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LA VARIABILE DEMOGRAFICA DIMENTICATA
DALLA POLITICA INTERNAZIONALE intervista a Massimo Livi Bacci di Roberto Roscani

Gli andamenti demografici sono una delle varianti che impattano sul futuro del pianeta anche da un punto di vista dei consumi energetici e dei cambiamenti climatici. A Massimo Livi Bacci, apprezzatissimo studioso italiano di demografia, abbiamo chiesto di illustrare quali sono le tendenze che dobbiamo attenderci.
L’Onu dice che siamo ormai 8 miliardi sula terra: cresceremo ancora e in che misura?
All’incirca due secoli fa, all’inizio della Rivoluzione Industriale, la popolazione del mondo toccò il miliardo di abitanti, che divennero due dopo la Prima Guerra Mondiale, quattro negli anni degli sbarchi sulla luna, e otto alla fine dello scorso anno. Per fortuna la corsa è andata rallentando, un nuovo raddoppio non è alle viste e, secondo le ultime proiezioni delle Nazioni Unite, la popolazione del pianeta potrebbe stabilizzarsi negli ultimi tre decenni del secolo sfiorando i dieci miliardi e mezzo. Due miliardi e mezzo in più rispetto a oggi – quanto la crescita accumulata nell’ultimo trentennio - che nel prossimo mezzo secolo dovranno nutrirsi, vestirsi, trovare alloggio, consumare energia per riscaldarsi, cucinare, lavorare e produrre, senza cadere in povertà.
La velocità della crescita della popolazione mondiale aveva raggiunto il culmine del 2% negli anni ’60 del secolo scorso, per scendere gradualmente sotto l’1% negli ultimi anni. Tuttavia, i paesi e le regioni del Mondo non viaggiano allo stesso passo, per cui il tasso di crescita attuale è una media di situazioni molto diverse e dipende dalla fase del processo di transizione demografica nel quale essi si trovano. Per comprendere meglio consideriamo i 6 paesi più popolosi del mondo (che insieme valgono il 40% della popolazione del pianeta) e osserviamo i loro tassi di crescita attuali (2022) secondo le valutazioni delle Nazioni Unite: nell’ordine: 0% per la Cina, 0,5% per gli Stati Uniti, 0,6% per l’Indonesia, 0,7% per l’India, 2% per il Pakistan e 2,4% per la Nigeria e – per confronto – 0,9% per il Mondo intero. Si va dunque dalla stazionarietà della Cina, all’alta velocità della Nigeria, la cui popolazione, se non rallentasse il passo, si troverebbe raddoppiata in meno di trent’anni.
La crescita della popolazione nel corso del tempo è stata particolarmente ineguale nei diversi strati sociali e nelle diverse aree del mondo. Quale fenomeno sta avvenendo ora e come può incidere sui futuri equilibri socio-economici?
La geodemografia del Mondo è profondamente cambiata nel corso del tempo e continuerà a cambiare rapidamente nei prossimi decenni. Tra il 1950 e il 2050 - possiamo considerare assai attendibili le proiezioni fino alla metà del secolo – il cambiamento è strabiliante. Nel 1950 due abitanti su tre vivevano nei paesi che le Nazioni Unite definiscono “in via di sviluppo”, nel 2050 saranno sette su otto;
Si va dunque dalla stazionarietà della Cina, all’alta velocità della Nigeria, la cui popolazione, se non rallentasse il passo, si troverebbe raddoppiata in meno di trent’anni nel 1950 l’Europa conteneva il 22% della popolazione mondiale, l’Africa sub-sahariana il 7%, nel 2050 le proporzioni saranno invertite, 7% l’Europa e 22% l’Africa sub-sahariana. Guardando alle prospettive del prossimo (abbondante) quarto di secolo (20232050), va messa in rilievo la dinamica dei grandi “competitori” mondiali. Per gli Stati Uniti si prospetta ancora un periodo di crescita sostenuta fino alla metà del secolo (+11%), per la Russia un declino (-8%). Si tratta di variazioni importanti, ma non rivoluzionarie, anche se incideranno sui processi d’invecchiamento, sulla produttività e su altri aspetti sociali. Tuttavia, la Russia vive una sorta di duplice affanno demografico: il primo, è dovuto alla grave usura della guerra in Ucraina e agli estesi reclutamenti (2022 e 2023) richiesti da una guerra di attrito; il secondo, che risale all’epoca di Pietro il Grande, riguarda la necessità di popolare e presidiare il suo amplissimo territorio. Il divario riguarda anche i due grandi serbatoi umani, Cina e India: la prima su un binario discendente (-8%), la seconda ancora in robusta ascesa (+18%).
Fino a che punto e in che modo queste tendenze possono influenzare i flussi migratori?
Va premesso che alle dinamiche dei flussi concorrono una pluralità di fattori, di natura oltre che demografica anche politica ed economica, per le disuguaglianze tra paesi e l’incidenza della povertà. Si consideri la fascia della popolazione giovane-adulta, che è il motore dello sviluppo di ogni società, per la più alta produttività, la capacità di innovazione, la maggiore mobilità; età nelle quali si mette su famiglia e si fanno figli, si prendono le decisioni di vita; età dalle quali proviene la grande maggioranza dei migranti. Per fare un esempio vicino a noi: nei paesi dell’Europa meridionale e mediterranea i giovani-adulti diminuiranno di un quarto tra oggi e la metà del secolo, mentre nei paesi del Nord Africa aumenteranno del 46%. Nessuno può dire in che misura questo sbilancio potrà essere attenuato dalla migrazione sud-nord, ma sicuramente la pressione continuerà ad essere elevata.
Crescita e decrescita convivono nel mondo. Per l’Europa e il Nord America (e per l’Italia la tendenza è ancora maggiore) il dato più rilevante è quello dell’invecchiamento. Reggeranno e quanto i meccanismi di welfare che conosciamo oggi?
Tra oggi e la metà del secolo e ovunque nel mondo, la quota di persone molto in là con gli anni avrà una ulteriore forte crescita, in conseguenza dei progressi della sopravvivenza e della minore natalità. Nel nord del Mondo, ma anche in Cina, Corea e Giappone, i sistemi di welfare sono sotto crescente stress e devono definire nuove regole – l’aumento dell’età pensionabile non è il solo rimedio. Occorrono azioni e investimenti che rendano progressivamente più capace, in salute, autonoma e produttiva la popolazione anziana. Con l’ausilio di domotica, robotica, digitalizzazione, pianificazione urbana, mobilità agevole si può ottenere che la popolazione molto anziana e fragile possa essere ben sostenuta, e che la popolazione “in là con gli anni” possa essere attiva e, se possibile, produttiva.
Analizzando le diverse componenti che hanno prodotto nel tempo quell’impronta carbonica che è all’origine dei mutamenti climatici, quanto incide la componente demografica? Quali possono essere politiche di mitigazione e adattamento in grado di dare un contributo?

