Moodmagazine 20

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Testo Davide Guasti / Foto Fabio Zito

Testo Filippo Colivicchi / Foto Alberto Polo

Testo Filippo Papetti / Foto Mattia Astolfi

Testo Eleonora Cannizzaro / Foto John Cruel

Testo Selene Luna Grandi / Foto Fabio Zito

Testo Riccardo Primavera / Foto Archivio

Testo Eleonora Cannizzaro / Foto Ambra Parola

Testo Eleonora Cannizzaro / Foto Archivio

Testo Selene Luna Grandi / Foto Matteo Aldeni

Testo Federico Savini / Foto Archivio

Testo Selene Luna Grandi / Foto Lorenzo Fornaciari

Testo Martino Vesentini/ Foto Archivio

Testo Toni Meola / Foto Francesco Locuratelo

Foto Archivio Autore



Questo articolo vuole essere un’analisi, personalissima e comunque non esaustiva, sul progetto Make Rap Great Again fondato da Gionni Gioielli, che spesso, troppo frettolosamente aggiungerei, viene etichettato come la trasposizione in Italia del collettivo Griselda Records o quantomeno della sua idea di base. Che in certo senso potrebbe anche essere vero, se vogliamo ricondurre il tutto ad una crew di rapper con un solo proposito, quello di rappare. Come hanno sempre voluto, come meglio credono, senza filtri o la ricerca estrema di approvazione o compiacimento. Ma c’è anche molto altro, credo, negli undici album che hanno partorito fino ad ora. Ho deciso di impostare un’analisi di tre dischi usciti nel periodo tra Marzo e Agosto, partendo dalla copertina, passando tra aneddoti e spiegazioni di chi li ha prodotti e citazioni peculiari ai contesti e tematiche degli stessi. Per chi non li seguisse, un rapido riepilogo di quella che oggettivamente è un ritmo serrato di uscite per gli standard italiani. In circa un anno hanno fatto uscire praticamente undici concept album. Spero di riuscire a metterli in ordine cronologico per fare un riepilogo, anche se è un’impresa spinosa: Young Bettino Stories – Gionni Gioielli Anonima Sequestri – Lil Pin MoMa – Gionni Gioielli e Blo/B Alboreto – Gionni Gioielli Zamparini – Nex Cassel Pornostar – Gionni Gioielli Pray For Italy – Make Rap Great Again Cipriani – Gionni Grano B-Movie – Blo/B For The Love Of God Mixtape – Blo/B (Mixato da Dee Jay Park) Nove Bambole per la luna d’agosto – Gionni Gioielli Manca all’arido elenco il dodicesimo album, uscito nel frattempo, quello di Armani Doc dal nome Alta Moda, a cui dedicheremo ampio spazio nel prossimo numero dato che per noi il giovane artista milanese è uno dei nomi nuovi del panorama italiano per freschezza di linguaggio, flow e attitudine. Partiamo comunque dalle copertine, il cui concept grafico è affidato a Blo/B, per una estetica che è sempre riconoscibilissima, a livello di intenzioni e di spessore artistico, da diventare “oggetto di collezione”. Giusto per citare un esempio fra tanti, la cover di Pray 4 Italy, disco concepito in pieno lockdown, è un tocco di classe. Il soggetto principale è la foto scattata, divenuta poi famosa, di un’infermiera sfinita dal ritmo dovuto al Covid-19. Due giorni dopo, scoprì di essere positiva e dichiarò che non vedeva l’ora di guarire per poter tornare in servizio. P4I. Il titolo è chiaramente ispirato dal penultimo album solista di Westsidegunn chiamato Pray For Paris. Gionni Gioielli infatti mi ha spiegato com’è stato pensato e prodotto il disco, nonostante le difficoltà conseguite dalla stretta del virus. L’album ruota intorno alle vicende accadute durante il periodo di lock down. Il procedere delle restrizioni quarantena hanno solamente rallentato la frequenza con cui solitamente rilasciano i dischi. “Il disco è nato perché col Covid non potevamo registrare ed avevamo un po’ di pezzi che nel frattempo stavano invecchiando. L’idea era di metterli assieme, aggiungerci dei remix, farmi spedire qualche pezzo da qualche amico e metterlo dentro o remixarlo. Il periodo di quarantena si stava allungando ed avevo già qualche pezzo pronto. È stato tutto molto naturale: un gruppo di amici che dice facciamo un po di Rap. In 3 settimane ho scritto e registrato le mie strofe, fatto il pezzo di Armani e RollzRois il giorno prima del master quello di Silla Zeno e Blo/B (preparato in 3 giorni) doveva essere un pezzo di Silla e Blo, poi abbiamo sentito il pezzo di Zeno con Il Torsolo ed abbiamo pensato di coinvolgerlo. Abbiamo preso un pezzo dal disco di Gionni Grano


in uscita e lo abbiamo messo dentro. Gianni Bismark mi aveva fatto sentire una sua strofa sul beat di drone e ne ho aggiunta una io; Drone mi ha mandato un altro beat e ci ho scritto la sera stessa. Lil Pin mi aveva mandato un accapella quindi ho preparato la base e scritto una strofa. Italo Svelto aveva pubblicato un freestyle qualche mese prima e mi era piaciuto. Mi ero fatto passare l’acappella per remixarlo. Nex mi aveva passato un beat, io l’ho passato a Blo che ci ha scritto al volo.” Uno dei punti particolarmente apprezzabili è che hanno collaborazioni prive di compromessi e accomodamenti. Troviamo nomi di tutto rispetto come Danno, Ensi ed E-Green presenti invece in Pornostar, disco di Gioielli targato MRGA. Naturalmente non mancano legami storici di Adriacosta come Nex Cassel, Nigga Dium e Gionni Grano. Mentre in Pray For Italy... “Lucci aveva dimostrato di apprezzare le nostre cose, quindi è nato sto feat tra lui e Blo che doveva essere nell’imminente disco di Blo/B. Con Lucci spero di lavorarci ancora in futuro, magari ci metto una strofa anch’io che non abbiamo mai rappato assieme.” Il beat era mio ma non mi convinceva, non suonava come le altre cose del disco, quindi abbiamo deciso di inserirlo in Pray 4 Italy. Un giorno ho riaperto il progetto della traccia, ho fatto un altro beat ed è venuto ancora meglio dell’originale. Anche nei dischi di Gionni Grano e Blo/B ho fatto spesso così”. Si riferisce a Cipriani e B-Movie usciti praticamente a giugno e a luglio. Veniamo ora al discorso produzioni: in altri dischi, generalmente le basi sono tutte prodotte da Gioielli. In P4I invece troviamo Drone126 che ha prodotto “Lucia Azzolina” e “Matteo Salvini”, RollzRois ha fatto il beat per“Luca Zaia” e NexCassel invece quello di “Sara Cunial”. Se di Cassel avevo già ascoltato basi davvero precise e potenti, Drone126 e RollzRois mi hanno fatto aggiungere un paio di eventuali producer da tenere d’occhio. Le produzioni in P4I spaziano molto a seconda delle esigenze e del rappato. Ce ne sono alcune di più cupe come appunto “Sara Cunial” mentre altre totalmente agli antipodi come “Sala e Zingaretti” prodotto da Gioielli in cui la campionatura è molto più soffice e agli antipodi della precedente. Per quanto riguarda le barre c’è poco da dire. Non sono costretti ad essere politically correct (rimando a “Giorgia Meloni” come riferimento) ci sono citazioni peculiari ad altre personalità dell’hiphop e punchline chirurgiche senza troppi problemi. Del resto non devono sottostare ad alcuni aspetti delle meccaniche del rap/trap in Italia. Procedendo con l’articolo leggerete di più in merito. Recuperarvi gli altri album aiuterà a capire ancora di più quel che sto dicendo. In ogni caso, i provvedimenti ipotizzati in quarantena, il comportamento delle persone in generale e le miriadi di complotti hanno dato una sfumatura distopica alla società durante il periodo tra marzo e maggio. Viene conglomerato nell’album con un aspetto Orwelliano simile a quello di “1984”. Quest’aspetto viene elaborato in “Guido Bertolaso” rispettivamente da Tony Zeno “Questi muri hanno le orecchie gliele stacco Mike Tyson […] Il mio vicino cerca paglia a me non vede la sua trave […] Stà gallina chiama i porci se non ho la mascherina […]” e Blo/B “Telecamere sul muro, illuminato Blo/B nuovo NWO. Neighbourhood watch non li vede la tua ronda niente fabbrica di cioccolato in tasca neanche Roald Dahl[...]” Per quanto riguarda invece i vari complotti, le citazioni di riferimento sono “Dividete fighe in dieci sembra una Grey Goose. Ho sentito la tua strofa sembra una fake news. Sgamo le tue balle, sono un debunker[...] C’hai la febbre da corona mica Bee Gees, ma è tutta colpa di Bill Gates pare Kill Bill”. Un gioco di parole che spazia tra il vantarsi in maniera ridicola e include un chiaro scherno ai complottisti in “Lucia Azzolina”: “Ho venduto 5G pure senza le antenne ma tu ti conti i followers fai rap Kylie Janner” Gionni Gioielli. Non da meno è “Gioielli è il nuovo culto, Scientology, una statua dorata adorata dagli apostoli. Tienti i dischi d’oro quelli sono per i poveri, i denti d’oro i nomadi, non fotto quelle robe lì […] Certa gente spera non inizi a nominarla quindi stanno tutti zitti se Gioielli parla.”, contenuta in “Premier Conte”. Passando ad un altro progetto discografico della saga, nella prima traccia di Pornostar si sente tutta la sua tipica corrente polemista ma anche di MRGA in generale. “Quel che dici vale zero come il premier Conte ed alla fine scappi come dalla Premier Conte”. Durante la quarantena però ha apprezzato la gestione dell’emergenza e la fermezza con cui il premier si è posto. Per questo in “Pray For Italy” possiamo trovare una correzione intellettuale: “Sai che un vero uomo chiede scusa se sbaglia quindi chiedo scusa a Conte per quella barra e prego per l’Italia (scusa pare)” Barra altrettanto potente è quella in apertura totale nella prima traccia del disco “Io non scrivo strofe faccio D.C.P.M che a te t’hanno beccato e tu lo dici al P.M” per evidenziare la credibilità che gli attribuisce adesso. Poco dopo aggiunge: “Io mi chiedo perché certa gente non stia zitta. Salvini mi fa schifo quanto il rap sulla cassa dritta”. Troviamo anche un paio di tracce unicamente dedicate al duo che, naturalmente, non poteva esimersi dallo mdmgzn/6


sciacallare anche in un momento delicato. “Matteo Salvini” e “Giorgia Meloni”. Rimando direttamente all’ascolto di questi due pezzi così potrete capire meglio. Gli intro e l’outro dell’album sono accuratamente manipolati e scelti per evidenziare le assurdità dette da alcuni personaggi, ma anche per valorizzare l’importanza degli interventi di alcune persone. Mi scuserete se non vi riporterò le citazioni con i nomi attribuiti ma ecco qualche esempio esilarante: “Stiamo cercando tutti quanti di far capire che questa è una situazione difficile ma non così tanto pericolosa. Il virus è poco più di una normale influenza..”. Oppure “Il fatto è che dopo una settimana 123 positivi di covid 63 non hanno sintomi, stanno bene. Perché l’igiene del nostro popolo, il fatto dell’alimentazione. Io penso che la cina abbia pagato un grande conto perché comunque li abbiam visti tutti mangiare topi vivi e altre cose del genere.” Naturalmente l’outro propositivo che ho apprezzato di più è quello di Premier Conte “Mi corre l’obbligo di fare alcune precisazioni. Alcuni fatti. Questo governo non lavora col favore delle tenebre. Guarda in faccia gli italiani e parla con chiarezza”. A priori, il punto focale di quella che Blo/B descrive come “Non siamo gang, non siamo crew ma una fottuta holding. Una fottuta lobby” è quello di fare rap in maniera più spontanea e diretta possibile. Esistono logiche che ormai sia nell’underground o nel mainstream si ripetono in modo asimmetrico. L’underground tenta di accaparrarsi la detenzione dello scettro della “vera cultura hiphop” con un’interpretazione italiana, imponendo quelli che sono considerati “contenuti e messaggi” nei pezzi come standard. Dall’altro lato, il mainstream, insieme al pubblico che ne consegue, tende molto a rimodellare alcuni aspetti del rap a colpi di spugna e atteggiamenti da negazionisti. Sembra infatti che Gioelli prenda un distacco netto scrivendo: “Bello l’hiphop, one love e tutte stè cazzate, ma io ho tutti gli screen in cui m’infamate. Fanculo l’underground e pure il mainstream. Vi siete tutti fatti un bel film, pare Netflix”. Ma non è l’unico riferimento e non è solo lui a farli, infatti Armani Doc in un’altra traccia precisa: “Fanculo un rapper, lo dico con entrambi i medi. Flop al disco frate torno in piazza con entrambi i piedi. Dammi un nuovo rapper lo istruisco, un vecchio, fra lo fossilizzo. Sorvolo la tua cazzo di wave, ho il kite”. Riguardo all’approccio con cui prende il rap, anche Lucci ha da scrivere in merito: “Fatti da parte, il rap è Il cane e io sono John Wick”. Nel primo capitolo, in seguito alla morte della moglie a causa di una malattia, John riceve in regalo un cane, anticipatamente pensato per non farlo rimanere solo. Preziosissimo per Wick, per altri è solamente un cane. Da qui, Lucci vuol fare intendere che se per molti è “soltanto rap” per lui è un motivo per “uccidere” metaforicamente chi non attribuisce il giusto peso alla faccenda. In “Guido Bertolaso” Silla DDR modifica una citazione di Kaos dicendo “Se la vittima è la musica non fare niente. Uccido il tuo artistone e dopo il committente”. Dopodiché precisa “Paragonarmi a là fuori è come passar da mangiare a terra poi su piatti Ginori […] Preparo la traccia in due sputi. Un cremino e tutti muti, come se parlasse dal Cremlino Putin”. Mi piace l’idea che abbiano deciso di coinvolgere anche nuovi talenti nei loro dischi. Lasciano spazio a quello che è il premurarsi che l’asticella generale della loro musica possa arricchirsi in maniera più variegata senza barricarsi nella loro “comfort zone”. Coltivando di fatto anche l’interesse nell’alzare poi la qualità generale del rap di cui la gente può fruire. Del resto alcuni di loro potevano rimanere sconosciuti ai più senza l’introduzione in quest’album. Ho deciso di fare alcune premesse e considerazioni personali ma posso fermarmi qui. Del resto se trascrivessi tutto il disco non avrebbe senso. Se dopo aver letto questo incipit avete deciso cosa ascoltare, non mi resta che augurarvi buon ascolto. Make Rap Great Again, Pray For Italy. Cosa!? Mentre scrivevo quest’articolo MRGA ha fatto uscire altri tre album: “Cipriani” di Gionni Grano, “B-Movie” di Blo/B che al contempo è accompagnato da un mixtape con Dee Jay Park e infine “Cinque bambole per la luna d’agosto” di Gioielli. Questa è la riprova della premessa dell’articolo. Qua analizzo unicamente “Cipriani” e “B-Movie” Dopo l’uscita di Pray For Italy e aver ascoltato i loro successivi album, ho scritto di nuovo a Gioielli che mi ha spiegato di nuovo come sono andate le cose. “Grano in quarantena mi ha detto: passami dei beat che ho tempo e voglio scrivere. La sera Nex mi ha passato un beat e gli ho detto “questo è perfetto per Grano, passaglielo”. Da li Grano in un paio di mesi ha fatto il disco. Abbiamo tolto un pezzo per metterlo su Pray 4 Italy visto che eran 5


anni che non usciva con un pezzo suo e volevamo un po’ reintrodurlo” Premetto che le mie conoscenze culinarie non mi permettono di analizzare Cipriani in modo maniacalmente completo come vorrei fare. Per fortuna essendo toscano su qualche punto riesco a difendermi ma non mento, ascoltare un disco e scriverne è molto importante per me. Non è superabile dal voler dimostrare una competenza sulla cucina, anche se approfondirò per curiosità personale. State leggendo per il rap, no? Bene. Non conoscevo Grano, quindi mi sono messo in contatto con lui. Con disponibilità e molta pazienza per via della tecnologia avversa, mi ha raccontato la genesi: “Il disco nasce col primo giorno di quarantena in cui ho chiuso il mio locale, un ristorante enoteca in Noventa Di Piave, provincia di Venezia. Arrivato a casa ho scritto in chat a Nex e Gioielli per mandarmi i beat. Avevo già questa mezza idea di fare questa cosa con Gioielli per MRGA, dove poi il filo conduttore di tutto sarebbe stato il ristorante e i vini, essendo praticamente parte integrante della mia vita. È il mio lavoro ma mi accompagna nel corso della mia esistenza da quando sono nato. All’inizio volevo chiamarlo con tutti nomi di ristoranti importanti, più che altro stellati Michelin. Scrivendolo invece ho pensato che sarebbe stato più interessante proporlo come menù degustazione, infatti i piatti che diventano i titoli delle varie tracce sono piatti storici di una ristorazione vecchio stampo; l’anatra all’arancia, le lumache alla bourgignonne e quant’altro. Il disco lo ho scritto molto velocemente, durante il primo mese di quarantena. Dopo l’ho registrato in studio da Nex Cassel molto velocemente, in due o tre volte e infine sempre Nex ha curato mix e master.” Oltre al trio mitico di Micromala è anche un ritrovo di AdriaCosta, storica crew ed estensione dei Micromala. Big Mike Il Doge e Niggadium ne fanno infatti parte. Non manca E-Green, presenza ormai praticamente costante e che, per quanto mi riguarda, ha scritto e portato una strofa che è forse la migliore delle sue nei vari dischi MRGA. Per quanto riguarda le produzioni, come già stato detto sono curate da Nex Cassel e Gionni Gioielli. Quest’ultimo mi ha spiegato però come si sono divisi le produzioni in modo da creare un equilibrio nell’album. Infatti ci sono tracce che entrano nelle orecchie dell’ascoltatore in maniera impattante come “Saint Honorè” prodotto da Nex con Mulayaka e NiggaDium. L’esempio opposto invece si può trovare nella traccia direttamente prima, “Lumache Alla Bourguignonne”, prodotto da Gioielli. “Ho dato a Giamma delle produzioni molto anni 89/Dipset perché si sentisse a suo agio e scrivesse e registrasse in libertà. Poi ho cambiato 4 beat su 5 perché volevo un suono che fosse complementare a quello di Nex. Nel disco Nex si è occupato di martellare ed io di rilassare, credo che il tutto abbia un ottimo equilibrio” L’album si apre con il “Carpaccio” e le prime barre sono mortali (letteralmente): “Siete carne da macello niente alibi. Bevo torbati dalle Highland come ad Aderbeen. Cavalcando Valkyrie con Gioielli al beat, surfo tra le bombe come Apocalypse.” Grano e Nex hanno deciso di estrarre un video dal loro disco e di girarlo, penso direttamente nella cucina del locale di Grano. Lo potete trovare su Instagram ed è “Fegato alla Veneziana” in cui annuncia un po’ quello che è il suo ritorno al rap: “Chiusi in salotto in casa mia come Copa Cabana, ritorno in piazza dopo anni fra Jesus Quintana, buona la prima Grano al micro nessuno che taglia. Nel bicchiere pare il meglio del meglio in italia” Per me è un viaggio mistico sentire parallelismi come “Vedo gente faccio cose tu fai pose. Roba più unica che rara. Rime scolpite sopra marmi di Carrara.” oppure “Cucino scrausi, li flammo, feste al Mocambo, altroché Django vita pura ci surfo ci sambo. Pesce fresco in bilancia, Altalanga tu Gancia, le schizzo sulla frangia, Anatra con l’arancia.” Sono finezze che amalgamano perfettamente il rap, la cucina e le citazioni, dando ancora più classe al disco di quanto non faccia la tracklist, pensata per essere proprio un menù degustazione. Questo è “Cipriani”. Ho notato comunque un netto spacco trasversale tra “Cipriani” e “B-Movie”. Il primo può concedere un’atmosfera più rilassata e serena, di lusso. “B-Movie” trasporta l’ascoltatore in un viaggio lisergico con intro e outro post apocalittici che depennano la speranza del genere umano tutto. Parlando con Gioielli ho proprio chiesto informazioni in merito a questo e mi ha detto: “Si, non mi sono fatto problemi a farli uscire ravvicinati perché sapevo che non si starebbero tolti attenzione. Hanno due ascoltatori di base differenti anche se a chi piace uno può tranquillamente piacere anche l’altro.” La copertina è costruita con varie locandine di B-Movies montate insieme. Questa volta le produzioni sono curate per la maggior parte da due fratelli, The Departed Beats. Non manca comunque Gioielli, in una traccia figura Clone Beats e in “Titoli di coda” troviamo addirittura un produttore realmente leggendario. Camouflage Monk di Griselda Records. Ogni traccia rappresenta il titolo di un B-Movie, ad esempio “Reazione A Catena” è


