso degli anni. Come tanti della tua generazione ti sei cimentato in più discipline dell’Hip Hop e sei stato (e lo sei tuttora) un punto di riferimento per molti in Romagna ed in Italia. Raccontaci il tuo percorso da quando ti sei avvicinato alla cultura Hip Hop a quando sei diventato il Duna che tutti conosciamo. Come quasi per tutte le cose che ci capitano nella vita il mio incontro con l’Hip Hop è arrivato per caso, guardando dei video ed immagini di ragazzi che ballavano in televisione. Era il 1992, in quell'anno è nato il mio amore verso una delle discipline del movimento culturale, il B-boying. Avevo quattordici anni e come tutti i ragazzini della mia età avevo già praticato molti sport, ma niente mi apparteneva veramente, quando invece incontrai il Breakin’ trovai in esso una forza espressiva che univa movimento, ritmo e fantasia: finalmente potevo dare forma alle mie idee sfogandomi su una musica che ancora non comprendevo, disegnando nel pavimento delle linee che pian piano diventavano concrete. Da quel primo contatto con il ballo mi addentrai nell’Hip Hop a 360° sposandone gli ideali e tutte le forme d’arte. Riconoscevo in esse la possibilità di esprimermi, divertirmi ed identificarmi. So per certo di essere nato in una delle più belle famiglie che il destino potesse donarmi: mio padre è italiano, mia mamma è eritrea ed anche questa multiculturalità mi ha portato a sposare la visione anti-razziale e di condivisione culturale che è cuore pulsante dell’Hip Hop. I primi anni mi ritrovai con il mio amico fraterno Enrico ‘Cuccio’ Randi a ballare, dipingere, rappare e produrre beat rudimentali senza averne troppa cognizione, ovviamente in quel periodo non esistevano scuole o insegnati che potessero spiegarci le tecniche e quindi cercavamo di capirne il funzionamento dalle poche informazioni che potevamo trovare. Rari video musicali, sporadiche uscite discografiche ed informazioni rubate da qualcuno più adulto di noi sono state la nostra scuola; in pratica un apprendimento lento, pieno di errori e dubbi, ma sudato e vissuto in ogni attimo. Ricordo ancora la sera in cui io ed Enrico decidemmo le nostre Tag. Era necessario trovare dei nomi che ci rappresentassero al 100% e senza pensarci troppo Cuccio mi disse: «beh, hai il naso con la gobba, potresti chiamarti Duna o Dosso» ed io risposi: «te invece che sei bianco come la morte, potresti chiamarti Flebo!». Ammetto che questa storia non la racconto mai a nessuno perché disillude un’idea poetica del mio nome d’arte. (sorride n.d.r.) Quando si parla di te non si può trascurare il fatto che sei tra i fondatori di una delle crew italiane più rappresentative e longeve: la Break The Funk. Come è nata BTF, come si è evoluta fino a quel famoso International BOTY del 2004 e cosa rappresenta oggi? Dal 1994 al 1996 circa cominciai a tessere una tela di conoscenze con altri B-boys in Romagna e mi ritrovai diverse volte a sfidarmi ed allenarmi con Denis di Pasqua, in quegli anni un ragazzetto arrogante con una gran voglia di affermazione e rivalsa.

L’incontro con Denis fu cruciale, la sua attitudine ed energia mi accese quel fuoco necessario a noi B-boy per alzare il livello. L’incontro con Marco Ghiani ‘Foglia’ a Bologna è stato un’altro momento di scambio fondamentale, nacque una vera profonda amicizia che ci lega tutt’ora. Con questi due personaggi mi ritrovai nel 1998 a fare diversi piccoli show e competizioni. La nostra passione comune ci portò inevitabilmente a voler collaborare e creare qualche cosa di ancora più forte. Ed ecco che nasce ‘Break the Funk’! La nostra Crew. Nell’ideale comune dell’hip hop e con una gran voglia di far vedere al mondo cosa eravamo in grado di creare, ci rimboccammo le maniche e ci organizzammo. Dopo poco tempo che formammo BTF sentimmo l’esigenza di aumentare il numero di partecipanti al progetto. La caratteristica che ci ha sempre contraddistinto era quella di avere stili molto personali ed di portare avanti ciascuno la propria linea cercando dei punti di connessione con gli altri. In questo modo ci ritrovammo con un progetto ricco di diversità e che nella sua globalità rappresentava tante sfumature del nostro mondo. Nel 2002 il gruppo era formato da ben 11 persone più altri collaboratori esterni! Ho sempre creduto nella diversità: infatti è stato unendo le nostre singolari peculiarità e condividendo il mio particolare lavoro nel footwork nelle coreografie che siamo riusciti ad arrivare al risultato del ‘best show’ all’International Boty 2004! Oggi il Boty 2004 è per me un momento storico che descrive una fetta del mio passato, è un momento tangibile della mia vita che mi permette di dire che con l’impegno e la perseveranza si superano le difficoltà e si possono raggiungere grandi risultati. Il tuo stile di breaking è indubbiamente tra i più particolari e personali che io abbia avuto modo di vedere. Qual è stato il tuo approccio all’evoluzione ed alla definizione del tuo stile? Quando iniziai a ballare non capii subito questa mia vocazione, anzi, per almeno 10 anni di breakin’ ho cercato di essere molto completo. Mi son avvicinato ad uno studio così personale successivamente, per due motivi molto precisi: il primo è che mi resi conto di non avere una grande atleticità, che invece contraddistingueva la maggior parte dei b-boys, ma ancora di più mi accorgevo di quanta soddisfazione mi dava trovare quella particolare sequenza di movimenti e linee alle quali ancora nessuno aveva pensato. Mi imposi di non guardare video di altri b-boys perché non volevo farmi influenzare e da quel momento iniziò il mio vero percorso artistico. Certamente le basi ed il contesto sono fondamentali, ma se vuoi mettere una firma nella tua arte devi essere originale. Non può essere né una brutta copia e neanche una bella! Comunque non è roba tua. Anche nella mia vita lavorativa di oggi ho a che fare con l’arte e questo pensiero mi accompagna in tutto ciò che faccio. Non è un percorso facile e non è condiviso dalla massa, ma se vuoi fare arte è l’unica strada percorribile. Le parole chiave sono: idee, ricerca, contaminazione, buttare, ripartire ed, a volte, soddisfazione. Sarai sempre un b-boy, ma oggi il tuo talento si esprime soprattutto al Duna Studio. Raccontaci il tuo percorso come tecnico del suono/ produttore e di come la tua arte si fonde a quella dei musicisti con cui lavori? Negli anni 90, quando abbracciai l’Hip Hop, cominciai a produrre beat ed a fare rap con un gruppo di musicisti. Pur avendo raggiunto qualche risultato, non mi sono mai sentito veramente in grado di farlo, ma invece, quasi in maniera innata, mi ritrovavo a capire benissimo la

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logica che c’è dietro ad un sistema di registrazione e amplificazione. Quando mettevo le mani su quelle macchine per me era tutto lineare e quindi mi divertivo molto ad organizzare i suoni in sala prove ed a montare gli impianti alle prime feste e concerti. Da lì il passo fu breve: stando in campagna, con mio fratello organizzammo la nostra sala prove in un garage ed una regia in un’altro mezzo garage attiguo… il resto dello spazio rimase a mia madre che da qualche parte doveva pur mettere la lavatrice. (ride n.d.r.) Quello fu l’inizio del Duna Studio! In quei due garage ho lavorato fino al 2012 e molti rapper dell’underground emiliano romagnolo ne hanno vissuto lo spirito. Pur non essendo un musicista credo che il mio successo come fonico derivi direttamente dalla mia multietnicità e dal breakin’. Cerco di avere la sensibilità per ascoltare le idee degli altri e mediante il confronto capisco come valorizzarle sfruttando la mia conoscenza tecnica, il tutto condito da una grande passione e dalla consapevolezza che per fare arte di qualità non bisogna aver paura di inventare e di sporcarsi le mani facendo errori e investendo spesso più tempo di quello preventivato. Posso dire di conoscerti abbastanza bene ed è ormai risaputo tra i tuoi amici che sei un instancabile lavoratore; oserei dire uno stakanovista. Quanto questa caratteristica è genetica e quanto deriva dalla passione per il tuo lavoro? Mio padre è sicuramente un chiaro esempio di ottimo lavoratore ed in più ho la fortuna di fare un lavoro che è la mia passione e quindi non mi pesa. Sembra assurdo, ma quando faccio il fonico ad un jam mi piace un sacco, i miei due mondi si incontrano. Oltre al Duna Studio sei socio di un’etichetta con cui nel corso degli anni hai contribuito alla produzione di tantissimi progetti. Ce n’è qualcuno con cui ti identifichi maggiormente o in cui emerge la tua impronta come produttore? C’è anche qualche tuo progetto personale in cantiere? I progetti che mi appartengono di più sono quelli più multietnici,

dove si ricerca un incontro tra più culture e fortunatamente mi capita spesso di poterne fare. Trovo una mia identità in diversi progetti fatti con il mio socio e mentore Francesco Giampaoli, ad esempio quelli con Marco Zanotti, Roberto Rossi, Giancarlo Bianchetti, Andrea Benini, Dj Lugi, eccetera. Figlio di queste esperienze da poco ho ricominciato a pensare a dei miei progetti musicali assieme al super e sempre entusiasmante DJ Nersone (risate, n.d.r.), dove al centro c’è il nostro amato Hip Hop anni 90, ma con una decisa idea di contaminazione ed evoluzione. Il tuo lavoro spesso consiste nello stare dietro le quinte, i crediti sono sempre scritti in piccolo nei dischi di altri. Quanto è importante il lavoro che sta dietro ad un progetto musicale? Diciamo che se c’è una cosa che odio è chi si pavoneggia senza motivo. E purtroppo il mondo ne è pieno ed io li metto al pari di un truffatore! Insomma ti pompi per qualche cosa che non sai fare. Per tale motivo mi viene istintivo stare dietro le quinte e prendere le mie soddisfazioni quando chi le riconosce viene a cercarti o te lo fa capire. Ad esempio una delle più grandi soddisfazioni che ho ricevuto negli anni è arrivata da un dj asiatico mai visto prima che, dopo avermi riconosciuto ad un evento, è venuto a cercarmi per dirmi quanto io sia stato fondamentale per il suo breakin’… ancora non ci credo!!! Siamo arrivati alla fine: dopo tutti questi anni e di esperienze che cosa ancora ti manca, quali sono i tuoi traguardi futuri? Qual è il tuo sogno? Attualmente il traguardo che vorrei perseguire è di produrre della mia musica con l'intento di lasciare un segno. Seguo molti progetti di altri artisti ed il tempo per i miei è veramente poco ma appena ho un attimo mi ci immergo. Assieme a Dj Nersone stiamo esploriamo i meandri del beatmaking cercando di trovare una nostra personale direzione. Di seguito a questa esperienza sogno di produrre dei nostri breaks del tutto originali con un organico di musicisti con i quali ho un bel feeling. Far ballare il mondo del breakin' sulla mia musica sarebbe una bomba!




testo Toni Meola foto Tommaso Di Ciommo

Best Kept Secret è il titolo del nuovo album di Long John e The

Wza, pubblicato per la label indipendente Rest In Press, in collaborazione con JTag production ed East Milan. Strumentali da urlo, rime serrate in lingua inglese, per un disco dal sapore fortemente underground ma che è portatore anche di una ricerca e qualità per i dettagli abbastanza sorprendente. Abbiamo realizzato questa intervista per farci raccontare il disco ma soprattutto per mostrare il talento di questi due artisti indipendenti a nostro avviso ancora fin troppo poco conosciuti.

Partiamo subito andando al sodo: Best Kept Secret, undici tracce e diversi feat, di cui parleremo dopo. Il disco è uscito da un po’, anche se gli effetti del lockdown ne hanno ritardato ovviamente la diffusione, almeno in termini di live. Questa non è la vostra prima collaborazione, vi conoscevate già da tempo. Come è nato il tutto? Long John: Un lontano pomeriggio del 2011 mi trovavo al celeberrimo street shop Wag di Milano. Ero in chilling con il proprietario Alberto che mi dice: «senti questo beat tape, è di un ragazzo sardo appena arrivato in città, per me è il più forte, una vera promessa». Rimasi subito colpito dal suono crudo e cupo dei suoi beats. Roba alla Alchemist e Muggs per intenderci, pochi in Italia erano forti su quella wave al tempo. Poco tempo dopo conobbi WZA a qualche serata (non ricordo i dettagli, annebbiamento cognitivo post-covid) e diventammo amici. Di lì a poco WZA produsse la title track del mio primo album da solista, "Phonetikabalah" (traccia in seguito remixata dagli Snowgoons). In quel momento ci eravamo promessi di fare qualcosa di più consistente assieme, e cosi è stato. The W: Conoscevo John di nome per via di amicizie comuni nell’ambiente. Mi ricordo che mi fecero ascoltare come prima traccia "Counting Sheeps" prodotta da Aquadrop (special mention to Unafinestrasulmondocislago). Rimasi stupito. Dopo iniziammo a incrociarci in molte serate fino a quando ci fu il sodalizio con "Phonetikabalah". Da quel momento ci eravamo promessi di lavorare ad un album. Una coproduzione Rest In Press, East Milan e Jtag Productions: tutte e tre sono realtà che conosciamo bene perché le abbiamo ospitate sulle nostre pagine, volevamo sapere come si sono unite le forze per lavorare a questo progetto… Long John: East Milan e JTAG hanno un sodalizio che dura ormai da quindici anni. Con Rest In Press sono state alcune amicizie comuni a fare da ponte (Ill Lupo della SDC Posse di Catanzaro). Vediamo la musica allo stesso modo. Siamo tre piccole realtà che vogliono rimanere indipendenti e fuori dai soliti giri del rap game per portare all'ascoltatore la qualità e l'attenzione che solo una piccola realtà è capace di dare. Long John, liriche in inglese per un album dal respiro internazionale, del resto tua madre è neozelandese e tuo padre scozzese: tu invece sei nato a Milano, e in passato hai rappato anche in italiano in quella piccola perla di progetto chiamato Mani Pulite. Perché hai abbandonato la lingua italiana, non la sentivi più tua? Sono molto contento che mi fai questa domanda. Spesso leggo commenti sotto i miei video del tipo: «Perché non rappi in italiano, avresti più successo» Finalmente posso mettere in chiaro alcune cose. Innanzitutto l'inglese è la mia madrelingua, la lingua che ho appreso per prima. Non è facile descrivere in maniera concisa le mie radici perché ho una famiglia esplosa con parenti in parecchie nazioni europee e non: Nuova Zelanda, Australia, UK, Belgio, Francia, Canada, USA. Di conseguenza anche il mio accento è bello imbastardito nel senso

che non ha una chiara provenienza ma bensì è frutto di tutte queste influenze. In ogni caso io non mi identifico con nessuno stato nazione. Io mi identifico culturalmente con l'Italia perché è il paese dove sono cresciuto e che amo ma mi ritengo un vero e proprio cittadino del mondo. Se mi chiedi di dove sono la mia prima risposta è pianeta terra, la seconda è Milano Est. La scelta di dare maggior spazio all'inglese deriva da due fattori. In primis io voglio che la mia musica si fruibile da un numero più alto di ascoltatori possibile. In secondo luogo, non voglio offendere nessuno, ma nella musica moderna l'inglese suona meglio ed è più malleabile dell'Italiano (escluso romanaccio e dialetti del sud italia). Detto questo non ho affatto abbandonato la lingua italiana, sono usciti vari nuovi singoli targati Mani Pulite e anche in Best Kept Secret uso l'italiano nella traccia “Last Crusade”. In futuro arriveranno altre chicche in questo senso ma non voglio spoilerare! Sono consapevole che questa posizione sia difficile da capire per alcuni connazionali ma sono contento del fatto che le nuove generazioni sono molto più avvezze all'inglese. Mi sento più compreso da loro che da molti dei miei coetanei. I beat sono praticamente tailor made, e questo probabilmente è uno degli aspetti più potenti e caratterizzanti dell’album. The Wza io ti conosco soprattutto per il discone con Egreen e Craig G, e questo Best Kept Secret è la conferma. Come lavori in studio? The W: Dipende dal progetto. Per lavori come EP e ALBUM preferisco andare in studio con la persona, ci conosciamo e lavoriamo a stretto contatto. Per i singoli invece si può lavorare tranquillamente con beat già prodotti e modificarli in base alla persona che andrà a rapparci. Sono dell’idea che deve crearsi la vibe giusta di sonorità per poter far suonare al meglio i pezzi e soprattutto per poter valorizzare al meglio le liriche e il flow della persona con cui sto collaborando. Con John ci siamo dati un obiettivo e qualsiasi tassello veniva ragionato. E per ragionato intendo anche scornarsi più volte (ride n.d.r.) Long John in “Decadent Aristocrat” rappi skin is white but my soul is black. Una delle questioni cardine nel rap e di conseguenza nella cultura hip hop è la realness. Trent'anni fa usciva Il rap spiegato ai bianchi di Mark Costello e David Foster Wallace, e per fortuna abbiamo superato quella fase, ma resta ancora la questione credibilità. Come se ne esce? Se ne esce solo con un buon livello di apertura mentale. Cosa che nel 2021 non dovrebbe essere un problema, purtroppo a volte mi sembra che lo sia anche più di prima. In ogni caso la barra che citi assume un significato più chiaro se la si abbina alla barra precedente, I’ma guest up in the house of rap. La mia posizione a riguardo è semplice. È insindacabile che l’Hip Hop è una musica con radici Afro. Come lo furono il Jazz, il Blues e il Funk prima di esso. Detto questo fin dagli albori della doppia vi sono stati rappresentanti bianchi, latini ed ebrei nella scena. Quindi io da rapper bianco europeo chiaramente entro in punta di piedi nel tempio senza atteggiarmi e comportarmi da culture vulture. Al contempo sono consapevole che la musicalità di per se non può avere colore, per questo posso dire che la mia anima è nera senza sentirmi in contraddizione. Dire che i neri ce l’hanno nel sangue è becero razzismo. Ci sono neri che eseguono composizioni di musica classica alla perfezione. Ci sono neri a cui non interessa particolarmente la musica. Ci sono bianchi che spaccano il culo a rappare. Certamente l’establishment WASP mondiale ha scavallato la comunità musicale black a più riprese, basti pensare a Elvis e Chuck Berry oppure a Paul Simon di Graceland.

