Le ragioni della progettazione - seminario

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Quaderno d’aggiornamento a cura del Coordinamento Pedagogico Unione Terre d’Argine

Donata Fabbri e Alberto Munari 12 - 13 settembre 2003

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Prefazione Il cammino si fa camminando… La formazione e l’aggiornamento del personale che opera in contesti educativi e scolastici si caratterizza come processo teso alla costruzione di consapevolezze dei modi e dei significati dell’educazione e rappresentano un aspetto irrinunciabile della professionalità. Una sorta di “nutrimento” necessario, al fine di rendere l’atto creativo dell’educare sempre originale e diverso, rinnovabile se ben ancorato ad una cultura profonda, organica, scientificamente fondata che prende vita, sotto forme diverse, ogni giorno. Come sostiene Orazio, “Il buon filosofo è anche un buon calzolaio”1 , e ciò sottolinea un’idea di professionalità che, a nostro parere, può e deve caratterizzare l’educatore di qualsiasi ordine e grado: una persona consapevole degli approcci teorici che sostengono la sua azione educativa e, nello stesso tempo, capace di tradurre concretamente il proprio sapere, di prestare le proprie mani ad esperienze e tecniche coerenti con gli obiettivi scelti. Questa collana di quaderni presenta materiali e documentazioni relative a corsi di formazione e aggiornamento organizzati dal C.D.E. e costituisce la “cassetta degli attrezzi” di educatori ed insegnanti che intrecciano i loro saperi con la formazione permanente. Essere e stare in relazione con bambini, colleghi, famiglie diventa occasione di conoscenza, apprendimento e crescita reciproca, per chiunque senta l’entusiasmo e la responsabilità cui è chiamato, nel suo quotidiano operare in contesti educativi. L’azione educativa diviene intenzionale ed efficace soltanto se si ha coscienza di ciò che può accadere e modificarsi attraverso lo stare insieme. La reciprocità infatti genera cambiamenti e consente ad ognuno di esprimere ed arricchire ciò che è e ciò che può diventare. 1 “ Il buon filosofo è anche un buon calzolaio (Orazio), ovvero: la professionalità dell’educatore” – Quaderni di aggiornamento - N.4, Comune di Carpi, Assessorato Pubblica Istruzione, 1990

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Presentazione dr.ssa Paola Sacchetti, Resp. Coordinamento Pedagogico Unione Terre d’Argine Iniziamo questo seminario salutando i nostri ospiti, la prof.ssa Donata Fabbri e il prof. Alberto Munari e dell’Università di Ginevra, Nadia Bulgarelli, pedagogista. Questa iniziativa formativa è un’occasione molto importante poiché ci permette di ragionare sul tema della progettazione. Abbiamo iniziato a collaborare con la prof.ssa Fabbri e il prof. Munari già nel 1987: il primo corso di formazione fatto con loro ebbe come titolo “La scoperta della conoscenza”. Si trattò di una prima tappa in cui avviammo la riflessione sulle strategie della conoscenza. Il secondo momento formativo (1989) fu quello riguardante “La professionalità dell’educatore”. Furono occasioni in cui potemmo ridefinire le linee di riferimento della nostra azione educativa. Voglio ricordare alcuni concetti “chiave” che, a partire da quelle esperienze formative, tracciano ora il perimetro di queste nostre due giornate di formazione. Si tratta di pensieri ripresi dal Quaderno d’aggiornamento n. 2, “La scoperta della conoscenza”. “Quando si insegna qualcosa a qualcuno, gli si impedisce di impararlo da solo. E questa dovrebbe essere la nostra massima come insegnanti”; “…il costruttivismo afferma che il soggetto costruisce l’oggetto mentre costruisce se stesso…”; “..Cosa significa rispettare il modo di conoscere del bambino, che è un modo graduale e lento di accomodamento di idee allo schema che possiede? Come fare per rispettarlo? Fare più attenzione alle relazioni e ai processi. Purtroppo la scuola spesso privilegia il fine e non la strada che si percorre, non il percorso che si fa per arrivare al fine. Ma soprattutto con i bambini piccoli, è più importante il percorso.”; “…il sapere dell’educatore è un saper domandare, un saper ascoltare, un saper osservare…”. In questi anni i servizi hanno lavorato in questa direzione e anche le nostre formazioni si sono innestate su questo percorso. In quel periodo abbiamo iniziato a parlare di progettazione, abbandonando il concetto di programmazione, non per moda o per vezzo linguistico, ma 4


perché il termine progettare (“gettare avanti”, “gettare per”) dava, più opportunamente, l’idea di uno spazio da percorrere, di qualcosa che è già immaginato ma che ha ancora margine per essere realizzato e modificato, è un concetto più dinamico, più “in movimento”. Il passaggio da “programmazione” a “progettazione” intendeva proporre questo senso di dinamicità del processo e educativo. Nei servizi abbiamo ragionato e sperimentato in tale direzione, attraverso esperienze e proposte che hanno valorizzato i bambini, i loro pensieri e il loro modo di essere. Ci sono stati momenti di difficoltà e insicurezza, ma Alberto Munari e Donata Fabbri ci hanno insegnato che le “perturbazioni” sono necessarie per progredire e noi siamo stati fiduciosi. Fare il punto della situazione oggi, è necessario per vedere se ciò che è stato fatto in questi anni si è sedimentato e ci permette di andare avanti. Anche la ricerca è progredita in questo tempo, e noi siamo qui per questo, per far incontrare questi due mondi, per agire un confronto costruttivo ed essenziale tra teoria ed azione, tra pensiero ed esperienza, al fine di avere servizi educativi di qualità e capaci di esprimere una cultura dell’infanzia fondata e rispettosa dei diritti dei bambini.

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INTERVENTO Prof.ssa Donata Fabbri e Prof. Alberto Munari, Università di Ginevra Donata Fabbri: siamo qui oggi per provare a fare il punto, e per far questo abbiamo pensato di iniziare prendendo dei vecchi concetti che ci servono per“riprendere il filo”, per poi parlarvi di qualcosa di nuovo. Cominciamo dal titolo: “Le ragioni della progettazione”, e accostiamo a questo concetto l’idea di condivisione della costruzione di conoscenza, di come il bambino e l’adulto costruiscono la conoscenza. Cosa significa condividere veramente la vita di qualcuno che sta imparando a conoscere mentre noi stessi, come adulti, continuiamo questo tipo di apprendimento? Che ruolo abbiamo noi come adulti nei confronti del bambino che sta per conoscere? Tanti: istituzionale, familiare, legati ai saperi nostri… ma anche quello di accompagnatore del bambino che impara a conoscere. Cercheremo oggi di riflettere sui vari ruoli, di collocarli in un contesto e di vedere cosa scopriamo e cosa incontriamo noi come adulti nel momento in cui condividiamo questo momento della conoscenza con chi cista intorno. Il primo grande concetto di quelli che vogliamo toccare è quello di costruttivismo. Alberto Munari: innanzi tutto vorremmo collocare questo discorso all’interno della storia del pensiero. Sapete che la nostra tradizione culturale ha sempre oscillato tra due grandi concezioni della conoscenza: la prima è quella che vede la conoscenza come qualcosa di esterno, per cui il bambino nasce vuoto e riceve dall’esterno conoscenze ed esperienze che si inscrivono in lui (posizione empirista). La seconda è quella per cui la conoscenza viene dall’interno, il bambino nasce con categorie di conoscenza già date, che vengono solo messe in moto dall’incontro con la realtà esterna (tradizione idealista di cui Platone è padre). Tra questi due poli ne esiste un altro, secondo il quale la conoscenza si crea nel momento dell’incontro tra l’essere umano e il mondo nel quale egli esiste: la conoscenza si costruisce nell’incontro tra il soggetto conoscente e l’oggetto da conoscere. Il soggetto conoscente non pre-esiste all’oggetto da conoscere come per gli idealisti, l’oggetto da conoscere non pre-esiste al soggetto conoscente come per gli empiristi, ma è l’incontro del soggetto e dell’oggetto nell’azione che fa emergere la realtà. All’inizio vi è l’azione, l’incontro agito tra soggetto 6