il primo slasher della storia. E a proposito di questo pezzo, Blo/B lo apre con una serie di barre piene di citazioni e dell’atmosfera post apocalittica e distopica di cui parlavo prima. “Nike Silver le ho lucidate a specchio. I vicoli t’inghiottono all’interno come un blackhole. Più memoria in testa di quella interna del mio Macpro. Palazzi sullo sfondo sulle spalle fanno da backdrop[...] Vi faccio dire “damn!” barra per barra come K.Dot (Kendrick Lamar) i vostri dischi c’hanno il cazzo corto e merda K-Pop. Timberland boots in pelle d’iguana Iggy Pop, capolavoro dell’82, Blade Runner, Ridley Scott. Guarda come sto, pazzo scatenato Lock’N’Stock. Fuck y’all. Sei il pacchetto del re boia. Non fare il Michael Jackson che al massimo fai La Toya” Le Nike Silver erano spettacolari già diciotto anni fa quando praticamente avevo otto anni. Resistono eccome. Secondo me valorizza anche l’importanza dell’uomo sulla tecnologia. Quest’ultima non dovrebbe prevalere, ma nella distopia in stile “Terminator” lo sappiamo cosa succede. Il K-Pop è un genere koreano molto adolescenziale. Praticamente l’equivalente di quelli che erano i vari gruppi italiani mainstream che sfondavano su canali musicali. Non farò nomi. Le Timberland Boots erano un classico a Ny nei suoi vari quartieri nei 90’s. Blo/B nasce invece nell’82, anno di uscita del culto classico di Ridley Scott, Blade Runner. 1982 appunto. Lock’N’Stock invece è un titolo di un altro film. “Re Boia” era invece un gioco in cui si faceva saltare in aria un pacchetto di sigarette sopra un tavolo. Se cadeva in verticale si poteva essere il re e decidere, se cadeva in maniera storta qualcuno subiva giochi come lo spaccanocche. In ogni caso gli scarsi si ribaltano. Gioielli invece trancia la traccia: “Da Make Rap Great Again la scena non è più la stessa. Sono per l’Italia quello che nel 96 era Neffa. (Ahahahah!) Figli di puttana sono una leggenda. Tu rispettane l’aroma sono come Totti a Roma, mica Gruff sono il sax su Senti come suona. Gioielli è il solo pregio, il meglio dal peggio. Ogni barra che chiudo per stè pussy è sacrilegio. Sto rap è un B-Movie che diventa un cult, mica un colossal hardcore come le pornostar (Pornostar Season pare) E i puristi voglion rappare con la motosega io ho l’AK e l’accappatoio in seta. Fighe a bordo piscina che si toglie il reggiseno, ad ogni rima l’ho già detto, niente è come prima del mio disco. (Young bettino story pare) come una femminista che ci prova a farmi un deepthroat mentre registro (puttana) questi stanno nei 90’ mentre il mondo fa progressi e poi mi dicono, nei tuoi testi non protesti (gnegnegne) Suona la mia raje scrivo rime come raglie come maglie di Missoni pare. Forse dovrei fare merda più fruibile, ma mi chiamano Gioielli e sono indiscutibile.” Gioielli nel pieno della sua corrente polemista. Cita due album iconici di MRGA, si paragona a Neffa come punto di riferimento, altroché Gruff vuole essere il sax di “Senti come suona”. Cita Lou X con “La Raje” e Gente Guasta con “Rispettane L’Aroma” e confeziona una strofa ad hoc che chiude il cerchio. Qui oltre ai classici partecipanti di MRGA, sono rimasto interessatissimo da Stokka e Madbuddy. Altri due nome storici che si aggiungono al roster di chi ha collaborato con MRGA ed entrambi hanno fatto un lavoro letteralmente pauroso. Di seguito riporto alcuni tratti delle loro strofe. Stokka in Remo Williams: “Stì versi scritti sono come specchi rotti da piedi sulle pozzanghere. C’ho visto dentro tutta la città e l’ho vista piangere, c’è un’aria irrespirabile. Non puoi capire cosa spinge questo tratto sui muri e sulle pagine, Palermo a mia immagine[...] Stanotte sono fradicio ma non m’importa bro, nulla è lasciato al caso prima o poi m’asciugherò” Madbuddy in “Macchie Solari” prod. Clone Beats: “Sperano di fare click su nemici immaginari e rotoli grossi quanto vecchi cellulari[...] Quando la vita c’ha separati e c’ha schiacciati giù ogni disastro che ho schivato somigliava ad un dejavù Alleluja il giorno in cui ho cominciato a correre. Non so se per lasciarvi indietro o voi avete lasciato me. Sommerso in questo sogno sto continuando ad evolvermi io non vi devo un cazzo, beh, senza nulla da togliervi[...] Scrivo un reportage dal fronte come Capone’n Noreaga” “Vent’anni, dalla fine della guerra atomica. Il pianeta, ridotto quasi interamente ad un putrescente deserto radioattivo, è ora abitato da uomini, senza futuro. Le bombe atomiche, hanno prodotto prima orribili trasaformazioni genetiche e poi l’annullamento della fertilità sono dieci anni ormai che dal grembo di una donna non nasce più un bambino” Outro di “Titoli di testa”. Non serve aggiungere altro. Make Rap Great Again, rendiamo bello il rap.



Durante i miei viaggi negli Stati Uniti, in particolare quelli a New York, mi si è mostrata davanti agli occhi una verità prepotente: in Italia l’Hip Hop viene vissuto e concepito in maniera incredibilmente diversa rispetto a quanto avviene in America. Questa è indubbiamente una nozione banale, quasi dottrinale, tuttavia diventa una visione dirompente una volta constatata in prima persona. A New York ne ho viste di cose che voi hip hop heads italiani non potete nemmeno immaginare: scene come uscite fuori dai documentari vecchi e nuovi, il Rap in strada, la credibilità come biglietto d’ingresso per molte porte, l’Hip Hop vissuto come una sorta di tavola dei principi per la vita di molti. Non ultimi tutta quella serie di informazioni e fatti, che purtroppo non posso riportare in un articolo. Senza soffermarmi sulle chiare differenze storiche e culturali - perderei pagine e lettori inutilmente - ma partendo da questo presupposto, ho voluto comprendere e raccontare tutto questo. Un cosmo che noi crediamo di vivere più o meno pienamente ma di cui, a conti fatti, se ne vedono solo rare e fievoli tracce nella nostra tranquilla penisola. Soprattutto, mi sono chiesto quale possa essere l’inversa sensazione di chi dall’America si trovi davanti gli occhi il nostro Paese. Quali le riflessioni possibili, in questo periodo in cui due società così diverse – benché comunque sorelle all’interno della famiglia occidentale - sono costrette, come per forza maggiore, ad assomigliarsi più del solito su fronti sempre più vari. Si pensi all’onda politica del ritrovato nazionalismo, al razzismo come carta elettorale, alla nuova tendenza mentale verso la semplificazione nella cultura (cosa più tipicamente americana fino a poco fa), arrivando sino al mondo musicale: ora che anche in Italia Rap e derivati hanno sorprendentemente guadagnato la corona del mondo discografico. Chissà che aspetto abbiamo noi, dunque, se visti dagli Stati Uniti. È così che, con questi pensieri in mente, ho incontrato Polo de La Famiglia (storica crew napoletana), trasferitosi nella Grande Mela venti anni fa, nonché attivo e riconosciuto attore nella scena musicale e artistica di New York. Polo, infatti, dopo la conversazione qui contenuta mi ha fatto da Virgilio, permettendomi di parlare ed intervistare artisti del calibro di Immortal Technique e degli Smif n Wessun ma solo dopo avermi spiegato le regole del galateo americano. Di questo lo ringrazio di cuore. Il nostro incontro è avvenuto nella pizzeria di sua proprietà: Farinella, situata sulla Lexington all’altezza della 52esima strada (praticamente accanto a Central Park). Abbiamo, quindi, parlato di cosa sia l’Hip Hop, del suo ruolo sociale, di attualità e di tutti i temi che troverete nella discussione che segue e che è arrivato il momento di riportarvi, il tutto davanti a una delle sue pizze. Dopo avergli proposto come preambolo una riflessione simile a quella con cui ho introdotto l’articolo, gli ho chiesto di esprimere la sua visione dell’Hip Hop in modo ampio e libero. Non volevo, infatti, ridurre un’intervista su un tema che mi stava così a cuore ad un semplice botta e risposta giornalistico. Ne è uscita, quindi, un’accesa conversazione di cui avevo preparato solo l’input iniziale, por poi adattare al meglio le mie osservazioni al flusso dei contenuti che Polo avrebbe proposto. Per certi versi, è stato come fare surf sulla storia dell’Hip Hop. Polo: “È molto importante parlare di questo, stiamo vivendo in un’epoca tremendamente brutta, chiamiamola con il giusto nome: un Medioevo culturale. Un’età di buio, dove metaforicamente predomina il nero, no? E nell’oscuro non c’è vita. Immagina la Terra se perdesse all’improvviso il sole: le piante non si riprodurrebbero e anche noi vivremmo come all’interno di una serra. Saremmo esseri abnormi, abietti, e questa é l’epoca nella quale stiamo vivendo oggi, solo che un pensiero deforme si nota molto più difficilmente rispetto a qualcosa di visibile. Abbiamo, quindi, il dovere di usufruire di ogni canale a disposizione per dire cose intelligenti e che possano stimolare la curiosità degli altri e il loro senso critico, così che tutti abbiano il desiderio di scoprire l’altra faccia del pianeta, là dove batte il sole. Ora ti dico che, quando parliamo di questo, possiamo tranquillamente parlare di Hip Hop. Perché? L’Hip Hop è una cosa fondamentale nella crescita degli individui, dei ragazzi, soprattutto laddove non c’è niente, dove c’è povertà, dove non ci sono risorse né strumenti e lo Stato (ma non solo) lascia chi è debole allo sbaraglio. Così come sono lasciati allo sbaraglio i ragazzi nelle periferie e anche nelle città oggi in tutta Italia. Questa cultura che noi rappresentiamo, proprio perché è una cultura offre un’alternativa al pensiero e alla vita conforme. Dà la possibilità di non crescere in una serra.” Quindi sfatiamo il mito recente secondo cui l’Hip Hop non avrebbe

un valore sociale o, almeno, non potrebbe più averlo?” Qui a New York nessuno oserebbe affermare una cosa del genere! Io non dico che i rappers debbano andare a fare politica per strada con il pugno alzato, per l’amor del cielo! Né che i pezzi rap debbano necessariamente essere incentrati sulle sole tematiche sociali. D’altra parte, però, non esiste Hip Hop laddove non si tengano in considerazione le sue radici, la sua natura. Breaking, Writing, MCing e DJing sono strumenti, discipline che, quando sono offerte ai ragazzi privi di tutto, offrono stimoli dai quali possono nascere dei percorsi artistici. E da questo chiunque può trasformarlo in una professione secondo un cammino tutto proprio. Questi strumenti ti possono salvare da una vita di niente, ok? Dove lo Stato non assiste e la scuola non ti insegna. A me al tempo era rimasta solo la musica ed entrai nell’ambiente Hip Hop pieno di curiosità. Perché quei ragazzi scrivono con questa calligrafia? Ma che c’è scritto su quel muro? Cosa significa questo movimento? Poi mi sono andato ad informare e ho scoperto che cosa era. Era gente che prima stava nelle periferie, nelle varie gang e si picchiavano tra di loro senza motivo per il territorio, come gli animali allo stato brado con la clava in mano. “Qua comandiamo noi”. Ad un certo punto, poi, è arrivato uno che ha detto “Oh ragazzi, cerchiamo di confrontarci in una maniera diversa”, allora da là tutti quanti: io scrivo, io dipingo, io ballo, io canto, io faccio la rima, tua mamma è fatta così, tua mamma fa questo, quelli erano i “Dozen”? Dove ognuno diceva solamente le cose più cattive, le punchline più pesanti contro l’altro. Ma alle fine di quelle sfide tu ti abbracciavi, finiva a parole, non finiva a mazzate. Al contrario, quella di oggi è una società dell’odio, della violenza, mentre L’Hip Hop è la cultura dell’amore, dell’aggregazione. Per questo oggi L’Hip Hop fa paura ed è stato soppiantato da un approccio più semplicistico al Rap, come è la Trap. Questo è uno spunto molto interessante, puoi spiegarlo meglio? Come vedi le differenze con la Trap e in che senso ha soppiantato l’Hip Hop?” Qual è la differenza vera tra il Rap e la Trap? Prendi un testo Rap e conta le parole, poi fai lo stesso con un testo Trap. Quest’ultima nasce ed è influenzata dalla comunicazione del giorno d’oggi, quella di internet e dei social. Ci hanno fottuti tutti dandoci Internet. Come idea era geniale, quella di connettere ognuno e ovunque, però – ed è evidente quando queste cose sono così rivoluzionarie, quando si crea un nuovo fenomeno così potente, per forza il sistema ci deve entrare dentro per crackarlo. Te lo deve mettere in culo. Così è successo la prima volta con l’Hip Hop quando è nato, quello vero degli anni ’80, e stava diventando così forte da coinvolgere già le masse. Il mainstream è dovuto entrarci per contaminarlo, per portarlo in televisione, quindi ripulirlo di tutto quello strato sociale, di quella connotazione politica e addomesticarlo all’uso e consumo dei telespettatori della tv americana generalista e banalista. Stessa cosa oggi, noi veniamo dalla società di Internet, dove ci hanno detto che dobbiamo racchiudere tutto in un tweet di non so quanti caratteri. 140 caratteri, poi li hanno raddoppiati se non sbaglio. Sicuramente soffocante.. Quando noi andavamo a scuola ci hanno fatto leggere tutta la sfaccimma della Divina Commedia, 33 canti per ogni mondo oh! Noi da quello veniamo: dalla poesia, dalla letteratura italiana. Quando prendi un pezzo di altri colleghi come “Il cielo su Roma” dei Colle der Fomento, così come tante altre canzoni italiane, tu leggi delle vere e proprie poesie. Ed è la cosa che mi affascina di più, che nel mio immaginario mi porta a vedere il valore di un testo. La società di oggi è quella del tweet. Pochi caratteri. Allora queste sono le frasi del linguaggio quotidiano, così parlano i ragazzi. Il tweet, il messaggino, sempre più la sintesi della sintesi. Ma come faccio a parlarti di un’immagine, di un pensiero e dove vanno quelle mille parole, le sfumature che danno personalità a chi scrive? Perdendo questo, si è persa la cultura e, di conseguenza, il messaggio sociale e politico delle prime ondate di Rap, il famoso periodo delle posse. Perché c’era un’esigenza sociale, perché la politica era quella che la mafia ammazzava Borsellino e Falcone nel giro di pochi mesi ed il governo era in mano alla mafia, tutti quanti lo sapevano. La gente è scesa per strada per fare manifestazioni, a quel punto è caduto il governo e si è finalmente cambiato qualcosa. Siamo passati dalla prima alla seconda Repubblica. Poi ovviamente dopo

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hanno continuato a mangiare, lo facevano già ai tempi di Cesare: è nel nostro dna, fatevene una ragione. Non per niente io sono venuto in America, perché qui queste cose non le puoi fare. Oppure ci provano ma poi li vanno a pizzicare e li mettono in galera con due ergastoli, senza gli indulti italiani. Ti volevo chiedere. Prima hai detto che l’Hip Hop serve anche per uscire da quella mentalità di gang, di territorio e poco dopo hai fatto un discorso riguardo a quando in America è diventato mainstream. Quando fu portato al mainstream, però, la situazione è culminata con Tupac e Biggie... Alt! È finita molto prima. Quando l’Hip Hop giunse a Los Angeles, nacque il Gangsta Rap. Per capire la storia di Tupac, bisogna per forza parlarne. La morte di Pac e Biggie è stata fortemente commercializzata e organizzata dai loro produttori: Suge Knight, Puff Daddy. Ahimè della morte di Notorious e di altri non importa nulla alla polizia, malgrado fossero delle grandi star. Anzi, più grandi sono e più danno fastidio. Il messaggio dell’Hip Hop era rivoluzionario e stava distruggendo l’equilibrio con la musica mainstream e l’universo che ci girava attorno. Per gente come loro hanno dovuto addomesticare questa musica. Perché sui canali principali non viene spinto mai un brano che parla di fatti di strada, fatti reali, mentre promuovono il Rap commerciale? Quello dell’orologio Rolex e della borsa Gucci. Ma perché dobbiamo sognare tutti quanti Gucci? La cosa conta nella vita è il mattone e l’oro prima ancora, non la collanina o il braccialetto. I lingotti in banca. È inutile portare avanti questa cultura del consumismo ridicolo e inutile. I nostri ragazzetti tutti quanti con le cazzatine, ho visto certa gente andare in San Babila per farsi valutare economicamente l’outfit. Non trovo niente, nulla di virile in una società che si vaneggia e così maschilista. Lasciamo perdere. Cosa ne pensi del Pulitzer a Lamar? Assolutamente meritatissimo, gliene darei anche un altro. Oggi c’è bisogno di queste storie, di gente che rappresenta. In America soprattutto. Gli afroamericani con Trump al potere vengono discriminati. Quindi quelli che hanno i soldi, hanno anche la possibilità di proporre un pensiero controcorrente. In Italia, invece, il discriminato era il meridionale ma, pensa un po’, una volta che la Lega ha perso la parola “Nord”, è andata a bussare alla porta di tutte le mafie, le ‘ndrine, soprattutto calabresi. Perché la Lega e la ‘Ndrangheta sono una cosa sola praticamente. Di conseguenza, il partito si è sdoganato al sud. Allora il meridionale si è dimenticato che la Lega lo chiamava “Pezzo di merda, terrone” fino a poco tempo fa.