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E sempre restando in tema traccia d’apertura, in Italia chi si meriterebbe davvero un dissing? Long John: Fondamentalmente se parliamo di rapper anybody can get it. Al massimo potrei dissare B.O.B.O. Cracksy, tuttavia non mi cimento in queste cose. Non mi interessa parlare delle madri degli altri o fare il dippiù. Per me la musica non è una gara. Voglio sempre conservare la mia umiltà ed integrità prima di tutto. Invece per quanto riguarda alcune problematiche che gravitano attorno alla scena rap un semplice dissing purtroppo non basta. Ci vorrebbe un intervento un pelo più strong. Mi riferisco per esempio a rapper dalle tendenze razziste, giornalai da quattro soldi che si fanno imboccare dalle major, biter spregiudicati.. and the list goes on and on. The W: Se non viene shottato nessuno, non è dissing. “Bad taste” è con RollzRoiz, astro nascente della nuova scuola milanese: come lo avete coinvolto? Long John: Nel 2014 WZA mi face sentire alcuni pezzi ruff di un giovanissimo Rollz. Era ancora molto acerbo ma si sentiva un talento indubbio e tanta voglia di spaccare. Ritengo che sia indubbiamente uno dei più forti in circolazione. The W: RollzRoiz lo conosco da tanto tempo, conosciuto tramite Markio, sound engineer di livello elevatissimo. Da subito mi aveva colpito la fame che aveva nel fare musica. Al momento Rollz Rois è tra i più forti e interessanti in circolazione. Altri due giovani rapper da menzionare sono Less Torrance e David Bates. Già che ci siamo farei un cenno sulle altre collaborazioni che avete coinvolto nel disco, come quella di FatFat Corfunk e Bizzy, che in un certo senso potevo aspettarmele, meno quella con il trentino Ares Adami, anche per una certa lontananza geografica… Long John: Dai tempi della JTAG Crew la lontananza geografica non ci spaventa di certo, abbiamo collaborato sin dal primo album (Milano Smokes) con artisti americani ed europei. In BKS abbiamo anche collaborato con artisti che vivono ben più lontani del fratello Ares, il quale ora, peraltro, risiede in Lombardia dalle parti di Treviglio se non sbaglio. Quindi non così lontano! Si pensi piuttosto al mitico Don Plemo di Roma ospite sulla traccia ”The Italian Job” assieme al buon Bless Picasso che viene dalla Virginia, USA. Now that’s lontano! In realtà mi stavo riferendo solo ai contributi degli artisti italiani, ma comunque hai ragione, ignoravo del trasferimento. Ed avevo colpevolmente dimenticato il grande contributo di Don Plemo nel disco. Tornando appunto a BKS, Can’t you see we all are part of a gigantic tree: è la miscela di contraddizioni che rende così affascinante la singolare estetica del rap ma qualcuno a volte sembra dimenticarlo. Ogni artista d’altronde è in fuga dall’omologazione, senza perdere ovviamente di vista la naturalezza. Siete d’accordo? Long John: La barra che citi, è parte della canzone “White Guilt”, ed è riferita al tema del razzismo e della diversità etnica ma ovviamente si può applicare anche alla diversità in campo musicale. Bisogna rispettare i gusti musicali di chiunque senza ritenersi i custodi del real hip hop se no si fanno gran figuracce. Ho amici che adorano Drake, a me fa ribrezzo ma riconosco senza problemi il suo valore. Capisco un po’ meno chi a priori afferma che tutta la trap faccia schifo o chi critica l’autotune. Non è kosher, a mio umile parere, generalizzare in questo modo. Quando sento qualche genietto del reps che fa questi discorsi insulsi scatta subito l’allarme babbo, come direbbe il mio amico Federico Torcia di Lambrate.

dell’MC. Definirei “Less Is More” uno storytelling onirico/cinematico più che esercizio di stile. Parla di un genio assoluto che si perde nei meandri della vita fino ad arrivare a un epilogo totalmente tragico, basato su una storia vera: un’amico fraterno, tossico, una sera, rimasto senza materiale decise di provare a iniettarsi una dose di hashish. Inutile dire che l’esperimento finì malissimo, quasi ci lasciò le penne. Racconto questo episodio non per glorificare l’uso ed abuso di droga. Io vengo da Milano, la grande pera, e sono cresciuto nella Milano da pere. Purtroppo queste brutte storie sono parte integrante del mio background. The Wza, il tuo sembrerebbe essere un background (suoni e attitudine) principalmente basato su questa sorta di rinascita dell’hip hop underground che è partita qualche anno fa dagli Stati Uniti, soprattutto dalle parti di Buffalo. Il disco ovviamente trasuda amore per la Golden Age, e non potrebbe essere altrimenti: quali sono le figure che, nell’avvicinarti alla produzione, hai studiato/ coltivato di più? Le figure che mi hanno accompagnato sono Dj Muggs, Alchemist e Harry Fraud. Tutti e 3 sono accomunati da uno stile d’approccio al sampling molto personale e soprattutto sanno muoversi su stili differenti (dal più classico al più fresco). Ho un repertorio di strumentali abbastanza varie tra loro come sonorità che inizierò a pubblicare nei prossimi mesi. Se poteste tornare indietro cosa cambieresti del progetto? E cosa invece vi soddisfa e vi convince di più? E soprattutto, le aspettative che avevate riposto nei confronti di esso sono state rispettate? Long John: Per me il disco è andato oltre qualsiasi aspettativa per quanto riguarda i risultati ottenuti. Per molti saranno risultati insignificanti. Per me valgono appieno questi 14 anni nella scena a sputar sangue. Finalmente siamo riusciti a farci sentire un pelo di più all’estero, che, come dicevo prima, è uno dei miei obiettivi primari da sempre. Grazie a Matteo Blaze di East Milan che ha saputo dare la spinta giusta al progetto per farlo arrivare alle giuste orecchie. Sono molto soddisfatto del sodalizio con The WZA. Squadra vincente non si cambia! A posteriori non cambierei nulla del progetto, anche gli errori e le piccole imprecisioni organizzative hanno il loro perché. The W: Non cambierei nulla, fa tutto parte di un percorso che ci è servito per poter consolidare la combo e crescere ulteriormente. La domanda che tutti si aspettano: progetti futuri? La pandemia è finita o forse è solo rimandata a settembre, lo suonerete in giro? Certo che lo suoneremo in giro! A patto però che chi organizza ci offra un cachet dignitoso. Considero la nostra gavetta finita già da tempo e ho definitivamente chiuso con i rimborsi spese. Sui progetti futuri dico solamente questo: Can You Keep A Secret? Silence Is Violence. Chi ha orecchie per intendere intenda. La pandemia? Continua… e non andrà tutto bene. The W: lo vogliamo suonare in giro! Speriamo solamente che si sblocchi la situazione un po’ di più. Progetti futuri, Can You Keep A Secret? Silence Is Violence. Domandone finale: qual è quindi il Best Kept Secret del 2021? (escluso il vostro, s’intende) Il filu e ferro di WZA. Anche perché dopo averlo bevuto non ricordi più un cazzo della tua vita, raggiungi una sorta di estasi mistica in cui tutto ti è rivelato... No scherzo. Il vero best kept secret è che l’essere umano ha da estinguersi prima di mandare definitivamente tutto a puttane. No way out. Scusate il cinismo. The W: visto il momento, il domani è un vero best kept secret.

La bonus track, “Less is more” è forse la traccia più atipica del disco, praticamente senza batterie: una sorta di esercizio di stile, immagino. Long John: Il drumless è uno stile di beats molto in voga nell’hip hop adesso. Si tratta di un’approccio controverso: talvolta è troppo weird e asciuga tantissimo, altre volte è devastante tipo in “Champagne Tiers” di Crimeapple. A me piace il fatto che lasci molto spazio alla voce e al liricismo m d m g z n / 24



____________________________ testo Federico Savini foto K Records

L’anno è il 1998, ma era almeno dal ’95 che le cose s’erano mosse in quel di Olympia - Stato di Washington, che a dispetto di quel che direste sta nell’estremo nord-ovest degli Stati Uniti, a pochi passi da Seattle -, dove la K records di Calvin Johnson apriva a un manipolo di rapper di colore le porte di una piccola cattedrale del purismo indierock, dal suono fino ad allora bianchissimo. La volta scorsa, su queste pagine ci permettevamo di uscire in toto dal seminato hippopparo per sporcarci mani e orecchie con l’estetica lo-fi e le incisioni in bassa lega tipiche di certo rock e cantautorato americano degli anni ’90. Ecco, la K records è un’etichetta simbolo del rigore indipendente di quei giorni meravigliosi e irrimediabilmente andati, ma più che un suono sporco, gracchiante e rugginoso, possiamo dire che abbia tenuto a battesimo un’idea di sound assolutamente riduzionista, comunque parente stretta del lo-fi. I Beat Happening (la prima band di Calvin Johnson, scaturigine dell’etichetta di Olympia) proponevano un rock scheletrico e troglodita in egual misura, che teneva malamente insieme la voce baritonale e lunatica di Johnson, i claudicanti capitomboli della batteria, un basso in cerca della via di casa e una chitarra incapace di inforcare accordi puliti e adusa più che altro a emettere squittii miserabili in forma di polluzione elettrica. Capite da voi che fra questa roba qui e l’andazzo del rap di quei tempi (ricordo che nei primi anni novanta si affermano le produzioni g-funk di Dr. Dre, quindi siamo già oltre lo stratagemma potenzialmente lofi dei campionamenti) c’era un abisso incolmabile. A livello estetico, s’intende, visto che sotto l’aspetto ideologico l’indie-rock in definitiva è sempre stato un genere di sinistra, praticato da giovani perditempo bianchi mediamente borghesi e acculturati, che non covano certo pregiudizi razziali e ne hanno pochi anche in termini musicali. Esistevano locali che ospitavano band di ambo gli schieramenti (cosa che, per esempio, difficilmente accadeva al rap in tandem con altri generi bianchi come il country o peggio ancora il metal; sempre restando sui luoghi comuni, beninteso). Vale la pena fare mente locale su due aspetti di quel periodo. Il primo è che, al netto della condivisione più o meno sporadica dei palchi, negli anni ‘90 il rap e l’indie-rock non si accasavano praticamente mai sotto lo stesso tetto discografico. Le etichette e le distribuzioni trattavano un genere o l’altro (e non un genere e l’altro). Questo per via delle antiche segmentazioni del pubblico (ne parlammo nella prima puntata degli “Altrimondi”) e quindi per un banale fatto di mercato, da non condannare quando si tratta prosaicamente di far sopravvivere etichette che pubblicano musica coraggiosa. Inoltre, sia il rap che l’indie-rock dei ’90 erano generi musicali che stavano ancora definendo sé stessi; dunque essere riconoscibili per il proprio pubblico era una priorità. Sappiamo bene che dopo il 2000 il rap si espanderà stilisticamente fino al punto di diventare l’indiscussa estetica produttiva dominante a livello mondiale, ma lo farà ampliando gli orizzonti del proprio linguaggio fino al punto di rendersi irriconoscibile ai devoti della

prima ora. Nel nuovo secolo anche l’indie-rock cambierà pelle, dapprima sostituendo le chitarre con le tastiere, poi prediligendo ritmiche in levare per accantonare definitivamente il blues, fino a cancellare l’antica velleità purista e rigorista, in base alla quale vendere tanti dischi era un po’ come vendere l’anima al Diavolo. La seconda questione è lo stato di salute creativa del rap di allora, che a metà ’90 viveva soprattutto i fasti hardcore-conscious di gente come Nas, Mobb Deep e Wu-Tang Clan. Musica rigorosa, insomma, che non cercava contaminazioni con il pop da classifica, mentre il coevo indie-rock più emerso che flirtava coi campionamenti (roba tipo Beck o Soul Coughing) stava appresso alle intuizioni colorate e spregiudicate della Native Tongues, ma nella comunità hip-hop l’attenzione si concentrava più che altro sulla strombazzata diatriba fra i predetti campioni dell’Est e i gangsta dell’Ovest, capaci entrambi di conquistare le classifiche senza particolari compromessi estetici. E quando uno stile raggiunge la vetta, i duri e puri dell’etica underground sanno bene che bisogna subito cercare nuove avanguardie, prima che la spinta creativa si inaridisca. E ad avanguardie come stavamo messi? Beh, se guardiamo proprio alle contaminazioni fra indie e rap, l’etichetta californiana Anticon muove i primi passi solo nel 1998 e giunge a una prima notorietà con gli straordinari cLOUDDED nel 2000. Stesso anno in cui pubblicano i non meno formidabili Antipop Consortium, mentre i veri pionieri di una nuova onda sono i Company Flow di El-P, che approdano al disco già nel ’96 ma restano un’entità isolata per diversi anni. A livello mainstream, i primi successi importanti di gamechanger assoluti come Eminem e Outkast (che pure erano già in giro) datano fra il 1998 e il 1999, e sempre in quel periodo muovono i primi passi (non ancora influenti) personaggi chiave come MF Doom, Madlib (con i Lootpack) e J Dilla (con gli Slum Village). Ecco, nel 1998 invece i Black Anger erano già a fine corsa, dopo avere a loro modo colmato una lacuna, pur nell’indifferenza generale. Personalmente li scoprii attraverso una leggendaria compilation della K records, chiamata Selector Dub Narcotic (1998, appunto), che a Calvin Johnson serviva non solo per fare il punto sugli artisti che seguiva in quel momento (approfittando peraltro delle comparsate di Beck e Jon Spencer, grazie alle quali il disco arrivò ad esempio alle mie orecchie ventenni), ma anche per lanciare la sua nuova band, i Dub Narcotic, che sperimentavano con dub, hip-hop e downtempo, gettando precisamente un ponte fra le musiche chitarristiche e quelle ritmiche alternative di quegli anni. Quella raccolta metteva in fila sfuriate rrriot girls, lo-fi-punk, cantautori storti da cameretta e stornellari naif. In un simile contesto - e al netto della comparsata da un minuto dell’mc No-1, subito sparito dalla circolazione - i sei minuti e mezzo di inkazzoso rap a rotta di collo dei Black Anger Movement facevano l’effetto di una mosca bianca… o forse dovrei dire nera! Fatto sta che DJ Sayeed, Kendo e Kendu Shabazz stavano in quella compilation non solo perché, ovviamente, piacevano a Calvin

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Johnson, ma perché il titolare della K Records comprese prima e meglio di tanti altri due cose. Una l’abbiamo già detta: l’estrema fondibilità fra il mondo e i suoni dell’indie-rock e dell’hip-hop, comprovata da un interesse vivo anche per il downtempo, e in particolare per il sostegno fornito da Johnson a una band eccezionale ed eccezionalmente dimenticata come i contaminatissimi ICU (o IQU), il cui album Chotto Matte A Moment! va prontamente recuperato (ma date un ascolto anche a Emergency Breaks del producer Take One). Del resto, sempre Calvin Johnson nel 1995 aveva pubblicato il suo disco rap con gli effimeri Dead Presidents, mostrando buone idee sul versante dei campionamenti jazz e preparando, di fatto, il brodo di coltura da cui sarebbero nati i Dub Narcotic. La seconda intuizione felice del discografico di Olympia fu quella di intendere la sua etichetta in maniera assolutamente territoriale. I Black Anger erano dello Stato di Washington e non si sapeva granché delle peculiarità del rap di quelle parti. Internet era agli albori e la geografia contava, perché certe cose le vedevi succedere solo dal vivo, crescere all’interno dei locali e arrivare a un pubblico lontano solo attraverso le etichette. Che erano, quindi, delle bandiere, dei punti di riferimento fisicamente collocati nei territori. In termini discografici, la vicenda dei Black Anger non è così memorabile. Poco prolifici, di loro ci si può far bastare il riassuntivo mini-lp Maxed Out Singles del 1997, dando magari un ascolto a quel paio di singoli prodotti fra il 1998 e il 2000 a nome Bedroom Produksionz, all’insegna di un rap old-skull molto ruvido e arrabbiato, ombroso e riflessivo quando serve, spesso fumoso e imperniato su campioni jazz tagliati senza troppa riverenza, sempre efficaci anche per questo. Che io sappia, DJ Sayeed, Kendo e Kendu Shabazz sono sostanzialmente spariti dalle cronache musicali, ma la K Records ha continuato ad onorare - anche in questi anni durissimi per i piccoli discografici - la sua missione di dar voce anzitutto ai territori. La compilation All Your Friend's Friends uscita nel 2014 a nome del collettivo Thee Xntrx ha coinvolto una ventina di rapper dell’estremo nord-ovest americano e viene raccontata anche in un agile filmato reperibile su YouTube, nel quale compare anche un conterraneo di successo come Macklemore, a ribadire che il mondo digitale ci permetterà anche di incrociare facilmente le persone che sentiamo più affini (ovunque risiedano), ma alienandoci dai luoghi in cui cresciamo, limita una parte delle nostre esperienze di vita. Quelle che ci costringono a trovare un piano di confronto comune anche con chi la pensa diversamente da noi. E magari ci aiutano a crescere. Noi, e la nostra comunità.


INTRO

Mi intervisterei da solo se non risultassi così indigesto. Scherzo, la verità è che sono un bravo cristo e nonostante tutto sempre un bel ragazzo (come diceva Edda). Col passare degli anni ho iniziato a trovare fastidioso l’interessarsi degli organi di stampa alla mia musica, così non appena mi si è presentata l’occasione di parlare da solo (cosa che faccio spesso), l’ho colta al volo. Non prendetemi per uno sciocco o uno sprovveduto, anche io ho scorto all’orizzonte la nube funesta dell’autoerotismo, l’Instagrammatica masturbazione di chi erge un obelisco anche per il banale gesto di comprare un paio di Air Max 90, come se non ci fossero milioni di persone in grado di fare altrettanto in questo preciso istante. Vi dirò, la cosa non mi ha preoccupato più di tanto, perché so con certezza che qui la vanità non c’entra nulla, la vanità è finita, annichilita nel prossimo ogni capacità di differire la bellezza, di cosa mai dovrei vantarmi? E poi diciamoci la verità, scoraggiati dalle prime righe, questa cosa non la leggerà nessuno, ve lo dimostrerò incollando di seguito lo stralcio una ricetta di Suor Germana che non sarà contestato nemmeno dai correttori di bozze: «Far cuocere gli spinaci in una padella con un pochino di acqua; quando sono lessi, tritarli. A parte preparare una salsa frullando latte, farina, sala, pepe e trasferirla in una pentola con del burro fuso…»

CINICO TV

«Paviglianiti!» esclama con tono risoluto una voce fuori campo, «dica!» risponde un trasandato e seminudo omone di cento chili e rotti che si staglia dalle macerie di una metropoli in tutto il suo grottesco splendore. Certamente Cinico TV merita una riflessione di gran lunga più articolata rispetto alla semplice reazione all’autoevidenza, toccherà tuttavia che la facciate da soli poiché non ho tutta la rivista a disposizione. Ciò che mi è concesso dirvi è che quando, a 40 anni suonati, mi sono trovato in una forma pericolosamente somigliante a quella del buon Paviglianiti di cui sopra, non ho potuto fare altro che constatare che, posto a confronto con uno stereotipo funzionale di odierno trascinatore di masse, faccio cacare. In una struttura sociale che prevede la competizione tra simili, fare cacare è un preciso dovere morale, un moto di consapevole e civile disobbedienza atto ad avvicinarsi alla libertà individuale. Un’azione del genere non può che essere figlia dell’età della ragione, ma allo stesso tempo sarebbe bello conservasse la purezza incontaminata di un gioco infantile e per questo: Dire, fare cacare, lettera, testamento. L’estetica non poteva che essere la stessa del capolavoro di Ciprì e Maresco, la fotografia quasi documentaristica, il bianco e nero frustrante, il fondale fatto di mura fatiscenti nel centro di una città che proprio dietro l’angolo fa da scenografia agli spot della nuova Audi. Alcuni scatti di mia moglie e la creativa maniacale di Massimo Bod hanno fatto la magia.

l'ultima volta che ci siamo incontrati artisticamente era il 2005, da quell'anno in poi ricordo che ho cercato, per lungo tempo e con fame atavica, un sapore particolare che mi portasse via dai fondamentali, come chi, padroneggiato un trick, mette una bella X accanto alla lista e passa oltre, non potevo sbagliarmi più di così. Ritorno coi miei vecchi, ritorno sui miei passi, ritorno sui suoni di chi ritorna, un eterno ritorno che è poi il ritorno dell'eterno, un loop che è benedizione e condanna che mi porta inevitabilmente a rincontrare me stesso giovane e a dirgli: «Spustete».