Essenzialmente in due modi: più popo- lazione significa, evidentemente, più consumi (per nutrirsi, vestirsi, alloggiare, riscaldarsi, lavorare, muoversi), più produzione, maggiori emissioni di gas serra. È stato stimato dall’IPCC che la crescita demografica (al netto di altri fattori) ha contribuito a generare una quota di circa un terzo dell’aumento dei gas serra negli ultimi decenni. La crescita demografica, inoltre, si determina quasi esclusivamente in paesi poveri: l’uscita dalla povertà implica un forte consumo di energia e di materie prime non rinnovabili, e quindi contribuisce fortemente alla generazione di gas serra. Se guadagno un dollaro in più, e sono povero, lo utilizzo per comprare più cibo per nutrirmi, o più carburante per muovermi, o più utensili per lavorare. Se sono ricco, col dollaro (metaforico) in più posso comprare musica, un taglio di capelli, il biglietto per un museo....tutte attività poco inquinanti.
Nei paesi dell’Europa meridionale e mediterranea i giovani-adulti diminuiranno di un quarto tra oggi e la metà del secolo, mentre nei paesi del Nord Africa aumenteranno del 46%. Nessuno può dire in che misura questo sbilancio potrà essere attenuato dalla migrazione sud-nord
Per quanto riguarda le politiche di mitigazione, è dagli scienziati che attendiamo soluzioni. Per quelle di adattamento, c’è una pluralità diversissima di azioni possibili: un cambiamento dei modelli di consumo (mangiare meno carne, ad esempio), una diversa urbanizzazione (evitare che le grandi città siano voraci consumatrici di energia e produttrici di rifiuti), una mobilità più razionale (più trasporto pubblico), per citarne alcune.
L’uomo nel corso della sua storia sulla Terra ha saputo adattarsi a tutte le condizioni, anche le più difficili. Ne sarebbe ancora capace?
La mia risposta è sì. Ma io sono un ottimista, anche se il mio ottimismo è messo a dura prova.
Perché?
Sicuramente adeguate politiche sociali potrebbero sostenere la riduzione della natalità e della crescita nel continente subsahariano, come già è avvenuto in Asia o in America Latina. Sono invece pessimista per quanto riguarda la possibilità di governare le migrazioni, un mare in tempesta per i contrasti d’interesse tra Paesi e la debolezza delle Istituzioni internazionali. E per la crescente massa di persone vittime di migrazioni forzate indotte da guerre, conflitti, persecuzioni e discriminazioni. Solo la Grande Politica Internazionale può mettere ordine. Ma questa, dov’è?
L’AGENDA MONDIALE DELL’ENERGIA NON PASSA PER L’EUROPA di

Perché gli scenari macroeconomici si intrecciano con la questione energetica? Non è facile dare una risposta a questa domanda, perché l'interconnessione fra macroeconomia ed energia è talmente complessa, i fili sono talmente intrecciati, che qualsiasi analisi rischia di diventare incompleta o parziale.
Vorrei partire dall'identità di Kaya che dice che il tasso di crescita delle emissioni di CO2 dipende da 4 fattori: il tasso di crescita della popolazione, il tasso di crescita del PIL pro-capite, il tasso di crescita dell'intensità energetica e il tasso di crescita dell'intensità carbonica. Come è noto, i primi due termini sono positivi per la crescita del benessere e i secondi due dovrebbero essere negativi per controbilanciare la crescita delle emissioni.
Assumendo una continuazione dello sviluppo storico dell’ultimo mezzo secolo, risulterebbe una crescita del PIL del 2% medio annuo tra il 2019 e il 2050, in confronto a 3,2% nel periodo 1965-2019. Le previsioni dell'ONU indicano che popolazione mondiale arriverà a 9,7 miliardi 2050 e quindi con un tasso di crescita dell'1%, il che significa che il PIL pro-capite crescerà anch’esso di almeno l'1%. Occorrerebbe dunque almeno l’1% di miglioramento tecnologico dell'intensità energetica e un'addizionale 1% di miglioramento dell'intensità carbonica per poter stabilizzare il tasso di crescita delle emissioni. Ma per l’obiettivo di emissioni zero al 2050 occorre di più: secondo la raccomandazione dell'Agenzia internazionale per l'energia (AIE) sarebbe necessario aumentare il tasso di miglioramento dell'intensità energetica al 4% annuo per ottenere 1/3 dell'obiettivo di emissioni nette al 2050.
Per quanto riguarda l’ultimo fattore, l’intensità carbonica, il pacchetto europeo “Fit for 55” prevede il raggiungimento della riduzione del 55% delle emissioni, con un livello obiettivo nel settore elettrico di circa 110 gCO2/ KWh contro i 275 del 2021. Ma l’Europa rappresenta meno del 10% delle emissioni mondiali.

Sempre secondo la AIE, l’obiettivo di decarbonizzazione al 2050 si dovrebbe ottenere con la riduzione dei consumi
Occorrerebbe dunque almeno l’1% di miglioramento tecnologico dell'intensità energetica e un'addizionale 1% di miglioramento dell'intensità carbonica per poter stabilizzare il tasso di crescita delle emissioni di fossili dall’80 al 20% del fabbisogno mondiale, con la penetrazione all’80% dei veicoli elettrici e la quintuplicazione del livello di investimenti in fotovoltaico ed eolico fino al 2040.
Non sembra inappropriato commentare che siamo ancora lontani e che questo scenario ha necessità di un'analisi SWOT (streght-weakness-opportunity-threat), cioè: forza, debolezza, minacce, opportunità.
I punti di forza delle politiche europee sono quelli di tracciare un segnale di avvertimento, di forte consapevolezza e di esempio di avanguardia nel mondo. I punti di debolezza sono rappresentati, dall’opportunismo nelle negoziazioni. Ad esempio, se un paese alla COP dice che raggiungerà gli obiettivi nel 2060 invece che nel 2050, si crea un vantaggio competitivo indebito. Niente di nuovo sotto il sole, come ben noto alla macroeconomia internazionale, con il classico caso della svalutazione competitiva delle politiche “beggar-thy-neighbor”: svaluto il mio tasso di cambio per rendere più competitive le mie esportazioni. Con il linguaggio di oggi: continuo l’utilizzo di energia più inquinante perché meno costosa e rendo le mie esportazioni più competitive, a spese dell’ambiente.
Le minacce sono date dallo sfasamento fra l'orizzonte politico di breve termine di chi vuole essere rieletto e le necessità di sacrifici di lungo periodo da imporre alla popolazione.
Le opportunità sono quelle delle invenzioni e dei miglioramenti tecnologici che i nostri laboratori di ricerca, le nostre università e le nostre aziende portano avanti ogni giorno.
Di queste quattro punte del dilemma SWOT, a mio modesto avviso, il problema del velato protezionismo che sta risorgendo a livello mondiale è quello più importante.
L'inizio strisciante di questo fenomeno lo possiamo far risalire al rischio, del quale si è tanto parlato dopo il lockdown del 2020, della mancanza di forniture nella filiera globale della catena del valore. Sono state di fatto ripensate le strategie di offshoring, portando alla ribalta questa nuova idea del reshoring. Ma, ovviamente, si sta parlando di visioni di velato protezionismo, perché se mi produco tutto in casa, ho ricominciato a fare una politica di implicito protezionismo dell'industria nazionale. Ora le politiche del rafforzamento dell'industria nazionale, tipo “Picking in the winner”, già le avevano proposte i francesi negli anni ‘70, subito dopo la rottura del sistema di Bretton Woods. Quindi, potremmo assistere a un nuovo corso e ricorso della storia, con un aumento del nazionalismo industriale, tipo Buy American, come risposta alle incertezze del sistema monetario e di commercio internazionale?
In questo contesto, sebbene la risposta maestra sia quella del dialogo del multilateralismo, come è noto, una regionalizzazione dei problemi sia di conflitti, ahimè, militari come quelli che sta vivendo l'Europa ma anche l'Asia, potrebbe comportare una nuova regionalizzazione delle politiche commerciali?