e oggetto. Si tratta della tesi fondamentale del costruttivismo piagetiano: è attraverso l’azione che si opera simultaneamente una triplice costruzione: del soggetto conoscente, dell’oggetto della conoscenza, degli strumenti della conoscenza. Si costruisce la propria identità cominciando a capire cosa fa parte di sé e cosa fa invece parte del mondo esterno (pensate a un bambino piccolo). Contemporaneamente si costruiscono gli strumenti (il bambino scopre che con gli occhi si vede, con le orecchie si sente, ...che non sono un qualcosa di indifferenziato, come inizialmente gli appare). Donata Fabbri: Nel 1984 io e Alberto Munari abbiamo scritto un libro che tentava di situare il costruttivismo all’interno di un contesto particolare, che noi avevamo chiamato psicologia culturale. Si tratta di un approccio psicologico che non tende a separare la razionalità dall’emozione, ma che tiene insieme queste due nostre parti. Questa distinzione che noi riteniamo arbitraria è spesso fatta in molte scienze, e diventa sconvolgente se pensiamo che l’essere umano comunque agisce, sceglie come totalità e in una sua totalità: volevamo esistesse una psicologia che valorizzasse questo punto. La psicologia culturale (leggo dal nostro libro “Strategie del sapere ”) “Si propone di studiare il rapporto che l’individuo elabora nei confronti del sapere, senza distaccare o alienare i sistemi di concettualizzazione dai sistemi di valori, ma anzi ricercandone sistematicamente le interrelazioni e le interdipendenze”. Significa quindi provare a capire e vedere come l’individuo cerca fin da piccolo compromessi ed equilibri, sempre un po’ instabili, tra la sua emotività (valori) e la sua razionalità (il sistema per applicarli). Da allora abbiamo cercato di precisare meglio i soggetti che fanno parte di questa psicologia. Vi avevamo già parlato di un soggetto definito da Piaget “epistemico”. Il soggetto epistemico non ha carne e ossa, ma ha innanzi tutto un’età (già Piaget fa questa prima distinzione) ed è importante perché ci sono dei momenti chiave, dei momenti “cerniera” in cui succedono grossi cambiamenti. A Piaget interessa innanzi tutto trovare questa struttura intellettuale comune a tutti i soggetti dello stesso livello di sviluppo. Quando ci si interessa al soggetto epistemico si identificano comportamenti comuni ai soggetti di uno stesso stadio di sviluppo e questo 7


significa determinare il soggetto epistemico proprio a questo stadio. Come dice lo stesso Piaget “Bisogna distinguere il soggetto individuale e il soggetto epistemico, da intendersi come il nocciolo cognitivo comune a tutti i soggetti dello stesso livello di sviluppo”. Il soggetto psicologico, invece, è il soggetto centrato sulla coscienza individuale e sull’identità. Il soggetto psicologico siamo noi tutti qui in questa stanza, nel senso che siamo centrati sulla coscienza individuale e sappiamo descrivere una nostra identità. Corrisponde quindi all’individuo considerato nella sua soggettività, e non nella sua universalità. Successivamente la riflessione accademica è proseguita introducendo altre variabili. Il soggetto psicologico evolve nella sua vita, cambia; per introdurre un altro concetto ci siamo serviti di Jung, che parla di “soggetto individuato”. Lui ci dice «Impiego l’espressione di individuazione per designare il processo attraverso il quale un essere diventa individuo cioè una unità autonoma e indivisibile, una totalità» . E’ una definizione che introduce l’idea del “processo”. Le definizioni precedenti descrivono soggetti visti in un’istantanea, quasi immobili, invece con Jung si introduce l’idea di divenire. Questo soggetto siamo noi che cerchiamo di diventare noi stessi, che ci diamo come fine di diventare quello che vorremmo diventare, e magari ci mettiamo tutta la vita a farlo (e a volte non ci riusciamo neanche!). E’ dirsi ”ho capito che potrei/vorrei diventare così”, è entrare in una fase di processualità e progettualità. Si tratta di un soggetto che vuole diventare ciò che sogna di essere e la sua vita si basa sulla volontà di diventare ciò. Questo processo comincia fin da piccoli, quando si cerca di arrivare a questa totalità cui aspiriamo, presentando una coerenza di atteggiamenti e pensieri. E’ proprio la ricerca di questa coerenza che ci fa dire che questa aspirazione alla totalità esiste fina da piccoli. Dice ancora Jung «L’individuazione ha due aspetti fondamentali: da una parte c’è un processo interno e soggettivo di integrazione, dall’altra c’è un processo oggettivo e ugualmente indispensabile di relazione con l’altro. I due aspetti sono indispensabili, malgrado sia l’uno che l’altro possano essere alternativamente in primo piano». Ovvero: da una parte c’è qualcosa che succede dentro ogni essere, un processo interno e soggettivo in cui sento che mi integro con me stesso e con gli altri; e dall’altra parte c’è un processo oggettivo che si crea all’esterno mediante la relazione con l’altro. E’ un terreno d’incontro straordinario, pensare che noi lavoriamo per costruirci come soggetto individuato, ma lavoriamo con bambini che fanno lo stesso, che cercano la coerenza che noi cerchiamo. Esistono quindi questi due movimenti: uno interno, per integrarmi, che sento in me, e uno 8


esterno, di relazione con l’altro. Sono momenti indivisibili e indispensabili, anche se può capitare che uno in certi momenti prevalga sull’altro. Sono attimi di questo processo di individuazione osservabili anche nel bambino, quotidianamente. Ancora «Il soggetto individuato è un soggetto autentico, è un soggetto vero, è un soggetto non diviso. Accetta tutte le sue caratteristiche, accetta i suoi limiti, accetta le sue possibilità e si descrive in una relazione costante col mondo e con gli altri». E’ un progetto di vita! I tre soggetti individuati non sono in antitesi, ma coabitano in noi a seconda di come ci consideriamo e veniamo presi in considerazione. Alberto Munari: quella illustrata da Donata Fabbri è stata la storia recente della psicologia culturale, che nella nostra elaborazione si è allargata comprendendo, per esempio, Jung (un autore senz’altro da riscoprire). Questi pensieri fanno parte di una più ampia riflessione epistemologica. Per questo abbiamo insistito fin dall’inizio precisando che l’epistemologia non è un lusso da lasciare solo agli intellettuali: si tratta di una riflessione sulla conoscenza che tutti noi dobbiamo fare, soprattutto se per professione promuoviamo lo sviluppo della conoscenza. Siamo operatori epistemologici (noi e voi). Per questo l’epistemologia va riscoperta nel nostro lavoro e nelle azioni di tutti i giorni. Nella nostra esperienza di psicologia culturale, parliamo di epistemologia “operativa”. Donata Fabbri: epistemologia “operativa” consiste in una strategia di esplorazione attiva dei processi di costruzione della conoscenza finalizzata in primo luogo alla presa di coscienza da parte del soggetto operante, dei suoi processi cognitivi e, in seguito, a una riflessione più generale sulle modalità di uso della conoscenza e della cultura. “Epistemologia” perché esplora i processi di costruzione della conoscenza; ma li esplora in modo pratico, attraverso della attività; elabora concetti a partire da attività pratiche attraverso le quali si prende coscienza dei proprio processi cognitivi. Alberto Munari: l’ultimo termine di questo panorama di riferimento è il rapporto con il sapere: la psicologia culturale studia innanzi tutto il rapporto con il sapere. Conoscere non vuol dire solo avere idee astratte e parlare di concetti, ma rapportarsi con la propria conoscenza. 9


Per esempio (pensando ai tre soggetti di prima): come soggetto epistemico ho dei concetti; come soggetto psicologico mi affeziono a quei concetti, mi piacciono; come soggetto individuato bisogna che questi concetti abbiano senso nella mia vita. Tutto questo costruisce un rapporto con il sapere. “Rapporto con il sapere” è un concetto su cui noi possiamo lavorare operativamente. Sappiamo tutti bene infatti che, una volta adulti, i saperi veri, quelli che ci ricordiamo, sono quelli costruiti in un rapporto positivo: le cose che impariamo veramente sono quelle che hanno senso per noi, che hanno trovato un ancoraggio negli eventi della nostra vita. E’ negli eventi significativi della nostra vita che noi impariamo veramente: questo è il rapporto con il sapere. Nel rapporto col sapere intervengono gli altri: è una sorta di co-costruzione, nel senso che ci costruiamo l’identità mentre costruiamo l’altro; è un entrare in relazione come tappe irriducibile nello sviluppo della conoscenza. Donata Fabbri: nella definizione di Jung compare spesso il concetto di relazione con l’altro. Vorrei con voi capire cosa si intende per relazione e cosa vuol dire “entrare in relazione con” dal punto di vista cognitivo-affettivo. Il come entriamo in relazione con qualcuno che sta imparando e la preoccupazione verso questo come sono essenziali e caratterizzanti la nostra professione. Spesso però ci poniamo il problema dal punto di vista della teoria della comunicazione, ovvero dicendo: se sono gentile l’altro sarà gentile, se faccio un sorriso farà un sorriso…. In realtà l’entrare in relazione è anche altro, non è solo imparare le regole dell’educazione o del trasmettere fiducia. Entrare in relazione è qualcosa di più profondo. Vediamo in che senso. Prima di tutto, vi dico che non c’è un entrare in relazione che non sia di carattere affettivo. Ogni relazione è, prima di tutto e prima che si definisca in altro modo, affettiva. Si tratta di una definizione molto pesante, ma che al contempo ci spiega molte cose. Partendo da questo presupposto capiamo meglio come molti dei nostri problemi tra adulti passino proprio attraverso questo, ovvero attraverso la nostra illusione che si possa entrare in relazione con gli altri senza usare l’affettività. Sarebbe una cosa molto comoda per noi, ma non è possibile! La relazione nasce nel preciso istante in cui incontro l’altro: entro in relazione e scatta qualcosa. Sarà quel qualcosa che chiamiamo feeling o altro, ma scatta. La differenza è che nel contesto lavorativo raramente diremo che 10