IL DISCO CHE NON ESISTE

Non ho imparato molte cose su come un'opera di fatto arriva al successo, soprattutto ai tempo d'oggi. So per certo che se un'opera non va in televisione non esiste, se non se ne parla non esiste, ma in particolare non esiste se non è numerabile, se non si può sostiture la sua sinossi con una cifra. «Hei, hai ascoltato il nuovo di ...?» «Si, certo» «e com'è?» «beh cinquecentoquarantaseimila» «ah! cinquecentoquarantaseimila è un bel numero» Dunque "Dire, fare cacare, lettera, testamento" uscito solo in vinile per Gatto Pirata Dischi ormai più di un mese fa e che forse, mentre leggi queste parole, starà appena vedendo la luce sulle piattaforme digitali, non esiste e non esiste a tal punto che: «Tagliare le zucchine a fettine sottili per il lungo e sbollentarle in acqua bollente salata per qualche minuto; quindi scolarle con una schiumarola e cuocere anche i gamberi per qualche minuto nella stessa acqua...» Suor Germana.

L’ETERNO RITORNO

La colpa è tutta da attribuire ai numerosi seguiti di Die Hard e ai Batman di Miller, ma ho sempre avuto una passione smodata per la figura dell'eroe (meglio se anti tale) che, vecchio e scassato, torna dall'inferno per un'ultima improbabile impresa, immolandosi per portarla a termine. E così torna alla composizione dei miei brani Massimiliano Nervo, m d m g z n / 28




testo Toni Meola foto Enrichetta Autuori

Dj Rogo è un beatmaker salernitano classe 1979, da più di venticinque anni nella scena italiana, membro dello storico collettivo salernitano Cafardo Energizer. In questi anni ha portato avanti molti progetti, tra cui Tropa d’Elite, ed altre collaborazioni con artisti italiani, con cui ha rilasciato diversi lavori, fra cui il suo primo disco solista. Da qualche anno ha fondato la sua etichetta discografica, Stoned Saints Records, con cui porta avanti un ottimo lavoro di ricerca e nello stesso tempo cerca di valorizzare i talenti locali. Il legame forte con l’Hip Hop e tutte le sue sfumature prendono forma in questa intervista che può essere letta anche come un racconto, una storia della presenza costante di Dj Rogo sulla scena nazionale. Molti non conoscono la tua storia, vorrei partire proprio per blocchi prima di addentrarci nel presente ed in quello che stai facendo: riassumere in fasi il lavoro che hai portato avanti fino ad adesso…. Per me va bene, mi chiamo Lino Guidi in arte DJ Rogo, classe 1979 nato e cresciuto a Salerno. Cafardo Energizer è la mia Crew da una vita, una famiglia, un’istituzione dell’hip hop salernitano, da sempre con la volontà di innalzare il livello in tutte e quattro le discipline dell’Hip Hop. La crew è nata nel 1996, anche se io sono entrato a farne parte dal 2000. Nel tempo siamo diventati un punto di riferimento per la città e per tutte le nuove leve che si sono avvicinate alla nostra realtà con umiltà e talento, senza mai chiudere la porta in faccia a nessuno, ma alla costante ricerca dell’eccellenza. Tropa D'Elite oltre ad essere stato il mio primo gruppo, ideato con Fasan e 2Bet, è stato anche il mio primo approccio con la produzione. Ho iniziato a produrre tardi, nel 2008, nonostante faccia il dj dal 1994. Come Tropa D’élite ci sono stati due dischi, oltre che a tanti bei momenti, live e molti giorni passati in studio. Con gli altri componenti del gruppo rimane una grande amicizia nonostante la pausa a livello produttivo. Boxcutter è stato invece il mio primo disco da solista come produttore, il progetto è stato elaborato per quasi tre anni, anni ben spesi visto il risultato finale, che mi ha soddisfatto tantissimo considerando i nomi che si sono prestati alla realizzazione del lavoro. Lo considero senz’altro un bel viaggio, capace di regalarmi soddisfazioni enormi sia in passato che nel presente. Con Boxcutter ho inoltre esaudito il mio desiderio di uscire in vinile, un doppio vinile, dato tutti gli ospiti presenti all’interno. Ora è arrivata questa nuova sfida, chiamata Stoned Saint Records, puoi parlarci di come è nato il progetto? Stoned Saint Records nasce nel 2018 da un’idea mia, di D. RATZ e di mia moglie Enrichetta. L’idea inizialmente mossa da me e D. Ratz riguardava la volontà di creare qualcosa di potente e riconoscibile, qualcosa che si approcciasse diversamente al mondo del rap, mettendo insieme musica e arte e creando una realtà che non si limitasse alla sola musica, ma che proprio partendo da essa potesse abbracciare varie forme d’arte. Il progetto nacque dopo che mi trasferii ad Agropoli, in Cilento, per stare vicino alla mia famiglia, dopo ben 39 anni nella giungla salernitana. D. Ratz vive invece in un paese vicino San Marco di Castellabate, da questa vicinanza è nata una maggiore possibilità di incontro tra noi due, ci si beccava spesso per scambiarci idee, tra cui l’idea di questa etichetta. Il progetto richiedeva però più mani, infatti poco dopo ad unirsi a noi è stato Novanta, successivamente The Sniper, poi Enema SDO e alla fine Giulio Di Scola. Ognuno ha un ruolo ben preciso, ma è grazie al lavoro di tutti che tale realtà sta crescendo e sta iniziando a regalarci le prime soddisfazioni.

Le difficoltà che hai incontrato maggiormente approcciandoti ad un mondo così complesso come quello delle etichette discografiche, ma soprattutto di quelle indipendenti come la tua? Le difficoltà principali sono tutte legate alla visibilità: non essendo una major e non avendo le loro possibilità economiche, sin dall’inizio abbiamo cercato di puntare su un’idea ben precisa, cercando di farla capire a chi pian piano si è avvicinato al nostro mondo. Sono della convinzione che se si vuol sopravvivere in questa giungla, devi essere coerente con tutto quello che proponi, cercando di far immergere l’ascoltatore nella tua idea e renderlo partecipe di ciò che stai creando. Sei soddisfatto dei feedback che hai ricevuto fino ad ora? Nonostante una pandemia che ha attraversato gli ultimi due anno che sicuramente è risultata invalidante per gli sviluppi di un nuovo progetto... Soddisfattissimo! Stiamo lavorando tanto e bene tirando fuori un bel po' di robe anche in versione fisica che stanno andando velocemente sold out. Abbiamo anche pubblicato la nostra prima release in vinile, Vinticingo di D.Ratz e credo non ci fermeremo qua. Il problema della pandemia più che altro è la mancanza dei live, soffriamo decisamente senza un pubblico da infuocare però spero che questa cosa si risolvi presto, cosi possiamo tornare sui palchi ancora più carichi di prima. Tutti lo vogliono, noi lo vogliamo e la linfa vitale di chi fa questo mestiere ed il miglior modo per far girare le tue robe. Stai collaborando con un tot di nomi nuovi, e validi, come Rosario Molesto e Enema SDO. Puoi dirci come li hai coinvolti e come hai lavorato con loro? Immagino tu abbia fatto da talent scout, li osservavi sicuramente da tempo… Rosario Molesto lo osservavo da tempo, si era parlato già in passato di fare qualcosa insieme, poi data la lontananza e i rispettivi impegni, la cosa è finita sotto traccia, nonostante abbia sempre intravisto in lui delle potenzialità enormi. Frutto di questo connubio è stato infine Misericordia, un ottimo disco con tante barre potenti e con un approccio quasi in freestyle ma anche con qualche episodio più conscious. Rosario d'altronde è un'artista che nella sua carriera ha vinto un sacco di battle e credo si noti molto nell'approccio della scrittura. Sono davvero contento del risultato finale. Con Enema invece è successo tutto all’improvviso. Dopo la sua entrata in Stoned abbiamo iniziato ad ideare qualcosa da pubblicare insieme, lui aveva da poco pubblicato per noi Omicidio Gucci con Hysteriack. Dopo una gestazione abbastanza lunga è venuto fuori Sangue sulla seta, un progetto che ha soddisfatto tantissimo entrambi, e che, è piaciuto tantissimo a chi lo ha ascoltato e sta comprando il cd. Enema è un'artista in costante crescita e credo che faremo altre robe insieme, il disco è nato in piena pandemia ed è stato gestito a distanza però quando lavori con qualcuno con la tua stessa mentalità le distanze non si avvertono. Il suono di Buffalo è ripreso da molti, ovviamente la nuova wave stuzzica molti producer e molti artisti… Noto anche nei tuoi nuovi lavori una certa attinenza a quel mood, ovviamente fatti i dovuti distinguo: d’altronde la musica rap da sempre ha dentro di sé un sacco di matrici diverse, cambiano solo le proporzioni. Tu hai attraversato diversi momenti nella tua carriera, a quale ti senti più legato? Penso che tutti i momenti attraversati durante la mia carriera, sono stati importanti per arrivare a quello che sono oggi, fa tutto parte di un processo che mi ha aiutato tantissimo a riconoscermi in un certo sound di matrice classic. La new wave proveniente da Buffalo ha successivamente contribuito

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a darmi nuova linfa, come in passato me l’hanno data i Wu Tang, i Company Flow e Sean Price. L’ispirazione è importante, il rimanere se stessi anche: sebbene mi sia avvicinato al suono griseldiano continuo sempre a lavorare con un certo tipo di sample e soprattutto con un certo tipo di taglio del sample, cercando di essere me stesso al 100%. Come lavori in studio? Qual è il tuo workflow, intendiamo proprio nello specifico… Il mio lavoro in studio inizia con la scelta del sample, senza un campione giusto non inizio proprio! (ride n.d.r.) Oltretutto campionato solo da vinile, successivamente tutto il resto. Per lavorare uso un MPC 1000 ed un MPC Studio più una Microkorg. Infine, passo tutto ad Enema che nel suo Sound Boutique Studio si occupa di mix e master. Con Enema mi trovo benissimo perché ha capito sin da subito come voglio che suoni la mia roba. Ho notato che anche a livello di estetica delle cover e dell’artwork dei dischi c’è una certa ricerca ed anche una uniformità di visual. Immagino che sia una scelta voluta. Stoned Saints, come dicevo sopra, prima di essere un’etichetta discografica è un’idea, un’idea coerente con tutto quello che abbiamo pubblicato fino ad ora e che continueremo a pubblicare in futuro. Il merito di tutto ciò è di chi segue graficamente il progetto (D.Ratz, Novanta, Giulio Di Scola). Cosa stai ascoltando ora? Un sacco di cose e di vari generi diversi. Mi è piaciuto tantissimo il disco di Mach Hommy “Pray for Haiti”, come mi è piaciuto tanto il disco “Ufo Bar” dei Banda Maje, gruppo funk salernitano capitanato da Tonico 70. Di rap italiano mi piace molto Creep Giuliano, a mio parere uno dei più bravi attualmente in circolazione. Sognare non costa nulla, per ora ci hanno ancora lasciato la condizione per farlo. Quindi, come desiderio puro, chi vorresti sulla tua etichetta? Limitandoci agli artisti italiani che sono leggermente più terreni a livello di desideri.. C’è un bel fermento in Italia per quanto riguarda questa new wave. Sarebbero troppe le persone da nominare ma ti do cinque nomi a bruciapelo: Danno, Creep Giuliano, Blo/B, Silla, Montenero. A breve pubblicheremo un po’ di robe nuove con nomi che escono dal nostro roster abituale.

Ti faccio un domanda che punta molto sul sentimento soggettivo di ognuno di noi. Oggi la scena rap italiana e di conseguenza il mercato sembrerebbe offrire tantissime possibilità, da cogliere al volo. L'immagine resa al mondo esterno è più che positiva, ma poi ti rendi conto da al di dentro che è quasi tutto effimero. Compresi gli artisti. Come è possibile districarsi in mezzo a questa giungla? Io penso che l'unico modo è quello di rimanere coerenti con le proprie idee e non farsi trasportare dalle mode e dal suono del momento, bisogna assolutamente insistere in ciò che si crede senza scendere a compromessi con chi sta uniformando il tutto. Purtroppo nell'era dei social questa cosa è difficilissima, oggi chi ha più soldi da spendere sicuramente viene fuori più facilmente, però sono fiducioso e credo che alla lunga il lavoro fatto bene sicuramente verrà riconosciuto ed apprezzato. Io sono di origini campane e praticamente tuo coetaneo, seppur trasferito ormai da più di venti anni nel Nord Est: ricordo la scena salernitana come una scena molto produttiva dove a farla da padroni eravate voi e la DCP, ma sempre lontana dai maggiori crocevia di questa cultura… Salerno e la sua provincia cosa ti ha dato e probabilmente cosa ti ha tolto in termini di occasioni? Salerno dà, Salerno toglie; come tutte le piccole cittadine, ma resta sempre la città di cui sono innamorato, la quale, grazie alle mie crew, mi ha sempre aiutato ad accorciare le cosiddette distanze con le città crocevia di questa cultura in Italia. Non sono uno di quelli che pensa che vivere a Roma o a Milano ti aiuti a prescindere, se sei bravo puoi venire fuori ed affermarti anche vivendo nel paese più piccolo del mondo. Ci vogliono carattere, consapevolezza dei propri mezzi ed una fotta infinita. Non importa dove vivi, se hai queste caratteristiche, le hai e basta. Siamo arrivati alla fine: stavo leggendo un libro di Simon Frith, critico e studioso di popular music, dove affermava che tutte le persone fino a trent'anni possono diventare Brian Eno, dopo i trenta chi insiste è uno stupido. Ovviamente è una provocazione, però io vado oltre: dove ti vedi fra venti anni? Forse proprio il fatto di insistere e credere in quello che si fa ci renderà giovani per sempre, quindi tra vent’anni mi vedo ancora qui: con i miei vinili, il mio campionatore, i figli cresciuti e ancora tanta voglia di fare buona musica!



____________________________ testo Damir Ivic foto Universal Hip Hop Museum

Dagli ai media, dagli a quegli sfigati dei giornalisti. Insultali. Oppure, trattali come buca delle lettere. O come una copia meno sexy del tuo ufficio stampa. Tutto bello? Tutto giusto? Tutto divertente? Mmmmh. Allora, proviamo a ripartire un attimo facendo un po’ di cronistoria: contrariamente alle generazioni dei decenni e generi musicali precedenti, dove qualche scazzo tra stelle della musica e giornalisti di punta c’è sempre stato (stiamo anche solo in Italia? Da “L’avvelenata” di Francesco Guccini contro il giornalista Riccardo Bertoncelli a Pau dei Negrita che prende a pugni per una recensione un Andrea Scanzi che allora si occupava quasi solo di musica e sport…) ma dove in generale era chiara la divisione dei ruoli e c’era una sorta di implicito rispetto reciproco generalizzato, vuoi per convinzione vuoi per convenienza, l’arrivo dell’hip hop ha fatto saltare i tappi e sigilli delle valvole di sicurezza. Di brutto. Oh, all’inizio erano solo faide di cortile, giochi di ruolo all’interno della scena, un cortiletto, un kindergarten: perché questo erano gli sfoghi contro Aelle (giustificati o meno che fossero). Sfoghi che più di tanto non prendevano in considerazione l’ecosistema della comunicazione nel suo complesso; al massimo, più che altro, nel rap italiano anni ’90, pensando al contesto generalista si partiva proprio dal presupposto che i giornalisti musicali non ci capissero un cazzo, e stop. Li si ignorava. Non li si insultava, li si ignorava. Anzi, spesso non se ne conosceva nemmeno l’esistenza, visto che il b-boy medio era discretamente monomaniaco e chiuso nel suo mondo. Ora che però il rap è un fenomeno sociale unanimemente riconosciuto, ora che chi ascolta Antonacci ascolta en passant anche Sfera e i Dogo e che Tha Supreme e Thegiornalisti possono condividere la stessa fetta di mercato, ora che in generale i rapper vogliono non solo parlare al proprio pubblico d’elezione di nicchia ma vogliono fare i numeroni e vantarsi di essi costi quel che costi, la faccenda è diventata più complessa. Un confronto c’è, tra il rap e il mondo. E’ nell’ordine fisiologiche delle cose. Il rap è ovunque. Allora. Una volta assodato questo, allarghiamo l’obiettivo: abbiamo sempre più un problema di ricambio generazionale, nei media mainstream in Italia. Ecco. C’è sempre più troppa gente vecchia, vecchia all’anagrafe e/o nei pensieri; e questo perché sono tutti talmente abbarbicati alla poltrona (visto che l’editoria è da anni se non decenni un settore economicamente in crisi, dove le opportunità diminuiscono invece che aumentare) da essere terrorizzati dal nuovo e dal possibile ricambio estetico e generazionale, perché chissà a quali sciagure e cambiamenti potrebbe portare. Detto ciò, il problema di questa stato di sclerotizzazione dei media mainstream potremmo anche ignorarlo, potremmo fottercene allegramente: cazzi loro, no? Mica nostri, di noi giovani del surf, pardon, del rap. Non fosse però che questa sclerotizzazione si ripercuote indirettamente anche nel resto dell’informazione, quella più indipendente, di nicchia, quella più nostra. E come? In un modo molto

semplice: se si interrompe un naturale ricambio tra mainstream ed underground, tra nicchia e giornalismo generalista, tra webzine fatta da appassionati e giornalisti seri stipendiati, non solo il mainstream e il giornalismo generalista diventa un’entità sempre più vecchia, inutile ed inadeguata (come in effetti sta accadendo, guarda un po’), ma anche il giornalismo di nicchia, quello di settore, continua a restare un hobby, qualcosa fatto in modo dilettantesco – in tutti i sensi del termine, quindi fatto per dilettarsi (perché tanto non ci cavi un euro…) ma anche troppo spesso fatto male, con poco spessore e consapevolezza professionale. Su questa situazione, gli artisti – anche inconsciamente – ci hanno marciato sopra. Con la banda, proprio. Hanno approfittato non per disegno preciso ma proprio per istinto animalesco (nel farsi largo il prima e il meglio possibile) di questa debolezza dei media, in primis di quelli di settore. Vedevano che avevano di fronte: a parte rare eccezioni, giornalisti che più che giornalisti fatti e formati erano invece nella carta d’identità e/o nell’approccio semplicemente fan entusiasti, tutti vogliosi di far parte della scena e avere così, anche loro, una piccola torta della fama crescente dei rapper e delle loro crew (fama vera in qualche caso, presunta o effimera in altri). Ecco che quindi si è sviluppato un giornalismo non da reporter ma da riporto: tutti servizievoli nel fare recensioni che facevano a gara fra di loro nel blandire l’artista, nell’esaltarlo, nel ripeterne i concetti espressi nei comunicati stampa fatti girare dai management. Questo con la speranza di essere condivisi, ritwittati, instagrammati dai canali social dell’artista in questione, o anche solo salutati da esso. E i media mainstream, invece? Ci sono pure loro adesso, come si diceva. Capendone di loro abbastanza poco, fisiologicamente, come spiegato prima, hanno visto che questa cosa del rap funzionava, fra i giovani e, insomma, pur senza capirla, pure senza amarla, molti hanno iniziato a cavalcarla o anche solo a sospendere ogni forma di analisi critica. Facendosi cioè andare tutto bene. Trattando a prescindere gli artisti di spicco e quelli emergenti da gente geniale, da nuovi guru, da nuovi campioni, da persone e musicisti di eccezionale spessore. È normale, in tutto questo, che gli artisti si siano fatti prendere la mano: li capiamo. Eh sì, li capiamo. Oh, al posto loro avremmo fatto lo stesso. È normale che abbiano pensato fosse naturale che il giornalismo servisse non per fare giornalismo, quanto piuttosto per essere un servizievole ma secondario veicolo di diffusione delle proprie qualità e della propria figaggine (quello primario sono i propri social, che ormai contano di più e fanno più numeri). Oggi, nella maggioranza dei casi e nel contesto hip hop più che in tutti gli altri (perché è quello più moderno, il più giovane, quello sviluppatosi a crisi del giornalismo conclamata ed avanzata), l’artista non solo si incazza a leggere una critica, una voce dissonante; no,