Sarebbe pernicioso che ricominciassimo con mercati dell'energia regionalizzati, magari in nome del concetto di sicurezza energetica.
Ad esempio, un segnale a mio avviso non positivo si è avuto recentemente nel mercato petrolifero. Alcuni commentatori vicini alla finanza internazionale newyorkese hanno offerto l'interpretazione di una Arabia Saudita che si allontana dalla tradizionale amicizia con gli Stati Uniti, con l’aggressiva politica di riduzione delle quote in sede OPEC che mina la ripresa internazionale. Ma c'è un'altra verità, che hanno offerto i sauditi, e cioè che le vendite allo scoperto, preparate proprio dalla finanza internazionale anglosassone, stavano speculando al ribasso sul prezzo del petrolio e il taglio delle quote OPEC è stata una risposta per combattere la speculazione.
Da europeo mi auguro sinceramente di sbagliare, ma con il 60% del petrolio saudita esportato a Cina, Giappone, Korea e India, cioè quella parte del mondo che prevede una crescita del PIL del 4-5% al 2050, l’agenda mondiale dell’energia sarà dettata sempre più dall’Asia.
Le minacce sono date dallo sfasamento fra l'orizzonte politico di breve termine di chi vuole essere rieletto e le necessità di sacrifici di lungo periodo da imporre alla popolazione.
Le opportunità sono quelle delle invenzioni e dei miglioramenti tecnologici che i nostri laboratori di ricerca, le nostre università e le nostre aziende portano avanti ogni giorno
I VANTAGGI DELLA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE di Alessandro Lanza
È l’esordio di una nuova era industriale: l'era della produzione di “tecnologie energetiche pulite” che hanno l’ambizione di condurre ad un mondo a zero emissioni.
I Paesi di tutto il mondo stanno intensificando gli sforzi per espandere la produzione di “tecnologie pulite” con l’intento di far progredire le transizioni net-zero, rafforzare la sicurezza energetica e competere, ognuno con punti di partenza e forza diversa, nella nuova economia energetica globale.
I punti di partenza: ognuno ha il suo e ognuno a modo suo.
Il passaggio a sistemi energetici sostenibili è una sfida globale che coinvolge una moltitudine di decisioni prese a livello nazionale e locale. Non tutti i Paesi partono dalla stessa posizione e non tutti i Paesi possono o vogliono cercare le stesse soluzioni.
Ciò dipende dalla struttura della propria economia, dal proprio mix energetico,
La concentrazione, in qualsiasi punto lungo una catena di approvvigionamento sia presente, rende l'intera catena vulnerabile agli incidenti, siano essi legati alle scelte politiche di un singolo Paese, ai disastri naturali, ai guasti tecnici o alle decisioni aziendali dalla propria struttura di governance e da fattori come il clima e la geografia. Ogni Paese ha un punto di partenza diverso e punti di forza differenti. Le strategie, quindi, non possono che essere specifiche per ogni singolo Paese. L'UE, ad esempio, coltiva le sue ambizioni di produzione di energia pulita ma si scontra con la dipendenza dalle importazioni di materiali critici. Basta pensare che l'Europa è responsabile di oltre un quarto della produzione globale di veicoli elettrici ma ospita pochissimi dei materiali che li alimentano.
Come si posiziona l’Europa in questo nuovo scacchiere internazionale? Quali sono le nuove alleanze commerciali? Quali le opportunità da cogliere e i rischi da mitigare?

La supply chain della green energy, sia per quanto riguarda la produzione delle tecnologie che per i materiali su cui si basa, è una catena fortemente concentrata: la Cina domina nella produzione e nel commercio della maggior parte delle tecnologie e delle materie prime. Per le tecnologie prodotte in serie come eolico, batterie, elettrolizzatori, pannelli solari e pompe di calore, i tre principali Paesi produttori rappresentano almeno il 70% della capacità produttiva globale per ciascuna tecnologia, con la Cina dominante in tutti.
La distribuzione geografica dell'estrazione di minerali critici è strettamente connessa alle dotazioni di risorse che ciascun Paese ha (o non ha) e gran parte di essa è molto concentrata. Ad esempio, la Repubblica Democratica del Congo da sola produce il 70% del cobalto mondiale e solo tre Paesi rappresentano oltre il 90% della produzione globale di litio.
La concentrazione, in qualsiasi punto lungo una catena di approvvigionamento sia presente, rende l'intera catena vulnerabile agli incidenti, siano essi legati alle scelte politiche di un singolo Paese, ai disastri naturali, ai guasti tecnici o alle decisioni aziendali. Oggi il mondo sta già vedendo i rischi di catene di approvvigionamento strette: gli effetti della guerra russo-ucraina si sono fatti sentire acutamente per il ruolo che il gas russo ha nella fornitura di energia.
E cosa fare se anche la catena di approvvigionamento per la transizione all’energia pulita pone l’Occidente e l’Europa in particolare in una posizione di estrema vulnerabilità?
Le principali economie stanno agendo per combinare in maniera efficiente le loro politiche climatiche, di sicurezza energetica e industriali.
L'Inflation Reduction Act (IRA) negli Stati Uniti è un chiaro passo in questa direzione. Difatti l’IRA, approvato nell’agosto 2022 dal Presidente Biden, diversamente da ciò che il nome del disegno di legge farebbe pensare, riguarda l’inflazione solo fino ad un certo punto. Si tratta più propriamente di una scommessa strategica e finanziaria sulla centralità del sistema manifatturiero americano nella transizione verso le energie pulite. Una possente leva statale volta a sostenere le imprese statunitensi nella sfida energetica e attirare investimenti in suolo americano: quasi 400 miliardi di dollari di investimenti, ripartiti tra (250,6) energy, (47,7) manufacturing, (46,4) environment, (23,4) transportation and electric vehicles, (20,9) agriculture e (4,7) water. La manovra mira a ricostruire un apparato industriale che possa fronteggiare le sfide di questa fase storica: una singola risposta che ottemperi alle esigenze congiunte di produzione nazionale, sicurezza energetica e continuità degli approvvigionamenti.

In Europa, le misure decise dal governo di Washington hanno provocato forti preoccupazioni: il timore è che gli incentivi spiazzino l’industria europea, dirottando investimenti destinati all’Europa oltre oceano.
Difatti, gran parte dei crediti di imposta sono vincolati all’utilizzo di materiali statunitensi o di Paesi che hanno un accordo di libero scambio con gli Stati Uniti, nonché all’apertura di stabilimenti sul suolo americano. A titolo di esempio, si potrebbe pensare allo sconto di 7.500 dollari per l’acquisto di automobili elettriche, concesso solo se una certa percentuale dei materiali critici utilizzati per le batterie e il loro assemblaggio arrivano dall’America o paese aderente all’Accordo di libero scambio (Canada e Messico). L’IRA va letto assieme ad altre due misure intro-
Anche se i Paesi costruiscono le loro capacità interne e rafforzano i loro posti nella nuova economia energetica globale, rimangono enormi guadagni da ottenere dalla cooperazione internazionale come parte degli sforzi per costruire una base resiliente per le industrie di domani dotte a partire dal 2021: la Bipartisan Infrastructure Law (BIL), che promuovere investimenti per modernizzare il sistema infrastrutturale statunitense e, in secondo luogo, il Chips&Science Act, finalizzato ad aumentare il peso americano nella delicata e senz’altro strategica catena dei semiconduttori. Queste misure potrebbero essere contestate dall’Europa per violazione delle norme sull’Accordo sulle sovvenzioni e sulle misure compensative (Accordo SCM) dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) ma l’Europa, ad oggi, non ha perseguito questa strada. Sul piano normativo, una prima reazione europea all’Inflation Reduction Act ha portato alla presentazione da parte della Commissione, nel gennaio 2023, della proposta del Green Deal Industrial Plan. Il piano si fonda su quattro pilastri: la creazione di un contesto normativo prevedibile e semplificato, un accesso più rapido ai finanziamenti, il miglioramento delle competenze e la creazione di un commercio aperto per catene di approvvigionamento resilienti. Seguendo gli stessi principi, la Commissione europea ha annunciato il Net-Zero Industry Act, il Critical Raw Materials Act e la Electricity Market Design Reform
La normativa sull'industria a zero emissioni nette stabilisce un quadro europeo chiaro per ridurre la dipendenza dell'UE da importazioni altamente concentrate: le tecnologie strategiche a zero emissioni nette riceveranno un sostegno particolare e sono soggette al criterio del 40 % di produzione interna.
Il Critical Raw Materials Act punta a garantire un approvvigionamento sicuro e sostenibile di materie prime critiche per l'industria europea e a ridurre notevolmente la dipendenza dell'UE dalle importazioni da singoli paesi fornitori. La normativa individua un elenco di materie prime critiche e un elenco di materie prime strategiche essenziali per le tecnologie per la transizione verde e digitale, nonché per la difesa e lo spazio. Stabilisce inoltre parametri di riferimento per le capacità nazionali lungo la catena di approvvigionamento strategica delle materie prime da raggiungere entro il 2030:
• almeno il 10% del consumo annuo dell'UE con l'estrazione;
• almeno il 40 % del consumo annuo dell'UE con la trasformazione;
• almeno il 15 % del consumo annuo dell'UE con il riciclaggio;
• un massimo del 65 % del consumo annuo dell'Unione di ciascuna materia prima strategica in qualsiasi fase pertinente della trasformazione può provenire da un unico paese terzo.