Adesso tutti quanti siamo uniti a prendercela con il nero, perché Salvini ha trovato uno che sta in un gradino ancora più basso di noi. Ma io sono nato e cresciuto in Italia e mi hanno chiamato terrone. Sono stato fidanzato con una ragazza mestrina per cinque anni e i primi comizi di Bossi li ho visti tutti, ho visto cosa diceva la gente che andava là. Uaglio’ quelli non hanno mai parlato di neri, hanno parlato sempre di meridionali. Già Roma gli faceva schifo, immaginati più giù. Come vedi l’evoluzione della musica adesso? Guarda ci penso un attimo, nel frattempo mangiati la pizza che si raffredda! È una domanda difficile, rischierei di dire i miei desideri più che fare una buona previsione… Ti posso garantire che il Boom Bap non si è spento, non si spegnerà e continuerà a esistere. Tornerà, come ha fatto, ad ondate. Io ti dico che gli artisti buoni ci sono, la musica buona c’è ma non è spinta o pubblicizzata dai media. Non parlo di mainstream come Radio 105 o i grandi. Ma ti parlo anche delle piccole realtà online come Noisey o quella cagata di Vice. Quanto accaduto in seguito è già documentato da altri pezzi di storia. Questa, per ora, finisce qui. Così ho conosciuto Polo, mentre nei giorni successivi mi sarei addentrato nella parte viva e ribollente di New York. È interessante vedere come in America si parli oggi dell’Hip Hop con termini che da noi sono più tipici dell’ambiente di nicchia o dei giovani che, magari appena iniziato il liceo, scoprono questa cultura e la caricano di mille significati artistici e sociali. Chissà che forse non accada proprio l’opposto, chissà che invece sia da noi che qualcosa di così pregno di valori sia stato progressivamente svuotato fino a diventare quasi un mero gusto musicale. E, se così fosse, chi avrebbe ragione? Probabilmente, come sempre, per saperlo dobbiamo aspettare ancora un po’ e vivere di persona i prossimi sviluppi dell’Hip Hop. Vedere anche la fine di questa trasversale attitudine al banale che ci sta inesorabilmente contagiando tutti. Per quello che posso dire io, questa volta sto dalla parte dell’America, anche perché l’hot dog è sicuramente il cibo con più street credibility del mondo. Un ringraziamento speciale e doveroso va a Gold, nella persona di Omar, che è ab origine colui il quale ha reso possibile questo articolo; a Nicola Sanesi, che mi ha seguito in questa e altre avventure newyorkesi come fotografo e compare; ovviamente a Polo e infine a Moodmagazine per avermi ospitato tra le sue storiche pagine. Che ve lo dico a fare!




Gio Lama è uno dei beatmaker più forti in Italia. Uno capace di rinnovare il suono classico dell’hip hop 90’s statunitense aggiornandolo ai tempi moderni con stile e originalità. Andiamo a parlare con lui del suo percorso artistico e soprattutto di Raw Steel, disco strumentale uscito qualche anno fa e passato purtroppo un po’ in sordina, nonostante il timbro Unlimited Struggle. È passato un po’ di tempo dall’uscita di Raw Steel. Sei contento di com’è stato recepito? Sono assolutamente entusiasta per la qualità, se così si può dire, e della risposta ricevuta; molto meno per quanto riguarda i numeri. A mio parere ne hanno parlato veramente troppo poco! Sarà che “ogni scarrafone è bell’ a mamma soja”, ma secondo me Raw Steel è un disco che meritava molta più attenzione, per il bene di tutti. Cosa intendi dire? Tanti ragazzi che non mi conoscevano mi hanno scritto super presi bene, ed una parola si è ripetuta più delle altre in tanti messaggi ricevuti: Grazie! Questo non fa di me il salvatore dell’hip hop, sia chiaro, ma significa che sono tanti i ragazzi, anche giovani, che sono stanchi della solita merda. E se certe “figure” (termine scelto con cura), che si ergono a paladini o punti di riferimento per questa cosa, invece di fare decine di post insultando il tipo che li fa cacare o il fenomeno da baraccone del momento e quelli che li seguono, provassero ad educarli musicalmente, forse la situazione in Italia sarebbe diversa. Potrei fare una lista infinita di prodotti validissimi e di spessore, oltre a Raw Steel, ignorati sistematicamente dalle sopra citate “figure”. Se Raw Steel fosse arrivato al doppio delle persone, a me personalmente non sarebbe cambiato nulla, ma forse qualcuno avrebbe scoperto qualcosa di nuovo, e magari queste Barbara D’Urso del web avrebbero perso qualche fan. Com’è nata la collaborazione con Unlimited Struggle? È un sodalizio che andrà avanti anche in futuro? La collaborazione con Unlimited Struggle è nata nel modo più figo e naturale possibile. Partiamo dal presupposto che io sono abbastanza autocritico e in passato non ho mai proposto loro i miei lavori perché ritenevo avessero degli standard troppo alti. Tre anni fa circa partecipai ad un contest di beatmaking con Dj Shocca in giuria. Finito il contest mi chiese di aspettarlo e raggiungerlo nel backstage e mi disse: “la tua roba è potente, dobbiamo fare assolutamente qualcosa assieme!” ed al mio “mi piacerebbe molto!” lui replicò “non ti deve piacere, dobbiamo farlo D** c**!”. Da lì è nato Raw Steel che poi si è effettivamente concretizzato grazie al lavoro e alla professionalità di Stokka, in qualità di label manager. Quando la collaborazione con Unlimited Struggle venne ufficializzata pubblicamente, ho ricevuto un sacco di messaggi che si riferivano ad un fantomatico “essere arrivato”, ma per me non è mai significato questo, anzi. Ha significato un ripartire da capo: uscire con un prodotto con quel logo, da beatmaker, è una responsabilità gigantesca visto che in Unlimited Struggle sono passati alcuni dei beatmakers più forti d’Italia. Quando il tuo nome può essere accostato a quello di artisti come Roc Beats, Fid Mella, Big Joe o Zonta, devi sapere bene il cazzo che stai facendo, non tanto per tenere il confronto, ma almeno per non sfigurare. Ti va di raccontarci un po’ il tuo approccio al beatmaking? Attrezzature, ossessioni, mosse vincenti… Le mie produzioni sono legate indissolubilmente all’utilizzo dei campionatori – attualmente uso un Akai MPC 2500 ed un s950 – ed ai campionamenti solo ed esclusivamente da vinile. Non per chissà quale pippa da estremista purista, come la gente spesso è portata a pensare ma per un concetto che per me sta alla base dell’arte, almeno della mia, che è il limite. Secondo me è proprio quando hai un limite che devi mettere in campo tutte le tue risorse per andare oltre il limite che ti impongono le macchine, il limite di un sample su un disco che devi avere, che devi trovare, che magari nel punto che volevi usare è rovinato, che devi comprare e spesso anche il fattore economico è un limite, dato che compro dischi estremamente cheap. Questi sono tutti inneschi per la mia creatività. È l’arte di arrangiarsi. Per distinguersi, per esprimere a pieno la propria identità. Per quanto riguarda le “mosse vincenti cosa vuoi che ti possa dire un povero stronzo come me? Al massimo posso consigliare di essere sempre originali, di non copiare mai, di creare un

proprio suono e di non cedere mai a nessun tipo di scorciatoia. Quali sono state le maggiori influenze nello sviluppo del tuo suono? Mi sono fatto i primi anni di beatmaking sotto una forte influenza del primo RZA. Ma quando ho visto che troppo spesso la mia roba veniva accostata al Wu Tang, anche se sotto forma di complimento, ho capito che stavo sbagliando qualcosa. È da li che ho iniziato a costruire il mio suono che, ha detta di molti, anche autorevoli, è diventato riconoscibile. Ad esempio nel mio disco Check my crane style - The italian chamber chiaramente ispirato dalle atmosfere Shaolin, credo di essere riuscito comunque a tenere bene le distanze. Io punto molto sull’originalità, pur mantenendo un suono classico e dovremmo essere tutti d’accordo sul fatto che anche se negli ultimi vent’anni nessuno si è inventato niente, rimane comunque un grosso margine per distinguersi. Provieni da Pescara. E nell’hip hop Pescara significa soprattutto Costa Nostra. Qual è il tuo rapporto con questa leggendaria crew? A parte che a nessuno di loro piacerebbe la definizione di crew, ho un ottimo rapporto con tutti loro, o almeno con tutti quelli che generalmente vengono identificati come Costa Nostra. Quando ero ragazzino, per la mia generazione “La Costa” era quasi una religione e per certi versi lo è ancora. Non solo per l’aspetto musicale, inarrivabile, ma anche per una questione di attitudine, di spirito di appartenenza e – detto in tutta sincerità – non è stato facile per me alleggerire la forte impronta che questa realtà ha lasciato sulla mia musica. Al di la del rapporto di amicizia che già ci legava e diverse collaborazioni, ho avuto la fortuna di lavorare spalla a spalla con C.U.B.A. Cabbal per U.R.L.A. uno dei suoi dischi, producendo la maggior parte dei beats e occupandomi della registrazione e del mix. Sono amico di Lou X, che prima mi fa bere e poi mi spara una carrellata di samples incredibili (quando ormai non sono più in grado di memorizzare) durante le cene che organizziamo ogni tanto per stare un po’ insieme. Perché magari molti non sanno che anche lui ha una grande passione per il beatmaking. A causa dei nostri stili di vita, ho passato troppo poco tempo con Dj D-sastro, con mio grande rammarico, dato che c’è tanto da imparare da uno come lui. Però ad esempio lui venne spontaneamente da me appena presi il 950, per spiegarmi un po’ di cose e qualche trucco. Ho un bellissimo rapporto con Eko e di tanto in tanto, mi scambio messaggi con fantasiosi insulti, rivolti ad una nota cantante italiana, con Cloro lu Dannaggià (non sai chi è? Cerca il mio speciale “Prodotto tipico AbBruzzese” su Youtube). Parliamo di un progetto relativamente recente: RawSteel MonStarz. Come è nato questo collettivo? Il progetto nasce dalla mia volontà di scattare un’istantanea sui giovani che gravitavano nella scena locale, mista alla fotta incredibile che mi aveva lasciato addosso la visione di “Wu-Tang: An American Saga”. Nel progetto iniziale la mia strofa non era assolutamente prevista, io ho appeso il microfono al chiodo da diversi anni, ma l’ottava persona a cui avevo pensato non era interessata al progetto e io ci ho dovuto mettere una pezza. Tutta la traccia è basata su un forte spirito di appartenenza al territorio ed il target erano solo ed esclusivamente i locals, nessuno di noi si sarebbe aspettato la risonanza che ha avuto a livello nazionale ed io faccio ancora fatica a capire. Anche perché tutte le strofe sono ricche di riferimenti e citazioni che se non sei di qui è quasi impossibile che tu possa capirle. Infine ho chiesto a C.U.B.A. Cabbal di benedire la traccia partecipando con un cameo come ciliegina sulla torta. Il Covid e di conseguenza tutte le limitazioni che ha portato, ha influito anche sulla tua attività artistica? O è stato un momento per concentrarti ancora di più sui tuoi progetti? La mia più grande fonte di ispirazione è la vita di tutti i giorni quindi non vivere le strade, non ascoltare le storie di altre persone o non poter osservare la città che si muove è stato micidiale per la mia creatività. Sono stato chiuso due mesi in casa solo con mio figlio di 3 anni e mezzo, perché mia moglie in qualità di infermiera non si è mai fermata e sentivo questa gigantesca responsabilità di garantirgli delle giornate serene dopo che gli era stata strappata la sua normalità, ho dedicato a questo tutte le mie energie interrompendo qualsiasi attività che riguardasse la musica. Finito il lockdown abbiamo ripreso una normalità estremamente relativa che non mi ha aiutato per niente a ripartire. Oggi mi sento bene, carico e con tanto materiale da fare uscire.

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Can’tautorato è l’album di esordio di Carlo Corallo, penna siciliana in ascesa e personaggio atipico all’interno della scena hip hop. Il disco rappresenta un particolare connubio ben riuscito tra rap e cantautorato, in cui influenze di diversi generi musicali si intersecano tra di loro. I flussi di parole, apparentemente istintuali, si rivelano frutto di un meticoloso lavoro di ricerca lirica. Ciao Carlo, benvenuto. Iniziamo chiedendoti di raccontarci un po’ chi sei e qual è stato il tuo percorso per arrivare fino a qua a Milano. Io arrivo dalla Sicilia, precisamente da Ragusa. Ho iniziato ad approcciarmi a questa musica a 17 anni per una pura esigenza espressiva. A Milano ci sono arrivato principalmente per l’Università, qui studio Giurisprudenza. A 19 anni però venendo qua ho portato anche i progetti musicali cui avevo dato avvio, anche se da solo due anni ed in maniera totalmente amatoriale. La prima cosa interessante è che non sei venuto a Milano “per sfondare”, come fanno tutti. No no, sono arrivato soprattutto per cambiare vita e fare qualcosa di diverso da quello che facevo a Ragusa, anche perché spesso la provincia è asfissiante, non ci sono eventi e non ci sono opportunità per essere a contatto con la musica, neppure per fruirne e non solo per farla. Sono arrivato qui e ho iniziato a scambiare i primi contatti, addirittura andavo al Muretto a fare freestyle. In questo ambito nello specifico mi sono sentito integrato, anche perché all’inizio era difficile integrarsi in certi ambienti, tipo quello dell’Università. Poi la musica è stato anche un mezzo per fare contatti e amicizie. Ho diffuso il mio primo lavoro che è stato, tra virgolette, un flusso di pensieri su un pezzo di Yann Tiersen che ho pubblicato senza aspettative ed è iniziato a girare anche tra persone che non conoscevo. Questa cosa mi ha un po’ convinto a continuare con le pubblicazioni. Poi sono tornato per un periodo a Ragusa dove ho pubblicato un primo disco non ufficiale con Green Line Label. Un giorno Soulcè prende questo primo disco assolutamente non ufficiale ed inizia a mandarlo a dei rapper, tra cui Murubutu. Gli ho detto “vabbè, questa è una pazzia, vedrai che non ti risponde neanche”, invece Murubutu scrisse un messaggio di apprezzamento con cui accettava di collaborare. È nata così con lui questa amicizia e sodalizio artistico, abbiamo scritto “I maestri pt.2” e mi ha dato l’opportunità di aprire le prime date del suo tour dell’ultimo disco. Questo mi ha sicuramente aiutato ad avere più esposizione. Tu prima hai parlato di “flusso di pensieri”. Quando ti ho ascoltato ho pensato a Dargen D’amico, infatti mi ha fatto tornare in mente soprattutto l’immaginario di Nostalgia Istantanea unito da un po’ del “vecchio” Ghemon. Dargen D’amico rientra sicuramente tra le influenze che ho sempre avuto perché, secondo me, è un punto di riferimento in Italia a livello di scrittura e ha toccato dei livelli massimi di poesia che nel mondo della musica moderna è difficile raggiungere. Ghemon sicuramente mi è affine dal punto di vista vocale, perché anche io ho una voce nasale e l’accento di una persona che arriva dal sud che un po’ scompare e un po’ ritorna. Come approccio alla metrica invece penso che il mio sia abbastanza diverso sia da Dargen che da Ghemon, ma per me è assolutamente un complimento. Quali sono gli altri artisti che ti hanno influenzato particolarmente sempre a livello di rap italiano? Rancore a livello di scrittura, soprattutto i dischi Elettrico, Acustico e Silenzio. Poi, tra quelli che bazzicano nella scena contemporanea mi piacciano molto Willie Peyote e Dutch Nazari, anche se non sono vere e proprie influenze in quanto sono di più recente visibilità nazionale. Per lo storytelling invece posso fare il nome di Murubutu, anche se la sua metrica è totalmente diversa dalla mia. Di lui ho apprezzato tantissimo il fatto di portare lo storytelling a livello sistematico ed è stato un unicum ad avere questo tipo di missione. E tu hai una missione? Io sto molto attento a prendermi carico di responsabilità o di missioni in questo senso perché è un passo far diventare una missione un credo da estremista. Sicuramente il mio obiettivo è liberarmi delle idee che ho in testa e fare della musica, spero, non-spazzatura, e raggiungere un

pubblico sempre più ampio creando con gli ascoltatori un confronto. Parliamo adesso nello specifico del disco, Can’tautorato. Iniziamo dal titolo, spiegacelo un po’. Il titolo è totalmente autoironico ed è riferito al fatto che quando scrivo non scrivo i ritornelli. Chiaramente in fase di stesura del disco sono stato incoraggiato ad aggiungere delle parti melodiche per rendere le canzoni più fruibili. Ho quindi messo le mani avanti dicendo che non so cantare e volevo rivelarlo direttamente alla gente: can’t-autorato quindi. Alla fine cosa è un rapper? Un cantautore che di fatto non sa cantare. Parlo quindi di argomenti tipici del cantautorato ma detti da chi non so cantare. Quindi poi come ti sei trovato in questa forma del ritornello? Devo dire che sono molto autocritico, però alcuni ritornelli credo che abbiano funzionato, anche se dipende sempre dalla percezione dell’ascoltatore. In questo secondo me sono fortunato perché, anche avendo un pubblico affiatato e limitato tipo una setta (ride, n.d.r.), gli ascoltatori prendono i miei brani in modo sempre molto positivo. Il fatto di non avere i ritornelli è una cosa tipica nel rap di contenuto. Infatti c’è chi si aiuta inserendo i ritornelli, una sorta di “deriva” che oramai è di uso comune. Poi magari prima era anche leggermente diverso perché a livello di strumentali c’erano più ritornelli scratchati con campioni vocali di altro genere, cosa che va meno adesso. Sicuramente l’inserimento di un ritornello è adatto più in alcune situazioni che in altre. Quando parti con un progetto totalmente underground fare dei ritornelli che ti soddisfino è più difficile ed un buon ritornello si raggiunge con determinati mezzi. Poi secondo me il ritornello non ha solo la funzione di rendere fruibile il tutto ma anche di spezzare il brano e dare un momento riflessivo all’ascoltatore, essendo i miei pezzi molto malinconici e pesanti. Quindi quanto questo disco è frutto di mediazione e quanto di quello che volevi fare tu? Il disco è totalmente frutto di quello che volevo fare io, l’unica eccezione della parte mediata è stata cimentarmi con i ritornelli. Per esempio il brano “Un letto” per me non è nemmeno classificabile come hip hop, è praticamente una jam jazz dove c’è solo la voce, il sassofono e il basso. Non è nemmeno in quattro quarti, è totalmente un’improvvisazione. All’inizio con i ritornelli ero scettico, ma quando sono entrato nel mood e sono quasi diventato un tossicodipendente dei ritornelli (ride, n.d.r). Assicuro che tutto comunque è stato fatto di mia spontanea volontà, infatti credo che si veda, anche perché gli argomenti non sono poi così vendibili parlando di cose come la prostituzione, di gatti morti e di relazioni in cui si è pazienti in senso medico. A livello strumentale questo disco come si è evoluto? Il disco l’ho fatto con il produttore Paolo Paone, che spazia dalla musica jazz al pop, fa cose molto distanti tra loro. Lavorare con un produttore che fa prettamente hip hop mi limiterebbe. Ho bisogno di fare anche canzoni senza batteria o in cui i quattro quarti non siano preponderanti. Questa tendenza potrebbe sembrare autocelebrativa, ma è più stimolante. Nel frattempo abbiamo avuto il lockdown dovuto al Covid-19, siamo tornati ad una “discreta” normalità, anche se gli artisti ancora subiscono le limitazioni dovute alle norme di sicurezza stringenti per quanto riguardo lo svolgersi di live e situazioni simili. Immagino che questa cosa abbia ovviamente colpito anche te.. Tornerò sicuramente a riproporre dal vivo le canzoni di “Can’tautorato”. Scontato che dica di volerlo portare in giro con la band, ma in realtà sono molto affezionato al connubio DJ e rapper, è una modalità che ti mette davanti al pubblico e ti dà quel senso di appartenenza ad una determinata cultura che ti responsabilizza dovendo saper rappare e intrattenere, caratteristiche che molti artisti con la scusa della deriva indie vanno ad evitare. Un rapper rappa. Portare il DJ è una cosa che non dovrebbe mai mancare. Inoltre, sono già a lavoro per dare al pubblico nuova musica prima della fine dell’anno. Ho imposto a me stesso di dedicare tutto il mio tempo alla scrittura, nel prossimo periodo, e sono pronto ad onorare questo proposito.