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non solo s’incazza, ma si offende proprio. Quasi si meraviglia, e poi di conseguenza si incazza il doppio, prendendola sul personale: perché trova sia proprio un peccato di lesa maestà. Cioè, non capisce come sia possibile che un giornalista possa fare delle critiche anche accennate, posso muovere dei dubbi anche minimi, possa tentare di mettere dei granelli di sabbia nell’ingranaggio. Se lo fa, nella sua visione delle cose, sta facendo male il suo lavoro: perché il giornalismo, oggi, nella mente di troppi artisti e di troppi loro management, non serve per analizzare e contestualizzare, no, serve solo per diffondere ulteriormente la fama e la grandezza dell’oggetto di cui parla. E’ visto come un servizio insomma, una facility. Non come un interlocutore da pari a pari, con cui avere una relazione dialettica, e se serve anche un contraddittorio. Di conseguenza, il giornalista e il giornalismo puoi insultarli tranquillamente, massì. Puoi svilirne il ruolo senza sentire il minimo senso di colpa o preoccupazione. Dare addosso al giornalista e al giornalismo in generale è oggi una operazione a rischio zero, può addirittura aumentare il tasso di street credibility, al di là del fatto che tu abbia ragione o meno nel caso specifico. E poi, puoi o pensi di poter pretendere di leggere prima le domande di una intervista e/o di censurare delle parti successivamente. Nel farlo non te ne vergogni, quando invece dovresti. Perché tu, artista, come reagiresti se arrivasse un giornalista in sede di studio di registrazione e ti spiegasse come fare il tuo lavoro? Come reagiresti se un giornalista cambiasse il mixaggio di un pezzo, ti tagliasse una strofa e pretendesse che il brano andasse pubblicato così, come lo vuole lui e non come lo volevi tu? Gli tireresti una testata, reale o figurata. Vero? E faresti bene. Però, guarda un po’, non ti dà fastidio se tu o il tuo apprensivo, amorevole management pretende di controllare il lavoro altrui, quello dei media, indirizzandolo in tutto e per tutto. Ti pare normale. Ma non lo è. Non è normale per un cazzo. Soprattutto, caro artista, cari management, non siete abbastanza lungimiranti da capire che le critiche fanno bene. Tutte. Anche quelle stupide: perché impari e combatterle e a controargomentare, ti eserciti a farlo, è un buon allenamento per la mente. Ma ancora di più fanno bene quelle intelligenti, ovviamente, perché ti possono spingere a migliorare e a diventare ancora più incisivo come rapper, come producer, come crew, come team creativo, come quello che vuoi. Poi chiaro, se diamo per buona una visione adolescenziale del rap, in cui l’artista va o idolatrato tout court o insultato, allora va bene così come stiamo ora, una realtà a due dimensioni, tipica dei teenager: di gente che deve ancora capire come si sviluppa la maturità delle cose, delle visioni, delle opinioni, della dinamiche di vita. Ma vogliamo veramente che il rap e l’hip hop diventino questo? Una gazzarra da sedicenni esaltati, cacca pupù?



testo Selene Luna Grandi foto Ofir Abe

Orco, rapper e produttore di Trieste attivo sulla scena Hip Hop dagli anni '90, è un expat (come me!) che al momento risiede ad Amsterdam. Al fianco dell'etichetta Moksha Music ha già pubblicato due dischi, di cui il secondo, Memento Mori, è appena uscito. Durante questa chiacchierata Orco ad un certo punto mi ha detto che lui fa vero Hip Hop Boom Bap. Questa cosa mi ha fatta sorridere perché se prendete in mano il suo disco è assolutamente così. Si sente un retrogusto di buono e di autentico. Si assapora la genuinità e un liricismo eccezionale. Non sono da meno i contenuti che, come capirete anche leggendo questa intervista, non sono i classici proposti dai ragazzini di oggi. Se cercate roba buona da ascoltare, Memento Mori fa per voi. Parto in maniera non convenzionale. Dal tuo comunicato e da molti titoli del tuo disco, si evince il tema della spiritualità. Ti sei avvicinato a qualche religione in particolare? Apprezzo molto la partenza non convenzionale, perché è uno spunto per parlare dell’aspetto più importante della mia musica, ma che credo passi spesso in secondo piano rispetto alla maniera in cui essa suona per via della metrica serrata e dei beat, ovvero il contenuto. La mia musica parla soprattutto del risveglio spirituale, che è il messaggio di ogni filosofia e di ogni religione. Le religioni non sono altro che metodi sviluppati dall’uomo in diversi contesti storici, culturali e geografici per esprimere la stessa verità ed aiutare altri a capirla. Le differenze fra le religioni sono solo superficiali ed illusorie, riguardano la scatola; ma il messaggio, ossia il contenuto, è sempre esattamente lo stesso, dal Buddismo al Cristianesimo. Questo approccio sincretico è chiamato anche Perennialismo (il tema della canzone “Filosofia Perenne” contenuta nel mio primo album, Sapere Aude) perché individua in tutte le filosofie, i miti e le religioni del mondo un tema di fondo che è sempre lo stesso, e cioè la scoperta dell’anima, della sua uguaglianza con l’intelligenza universale e del fatto che questo in cui ci troviamo è tutto un videogioco fatto di energia. C’è chi quell'intelligenza sempre esistita la chiama Dio, chi Universo, chi legge d’attrazione e chi, semplicemente, non ha bisogno di chiamarla. Ma credo che la maggioranza delle persone, quando si parla di Dio, tenda ad immaginarsi una figura terza, in genere barbuta, seduta nel cielo e separata da noi, il che lo rende una versione per adulti di Babbo Natale. E le religioni si tramutano così in una gabbia usata per manovrare i popoli, come una squadra di calcio o un partito politico. Per quanto tutte le religioni siano la stessa identica cosa, m’identifico molto con l’Advaita Vedanta, una scuola dell’Induismo basata su testi come le Upanishad e la Bhagavad Gita. Ma prima di trasferirmi ad Amsterdam e di fare certe esperienze, credimi che ero la persona con l’approccio più ateo, razionalista e scientifico che conoscessi. Diciamo che pensavo di sapere ma che, in realtà, non avevo idea di quanto fosse profonda la tana del Bianconiglio. Adesso so di non saperlo. Scusa la prolissità, ma aspettavo da tempo che mi venisse fatta una domanda così. Credi che altre persone abbiano avuto un avvicinamento alla spiritualità considerando gli ultimi due anni di vita e la pandemia? Quello di cui ho parlato fin ora non sono miei interessi o nozioni meramente intellettive. Il risveglio c’è, e sta avvenendo sempre più rapidamente a livello collettivo per far fronte all’era del decadimento, un ciclo che si ripete all’infinito come profetizzato da ogni religione. Credo sicuramente la pandemia e la forzata solitudine abbiano spinto molte persone a guardarsi dentro più profondamente e a rivalutare alcune priorità. A seconda della persona, il lockdown è stata o un’occasione di crescita e di sviluppo personale o un ulteriore passo nel male di vivere e nello sconforto esistenziale dettati dall’abitudine e dalla comfort zone,

condizione che si è aggravata ancora di più per il venir meno di tutte le distrazioni superficiali con le quali prima ci si teneva ottunditi costantemente. A proposito di questo, tu come hai vissuto questo periodo? Com'era la situazione in Olanda? Non parlo da un punto di vista della malattia, che non ho mai voluto seguire fin dall’inizio, ma solo da quello delle restrizioni: in Olanda è andata molto meglio che in Italia e, specie durante il primo lockdown, sono stato felicissimo di trovarmi ad Amsterdam e non giù da noi. Ho visitato tutto il paese in monopattino elettrico senza nessuno in giro, mi sono comprato un drone ed ho girato 4 o 5 video, ho realizzato il sogno di collaborare con Canibus, Afu-Ra e molti altri, ho fatto beat per Deams (Gang Starr Foundation) e Mad G producendo tutto il suo album d’esordio e sono anche finalmente riuscito a portare a termine il mio secondo disco. Avendo meno lavoro (ma la stessa paga) ho approfittato per fare al massimo tutto ciò che amo: è stato un periodo pieno di creatività. A proposito, cosa fai ad Amsterdam? Sono andato la prima volta in vacanza ad Amsterdam nel 2002, attratto come molti dalla sua politica di tolleranza nei confronti della Cannabis, ma poi mi sono innamorato di quella mentalità che permette che questo accada, più che della cosa stessa. Amsterdam State Of Mind. Ci sono venuto in ferie dodici volte prima di riuscire a guardarmi davvero dentro e a capire che, se andare a vivere ad Amsterdam era tutto quello che volevo, dovevo muovere il sedere, credere nei miei sogni e andarmela a prendere. E così ho fatto. E non solo, in poco tempo ho coronato il mio desiderio di lavorare in coffeeshop e di vendere l’erba ai figli degli sbirri italiani in vacanza qui. Ci tengo a precisare che da quando vivo ad Amsterdam, la mania per l’erba che avevo in Italia per anni si è ridotta ad un piacere come può essere un buon vino o un sigaro Avana. Le sostanze sono illegali per fartele desiderare e far guadagnare i politici, non per proteggere la tua salute. Sei originario di Trieste se non ho capito male. Ci racconti qualcosa di biografico, soprattutto per chi si approccia a te per la prima volta? Guarda, odio suonare autoreferenziale, ma sul mio disco in uscita c’è un pezzo super trippy che è stato da poco rilasciato come singolo, “The Orco Show”: non so neanche io come mi sia uscito, è molto diverso dal mio solito modo di scrivere. Fondamentalmente è la mia biografia in rap, tutta in extrabeat, dove chiunque può farsi un’idea parecchio dettagliata della mia vita, compreso il fatto che assomiglio a Pitbull! (ride n.d.r.) Ad ogni modo, sono nato a Trieste da genitori napoletani. Non mi sono mai riscontrato nella mentalità triestina ma, per quanto abbia sempre Napoli nel cuore, vivere lì è tutt’altra cosa che non al nord. Amsterdam è la patria che mi ha chiamato e che ho scelto di fare mia. Questo ha pure trasformato nel mio lavoro quello che in Italia mi aveva procurato un paio di processi per spaccio. Quanto all’Hip Hop lo vivo dal 1996 ed ho avuto la fortuna di conoscere e lavorare con dei mostri sacri della musica, come il mio concittadino Al Castellana o l’MC e produttore El Nero, dai quali ho imparato molto sul campo. Ho registrato tanto negli anni, ma fra svogliatezza nella fase meno creativa ed altri impegni, non avevo mai fatto uscire nulla di ufficiale. Da quando mi sono trasferito ad Amsterdam, e la mia distrazione principale si è ridimensionata di molto, ho iniziato ad impegnarmi al massimo nella musica e a rilasciarne quanta più possibile, visto che è il testamento della mia vita e della mia evoluzione spirituale.

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Memento Mori è quindi il tuo secondo disco. Cosa c'è di diverso o di continuativo rispetto al primo? Di continuativo direi il titolo in latino! Ma anche tutto il discorso relativo all’esoterismo e alla dimensione mistica della realtà. Di diverso c’è che, mentre Sapere Aude è il disco del mio risveglio, Memento Mori è quello della consapevolezza, del fatto che la vita va vissuta nel qui ed ora ogni istante. Lo vedo più vario rispetto al primo, contiene molti pezzi di puro storytelling come “Il quaderno della morte” (ispirato al manga Death Note) o “Noia” (col featuring di Canibus, uno dei miei MC preferiti di tutti i tempi) dove scrivo dal punto di vista della noia stessa. Vi sono ancora pezzi da tre strofe super profondi come “Ricordati di vivere” e lodi all’Hip Hop come “Dove batte il cuore” featuring Ivanò e “Hardcore Style” featuring Edo G, ma si aggiungono pezzi particolari come “The Orco Show” o “Il Potere” col featuring di El Nero. Diciamo che sono d’accordo con Caparezza quando dice che il secondo album è sempre il più difficile, spero di essere riuscito a superare il me stesso del primo album quanto a tematiche, flow, stile e beat. Il titolo da cosa prende spunto? Il titolo è il succo degli insegnamenti religiosi, filosofici, misterici ed esoterici di tutto il mondo: se non ti sei svegliato e non sei rinato, allora stai dormendo. Tu sei quello. Svegliati e sogna. Prendi coscienza che la realtà è una proiezione della mente universale e gioisci della tua rinascita e del valore della vita; e questo lo si fa ricordandosi che si deve morire, ma funziona solo quando si è capito davvero che non si morirà mai. Quasi chiunque tende, di quando in quando a dimenticarsene e a ricadere nell’abitudine: in tal caso spero che il mio disco possa spingere a fare ciò che diceva il compianto Troisi: «Si si, no, mo me lo segno proprio». Cosa troviamo dentro a livello di temi o di suoni? I temi sono vari e sono più o meno quelli discussi finora. Vi è anche, come da tradizione di Sapere Aude, una canzone d’amore sulle anime gemelle (o Twin Flames) creata in stile crossover Hip Hop / Reggae: nel primo disco era “Andiamo” col featuring di Ziggi Recado, in Memento Mori è “Good News (Vangelo)”, con un ritornello incredibilmente catchy del grande cantante torinese Al Magheddon. Si tratta di un pezzo d’amore per una ragazza il cui nome tradotto in italiano vuol dire “buone notizie”. Essendo questo anche il significato della parola “vangelo”, ho immaginato che questa ragazza sia portatrice di un messaggio dal cielo, il messaggio del risveglio. Le tematiche sono quindi afferenti alla psicologia, alla spiritualità, alla filosofia, alla mistica, all’Hip Hop; il tutto cercando di mettere a frutto ciò che ho imparato dai miei maestri in termini di tecnica, flow e quantità di rime ed assonanze. Il mio motto è sempre una rima in più, ma senza mai per questo compromettere il senso o tirarlo per i capelli. Quanto a sonorità, con buona pace dei più giovani, io sono bloccato a fine anni ’90. Quando mi dicono che suono old school mi viene un po’ da ridere, perché per me suonano old school la Sugarhill Gang, i Run DMC e i Public Enemy. Io faccio vero Hip Hop Boom Bap, generalmente in stile NY, e suono la musica che amo e che sognavo di fare così vent’anni fa. Ci sono anche un sacco di collaborazioni di rilievo. Ci dici qualcosa in più presentando i tuoi ospiti e spiegandoci come ti sei messo in contatto con loro? Diciamo che se a 16 anni, canna in bocca e Canibus nelle cuffie alle 7.30 di mattina, aspettando il bus per andare al liceo, qualcuno mi avesse detto che in futuro avrei lavorato in un coffee shop e che avrei fatto una canzone con Canibus, gli avrei riso in faccia. Ma riporto il discorso alla mia prima risposta: ciò di cui parlo non è speculazione intellettiva, ed io ne sono e me ne sento la prova più evidente. Le cose vanno nel migliore dei modi possibili, ossia nel solo in cui possono andare. Ed essere in linea con il percorso della mia anima, piuttosto che non imprigionato in una vita e con un lavoro che non mi soddisfano, permette alle cose giuste di succedere. Vivere ad Amsterdam ovviamente ha fatto tutta la differenza, a Trieste

al massimo potevo fare video inchieste sull’inquinamento siderurgico. Ho conosciuto prima El Da Sensei degli Artifacts e Godfather Pt III degli Infamous Mobb; poi sono riuscito a connettermi con star dell’Hip Hop che ammiravo fin da ragazzino come Afu-Ra, Sadat X ed il grande Edo G. Ma devo ammettere che una delle soddisfazioni più profonde della mia vita è stata fare un pezzo assieme a Canibus. A parte la qualità del risultato finale, chi mi conosce sa bene come io abbia sempre detto che i più grandi rapper di tutti i tempi sono Big Pun e Canibus. E trovandomi sulla stessa traccia col mio mentore, sono ovviamente stato spinto a dare il meglio di me stesso! Che valore ha essere un rapper e produttore expat ad Amsterdam? Ti sei creato il tuo giro? Guarda, Amsterdam è un melting pot ma è formata da bolle: ci sono gli italiani, i marocchini, i polacchi, i locals, le Hip Hop head, i truzzi, i fricchettoni, i tipi da festival. Nella bolla italiana, se non conosci qualcuno, conosci sicuro qualcuno che lo conosce. La comunità Hip Hop è molto radicata qui e gli italiani ne formano uno zoccolo duro, immancabile ad ogni jam, concerto od open mic. Grazie all’etichetta Moksha Music, sono venuto in contatto con molti di loro ed ho potuto aprire concerti di primo piano come Salmo, Noyz, Colle der Fomento, Inoki, dj Fastcut, Mattak, Big Daddy Kane etc, il che mi ha portato a lavorare con ancora più persone: cito ad esempio le produzioni per la leggenda olandese Deams (Gang Starr Foundation), per Truth dei Rapcore e per Mad G il cui album Follia con logica, interamente prodotto da me, è disponibile su tutte le piattaforme digitali. Come sei venuto in contatto con l'etichetta Moksha Music? Quali sono i valori che condividi con loro? Amsterdam è un paesino e prima o poi ci si conosce tutti! Specie quando non si stanno inseguendo gli interessi ma i propri sogni. Moksha è il risveglio spirituale nell’Induismo, ed il motto dell’etichetta è «Music is the language of the Soul». Potrai capire bene quanto la condivisione di valori sia profonda. Per Moksha Music sono già usciti i miei due dischi, gli album di esordio di Mr Melt e di Mad G e vari singoli fra cui quelli di Truth e di Manny from Amsterdam. Prossimo lavoro che vedrà la luce quest’anno, un disco di gruppo con Vybzniko (dj, produttore e cantante raggamuffin), Mad G e me: è quasi pronto e posso assicurarti che è la definizione del rap underground East Coast che più amo. Il primo singolo estratto dal progetto si chiama “Fiori di plastica”, ed è già disponibile su tutte le piattaforme. Una violenza inaudita! Quali sono i migliori posti (per eventi o acquisti) ad Amsterdam? Il bello di Amsterdam è che c’è tutto quello che vuoi: la vita è cara ma la qualità della vita è strepitosa. Per acquisti dipende quello che cerchi: se non sto al mio coffee shop, in studio, al parco o in giro per i canali in monopattino elettrico mi trovi a fare diggin’ in the crates per vinili Hip Hop, Funk e Soul da Waxwell o da Concerto. Potrei anche essere in uno degli infiniti negozi di vestiti di seconda mano, dove trovo capi di Karl Kani, Fubu, Pelle Pelle, Ecko o Coogi a prezzi ridicoli, sono uno dei pochi che si veste ancora così e adoro questa cosa. Aggiungo anche i fantastici mercati come Waterlooplein, Albert Cuypmarkt, Noordermarkt e Linden markt. Per eventi invece va detto che due anni di pandemia sembrano aver cancellato tutti i precedenti anni di pandemonio! (ride n.d.r.) Scherzi a parte, il “Melkweg” è sicuramente il locale più quotato della città assieme al “Paradiso” e ai palazzetti “Ziggo Dome” e “AFAS Live”. Ho suonato in posti splendidi da quando vivo qui ed ho visto i concerti di tutti i miei artisti preferiti, EPMD, Wu Tang, Cypress Hill, Dj Premier, Funkadelics, Queen. Amsterdam non è Trieste! Trovi differenze sul mondo musicale fra l'Italia e l'Olanda? Su questo almeno va detto che l’Italia è molto più avanti rispetto all’Olanda! II gusto musicale qui è parecchio terra terra (non solo quello musicale...) mentre l’Italia è produttrice e consumatrice di musica di primo livello. Quanto alle possibilità, però, ne ho avute molte più qui, dove la meritocrazia è reale e le occasioni molte di più.