Gli Stati membri dovranno inoltre sviluppare programmi nazionali per l'esplorazione delle risorse geologiche. Al fine di garantire la resilienza delle catene di approvvigionamento la normativa prevede il monitoraggio delle catene di approvvigionamento delle materie prime critiche e il coordinamento delle scorte di materie prime strategiche tra gli Stati membri. Alcune grandi imprese dovranno effettuare un audit delle loro catene di approvvigionamento di materie prime strategiche.
La Commissione, con l’Electricity Market Design Reform, infine propone di riformare l'assetto del mercato dell'energia elettrica dell'UE per dare una spinta alle rinnovabili (la quota di elettricità prodotta da fonti energetiche rinnovabili - prevalentemente solare ed eolica - dovrebbe crescere dal 37% nel 2020 a oltre il 60% entro il 2030), rafforzare la tutela dei consumatori e promuovere la competitività industriale. La riforma proposta prevede misure tese ad incentivare i contratti a più lungo termine con produttori di energia non fossile e ad apportare al sistema soluzioni flessibili più pulite in concorrenza col gas, come la gestione della domanda e lo stoccaggio. La proposta prevede anche la revisione delle norme sulla condivisione delle energie rinnovabili: i consumatori potranno investire in parchi eolici o solari e vendere ai vicini – e non solo ai fornitori – l'elettricità in eccesso generata da impianti solari su tetto.
Anche se i Paesi costruiscono le loro capacità interne e rafforzano i loro posti nella nuova economia energetica globale, rimangono enormi guadagni da ottenere dalla cooperazione internazionale come parte degli sforzi per costruire una base resiliente per le industrie di domani.
Il commercio internazionale è vitale per la transizione energetica ma l’Europa deve aumentare la diversità dei fornitori.
STATO E MERCATO: L’INDISPENSABILE MIX
PER GARANTIRE LA TRANSIZIONE ENERGETICA di Davide Chiaroni
La Transizione Energetica è la sfida globale più importante per il futuro di ciascuno di noi. È il più grande cambio di paradigma tecnologico dai tempi della rivoluzione industriale e richiede di cambiare il modo in cui produciamo, trasportiamo, stocchiamo e consumiamo l’energia, tutti i giorni, nel quotidiano delle nostre vite, come nelle nostre imprese e organizzazioni. Vincere questa sfida significa concretamente avere una chance di contrastare il cambiamento climatico e proporre un modello di funzionamento del sistema economico più sostenibile. Una sfida così complessa non può, a mio parere, essere lasciata esclusivamente al “mercato” e per almeno quattro ragioni, che ne riflettono altrettanti limiti. Innanzitutto, la transizione ha natura ecosistemica, coinvolgendo una varietà di attori con interessi talora contrastanti, e soffre spesso del cosiddetto chicken-egg problem. Pensiamo al caso delle installazioni di impianti a rinnovabili di grande taglia che richiedono, oltre alla disponibilità dei luoghi, infrastrutture di rete che siano in grado di “seguire” o meglio “anticipare” i fabbisogni di connessione, ma che sono in capo a soggetti diversi rispetto a quelli che sviluppano gli impianti stesi sul territorio. Vi è poi la necessità per alcune soluzioni tecnologiche di tenere conto esplicitamente del

Pensiamo al caso delle auto elettriche, rispetto alle quali, se si vuole rapidamente sostituire i motori endotermici, bisogna “spingere” le immatricolazioni ad un tasso superiore a quello che normalmente il mercato esprimerebbe, in buona sostanza convincendo i proprietari ad anticipare il ricambio delle proprie auto maggior costo rispetto all’alternativa “fossile” e quindi di intervenire con un sistema di incentivazione che renda la soluzione appetibile (non lo sarebbe altrimenti) sul mercato. Un caso su tutti è quello dell’idrogeno “verde” (ossia con l’utilizzo di fonti energetiche rinnovabili per l’elettrolisi che consente di produrlo dall’acqua) che sconta oggi un divario di costo di almeno tre volte rispetto a quello ottenuto ad esempio dal gas naturale o, addirittura, dal carbone.

In altre circostanze ancora, gli incentivi sono necessari (se si condivide l’obiettivo finale) per accelerare un mercato che altrimenti non sarebbe in grado di raggiungere i livelli necessari. Pensiamo al caso delle auto elettriche, rispetto alle quali, se si vuole rapidamente sostituire i motori endotermici, bisogna “spingere” le immatricolazioni ad un tasso superiore a quello che normalmente il mercato esprimereb- be, in buona sostanza convincendo i proprietari ad anticipare il ricambio delle proprie auto.

Infine, vi sono le situazioni, pensiamo all’adozione di pratiche di economia circolare che valorizzino le risorse disponibili connettendo diverse filiere produttive (in logica di end-of-waste), dove la transizione passa per la “rottura di equilibri” e deve tenere conto della ridistribuzione del valore che avviene tra i diversi soggetti; ed in quanto tale, come ricordava magistralmente Macchiavelli, trovando “l’inimicizia di coloro i quali hanno profitto a preservare l’antico e soltanto tiepidi sostenitori in coloro che sarebbero avvantaggiati dal nuovo”.
In tutti questi casi, che però sono estremamente pervasivi nell’ambito della transizione energetica, il mercato incontra dei limiti, senza risolvere i quali non è possibile immaginare che si raggiunga l’obiettivo. Ed è proprio qui che il ruolo dello Stato, o se si vuole della Politica (con la P maiuscola), diviene fondamentale.
È compito, a mio parere, dello Stato definire innanzitutto gli obiettivi di decarbonizzazione e, tenendo conto delle specificità che indubbiamente esistono, distribuire questi obiettivi tra i diversi macro-settori (trasporti, produzione di energia, mondo del costruito, etc.) e – cosa che ora purtrop- po non si fa più – tra le diverse Regioni ed aree geografiche. È compito dello Stato stabilire, assumendo chiaramente una condizione di inizio e di fine ed una modulazione economica nel mezzo (anche questo molto difficilmente riscontrabile nel nostro Paese), i sistemi di incentivazione, siano essi mirati alla sostenibilità economica o
Ed è ovviamente troppo facile per il mercato addossare la colpa alla politica, e talvolta viceversa, quando questi equilibri non si trovano. La soluzione però è e resta quella del ritrovare costantemente questo equilibrio di mix tra Stato e Mercato blighi ed imposizioni – gli investimenti del mercato, accompagnandolo verso il risultato atteso. alla accelerazione delle dinamiche di mercato. È compito dello Stato, infine, “prendersi cura” degli attori delle filiere per i quali la transizione genera un displacement (e che troppo spesso sottacciamo) e che vanno accompagnati o verso la riconfigurazione o verso l’uscita dal sistema. È compito, in buona sostanza, dello Stato il definire le regole del gioco ed indirizzare – talvolta bilanciando gli incentivi con ob-
Si tratta, indubbiamente, di un gioco di equilibri complesso e non privo di rischi. Accelerazioni troppo forti –come recentemente accaduto con il super ecobonus e prima ancora (ma ne abbiamo forse perso memoria) con il famoso emendamento “salva Alcoa” del 2010 che avviò l’effimero exploit delle rinnovabili – non consentono all’offerta di mercato di adeguarsi, con il conseguente effetto rialzo sui prezzi e successiva brusca “frenata” degli investimenti. Allo stesso tempo, attese troppo lunghe, come quella che riguarda l’avvio del meccanismo delle “comunità energetiche rinnovabili”, in ritardo di almeno un biennio, non fanno altro che trattenere un mercato ed un sistema di operatori industriali che invece avrebbe tutte le potenzialità per esprimersi.
Ed è ovviamente troppo facile per il mercato addossare la colpa alla politica, e talvolta viceversa, quando questi equilibri non si trovano. La soluzione però è e resta quella del ritrovare costantemente questo equilibrio di mix tra Stato e Mercato, costruendo il più possibile regole, da un lato, e filiere, dall’altro, in grado di adattarsi rapidamente ai mutati cambiamenti di contesto.
I Nuovi Paradigmi
DELL’“ECONOMIA DELLA FIDUCIA” di Rosario Cerra e Francesco Crespi