abbiamo subito avuto feeling e usiamo molto la razionalità, ragionando sull’incontro avuto, senza capire che il 90% del gioco è già stato fatto nel preciso istante in cui siamo entrati in relazione! Ci posso mettere anni a distruggere questa prima reazione, questa prima emozione avuta da qualcuno. In secondo luogo possiamo definire la relazione umana come un legame di interdipendenza tra individui in cui ciascuno gode di una certa autonomia e mostra una certa dipendenza verso gli altri. Questo dà l’idea della complessità che c’è all’interno della relazione umana. C’è interdipendenza, cioè ci sono due individui legati, ma ugualmente c’è una certa autonomia, molto importante perché su essa ci costruiamo tutta la vita. Buona parte della relazione si gioca infatti nello stabilire fin dove va l’autonomia di uno e dell’altro; però ognuno ne deve godere. Allo stesso tempo, ognuno mostra una certa dipendenza. Come dire che in ogni relazione armoniosa c’è un qualcuno che accetta ogni tanto di perdere un po’ della sua libertà per valorizzare l’altro, e poi l’altro è pronto a farlo in un altro momento. Se c’è questo equilibrio, allora la relazione è equilibrata, altrimenti c’è dipendenza da parte di quella persona che ha perso la sua autonomia ed è troppo dipendente. Nelle relazioni c’è spesso questa lotta, per mantenere equilibrio tra dipendenza e autonomia. Una buona relazione presuppone quindi uno scambio, una reciprocità di influenza di uno sull’altro. La relazione quindi è qualcosa di complesso, che cerchiamo di costruire lungo tutta la nostra vita. Appare nella nostra vita personale, ma anche sul luogo di lavoro, che è intriso di relazioni. Su cosa si basa la relazione? Quali sono le sue dinamiche? Ci sono due grandi processi che fanno nascere la relazione e ci permettono di divenire capaci di instaurarne una: il processo di attaccamento e il processo di socializzazione. Senza questi saremmo incapaci di entrare in relazione con gli altri. Come vedete, tutto si gioca nei primi anni di vita, quando si impara che esiste una figura di riferimento a cui io mi attacco e attraverso la quale capirò che posso ricevere amore, affetto,…e che esisto in quanto “altro da” quello. Chi ha avuto la fortuna di elaborare un buon attaccamento e un buon dis-attaccamento ha ottime possibilità di entrare in modo equilibrato in relazione con l’altro e col mondo. Attaccamento e disattaccamento cominciano a fondare il nocciolo di quel soggetto individuato di cui ci parla Jung. Si tratta di una lettura diversa di questi fenomeni che i bambini vivono, come ingresso nella dimensione della relazione con l’altro. Il secondo 11


processo necessario per entrare in relazione in modo equilibrato con gli altri è il concetto di socializzazione: è fondamentale perché attraverso la socializzazione io capisco quali sono i miei ruoli, cosa gli altri si aspettano da me, come mi inserisco in un determinato contesto, … Sapete bene quanti anni ci mettiamo per elaborare tutto questo. Tra nido e scuola d’infanzia si giocano anni chiave in relazione a queste esperienze. Per questo parlare di relazione con voi è essenziale: i “giochi” si stanno costruendo in quel momento. E’ una grossa responsabilità, ma è anche molto importante sapere che si sta contribuendo a fare diventare i bambini non solo intelligenti ma anche capaci di stabilire relazioni equilibrate. Socializzazione però non è solo stare bene con gli altri: è anche imparare delle regole, delle norme, dei valori e questi non sono facili da trasmettere, specialmente ai bambini piccoli. Perché è così importante pensare alla relazione in termini di rapporto con gli altri? E perché è importante pensare che la socializzazione è un elemento importante della relazione? Socializzazione, come detto prima, significa imparare a stare con gli altri, imparare delle norme, ma anche imparare dei ruoli. Questo è un punto chiave di sviluppo dei nostri concetti. La definizione di ruolo che vi propongo è questa: “i ruoli designano dei comportamenti associati a una posizione o a uno status in seno ad un gruppo. Corrispondono a delle aspettative dei componenti del gruppo, e possiedono quindi carattere prescrittivo”. Noi ci comportiamo con gli altri in un certo modo dentro un certo gruppo. Gli altri hanno delle aspettative nei nostri confronti: questi ruoli designati in parte da noi e in parte dalle nostre competenze, sono designati anche dalle persone intorno a noi, che si aspettano da noi certi comportamenti. Le aspettative degli altri sono enormi! Spesso inoltre vanno oltre le descrizioni istituzionali dei ruoli: sono aspettative di persone presenti nel vostro quotidiano; quindi si tratta di un tipo di aspettativa costante, rispetto al quale io mi devo ridefinire ogni giorno. In questo senso il nostro ruolo rispetto al vissuto è qualcosa di rinegoziabile e di ridefinibile costantemente, proprio perché le aspettative degli altri che entrano in contatto con noi possono essere previste, ma mai sapute e definite in assoluto. Entro questa negoziazione di ruoli esiste 12


una caratteristica particolare, per descrivere la quale utilizzo una bella immagine usata dai francesi, che intendono la parola ruolo proprio come quello di un attore, per cui parlano di giocare il proprio ruolo proprio come “una messa in scena di quello che vogliamo far vedere agli altri, e gli altri vedono la nostra rappresentazione e possono essere d’accordo o meno”. C’è da sottolineare che mettere in scena il proprio ruolo significa innanzi tutto conformarsi alle aspettative degli altri, cercando di essere un po’ quello che sentiamo che gli altri desiderano che noi siamo. Quindi inseriremo nel nostro ruolo una serie di caratteristiche perché capiamo che gli altri sono contenti se ci mostriamo così. Teniamo però presente che il fatto che l’altro ci accetti è importante, ma non dobbiamo mai dimenticare le nostre attese nei nostri confronti: occorre che ciò che mettiamo in scena piaccia anche a noi! Mettere in scena il proprio ruolo è anche portare una maschera. Vi dirò una cosa che sembrerà un po’ sconvolgente: quando si porta una maschera? quando si vuol nascondere qualcosa, forse, o perché si vuol essere qualcun altro. Di solito, si è sempre visto in modo negativo il portare maschere, mentre sempre più ora si pensa che l’abilità nel saper portare maschere, sapendo che sono maschere, diventa una grande abilità per l’essere umano e per lo sviluppo della sua identità. E’ come dire: un grande attore è grande perché sa mettere in scena tanti personaggi; se le maschere che noi portiamo non le consideriamo nascondigli entro cui mettere cose infami, dei grandi dolori, delle cose da nascondere, ma diventano simbolo di personaggi, di competenze che sappiamo mettere in scena, non sono cose negative. Di fatto, ci proteggono un po’ dagli altri e nello stesso tempo ci permettono di mettere in scena dei personaggi nuovi, e quindi rendendo la nostra vita più piacevole di essere vissuta. Mettere in scena un personaggio non è falsità, è dire “Sono una persona che può essere così, ma anche in un altro modo, e fartelo vedere non è mostrarti falsità ma farti vedere caratteristiche in più che possiedo”. Pensate ai bambini: quante volte diciamo che è importante per loro il gioco del travestimento, perché imparano diversi ruoli, conoscono le diverse sfumature di tutti i personaggi; eppure da adulti questo è negativo: chi l’ha detto però che dobbiamo avere un’unica faccia, un unico aspetto, un unico ruolo? Certo che questo destabilizza gli altri, perché per loro è più facile vederci solo in un certo modo…forse vale la pena destabilizzarli un po’! 13