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____________________________ testo Riccardo Primavera foto adidas.com

Ci eravamo lasciati, lo scorso numero, con un approfondimento sulle intersezioni tra il Jordan brand e il mondo del rap. Le sneaker legate al numero 23 più famoso della storia del basket sono infatti finite spesso e volentieri ai piedi di molti rapper, che con il tempo sono addirittura diventati designer, collaborando alla creazione di modelli esclusivi. adidas, però, non è assolutamente stata a guardare. “My Adidas”, singolo del 1986 dei RUN DMC, è infatti il responsabile di quello che è stato il primo accordo nella storia tra un brand sportivo e un gruppo rap. L’eccezionale lavoro promozionale svolto intorno al brano, praticamente un immenso spot promozionale per l’adidas, ha infatti convinto l’azienda a firmare il gruppo come endorser. Da lì in poi, nulla è stato lo stesso, e moltissimi rapper hanno dato vita a lucrose e stilose collaborazioni con il brand. Abbiamo quindi aperto di nuovo gli archivi dello sneaker game: qui troverete un po’ di nomi e sneaker che hanno segnato la storia di adidas. Ovviamente non sono tutti, servirebbe una monografia, ma una cosa è certa: non sarete mai fuori luogo con un paio di adidas ad un concerto rap! RUN DMC Vabbè, questa è facile. Come detto in apertura, sono stati letteralmente i pionieri del legame rap-sneakers, quando ancora nessuno osava neppure immaginare un simile accordo. L’adidas Superstar, uno dei modelli più iconici e di successo della storia del brand, deve indubbiamente parte del proprio trionfo proprio al legame con il gruppo. Diversi sono i modelli ispirati ai RUN DMC, o ai singoli componenti del gruppo, come le Superstar Jam Master Jay Run, e a più di trent’anni di distanza dalla prima collaborazione, fanno ancora contenti decine di migliaia di collezionisti sparsi in tutto il mondo. Senza tempo.

PUSHA-T Altro OG che ha scritto pagine importanti per adidas, tra cui quella secondo cui sarebbe stato un suo intervento ad annullare un accordo praticamente già pronto tra il brand e Drake, Pusha-T è entrato nel mondo delle sneakers collaborative con la stessa realness con cui ha sempre rappato. Ecco quindi che la sua EQT Guidance ’93 si caratterizzava per una scelta di materiali e una colorway votata ad un purissimo bianco, che ricordava per l’appunto... Beh, insomma, ci siamo capiti. Ora si sta sbizzarrendo di più, grazie a diverse colorazioni della Ozweego, ma solo ed esclusivamente colorway che lui stesso indosserebbe. Nulla di troppo fancy o sgargiante, Pusha-T resta sempre ancorato alla strada.

PHARRELL Pharrell Williams è uno dei nomi che più ha influenzato lo sneaker game in generale, impattando su moltissimi brand diversi, da Reebook a Nike, fino a trovare la propria comfort zone d’eccezione con adidas. Iniziata nel 2014, la sua collaborazione con il brand delle tre strisce ha dato vita ad un’infinita serie di modelli, colorazioni e sperimentazioni, sempre in linea con l’eccezionale ricercatezza dei suoi gusti. Alcune di queste sono diventate un vero e proprio cult per i collezionisti, come quelle in collaborazione con Chanel. E il bello è che il leggendario rapper e producer non sembra minimamente intenzionato a rallentare il flusso della sua vena creativa in fatto di sneakers, anzi.

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SNOOP DOGG Non ci sono solo joint giganti, sia nel senso musicale che botanico del termine, nella carriera di Snoop Dogg. L’autore di "Doggystyle", da sempre attentissimo alla freschezza del suo look, ha collaborato diverse volte con adidas. Sebbene forse meno chiacchierate di altre collaborazioni, tutti i modelli curati da Snoop sono piuttosto apprezzati dai collezionisti, sia per il valore affettivo che per la pulizia estetica. Come le adidas Matchcourt Mid Snoop Dogg x Gonz Cream: dalla scelta dei materiali fino agli abbinamenti cromatici, non c’è nulla che non funzioni in questa collaborazione.

CHILDISH GAMBINO Non tutte le ciambelle escono col buco, ma neppure tutte le collaborazioni. Quella tra adidas e Childish Gambino ha infatti lasciato piuttosto insoddisfatti sia i fan del brand che quelli dell’artista, delusi da grandi aspettative piuttosto malriposte. L’autore di "This Is America" e "Awaken, My Love!" ha infatti firmato una linea di sneakers piuttosto anonime, a partire dalla scelta dei modelli, passando per il design e i materiali. Rimaste non poco sugli scaffali, quelle sneakers gridano ancora vendetta: possibile che la mente geniale dietro Atlanta, uno dei fenomeni televisivi più importanti dell’ultimo decennio, non potesse proprio fare meglio?

KID CUDI Più recente è l’accordo firmato da Kid Cudi con adidas. L’autore di "Man on the moon" ha infatti rilasciato da poco la sua signature sneaker, la Vadawam 326 Kid Cudi, che tradisce il gusti dell’autore in virtù di un design che ammicca con forza al mondo dello spazio e delle divise da astronauti. Una scarpa ingombrante, per chi non vuole passare inosservato, ma anche un esperimento interessante: Cudi ha sempre ribadito un certo amore per la moda, lo streetwear e le sneakers (la sua carriera è nata come commesso del negozio BAPE di New York), e una volta firmato un deal con un colosso in materia, non ha affatto temuto di sperimentare e allontanarsi dalla solita, semplice collaborazione. Well done mr. Scott!


BONUS TRACK: KANYE WEST Arrivati fin qui, sono sicuro che molti di voi avranno pensato: «sì, ma dov’è Kanye West?». In effetti, qualunque binomio rapper X – sneakers impallidisce al confronto con l’impero costruito da mr. West. La scelta di inserirlo in fondo, come bonus, è praticamente figlia di un cavillo tecnico: Yeezy, il suo brand, è sotto l’ala di adidas, ma ha una direzione e una gestione decisamente più autonoma, e le ultime produzioni tendono a sottolinearlo sempre di più. Parte di un deal che ha arricchito in maniera incredibile sia l’estate del rapper che quella del brand, Yeezy ha iniziato producendo sneaker che in pochissimo si sono inserite al centro dello sneaker game, da protagoniste, come le Yeezy Boost, ma negli ultimi tempi ha virato verso una grande sperimentazione. Oltre alle Yeezy Slide, forse le ciabatte più hype del momento, con prezzi di rivendita che arrivano a raggiungere i 300 euro, colpiscono soprattutto le Foam Runner, scarpe dalla forma e dai materiali così particolari che viene davvero difficile catalogare come sneakers. La frenesia che ne ha circondato il rilascio, però, con prezzi di resell che superano i 1000 dollari, conferma una teoria sempre più difficile da smentire: fatto salvo per il mondo della politica, tutto ciò che Kanye West tocca si trasforma in oro. Mr. West è sempre più Mr. Mida’s touch.



testo Toni Meola foto Enrico Engelmann

WaxKillers è un produttore milanese che ha attraversato più di venti anni di cultura hip hop, anni fatti di ricerca e curiosità mantenendo costantemente un’impronta personalissima e non cadendo mai nei soliti stereotipi di genere. Da qualche settimana è disponibile il suo nuovo lavoro, il decimo, intitolato semplicemente X, 14 tracce di rap underground con protagonisti fra gli altri Adria The Reject, Flawa, Hot Ice, Mulanzo, Blan 1, Truman Simbio, Profeta Matto, Oren Wan Sabi. Partiamo dal passato, facendo un leggero passo indietro, tornando nel 2001 (!), quando hai dato vita alla tua etichetta Blastafunk Productions. Leggevo una intervista del tempo dove spiegavi il perché di quella scelta. Oggi che i tempi sono cambiati, e direi drasticamente, rifaresti esattamente tutto allo stesso modo? Tutti sono bravi a parlare col senno di poi, però è vero che se tornassi indietro, cercherei di investire ancora più budget e più risorse per la mia etichetta. Questo perché come tutti sanno i soldi non bastano mai, il mercato cambia continuamente e drasticamente. Tutti pensano di poter guadagnare coi live e gli eventi, inserire la propria musica su Spotify e sugli altri portali e fare digital downloads a nastro. Poi l'abbandono del cd fisico soprattutto per le label indipendenti come la mia ha costretto grandi e piccoli a rincorrere il mercato del vinile e le limited edition, drogate per vendere più unità ricorrendo anche ai firmacopie nei vari stores. Io lo chiamo il gatto che si morde la coda per fame e se la stacca... Credo anche che a tutto questo ha contribuito l'atteggiamento demente di una fascia del pubblico che compra i vinili per mero collezionismo e non li ascolta neanche, non si sa mai, sigillati valgono di più (ride n.d.r.). Se non sei famoso o hai una grossa fanbase è quasi impossibile guadagnare coi live. Io ho una carriera lunga, ho iniziato presto a lavorare come dj e a impegnarmi faticosamente per riuscire ad emergere. Tra il 1999 e il 2005 ho fatto tutte le gare per dj che esistevano in italia e ho avuto buonissimi piazzamenti, anche se non ho mai vinto. La mia sensibilità musicale ed abilità da questo ne ha guadagnato tantissimo, ho modificato e migliorato la mia capacità musicale e le miei skills. Il concetto fondamentale, nella musica, è che più ti sbatti e più migliori. L’occasione per questa nuova chiacchierata è l’uscita del nuovo cd dell’etichetta, dove hai invitato diversi artisti a rappare sulle tue produzioni. Come è nato il progetto? Il progetto del disco è nato più o meno 3-4 anni fa e doveva uscire per il 2020 poi il Covid 19 ed il conseguente lockdown ha scombinato tutto e tutti... Voleva e doveva essere il disco celebrativo dei 20 anni dell'etichetta. È uscito leggermente in ritardo per motivi quindi indipendenti dalla mia volontà. Comunque i miei progetti nascono dalle sensazioni e dalle frequentazioni con la gente, dalle serate, dai vari vinili e cd che colleziono e uso per rubare campioni e mood, se va di moda una cosa quasi sempre io vado dalla parte opposta oppure seguo la moda ma la personalizzo, la faccio mia. il produttore alla fine è come un sarto che lavora con un artista e gli fa un arrangiamento tailor made, anche se in questo disco ci sono anche collaborazioni dove mi è arrivato già tutto fatto, beats e rime, andava benissimo così e quindi ho lasciato tutto cosi com'era. Come dicono gli inglesi if it ain't broke don't fix it. Spiegaci il ruolo di Disco Più in questo disco... Disco Più è un contatto personale privilegiato che ho da tantissimo tempo e risale al periodo di quando facevo il dj puro e cercavo i dischi migliori per fare i dj set con la musica migliore, sondavo e spulciavo vinili e cd nei negozi di dischi e negli ingrossi. Il resto della storia non

la racconto, sono segreti del mestiere e la carriera di un dj/produttore che si è aperto e gestisce un'etichetta tutto da solo tranne che per la distribuzione. Come hai scelto gli artisti? Hai affiancato diversi nomi più o meno noti nell’underground, dove spicca ad esempio un ottimo Truman Simbio accanto a rapper “meno considerati” come Mysthero e Yankomix… Gli artisti/rapper che ho scelto fanno parte del mio circuito di serate e sono anche clienti del mio studio. Quasi tutti hanno registrato da me e prima o poi alcune delle cose migliori vengono necessariamente premiate con la pubblicazione. Non basta essere bravi per firmare con me, devi avere qualcosa di speciale e saper stare sul palco e scrivere bene, scrivere buoni testi anche quando le canzoni parlano di cazzate, come insegna la tradizione del rap. Tradizione che ho ibridato e rinnovato con del sano retro sound elettronico molto prima che nascesse la trap. Sono stato uno dei precursori del rap elettronico in Italia, anche se molti ancora non conoscono la mia lunga storia artistica. Un capitolo a parte lo meritano comunque Adria The Reject e Truman Simbio. Adria The Reject per lo stile di vita fetish e la situazione familiare unita all'odio per Senigallia, il posto dove vive, tutti questi fattori ne fanno un personaggio incredibile e una possibile futura star del rap marchigiano. Ad esempio ha anche collaborato per il video di un suo pezzo con Andrea Diprè, più fetish di così (ride n.d.r.) Truman Simbio invece è un poeta metropolitano del freestyle ed è un heritage degli mc underground milanesi, ha visto nascere Fedez, è stato citato nella sua biografia ed ha venduto 1000 copie del suo cd prodotto dalla mia etichetta smazzandosele da solo... non aggiungo altro. Il tuo marchio di fabbrica è sempre stato, fin dall’origine, una commistione di beat dal sapore “old school” unito a una buona dose di suoni elettronici. Già in tempi non sospetti, come dicevo. Come lavori in studio? Con che strumentazione? Il risultato artistico è ciò che contraddistingue un professionista della musica da un hobbista, in tanti anni di disonorata carriera e di sbattimenti credo di avere imparato, con il poco che ho, ad avere il risultato migliore possibile. Presto rifarò il pc dello studio e cambierò la scheda audio per aumentare ancora di più le mie prestazioni musicali e la resa sonora. Ho uno studio a Milano, lo Small Studio, dove registro le voci e lavoro con piatti, mixer, e come software Cubase 5.3 (vero old school). Più drum machines e campioni vari e una camera/console dj dove metto giù le idee ovviamente preparo i miei dj set per le serate live che faccio. Doppio sbatti per un migliore e doppio risultato.. Dopo tanti anni di pratica e trial and error, sono arrivato alla conclusione che il dj aiuta il produttore a migliorare il gusto per i campioni e il mood e il produttore aiuta il dj a diventare più organizzato nei dj set e nei live col pubblico. Il doppio lavoro, nell'ambiente musicale, fatto da una sola persona, aiuta l'artista a progredire e a reinventarsi, alla fine ciò che conta è sempre l'amalgama del tutto. Ho sempre diffidato da artisti che cambiano nel giro di due anni, giustificando il tutto con un tentativo di fuga dall’omologazione, quando a mio modo di vedere è un solo un tentativo ipocrita di cavalcare le varie onde…. tu che ne pensi? E soprattutto qual è il compito dell’artista oggi? Secondo me il compito dell'artista oggi è durare più di due anni con tutti i mezzi possibili, magari se non arriva dai talent televisivi dura

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anche di più sempre se è bravo a gestirsi (ride n.d.r) Il problema principale che affrontano gli artisti è innanzitutto emergere dal mare magnum degli aspiranti tali, già firmare un contratto con una etichetta indipendente oggi è un buon risultato, se la indie ha un budget serio per promuoverti è un risultato ancora migliore. Il problema principale però è il gioco vizioso e viziato dei talent come X Factor e The Voice, va avanti chi a priori ha già un contratto con la major, poi viene creata ai fini della finzione televisiva una gara di cui si sa già il risultato finale o quasi.. Ovvio che in corso d'opera, dato che ci sono in ballo tanti soldi, qualcosa venga modificato ma il canovaccio predeterminato rimane. In una situazione del genere, se non hai alla base soldi, conoscenze e un'etichetta potente, sopravvivere ai cambiamenti del mercato è quasi impossibile, ma i miracoli possono accadere, bisogna crederci sempre. Stanno iniziando i live, i concerti e le situazioni dal vivo. Come hai vissuto la pandemia che dovrebbe essere in fase di remissione? La pandemia è stata da un lato un male, dall'altro un'ottima occasione per tagliare sbattimenti inutili e contatti fasulli di cui l'ambiente musicale è strapieno. E da cui gli artisti si fanno risucchiare energie, tempo, soldi e i pochi contatti giusti che conoscono e possono sfruttare.. Se sei forte online non vuol dire che vai forte anche nelle situazioni live, sono due cose e due ambiti diversi. Addirittura non è nemmeno lo stesso campionato. La pandemia ha creato i dj online, la fine della pandemia consacrerà di nuovo il dj live, i followers o gli spettatori online contano se sei già famoso, se non lo sei e i tuoi ascoltatori o followers non sono fidelizzati, averli o non averli non cambia di molto il risultato. Il tuo cachet aumenta quando hai i paganti che vengono a vederti o quando i tuoi paganti aumentano, il resto sono solo chiacchiere e statistiche da social. Prima mi parlavi del periodo dell'università come uno dei più intensi da te vissuto. Ora voglio andare nello specifico: qual è stato il momento più bello della tua carriera, e di conseguenza vorrei sapere anche il rimpianto più grande, se c'è... Domanda molto importante per quello che mi riguarda: il periodo più bello della mia carriera collima con l'occasione migliore, quando ho suonato a Ibiza sugli yacht e al Privilege grazie alla famosa serata Ritch Bitch di Ale Zuber. Per un dj europeo credo che fare dei dj set a Ibiza e misurarsi con un pubblico davvero internazionale e con dei grandi nomi e superstar dj sia davvero una soddisfazione immensa. Sono andato e ho suonato in un posto fantastico senza raccomandazioni ma solo con la forza della mia musica e della mia club selection. Invece di momenti brutti nella mia carriera non ne ricordo. E non lo dico per piaggeria. Ho sempre valutato i pro e i contro di ogni serata e di ogni situazione in cui dovevo esibirmi. Certo se prendiamo ad esempio le gare per dj a cui ho partecipato e tutte le finali che ho disputato, dal 1999 al 2005, potrei dire di non essere riuscito mai a vincere, ma questo è stato uno stimolo ulteriore a migliorarmi e a diventare un bravo produttore ed organizzatore di eventi musicali. Certe volte perdere le gare ti salva la carriera al posto di bloccarla. Perfetto, questa risposta ci da lo spunto anche per chiederti cosa stai ascoltando in questo momento e cosa pensi succederà a livello musicale nei prossimi mesi... In questi giorni e per tutto l'inverno, ho ascoltato cose nuove, quindi trap, reggaeton ed anche drill (british sound e derivati). Recentemente, anche per merito dei numerosi mercatini e negozi di dischi presenti a Milano, mi sono buttato a capofitto sui dischi usati, soprattutto funk, boogie, disco del periodo 70' ed 80'. Sono onnivoro a livello musicale, divoro di tutto, rispetto al passato amo meno l'elettronica (house, techno ed electro) e molto di più il reggae, il funk, la disco e il soul. Ad ogni modo il trucco delle mie produzioni e dei miei ascolti per il campionamento sta tutto li: trovare dei campioni black e stravolgerli