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Se non ricordo male era il 2015 quando il trio Blo/B, Musteeno e Apoc decise di pubblicare un disco a sei mani dal nome Drammachine. Avrei sempre voluto chiedergli come era nata la cosa, a chi si ispiravano e, a distanza di anni, ho avuto l’occasione di farlo quando a sorpresa (in pieno periodo pandemico!) sono apparse le comunicazioni di un secondo volume firmato Drammachine. Il disco è un bel viaggio. Non lo definirei un brainstorming dal momento che più che pensieri a caso ci sono vere e proprie descrizioni sulla società di oggi. Drammachine secondo volume è crudo, reale, massiccio. Fa un po’ sobbalzare… soprattutto considerato il periodo. Allora, piccolo passo indietro, come nasce il progetto Drammachine? Musteeno: tutta colpa di Francesco Paura. Apoc: già ai tempi collaboravo con Blo, gli mandavo beat praticamente ogni giorno fino a quando mi disse che Francesco Paura vedeva bene loro due a fare un disco assieme… Blo/B: come detto da Mastino eravamo io e Curci a una Jam a Quarto organizzata da Andre e Curci ci disse che, essendo i suoi Mc lombardi preferiti, secondo lui dovevamo fare qualcosa insieme. Io in quel periodo ero a stretto contatto con Apoc e volevamo fare un progetto assieme. A quel punto mi è venuta l’idea di fondere le due cose e fare un lavoro a tre teste. Come mai proprio il nome Drammachine? Musteeno: credo sia stata una proposta di Apoc, se non ricordo male. Ben accolta da tutti, stranamente (risate del pubblico) Apoc: beh il nome è nato un po’ così, dalla Drum Machine che può essere un MPC per finire nella Macchina del Dramma, Drammachine, biglietto di sola andata. Blo/B: ha spiegato bene Ale, in più il noopera perfetto perché descriveva a pieno l’atmosfera drammatica dei nostri pezzi. Da qualche mese è fuori il Drammachine II. Un secondo volume con dei pezzi che definire tosti è poco. Come mai ci avete messo così tanto tempo per “tornare” insieme su un progetto comune? Musteeno: perché abbiamo ognuno la propria vita che è già abbastanza incasinata. Far collimare tutto è dura. In realtà condensando tutti i tempi di lavorazione avremmo potuto fare tutto in tre settimane secche. Ma nessuno di noi ha tre settimane piene di seguito per poter fare musica, purtroppo. Blo/B: avremmo voluto metterci quanto il primo capitolo ma ci sono stati di mezzo un po’ più di intoppi, compresa la voglia di smettere di far musica da parte mia. Aggiungendo una registrazione, un mix ed un master più accurati rispetto al primo capitolo. Quali sono le sostanziali differente fra il volume 1 e il volume 2? Apoc: in realtà per come la vedo io, se uno si ascolta il primo volume e subito poi il secondo è un po’ come stare incollati su Netflix a guardarsi la Serie. Parlando a livello di suono il secondo ha dei suoni molto più ben definiti rispetto al primo. Il primo era più ‘’marcio’’, il secondo più ‘’maturo’’. Musteeno: l’affiatamento migliorato, il gusto per i beats, l’assoluta mancanza di pugnette sul futuro, la collaborazione con Gattopirata. Upgrades sostanziali. Blo/B: il primo è più di getto, il secondo più studiato e con sonorità più varie rispetto al primo ma diciamo che la sostanza e lo spirito sono in perfetta continuità con Drammachine 1. So che vi sembrerà una domanda strana. Ma secondo voi ci sono altri collettivi come voi dal punto di vista tecnico o teorico? Apoc: senza peccare di presunzione, penso di no, sicuramente ce ne sono stati, personalmente mai conosciuti. Musteeno: mi viene in mente solo Melma & Merda per la potenza e l’attitudine. Blo/B: mi viene in mente Basley Click ma con questa attitudine più Hardcore penso che non ci siano altri progetti simili. Fuck Humble. Facendo una sorta di brainstorming. Qual è il vostro retaggio? In punti chiave, come lo definireste? Musteeno: ci ispiriamo ed evolviamo la tradizione delle barre sputate senza troppo pensarci su, con una certa attenzione alla tecnica,

lasciando da parte le stronzate e i trend topics. In una parola: originalità. Blo/B: barre, divertimento, attitudine, stile, atmosfera, impatto, chiusure doppie triple quadruple, cuore, eliminare il superfluo. Come lavorate insieme ai progetti? Scelta dei temi, basi, registrazione? Insomma, come vi coordinate? Apoc: guarda, siamo connessi. Questa è la nostra chiave principale di Workflow in studio, quando ci siamo beccati per D2 addirittura qualche beat l’ho fatto in studio e qualcuno a casa di Blo/B, a livello di producer mi sono adattato, se c’è un bel clima produco dove capita. Musteeno: possiamo dire che idee e musica si intrecciano senza modalità rigide. In questo disco ad esempio la prima roba che è uscita è stata l’idea per la copertina che ha dato anche il titolo alla prima traccia: volevamo riprodurre una roba simile alla locandina di Christine la Macchina Infernale. Poi Apoc ha iniziato a mandarci una cartella di beats e la magia è iniziata. A volte le strofe sono arrivate prima del concept, a volte ci siamo dati qualche limite in più ma sempre lavorando sulle musiche. Blo/B: il 90% delle volte nasce tutto dall’atmosfera che ci da il beat. A volte dallo stesso titolo del beat. Per quanto mi riguarda spesso non mi do neanche un tema, scrivo e basta. Il pezzo diventa quello che esce dalla mia penna. Dalle nostre penne. Definireste il vostro progetto sperimentale dal punto di vista sonoro? Apoc: anche, ma anche no. Musteeno: No, direi di no. Penso sia nel solco della tradizione classica. Se mi riferisco a roba sperimentale penso a cose come Antipop Consortium/Airborne Audio, Run the Jewels, Earl Sweatshirt, Danny Brown o similari. Blo/B: no e se lo fosse non sarebbe comunque voluto. Quali sono per ognuno di voi i pezzi a cui vi sentite più legati? Quelli che avete scritto o prodotto con più facilità? Blo/B: sono super fan di fogna di Calcutta. Era l’ultimo pezzo che mi mancava da scrivere ed eravamo in studio a registrare. Ho detto ad Andre di registrare lui tutto quello che gli mancava per gli altri pezzi e pochissimo ho messo giù la strofa. Una sedici di puro istinto animale che metterei tra le mie preferite di sempre. Musteeno: direi sicuramente “Mille Poesie” che ho riscritto tre volte prima di trovare la forma definitiva; a “Koun Senbei” sono particolarmente legato perché per me è stata una messa alla prova. E poi mi piace tantissimo “Disordine da Stress” perché quel cazzo di ritornello è una dimostrazione lampante di come i nostri due stili di mcing possano interpretare un beat in maniera differente ed essere perfettamente in sintonia tra loro: le due voci sono state sovrapposte perché volevo fare un esperimento, che ha funzionato alla stragrande. Apoc: del primo “Panik Attack 1 e 2”, “Fuoco Nella Pioggia”. Del secondo “Mille Poesie”, “Vertigo”, “Christine”, “Koun Senbei”. Ultima domanda e vi lascio andare. Dal punto di vista musicale e personale, quanto vi ha inciso questo “fottuto” covid? Apoc: dal punto di vista personale mi sono reinventato eliminando il superfluo basandomi sulle cose essenziali della vita. Si sta benissimo anche con poco, non c’è bisogno di un bell’orologio o una bella macchina per essere felici ma basta avere le persone a cui tieni di più accanto a te. Dal punto di vista musicale ho un disco strumentale pronto fatto durante il covid ispirandomi ai giorni grigi del lockdown. Musteeno: ho avuto l’opportunità stupenda di passare un sacco di tempo con mia moglie ed i miei figli. Abbiamo fatto un sacco di roba assieme. Fortunatamente non abbiamo avuto problemi di salute in famiglia. Ho avuto anche un sacco di tempo per fare musica ed ho prodotto, scritto, registrato e mixato il mio ep che uscirà in free download e si chiamerà “Grezzo, sporco e infettivo” ed è interamente ispirato dalla pandemia. Blo/B: dal punto di vista personale mi ha fatto risentire padrone del mio tempo. Ho passato momenti di preoccupazione come momenti indimenticabili assieme alla mia compagna e mia figlia. Serate a ballare insieme in salotto per passare il tempo, sfogarci, sentirci liberi. Anche in quella situazione da film. Me li ricorderò per sempre. Musicalmente mi ha permesso di dare la spinta a Bmovie, uscito per MRGA a Luglio. In due settimane ho praticamente riscritto l’album e registrato tutto. Uno tra i miei dischi preferiti di sempre.

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L’avvento di Internet ha pesantemente rivoluzionato il mondo della musica, a partire dai metodi di fruizione della stessa. In principio c’erano giradischi, poi gli stereo, passando per walkman e lettori CD portatili, arrivando fino ai lettori mp3 e gli iPod. Proprio quest’ultimi rappresentano il punto di svolta di una rivoluzione copernicana: il loro exploit è legato ad Internet, rappresentano il momento in cui la musica non viene più comprata su supporto fisico, ma scaricata. Spesso e volentieri illegalmente, per giunta. Il contraccolpo economico di questo cambiamento di paradigma è stato immenso, solo in minima parte “sanato” dall’arrivo e dal successivo boom dei servizi di streaming a pagamento, come Spotify, Tidal o Apple Music. Non lasciatevi infatti ingannare dagli esorbitanti numeri di stream: rispetto agli introiti che si avevano con vinili, cassette e CD, la riproduzione in streaming lascia briciole, soprattutto agli artisti. Il mercato discografico è quindi cambiato, e il rap non è rimasto immune: le fonti di guadagno principali per i rapper, i live e il merchandising, sono praticamente passate da “principali” a “uniche”. Proprio il mondo del merchandising è a sua volta cambiato molto negli anni e, complice il mutamento nell’intera estetica del mondo rap, si è avvicinato sempre di più a quello dello streetwear e della moda in generale. Spesso e volentieri artisti e creativi vanno oltre le “semplici” magliette e felpe, con foto o stampe banali. Si coinvolgono designer di fama mondiale, nascono collaborazione con brand dal fatturato miliardario, le linee di merchandising diventano vere e proprie collezioni di moda; i prezzi salgono, nascono mercati di rivendita che generano cifre surreali, il collezionismo passa da feticcio a vera e propria ossessione. Abbiamo deciso di raccogliere alcune delle capsule collection di merchandising più interessanti degli ultimi anni, provenienti dall’altra parte dell’oceano. Tutto, ovviamente, sold out: se qualcosa dovesse finire per colpirvi, preparatevi a mettere mano al portafogli e a girare portali come StockX, Grailed o Depop. Portare a casa il vostro pezzo preferito non sarà affatto facile (ed economico)!

KANYE WEST & KID CUDI / KIDS SEE GHOST Kids See Ghosts fa parte del ristretto gruppo di album pubblicati da G.O.O.D. Music nel 2018, tutti accomunati dalla direzione artistica e dalle produzioni di Kanye West. Ma è anche il nome del progetto creato ex-novo proprio da West e Kid Cudi. Il merchandising non poteva ovviamente essere da meno, considerato lo spiccato senso artistico dei due. A loro si sono aggiunti altri due pesi massimi non indifferenti: l’artwork del disco, presente su tutti i capi del merch, è stato realizzato da Takashi Murakami, mentre il design della capsule collection è stato affidato a Virgil Abloh, collaboratore di lunga data di Ye. Il risultato? Un sold out in tempi record.

TRAVIS SCOTT / ASTROWORLD Con Astroworld Travis Scott è andato oltre il semplice concetto di merchandising. Ha organizzato l’uscita di tutto il materiale legato all’album come se fossero drop di un brand di streetwear: ogni giorno - per un’intera settimana - ha reso acquistabili un numero imprecisato di prodotti diversi, che restavano disponibili per sole 24 ore. T-shirt, felpe, long sleeve, pantaloni, giacche, ciabatte, accessori di ogni tipo: tutto era impreziosito dalle iconiche illustrazioni dell’immaginario di Astroworld. Tra gli highlight la sicuramente segnalata una giacca di jeans Levi’s customizzata per l’occasione e la tavola da skateboard con illustrazione a tema Astroworld.


JUICE WRLD / DEATHRACE FOR LOVE La scomparsa del giovane rapper di Chicago è stata una delle ultime tragedie che hanno colpito il mondo del rap. Juice WRLD era considerato uno dei nomi più promettenti della scena americana, e nonostante la giovane età aveva già ottenuto l’approvazione di molte leggende - basti pensare alla sua presenza in Music to be murdered by di Eminem. Il secondo e ultimo progetto solista del rapper, Deathrace for love, attirò l’attenzione di molti, grazie anche ad un merchandising sorprendente. Oltre ad un’ampia linea di tee e felpe, alcune realizzate in collaborazione con Vlone, la vera chicca fu una capsule in collaborazione con Suzuki, ispirata al video di “Fast” e al concept del disco.

ASAP ROCKY / TESTING Se c’è un rapper che negli anni è diventato un’icona mondiale di stile, questo è ASAP Rocky. Ancora vivido il ricordo di come abbia demolito 50 Cent nei commenti di un post di Instagram, dopo che questi aveva provato a sbeffeggiarlo per una foto in cui indossava un foulard attorno alla testa. Quel famoso foulard è poi diventato parte integrante della sua iconografia, a partire dal singolo “Babushka Boi” - che attinge direttamente al significato del termine, in americano utilizzato proprio come sinonimo di foulard. Ma babushka a parte, Rocky si è reso protagonista di un grande lavoro di design per il merchandising di Testing, il suo ultimo album. Diversi pop-up store con prodotti esclusivi hanno accompagnato il suo tour, e tutto il merch disponibile online aveva un taglio unico. Il concept al centro di tutto? Un manichino da crash test.

AJ TRACEY / AJ TRACEY WORLD TOUR 2019 Nel 2019 la stella inglese del grime AJ Tracey ha pubblicato l’omonimo album, un successo di vendite - trascinato dai numeri di “Ladbroke Grove”, singolo che ad oggi conta più di 90 milioni di stream - che ha poi portato sui palchi di tutt’Inghilterra e, in generale, d’Europa. Per l’occasione, il rapper inglese ha realizzato un’esclusiva linea di merchandising, acquistabile solo nelle venue dei suoi show. Ad ingolosire i collezionisti è stata soprattutto la t-shirt realizzata in esclusiva con Places + Faces, uno dei brand più in voga degli ultimi anni. Peccato che alla tappa milanese del tour non ci fosse traccia della tee, con sommo rammarico dei (purtroppo pochi) accorsi.


LIL WAYNE / THE CARTER V The Carter V è stata forse l’uscita più attesa di Lil Wayne, l’episodio più complicato dell’intera saga, tenuto in ostaggio dalla sua estenuante battaglia legale con Birdman e il resto della sua vecchia label. Una volta uscito ha sorpreso tutti gli ascoltatori, tanto per la qualità quanto per la varietà delle collaborazioni - XXXTentacion e Kendrick Lamar nello stesso disco? -, ma anche per la colossale operazione di merch che l’ha accompagnato. Lil Wayne ha infatti arruolato 14 designer e brand diversi, lasciando ognuno libero di interpretare la sua estetica e la sua musica a modo proprio, coniugandola col rispettivo stile. Il risultato? Pezzi unici che portano la firma di Heron Preston, Chinatown Market, Brain Dead, Cactus Plant Flea Market e persino Wikipedia (!).

PUSHA T / DAYTONA Il 2018 verrà probabilmente ricordato come l’anno di Daytona, l’album di Pusha T che, dopo anni di attesa, è arrivato come un terremoto sulla scena. Interamente prodotto - in maniera magistrale, per giunta - da Kanye West, Daytona mostra l’ex membro dei Clipse in splendida forma, e ci regala anche un nuovo capitolo della faida con Drake, che di lì a poco esploderà in maniera irreversibile. Ad accompagnare un album di tale portata, non poteva mancare del merchandising d’impatto. Composto per la maggior parte di tee e felpe con stampe fotografiche, il punto forte della collezione sono le frasi riportate: diverse citazioni prese dal disco - come l’iconica “energized like the bunny for drug money” -, ma anche il modestissimo claim “RAP ALBUM OF THE YEAR”. Poi confermato dalla candidatura ai Grammy’s. m d m g z n / 23


Le ultime due nomination in questo particolare elenco non rientrano nella categoria di merchandising a tutti gli effetti, ecco perché sono segnalati a parte. Si tratta però di episodi che hanno unito lo streetwear e la musica rap in maniera eccezionale, quindi meritavano comunque di esserci. Nello specifico, parliamo di due collaborazioni che hanno visto protagonisti OVO - il brand di Drake - e TDE, il collettivo di cui fanno parte, tra gli altri, Kendrick Lamar, Schoolboy Q e Jay Rock.

OVO x TAKASHI MURAKAMI Abbiamo già incontrato l’eclettico Takashi Murakami in questa lista, quando parlavamo di Kids See Ghosts. L’artista giapponese è uno dei nomi caldi della musica urban mondiale - tra le sue collaborazioni più recenti anche Billie Eilish e J Balvin - e il buon Drake non si è fatto sfuggire la possibilità di realizzare qualcosa con lui per OVO, il suo brand. Il risultato non è una, ma ben due capsule collection esclusive, andate sold out nel giro di qualche minuto, nonostante i prezzi non proprio accessibili. Appassionati e collezionisti non ha però resistito al mashup che ha combinato l’iconico gufo di OVO con i coloratissimi fiori firmati da Murakami. Doppio K.O.

TDE X NIKE In occasione del “Championship Tour”, la tournèe di concerti che ha visto Kendrick Lamar e la TDE - Top Dawg Entertainment toccare 29 grandi città americane, Nike ha realizzato in collaborazione con il collettivo un’esclusiva linea di apparel. La collaborazione, dovuta al ruolo di K.dot come endorser del brand dello Swoosh, era composta da magliette, felpe e accessori, oltre alle limitatissime Nike Cortez Kenny III. La chicca? Gran parte delle stampe e dei dettagli su ciascun capo si illuminano al buio.