Globalizzazione e digitalizzazione, unite alla disponibilità di manodopera, capitale e materie prime a basso costo, hanno garantito negli ultimi decenni la stabilità dei prezzi in un contesto di elevata crescita mondiale. Oggi assistiamo a un cambio di paradigma nell’economia mondiale il cui segnale più evidente è rappresentato dal ritorno dell’inflazione.
Il processo di globalizzazione avvenuto negli ultimi decenni ha, infatti, accresciuto enormemente il grado di interdipendenza sistemica dei vari Paesi favorendo, attraverso gli scambi e la specializzazione produttiva, la crescita dell’economia mondiale, ma anche innescando squilibri economici, finanziari, sociali, ambientali e geopolitici di grande portata.
La globalizzazione ha anche stimolato l’emergere di forti dipendenze strut-
Il processo di costruzione di una “Economia della Fiducia” non avverrà tuttavia a costo zero. Le imprese non potranno più organizzare la propria produzione considerando semplicemente dove i costi sono più bassi, ma le proprie scelte saranno vincolate da elementi geopolitici che definiranno il nuovo perimetro in cui potersi muovere turali, di cui quella relativa alla produzione di energia si è manifestata di recente come la più evidente. Più in generale, l’accresciuta interdipendenza delle economie ha generato le tensioni strutturali sui prezzi che oggi osserviamo sotto forma di ele- vata inflazione, aggravata dagli effetti dell’aggressione militare della Russia all’Ucraina.
Nell’attuale fase, la fine del gas russo a basso costo, la spinta globale verso la sostenibilità ambientale, l’accorciamento delle catene del valore e l’avvio di processi di re-industrializzazione dell’Occidente ci stanno portando verso un Mondo che potrebbe essere strutturalmente più inflazionistico, almeno nel breve (ma, a quanto pare, non brevissimo) termine.
Allungando lo sguardo, è ancora troppo presto per dire come andrà a finire, ma si possono già vedere segnali di cambiamento nell’ordine mondiale e di riconversione delle economie dei sistemi occidentali verso un modello che possiamo definire di “Economia della Fiducia”.

La prima fase di questa transizione è

Prendendo atto che l’accelerazione nella diffusione delle energie rinnovabili solleva enormi problemi dal punto di vista delle dipendenze da Paesi terzi, viene adottata una strategia “make” invece che una strategia “buy”, anche al costo di rinunciare ai vantaggi della libera concorrenza internazionale in termini di maggiore efficienza e minori costi rappresentata dal passaggio dalla dipendenza alla diversificazione nelle forniture. Ne abbiamo avuto un esempio chiaro negli sforzi realizzati dai Governi italiani per stringere accordi per sostituire la fornitura di gas dalla Russia. In realtà, è un processo avviato già prima del conflitto da molte imprese che, appresa la lezione della pandemia, puntano a ridurre la dipendenza da catene di approvvigionamento globali di tipo lineare e ad aumentare la diversificazione dei fornitori.
Il passaggio successivo consisterà in una prevedibile maggiore frammentazione dell’economia a livello globale, a cui corrisponderà una crescente integrazione a livello regionale. Non si tratta della fine della globalizzazione, ma di una radicale modifica della sua architettura, in cui gruppi fortemente integrati di paesi che condividono uno stesso sistema di valori e/o interessi, competono tra loro per l’egemonia economica, politica e culturale.
Il processo di costruzione di una “Economia della Fiducia” non avverrà tuttavia a costo zero. Le imprese non potranno più organizzare la propria produzione considerando semplicemente dove i costi sono più bassi, ma le proprie scelte saranno vincolate da elementi geopolitici che definiranno il nuovo perimetro in cui potersi muovere. Significa quindi che i criteri di efficienza saranno in parte sostituiti da quelli di fiducia, con la conseguenza che i costi legati a una ristrutturazione dell’offerta su base “regionale” e “fiduciaria” saranno significativi.

In questo contesto un secondo cambio di paradigma si sta realizzando. Siamo infatti di fronte al ritorno della politica industriale, ovvero l’abbandono della strategia non interventista dei governi nazionali che si erano affidati negli ultimi decenni all’azione autonoma delle forze di mercato su scala globale.
I 369 miliardi di dollari di incentivi previsti dall’Inflation Reduction Act approvato negli Stati Uniti, destinati ad investimenti verdi e alla sicurezza energetica del Paese, sono solo l’ultimo esempio in questa direzione. Si tratta del più grande piano contro il cambiamento climatico mai realizzato negli USA, perdipiù caratterizzato da una chiara impronta protezionistica.
In un colpo solo gli Stati Uniti hanno messo in chiaro due punti fondamentali: 1) l’importanza strategica della transizione energetica e 2) la scelta di perseguire il raggiungimento degli obiettivi ambientali sviluppando adeguate capacità tecnologiche e produttive internamente.
In altre parole, prendendo atto che l’accelerazione nella diffusione delle energie rinnovabili solleva enormi problemi dal punto di vista delle dipendenze da Paesi terzi, viene adottata una strategia “make” invece che una strategia “buy”, anche al costo di rinunciare ai vantaggi della libera concorrenza internazionale in termini di maggiore efficienza e minori costi. La risposta dell’Unione europea all’IRA non è sembrata del tutto soddisfacente. Si prevede infatti una riorganizzazione del quadro normativo sugli Aiuti di Stato, un più efficace e indirizzato utilizzo dei fondi già disponibili e, in prospettiva, il varo di un Fondo di Sovranità europeo ancora tutto da definire. Non molto, in verità, in un contesto in cui USA e Cina già stanno investendo centinaia di miliardi per sostenere la propria competitività tecnologica e produttiva.
In questa fase storica caratterizzata da incertezza, in cui il tema della sicurezza del sistema energetico è sempre più centrale è, invece, necessario adottare politiche più incisive da parte dei Paesi dell’Unione europea e delle Istituzioni comunitarie. Occorre, in particolare, confermare e rilanciare gli sforzi sugli obiettivi di decarbonizzazione, adottando un approccio tecnologicamente neutro in grado di combinare diverse soluzioni e valorizzare tutte le tecnologie di decarbonizzazione sulla base dell’efficacia e dell’efficienza del contributo che possono offrire, garantendo la stabilità e la sicurezza del sistema energetico nel processo di transizione. In questo scenario sarà quindi fondamentale porre in essere uno sforzo collettivo, in Italia e in Europa, per garantire la sostenibilità e la sicurezza del sistema energetico attraverso un processo di profonda trasformazione tecnologica e industriale, avendo ben presente l’obiettivo di evitare di passare da una dipendenza all’altra. Obiettivo che potrà essere realizzato attraverso il potenziamento delle capacità tecnologiche e produttive italiane ed europee, puntando su un ampio portafoglio di tecnologie ed evitando di fare affidamento nelle catene di fornitura su un numero troppo ristretto di paesi.
IL MONDO DEVE FARE I CONTI CON “L’IRA” DI BIDEN di Adam Schubert & Olivier Macé