C’è un paradosso nella persona che rigetta le maschere che potrebbe portare; spesso le maschere vengono rifiutate col pretesto dell’autenticità. I ruoli sociali però ci conducono a portare maschere, e chi rifiuta di portarle non rigetta tanto la maschera, quanto la relazione e lo stare con gli altri che essa, in quanto legata a un ruolo sociale, ci porta ad avere. I ruoli e le maschere che possiamo portare sono maschere di una commedia dell’arte, e non di una tragedia (come gli altri vorrebbero quando ci dicono “Tu sei così e sarai così per sempre!”). Ognuno di noi ha in sé tutta la ricchezza di giocarsi in tanti ruoli, come da bambino. Perché non tiriamo fuori tutta questa capacità, ed impariamo a giocarci tutte questa sfumature! C’è una positività e una giocosità che va riscoperta nel portare le maschere, proprio come fanno i bambini: allora l’essere in relazione diventerà qualcosa di diverso, di più creativo, di più ricco e dinamico, e farà meno paura. Questo ci aiuterà anche a capire che il ruolo che noi possiamo costruire tra noi e i nostri bambini e tra noi e gli adulti è qualcosa di estremamente pesante e leggero allo stesso tempo, ma comunque è un potenziale di creatività. Concludo dicendovi una bellissima frase di Calvino, che dice: “La leggerezza per me si associa con la precisione e la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono al caso. Paul Valéry ha detto: bisogna essere leggeri come un uccellino, non come una piuma”. Vi dico anche un’altra frase: “Non vediamo le cose come sono, le vediamo come siamo”. Alberto Munari: vorrei approfondire questa tematica dell’entrare in relazione, dei ruoli, del “posizionamento” tra gli uni e gli altri. Sottolineo subito un aspetto fondamentale: la reciprocità. La relazione educativa dovrebbe inscriversi sempre in una filosofia di reciprocità e non di dipendenza: anche se il bambino è molto piccolo e l’educatrice è adulta, e c’è uno squilibrio di partenza, se ci poniamo in un’ottica di reciprocità il nostro lavoro risulterà senz’altro più ricco e arricchente, anche per noi. Entrare in relazione è un processo che evolve, che ha delle tappe, non è un dato di fatto. Ci sono regole precise perché la relazione si costruisca e si costruisca nella reciprocità. Quali sono le regole che gestiscono l’entrare in relazione? C’è un libro pubblicato anni fa da uno psicanalista che mi è sempre rimasto in mente, perché sottolinea uno dei problemi fondamentali della comprensione delle regole: la differenza tra le regole 14


del gioco e il gioco della regola. Le regole del gioco sono le regole che determinano il nostro comportamento; il gioco della regola è quando noi cambiamo le regole del gioco. Quello che è essenziale capire (ed è fondamentale per il bambino) è che vi sono due ordini di regole, che devono sempre essere mantenuti distinti: le regole che gestiscono i nostri comportamenti individuali e sociali, e le regole che definiscono le procedure da seguire per modificare le prime. Quando i bambini giocano tra di loro e un bambino, durante il gioco, cambia le regole, immediatamente gli altri ribattono: “Ma non è così che si fa! Non si cambiano le regole del gioco mentre si gioca!” Per cambiare le regole del gioco bisogna sospendere il gioco, cambiarle, poi riprendere il gioco. Tutte le nostre istituzioni e la nostra vita socio-politica è costruita su queste distinzioni. La vita sociale si compone di questi due momenti che devono sempre rimanere distinti. Il bambino, quando viene al mondo deve scoprire come funziona il mondo, ovvero che ci sono regole del gioco. Come le capisce? Deve cercare di trasgredirle: finché non facciamo qualcosa di sbagliato (es. rubare la marmellata) non possiamo sapere che si tratta di una cosa sbagliata (ovvero: non sapevamo neanche che prenderla in un certo momento, in un certo modo, fosse “rubarla”). Si dice che il bambino è indisciplinato: come potrebbe non esserlo, visto che uno dei suoi compiti è capire come funzionano le regole! L’unico modo che abbiamo per capire come funzionano le regole è trasgredirle, perché in quel momento qualcuno ci dice che ci sono. Ecco come la relazione tra bambino e educatore è un “luogo” in cui deve essere chiaro e esplicitamente detto quando stiamo cambiando o seguendo le regole che ci siamo quotidianamente dati. Il concetto di ruolo di cui si parlava prima rientra perfettamente in questa logica: ruolo è quello che uno si aspetta come comportamento da parte di una persona; in un altro accezione ruolo è ciò che una persona deve fare in una data funzione. La qualità del servizio di un certo ruolo deve essere costante indipendentemente dallo stato d’animo della persona che riveste quel ruolo. I ruoli servono a rendere prevedibile il comportamento delle persone in seno a un’organizzazione. Un’organizzazione va male quando non si capisce chi fa cosa. Qualsiasi tipo di confusione crea instabilità e malessere, sia a livello dell’individuo, che a livello di gruppo sociale, che nell’istituzione. Nelle regole c’è anche un altro aspetto, un po’ problematico soprattutto per il bambino piccolo che le deve capire: è il carattere arbitrario delle regole. Per 15


il bambino questo è destabilizzante, perché può pensare che tutto è possibile (e in effetti tutto è possibile!). Dice un sociologo francese “Tutto è negoziabile; negozieremo su tutto, finché ognuno di noi si sarà definito definendo tutto il resto e tutti gli altri”. Per il bambino l’arbitrarietà è destabilizzante. Per questo, ha bisogno di capire piano piano con l’adulto questo paradosso di fondo di ogni vita relazionale: le regole sono necessarie per vivere la relazione, però dobbiamo essere capaci anche di trasgredirle e di capire quando possiamo cambiarle. L’individuo individuato è la persona che ha capito questa differenza: che sono necessarie, ma che possono essere cambiate, perché sono arbitrarie. Diventa molto interessante questo discorso della trasgressione, se inteso come “gioco” negoziato col bambino, come sperimentazione guidata dall’adulto, per esplorare con lui i diversi campi della regola e capire fino a che punto ci si può spingere (e continuano a restare regole), fino a che punto, invece, spingendo troppo la regola o uscendone, entri in un altro territorio. E’ lo stesso concetto espresso da Piaget quando parla di conservazione, ovvero: quando le cose variano, nel variare, ci sono cose che rimangono costanti e altre invece cambiano. Lavorando sui limiti, sui confini, si può giocare con questo principio utilizzando anche i concetti e le situazioni vissute (per esempio: perché ci si comporta così? E se si facesse un po’ meno di così, il significato cambia?…), e non solo le cose concrete. Esplorando i limiti si esplorano le trasgressioni e si comprendono e si fanno “più proprie” le regole. E’ il gioco della scoperta dei limiti che fa capire il valore delle regole: solo portandole al loro estremo e scoprendo il loro opposto se ne capisce il senso, e non le si prendono solo come un’imposizione. Nell’ultimo secolo c’è stato un processo un po’ pericoloso di distruzione di tutti questi “paletti” che servono per distinguere le cose; la disgregazione delle frontiere tra il quotidiano e i momenti eccezionali in cui si ridefiniscono le regole, tra l’autorità e il resto, e gli “altri”,… come fare per fare capire le regole, che sono astratte? La nostra cultura (così come tante altre) ha inventato una strategia efficace, ovvero quella di ritualizzarle. Una regola è tanto più rispettata, acquisita e compresa quanto più è ritualizzata. Ritualizzare significa fare una messa in scena che ricorda a tutti la presenza di quella regola. All’inizio della mia carriera accademica 16