ed ibridarli con le macchine e i synth. Lo faccio ormai da 20 anni, ma più mi ci metto più mi rendo conto che miglioro, secondo il mio modesto parere. Il futuro del rap è la trap, il reggaeton e la drill, oppure il lo fi hip hop che segue le orme del vecchio trip hop anni 90' che tanto amavo e che suonava cosi british e cosi originale. Il rap cambia ogni 5 anni come il suo pubblico, è il segreto e la longevità di questo non genere musicale. Cambiamo registro. Sembra strano nel 2021, ma credo che si viva ancora di sogni… Qual è la tua ambizione più grande? La mia ambizione più grande è pubblicare sempre più dischi e con un minor intervallo di tempo di uscita tra uno e l'altro. E stamparli sia su cd che su vinile... Per diventare famosi c'è sempre tempo e i social ti fanno credere di essere qualcuno, in realtà è meglio riuscire a vendere rimanendo dietro le quinte senza diventare troppo famosi e soprattutto esposti perché come diceva Lord Bean più ti esponi e più ti rompono i coglioni... Ma è anche vero che se non ti esponi non potrai mai sapere se vali qualcosa per il pubblico e se esiste un pubblico disposto a seguirti, come dicono sempre gli americani che hanno inventato il music business assieme agli inglesi play your position, e fallo bene aggiungo io. (ride n.d.r.) Vendere è una cosa, apparire un'altra, spesso si tende a confondere i due ambiti, ma sono diversi e non sovrapponibili. La pubblicità ed i social possono aiutarti ma se dietro di loro non c'è un artista valido, la novità si sgonfia subito... E chi sono gli artisti che reputi validi, oggi? Alla domanda rispondo con una sorta di elenco: Eminem, anche se un po' in calo sempre fortissimo, in America nessuno prova a dissarlo per paura delle reazioni e delle conseguenze che ne deriverebbero..(dissing di Eminem, carriera finita, ride n.d.r.) 50 Cent, perché nonostante tutto tiene botta e ha ricominciato a sfornare qualche pezzo buono... Stormzy, sarà anche drill/grime ma spacca il culo e lo considero tra i 10 migliori in giro oggi, "Vossy Bop" è uno di miei pezzi preferiti degli ultimi 2 anni... Mattak: l'unico mc italiano giovane che mantiene alta la tradizione dell'old school e ha parecchio talento, uno con cui mi piacerebbe collaborare, poi è svizzero, più di così.. Purple Disco Machine: se la dance fosse tutta così forse tornerei nei locali generalisti a fare qualche serata... Sottotono: sono ritornati al gfunk con qualche upgrade, decisamente promossi anche con l'acquisto del loro disco in vinile... Chicoria: conosciuto l'anno scorso a una festa di Vice a cui ho potuto fargli da dj sul palco, simpatico e umanamente positivo. Diplo: ogni anno come Sean Paul sforna un paio di pezzi che amo mettere nei miei dj set, sempre avanti e se i due collaborano aspettatevi delle mine assolute... Comunque ci sarebbero tantissimi altri nomi da fare ma mi limito ai primi e ai più simpatici che mi sono venuti in mente. Che progetti hai in serbo per il futuro? Dei live per presentare il disco? Dei nuovi video per promuoverlo? A breve, se tutto va bene, uscirà un nuovo singolo per un nuovo artista giovanissimo che fa drill, Adri Le Feu "Figli di pappa". La data di uscita dovrebbe essere il 14 luglio, ma potrebbero esserci dei cambiamenti significativi nell'arrangiamento del brano... I firmacopie del disco sono per ora, invece, rimandati a settembre. Le serate Kings e le serate legate al disco e ai miei artisti per ora, continuano. Potete andare, se volete approfondire il mondo legato alla mia etichetta, sul mio sito che nelle scorse settimane è stato completamente rinnovato: www.blastafunk.it Sempre in giro per l'Italia ma non voglio svelare troppo, controllate le mie novità e i miei aggiornamenti su Instagram e su Spotify. Come dicevano a Detroit keep movin', la stasi uccide la musica e l'artista. Waxkillers rock on!

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____________________________ testo Francesco Farabegoli foto Archivio Roma Calcio

Nella linea temporale in cui sto scrivendo Madame ha twittato da pochi giorni le seguenti parole: «se non hai ascoltato il disco o se non hai preso il cd o il biglietto o se non sai di che parlo, se non hai fatto NULLA x me non farmi alzare mentre mangio per una foto. Perché io sono Madame 24 h solo per chi mi usa per la musica, per il resto sono una scorbutica veneta 19 yo». Sul momento sono rimasto un po’ indisposto dalla maleducazione di questa persona, la quale, ricordiamolo, ha fatto un disco bellissimo ad un’età della vita che io passai cercando di imparare a disegnare l’Uomo Ragno, con esiti peraltro modestissimi. Voglio dire, pensavo, se ti dà fastidio la gente che ti riconosce per strada non dovresti esibirti a Sanremo, giusto? Poi, insomma, sì, riconosco che è un atteggiamento un po’ bambinesco: parliamo di una persona come tutte, giusto? E di una pratica che se la smontiamo ci sembra una cosa disumana. Accettare l’esistenza dei selfisti, e perfino giustificarla, è un modo come un altro di accettare la condizione alienante dell’uomo occidentale di oggi. E tutto ad un tratto mi ritrovo a pensare a un episodio insignificante della mia vita. È una sera qualunque del 2019 e sto scorrendo le foto su Facebook di un amico per via di una conversazione che ho avuto al pomeriggio. Ci sono selfie con politici, calciatori, celebrità televisive e gente simile. Lui in questo momento è in una città a 30 Km da qui e sta passeggiando in giro per il centro nella speranza di incappare nel cantante dei Coldplay: in città si è fermata una corsa d’auto d’epoca a cui, voci non confermate, sta partecipando anche Chris Martin. Gli andrà buca, scoprirò in seguito. Forse Chris Martin non partecipa affatto alla corsa, o anche se lo fa non esce la sera per evitare che il mio amico e le persone come lui vadano a rompergli il cazzo. È la prima volta che mi confronto apertamente con un cacciatore di selfie. Sono un po’ imbarazzato per via della mia totale inesperienza sull’argomento, ma anche incuriosito per questa cosa. L’unica mia esperienza vagamente simile a questa pratica religiosa è una foto con autografo di Ruggiero Rizzitelli che mi è arrivata a casa quando avevo dieci anni, frutto dell’alacre lavoro di mio babbo che aveva convinto certe persone di sua conoscenza a rimediargliela (a quell’epoca Rizzitelli, indiscusso bomber del Cesena nella prima stagione in serie A che ho vissuto, per me era poco meno che Gesù Cristo). Ma in generale ho sempre avuto una sorta di pudore nei confronti di questo momento del culto per la celebrità, soprattutto nell’incarnazione moderna del selfie: capisco intellettualmente perché qualcuno sia attratto dalla cosa, ma a livello di istinto mi sembra quasi peggio di quelli che per sentirsi bene con se stessi sollevano dei bilancieri pieni di ghisa. Le mie prime domande il pomeriggio sono legate a questo aspetto di razionalità, e quindi noiosissime: «perché lo fai? Cosa ti spinge? Non credi che queste persone (le quali spesso pagano dei professionisti per far sì di non avere a che fare con te) meritino di passeggiare per la città come tutti gli altri esseri umani senza venir fermate ogni tre metri da un fanatico?» Le risposte, ovviamente, sono altrettanto noiose. In fondo a loro piace, dice il mio amico, la fama ha dei pro e dei contro. In realtà è difficile motivare razionalmente una pulsione, e specialmente una pulsione sociale. È probabile che in provincia questa pulsione sia alimentata dal fatto che è praticamente impossibile vedere questa gente in giro

per strada -mi ricordo di un bambino che a fine anni novanta correva in bicicletta per corso della Repubblica a Forlì urlando a tutti: «IN PIAZZA SAFFI C’È IL MAGO ORONZO!»,- voglio dire, ecco. Le domande successive, che gli farò in altre occasioni, saranno molto più interessanti. La logistica di base, ad esempio: lui si è fotografato con molte più persone famose di quante io ne abbia mai viste anche solo da lontano (abito in provincia). E quindi? Beh, quando inizi a farlo capisci quali sono i trucchi. Anche nelle città di provincia ci sono certi posti dove è più facile incontrarli. Ci sono alberghi di lusso, ci sono ristoranti di un certo livello eccetera. Ci sono convenzioni tra diverse realtà: quando un attore famoso porta uno spettacolo nel teatro della tua città, è prassi per gli organizzatori andare a cena nello stesso ristorante. I calciatori sono molto più avvicinabili nei pressi del centro di allenamento durante la settimana, ad esempio. Oppure anche lì ci sono ristoranti e locali notturni in cui è prassi che si possano vedere la sera; in quei casi è importante avere un aggancio con il personale del posto -sono attaccabili soprattutto i livelli più bassi, gli sguatteri, quelli che fanno le pulizie -gli altri tengono la bocca chiusa per non mettersi nei guai con il locale (qui si torna alla domanda di base: perché dovresti coltivare queste relazioni con persone che mettono a repentaglio il loro posto di lavoro?). Mi permetto di dargli un suggerimento: «potresti tener d’occhio le presentazioni di libri». Molte di queste persone a un certo punto si sentono in obbligo di entrare nella storia della letteratura, magari spalleggiati da un buon editore, e spesso hanno bisogno di presentare il loro libro sotto casa tua, magari con 30/40 persone. È una macchina brutale. Ho visto coi miei occhi centinaia di minorenni accalcarsi per sei ore nelle file transennate di un centro commerciale, per riuscire a farsi la foto assieme a un rapper scarso arrivato secondo ad Amici -eventi a cui si accede comprando il disco del rapper in questione, che possa farsi firmare. Qualcuno tira fuori le corna e finge di urlare. Il rapper ha l’aria di un galletto amburghese allevato in batteria, e lui almeno è sicuro che il bagno di folla finirà molto prima della prossima stagione di Amici.

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testo Toni Meola foto Gianluca Della Gatta

Il leccese Big Dega, classe 1991, inizia il suo percorso artistico partecipando a numerose gare di freestyle e consolidando il suo stile al microfono grazie a numerosi live. Reboot è il suo nuovo album, caratterizzato da una sorta di ripartenza dove si rimette in gioco con tutta la sua cultura e il suo background. Questa intervista ha una doppia valenza: nasce soprattutto per documentare e parlare del tuo ultimo lavoro ma anche con lo scopo di farti conoscere ad una platea più vasta di affezionati: per cui mi sembra doveroso chiederti, dove e come nasce Big Dega? Big Dega nasce nei contest e nei cerchi di freestyle, o se vogliamo ancora prima, davanti allo schermo di un vecchio pc con il quale a 14 anni cercavo di campionare i primi suoni per provare a farne un beat. Nel 2012 ho pubblicato il mio primo disco ed è da allora che per me il rap è un continuo lavoro di ricerca personale, il cui scopo è fare andare di pari passo le mie passioni per la scrittura e per il beatmaking. Reboot è il tuo nuovo disco, e come affermi nel comunicato stampa è una sorta di ripartenza, e come dicevano i Casino Royale ogni stop è solo un’altro start: spiegaci un po’ da dove nasce questo disco… Abitando da qualche tempo in Belgio, mi è capitato di vivere un periodo di lockdown di sette mesi in cui mi sono buttato a capofitto nella creazione di questo disco. Il mio precedente lavoro aveva a tutti gli effetti la forma di un mixtape, con brani estrapolati da altri progetti e tracce già pubblicate, mescolate ad un buon numero di nuovi pezzi; avevo quindi voglia di fare qualcosa di nuovo, da zero, con un impronta più personale e un suono ben definito. “Unstoppable” è il primo singolo: come mai hai scelto proprio questa traccia? Sempre per il discorso che facevamo prima? È anche la traccia di apertura: mi ha sempre dato la sensazione di essere il pezzo che rappresenta al meglio il mood generale del disco. Dal punto di vista della produzione, il beat frammentato e minimale di "Unstoppable" è un esempio perfetto dell'approccio less is more, che caratterizza quasi tutte le strumentali dell'album. Hai quasi fatto tutto da solo, e a noi il cosiddetto do it yourself ci ha sempre affascinato: quali sono le difficoltà maggiori che hai dovuto affrontare nel “partorire” questo disco? I problemi e gli imprevisti quando si produce un disco sono innumerevoli, è anche normale che sia così; ho pochissimi collaboratori stretti che mi hanno aiutato e con cui abbiamo fatto il lavoro di un'etichetta. Un lavoro faticoso ma sicuramente appagante! Credo che le fasi più dure siano state quelle relative alla produzione dei beats, la scrittura e il mixaggio. Il suono di Reboot si è evoluto pian piano: ho continuato ad apportare numerose modifiche nel tempo a brani che magari, in passato, avrei considerato già inizialmente perfetti. Spiegami allora come lavori in studio, con che macchine ti interfacci e come porti avanti il tuo workflow. Produco con Maschine della Native Instruments e FL studio: con il primo in particolare mi diverto a tagliare i sample e le batterie, risuonando poi tutto a mio piacimento. Per quanto riguarda i testi, credo che i migliori nascano quando si ha un qualcosa di preciso da comunicare; mi capita spesso di scrivere anche senza un obiettivo particolare, ma è materiale che mi soddisfa solo dal punto di vista stilistico, e che durante la creazione di Reboot ho preferito più volte scartare. Nel rap nella maggior parte dei casi non trovi fronzoli, poche costruzioni o cose patinate, ti arriva in faccia al volo, così spontaneo: come a me è arrivato Reboot. A quali tracce sei più affezionato?

"Riot" ad esempio. È un lungo brano diviso in quattro parti, sparse per tutta la tracklist: sono a tutti gli effetti quattro capitoli di una storia, liberamente ispirata ad un famoso romanzo. Mi sono già occupato di storytelling, ma questa volta ho voluto scrivere una storia a più ampio respiro, con un intera canzone per introdurre, due per lo svolgimento centrale e una per il finale. Sono molto soddisfatto anche del brano "Hip Hop", in cui il beat in vari punti "switcha" in maniera improvvisa, stravolgendo il mood del pezzo da un momento all'altro: credo che al primo ascolto ciò favorisca un effetto sorpresa. Pochi featuring, tra i quali spicca quello di Amir: come lo hai coinvolto? Ho avuto il piacere di conoscerlo a Lecce, la mia città, qualche anno fa. Ho voluto coinvolgerlo perché in Reboot avevo voglia di ospitare uno di quegli artisti che sono stati parte dei miei ascolti da ragazzo. Avevo un brano in scaletta, "Only Me", che mi piaceva tanto, a cui però mancava una strofa: il beat e il mood del pezzo mi hanno dato subito l'impressione di essere perfetti per lui. Tu vivi già da qualche anno all’estero, non so se per necessità o per una sorta di voglia di affrontare percorsi e modus vivendi: le differenze sostanziali che hai riscontrato trasferendoti? Sicuramente enormi differenze per quanto riguarda i ritmi di vita, ma questo l'ho vissuto come un bene. Il fatto che ci siano più opportunità di lavoro mi ha dato la possibilità di investire meglio e di più nella musica. Tutto il mondo è paese, eppure ho la sensazione che qui ci sia un rispetto maggiore nei confronti delle figure professionali legate al mondo musicale. Nelle piccole realtà in cui sono cresciuto c'è invece una strana concezione, secondo la quale la musica non è considerata un lavoro vero e proprio: nel migliore dei casi è solo un divertimento remunerativo, e nel peggiore un passatempo per gente poco cresciuta. Parliamo anche un attimo della dimensione “artista”. In questi ultimi anni nel rap c’è stato un proliferare di una violenza verbale (e sterile) che ha pochi eguali negli altri generi musicali: io credo che l’artista dovrebbe anche sapere dove fermarsi davanti al cattivo gusto... tu che ne pensi? Personalmente durante la scrittura, se desidero sottolineare un concetto, evidenziarlo, mi capita di scegliere parole che abbiano un certo tipo di impatto: è una "violenza" a fin di bene che serve anche a dare spessore emozionale ad un pezzo, e che non viene usata gratuitamente, perché ne perderebbe in efficacia. Penso che il proliferare di un certo tipo di violenza invece gratuita, di stampo adolescenziale, possa essere legato a doppio filo con l'età media dell'ascoltatore e dell'artista, che si sono notevolmente abbassate. E di questo proliferare di blog/siti/portali che ne pensi? Di un certo tipo di critica musicale? Sei un artista che sta cercando di farsi conoscere ad un vasto pubblico. Che approccio bisognerebbe avere nei confronti dei cosiddetti “gruppi emergenti”? Più che altro, noto una enorme quantità di pagine Instagram che si spacciano per magazine di settore, oltretutto con contenuti che non sono altro che meme e gossip sui rapper. Penso che sarebbe meglio documentare soffermandosi di più sulla musica e meno sul resto. Tre dischi con i quali sei cresciuto, son pochi lo so ma lo spazio è tiranno... "The Eminem Show" perché è il primo disco rap che ho acquistato, "It Was Written" di Nas e "Daily Operation" dei Gang Starr! Quali saranno i prossimi step? Come porterai in in giro il disco? Usciranno altri videoclip e lyric video; sto organizzandomi per le date live. Il lavoro è appena iniziato!