È da notare che la legge è stata approvata con una strettissima maggioranza al Senato, 5150 e con il voto decisivo del vicepresidente Kamala Harris, ricorrendo alla procedura della “Reconciliation” del bilancio, uno strumento legislativo che non lascia spazio all’ostruzionismo e limita le possibilità di emendare il testo della legge
L’approvazione dell’Inflation Reduction Act (IRA) da parte dell’amministrazione Biden ha scosso non solo l’Europa per il sostegno pubblico concesso agli investimenti nel settore dei combustibili rinnovabili e per i possibili vantaggi competitivi di cui ora potranno godere gli operatori americani. L’articolo che segue si concentra sugli aspetti dell’IRA relativi ai combustibili a basse emissioni di carbonio (LCF), analizzando dettagliatamente gli incentivi disponibili per i vari tipi di biocarburanti e combustibili rinnovabili. L’IRA è molto più di un semplice strumento regolatorio per la promozione dei clean fuels. Si tratta di un più ampio e ambizioso strumento di riequilibrio del bilancio federale che introduce una serie di nuove ed aggiuntive entrate fiscali, nonché nuovi crediti o nuovi impieghi del gettito fiscale. Pertanto, la disponibilità di crediti d’imposta per i carburanti a basse emissioni di carbonio rappresenta solo una piccola parte dei cambiamenti introdotti dall’IRA al bilancio federale. È da notare che la legge è stata approvata con una strettissima maggioranza al Senato, 51-50 e con il voto decisivo del vicepresidente Kamala Harris, ricorrendo alla procedura della “Reconciliation” del bilancio, uno strumento legislativo che non lascia spazio all’ostruzionismo e limita le possibilità di emendare il testo della legge. Secondo le regole del Senato degli Stati Uniti, infatti, i disegni di legge di “riconciliazione” possono includere solo disposizioni che riguardano direttamente il bilancio federale ed essere approvati dal Senato con un voto a maggioranza semplice anziché qualificata di 60 voti. Per questo motivo l’IRA è stato il risultato di molti compromessi politici su disposizioni che hanno un impatto diretto sul bilan- cio federale, tra cui i crediti d’imposta. In base al requisito che il disegno di legge contenga solo disposizioni che riguardano il bilancio federale, l’IRA non include regolamenti come obblighi per i combustibili rinnovabili o, ad esempio, modifiche al Renewable Fuels Standard (RFS) federale. Come in una direttiva dell’Unione europea, in cui gli atti delegati e i regolamenti di attuazione sono affidati alla Commissione, l’IRA fornisce uno schema generale che le Agenzie federali devono poi integrare con la regolamentazione di dettaglio.Di seguito una breve descrizione delle principali misure relative ai LCF.
Le Principali Misure Per Lo Sviluppo Dei Lcf
SEZ. 13104 SEZ. 13201 SEZ. 13202 SEZ. 13203
Cattura e sequestro del carbonio (45Q)
Proroga dell'attuale BTC fino al 2024 (40A)
Proroga del credito per i biocarburanti cellulosici fino al 2024
Nuovo credito SAF fino al 2024 (40B)
SEZ. 13204 SEZ. 13404 SEZ. 13704 SEZ. 22003
Credito d'imposta per l'idrogeno pulito (45V)
Credito di proprietà per il rifornimento di carburante alternativo (30C)
Credito per la produzione di carburante pulito (45Z)
Sovvenzioni per l'infrastruttura biocarburanti
Cattura e sequestro del carbonio Questa disposizione modifica la sezione 45Q del codice fiscale e prevede un credito di 85 dollari/tonnellata che scende a 60 dollari se l’attività di cattura del carbonio gode di un altro beneficio finanziario (come il recupero avanzato del petrolio o l’uso come materia prima chimica). La costruzione dell’impianto di cattura e sequestro deve iniziare entro gennaio 2033 e il volume minimo è di 12.500 tonnellate di CO2 all’anno, con crediti per 12 anni. Per il settore dei carburanti, le applicazioni principali sono probabilmente l’idrogeno blu e l’etanolo, ma andrebbe precisato che questo credito non è cumulabile con i crediti per l’idrogeno pulito (45V) o i carburanti puliti (45Z). Si prevede che gli operatori prenderanno in considerazione i vari crediti disponibili per un determinato progetto e sceglieranno quello che offre il valore maggiore.
Credito d’imposta per l’idrogeno verde Questa misura crea una nuova sezione (45V) del codice fiscale, che prevede un credito per 10 anni dall’avvio degli impianti, con una scala graduale di crediti a seconda delle emissioni del ciclo di vita dell’idrogeno secondo il modello GREET elaborato dal centro studi Argonne:

Il valore del credito aumenta notevolmente per l’idrogeno con un IC inferiore a 0,45 kg CO2e/kg H2. È strutturato in modo da incentivare la produzione di idrogeno verde con energia rinnovabile (ad esempio, eolica o solare). Per accedere al credito, l’idrogeno deve essere prodotto negli Stati Uniti (o nei loro possedimenti).
Proroga dei crediti BTC e Cellulosici Si tratta semplicemente di una continuazione di strumenti previsti da politiche precedenti. Il credito d’imposta per il gasolio biomass-based (BTC), pari a 1 dollaro/gallone, è disponibile in modo sporadico dal 2004 a chi miscela “diesel a base di biomassa” (BBD), che include sia il diesel a base di FAME che di HVO e quello sostenibile per l’aviazione (SAF). La miscelazione deve avvenire negli Stati Uniti, anche se il prodotto finito può essere esportata a condizione che il BBD non sia stato precedentemente importato. Il credito può essere utilizzato in modo flessibile per compensare le accise o l’imposta sul reddito. Le cosiddette “pass-through entities”, ossia le società non soggette alla tipica imposta sul reddito delle imprese come, ad esempio, quelle a responsabilità limitata (LLC, Limited Liability Companies), possono trasferire il credito agli azionisti invece soggetti a tassazione. Questa dovrebbe essere l’ultima proroga del BTC, poiché dal 1° gennaio 2025 tale previsione sarà definitivamente sostituita dal nuovo sistema di crediti denominato Clean Fuels Production Tax Credit (CFPC) (vedi più avanti). Allo stesso modo, il credito per i produttori di biocarburanti di “seconda generazione” viene prorogato senza modifiche fino alla fine del 2024. Il credito pari a 1,01 dollari è concesso a condizione che le materie prime utilizzate siano cellulosiche o emicellulosiche, alghe coltivate, cianobatteri o lemna.
Nuovo credito SAF
Si tratta di un cambiamento significativo rispetto all’attuale BTC, con la creazione di un credito separato per la miscelazione di SAF (nella nuova sezione 40B) che ha un valore più elevato rispetto al BTC ed è soggetto a una scala mobile dell’intensità di carbonio. I SAF che raggiungono la soglia di riduzione delle emissioni di gas serra (GHG savings) del 50% riceveranno 1,25 dollari/gallone. Questo valore sarà aumentato di 0,01 dollari per ogni 1% di GHG savings serra fino a 1,75 dollari/gallone per il 100%. Anche in questo caso, il SAF deve essere prodotto negli Stati Uniti e destinato ad un aereo negli Stati Uniti. Sono esclusi il co-trattamento dei lipidi nelle raffinerie e i distillati di acidi grassi derivati dalla palma (PFAD). Come il BTC per il diesel, questo credito per i miscelatori cessa dal 1° gennaio 2025 per essere sostituito dal CFPC.
Credito per la produzione di carburante pulito (CFPC)
Questo è probabilmente l’elemento di maggior impatto dell’IRA per quanto attiene ai biocarburanti, sia per le implicazioni sulla monetizzazione dell’intensità di carbonio, sia per il segnale positivo a più lungo termine dato agli investitori statunitensi. Dal 1° gennaio 2025 i crediti BTC e SAF saranno infatti sostituiti dal CFPC che definisce una scala progressiva di tassi di emissione a partire da 50 kg di
CO2e/mmBTU (equivalenti a 47,4 gCO2e/MJ) fino al “livello base” di 1,75 dollari/gallone per il SAF e 1 dollaro/ gallone per gli altri biocarburanti quando l’intensità di carbonio raggiunge lo zero. L’IC sarà arrotondato a 5 kg/mmBTU più vicino. È importante sottolineare che scala progessiva continua anche per i biocarburanti con IC negativo. Ad esempio, il SAF con un IC di -5 kg/mmBTU beneficerà di un credito di 1,75+0,175 dollari. Anche questi livelli di credito saranno indicizzati all’inflazione a partire dal 2024. L’IRS (Internal Revenue Service) pubblicherà annualmente una tabella dei tassi di emissione applicabile ad ogni carburante. Come per il credito SAF, sono esclusi il co-trattamento e il PFAD. Il passaggio dal credito BTC e SAF alla CFPC nel 2025 presenta una serie di aspetti significativi:
1) Il beneficio di questo credito si trasferisce al produttore anziché al primo miscelatore
2) Il carburante deve essere stato prodotto negli Stati Uniti (ma le materie prime possono essere importate e il prodotto esportato).
3) Il credito si applica a tutti i biocarburanti, non solo al diesel a base biologica e al SAF.
4) I biocarburanti con un IC di 50 kg/ mmBTU (circa il 50% di GHG savings rispetto ai valori di riferimento dell’analogo prodotto fossile) vedranno il loro credito scendere a zero da 1 dollaro per i BBD e 1,25 dollari per i SAF. Ciò è particolarmente rilevante per i prodotti a base di soia, per i quali non si prevede un GHG savings significativamente superiore al 50-60%.
5) Per il SAF, il valore dell’1% di GHG savings è più che triplicato, in quanto l’incremento dal (circa) 50% al 100% di risparmio è ora da zero a 1,75 dollaro/gallone, anziché da 1,25 a 1,75. Si tratta di un motivo importante per cercare di migliorare continuamente l’intensità di carbonio in ogni aspetto della catena di fornitura SAF.
6) Sebbene la CFPC sia ufficialmente in vigore solo fino dalla fine del 2027, la maggior parte degli osservatori si attende che venga estesa a lungo termine per fornire agli investitori il tanto atteso segnale di prezzo stabile, un cambiamento ben visto rispetto alla storia altalenante del BTC diesel.
Impianti di rifornimento / Infrastrutture
Infine, sono disponibili crediti e sovvenzioni per gli investimenti nella logistica e nella distribuzione per facilitare la diffusione degli LCF, ad esempio con colonnine dedicate all’erogazione di LCF nei punti vendita. Si prevede che tali risorse saranno utilizzate principalmente per sostenere i distributori e i rivenditori indipendenti più piccoli, piuttosto che le grandi società Oil&Gas.
In conclusione, con l’IRA l’amministrazione Biden ha cercato di fornire una serie chiara e affidabile di meccanismi di sostegno fiscale per la produzione di clean fuels negli Stati Uniti. Questi crediti continueranno a lavorare insieme all’RFS (Renewable Fuels Standards) e alle normative statali (come l’LCFS della California) come parte della “struttura” di incentivi finanziari per lo sviluppo di LCF. Le reali implicazioni di questi cambiamenti sul mercato statunitense sono tuttora da verificare e si
Al di fuori degli Stati Uniti le conseguenze stanno iniziando a farsi sentire, in quanto aziende e investitori stanno rivalutando la loro posizione competitiva rispetto ai produttori americani manifesteranno nel corso dei prossimi anni. Alcune domande chiave sono legate al vero impatto sull’accelerazione degli investimenti e al ruolo dell’idrogeno verde nei trasporti o se anche al fatto se il SAF sia sufficientemente incentivato per competere con il diesel rinnovabile negli impianti che producono HVO. Al di fuori degli Stati Uniti le conseguenze stanno iniziando a farsi sentire, in quanto aziende e investitori stanno rivalutando la loro posizione competitiva rispetto ai produttori americani. La canadese Parkland Corp. ha già annunciato di avere cancellato il progetto per impianto di diesel rinnovabili presso la sua raffineria di Burnaby, vicino a Vancouver, adducendo tra i motivi proprio che “avvantaggia i produttori statunitensi”. Gli operatori di mercato multinazionali, come le major del settore Oil&Gas, avendo un certo grado di scelta sulla localizzazione degli investimenti, potrebbero invece guardare con più favore agli Stati Uniti rispetto al passato, mentre le aziende impegnate nella produzione in Europa continueranno senza dubbio ad aspettarsi - e a richiedere - una serie di incentivi commisurati da parte dei responsabili politici europei. il trimestrale italiano sui problemi dell’energia e dell’ambiente

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Piani Di
Il 20 marzo scorso gli studiosi che fanno parte del Panel Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici (IPCC) hanno presentato un Rapporto di sintesi con le conclusioni del sesto ciclo di valutazione scientifica sul cambiamento climatico che contiene un forte invito ai policy makers a fare di più per evitare perdite irreversibili in termini di ecosistemi e popolazioni.
Il 2023 è un anno importante per il pianeta, in quanto è l’anno della prima revisione degli obiettivi stabiliti nell’Accordo di Parigi, il cosiddetto “Global Stocktake”, cioè un processo mediante il quale le Nazioni sono chiamate a monitorare le azioni per il clima per valutare se sono, collettivamente, sulla buona strada per raggiungere l’obiettivo dell'Accordo di Parigi. Alla COP28, che si svolgerà nel mese di dicembre a Dubai, tutti gli Stati membri dell’ONU forniranno la valutazione delle proprie politiche in tema sia di mitigazione che
Valutare i progressi relativi alle azioni di adattamento non è altrettanto immediato poiché l’efficacia di tali misure può manifestarsi solo dopo un certo periodo di tempo. Pertanto, ad oggi non c'è accordo sulla valutazione dello stato attuale dell'adattamento, su cosa significhi "progresso" e su come valutarlo di adattamento.
Tuttavia, mentre per la mitigazione la contabilizzazione delle emissioni di gas serra è basata su sistemi concordati e consolidati (inventario delle emissioni), valutare i progressi relativi alle azioni di adattamento non è altrettanto immediato poiché l’efficacia di tali misure può manifestarsi solo dopo un certo periodo di tempo. Pertanto, ad oggi non c'è accordo sulla valutazione dello stato attuale dell'adattamento, su cosa significhi "progresso" e su come valutarlo.
Il nostro recente studio, “Quality of urban climate adaptation plans over time”, pubblicato su Nature npj Urban Sustainability, intende supportare tale processo fornendo un sistema di valutazione della qualità dei piani di adattamento in grado di valutarne i progressi rispetto agli obiettivi previsti.

L’indice ADAQA (ADAptation plan Quality Assessment index) si basa su sei principi di qualità dei piani ampiamente riconosciuti dalla letteratura scientifica:
1) Stato degli impatti e dei rischi del territorio;
2) Obiettivi di adattamento;
3) Misure previste;
4) Attuazione delle misure;
5) Monitoraggio e valutazione;

6) Coinvolgimento e partecipazione. Viene, inoltre, introdotto un aspetto relativamente nuovo nella pianificazione climatica, che consiste nel valutare la "coerenza" dei piani, ovvero l’allineamento tra impatti/rischi, obiettivi, misure, monitoraggio e partecipazione pubblica. Ad esempio, se una città identifica la propria vulnerabilità all'aumento delle ondate di calore, che mettono a rischio soprattutto gli anziani, un buon piano progetta e attua anche misure specifiche per contrastarne gli impatti concentrandosi sugli anziani, con meccanismi in grado

In assenza di indicatori comparabili e disponibili a livello globale sull'adattamento e sui suoi risultati, l’indice ADAQA rappresenta un valido indicatore per la valutazione della qualità dei Piani sviluppati dalle città per fronteggiare gli impatti dei cambiamenti climatici ta significativamente negli ultimi 15 anni anche in termini di coerenza tra obiettivi e azioni intraprese. I piani più recenti sono generalmente più attenti ai potenziali impatti del cambiamento climatico sui gruppi vulnerabili, ma tali gruppi sono ancora raramente coinvolti nei processi di partecipazione. di valutare se tale rischio si è ridotto o meno dopo l'attuazione. Tale lavoro è partito dal censimento dei piani di adattamento adottati, tra il 2005 e il 2020, in un campione di 327 città europee omogeneamente distribuite nei 27 Paesi europei più la Gran Bretagna. La raccolta e l’analisi dei contenuti dei piani, che si è svolta tra il 2019 e il primo semestre del 2020, ha evidenziato che solo la metà delle città analizzate (167) si è dotato di un piano di adattamento, con una maggioranza di piani concentrati in Gran Bretagna, Polonia, Francia e Germania.
Un’altra limitazione comune a molti piani è l’assenza di strategie di monitoraggio e valutazione dell’efficacia delle misure previste per affrontare le loro esigenze specifiche.