c’era il “dies accademico”: una cerimonia all’inizio dell’anno accademico che si faceva con le toghe. Dopo la contestazione studentesca la cerimonia è stata considerata “vecchia”, e ora si fa in vestiti civili; ma farla così perde totalmente di significato! Questo accade anche nella nostra vita quotidiana (ad esempio, pensiamo all’importanza della cena, del trovarsi tutti attorno a un tavolo, quando il trovarsi tutti intorno al tavolo era una “regola” e a come funziona ora nella maggior parte delle famiglie, dove ognuno cena quando vuole e come vuole). La vita quotidiana è caratterizzata da rituali: il mettere a letto i bambini, l’incontro tra persone,…. Quando questi rituali vengono puntualmente disattesi, comincia la disgregazione della società. Queste sono cose importanti da far capire a un bambino perché anche da piccolo ha bisogno di rituali (pensiamo al rituale dell’addormentarsi, di cui ha bisogno). La ritualizzazione è dunque la messa in scena di regole, non necessarie forse come regole, ma come rituale sì. E’ sbagliato porsi la domanda dell’utilità materiale delle regole, perché molte regole non hanno più senso da un punto di vista materiale, ma ne hanno dal punto di vista del rituale. C’è un bel passaggio de “Il Piccolo Principe” di Saint-Exupéry dove la volpe parla al piccolo principe e gli dice “Sarebbe bello rivederci sempre alla stessa ora. Se vieni per esempio alle 4 del pomeriggio a partire dalle tre comincerò ad essere felice; più passerà il tempo e più sarò felice; alle 4 poi mi agiterò e sarò inquieta. Scoprirò il prezzo della felicità. Ma se tu arrivi in qualsiasi momento non saprò mai a che ora preparare il mio cuore. Abbiamo bisogno di riti. - Che cos’è un rito? Disse il piccolo principe. - E’ qualche cosa che abbiamo troppo dimenticato-disse la volpe- E’ ciò che rende un giorno diverso dagli altri giorni, e un’ora diversa dalle altre ore”. Nei riti c’è una componente di abitudine. Un rito rimane tale e non diventa un’abitudine se, ogni tanto, viene fatto oggetto di riflessione. Questa presa di coscienza del rito si ha quando, nella relazione con l’altro, entrano momenti di trasgressione. E’ nella relazione con l’altro che la ritualità viene sempre ridefinita e ricostruita in modo che le possibilità che essa diventi un’abitudine siano minime. La scuola è l’unico luogo e spazio-tempo della vita quotidiana dove ci si può permettere il lusso della discussione coi bambini del gioco della regola. Questo esercizio dello scoprire che ogni regola può essere negoziata, ma una volta negoziata poi va seguita, assume il significato di dare al bambino l’occasione di crescere facendo di lui un individuo individuato, consapevole di se stesso e capace in futuro di assumere le sue 17


responsabilità nella società. In questa disgregazione delle regole, infatti, c’è anche una certa fuga dalla responsabilità individuale che si costruisce proprio attraverso questo gioco. Vi dico una bella frase di un sociologo francese: ”La conquista dell’autonomia passa sempre attraverso la scoperta della trasgressione”. Mi piace perché ogni parola qui ha un significato preciso. Innanzi tutto, l’autonomia è una conquista, non un dato di fatto; e questo è in contrapposizione col pensiero piagetiano per cui l’autonomia è uno stato a cui il bambino arriva. Nelle realtà dei fatti e delle relazioni, l’autonomia si conquista ogni giorno, negoziando costantemente con gli altri. Ed essa passa attraverso la scoperta della trasgressione. Attraverso la regola e la sua trasgressione, scopro anche la conseguenza della trasgressione e dunque le responsabilità che ne conseguono. Si tratta di un processo lungo e laborioso: dove farlo se non nella scuola! Nella scuola ci sono tempo e spazio giusti per ragionare e fare questi tipi di esercizi: la scuola come laboratorio di esercizio socio-politico, per capire il senso delle regole, ma anche l’arbitrarietà, e capire quindi che la responsabilità è una condotta necessaria per mantenere in piedi la società. Anche nella scuola d’infanzia la presa di coscienza di questo tessuto di regole ritualizzato è importante e servirà per costruire tutti i processi di crescita personali e sociali. Quindi: il rito è un sistema codificato di pratiche, con determinate condizioni di luogo e di tempo, che possiede un senso vissuto e un valore simbolico per coloro che lo agiscono e per i suoi testimoni. E’ proprio questa cosa del senso che dà vita al rito. E’, in questo senso, un supporto affettivo e sociale, e riempie dei vuoti, dando senso al tempo e aderendo al tessuto di vita delle persone. Donata Fabbri: Io vorrei parlarvi ora di altro, cominciando il mio intervento con l’idea di “incontro” e di quello che ne consegue. Parto dalla ri-lettura di tre grandi maestri, e riprendo quello che attualmente sta succedendo attorno a noi, in ambito psicologico e pedagogico. L’incontro è quello con tre grandi personaggi della psicologia, che sicuramente hanno lasciato in noi delle tracce; quello che ho tentato di fare è di mettere insieme questi diversi modelli di sviluppo e cercare di vedere, confrontandoli insieme, come descrivono lo sviluppo dell’apprendimento e della personalità del bambino. Si tratta di Freud, Piaget, Erickson. Sono tre maestri che si sono ripromessi di descrivere per quasi tutta la nostra esistenza lo sviluppo dell’essere umano. Li abbiamo scelti proprio per questa visione “lunga” nel tempo, con questi stadi molto prolungati (per Piaget e Freud, fino all’età adulta, per Erickson, per 18


tutta la vita).

Ecco i loro modelli di sviluppo : (vedi tabella 1)

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0/1 anno d’età Freud: stadio orale (bocca come luogo di conoscenza, di gratificazione/ frustrazione del bambino); Piaget: intelligenza senso-motoria (dura da 0-2 anni); attraverso i sensi e l’azione si cerca di comprendere e ordinare il mondo che ci circonda, scoprendo le relazioni che si possono avere con gli oggetti; Erickson: parla, in un modo molto particolare a lui consono, di fiducia/ sfiducia e di forza della reciprocità. Erickson descrive le tappe di sviluppo usando sempre 2 situazioni estreme/ opposte e una forza che caratterizza. il periodo che sta descrivendo, come se ci trovassimo in ogni tappa della nostra vita un po’ dilaniati da due forze opposte, e c’è una forza che ci aiuta a trovare situazioni di equilibrio tra queste due parti opposte. Per Erickson il compito principale che ha il bambino in questo periodo è quello di separarsi; per questo si lotta tra la fiducia verso l’oggetto d’amore e la sfiducia verso lo stesso oggetto. 1/2 anni Freud: stadio che dura da 1/3 anni: lo stadio anale: l’interesse del bambi no si sposta dalla bocca a un’altra parte del corpo, perché è il momento in cui anche l’adulto lo aiuta a controllare gli stimoli, a essere pulito, a diventare molto autonomo da questo punto di vista. Per Piaget c’è ancora l’intelligenza senso-motoria;. Per Erickson appare la dicotomia tra l’autonomia e il dubbio, la forza è la volontà; questo perché, anche secondo Erickson, il fine di questo stadio è di controllare il proprio corpo divenendo più autonomi. Allo stesso tempo, però, il bambino sente che gli adulti cominciano/possono giudicarlo (questo perché noi come adulti premiamo molto il bambino di questa età o iniziamo a rimproverarlo e comincia a vergognarsi). E’ la scoperta che insieme all’autonomia ci sono anche la vergogna e il dubbio; la forza che ci aiuta è la volontà, che secondo Erickson nasce in quest’età proprio perché ci troviamo all’interno di una lotta che appare da ora tra noi e gli altri, e quindi nasce la volontà di essere in un certo modo o in un altro (“voglio/non voglio essere bravo”). 2/3 anni Freud: stadio anale che dura fino ai 3 anni. Piaget: appare lo stadio del pensiero preoperatorio (dai 2 ai 6 anni): sviluppo funzione simbolica, acquisizione del linguaggio, pensiero 22