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testo Toni Meola foto Marco Coniglione

Damiano Muni in arte Movycube è un breaker e dj catanese classe 1992 già distintosi in numerosi eventi di breakdance molto prestigiosi come ad esempio il Red Bull BC One. In questa intervista ripercorriamo i momenti più salienti della sua pur giovane carriera esplorando anche gli aspetti meno noti della vita di un'atleta. Con un occhio particolare rivolto verso i Giochi Olimpici di Parigi 2024 dove questa disciplina esordirà e dove Damiano potrebbe essere un possibile protagonista. Ventotto anni, seppur ancora giovane hai già vinto diverse gare e ottenuto piazzamenti di rilievo in contesti prestigiosi come ad esempio il Red Bull BC ONE, senza contare le esperienze all’estero su cui torneremo in seguito. Il punto di partenza riesci ancora a ricordarlo? La scintilla che ti ha fatto innamorare del breaking? Cominciando dal punto di partenza del quale non potrò mai dimenticarmi, ed ogni qualvolta vi penso o mi viene chiesto è come osservarmi dal di dentro e riesumare una grande motivazione, scaturire forti emozioni indelebili che mi accompagnano ogni volta che mi approccio al dancefloor. Quella che possiamo normalmente definire una scintilla credo che per me sia stata un bomba ad orologeria esplosa inaspettatamente nell’esatto momento in cui vidi dei Bboys & Bgirls ballare sull’asfalto in modo così libero e selvaggio nei primi anni 2000. Di solito col passare del tempo ci si dimentica del passato ma soprattutto degli sforzi fatti per arrivare ad un alto livello. Leggendo le dichiarazioni di alcuni tuoi colleghi molto di questa fatica è data anche dalla voglia di rivalsa nei confronti di qualcosa o qualcuno: è stato così anche per te? Riassumendo il tortuoso percorso che mi porta oggi qui a parlare con voi, posso dirvi che considero il passato come un insegnante ed un amico sincero, se non fosse per il trascorso, non conoscerei l’amarezza delle sconfitte e la benedizione delle vittorie. Io credo che il passato impartisce lezioni ma non sentenze. Il passato mi forma, il presente diventa passato per formare il mio futuro. La mia storia non posso propriamente classificarla come una rivalsa verso qualcosa o qualcuno, piuttosto direi una ricerca verso la libertà, che negli anni mi ha spinto consapevolmente verso il Create your escape. «Il breaking come stile di vita»: hai affermato questo in una tua intervista del 2015 e volevo sapere se hai ancora mantenuto quell’attitudine, che per me sembra abbastanza rilevante in tempi molto contraddittori e confusi come quelli di oggi. È sempre bello vedere che qualcuno ha letto e si ricorda di alcune mie frasi dopo anni. Quella frase è ancora la rappresentazione autentica del mio modo di vivere perché questa danza è cruda, fondata su forti valori educativi, è arte e libertà, benessere per mente e corpo (se fatta con giusti criteri), infine è semplice e complessa allo stesso modo, tutti aspetti fondamentali che ritrovo nella mia persona. Ti poni degli obiettivi quando ti alleni? Come è strutturata la tua giornata tipo? Per quanto riguarda l’allenamento diciamo che suddivido in due parti fondamentali questo aspetto: il Practice ed il training. Practice in breve, è la pratica a pieno della disciplina e comprende tutte le variabili che compongono il mio breaking come la musicalità, tecnica, originalità, esecuzione, flusso e dinamicità. Il training comunemente inteso come allenamento è la ripetizione di specifici movimenti, combo e skills al fine di perfezionare, modificare e incrementare il gesto tecnico, accompagnato anche da percorsi con esercizi al fine del miglioramento della prestanza fisica e della gestione

del carico da stress intervenendo su molti aspetti della psiche umana, ma qui si apre un capitolo molto vasto. Sull’aspetto allenamento aggiungo anche lo studio delle foundations che porta alla creazione di passi con uno schema nuovo e personale. Da qui potete dedurre che gli obiettivi sono molteplici e differiti, proiettati in una composizione funzionale sempre in continuo sviluppo. Per me è fondamentale innovare il mio breaking, mi piace e mi motiva molto la sfida interpersonale. Non ho mai lasciato spazio a rivalità negli ultimi dieci anni seppur costruttive o alimentato scazzi per via di sfide o tensioni in gara. Non ho obiettivi legati a scadenze ma voglio continuare a rappresentare nel mio modo. La mia giornata tipo è sempre composta dalla pratica e\o allenamento dalla mattina fino alle prime ore della sera. Molte volte mi sovraccarico con gli allenamenti senza rendermene conto, ma sto lavorando anche su questo aspetto trovando un giusto equilibrio. Parte del mio tempo giornaliero va anche all’insegnamento, alla preparazione e all’educazione dei più giovani, questo richiede integrità, dedizione e responsabilità. Infine, sono anche impegnato con gli studi, sono laureando in Scienze Motorie. Ultimamente cerco di ritagliare più spazi per la mia pace ed il mio benessere dove provo a non pensare al mondo e a tutto quello che mi circonda, anche solo per 20 minuti al giorno. Capitolo infortuni: per un atleta il timore di infortunarsi è qualcosa di davvero molto reale, e può pregiudicare anche tutti gli sforzi di una stagione. Hai mai avuto problemi del genere che ti hanno costretto ad uno stop più o meno lungo? Parlando di infortuni invece potrei aprire un capitolo davvero lungo ma personalmente mi ritengo fortunato. Ho rischiato infortuni che avrebbero potuto compromettere l’intera carriera ma il buon senso mi ha sempre portato a riconoscere quando il gioco diventa troppo rischioso e molte volte come si dice prevenire è meglio che curare. Le motivazioni legate agli infortuni sono veramente tante e non si smette mai di imparare sul proprio corpo. Mi è capitato di dover purtroppo rinunciare ad un evento a causa di un infortunio che non mi ha dato tregua, ma so che questo può capitare frequentemente quando si attraversa un periodo di sviluppo e di crescita che spesso ha portato a spingermi oltre i limiti del mio corpo o di determinate capacità provocando così degli infortuni di una certa entità. Io penso che un atleta possa soffrire molto dal male e dall’impotenza provocata da un infortunio ma penso anche che un Bboy può sempre riuscire ad andare oltre il problema, creando, studiando e ovviamente con quel briciolo di follia sfidare la paura di non farcela. L’infortunio è molte volte anche una condizione psicologica che può riuscire a rallentarti e se alimentata, può anche riuscire ad arrestarti definitivamente quindi cerco a priori di non dargli troppo peso ma questo non significa che non prenda le dovute precauzioni o che agisco in modo incosciente. Esperienze all’estero: parlaci delle più significative, ma soprattutto se hai notato delle differenze sostanziali a livello di competizione ma anche di come è vista la disciplina rispetto all’Italia. Sulle esperienze all’estero e sulle differenze comparate al panorama italiano ci sono davvero tante cosa da dire, purtroppo la maggior parte non belle e non stimolanti. Ho cominciato a mettermi seriamente in gioco all’estero intorno al 2011, in una competizione in Wales (UK) dove vi era una scena con una forte influenza stilistica e culturale Americana, mentre io venivo da un approccio totalmente diverso, più ristretto, tecnico esecutivo e

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atletico senza curare o conoscere il resto. Anche il mio primo viaggio negli USA, o il trasferimento in UK, aver conosciuto grandi Bboys/ Bgirls e aver avuto l’occasione di incontrarli nei cypher, mi ha dato la possibilità di crescere con una visione molto ampia e concreta di quello che volevo essere, cosa stavo diventando e del perché volevo farlo. Non riesco a citare un solo evento che mi ha particolarmente segnato perché ogni jam, contest e ogni viaggio è sempre una scoperta ed una lezione, io mi reputo ancora un ragazzino con una grande fotta e la stessa passione del primo giorno perché trovo sempre degli insegnamenti e dei forti stimoli ogni qualvolta mi alleno, ballo, viaggio, competo e scambio. Basandomi più sulla mia visione e meno su quello che si dice, vedo l’Italia purtroppo ancora indietro e con una prospettiva di crescita lenta, migliorata sì negli anni ma non a pari passo dei nostri vicini olandesi, francesi, tedeschi o persino dei russi. L’Italia per me non è ancora coesa e non possiede una scena integra, piuttosto molto variegata e mutevole, questo comporta delle diversità che non portano facilmente allo sviluppo di una corrente di pensiero culturale e stilistica prevalente né tanto meno alla fondazione di una determinata scuola generazionale della disciplina. Fenomeno che invece ho trovato nelle nazioni precedentemente menzionate, dove vi è una società, Stato o qualsivoglia di tipo mindfull e di conseguenza anche molto vicino ai giovani, alle esigenze e adempiente nella sua funzionalità. Fotografare un istante e ricordarlo per sempre: confidaci il tuo in una carriera già significativa ma ancora con tanti progetti da realizzare. Un istante per me fotografato ed impresso nella mia mente è l’immagine di un ghettoblaster degli anni 80 dove potevi inserire i breaks in mini tape, aprire il vano cassetta e girare il lato del nastro quando il mixtape era finito, eppure sono classe 1992… Tre dischi con i quali sei cresciuto, non necessariamente stimolanti e propedeutici per ballare. Ma vorremmo condividere con i lettori anche i tuoi breakbeat preferiti... Sono cresciuto ascoltando per un buon 70% solo musica Hip Hop quindi è doveroso per me menzionare dischi del genere: Wu-Tang Clan - Enter the Wu-Tang (36 Chambers), Big L - Lifestylez ov da Poor and Dangerous, Dj Babu - The World Famous Beat Junkies Vol 1 & 2. Tra alcuni Breaks preferiti sicuramente: Hot Music - Soho,

Six million Ways to die - Turbulence, The Mexican - Babe Ruth, Brothers on the slide - Cymande e voglio fermarmi qui altrimenti non finiamo più. Penultima domanda, sulle Olimpiadi 2024, dove la breakdance sarà la grande novità. Dalle strade del Bronx fino alla più alta vetta dello sport. Tu sei d’accordo con questa decisione? La vedi come una ulteriore opportunità? Sulla questione Olimpiadi 2024 e Breaking vado dritto al punto perché sono totalmente a favore, supporto, condivido e lavoro affinché sia realmente una grande opportunità oggi per quelli come me e domani per le nuove generazioni che hanno già cominciato un percorso. Personalmente mi mobilito già da due anni per contribuire allo sviluppo dei progetti nazionali inerenti alla disciplina inglobata nel circolo della federazione italiana danza sportiva che mi vede tecnico competitore con tre titoli 2019, 2020 2021 e chissà, forse papabile protagonista in un team azzurro per i futuri World Games nel 2022 e Olimpiadi di Parigi nel 2024. Siamo arrivati alla fine: la pandemia ha limitato nel corso di questi ultimi due anni parecchie attività, comprese quelle del tuo settore, come ti sei trovato a vivere questa situazione e soprattutto come ripartirai? O meglio come stai ripartendo? Inutile negare che la pandemia ha creato delle profonde falle difficili da ripristinare, dove specialmente i primi periodi siamo stati costretti ad interrompere tutti i nostri progetti e a ritirarci, ma, con una visione a lungo termine sono sempre stato fiducioso, non ho mai smesso di allenarmi, di allenare i più giovani spaesati, di motivare i più grandi di me dall’attitude assopito. Anche durante il periodo di lockdown grazie ai progetti legati ai percorsi di agonismo è stato possibile svolgere delle sessioni di allenamento a porte chiuse in presenza, osservando tutte le norme di sicurezza, finalizzando la preparazione dei ragazzi per gli eventi di interesse nazionale, dove non solo hanno ottenuto grandi risultati, ma cosa più importante, siamo riusciti a creare una dimensione positiva e propositiva in un momento duro e sterile. Sono già rientrato in quella che possiamo chiamare la normalità, viaggio, scambio e mi metto in gioco, ma sono diverso, con idee potenti e obiettivi precisi, la pandemia mi ha anche insegnato a godermi di più la vita e gioire dei percorsi che intraprendiamo con tante avversità e sforzi.




La presentazione, scritta da Andrea Cegna, si apre con la domanda: «Cosa sono i graffiti?». La domanda invece che pongo spesso a me stessa è: «Quando ho scoperto graffiti?», «Quando sono arrivata all’Arte Urbana?». Esistono due risposte e seguono esattamente quest’ordine: la prima è «treno», la seconda è «Milano». Frequentare Milano da pendolare è stato cruciale. Non che l’Urban Art mi fosse sconosciuta, tutt’altro ma: una cosa è conoscerla, un’altra è conoscerla e sentirla. E se Pavia, la mia casa-base, mi ha incuriosita, Milano mi ha completamente affascinata. Fascino e profondo rispetto perché, per quanto mi riguarda, per l’Arte Urbana non riesco a non nutrire un sentimento di questo tipo. Sebbene la piccola parentesi personale, la vera protagonista di questa storia è Milano raccontata dagli scatti di Giovanni Gianfranco Candida - Walls Of Milano - e dalle parole di Clara Amodeo - Another Scratch In The Wall - ne “Il burrone e il salto”. Il loro libro scritto a quattro mani, edito da Meltemi, è in libreria e su e-commerce da maggio 2021. Lui fotografo, lei giornalista e storica dell’arte: insieme condividono una grande amicizia e una profonda - molto - passione per l’Arte Urbana. Tant’è che da passione è diventata una vera e propria ricerca fotografica e divulgativa: direi quasi una pratica quotidiana. La loro presenza sulla scena e il loro esserci nella scena e per la scena ha fatto sì che l’intrecciarsi di amicizie, avvenimenti e luoghi portassero alla nascita de “Il burrone e il salto”. Il volume è un viaggio nel tempo: quasi 15 anni di storie cittadine raccontate in oltre 80 fotografie inedite di Walls Of Milano - tra il 2006 e il 2021 - e 120 pagine di monografia tra riflessioni e interviste della penna di Clara e del suo/ loro incontro con alcuni degli artisti che hanno fatto (e fanno tutt’ora) la storia dell’Arte Urbana a Milano, e non solo. Milano è la città natale di Gianfranco e Clara, ma è anche fabula e intreccio degli eventi e degli aneddoti che si sono succeduti negli anni e che hanno fatto sì che la macchina fotografica di Walls Of Milano si incrociasse con le storie personali degli artisti che con i loro pezzi hanno dato voce ai muri della metropoli meneghina. Da oggi al 2006, un viaggio tra gli spazi occupati e i quartieri, tra gli eventi e le gallerie d’arte: un percorso incredibile - talvolta tortuoso -, denso di energia e vita vera - non patinata - nello spazio-tempo di nascita e crescita della Urban Art a Milano. “Il burrone e il salto” ci porta anche fuori dal capoluogo meneghino, tra la Lombardia e l’Europa, in quei luoghi che hanno segnato la storia del movimento locale e internazionale: dall’ex Isotta Fraschini di Saronno agli Uffizi di Pieve Emanuele, dalle jam di Cassina de’ Pecchi, Locate Triulzi e Trezzano sul Naviglio, fino ad atterrare a Berlino. I muri sono lo scheletro delle nostre città. Nascono, crescono, si formano, cambiano. Muoiono. E con loro, l’Arte Urbana. Il tempo della strada è come il ciclo della vita. Rimangono le storie e la Storia che ancora deve arrivare. m d m g z n / 57



testo Camilla Castellani foto Francesco Bertocchi

Venticinque anni trascorsi da writer e dipinge ancora con lo stesso entusiasmo di quand’era un ragazzino. Con spray e penna ha contribuito a scrivere pagine su pagine del Writing italiano. Potremmo chiamarla intervista ma quella con Secse è stato più un viaggio nel tempo e nello spazio, dentro e fuori la scena veneta. Qui i suoi racconti per Moodmagazine. Nel 2003 scrivevi: «Nessuno può capire l’entusiasmo dei writers». Tu quando l’hai capito, o meglio, quando l’hai provato? Come hai iniziato? Questo entusiasmo ho cominciato a sentirlo quasi dal principio, nei '90; poco dopo aver iniziato, la cosa mi ha coinvolto praticamente da subito e ne ho capito poi ancora di più la potenza e lo spessore grazie ad alcuni viaggi in città dove c'erano grosse scene e, ovviamente, anche grazie a quella trevigiana, dove l'ex macello, hall of fame storica della città, è stato un importante punto di riferimento. La frase che indichi la scrissi all'esterno di un hangar dove andavo spesso a dipingere assieme ai miei compagni di scorribande e che è stato uno dei posti per me più magici, che conoscevo bene e in cui ho dipinto parecchio, di notte e di giorno. Già da un po' di anni scrivevo frasi vicino ai miei pezzi, così quella notte ne lasciai una anche sul capanno. Fu anche un modo per trasmettere qualcosa di diverso dalle consuete tag, in modo che anche il personale che operava in quello scalo potesse avere un elemento in più per rendersi conto che davvero dietro a quelle firme che probabilmente non capiva c'era un sentimento, un'energia, un grosso entusiasmo appunto. Un'altra frase sullo stesso tema, che recita «con lo stesso entusiasmo di quando ero un ragazzino», la scrissi accanto a un pezzo nel gennaio del 2019, un segno tangibile di come a distanza di tanti anni continuo a vivere questo sentimento/stato d'animo. Per quanto riguarda la seconda parte della domanda, iniziai per una serie di circostanze collegate tra loro che mi portarono ad acquistare un giornale metal dove veniva pubblicizzato un catalogo di merchandise. Me lo feci arrivare a casa, e sfogliandolo vidi delle magliette a tema Graffiti. Ho fatto qualche prova a spray nel 1994 e conservo qualche bozzetto con la data di quell'anno, ma le cose più concrete sono iniziate l'anno successivo (dove feci i primi bombing marci in giro per i paesetti della provincia), anno che vedo come quello della partenza ufficiale. Il primo hall of fame risale invece al febbraio del 1996 e il mio primo pannello nel maggio del 1997. Possiamo dire che un pezzo importante del tuo puzzle di formazione è stato il viaggio a Milano nel 1994? Certo, quello di settembre, accompagnato da mio zio, fu un viaggio sicuramente folgorante. Chiedendo informazioni ai passanti su dove fossero le zone coi Graffiti, incontrammo un signore che ci disse di andare nel quartiere Ortica perché lì a sua detta c'erano i Graffiti belli. Una volta arrivato restai incredulo di fronte a pezzi così pazzeschi. Io ero un ragazzino di provincia, di 13 anni, e in quel posto c'era roba dei Ckc, Tka, Zona 13, tutte crew di qualità. Ricordo ancora con nitidezza alcuni dei pezzi visti quel giorno (che comunque fotografai): un “CKC” di Sky4 e Shot che celebrava il terzo compleanno della crew (nata il 1 maggio del 1991), un paio di pezzi assurdi di Lemon, uno gommoso coi turchesi e uno coi marroni, ricordo un “Lisa” di Sky 4 tutto spezzettato e con un sacco di dediche, e vari altri pezzi (molti dei quali finirono tra le pagine delle fanzine dei tempi, Aelle o Tribe). Questo elenco può sembrare superfluo ma fa riflettere appunto sulla formazione, su quanto un pezzo potesse rimanerti impresso (ancora oggi quasi dopo trent'anni) e su quanto valore venisse attribuito a questa cosa. Ecco perché nasceva poi un grosso entusiasmo. Ora le cose sono cambiate, ci sono dinamiche diverse dietro alla concezione dei pezzi, siamo bombardati di input. È tutto più veloce.