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La Soluzione Reboot è la riedizione dell’ultimo album di Davide Shorty ed il Funk Shui Project La Soluzione. Il collettivo di musicisti torinesi ha riconfermato la collaborazione con l’artista palermitano, al quale si erano avvicinati già nel 2018 con l’album Terapia Di Gruppo. Il periodo storico non ci ha permesso di poter fare un’intervista alla vecchia maniera, ma abbiamo sfruttato i mezzi in nostro possesso per poter chiacchierare virtualmente oltre che con Davide anche con il bassista Alex “Jeremy” ed il beatmaker Stefano “Natty Dub”. Tra gli arrangiamenti e lo sviluppo di nuove consapevolezze musicali abbiamo ripercorso il viaggio che il gruppo ha attraversato insieme prima e durante questo periodo di emergenza sanitaria globale, con la speranza (loro e nostra) di poter presto scoprire quanto suona bene dal vivo. Buona lettura. Ciao ragazzi, vi diamo il benvenuto su Moodmagazine. Come state, innanzitutto? Alex: bene bene, siamo sparsi per il mondo noi tre ma stiamo bene. Davide è in Inghilterra, Stefano a Torino ed io in Slovenia. Entriamo subito nel vivo del disco. Come mai avete pensato di fare il Reboot de La Soluzione? Stefano: in sostanza diciamo che prima del lockdown nei progetti futuri del Funk Shui Project c’era l’idea di orchestrare maggiormente i nostri brani, magari allontanandoci un pochino dai campionamenti e dai sample, abbracciando più un aspetto compositivo ed orchestrale dei nostri brani. Purtroppo poi essendoci trovati nella necessità di non poterci vedere e di non poter proseguire con le produzioni, perché è appunto arrivato il lockdown, abbiamo deciso di riaprire i progetti del nostro ultimo lavoro e di dargli quella veste che non sentivamo più appartenerci in questo periodo. Questa è stata per noi anche un’opportunità per essere vicini pur essendo tutti distanti, ognuno di noi da solo in posti ben lontani, abbiamo avuto tutti molto da lavorare e motivi per cui sentirsi, e quindi è stata oltre che un’esigenza artistica dettata dal momento, per quanto mi riguarda anche una salvezza. È stato difficile lavorare a questa distanza, soprattutto in questo periodo storico? Stefano: sicuramente sì, però di fronte a tutte le altre difficoltà che c’erano nella vita quotidiana, cioè quella di mettersi a fare musica a distanza, era forse la minore in quel momento. Poi è chiaro che ragionando in un senso di libertà assoluta viene più facile vedersi, ma tutto era difficile in quel momento, anche nel quotidiano. Alex: diciamo che, come diceva Stefano, l’idea di orchestrare e di buttarci in lidi un po’ più sconosciuti come approccio ci era venuta un po’ prima del lockdown. Il lockdown poi ci ha messo il bastone tra le ruote nell’ottica di fare quelle registrazioni e quelle sovrastrutture compositive in remoto e non dal vivo come volevamo con i musicisti che hanno partecipato al progetto. Questa è stata l’unica cosa che ci ha lasciato maggiormente l’amaro in bocca, ma a causa di forze maggiori. Sicuramente queste esperienze più avanti le vorremmo fare. Davide: una cosa che posso dire in forza al discorso di Alex è che faremo altra musica insieme, questa non è la fine, anche perché io mi aspetto ogni volta che arrivino beats nuovi ed arrivano. Tieni in considerazione che su cinque o sei beats almeno quattro vengono poi pubblicati. Questo affiatamento che ci raccontate testimonia che siete un gruppo che funziona molto bene e non credo che sia scontato. Davide: loro sono molto buoni ed io mi eccito ogni volta che sento le loro cose (ride, ndr). Tra l’altro stavo pensando in questi giorni a tutto il discorso di questi nuovi riarrangiamenti e, contestualizzando ciò all’interno del periodo che abbiamo appena vissuto e che in realtà stiamo ancora vivendo, pensavo che questi riarrangiamenti possono esprimere proprio l’arte del riarrangiarsi in situazioni anche delicate della vita sia individuale che della società. Davide: in realtà il messaggio è proprio quello. Noi già di nostro volevamo dare proprio un’altra pasta al disco perché avendolo già

portato in tour ed essendoci resi conto che siamo proprio un organico, ci siamo accorti che aveva in quel momento un po’ troppo poco di organico. In realtà il lockdown è stato proprio un’opportunità per poter superare quel tipo di ostacolo, riuscendo a non farci lamentare del fatto che i concerti sono saltati, che le cose come le volevamo fare non le potevamo fare, perché stare lì a lamentarsi non serve a niente. Infatti è una cosa sicuramente ammirevole, anche perché tante persone durante il lockdwn hanno avuto questo momento depressivo in cui non riuscivano a fare niente, anche cose che magari hanno sempre amato, arrivando ad essere totalmente disinteressati di ciò che si poteva fare in modo proattivo. Avere la forza di fare qualcosa di bello in un momento per tutti così brutto è sicuramente ammirevole. Alex: non è stato facile ma sicuramente ci ha fortificato e ne vedremo i risultati di questi sforzi solo più avanti, sia nei prossimi lavori che come approccio un po’ più umano. Aver superato momenti difficili è sempre una challenge importante. Il vostro approccio a livello di gruppo proprio dopo Terapia di Gruppo com’è andato a modificarsi prima con La Soluzione e poi con La Soluzione Reboot? Alex: La Soluzione come prima veste ha avuto una metodologia molto simile a quella di Terapia di gruppo, forse per certi versi ancora più di getto. La Soluzione è stata creata nei day off e non solo del tour di Terapia di Gruppo. Quando i beat erano buoni e caldi per essere mandati a Davide, lui li ha ascoltati in un furgone, si è gasato, abbiamo tirato giù i pezzi e da lì abbiamo continuato sulla scia del disco precedente. Poi ci siamo resi conto che in realtà auspicavamo ad altro, musicalmente in primis. Non che La Soluzione non ci piacesse, però l’idea che è nata in modo naturale è stata quella di esplorare dei lidi musicali diversi che comunque non ci snaturassero. Innestare esperienze musicali con musicisti in più e con dei colori diversi è nelle nostre corde e la volevamo fare. Nei prossimi lavori sicuramente continueremo con questa esplorazione. Davide: forse la vera differenza con Terapia di Gruppo è che ci siamo presi molto più tempo, proprio perché ci stavamo conoscendo, ed eravamo fisicamente insieme. Con La Soluzione appunto non è stato così. Forse la grande differenza a livello di metodologia tra La Soluzione e La Soluzione Reboot è che questa volta il punto di vista del mix è curato da una persona esterna, Emanuele Mochetti, che ci ha dato una pasta diversa. Dal punto di vista dei contenuti come vi siete evoluti in questi tre dischi? Le nuove tracce de La Soluzione Reboot sono legate al periodo di lockdown ma in realtà a livello di contenuti risultano molto organiche anche con le tracce non inedite e dunque scritte prima. Stefano: l’ultimo anno della vita di tutti quanti è stato segnato dal lockdown e dall’epidemia, ma sono successe molte altre cose. Inserire i brani legati all’epidemia, quindi “Reboot” o “Carillon”, significava andare a chiudere un cerchio di avvenimenti che abbiamo vissuto nell’ultimo anno. Il fatto di riconoscersi anche nei testi vecchi è una ricerca molto difficile che noi apprezziamo in Davide, perché significa rincorrere un sound e dei contenuti che non invecchino e che siano sempre attuali. Questa è una ricerca anche letteraria da questo punto di vista. Tra Terapia di Gruppo e La Soluzione ho visto un continuum di significati, in quanto da un approccio più di raccoglimento e riflessione siete arrivati a dare dei vostri spunti di ciò che per voi è o sarebbe una soluzione a diversi input ambientali (l’accoglienza, l’integrazione, ecc). Forse dal punto di vista contenutistico i temi erano già presenti ma ora si presentano in forme più definite, più risolutive. Davide: Si tratta sicuramente di uno sviluppo considerato che Terapia di Gruppo era un album che parlava principalmente di salute mentale e di un periodo di depressione che può riguardare tutti noi. La Soluzione è un risveglio e La Soluzione Reboot è una versione più matura . Ci siamo concentrati molto sull’effetto che la nostra musica potesse avere su di noi. Il nostro interesse non è quello di fare il pezzo che venda


o che sia lo specchio dei tempi che stiamo attraversando. Alex: anche perché se avessimo fatto quel ragionamento non avremmo mai avuto l’idea di fare un reboot, avremmo fatto altro.

La vendita dei dischi è molto legata ai concerti, quindi finché non si ricomincia a suonare stampare delle copie fisiche è un rischio. Poi sarebbe bello pubblicarlo con una veste grafica interessante.

Come ascoltatrice tra l’altro mi sento di ringraziarvi per l’inno alla sanità mentale all’interno di “Amare me, amare te”, cosa che non spesso si sente nelle canzoni. Davide: spesso in alcuni brani si assiste alla banalizzazione di alcuni aspetti umani che hanno una profondità molto più grande. Stefano: è una riflessione che va nel rapporto interpersonale, che va oltre le dinamiche del maschilismo o del femminismo, è il concetto di amare me per amare te è un concetto che riguarda tutte le persone. L’amore per gli altri inizia dall’amore per se stessi. Grazie per averlo notato.

In questi giorni stavo rileggendo una vecchia intervista che ho fatto a te, Davide, per l’uscita di Straniero; una delle cose che mi ha colpito (di nuovo) è stato il tuo discorso sull’aver ricevuto un’educazione basata sull’amore. Il contesto temporale è diverso rispetto al 2017 e ad oggi c’è l’emergere di un clima di odio diverso, quasi legittimato dalle Istituzioni o comunque dalla società, che forse prima non c’era. Cosa ne pensate? Alex: Sicuramente il periodo non è dei migliori, ormai il tema di populismo ha invaso le case e le persone sono molto più propense ad odiare piuttosto che ad un unirsi in nome di qualcosa da proteggere o che porti positività nella comunità in qualche modo. Noi cerchiamo di ancorarci ai nostri valori di crescita, come quelli di Davide, che sono princìpi di lotta e critica. Siamo persone che hanno un’opinione, il nostro spirito è sempre di positività e Davide la esprime nel modo migliore che possa rappresentarci. “La Soluzione” sicuramente è quella di non rispondere con l’odio. Le persone spesso si riempiono la testa di cose non documentabili, fake news o cose propense a direzionare l’opinione pubblica verso la divisione e non l’unione. Noi speriamo di fare un tipo di musica che sia veicolo di alternativa a questo linea di pensiero mondiale, europea, italiana. Davide: io aggiungerei che il cambiamento non lo vedremo noi, nel senso che il cambiamento lo vedremo alla fine delle nostre vite o le vedranno i nostri figli. Introdurre l’intelligenza emotiva come un fattore educativo è un qualcosa che ci vorrà tempo affinché avvenga, e visto quello che sta succedendo in molti Paesi dell’est, vedi quello che sta succedendo in America o in Brasile, credo che sia una situazione generale che si sviluppa per l’assenza di intelligenza emotiva. Secondo me il cambiamento succederà con una riforma scolastica globale. Non so se tu hai mai visto quel video di “Prince EA”, che è uno slam poet americano fortissimo, che fa uno slam poem riguardo il sistema scolastico (video “I sued the school system”, fonte YouTube – ndr) che non cambia da un centinaio di anni: siamo tutti diversi però siamo tutti trattati allo stessoo modo come delle scatole riempite di informazioni. C’è molto poco margine di specializzazione e di personalizzazione che possa poi prefigurarsi nel successo educativo. Da questo punto di vista non si può pensare che un popolo educato in maniera standard abbia lo stesso margine di sviluppo di quello legato all’intelligenza emotiva. Per quanto riguarda il cambiamento io sono fiduciosissimo, è una battaglia lenta ma non impossibile. I ragazzi sanno quanto in questo periodo sono impegnato in questo senso, cercando di deviare sull’attivismo sociale oltre che artistico, quindi cercando di usare l’arte come attivismo, possiamo chiamarlo “artivismo”.

A livello di ascolti musicali quali artisti vi hanno accompagnato nella scrittura del reboot? Stefano: sicuramente saremo tutti d’accordo sul fatto che durante il tour abbiamo ascoltato un sacco Mac Miller, nell’arco dei due anni di tour è stato l’artista che abbiamo ascoltato di più, anche molto nostalgicamente essendo scomparso, ma proprio perché è stato un artista molto vario. Davide: dal punto di vista della musica rap mi sentirei di aggiungere J. Cole e Kendrick Lamar. Altri due dischi che ascoltavo molto spesso mentre loro sparavano reggae nel furgone ed io mettevo le cuffie (ride, ndr) sono i due dischi da solista di Black Thought, che è il frontman dei The Roots. Altri che mi hanno fatto impazzire sono Mick Jenkins e Bas. Dal punto di vista del cantato il disco che mi ha ribaltato tutto è stato il disco Chasing summer di SiR, ma anche i due dischi di Anderson. Paak ed il disco dei Free Nationals. Però in assoluto Oxnard per me è la Bibbia, lo ascolto anche per fare workout! Alex: io mi sono buttato molto meno su ascolti rap e mi sono riascoltato e approfondito alcuni dischi jazz tipo Miles Ahead di Miles Davis con l’orchestra di Gil Evans, proprio per approfondire quell’approccio orchestrale che poi ci ha ispirato. Ho ascoltato anche tutta la scena dei grandi compositori italiani degli anni ’50,’60, ’70 e ’80. Parliamo delle nuove tracce. Come mai la scelta di Roy Paci alle liriche? Davide: Io e Roy ci conosciamo da tanto tempo. Abbiamo condiviso per la prima volta il palco quando io avevo sedici anni; poi un annetto e mezzo fa ci siamo ritrovati e avevamo già espresso l’idea di fare delle cose insieme. Lui è un fan sfegatato del Funk Shui Project. Appena io ho chiuso la prima metà di “Carillon” sentivo che mancava qualcosa, così ho detto ai ragazzi che mi sarebbe piaciuto avere dei fiati. Così abbiamo esteso la strumentale e l’ho inviata a Roy, pensando di fargli fare o un assolo di tromba e di chiamare poi un altro rapper, tant’è che che Roy voleva proporre Danno. Insomma, lo abbiamo mandato a Roy dicendogli “fa’ quello che ti pare a te”, noi non ci aspettavamo minimamente che lui avrebbe rappato! E infatti abbiamo planato tutti quanti nella stratosfera! Come mai avete invece scelto di eliminare un brano rispetto alla prima versione del disco? Davide: per quanto riguarda il pezzo che non c’è più pensavamo che fosse poco adeguato al nuovo suono del disco. “Insonnia” è un pezzo molto oscuro anche dal punto di vista concettuale, e rispetto alla positività era un pezzo troppo legato a Terapia Di Gruppo volendo parlare del problema in modo più ridondante invece che de La Soluzione. Anche dal punto di vista del riarrangiamento vale lo stesso discorso. “Insonnia” adesso è sparito da ogni piattaforma online e non è più disponibile, dico bene? Davide: esatto, puoi ascoltarlo solo se hai comprato la copia fisica del disco. Io però spezzo una lancia in favore di quel disco perché secondo me tra un annetto e mezzo o due ci gira e lo ributtiamo fuori, perché ci sta. Per noi è stato un disco che abbiamo fatto in maniera troppo istintiva, nato tra l’altro con l’idea di fare un EP.

Hai qualcosa da consigliare su questi temi? Davide: io non sono un gran lettore ma guardo molti documentari, una persona molto interessante da prendere in considerazione è Jane Elliott che è una ex professoressa americana pazzesca; un’altra attivista storica è Angela Davis; sicuramente un documentario interessante e pesante su Netflix è “XIII emendamento” che parla del processo di carcerazione di massa nella comunità afroamericana e delle minoranze etniche nel sistema carcerario in America. Poi, se devo citare una persona che ha fatto dei ragionamenti che mi hanno colpito molto è Trevor Noah, che è un presentatore sudafricano in America. Ci sono tante persone impegnate sull’argomento e c’è tanta letteratura da esplorare.

La Soluzione Reboot vedrà invece una versione fisica? Stefano: Speriamo di sì, ma al momento non lo abbiamo in programma. m d m g z n / 28


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Ernesto Anderle è un artista della provincia di Trento che si esprime attraverso la scultura, la pittura e l’illustrazione. Lo conosciamo soprattutto per due webcomic: “Roby il Pettirosso”, dove illustra alcune delle più grandi canzoni italiane, e “Vincent Van Love”, il suo progetto più famoso e ispirato a Van Gogh. Di qualche mese fa invece l’uscita di “Murubutu – Antologia di rapconti illustrati”, volume dedicato al rapper di reggio Emilia. Le oltre 150 pagine che compongono il libro offrono al lettore, ed in particolare ai fans dell’artista, la possibilità di immergersi nelle storie cantate da Murubutu attraverso una nuova prospettiva e un’inusuale dimensione. Sedici le canzoni illustrate da Anderle – “La collina dei pioppi”, “Anna e Marzio”, “I marinai tornano tardi”, “Mara e il maestrale”, “La notte di San Lorenzo”, “Nyx”, “Franz e Milena”, “Wordsworth”, “La vita dopo la notte”, “La notte di San Bartolomeo”, “La stella e il marinaio”, “Ancora buonanotte”, “L’uomo senza sonno”, “Le notti bianche”, “Le invasioni barbariche” e “Grecale” -, alcune sviluppate in lunghe strisce a fumetti, altre condensate in poche o addirittura in un’unica, significativa vignetta. Questo nuovo volume dedicato a Murubutu è la ciliegina sulla torta di una collaborazione già in atto tra i due artisti, visto che da tempo Anderle impreziosisce con live paintings i concerti del rapper. Ciao Ernesto, benvenuto su Moodmagazine! Siamo onorati di averti come ospite sulla nostra rivista, essendo tuttavia consapevoli che non si tratta del genere di editoria con la quale sei solito interagire per le interviste. A quanto ci è parso di capire ti collochi soltanto trasversalmente con la cultura Hip Hop: avendo deciso di illustrare alcuni dei brani di diversi cantautori (es. De Andrè), ti sei imbattuto nel rapper Murubutu. Come lo hai conosciuto? Un giorno mio fratello mi ha detto: ascolta questo pezzo. Era la canzone “La collina dei pioppi”. Mi ha subito colpito il testo è e come veniva raccontato. Di persona ci siamo conosciuti ad un evento musicale in Abruzzo. Come hai capito che la linea di narrativa verbale di Murubutu potesse trovare un punto di incontro con la tua illustrativa? L’ho capito ascoltando le sue canzoni, dato che mi venivano a visitare le immagini dei suoi testi. In alcune date del tour di Murubutu hai illustrato dal vivo proiettando sul teleschermo alcuni dei tuoi disegni. Come definiresti questo genere di esperienza a diretto contatto con un pubblico, che non credo di sbagliare nel definirlo comunque “così esigente”? Il libro è una raccolta di queste illustrazioni o ce ne sono altre? Credo che sia sempre un‘esperienza surreale trovarsi sul palco, ma disegnare ti porta ad concentrarti e isolarti anche se a cinque metri da me ci sono duemila persone che cantano e urlano, resto solo con la musica e il disegno che diventa musica. Ci sono molte altre illustrazioni nel libro, addirittura c’è una intera canzone illustrata inedita. Murubutu è noto per sonorità molto serrate, contenuti complessi, metriche ad incastro ed una grande cura lessicale. Ascoltare Murubutu richiede quindi un ascolto attento, non di per sé semplice. Invece i disegni, al contrario delle parole e dei tecnicismi, hanno il dono dell’immediatezza. I tuoi disegni raccontano di un attento compito di esemplificazione e quasi “schiaritura” rispetto alla trattazione di argomenti anche molto cupi. Partendo quindi da un immaginario così scuro, come avviene la trasformazione in illustrazioni così cariche di colori anche vivaci? A Murubutu piaceva proprio la contrapposizione tra i suoi testi e i miei disegni, se non ci fosse stata forse sarebbe risultato rindondante il mio

lavoro, invece così si genera una cosa nuova. Parlando infatti di contesti cupi, il libro si apre con le illustrazioni ispirate a “La collina dei pioppi”, che racconta di una storia d’amore vissuta nella Resistenza della Seconda Guerra Mondiale. Come mai hai scelto di iniziare il libro con questa canzone e qual è il filo rosso di tutta la raccolta? Ho scelto di iniziare con quella canzone perché è la prima che ho ascoltato ed è sempre quella che più mi emoziona. Il filo rosso vorrei che lo trovasse il lettore, credo sia una ricerca molto personale. I brani che hai scelto sono avvolti spesso dall’idea dell’attesa o comunque del passare di lunghi periodi di tempo, elementi che nello storytelling vengono resi con varie tecniche dialettiche. Per te quanto è carica di significato l’attesa nell’illustrazione e quali sono gli accorgimenti grafici che ti piace più usare per renderla? Sono molto istintivo quando disegno, appena mi viene l’idea devo aggredire il foglio per paura che mi sfugga. Non amo le attese ma credo di perdermi molte cose a causa di questa inclinazione. L’unica regola che mi do quando disegno è quella di cercare di essere il più sincero possibile. In “Anna e Marzio” la varietà e la brillantezza del colore sono la manifestazione dell’immaginario del viaggio e della speranza, in contrasto con il bianco e nero (o comunque dei colori più tenui) dei passaggi chiave che riportano il lettore al contatto con la realtà. Qual è il tuo rapporto con il colore ed in quale tecnica pittorica preferisci esprimerlo? Il colore è il mezzo più efficace per esprimere una sensazione, e cerco sempre di sfruttare al meglio questo tipo di linguaggio. Mi piace disegnare su carta ma la retroilluminazione dello schermo accende maggiormente i colori e questo spesso è un vantaggio. Il disegno digitale ti permette inoltre di correggere il disegno ma a volte si perde l’imprevedibilità dell’errore che per me ha un grande fascino. Tra le tue illustrazioni mi è capitato di vedere alcune ispirate a Caparezza. Ma qual è il tuo rapporto con la musica Rap? Hai in mente di illustrare brani di altri artisti del panorama Rap? Conosco molto bene il panorama musicale del Rap perché ho due fratelli più piccoli che se ne cibano e spesso trovo della poesia anche in quel genere di canzoni. Non ho pregiudizi musicali, do a tutti i generi almeno una possibilità di conquistarmi e spesso il Rap ci è riuscito. Se dovessi consigliare un illustratore o uno specifico testo ad un lettore di Moodmagazine quale sarebbe e perché? Consiglierei di guardare le opere di Chiara Bautista,un’artista messicana capace di far vibrare le corde dell’anima con un semplice disegno a matita, oppure Gipi che non ha bisogno di presentazioni. È leggendo i suoi fumetti che mi è venuta voglia di farli, perché ho visto delle potenzialità di linguaggio che solo il fumetto ti permette di sfruttare. Quali sono i tuoi progetti in corso e quelli futuri? Ho appena finito un fumetto che sarà ambientato nel 1700 e ho in programma di farne uscire altri due per il 2021, sempre con BeccoGiallo Editore.