egocentrico del bambino, ingresso nelle relazioni con gli altri, nella società, nasce il pensiero magico. Si tratta quindi di un periodo molto importante. Per Erickson si va avanti: il momento descritto prima arriva fino alla fine dei 3 anni. 3-5 anni Freud: stadio fallico; l’interesse del bambino va verso la parte genitale del suo corpo; scopre non solo il suo corpo ma anche il fatto che esistono due sessi diversi e che prova interesse per la persona tra i genitori che ha sesso opposto al suo: nascita del complesso di Edipo. Piaget: pensiero pre-operatorio. Erickson: iniziativa/colpevolezza; il compito del bambino è di acquisire una coscienza morale ( è autonomo e dunque comincia a scoprire i comportamenti), bisogno di imitare i grandi ma allo stesso tempo di avere iniziativa, di darsi delle sfide; la forza descritta è la progettualità, legata appunto all’idea di avere iniziativa e di poter anche commettere errori (ecco la colpevolezza). 6 anni Freud: dai 5 agli 11: periodo di latenza: periodo molto lungo in cui si costruiscono elementi fondamentali della persona, ovvero il nostro io e la nostra coscienza morale; abbiamo già tutti gli elementi, sviluppati precedentemente, e ora ci costruiamo in base alle esperienze fatte finora. Prende forma il nostro Super-io. Piaget prosegue fino ai 6 anni. Erickson introduce invece la produttività/l’inferiorità e la forza è la competenza. Il compito del bambino è di inserirsi all’interno del contesto sociale e della scuola. Nasce il bisogno di compiere delle cose, di scoprire i propri interessi e di scoprire le proprie qualità misurando la propria capacità personale: la scuola diventa una palestra nella quale capire in cosa sono competente. E’ interessante vedere come sia per Erickson che per Freud si tratta di un periodo in cui “tutto bolle in pentola”, ovvero preparatorio/di scoperta per: è un periodo in cui scopro chi sono, le mie qualità e le mie competenze e questo inciderà fortemente su ciò che sarò da adulto. 7/11 anni Freud ed Erickson: momento in cui si prepara ciò che saremo. Piaget: pensiero operatorio concreto: momento in cui appare il pensiero logico, in cui serio, classifico e lavoro sugli oggetti, ragionando su di loro e gettando le basi per il pensiero astratto. 23


Dai 12 anni Freud: lo stadio genitale; è l’ultimo stadio che descrive ed è lo stadio che corrisponde alla maturità. Piaget: inizia lo stadio ultimo: quello del pensiero operatorio formale. Si ragiona a partire da simboli e da concetti e non più da oggetti. Ora possediamo tutti questi tipi di pensiero, che giostriamo nella quotidianità a seconda di quello che ci è più utile in quel momento. Erickson: dai12 ai 19 anni a dicotomia è identità/dispersione e la forza è la fedeltà. Il compito principale che abbiamo è il bisogno di definirci dal punto di vista personale, ovvero del capire che siamo anche dal punto di vista sociale, definendo cosa vogliamo diventare nella vita. E’ il periodo delle scelte, in cui vorrei essere una cosa ma anche mille altre. La forza della fedeltà ci aiuta perché all’interno della dicotomia devo saper sviluppare qualcosa di fermo, di stabile: imparo la fedeltà a chi sono io. Questa è la fine degli stadi per Freud e Piaget. Che differenza c’è nel vedere come procedono questi maestri nel mostrarci come diventiamo? C’è una prima cosa che colpisce: Erickson è molto più attuale nel tempo, ci è molto più vicino. Piaget e Freud hanno un approccio del divenire legato ancora a un avanzare per tappe (per momenti distinti nel tempo) e dal piccolo al grande, dal semplice al complesso. In Erickson invece appare l’idea di processualità: la vita è descritta come una dinamica tra dei processi diversi, si parla di fenomeni in evoluzione messi insieme; è sempre un qualcosa sia movimento. Pur parlando di tappe, non le descrive con caratteristiche rigide ma in termini di processualità, ovvero di movimen to continuo, un po’ caotico, in cui noi ci dibattiamo per diventare ciò che siamo. In questo senso, cogliamo anche molto bene i legami tra Freud e Piaget. Erickson continua perché nella sua visione dell’essere umano non è possibile fermarsi , proprio perché le dicotomie continuamente compaiono. 19-35 anni Finisce l’adolescenza; la dicotomia è intimità/isolamento; il compito è soddisfare le esigenze dell’identità creata e trovare qualcuno con cui condividere la nostra vita, costruire una famiglia, fare dei figli. La forza è l’amore.

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35-60 anni Generatività/stagnazione. E’ il momento in cui “si produce”, si compie qualcosa ad ogni livello. La forza è la cura, ovvero imparare a curare gli altri e i rapporti con gli altri, ma anche verso noi stessi. 60-75 anni Il compito principale è quello di fare un bilancio della nostra vita, riscoprendo l’integrità del nostro io, ma anche disperarci se scopriamo che non abbiamo realizzato tutto ciò che volevamo. La forza è la saggezza. Dai 75 anni Continuità di sé tramite la discendenza, tramite ciò che abbiamo realizzato e che porta avanti la nostra vita; ma c’è anche l’idea di impotenza, perché è un parlare al passato. Il compito principale è quello di imparare a morire bene, ovvero di scoprire di poter trascendere l’idea della paura della morte, sviluppando un senso interno di immortalità, legato al senso della propria vita passata. La forza è la fede, ma non in senso religioso: fede in noi come realizzatori di qualcosa nella vita. Oggi che cosa resta di tutto questo? Resta molto, ma ci sono anche nuovi approcci che appaiono e che sono approcci particolari; mi riferisco alle neuroscienze, e al successo che riscuotono oggi. Sono approcci che danno molta sicurezza. Pensate alla scoperta del gene dell’amore, dell’amicizia,…! Fa molto colpo, soprattutto se detto in tv! Ma io vorrei rendervi attenti ad alcune cose… Pensate a quello che le neuroscienze definiscono “finestre di opportunità”: sono momenti nella vita dei bambini in cui, facendovi leva, si hanno grosse possibilità di poter far imparare al bambino certe cose. Queste finestre e le possibilità che esse introducono dicano le stesse cose (anzi, di meno!) rispetto a quello che ci dicono i nostri tre maestri! Gli studiosi delle neuroscienze non scrivono che già qualcun altro aveva detto queste cose, e che i loro studi sul cervello confermano gli studi di chi ci ha preceduto. Impariamo a leggere ciò che la scienza ci propone, perché non si tratta di scoperte d’oggi, ma di conferme di studi precedenti. La scienza di oggi appare come molto aggressiva, per l’uso che fa dei media, e questo deve renderci attenti. C’è anche del positivo in questo approccio però occorre imparare a discernere le informazioni che ci arrivano. Dobbiamo piuttosto essere 25


attenti a ricerche di psicologi o altri studiosi che non osservano solo un comportamento, ma che cercano di capire che cosa succede nel cervello. Sono state fatte scoperte straordinarie, che permettono di modificare il nostro sguardo sul bambino, aprendoci alle competenze che già egli ha anche in tenerissima età. Occorre che la scienza stia attenta a ciò che propone, senza dimenticare ciò che è stato prima e senza la presunzione di essere l’unica che “sa”: come dice Newton, “siamo sulle spalle di giganti”: è questo tipo di umiltà che abbiamo bisogno di tenere come atteggiamento. Queste scoperte “vere” spostano la nostra attenzione su un punto di vista e su un “criterio” che non è quello dell’età. (vedi tabella 1) Nella tabella che vi ho mostrato prima il bambino era fortemente visto per tappe legate all’età. Quasi tutto il nostro sistema scolastico è fondato sul concetto dell’età e, forse per questo, è messo o comincia a essere messo in crisi da ciò che sta succedendo e succederà. Questo significa forse che i tempi sono pronti (al di là di riforme varie!) per cominciare a pensare a nuove chiavi di lettura del nostro sviluppo. Forse, pur mantenendo certi punti fermi evidenti a tutti, si possono trovare concetti che attraversano queste tappe di sviluppo e che si possono maneggiare diversamente, per cui diventerà più facile per noi scoprire qualcosa del bambino con qualcosa che attraversa un po’ le sue tappe di sviluppo. Il concetto che attraversa le tappe permettendoci questa trasversalità è il concetto di competenza. Quali sono le competenze, che una volta venivano descritte come abilità ( termine troppo riduttivo)? Questo concetto di competenza diventerà secondo noi nel tempo sempre più importante, perché se messo a fianco a quello di età può introdurre sfumature interessanti rispetto proprio alla rigidità che invece ci dà l’età, rendendoci le cose più semplici e interessanti. Ci sono competenze che nascono a una certa età, evolvono a volte indipendentemente dalle tappe, e attraversano quindi le età di sviluppo. Alberto Munari: mi propongo di esaminare con voi il concetto appena introdotto, quello di competenza. E’ stato detto che si tratta di un concetto che stravolge alcuni dei campi che ci concernono da vicino, ovvero quello del lavoro, dello studio, della scuola,… In effetti esso porta con sé un’ottica diversa rispetto alle nostre abitudini di pensiero, 26