Vediamo tantissime cose ma ne memorizziamo poche, e spesso, cose che per la mia generazione erano di estrema importanza, erano un culto, ora vengono date per scontate o proprio ignorate da chi appartiene alle nuove generazioni. Non è una colpa, è un po' la superficialità, un po' il fatto di non esserci stati in determinati anni, è insomma il cambiamento portato dal tempo. Quello che spero di trasmettere con questo discorso è che aver visto un hall of fame a 13 anni, quando i riferimenti che avevo erano pochi, per me ha avuto un peso, che non è quasi sicuramente lo stesso che percepirebbe un tredicenne di oggi, abituato a vedere sul suo telefono quanta roba voglia. Di conseguenza non sempre è facile trovare una frequenza di comunicazione tra generazioni differenti, ma un'intesa la si trova comunque. E sai dove/come? Con l'entusiasmo! Quello accomuna tutti. Anche quando il background, le ragioni e la visione delle cose sono diverse, l'entusiasmo che ti muove invece è un fattore accomunante. Ecco, forse sono riuscito a spiegarti meglio il senso della mia scritta di cui mi chiedevi nella domanda precedente, rispondendoti alla tua domanda successiva (ride, n.d.r.). ONE è la tua crew storica. Ti andrebbe di parlarci di più di questa famiglia? E più in generale, dell’importanza artistica e umana delle crew nel Graffiti Writing? One è stata la crew con cui ho fatto le prime esperienze più grosse e significative, come la prima metro, il primo wholetrain ed alcuni tour all'estero. È stata fondata da Viper e Bugs nel marzo 2001 e rappresenta un upgrade di quello che era una precedente crew dei nostri paesi della provincia trevigiana, l'SCS (Soli Come Sempre). I 4 superstiti di questa crew e altri 2 ragazzi entrati poco dopo, costituirono la formazione iniziale che era formata da Me, Bugs, Viper, Snow, Opec e Neo. Una cosa divertente è che One è il suffisso più usato da tutti i writer della Terra, e quindi quando scrivo Secse One è sia la mia tag col classico One aggiuntivo, sia la tag col nome della crew. Questa cosa non fu compresa dagli sbirri che nell'indagine che mi coinvolse tra il 2008 e il 2009, iniziata con dei pedinamenti e poi culminata con una perquisizione domiciliare, scrissero nel fascicolo che One stava per «il migliore, il numero uno». Va detto che comunque, a differenza di altre crew che prediligono lo spingere il nome del gruppo, noi abbiamo coltivato prevalentemente il nome individuale, motivo per la quale siamo probabilmente meno noti come crew e più conosciuti singolarmente. Ci sono crew di vario genere, quelle dove la gente cresce assieme, quelle con persone più lontane tra loro ed altre ancora, nate magari dall'unione di persone che non si frequentavano, ma hanno sempre nutrito un grosso rispetto reciproco ed hanno deciso di unire le forze. Insomma ci sono situazioni differenti, ma dalle esperienze comuni spesso nascono legami che diventano molto forti e proseguono anche oltre il Writing. Credo che una squadra con una buona sinergia sia poi anche uno stimolo per l'evoluzione di tutti: una ragione per alzare l'asticella! Spesso ribadisci l’importanza del viaggiare. Mi permetto di fare un parallelo con la cucina: per un cuoco, aspirante chef o semplicemente appassionato di cibo è fondamentale girare e assaggiare sapori dal mondo, è la stessa cosa per i Graffiti? Quanto è importante contaminarsi e riconoscere la bellezza delle differenze di stile? E quanto conta conoscere e capire la cultura del luogo? Certo, credo che viaggiare sia fondamentale, anche nella vita di chi è al di fuori del mondo del Writing. Vedere coi propri occhi le cose, i luoghi che prima non si erano visti, di cui si erano solo lette o sentite descrizioni è di sicuro un grosso arricchimento personale. Trovarsi in prima persona in mezzo alle situazioni e alle mentalità tipiche dei luoghi che stiamo visitando, ci dà una maggior possibilità

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di capire e valutare dei meccanismi che altrimenti sarebbero stati più difficili da comprendere. Per quanto riguarda gli stili, comprendo il tuo parallelismo con la cucina, ma credo che nel Writing le cose siano diverse. Viaggiando si comprenderanno meglio i pezzi partoriti nel posto che stiamo visitando; anziché vederli in una foto e basta, viverli nel luogo dove abbiamo visto la stazione, la città, i passanti, le scene di vita comune ce li farà capire più profondamente e con buona probabilità ci stimolerà e/o ci darà ispirazione, ma allo stesso tempo è meglio non contaminarsi troppo secondo me. L'originalità costituisce a mio avviso una delle cose più importanti in assoluto. Un conto è se le influenze sono frutto di un assorbimento inconscio, un conto è se invece quando si dipinge si ripropone consciamente la roba di un altro. Se sei conscio che stai facendo su un tuo pezzo quello che ha già fatto un altro, puoi raccontare a te stesso delle scuse, ma dal mio punto di vista stai copiando. A meno che non si tratti di un pezzo tributo, ma in quel caso la cosa è palese. C'è poi chi è riuscito a rivisitare la roba altrui in una chiave nuova/ diversa, ma non nasconde da dove ha attinto. Io non lo farei, però va detto che ci sono Writer che così facendo sono riusciti a fare cose molto interessanti, ed alcuni sono diventati anche molto grossi. Poi in Italia abbiamo i casi della gente che ha copiato spudoratamente qualcuno per poi ottenere addirittura una fama maggiore del proprio mentore, ma questa non è correttezza, è paraculaggine. Viaggiare è determinante ma anche conoscere le proprie radici lo è. Sei originario della provincia di Treviso perciò cosa ci dici della scena veneta del Graffiti Writing? Com’è cambiata negli anni? Quanto ti ha influenzato? Nonostante il Veneto sia una regione che purtroppo è stata ed è ostaggio di una grossa ignoranza socio-politica, per quanto riguarda il Writing invece, mi ritengo molto fortunato ad essere parte della scena veneta. Se parliamo di generazioni davvero old, in Veneto ci sono writer super storici, cito Skah di Vicenza o Boogie di Padova ad esempio, e poi, parlando di Treviso, Mace, una Leggenda che è stato membro dei PWD (con Spider 7 R.I.P.) ed è tra i primi Writer italiani, poi anche Starch e Clout appartenenti anche alla milanese CKC. C'è poi molta varietà rispetto ad altre regioni che sono stilisticamente più omogenee: qui ci sono diverse visioni e diramazioni stilistiche, rappresentate da crew molto influenti e rispettate a livello italiano, gente che ha fatto la storia dei Novanta o dei primi 2000. Per citarne alcune EAD (una crew che ha portato lo stile 3d ad altissimi livelli ed oltre i confini nazionali e continentali), DOPPIAFRECCETTA (una crew che ha fatto scuola a molti writer, nota per i riempimenti “piatti” e gli outline grossi e puliti), MOD (la crew del devasto su treno per eccellenza), LA CREMERIA (crew mista veneto-friulana che ha realizzato delle murate di lunghezze ancora oggi ineguagliabili). Cito anche i TWP, (“confluiti” poi negli FDB e poi, anni dopo, nei TRUE VANDALS) che hanno invece proposto un writing più legato all'immaginario “newyorkese” e alle origini. Purtroppo per te mi conosco e devi prepararti a degli elenchi infiniti, ma la domanda l'hai fatta tu, sei artefice del tuo destino (ride, n.d.r.), quindi continuo a raccontarti un po' di cose. Treviso nella prima metà dei Novanta ha avuto un sacco di crew più o meno note, ci sono state TAS, MTD, B52, NBA, SMA, INK ecc, dove all'interno di alcune di esse i membri erano spesso gli stessi, assortiti in modo diverso ed in alcuni casi mixati con membri di altre città, come la NDL, dove c'era Shot di Milano. Nella seconda metà dei '90 alcune crew che hanno fatto parte della scena di Treviso e dintorni sono state la 3x2, la T2A, l' ECM e la WD. Ma la crew trevigiana che a mio avviso ha consolidato la mentalità del trainbombing e dipingeva costantemente regionali già nel 1996 è stata LNF, che dipingeva molto con i ragazzi dell'SI di Bassano, altra crew potentissima, ampliatasi con altri membri e divenuta poi 668 crew (dal nome della mitica littorina, uno dei treni più iconici della regione). Tornando al Veneto, ci sono stati altri gruppi che voglio ricordare, più attivi nel '97-'98 come la DC crew e la CRA (della zona TrevisoBelluno), i veronesi TSM, e il vicentino KATO che pur dipingendo da prima murate di livello assurdo, ha cominciato a distinguersi con le sue produzioni su metallo in quegli anni, diventando poi membro dei milanesi RNS e successivamente dei LORDS OF VETRA. Un'altra crew indimenticabile della seconda metà dei Novanta è l'F2D

crew di Mestre, un duo anarchico che con i suoi pezzi anticonformisti ha devastato completamente tutto il sistema regionale dei treni. Sempre parlando di anticonformismo, ma tornando indietro alla prima metà dei '90 invece, a Vicenza Iktroneex scelse un percorso che andava oltre le lettere sperimentando forme avanguardistiche, Iave dipingeva in una maniera fuori dagli schemi ed Elics sperimentava lunghissime firme sovrapposte. Anche le crew di generazioni successive si sono distinte, ad esempio gli OVERSPIN o i JPEG, che hanno coltivato molto la tecnica mantenendo però uno spirito funky. Anche la mia crew ONE, (che quest'anno ha compiuto 20 anni), ha lasciato il suo segno, come i PLUS e i 2MD di generazione successiva, gli ISNT e molta altra gente Ritornando a parlare di Treviso e dintorni, tre crew che negli anni a cavallo tra la prima e la seconda metà dei 2000 si sono date da fare sia in strada e lungolinea che su pannello, sono i 407, i REM e gli *(Asterisco). Fare un elenco completo presupporrebbe troppo tempo e spazio e sarei costretto a citare anche quelli che in diversi anni di attività non hanno saputo farsi apprezzare e quindi hanno scelto la strada del farsi odiare per avere fama, ma anziché famosi sono diventati famigerati. Leggere e sentire la storia della tua tag mi ha molto divertita: ti andrebbe di raccontarci com’è nata? Quando ero piccolino e le tag che sceglievi duravano un mese ed erano più dentro i quaderni che in giro, scrissi per un po' «Zeepo»; avevo fatto qualche firma a pennarello in paese, niente di più. Successivamente cambiai perché non volevo più essere riconosciuto da alcune persone che conoscevano questo nome e, volendo mantenere le due «E» che si leggevano «I», scelsi «Seeso», con cui feci i primi bombing. Questo nome rimase fino all'autunno del '98, quando un giorno per provare qualcosa di nuovo su carta, cominciai a scrivere «Saxe», «Sexe», «Sexes» eccetera. Col tempo cambiai in «Secse», perché scoprii che uno svizzero scriveva già «Sexe». La tag subì inizialmente alcune varianti, in certe occasioni («Sekses”, «Sexser», «Secsel», «Secses», e «Secser» - e la «R» finale rimase nella tag fino agli ultimi mesi del 2001). «Seeso» è rimasto il mio soprannome, tutti sono abituati a chiamarmi così, richiamava «Sesso» per come si scriveva, «Secse» richiama «Sex» per come si legge (ride,n.d.r.), questa maliziosa equivocità è un'altra cosa che in qualche modo accomuna. Se Secse è la tua tag, le frasi che spesso accompagnano i pezzi sono un po’ la tua firma. A renderti originale e unico, a modo tuo, è il gusto nella scelta lettering - palette colori. Come la studi, se la studi? Beh, ti ringrazio per l'apprezzamento. Nei primi anni 2000 usavo accostamenti molto acidi, cosa che adesso non farei. Ora cerco di usare tinte che a prescindere dal fatto che siano armoniose o contrastanti comunque non vibrino troppo tra loro. Da giovincello invece me ne sbattevo, non usavo nessun criterio visivo specifico, facevo colorazioni più anarchiche. Oggi cerco di trovare una combinazione di colori che si accostino abbastanza bene, gradevole da vedere e che stacchi abbastanza con l'outline, che siano pezzi positivi o negativi (con l'outline più chiaro dell'interno delle lettere). I negativi mi piacciono perché li trovo meno scontati di quelli positivi con l'out nera, che comunque sia uso abbastanza. In entrambi i casi non riesco quasi mai ad usare sfondi troppo chiari, tendenzialmente non mi piace. Una volta fatti i pezzi coi colori che volevi, hai poi gli spray che ti rimangono; li metti assieme a terra, li guardi, e cerchi di ingegnarti per fare una cosa che funzioni con quello che ti è rimasto a disposizione. Da Aelle ai social network. Prima il Writing si trovava quasi esclusivamente su magazine e fanze Hip Hop, in quanto una delle 4 discipline, poi col tempo ha preso una strada non del tutto parallela ma a sé stante o, in alcuni casi, di più ampio respiro. Sono nati progetti editoriali ad hoc, cartacei ma anche digitali come web mag o pagine social. Com’è cambiata la divulgazione sulla scena? Ora come ora parlare di 4 discipline come una cosa comune risulta un po' anacronistico. Le cose, come dici anche tu, hanno preso direzioni diverse. È stato bellissimo vivere il periodo in cui tutto coesisteva e si respirava un clima di Grande famiglia, quando si andava alle jam dove ognuno coltivava la propria specialità ma si sentiva parte di un

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Movimento più grosso, composto appunto da 4 cose diverse. Oggi come oggi mi sento sempre parte di un movimento, ma faccio fatica ad identificarmi nell'Hip Hop: mi sento appartenente al Writing e basta, e lo stesso credo sia per chi balla breakdance o per la maggior parte dei rapper, se non altro quelli da una certa generazione in poi. È molto difficile le cose si mischino ora come ora, ma a volte ancora accade, di recente ho visto un video spagnolo in cui rappavano nel tunnel della metro. Parlando invece di divulgazione, credo che un po' in tutti gli ambiti, molte informazioni e l'accesso ad esse siano diventate col passare del tempo più immediate, più facili da trovare, ma il senso della ricerca è un po' sparito, molte cose sono a portata di clic e quindi a volte il loro valore sfugge, molte altre vengono date per scontate e non tutti si rendono conto di quanto abbiano la strada spianata. La possibilità di condividere contenuti sul web e sui social da parte di chiunque ha poi fatto sì che molte informazioni risultino incomplete e/o superficiali, e non è così facile trovare dei contenuti ben fatti e credibili. Comunque, a prescindere dai pro e i contro, direi che il tipo di contenuti che la gente tendenzialmente ora propone è un po' più sensazionalistico. Ad esempio attraverso i video, le persone cercano di creare un certo stupore, ognuno ovviamente cerca di mostrare il meglio di sé per cercare di distinguersi in mezzo a tantissimi input. A volte ci riesce e i risultati sono davvero accattivanti, altre volte sfiorano un po' il ridicolo. Non vedo quindi la divulgazione come una cosa negativa o una minaccia, ma la vedo come un'opportunità (a parte i casi dove una foto può compromettere la sicurezza di un writer, e a volte lo fanno anche i commenti, che fosse per me disattiverei da ogni pagina di treni contemporanei). È chiaro che chi crea e divulga i contenuti deve saperne, altrimenti si torna al discorso di prima: ci si trova in una marea di informazioni superficiali e incomplete. Il writing non è uno sport ma una disciplina, pertanto bisogna fare ricerca. Operare, e anche solo osservare, sul campo non ha eguali ma oggi i social possono essere utili in questo senso? I social sono semplicemente dei “biglietti da visita”/portfoli personali. Uno sul suo biglietto da visita può scrivere la mansione che sa fare, come può scriverci mille cazzate. Allo stesso modo uno sui social può mostrare una parte di sé che altro non è che la semplice realtà, oppure può costruire un qualcosa che è molto meno verosimile, ma la colpa non è dei social, è di chi li usa “scorrettamente”. I social non sono delle entità viventi ed autonome, ma sono solo delle pagine, create e gestite da qualcuno. Nessuno vieta a nessuno di prendere per mano i vecchi archivi ed aprire dei profili che raccontano la storia, come nessuno vieta di mettere foto di pezzi potenti e non solo di “marciate”. Dietro i social ci sono persone che fanno, o non fanno, scelte. Il potenziale è buono; chiaro, come spiegato prima si è perso molto il senso di ricerca, ma si è guadagnata la possibilità di vedere e far vedere un sacco di roba diversa ogni giorno, non solo ogni tot mesi o anni, quando esce il numero nuovo della tua rivista preferita. I social sono in qualche modo le nuove fanze: solo che alle fanze spedivi tu, nei social trovi la tua foto anche se non la volevi, perché qualcun'altro l'ha caricata. Comunque sia anche se on line mostri di essere uno cazzuto, ma nella “realtà” poi non lo sei così tanto, chi è dell'ambiente ti sgama se racconti cazzate, un po' come quando copi: puoi darla a bere a qualcuno che ha appena iniziato che “il giro” di quella lettera è roba tua, ma chi è un veterano a colpo d'occhio riconosce da chi hai copiato, e anche se fai fama e ti dimentichi che sei un writer senza personalità, chi è di questo ambiente lo sa e lo tiene a mente. Scatti molto e da parecchio tempo. Passare dal rullino alla digitale ti ha fatto notare anche un cambiamento nel mondo dei Graffiti? Come si sono trasformate le cose dai tuoi esordi? Si certo, le cose son cambiate, ma non solo nel writing. Sono cambiate nella comunicazione, nella tecnologia, sono cambiate nella musica: insomma un po' in tutto. Molti giovani dicono che noi anni fa potevamo stare le ore in yard, che ai tempi era più facile ed altre cose del genere. Io ricorderei a questi giovani che ai tempi non potevi

controllare le entrate e le vie di fuga di un posto con Google Maps, se volevi la foto dovevi comprarti un rullino, pagarti lo sviluppo, avevi gli scatti contati e non sapevi come veniva. Non ordinavi gli spray in rete ma facevi i chilometri per andare nel negozio che li aveva o beccarti col writer che li smazzava. Ogni writer ha i limiti ed i vantaggi del proprio tempo. Ci sono state delle azioni storiche di repressione dei Graffiti, a partire dalle doppie reti di New York, fino alla maxi azione repressiva di Parigi accaduta attorno al 2000. Nessuno ha regalato niente a nessuno, come oggi, nemmeno ieri. Sicuramente oggi la tecnologia nel campo del controllo si è evoluta e ad esempio in metro ci sono sensori, termocamere ecc. Allo stesso tempo però ci sono i video su YouTube che permettono anche ad un ragazzino inesperto di capire cosa sia un backjump, una palanca, come si entra in determinati posti, in alcuni casi vedi anche i trick per fottere gli allarmi sui tombini, ci sono spray che permettono di riempire un metro quadro in qualche secondo. Si potrebbero fare tante comparazioni, ma il rischio sarebbe quello di fare una bizzarra gara a chi tira più forte acqua al proprio mulino. Però va detto che a livello stilistico c'è stato un grosso impoverimento, nel senso che le identità si sono appiattite, ci sono dei cliché che vengono riproposti. A volte l'originalità sembra diventata quasi qualcosa di penalizzante anziché un pregio. La mentalità e le ragioni individuali sono completamente cambiate. Se una volta ci si chiedeva se fosse più importante il quanto o il come (l'eterna lotta quantità VS qualità), ora siamo allo step successivo: conta più il dove che il cosa. Anche se fai un pezzo marcio, se lo fai in metro sei un figo. E poi aspetta, ora come ora è anche un po' scomparso il concetto di marcio: se hai fatto un tot di sistemi sei un king, anche se non sai fare un lettering decente o come si mettono gli spessori. Chiaro che parlo un po' provocatoriamente, ma credo che ci siano delle differenze abissali tra il modo di vivere e concepire il Writing negli anni '90 e quello odierno. Questo non toglie che anche oggi ci sia della gente molto forte, ci mancherebbe. Ogni mentalità riflette però la propria epoca, e come in ogni epoca chi sa distinguersi catalizzerà l'attenzione su di sé e verrà ricordato. Che effetto fa vedere le foto dei tuoi pezzi? Ti piace documentare anche il lavoro di altri? Senza girarci attorno, per me la foto è fondamentale. Non è relativa, è parte finale della missione: muro o treno, è sempre stato così. La foto per alcuni è relativa, conta l'action e/o il ricordo, per me invece è una cosa assolutamente necessaria ed importante. Sfogliare la propria vita da Writer, vedere i pezzi susseguirsi, permette di aprire delle porte temporali che ti riportano a quella determinata serata, a cosa era successo e chi avevi incontrato. Non è un mistero che io sia un maniaco della documentazione, ho sempre fotografato tutto di me (e ho le mie foto ordinate cronologicamente, con luogo e giorno esatto per quanto riguarda gli ultimi 14 anni, e precisione al mese per quanto riguarda gli 11 anni precedenti), ho fotografato moltissime cose anche di altri writer, e anche molte persone, non con foto prettamente artistiche, ma fatte con uno spirito atto a fare reportage, immortalare i momenti assieme, le feste, le serate, le murate. Sono anche contento di aver partecipato col mio archivio fotografico a progetti importanti. Sei attivo da tantissimo tempo. Giri un sacco, produci molto e comunichi altrettanto. Quando vedremo una pubblicazione tua? Ci hai mai pensato? Certo che ci ho pensato, anzi da un annetto a questa parte ci penso quasi ogni giorno. Quando la gente starà leggendo questa intervista io avrò già compiuto 40 anni; 25 di questi li ho vissuti da Writer, anni di emozioni, con un sacco di situazioni ed esperienze fighissime. Dopo un sacco di interviste fatte agli altri Writer, un notevole quantitativo di materiale fotografico dato a terzi, credo sia il momento di raccontare la mia storia attraverso i miei scatti e le mie parole: è una cosa che devo a me stesso, e ora come ora la mia priorità più grossa. Ci vorrà ancora un po' di tempo perché le cose fatte in un certo modo presuppongono una determinata preparazione, ma mi auguro varrà la pena attendere.

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