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Introduzione: Kaso é un noto rapper Italiano della scena di Varese che non ha bisogno di presentazioni. Da qualche mese è uscito con il suo nuovo disco, Funziona, dopo un periodo di dietro le quinte che, come spiegherà lui, non lo ha mai però allontanato del tutto dall’HipHop. Inutile dire che il disco ve lo consiglio, è un gioiellino. Forse una delle cose più belle che questo 2020 ci ha dato. In questa intervista, se vi va di leggere, scoprirete qualche retroscena su Funziona. Noterete un artista con la testa sulle spalle, maturo, consapevole. In assoluto uno fra I miei preferiti. Sono certa che non vi deluderà, né dal punto di vista artistico né da quello personale. Chiaramente ti sembrerà scontato ma non posso fare a meno di chiederti qualcosa sulla prima traccia del tuo nuovo disco, Funziona. In “Niente da dire” in realtà stai dicendo un sacco di cose. Ci dai un quadro di cosa ti è successo negli ultimi anni? Ciao Moodmagazine! Anche per me era inevitabile iniziare il disco con questa canzone, che è la più intima e, credo, la più sincera. Di solito, un disco parte con le tracce più spinte per poi passare alle atmosfere più morbide mentre qui mi sono sentito in obbligo di dare qualche spiegazione. In alcuni periodi della vita sei travolto dagli eventi che accadono, alcune volte sono semplici scuse che ti racconti per non continuare a fare quello che ami, per esempio la musica, altre volte semplicemente non hai nulla da dire. Se invece ti ostini a farlo, nel rap è facile accorgersene. Per anni abbiamo ascoltato rapper che ripetevano “faccio quello che voglio!” ed è un’attitudine, il gioco del rapper carismatico che conosciamo bene, nulla di male. Io qui volevo raccontare il lato opposto, quello del senso del dovere che, in un certo senso, caratterizza anche l’età adulta. Scuse, cazzate, dubbi, lutti familiari e la ricerca di soluzioni per far funzionare il tutto. Alla fine, nel periodo di silenzio ho fatto solo quello che dovevo, e non avevo niente da dire. Ad un certo punto dici che eri “troppo avanti”. Dove ti ubichi invece ora? Sei al passo, avanti o indietro? È la classica frase che ci si dice quando le cose non funzionano e suona un po’ come una scusa. Molti nel rap, in alcuni periodi, erano effettivamente troppo avanti rispetto alla platea degli ascoltatori italiani o alla cultura musicale del nostro paese. Il timing di quello che fai conta sempre, puoi provare a calcolare ma poi ci si scontra con le esigenze creative. Ti faccio un esempio, ricordo che io e Maxi B, già nei primi anni 2000, portavamo in giro uno show rap con la band (cosa a cui tenevamo molto, tanto da rinunciare anche ad aprire ai The Roots perché l’organizzazione ci voleva con il Dj) e avevamo fatto diversi concerti con questo set anche in compagnia dei Cor Veleno, anch’essi accompagnati da musicisti. Il loro live era, per impatto, sound ed energia, molto simile a quello di Salmo oggi. Il mio approccio al rap lo definirei classico, con uno sguardo al passato per quanto riguarda le sonorità ma con la voglia di intercettare storie del presente. Sarebbe molto utile avere gli occhi di un camaleonte. Sei sparito per un po’. E sei tornato. In questo lasso di tempo cosa hai trovato di nuovo (negativo o positivo) nella scena? Anche se non ho pubblicato musica ho osservato tutto da dietro le quinte anche perché del rap io ne rimango un fan. Ho lavorato nella formazione con laboratori hip hop, organizzato eventi culturali sul rap e anche collaborato in programmi tv come coach tecnico. Inutile dire che l’attenzione che ha ora il rap è enorme rispetto a prima, e oggi i rapper che spostano molti numeri agiscono come delle aziende. Ovviamente l’impatto digitale e dei social ha modificato pervasivamente il modo di ascoltare e viversi la musica. Dette queste quasi banalità, ti direi che di positivo c’è la totale libertà creativa, perché poi nasce tutto da lì. Anche se io sono un appassionato di vinili e di campionamento e arrivo dalla scuola classica, sono contento che oggi si sia meno prevenuti rispetto alla possibilità di mischiare suoni, generi o sperimentare ritmiche diverse. Di negativo c’è la perdita di quel senso di comunità che, da una parte l’era pre-digitale, dall’altra i numeri più ristretti degli appassionati di rap di un tempo, rendeva la scena rap qualcosa di speciale e un’esperienza fortemente educativa e identitaria… un po’ come sfogliare una fanzine cartacea.

A proposito di fanzine, cosa ne pensi del nuovo modo di fare informazione “sull’Hip Hop” di blogger e profili instagram? Devo dire che non so più orientarmi, è un bombardamento di informazioni, comunicazioni e rilanci di notizie o semplici dichiarazioni che si confondono con il desiderio di visibilità degli artisti mentre il contenuto, ovvero la musica, resta in secondo piano. Non so quanto di questa informazione musicale si possa definire giornalismo di settore. Non sono così esperto, ma mi sembra evidente che il mestiere di giornalista viva una profonda crisi d’identità e di riconoscimento (anche economico). Nel circuito hip hop c’è molta vivacità e questo è positivo, come vedo che diversi blog/siti/pagine IG stanno cercando di trovare strade nuove per approfondire i temi più interessanti. Rispetto al periodo delle fanzine o delle riviste cartacee come Aelle, in cui ho svolto un piccolo ruolo anche io, spero non si verifichi nuovamente quella totale delegittimazione da parte degli artisti che si era venuta a creare agli inizi degli anni 2000 e che, oltre a portare alla chiusura, portò al periodo più duro per la musica rap in Italia. Appassionati che scrivono di rap, giornalisti, come pure le etichette e gli organizzatori di eventi, dai più piccoli ai più grandi, fanno parte tutti di un settore musicale che deve crescere insieme. Perché hai deciso proprio adesso di pubblicare il disco? Semplice, avevo qualcosa da dire. Il disco mi identifica molto e penso che per sonorità e temi trattati si possa distinguere dal resto del sound rap italiano anche a costo di sembrare fuori moda, e non intendo solo rispetto alla trap ma anche alle mode del rap underground. Credo che sia qualcosa di unico che mette al centro il groove. Come mai il titolo Funziona? È una parola che identifica il modo di pensare attuale, nel bene e nel male. Non senti più dire che quella canzone è bella o brutta, emozionante o meno, ma semplicemente che funziona o no. Stessa cosa per le scelte politiche o anche un matrimonio. S i sta perdendo sempre di più la dimensione del giusto o dello sbagliato, tutto ha senso solo se funziona. Chiaramente anche io sono contento quando le cose girano bene ma per molti versi, e vederlo nel mondo creativo ancor di più, far funzionare le cose è diventata un’ossessione che giustifica tutto. Cosa troviamo dentro al disco a livello di contenuti? Su cosa hai puntato e cosa volevi trasmettere? Nel rap si è spesso parlato di temi come la coerenza e l’essere real mentre io sono attratto dalle contraddizioni, mi piace raccontare i cortocircuiti della società e quelli personali, quello che funziona oppure no. In questo disco ho affrontato argomenti diversi, storie in cui mi sono imbattuto come, per esempio l’abbandono dei figli (“Questo bimbo”). Io lavoro anche nel sociale e ogni giorno ascolto e ho a che fare con storie spesso violentissime ma poi, musicalmente, forse perché ne ho bisogno, mi piace passare anche su toni molto più leggeri. Questo può sembrare estraniante all’ascolto e anche un handicap per un musicista perché si può risultare poco identificabili, come sai oggi tutto deve essere facilmente comunicabile ed etichettabile. Qui invece ogni canzone ha una vita propria. E l’idea della copertina come ti è venuta? Chi l’ha realizzata e come si sposa al nome del disco? L’idea mi è venuta guardando una foto apparsa su un giornale locale di Varese e leggendo il titolo. Due ragazzi di colore cercavano qualcosa in un cassonetto di vestiti destinati all’Africa e il titolo tuonava letteralmente: “Stranieri frugano tra i vestiti dei poveri: rubano a chi li aiuta, vanno cacciati”. Mi immaginavo anche il tizio che, scattando quella foto, già pensava a inviarla al giornale per fomentare il tutto. Insomma, un vero cortocircuito, per non dire che uno dei giovani lo conoscevo bene ed era un richiedente asilo arrivato da poco in Italia (poi riconosciuto titolare di permesso) e che mi disse: “perché buttate quei vestiti? A me sembrano belli”. Direi che “Funziona”, di conseguenza, era la parola perfetta per sintetizzare questo quadro assurdo. La foto è stata scattata da Giacomo Infantino, giovane fotografo di talento di Varese mentre l’artwork è di

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Samuel Re. Nella foto appaio io di schiena e due ragazzi di cui uno è l’ex richiedente asilo mio amico. Quali sono, invece, esempi di cortocircuiti se parliamo di Hip Hop? Quello più classico si ripete ciclicamente con i nuovi rapper. Vengono fatte loro critiche feroci di cui si alimentano per rilanciare la propria comunicazione e creare così un cortocircuito a loro vantaggio. Io personalmente riesco ad apprezzare anche la trap, basta che il rapper faccia le rime. Mi approccio a quelle canzoni come alla visione di un film, ad esempio uno di Tarantino. Non mi chiedo quanto le esperienze raccontate siano vere, verosimili o fantasiose. Se sai raccontare una storia in rima e con stile per me è sufficiente. Non credo neanche che influenzino più di tanto i giovani ascoltatori. Fortunatamente conosco, per esperienze quotidiane, la realtà di molti ragazzi giovanissimi e anche il tema dei consumi di sostanze, per quanto pericoloso, è molto ma molto inferiore rispetto a quello raccontato nelle canzoni rap. La sonorità del disco è preziosa. La sua varietà, la qualità: chi c’è dietro a produzioni, arrangiamenti e post produzione? Tutta la musica è stata realizzata da me e Mauro Banfi, compositore e pianista di formazione jazz che, dopo 15 anni di vita a Londra, è rientrato per stare a Varese. Fortunatamente per me, perché mi ha spronato nel concretizzare questo lavoro e, insieme, abbiamo curato gli arrangiamenti, lo sviluppo di intere strumentali come anche l’aggiunta dei suoni e delle note giuste per rendere più musicali anche quelle basi nate dal mio campionatore. Anche il batterista varesino Marco Mengoni ha contribuito in alcune tracce e questa cosa di collaborare con dei musicisti ha permesso di rendere più caldo il suono di Funziona. Il tutto è stato poi mixato al 2Moros Studio di Gallarate (Va) dall’amico Emanuele Mocchetti, già fonico di Johnny Marsiglia e molti altri.

Come ti sei regolato invece per le collaborazioni? Quella con MaxiB era scontata (in senso positivo!).. Ci sono solo due collaborazioni: Maxi, appunto, e Dailom, giovane rapper delle mie zone. Amici principalmente. I pochi featuring sono stati una scelta perché era giusto farsi risentire con un progetto il più personale possibile, che poi è il consiglio che suggerisco ai giovani rapper al loro primo demo/disco… esci tu, deve arrivare la tua personalità e la tua storia. Comunque non è detto che in futuro non torni a collaborare con qualcuno: fortunatamente ho più di due amici (ride, n.d.r.) Ti aspetti che le persone capiscano un disco come il tuo? Per ora è stato capito più di quello che immaginassi, l’insieme del progetto è sicuramente arrivato e mi manca molto non poterlo suonare dal vivo con la band perché la dimensione rap live con i musicisti è perfetta per rendere il messaggio di questo disco. Chiaramente so che è un progetto diverso dal sound del momento ma sono stato felicemente sorpreso nel sentire passare il singolo “Funziona” in rotazione in alcune radio durante questi mesi estivi. Ci dici qualcosa sui videoclip che hai fatto uscire e se hai intenzione di pubblicarne altri? I videoclip nascono principalmente da alcune mie idee, poi mi piace coinvolgere persone e realtà della mia zona. Una delle cose che mi ha insegnato l’hip hop è quella di crearsi un team con cui sviluppare la propria creatività e crescere artisticamente insieme. Sono tutti stati girati da Lab Zero, una crew varesina che collabora anche con Massimo Pericolo. Ragazzi che conosco da molto e che hanno coraggiosamente investito nel videomaking e con cui vorrei continuare a produrne altri. I miei non sono video ad alto budget e, alcune volte, basta una bella fotografia come nel video di “Niente da dire” per far stare in piedi tutto. È l’idea che funziona.




La prima e - a memoria - unica volta in vita mia che mi son trovato a parlare di fronte a una platea di b-boy certificati, è stato a Ravenna, in occasione dell’evento di apertura dell’Under Festival 2017; una tavola rotonda fra giornalisti di settore, nella quale il mio ruolo era quello del pesce fuor d’acqua, ma è stato proprio lì che - per dirne una - ho conosciuto il direttore di questa rivista. Durante quella chiacchierata pomeridiana fra colleghi, essendo il meno b-boy di tutti, ho pensato bene di peggiorare la mia situazione facendo pure il professorino, così da rendermi subito il più antipatico possibile. Insomma, già che c’ero ho chiesto quante persone in sala - fra colleghi e platea - avessero ascoltato l’album di Steve Lehman & Sélébéyone uscito qualche mese prima. Mi pare fossero 2 o 3 in tutto, me compreso, e trattandosi di un disco molto bello (valutazione soggettiva) realizzato da un paio di rapper anti-convenzionali insieme al jazzista più blasonato di quegli anni (dato ai limiti dell’oggettivo, vedi oltre), la misconoscenza dell’album in questione presso quel campione di pubblico dell’hip-hop che avevo di fronte ha confermato sospetti che ruminavo da tempo. E cioè che il mondo della musica, nel quale si predicano le virtù della santa contaminazione ad ogni piè sospinto, è in realtà sempre più frantumato in nicchie autoreferenziali, che fondamentalmente non si parlano, alla faccia della retorica del “mondo sempre più piccolo e connesso”. I motivi sono sommariamente due. In primo luogo esce semplicemente troppa musica per poter stare appresso a tutto. In seconda battuta, i sistemi di streaming che monopolizzano il mercato hanno l’interesse esclusivo a mantenere connessi gli utenti. E il modo migliore per farlo è propinare all’ascoltatore grossomodo sempre la stessa musica, così da andare a colpo sicuro, con il bel risultato di non mettere mai minimamente in discussione i gusti già acquisiti e meno che mai sollecitare l’apertura di orizzonti esplorativi nuovi. Questa dinamica trova purtroppo terreno particolarmente fertile, visto che affonda in un dato storico relativo ai “generi musicali”, che hanno fatto la fortuna dei discografici, interferendo però con la percezione dello sviluppo della musica stessa. Per non tediarvi, mi limito a un esempio: i “race records”, ossia gli antenati delle classifiche r’n’b e hip-hop. Furono inventati da qualche discografico che comprese, negli anni ’20 del secolo scorso, che per meglio vendere la musica bisognava indirizzarla verso categorie sociali precise; bisognava, in altre parole, inventare prima il pubblico, per poi vendergli i dischi. E così, la discografia finì per separare - attraverso le categorie “race” e “hillbillie”; neri vs bianchi - quello che la storia e la condivisione di un destino gramo aveva unito nel corso del XIX secolo: la musica degli schiavi americani di colore (che aveva radici ovviamente in Africa) e quella dei braccianti e minatori bianchi delle campagne e delle colline (che aveva invece un retaggio europeo: per lo più gighe britanniche, ma anche la polka mitteleuropea e il valzer francese della Louisiana cajun; persino lo yodel svizzero, marchio di fabbrica della prima country-music). Chiaramente, le origini di quelle musiche erano geograficamente distinte, ma tutto quanto si era mescolato (il banjo, simbolo della bianchissima musica bluegrass, viene dall’Africa…) fino ai primi del ‘900, quando la discografia pensò bene di ri-distinguerlo per venderlo meglio. Venendo a noi, il jazz e il rap hanno vicende distinte, ancorché riconducibili entrambe al grande e un po’ confuso calderone della c.d. “black music”, ma è arcinoto quanto i due linguaggi sia siano fusi più volte, nel corso della storia evolutiva dell’hip-hop, basti pensare all’opera di campionamento sul corpo di storiche registrazioni jazz che ha innervato il lavoro di un Madlib, ma prima ancora l’epopea newyorkese della Native Tongue e degli A Tribe Called Quest in particolare. Nel nostro presente, la scena musicale che ha mescolato le prassi, le tecniche produttive, i suoni e gli immaginari del rap e del jazz nel modo più efficace è quella riconducibile a collaboratori di Kendrick Lamar come Thundercat e soprattutto Kamasi Washington, un po’ frettolosamente eletto a “John Coltrane” della nuova generazione, proprio da un pubblico che probabilmente mastica il rap più disinvoltamente del jazz. Nulla da dire sull’abilità strumentale e la passionalità del sassofonista, ma forse molti non immaginano che il buon Kamasi venga considerato con sufficienza, o poco più, all’interno degli ambienti del jazz di oggi. “I soliti snob” diranno subito in molti, e almeno in parte non c’è dubbio che sia così. Però un po’ più di curiosità avrebbe permesso, ad esempio, a chi condivise con il sottoscritto il sopraddetto evento di apertura