soprattutto dal nostro punto di vista di insegnanti. Siamo stati abituati da tempo a concepire l’apprendimento e l’insegnamento in termini di nozioni e saperi da trasmettere, non certo competenze; d’altra parte, il termine di competenza è un termine che ha interessato la ricerca psico-pedagogica da poco. Cominciamo a studiare il concetto di “competenza” a partire da una definizione che ho costruito mettendo insieme tutta una serie di studi sviluppati soprattutto da studiosi francesi (il movimento sulla “competenza” è nato in Francia). La problematica della competenza è nata anche e soprattutto pensando agli adulti, in ambito professionale. Poi il termine si è ampliato ad altre aree, ed è arrivata a comprendere anche la sfera del bambino. Competenza è una capacità di agire che utilizza delle risorse in un contesto. Abbiamo già tre elementi importanti da distinguere in un concetto di competenza. Competenza si basa su capacità (innate e apprese) di agire (è nell’azione che la competenza si manifesta), che utilizza delle risorse in un contesto. Questo ci fa capire che non ha senso parlare di competenze in astratto. Inoltre le competenze sono sempre contestualizzate, ovvero si riferiscono ad un contesto specifico capace di riconoscerle. Le competenze hanno dunque senso in tutta una serie di contesti che sono, per varie ragioni, pronti a riconoscerle. Le competenze sono sempre contestualizzate e sono sempre nell’azione, ovvero si declinano nel fare e non solo nel pensare. Si tratta di una differenza essenziale col concetto di nozione. La competenza si inscrive nell’azione ed è relativa al contesto. In più ha due grosse componenti: delle capacità e delle risorse. Delle capacità di agire con iniziativa, concentrazione e inventiva, ovvero capacità di prendere l’iniziativa di agire, di avere sufficientemente attenzione in ciò che si fa per farla con cura. Di agire con inventiva, ovvero quando faccio ciò che faccio in un modo mio, un po’ diverso da quello degli altri. Queste sono capacità che appartengono alla personalità, alla nostra storia personale, all’ambiente cui siamo nati e vissuti… Nessuno le insegna, anche se in fondo sono capacità che si potrebbero quantomeno esercitare. Per esempio, un modo per esercitare l’iniziativa potrebbe essere quello di esercitarsi a chiedere; uno per esercitare l’inventiva potrebbe essere quello di chiedersi, di fronte a una cosa che facciamo, se si potrebbe farla anche in un altro modo. Questo significa che da educatori noi possiamo già intervenire su queste caratteristiche, anche se appartengono più alla personalità; 27


già qui l’azione educativa trova terreno d’azione. Oltre a questo, servono risorse per agire, ovvero strumenti, cose che sappiamo e abbiamo imparato (nozioni per esempio), che non sono solo tecniche, ma anche di tipo organizzativo e di tipo relazionale. L’intervento educativo in questa zona può essere molto più consistente: si può imparare a relazionarsi, si può imparare a organizzarsi, si imparano le tecniche necessarie. Da notare che invece il vecchio modo di pensare l’intervento educativo in termini di nozione figura solo in una minima parte della definizione proposta (ovvero quando si parla di tecniche). Se però ci spostiamo dal mondo del bambino al mondo dell’adulto, ci rediamo conto che ciò che cerchiamo a livello professionale è una professionalità che copra tutti questi ambiti: la qualità nel lavoro è nel prodotto e nel servizio, ovvero in una buona capacità relazionale. Si tratta di una presa di coscienza interessante, per cui questo concetto di competenza stravolge il nostro modo di concepire l’apprendimento. Si badi che anche nei comportamenti semplici dei bambini dell’età con cui voi avete maggiormente a che fare si possono riscontrare questi elementi e, se siamo attenti, si possono anche riscontrare gli ambiti nei quali magari un bambino ha maggiori difficoltà. Altro elemento molto importante da notare è che la competenza interviene molto più profondamente nella persona. Finché si parla di nozioni la persona, con la sua personalità, con il suo vissuto, è sullo sfondo (e possiamo permetterci la comodità di lasciarla sullo sfondo). Quando si parla di competenze la persona è coinvolta. Se per esempio voglio essere competitivo oggi, devo esigere dai miei collaboratori elementi che toccano la personalità. Significa anche togliere una frontiera tra il privato e il pubblico, tra il personale e il professionale che finora abbiamo considerato netta e precisa, nella vostra professione questa distinzione non c’è: il buon educatore è una persona equilibrata, empatica, ha caratteristiche legate cioè alla personalità. In un’ottica di conoscenze, forse non si ha il diritto di entrare in queste sfere; in un’ottica di sviluppo delle competenze dobbiamo entrare in tutte queste dimensioni, anche essendo capace di rivalutare tutta l’esperienza vissuta. Ragionare in termini di competenza significa dunque, anche, mettersi in un’ottica di promozione e non di riparazione, per cui se un bambino straniero non sa l’italiano, non sa nulla (ma quante cose sa fare che vengono dalla sua esperienza!?). La promozione della competenza si inscrive nell’ottica della promozione di ciò che uno sa fare, e non nell’ottica di colmare deficit, riempire buchi, correggere. 28


Insistendo su quello che va male, non si finisce che tentare di riempire buchi: è un atteggiamento molto demoralizzante per ogni alunno/ studente, oltre che avvilente per tutti. Promuovendo ciò che si sa fare, probabilmente ne uscirà molto più entusiasta ogni persona coinvolta in tale processo. Chiunque trovi le proprie zone di competenza e cominci a lavorare su quelle, si accorge che dopo qualche tempo tutto il suo profilo si è alzato, non solo, appunto, quello che riguarda aree in cui è bravo, ma anche quelle in cui, inizialmente, era maggiormente “carente”. E’ la strategia di Paulo Freire, educatore brasiliano che ha agito molto nel Terzo Mondo, con opere di alfabetizzazione massiccia. Egli crede che la gente che incontra sappia già fare delle cose e da queste parte per raggiungere il suo scopo, costruendo il codice linguistico su cose che sanno già fare, agendo con strategie che si ancorano su conoscenze già presenti. Come trovare nella relazione tra adulto e bambino un interfaccia interessante che tenga presenti questi concetti? L’interfaccia potrebbe essere, per esempio, anche questo stesso discorso della competenza pensato su di noi. Di solito chiedo a chi mi sta davanti in ambito didattico: qual è una vostra competenza? Che cosa siete capaci di fare bene? E’ una domanda che di solito manda in crisi! …Perché? Perché abbiamo secoli di scuola alle spalle che ci ha insegnato a ragionare sulle nostre ignoranze, piuttosto che sulle competenze; a questo si aggiunge poi tutta l’ipocrisia della falsa modestia cui siamo stati educati. Un altro aspetto interessante è che ragionare in termini di competenze vuol dire anche infrangere le barriere tra i saperi: una competenza ha valore in quanto competenza anche se riguarda un’abilità che non afferisce al mondo accademico, ma a qualcosa di pratico. Ammettere che una competenza di un campo è importante anche in un altro vuol dire spostare l’attenzione sull’esperienza e sul percorso esperienziale, ancorare i nostri saperi nella nostra storia. Una volta individuata una nostra competenza, è importante chiedersene la storia, ovvero individuare quando ci siamo resi conto che avevamo quella competenza. Ragionando in questo modo si tirano fuori le potenzialità della persona, che essa si è costruita nel suo percorso di vita, e questo vale anche per i nostri bambini. Il concetto di competenza è considerato dunque come rivoluzionario perché infrange le divisioni tra saperi, tra l’intimo e il pubblico, e tra le età: potremmo infatti costituire dei gruppi a seconda delle competenze. Soprattutto, ci si pone in ottica di promozione della persona e 29


non di correzione o di completamento. Quello che dunque si può fare è proporre al bambino uno spazio di promozione e di esperienza che in famiglia, o in certe famiglie, potrebbe non avere. Senza mettersi in competizione con la famiglia, e senza entrare in quella sfera, occorre creare per il bambino spazi esperienziali di promozione, portando l’attenzione sulle competenze possedute, aiutando ad implementarle, e offrendo un contesto che le riconosca e quindi le valorizzi.