dell’Under Festival 2017, di scoprire che quello Steve Lehman di cui chiedevo al pubblico era il musicista più osannato dalla critica jazz in quel momento. Nel 2014 l’album Mise en Abîme, secondo parto dell’ottetto messo insieme da Lehman qualche anno prima, aveva letteralmente sbancato le classifiche di fine anno di pressoché ogni testata critica di orientamento jazz, con un’unanimità di giudizio raramente registrata. E quindi, il fatto che il jazzista più blasonato del momento se ne uscisse adesso con un album rap, beh, avrebbe dovuto alimentare almeno un po’ di hype, ne converrete. E invece niente: il progetto Sélébéyone di Steve Lehman è rimasto confinato nella nicchia del jazz, diversamente da un Kamasi Washington che mieteva consensi in platee ben più ampie. Questione di marketing? Certamente sì, visto che quando collabori con un Kendrick Lamar all’apice della popolarità te ne avvantaggi per forza, ma è non tutto. A giocare un ruolo chiave a favore di Kamasi è stato quel vago esotismo che un pubblico poco avvezzo alla materia jazz ha percepito provenire dai solchi dell’enorme triplo album del crinito sassofonista. I riferimenti stilistici dell’uomo si situano infatti con una certa precisione nell’epoca dello spiritual jazz di John Coltrane & consorte e di Pharoah Sanders, una stagione intrisa di epica (siamo a fine anni ’60, dopo il turbolento decennio del free-jazz che contribuì alla colonna sonora del movimento anti-segregazionista), il cui immaginario suggestiona molto ancora oggi. Possiamo tranquillamente affermare che dalla metà degli anni ’70 in poi, il jazz si è progressivamente rinchiuso in una nicchia autoreferenziale, che non ha saputo veicolare narrazioni e immaginari al di là del proprio recinto. Ma, anche se in pochi hanno seguito questa serie, il jazz è andato avanti e ha sviluppato nuovi linguaggi, nuovi approcci e nuove sonorità. E Steve Lehman è stato, un punto di riferimento imprescindibile per il nuovo jazz. Non vi tedio descrivendovi cosa troverete nella musica del progetto Sélébéyone (un solo disco omonimo uscito nel 2016 sul prestigioso catalogo Pi Recordings), vi basti sapere che Lehman è uno che già prima di allora aveva flirtato con ritmiche al limite della drum’n’bass (su Dialect Fluorescent del 2012) e più di recente ha pure coverizzato, magnificamente, l’elettronica glaciale degli Autechre (su The People I Love, 2019). Co-protagonisti di Sélébéyone, sono due rapper: il senegalese Gaston Bandimic (che canta in swahili) e il newyorkese HPrizm / High Priest, già membro dei formidabili Antipop Consortium, che a cavallo del nuovo secolo anticiparono un’operazione simile con Antipop Vs. Matthew Shipp, esperimento cospirato dal gruppo insieme al pianista Matthew Shipp, che a quel tempo (siamo nel 2003) stava ponendo le fondamenta per una moderna variabile dell’avant-jazz che tenesse conto anche dell’hiphop. Quell’operazione non arrivò alle masse, ma High Priest è uno che con i cervelli più spregiudicati del jazz collabora volentieri, visto che sempre nel 2016 l’abbiamo ritrovato anche negli Illtet, sempre con un secondo mc (Mike Ladd, veterano esploratore di letterari territori di confine) e due jazzisti doc come lo straordinario batterista Tyshawn Sorey e Jeff Parker, chitarrista chicagoano che in tempi recenti è tornato sulla cresta dell’onda proprio ibridando il suo delicato guitar-jazz con campionamenti e prassi produttive scippate all’hip-hop. Tornando a Lehman, ad affiancarlo sul piano compositivo e produttivo nel progetto Sélébéyone c’è il misconosciuto sassofonista Maciek Lasserre, cultore della scena rap del Senegal e leader del progetto Magic Malik Fanfare XP, appena uscito con un secondo album che rinnova una vena originale e in particolare un certo gusto nel replicare dal vivo l’effetto del loop. A completare la squadra di Sélébéyone sono il bassista-turnista Drew Gress, il pianista Carlos Homs e il batterista Damion Reid, che già nel 2007 ricoprì un ruolo cruciale nella realizzazione dell’album Blue Note In My Element del pianista Robert Glasper. In quel fortunato e seminale album, Damion Reid fu particolarmente abile a replicare efficacemente, con il suo drum-set, i beat del geniale J-Dilla. A proposito di Glasper, il pianista è uscito da qualche mese con un disco molto r’n’b partorito in featuring con Kamasi Washington. Così, per chiudere un altro cerchio e constatare che il mondo è un posto piccolo. Così piccolo che le recinzioni di genere e settore servono più che altro per inciamparci dentro.

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Sono stata molto felice quando mi è stato assegnato Moder. Prima di tutto è un artista meritevole. Con un grande talento. In più è Romagnolo e aver parlato con lui mi ha riportata un po’ a casa. Oggi il ricordo di non poter uscire di casa è ormai svanito. Ma quando io e lui abbiamo iniziato questa intervista in Italia eravate nel pieno della pandemia e in Inghilterra avevamo appena iniziato. Ci sentiamo poi, il nuovo disco di Moder, è meraviglioso. Se non l’avete ancora fatto vi consiglio di ascoltarlo e mi auguro con tutto il cuore che si riesca presto a tornare a fare serate e jam e che questo gioiello di rap possa essere presentato live come merita. Nel frattempo leggete l’intervista e godetevi le vibrazioni di Moder! Moder la mia intervista arriva in un momento che definire particolare è poco, quindi ti ringrazio molto per essere qui. Non posso non chiedertelo, tu come la stai vivendo? Come padre, come uomo... Parto dal presupposto che ringraziando Dio la mia famiglia e i miei amici stanno bene. Le mie bimbe mi tengono impegnato e devo dire che anche il disco sta andando molto bene quindi non mi posso lamentare. Mi sento un miracolato e spero che chi sta soffrendo possa presto stare meglio. Buttiamoci sotto col tuo disco allora. So che avevi dei concerti primaverili per lanciarlo. Stai già pensando a come provare a ripromuoverlo una volta che tutto questo sarà finito? Certamente Ci sentiamo poi merita tutti i live che riuscirò a fare. Io mi sono letteralmente innamorata di “Bimbi Sperduti”. Come è nato questo pezzo e la collaborazione? Molto naturalmente. Scrissi la prima strofa e pensai subito a Claver, gli mandai un vocale dove la rappavo e lui dopo una settimana mi mandò la strofa. Mi sono sempre sentito un bimbo sperduto e conoscendo bene Daycol so che anche lui fa parte del gruppo. Credo sia il primo pezzo che ho scritto per il disco. Come mai hai chiamato questo disco Ci sentiamo poi? Il titolo ha la duplice valenza. Per primo di una telefonata notturna che continua notte dopo notte e quindi ci sarà sempre un poi. L’altra lettura è quella di un saluto sbrigativo “perché devo inseguire questa roba e chi come me ha scelto questo sa a quante cose tocca rinunciare”. “Ci sentiamo poi” è un arrivederci o forse un addio mascherato da arrivederci. Curiosa anche la copertina: chi l’ha curata e cosa rappresenta simbolicamente? La copertina è stata magistralmente costruita da Nicola Varesco. Nicola è un amico ed è riuscito a mettere insieme tutti i simboli che ritrovi nei miei pezzi: la solitudine, la palude (reale e culturale), il lavoro, la nebbia che si nasconde e abbraccia, la voglia di rivalsa. Una cabina telefonica in mezzo all’acqua è una metafora potentissima del senso dell’artista nel mondo di oggi. Cosa c’è di diverso rispetto al tuo primo disco ufficiale 8 Dicembre? Tranne l’autore, tutto! Dalle strumentali ai temi. 8 dicembre racconta un lutto che mi ha cambiato per sempre, una sorta di concept album. Ci sentiamo poi è un mosaico di canzoni. Ho studiato molto e mi sono evoluto per affinare il mio fare musica, ho scelto di mettere ogni aspetto che abita nella mia testa. In questi due progetti l‘unica cosa che ritorna è la sincerità. Non mi sono tenuto niente: ogni frase e ogni immagine non è stata pensata a tavolino è parte di me in entrambi i lavori. In questi quattro anni quali sono le cose che ti hanno cambiato e che hanno inciso quindi nella creazione del disco? Le mie figlie, la musica che ha iniziato a darmi più di quello che immaginavo. Crescere è una guerra e le ferite non hanno il tempo di guarire, credo che in fondo“Ci sentiamo poi parli di questo. So che gestisci il Cisim a Lido Adriano. Ci spieghi esattamente cosa fate li e di cosa ti occupi tu? Ci occupiamo di una miriade di cose: concerti, laboratori, workshop,

incontri letterari, teatro, mostre, festival, dj set. Io curo la direzione artistica, e insieme a Federica e Max costruisco la fase organizzativa. Siamo un trio affiatato che ha passato varie tempeste. In base a cosa chiami le persone a suonare? Come scegli chi viene o chi no? Il criterio è sempre artistico, unito alla comunità con la quale voglio dialogare. Credo nei percorsi e nel costruire discorsi attraverso le scelte che metto in campo. Spesso si pensa che una serata sia solo un modo per trovarsi ma non è così. Molti (rapper soprattutto) pensano ci sia sempre spazio e modo per suonare ma ogni scelta è frutto di ragionamenti lunghi e attenti. Nel Rap spesso si perde di vista l’aspetto spettacolare di una serata con esiti anche disastrosi; e alcune proposte live che vedo in giro, soprattutto nel rap, sembrano sfilate presenzialiste. Ritengo invece che sarebbe opportuno fare un passo indietro e rispettare il palco. Ad esempio quali criteri artistici? Puoi fare un esempio concreto rispetto a una serata che hai organizzato? Le mie scelte artistiche sono sempre state dettate da vari fattori: l’ampiezza dell’immaginario, la preparazione tecnica, l’unicità della proposta unita a quel fattore inspiegabile che lega artisti in apparenza distanti tra loro. Purtroppo i rapper credono spesso che basti infilare una 16 a tempo per definirsi artisti…. non è così, e chi pecca di poca umiltà e senso critico spesso non riesce a migliorarsi. Potrei citare vari esperimenti, penso ad esempio alla combo Murubutu, Succi (cantautore della scena indipendente); in quella serata particolare ho voluto avvicinare due penne e due timbri distanti nel genere musicale ma che per me risuonavano su territori affini. Oppure basta guardare un “Under festival” dei sette programmati. Ho sempre mescolato linguaggi e generazioni negli anni e alcuni degli artisti che abbiamo chiamato sono diventati patrimonio nazionale: Willie Peyote, Fastcut, Claver Gold, Leslie, William Pascal, Drimer e tanti altri. Ho sempre cercato di mescolare storia e futuro. Niente di nuovo, me lo ha insegnato l’hip hop. Quest’anno, per esempio, nella serata con R.A. the Rugged Man avevo chiamato Barracano e Silent Bob, rapper non “classici” in senso sonoro ma che hanno molto da dire. Sei stato uno dei primi ad aver introdotto quelli che si chiamano corsi o workshop legati all’Hip Hop. Ci racconti questa cosa come è nata anni fa e a chi ti sei ispirato? Mi sono ispirato alla “Non scuola”, laboratorio teatrale del Teatro delle Albe: una importantissima compagnia di Ravenna. I loro laboratori lasciano molto a chi li frequenta. L’idea è venuta da li. In anni ho assestato il metodo: pratica, ascolto e confronto sono alla base dei miei laboratori. Volevo restituire quello che ho imparato a chi è più piccolo di me, mi pareva necessario. Odio gli artisti che si chiudono in una torre d’avorio, mi piace lavorare e sudare insieme agli altri per un obiettivo comune, e quale obiettivo è più importante di migliorarsi. Secondo te quanto è importante la poliedricità negli interessi quando poi si parla di musica? Fa la differenza avere diversi background, passioni, eccetera? Io ho sempre creduto nell’immersione in altre forme d’arte, cerco sempre qualcosa che possa spingermi fuori dai miei binari, sia letteratura, fumetto, arte visiva, cinema. Credo che ad ognuno di noi serva guardare altri punti di vista. Certo, il tuo discorso è assolutamente chiaro. E lo condivido. Ma la mia domanda era in realtà incentrata sulle passioni personali di una persona e su quanto facciano la differenza quando si traducono in arte, in rap. Credo che un ragazzino che non fa nulla nella sua giornata abbia molto meno da dire rispetto a uno che va al centro sociale, legge, segue la politica e ha passioni. Al di là dell’uso dei social network. Ad esempio, quali sono le tue opere teatrali preferite? In realtà non sono esperto. Il teatro è un mondo vasto e complesso. Per citarne alcuni sicuramente “Morte di un commesso viaggiatore”, “Sterminio” delle Albe e “Kohlhaas” di Marco Baliani.

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Se tu fossi un personaggio di una famosa opera teatrale chi saresti? E perché? Forse Amleto, per il continuo pensare che diventa nevrosi. In questo preciso momento storico che ruolo hai nella scena Hip Hop in Italia? Alla luce di quello che hai detto…. Non saprei. In queste cose il ruolo devono darlo altri, sicuramente “esisto” sulla scena e questo non è poco. Cerco di mordere ogni centimetro che riesco un passo alla volta. Devo dire che non mi aspettavo che la gente iniziasse a seguirmi. Non mi ero fatto particolari aspettative quando ho iniziato la carriera solista. Continuo a sentirmi come un panchinaro a bordo campo che si riscalda, in attesa del cambio. Ascoltando il tuo disco ho avuto la sensazione che vivi fra il voler scappare e il voler restare. Cosa ti lega li dove sei, cosa ti proibisce di andartene? In realtà nulla mi proibisce di andarmene, la voglia di scappare è il senso stesso dell’arte: evasione. L’arte può provare a cambiare il mondo o a costruirne di nuovi. Non può prescindere da questo. Questi paesaggi li ho nelle vene, oltre al fatto che per tutta la vita ho provato ad avere un ruolo attivo nella mia comunità per migliorarla, ora che me lo sono ritagliato scappare sarebbe da traditori: credo e crederò sempre nella provincia. Anche contro tutti. Ma devo poter credere che esista una strada possibile e se non c’è proverò a costruirla.

Lato Oscuro della Costa non ho trovato collettivi altrettanto forti. Anche per tutto quello che avete fatto e dato. Riesci a screditarmi? Chi sono i “forti” (e non parlo solo di rime!) oggi a Ravenna? Quali crew suggerisci? “Il lato oscuro della costa” è stato un caso unico. Un gruppo vero e proprio. Eravamo così determinati e ingenui ma soprattutto passavamo il nostro tempo in sala prove o in studio. Eravamo amici e il rap era tutto. Oggi casi come noi sono difficili se non impossibili da trovare. Praticamente è cambiato tutto e i gruppi o le crew sono molto rari. A Ravenna però è pieno di ragazzi giovani fortissimi: Dosher, Nox, Y0, Sikox, Mughen, Lady Skull, Psichedelia, Ered, Anima, Deeso, Scar. Andando su quelli un filo più grandi impossibile non citare i Commando Nuova Era, un gruppo di pazzi veri, Lord Assen, Bigrule, Turatoro, Malestremo e Keo. Ecco dispiace che a Ravenna e in Romagna molti non siano riusciti a oltrepassare davvero i confini regionali. Cerco di rappresentare la mia città finché riesco, avendo la fortuna di poterla portare in tutta Italia.

“Assassini” per me è un’altra opera d’arte contenuta nel tuo disco. Sento la miseria. Il marcio. Questo pezzo in particolare lo hai scritto di getto o ci hai dovuto lavorare su? Questo pezzo è nato in fretta in una notte. Nella registrazione ho aggiunto i cambi tonali e il bridge. Si, è un pezzo che mi è uscito quando mi sono sentito circondato dalla mediocrità di questo tempo: non vedo una via d’uscita a questa situazione. Bisogna curare le sacche di resistenza che sono l’unico modo di respirare se no è finita. In generale come nascono i tuoi pezzi? Il lavoro nei miei pezzi spesso è precedente alla scrittura. Ascolto per mesi le basi, mi ci perdo dentro, studio i flow, la voce e la linea melodica che voglio utilizzare. Quando il quadro “musicale” della strofa mi è chiaro inizio a trasformare quelle idee sonore in parole e concetto cercando di tenere in equilibrio la forma e il contenuto. Sono inoltre molto attendo a ciò che riesco a “vedere”, alle immagini che i pezzi mi provocano. Se ciò che scrivo non si traduce in immagini che entrano nella mia testa ascoltando la canzone la strada è sbagliata e ricomincio da capo. E il lavoro che fai con Duna invece? Con lui come “lavori”? Io e Duna partiamo dai miei provini e proviamo a farci venire in mente come rendere il pezzo in esame al meglio. Ci scriviamo appunti di viaggio poi iniziamo ad arrangiare, spesso chiamiamo musicisti ad aiutare i nostri viaggi. Questo ci porta via più tempo ma per ora ci ha reso davvero orgogliosi. Questo disco è la tua vita. La cosa che vorrei sapere se la tua vita ti fa schifo o in fondo ti piace? La vorresti diversa? Cosa toglieresti? Cosa terresti? La vita non si sceglie, si vive. Tutti cambieremmo molte decisioni, atteggiamenti, ma io credo non valga la pena pensare a cosa è stato quando si può fare qualcosa ora per essere soddisfatti. So che non tutto è giusto, spesso soffriamo senza un motivo valido, e siamo costretti a convivere con un terrore così forte da togliere il fiato. Se mi ripenso a dodici anni senza un soldo, senza padre, con un futuro da tossico o da alcolista inciso nel domani, capisco che niente è prevedibile. Quel dodicenne però rideva e sputava su tutto e credo avesse ragione in qualche modo, io provo a seguire il suo esempio. Concludo con una mezza critica. Onestamente a Ravenna dopo il

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Il Corona Virus ha svuotato le strade, abbassato le serrande, chiuso in casa le persone ma non è riuscito a spegnere certe passioni. A Verona nel giro di poche settimane sono stati raccolti 36 pezzi in un mixtape di 100 minuti, la fotografia di una città che ha voglia di emergere, vecchia e nuova scuola insieme, aldilà dell’età e dello stile. Ne abbiamo parlato con tre dei protagonisti, DJ Teo, Sonbudo e Slowletti, ai quali poi si aggiungerà, in zona Cesarini, Kevin Haze.

mondo da Flasha, MC/Produttore veronese, ma soprattutto un amico. Erano i tempi di MTV Spit, avevo 13-14 anni e quella cosa del freestyle mi ha letteralmente sconvolto. Ho iniziato senza sapere nulla o quasi, con un paio di amici del quartiere abbiamo cominciato a partecipare a varie battle, al “Time Out” prima e poi al “One to Six” di OldMan, uno che ha spinto tantissimo la faccenda e al quale va tributato un grosso merito per ciò che è oggi Verona per quel che riguarda l’Hip Hop.

Da dove parte l’idea di Verona Sveglia? Sonbudo: l’idea originaria nasce da molto lontano, intorno al 2005, doveva essere un solo pezzo che in realtà non fu mai pubblicato, così come tutto il mio primo demo, “Via Montorio 18”. Erano anni piuttosto bui per l’Hip Hop in generale, la scena si era ristretta ai minimi termini, ma nonostante questo cercai di organizzare delle serate per unire le varie realtà della città che fino a quel momento non avevano mai collaborato, per una sorta di antagonismo che non aveva alcun senso. Gente che ai tempi si stava sul cazzo solo per sentito dire, assurdo. Nel 2008 aprii il “Cube Studio” insieme a Capstan e nel 2010 finalmente vide la luce la prima compila, a cui seguì due anni dopo il Volume Due. La terza, che idealmente sarebbe dovuta uscire nel 2015, in realtà rimase bloccata in seguito alla dolorosa e inaspettata chiusura del nostro studio. DJ Teo: all’inizio di questa quarantena, dopo una serie di dj set trasmessi live su Facebook, mi rendo conto che c’era un certo interesse, così contatto Budo e gli chiedo se ha qualche pezzo inedito da spingere. Da li creo la chat su WhatsApp e in un attimo la cosa letteralmente esplode. Hanno risposto all’appello sia i nomi storici della scena veronese, tipo Zampa, Jap & Paggio, Capstan, Flasha, Peter o Tripla B, dando quindi una sorta di continuità con i precedenti due volumi, ma anche le nuove leve della nostra città, come Slowletti, Elaine Suarez, Kevin Haze, QuintoErre, Hypnosia, ecc.

Progetti futuri? Ci sarà un seguito al MixTape? Live? Sonbudo: nascerà presto un’etichetta alla quale stiamo già lavorando, creando un rooster di artisti meritevoli da spingere in ambito Rap, R’n’B e Urban, per chi ha voglia di fare le cose seriamente. Per quanto riguarda invece il Mixtape deve essere visto come un trampolino di lancio per i vari artisti, quindi ora tocca a loro, o meglio a noi! DJ Teo: per l’aspetto live al momento purtroppo siamo fermi per le disposizioni ministeriali, speriamo si sblocchi presto la situazione perché le idee non ci mancano. Personalmente la mia idea nei prossimi mesi è di fare un nuovo mixtape. Slowletti: Io dopo aver pubblicato il mio primo progetto, l’EP “Della Scala” voglio continuare a lavorare sui miei pezzi, magari approcciandomi anche alla produzione, visto che suono la chitarra e strimpello un po’ il piano. Voglio fare un disco che rappresenti ciò che sono, il mio quartiere e la mia città.