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INTERVENTO Nadia Bulgarelli, Pedagogista Nadia Bulgarelli: Parto da una frase del film “Solaris”: il protagonista si trova davanti ad una difficile scelta; in questo contesto drammatico, in cui cerca la soluzione di fronte a un dilemma per lui dilaniante, un amico gli suggerisce queste parole: “Non ci sono soluzioni, solo scelte”; ovvero: non c’è qualcosa di definitivo: c’è la nostra capacità di scegliere, con tutti i limiti, con tutta la difficoltà e con le conseguenze che ogni scelta comporta. Io credo che anche in educazione non ci siano soluzioni, ma solo scelte. Quando vediamo dei percorsi di progettazione ben fatti, e pensiamo ai nostri, spesso ci sembra che altri abbiano trovato soluzioni per noi impensate e impensabili e che, applicandole, troveremo noi stessi la soluzione. Ma non è così: ogni bambino è diverso, ogni percorso è diverso e le variazioni sono infinite. Dove sta l’importanza dello scegliere? Vediamo intanto ciò che ci hanno detto Donata Fabbri e Alberto Munari, per vedere come applicare quei concetti alla nostra quotidianità. • Innanzi tutto, possiamo scegliere se considerare il bambino come soggetto epistemico (con le sue competenze), psicologico (con la sua identità), oppure come soggetto individuato (con tutto il suo progetto di vita, aspettative, desideri, possibilità). Oppure, possiamo vederlo nella sua unicità, cercando di integrare i tre aspetti. A seconda dell’aspetto privilegiato cambia tantissimo la qualità della nostra relazione con il bambino e quindi il nostro modo di progettare. Come si integrano i tre aspetti? Come possono intervenire nella relazione? • Possiamo scegliere se far rientrare la relazione educativa nella categoria della reciprocità (scambio e reciproca influenza) oppure nella categoria della dipendenza. La prima presuppone che ci lasciamo coinvolgere e perturbare, la seconda prevede una nostra posizione di superiorità. Anche in questo caso cambia la qualità della relazione e il nostro modo di progettare. La reciprocità implica sempre coinvolgimento, ma il coinvolgimento è difficile da gestire, perché si entra nella sfera dell’emotività. Credo che lavorare con bambini da 0 a 6 anni implichi necessariamente l’emotività, ma a volte essa appartiene a un nostro vissuto non facile da metter in gioco e ci rifugiamo, quindi, nella razionalità. • Possiamo scegliere se far rientrare la relazione educativa nella categoria delle relazioni 31


umane e accettare le conseguenze teoriche di cui ci parlavano Donata Fabbri e Alberto Munari; diceva Donata Fabbri: ”ogni relazione è prima di tutto emotiva”; dunque di sensazione, di pelle. Significa accettare il proprio coinvolgimento affettivo e emotivo nella relazione col bambino, accettando però come conseguenza di essere una figura significativa di attaccamento, con tutto ciò che ne consegue. Essere una figura di attaccamento significa gestire l’attaccamento. Quando diveniamo noi l’oggetto di attaccamento abbiamo un modo di vedere le cose ambivalente: da una parte siamo tranquilli perché consideriamo il bambino ambientato; dall’altra però temiamo di entrare in competizione con la madre e questo ci fa paura. E’ difficile fare i conti con la propria emotività, riconoscendo, accettando e gestendo le proprie emozioni, e non sempre e solo quelle del bambino. Questo significa lavorare di più sulla qualità della relazione educativa che coinvolge ed implica l’emotività. • Parlare di qualità della relazione significa dunque innanzi tutto metterci in prima persona. Quando è per noi una relazione di qualità? Innanzi tutto, quando ci sentiamo a nostro agio, quando la nostra identità è accettata e non disconfermata, negata, minacciata; quando noi possiamo “portare più maschere” e non dobbiamo sempre e solo agire una sola maschera. Una relazione è qualitativamente buona quando noi possiamo mostrare all’altro una gamma di emozioni e vedercele accettate e contenute. Una relazione è qualitativamente buona quando noi possiamo esprimere le nostre idee, anche quando queste non sono le idee della maggioranza, e quindi le vediamo ragionate, discusse. Non veniamo disconfermati nella nostra identità e le nostre teorie e i nostri modelli non sono conformati rispetto a teorie e modelli degli altri. Una relazione è qualitativamente buona quando noi veniamo accettati e compresi, ovvero quando da parte dell’altro scatta l’empatia. Empatia intesa non solo come appoggio, ma anche come capacità da parte dell’altro di suggerire un cambiamento quando noi non ce la facciamo. Ci sono due tipi di empatia: l’empatia immatura e quella matura. I bambini provano empatia, c’è contagio emotivo, ma è un’empatia immatura perché è contagio emotivo. L’empatia diventa matura quando chi capisce i sentimenti dell’altro corre anche in aiuto dell’altro, agendo il ruolo razionale, di contenimento, che la persona in difficoltà non riesce ad agire. Quindi l’altro è un prezioso arricchimento, un sostegno. L’empatia è un aspetto fondamentale della competenza relazionale. Una relazione è qualitativamente buona quando i nostri errori non ci vengono rinfacciati: non veniamo sminuiti quando sbagliamo. 32


L’errore, siamo abituati a dire, è una fonte preziosa di apprendimento, non è sinonimo di stupidità. Stigmatizzare l’errore dei bambini significa rischiare di cadere nella profezia che si autodetermina. La profezia che si autodetermina è una profezia che, per il fatto stesso di essere stata esplicitata, si realizza. I bambini rischiano spesso di essere delle vittime designate delle nostre profezie perché, a differenza degli adulti, non hanno la possibilità di ridefinire la situazione (pensiamo ai bambini molto piccoli, che non hanno il linguaggio, o al fatto che l’identità dei bambini è “a specchio”, ovvero si definisce in base a ciò che noi rimandiamo). • Quale sono le nostre reazioni di adulti rispetto all’errore? La risposta sbagliata spesso provoca in noi delusione: pensiamo di aver lavorato così bene, eppure non si manifestano le competenze che noi volevamo. La delusione finisce quindi anche per trasformarsi in disappunto e, a volte, in ilarità, in scherno. Pensiamo che il nostro atteggiamento nei confronti dell’errore rischi di bloccare la voglia di arrivare alla competenza, di sperimentarsi, di vedersi in un progetto: l’errore blocca l’autostima. Quanto spesso di fronte all’errore ci scappa detto “E’ sbagliato”? E quante volte diciamo “Come sei arrivato a questo punto?”; chiedendo così, a volte il bambino si corregge e il percorso fatto viene utilizzato per vedere il processo di apprendimento attraverso l’errore stesso. Le opportunità per riflettere sul processo di apprendimento sono cento volte più importanti di risultati immediati. Se diciamo “hai sbagliato!” diamo valore al risultato, bloccando l’apprendimento; se lavoriamo sul processo, lasciamo al bambino tutti i diritti di sbagliare. • Tutti noi cerchiamo di dimostrare che lavoriamo bene attraverso i prodotti dei bambini. Ma i prodotti dei bambini sono a volte fatti ad uso e consumo dell’adulto e non dei bambini. Spesso i prodotti dei bambini sono la testimonianza che l’adulto ha fatto una bella progettazione. Ma mi chiedo se nei prodotti dei bambini che noi esponiamo e spieghiamo ai genitori c’è davvero l’attenzione al processo d’apprendimento e alle competenze dei bambini. Il rischio è che sempre di più, per legittimarci come scuola, il nido e la scuola d’infanzia assomiglino alla scuola primaria; ogni grado precedente rincorre quello successivo. In questo modo però facciamo dei torti ai soggetti con cui abbiamo a che fare perché non riconosciamo le competenze, non le valorizziamo, ma cerchiamo continuamente di precocizzare e inserirne altre, non proprie di quell’età. • Un ultimo punto riguarda le teorie, intese come modelli che, come ci ricordano bene gli 33


“Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine, ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marcia, chi non rischia e cambia colore dei vestiti, chi non parla a chi non conosce. Muore lentamente chi evita una passione, chi preferisce il nero su bianco E i puntini sulle “I” piuttosto che un insieme di emozioni, proprio quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che fanno di uno sbaglio un sorriso, quelle che fanno battere il cuore davanti all’errore e ai sentimenti. Lentamente muore chi non capovolge il tavolo, chi è infelice sul Lavoro, chi non rischia la certezza per l’incertezza per inseguire un sogno, chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai consigli sensati. Lentamente muore chi non viaggia, chi non legge, chi non ascolta musica, chi non trova grazia in se stesso. Muore lentamente chi distrugge l’amor proprio, chi non si lascia aiutare; chi passa i giorni a lamentarsi della propria sfortuna o della pioggia incessante. Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo, chi non fa domande sugli argomenti che non conosce, chi non risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce. Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere vivo Richiede uno sforzo di gran lunga maggiore Del semplice fatto di respirare. Soltanto l’ardente pazienza Porterà al raggiungimento di una splendida felicità”. Pablo Neruda

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