Cosa vi ha spinto alla realizzazione di questo progetto? Sonbudo: volevamo unire idealmente Verona, città e provincia, dall’alto Lago di Garda fino all’ultimo paese della Bassa, dimostrando che nella nostra area i talenti non mancano e meritano spazio. DJ Teo: alcuni hanno dato pezzi già editi, altri hanno scritto appositamente per l’occasione. Mi sono ritrovato con un sacco di materiale tra le mani che ho mixato a dovere, montando l’intro e inserendo gli skit tra un brano e l’altro, dando così una continuità tra i pezzi che alla fine funziona, lo testimoniano i dati che abbiamo ricevuto dalle varie piattaforme digitali. Una delle cose che mi rende più orgoglioso è di aver unito generazioni diverse, da chi faceva il rap già nei Novanta a chi a quei tempi non era nemmeno nato, come lo stesso Slowletti. Dove avete registrato tutti i pezzi? Sonbudo: ognuno ha registrato per conto proprio, non avendo al momento la possibilità di farlo in uno studio tutto nostro, ma a breve dovremo risolvere anche questa lacuna, sono infatti quasi pronto ad aprire un mio studio in casa, con l’obiettivo di farlo diventare un punto di riferimento. Difficile far convivere diverse generazioni nello stesso progetto? DJ Teo: alla fine non particolarmente, ognuno ha la propria età e la propria storia, un proprio gusto musicale, ma c’è qualcosa che ci accomuna tutti, ed è l’amore per l’Hip Hop. Da dove nasce questa passione per l’Hip Hop? DJ Teo: la mia storia con l’Hip Hop nasce a metà degli anni 80 vedendo il video di “Walk This Way” dei Run DMC, gli scratch di Jam Master Jay mi convinsero che volevo fare quella roba nella vita. Convinsi i miei a regalarmi i piatti e da quel momento non ho più smesso di posare puntine sui vinili. Cominciai a frequentare lo storico locale “Metrò”, un vero must in quegli anni per i veronesi, girando con Double D, MC delle Scosse Verbali, uno dei primi gruppi rap in assoluto della nostra città. Sonbudo: al Metrò c’eravamo noi di Zona 34 che iniziavamo a fare la breakdance, per poi poco più tardi provare a scrivere le prime rime, grazie anche allo stesso Teo che ci insegnò ad andare a tempo, cosa tutt’altro che scontata. Slowletti: io sono un classe ‘98 e sono stato tirato dentro in questo

Cosa vi spinge a scrivere? Slowletti: è sia un modo per esprimere quello che provo, ma anche per dare voce a chi non ne ha. Ma soprattutto credo che quello che scrivo, che venga fuori in 15 minuti o in un mese, debba rappresentarmi al cento per cento. Sonbudo: per me è un modo per vomitare, concedetemi il termine, tutto ciò che ho dentro. Lo racconto anche in Finalmente, il mio primo vero album ufficiale, per me è fondamentale credere in se stessi e non perdere tempo, cosa che purtroppo è capitata fin troppo in passato. La cosa più preziosa che abbiamo è proprio il tempo, sfruttarlo il meglio possibile per fare ciò che ci piace. Ma soprattutto il concetto principe per me è andare a tempo, sul beat e nella vita. DJ Teo: pur essendo prettamente un DJ, anch’io ho sempre scritto tantissimo e scrivo testi, ma non mi ci vedo al microfono, e credo non avrebbe senso nel rap scrivere per altri. Quale artista/gruppo italiano/americano vi ha ispirati maggiormente? Slowletti: io arrivo dal rock e il metal, suonavo la chitarra e uno dei primi album che mi ha colpito di brutto è stato The Island Chain Massacre di Salmo. Ma anche Stokka & MadBuddy con Block Notes. Senza dimenticare Turbe Giovanili, ascoltato fino alla nausea. Per gli States ti dico due nomi: Big L sicuramente e, per le liriche, Guru, il disco “Moment of Truth” credo di averlo consumato. Sonbudo: per me Sangue Misto e tutta la scuola bolognese in Italia, mentre per quanto rigurda gli Stati Uniti i Cypress Hill. DJ Teo: credo che l’artista più forte che abbiamo qui in Italia, come scrittura e flow, sia Tormento. In America senza dubbio 2Pac, al pari di Rakeem, che per me rimane il prototipo dell’MC. In Verona Sveglia 2020 c’è proprio Tormento come guest nel pezzo con Freddie, dovendo scegliere un artista per una prossima collaborazione? Sonbudo: Claver Gold e Moder. DJ Teo: io sceglierei Maxi B, uno dei rapper più sottovalutati in Italia, oppure Hyst di Roma. Ma anche Claver Gold e Murubutu che con “Infernum” hanno tirato fuori un album pazzesco. Un artista veronese su cui scommettereste per il futuro? Sonbudo: sono in tanti a meritare spazio, se devo fare due nomi dico Slowletti (e non perché è qui con noi!!!) e Elaine Suarez. DJ Teo: anch’io dico Slow e Suarez, ma aggiungo anche Tripla B che ha tutto per sfondare. E poi segnatevi questo nome: Kevin Haze, uno stile che si differenzia da tutti, il pezzo che chiude questo mixtape “Ro La La” è solo un assaggio... è giovane e deve provarci.

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Non partiremo sicuramente dalla tua storia, o almeno non ora, magari in seguito ti domanderò sicuramente qualcosa, ma sicuramente per iniziare mi preme di conoscere la scintilla che ti ha portato all’incontro con la cultura, e di conseguenza la scelta di fare del breaking la tua vita, o buona parte di essa. Non vi racconterò, come già fatto in passato in altre occasioni, tutta la storia di come sono venuto a conoscenza di questa cultura, ma solo cosa ha innescato l’incendio dentro di me, che dopo quasi 30 anni ancora non si è placato, che mi ha fatto pensare “ecco io voglio fare questo”. La passione è nata grazie a mio fratello Luciano (RIP), che era amante di questa cultura già negli anni ‘80 e un giorno mi portò con sé ad una jam a Zurigo (nonostante avessi solo 13 anni!!). All’improvviso si aprì un cerchio e dei bboys iniziarono a ballare, ma ciò che catturò più di tutto la mia attenzione fu la visione di questo ragazzo spagnolo, che iniziò a fare qualche giro sulla testa (solo dopo scoprii che il passo si chiamava “Headspin”) e pensai “Wow…questo lo voglio fare anch’io…!!” Rimasi letteralmente folgorato e da lì la mia vita cambiò letteralmente. Continuerei sull’onda dei ricordi, hai recentemente postato sui tuoi social un video del 1997, e francamente sembrano altri tempi: cosa ti ricordi di quegli anni? Immagino comunque che siano stati anni di condivisione e anche di scoperta del mondo, inteso come culture diverse… Se chiudo gli occhi per un attimo e salgo sulla “DeLorean” mi ritrovo negli anni ‘90 e rivedo tante di quelle situazioni passare come dei flash. Erano tempi diversi, molto più grezzi e genuini a mio parere. A differenza di oggi le informazioni non erano a portata di un click, ma dovevi andartele a cercare, nel vero senso della parola…ovvero zaino in spalla, macchinata di amici e si partiva per viaggi in giro per l’Italia e per l’Europa e a volte anche oltre Oceano. La cosa che mi piaceva di quegli anni era proprio poter viaggiare e conoscere le persone, cosa che ovviamente puoi fare anche ora, ma prima non avevi alternativa se volevi conoscere i codici di accesso di questa cultura. Lo scambio d’informazioni, difatti, avveniva solo di persona in persona e quindi in pratica si era come dei social ma viventi (ride, n.d.r.) Ogni volta che tornavo da un viaggio, avevo appreso qualcosa di nuovo e non vedevo l’ora di condividerlo con gli amici che non erano stati con me. Ricordo, ad esempio, in uno dei viaggi a Parigi, dove allenandomi con altri bboys a Les Halles appresi la tecnica di una nuova move di Breaking (Air Flare per intenderci) e fui tra i primi poi a farlo in Italia… Eravamo nel 1999. Ricordo come al rientro, cercavo di “tramandarla” ad altri facendo quello che ora sarebbe magari un bel tutorial di YouTube! E poi al di là del ballo, appartenere ad un movimento culturale in quel periodo permetteva di venire a contatto con così tante persone diverse, culture differenti e questo ti portava ad avere una certa apertura mentale superiore alla media del periodo dei miei coetanei proprio perché spinti dell’interesse per Hip Hop si viaggiava il più possibile. È anche importante parlare della tua crew, i Fighting Soul? Come è nata l’idea di formare un collettivo? Quasi per gioco all’inizio, io e il mio amico e socio Silvio, abbiamo deciso di fondare i Fighting Soul, esattamente nel 1996. In quel periodo giravamo o forse meglio dire vivevamo al Regio (piazza storica del breaking di Torino) e volevamo provare ad avere un gruppo tutto nostro che ci identificasse. Poi Silvio qualche tempo dopo conobbe Paolo, aka Beat1, e tra una chiacchiera e l’altra diventarono amici. Io invece sempre tramite Silvio lo conobbi ad una jam a Milano entrando subito in sintonia e nonostante la lontananza (Paolo è di Cittadella) gli proponemmo di unirsi a noi. In seguito Paolo ci ha fatto conoscere Ricky e abbiamo capito da subito che i vari elementi si erano allineati e da che doveva essere un “gioco” ci ritrovammo a fare un pezzettino di storia del breaking italiano. In questa carriera quasi trentennale, se non sbaglio, cosa ti è rimasto più impresso? Vorrei sapere i tuoi momenti top, condensati in aneddoti…. Riassumere in pochi punti quasi 30 anni di carriera non è facile. Ci sono stati tanti fatti e persone che mi porterò sempre nel cuore. In primis, sarò ripetitivo, i miei soci di marachelle dei

Fighting. Dovessi solo raccontare una piccola parte dei nostri aneddoti ci vorrebbe un documentario su Netflix (ride, n.d.r). Ma oltre a loro, ci sono state tante altre persone che hanno lasciato un segno per me, i miei fratelli del Regio di Torino, l’incontro con il mio primo maestro Bboy Atomik e poi con il leggendario NextOne, maestro e mentore che mi ha influenzato forse più di chiunque altro. Come ricordi di momenti significativi, non posso non citare di avere avuto la fortuna di essere stato in tournee con gli Articolo31. Ricordo che una volta, all’OpenAir di San Gallo in Svizzera, mi sono ritrovato ad aprire il loro show da solo sul palco subito dopo l’esibizione dei Metallica…Non posso spiegare il tremore alle gambe a vedere oltre 100.000 persone che mi guardavano…Per fortuna sono partito con un Windmill e la gente è esplosa e gli Articolo fecero poi uno spettacolo stupendo. Ci sono tante storie che potrei raccontare, ma mi limito solo ad una che per me è davvero una chicca. Siamo nel 1997 a Zurigo, in occasione dell’evento UrbanSkills e c’era Crazy Legs dei Rock Steady Crew che lanciò una sfida a Lil Cesar degli Air Force Crew e lo invitò a salire sul palco. Questo però si vide costretto a rifiutare perché era infortunato. A quel punto, Crazy Legs chiese chi avesse il “coraggio” di salire sul palco per sfidarsi contro di lui e tutta la sua crew…E ovviamente più per show che per una battle… A quel punto, non mi sono fatto scappare l’occasione e insieme ad altri italiani, siamo saliti sul palco. Io ragazzino mi sono ritrovato a ballare con dei miti, che fino a poco tempo prima vedevo solo nei video in VHS! Qual è la tua powermove preferita? Di powermove ne ho fatte veramente tante, ma quella che ancora oggi preferisco fare e continuare ad allenare è l’Headspin. Difficile spiegare a chi non l’ha mai fatta, che sensazione sia poter girare sottosopra in libertà. In quel momento la testa si svuota e la sensazione è come di prendere il volo… Quali sono i tre pezzi su cui non ti stancheresti mai di ballare? Ci sono tanti pezzi che amo e su cui amo ballare, ma ci sono 3 pezzi a cui sono particolarmente legato perché mi fanno tornare indietro in momenti magici della mia carriera. Per primo non poteva mancare il King assoluto James Brown, con “Give It Up and Turn it Loose”, una pura energia. Poi “Planet Rock” di Afrika Bambaataa. Infine, “Gunsmoke-Breakout”. Quando ascolto quest’ultimo pezzo riesco a rivivere gli allenamenti al freddo d’inverno al Regio… grezzume allo stato puro. La dimensione dal vivo è fondamentale nel breaking, almeno rispetto alle altre discipline, nel senso che ok allenarsi ma l’acme si raggiunge davanti ad un pubblico. Sei d’accordo? Le sensazioni sono diverse, immagino anche la spinta… Sarebbe ipocrita negare che poter esprimere la propria arte davanti ad un pubblico, che sia un contest o uno spettacolo dal vivo, è una sensazione che ti carica. Sentire la “fotta” della gente che ti incinta ti da una spinta in più che ti porta ad esprimerti al 100% e come un pittore che può esporre la propria tela in una galleria. Molti breaker di oggi nascono in palestre o in accademie: non è il tuo caso visto che ti sei sporcato mani e faccia in strada, come vedi questa situazione? Come in ogni cosa ci sono dei pro e dei contro tra la situazione di oggi e quella dei miei tempi. Quando ho iniziato io dovevi per forza passare dalla strada e solo in quel modo ti guadagnavi il rispetto ed erano l’unico posto dove potevi trovare qualcuno disposto ad insegnarti qualche passo e dove potevi confrontarti. Poi anche volendo trasferirsi di tanto in tanto al chiuso in una palestra non era una cosa semplice. Ricordo che delle volte ci veniva negata una sala con la motivazione “mi spiace, ci rigate il parquet!”. Oggi invece fortunatamente la situazione si è aperta, allenarsi in palestra è una cosa ordinaria e quindi tutto è più accessibile. L’importante è secondo me cercare di non far sì che questa possibilità non ti porti a dimenticare le origini e il contatto con la strada.

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Parliamo dei contest, uno dei più importanti è il BC One. Hai mai fatto parte come giuria di qualche contest? E soprattutto in base a cosa si dovrebbero giudicare oggi un breaker? La varietà dei passi, le entrate, il carisma, ecc. Sicuramente il Bc One è uno degli eventi con più rilevanza mediatica e quindi ha una sua importanza in questo momento storico. Non ho mai fatto parte della giuria di questo evento in particolare, ma posso ritenermi fortunato perché da quando ho iniziato - e soprattutto negli anni con l’esperienza- sono stato chiamato ad essere giudice in tanti eventi sia in Italia che all’estero. Sarebbe riduttivo spiegare in poche parole il mio criterio di giudizio in quanto ci sono talmente tante variabili che mi portano a fare una scelta piuttosto che un’altra. A volte può essere che sia la tecnica a prevalere, ma quasi sempre un bboy oltre a quello mi deve saper trasmettere stile, avere originalità, quel tocco di grezzume e la musicalità. In sostanza devo captare emozioni, se non percepisco questo, la sola tecnica non mi trascina più di tanto. Proprio grazie anche a manifestazioni sponsorizzate dalla Red Bull si nota che il “settore” è in crescita, e si stanno aprendo tante porte. I professionisti sono sempre più richiesti per musical, show coreografici, pubblicità e lavori in televisione. In Italia si può vivere di quest’arte? Oggi come oggi si hanno maggiori possibilità di fare di quest’arte un mestiere, che possa permetterti di vivere. Il breaking come danza è stato aperto nei teatri, canali televisivii, ma più di tutto ci sono tante richieste per corsi nella palestre. Non siamo ancora ai livelli europei, ma secondo me siamo sulla buona strada. Per fortuna le cose sono cambiate e oggi il Breaking è visto con maggior rispetto e professionalità.

Sempre rimanendo in tema “gare” le Olimpiadi di Parigi 2024 vedranno per la prima volta il breaking come disciplina: credo sia un traguardo storico ed un riconoscimento immenso… che ne pensi? Riagganciandomi a quanto risposto sopra, proprio l’essere entrati a far parte delle discipline Olimpiche è l’esempio di come il Breaking sia visto in modo differente e sia stato appunto riconosciuto. Quindi sì, è sicuramente un bel traguardo. Una vetrina che permetterà di avere ancora maggior visibilità a livello mondiale sia per avere più persone che entreranno in contatto con il Breaking, ma soprattutto per chi, come dicevamo poco fa, vuole vivere di questo. Mi permetto, visto che hai tirato fuori l’argomento, di dare però la mia personalissima opinione. Per quanto riconosca l’importanza di far parte delle Olimpiadi, per me il Breaking rimarrà sempre una disciplina artistica e non solamente una atletica. Ultima domanda prima di chiudere: come ti vedi fra vent’anni? Spero tra 20 anni di andare avanti con la mia passione, quindi continuare ad allenarmi, o provarci visto che sarò un ultra 60enne, di avere la possibilità di poter continuare ad andare in giro per trasmettere ai giovani quello che ho imparato. Infine tra 20 anni mi vedo a godermi la mia vita non artistica con la mia famiglia. Ah, una cosa è certa sin da ora…Tra 20 anni avrò sicuramente più acciacchi di quello che ho già (ride, n.d.r.)

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Attivo come writer dalla prima metà degli anni ’90, conosce una straordinaria notorietà internazionale tra la metà e la fine degli anni 2000, grazie alla sua capacità di reinterpretare lo stile newyorkese in chiave attuale sulle fiancate dei treni italiani, pubblicati sui più importanti blog e riviste di settore. Dopo un periodo lontano dalle scene, King Rusto è tornato a stupire i suoi followers (più di 56k su Instagram) con la trasposizione su tela e carta delle sue creazioni. I suoi dipinti sono puro lettering, un tributo alla tradizione dei pionieri americani ed all’arte dell’evoluzione della lettera. m d m g z n / 49



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Orgh nasce a Roma nel 1983, dove frequenta l’Istituto d’arte. Già da bambino nasce l’interesse per i graffiti guardando i pannelli dei treni dipinti mentre andava al mare e fotografando i vari writers dell’epoca alle Jam della Capitale. Nel 1996 incomincia ad approcciarsi al Writing con le prime tag e flop nel suo quartiere. Conosce Some ed Aspe con cui fonda la Genuine crew, composta anche da Thoms. Il 1999 è un anno che porta ad un cambiamento totale per il suo stile, abbraccia il 3d e m d m g z n / 52




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inizia con la sua crew a dare una nuova spinta alla scena romana organizzando murate a tema complete e di forte impatto per il fruitore. Comincia nello stesso periodo a viaggiare e a partecipare a diverse jam ed eventi di rilievo come l’ Amazing Day e il Meeting of Styles. Nel 2015 la sua prima personale a Roma “Animal Letters” .Negli anni lo stile subisce diversi cambiamenti, abbandona il 3d per tornare alla sua passione il 2d, basandosi sul wild style e riprendendo un semiwildstyle. Con il tempo riporta la tecnica per il realistico che usava su carta sui muri unendola assiduamente al suo lettering con la nota costante di unire colori caldi ai freddi e lavorando molto sulla gradazione di colore nelle murate. Negli ultimi anni fonda una nuova crew “The Pushers” composta da Blef, Enko4, Imen e Mr Pollo. Nel 2015 entra a far parte della Puf crew, attiva dal 1996. Nel 2017 entra a far parte della storica crew di New York The Death Squad attiva dagli anni ‘70. Tra le esperienze lavorative più significative le collaborazioni con l’AS Roma, Loop Color,, Fendi per la realizzazione di due opere in collaborazione con la sua partner Nina presso il palazzo della Civiltà a Roma. Nel febbraio 2020 inaugura assieme a Nina e Muges il primo progetto editoriale: Burners mag. m d m g z n / 60






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