I risultati hanno mostrato che, in generale, la qualità dei Piani è migliora-
I piani di adattamento della capitale bulgara Sofia e delle città irlandesi di Galway e Dublino sono quelli che hanno ottenuto i punteggi più alti con l’applicazione dell’indice ADAQA. In particolare, il piano di Sofia include dettagli sugli impatti e sui rischi passati, presenti e futuri, considera gli impatti climatici in diversi settori e presta particolare attenzione ai gruppi sociali vulnerabili, mentre le città irlandesi sono tenute a seguire le linee guida dettate dal governo irlandese che, ad esempio, includono una valutazione dei rischi climatici per l'area urbana. L’Italia risulta abbastanza indietro, sia in termini di numero di Piani urbani sviluppati, sia in termini di qualità: Tra le 32 città italiane incluse nel campione, risulta che solo due città - Bologna e Ancona - avevano nella prima metà del 2020 un Piano di adattamento. Se Bologna risulta posizionata abbastanza in alto nella classifica della qualità, all’undicesimo posto, Ancona rimane a metà classifica, piazzandosi all’84° posto. Tale situazione, probabilmente, risente dell’assenza di un quadro di riferimento nazionale in grado di supportare la definizione di strategie e piani locali e regionali: occorre ricordare, infatti, che il Piano nazionale di adattamento è ancora in fase di adozione.
In assenza di indicatori comparabili e disponibili a livello globale sull'adattamento e sui suoi risultati, l’indice ADAQA rappresenta un valido indicatore per la valutazione della qualità dei Piani sviluppati dalle città per fronteggiare gli impatti dei cambiamenti climatici. Uno strumento fruibile gratuitamente online attraverso il ”Climate Change Adaptation Scoring tool”. Tale studio è stato reso possibile grazie allo sforzo congiunto di circa 40 studiosi di tutta Europa che collaborano costantemente per valutare e monitorare lo stato della pianificazione climatica a scala locale nell’ambito della EURO-LCP Initiative, coordinata dalla professoressa Diana Reckien dell’Università di Twente (Olanda).
Davide Tabarelli

IL CORTO CIRCUITO SUI SUSSIDI di
Nello scontro, a volte battaglia, con gli ambientalisti, quello dei sussidi ai fossili è uno dei campi dove gli economisti vincono facile, perché le assunzioni alla base dei calcoli sono molto deboli. Tuttavia, i contabili devono stare attenti, perché di sussidi ai fossili parlano le grandi Istituzioni internazionali, il Fondo Monetario Internazionale, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, l’OCSE, la Banca Mondiale, tutti organi potenti della politica internazionale, rigorosamente guidati da economisti, non da architetti o filosofi come accade per le associazioni degli ambientalisti. Il sussidio ai fossili nasce proprio nel contesto internazionale, dagli studi riferiti ai Paesi produttori di petrolio, quelli che navigano letteralmente nel petrolio e che da sempre fanno prezzi dei derivati del barile estremamente bassi, a volte vicino allo zero. Il Venezuela spicca fra tutti, perché è quello con le riserve più grandi al mondo, ma è anche quello dove più fallimentare è stato lo sfruttamento del petrolio, con prezzi alla pompa della benzina di po- chi centesimi al litro, cosa che serve a poco per un paese con milioni di abitanti che fanno la fame.
Prezzi più alti sono quelli dei paesi del Golfo Persico, oppure quelli in Africa, ma sempre a livelli di molto inferiori a quelli dei paesi industrializzati. Il ragionamento della filosofia del sussidio è che il prezzo internazionale del petrolio, quello a cui esportano i Paesi produttori, giustificherebbe prezzi interni della benzina di molto più alti. Ad esempio, ad inizio 2023, con il petrolio poco sopra gli 80 dollari/barile e con un prezzo spot della benzina a 850 dollari/tonnellata, il prezzo alla pompa avrebbe dovuto essere almeno di 70 centesimi di euro/litro, per altro senza alcuna forma di tassazione. Siccome molti Paesi produttori decidono che il prezzo delle loro risorse, in questo caso la benzina, può essere più basso, vicino ai costi di produzione, allora gli organismi internazionali tacciano la differenza come sussidio agli sporchi fossili. Sotto il profilo strettamente

Nello scontro, a volte battaglia, con gli ambientalisti, quello dei sussidi ai fossili è uno dei campi dove gli economisti vincono facile, perché le assunzioni alla base dei calcoli sono molto deboli etico, che non è mai questione marginale per l’economia, ogni Paese, in particolare se non particolarmente ricco, decide da solo cosa farne delle proprie risorse e come fissarne il prezzo nei suoi confini. Certo, vedere che la benzina praticamente non viene fatta pagare in Venezuela è follia, ma, allo stesso modo, è esagerato considerare sbagliato il fatto che l’Iran o l’Egitto, che hanno molti problemi, applichino prezzi bassi rispetto a quelli internazionali. È forse il mercato internazionale, dove si forma la quotazione del petrolio, il giudice supremo del giusto prezzo? È giusto il prezzo attuale di 85 dollari, oppure era giusto quello del gennaio 2016 di 28, o quello di 140 del luglio 2008?

Nel tempo questo ragionamento dai Paesi produttori è stato esteso ai consumatori, con il sussidio, però, non stimato in base al prezzo internazionale, ma prendendo a riferimento la tassazione più alta praticata nel singolo Paese. L’Italia è un ottimo esempio, in quanto il sussidio più importante, da circa 4 miliardi di euro all’anno, è lo “sconto" praticato sul gasolio autotrazione rispetto alla tassazione della benzina. La differenza di accisa e di IVA, di tasse, sui due prodotti, è di circa 14 centesimi di euro/litro, che moltiplicata per gli enormi volumi di gasolio autotrazione consumato in Italia di circa 28 miliardi di litri comporta un valore di 4 miliardi di euro. È una mancata tassazione sul gasolio che diventa, nella logica ambientalista, un sussidio al fossile. A questo si aggiungono gli sconti di accisa su una lunga serie di prodotti, con i più importanti che sono il gasolio pesca e il gasolio agricolo, ma anche la benzina per le autoambulanze, o il cherosene per gli aerei.
È qui che è facile trovare un elemento di debolezza nella logica di queste stime, quello relativo al fatto che i fossili contribuiscono, appunto con la tassazione, a volte certamente un po’ agevolata, ad un enorme flusso di risorse per le casse dello Stato. L’Italia, di nuovo è uno dei casi più eclatanti, con entrate ogni anno da tassazione dei derivati del petrolio, la fetta più importante, dell’ordine dei 40 miliardi di euro. Se quelli degli “sconti” sono chiamati sussidi dannosi, allora la tassazione dovrebbe quantomeno ricevere una definizione più positiva, una sorta di riconoscimento come contributo a frenare i consumi, e le emissioni di CO2 e altri inquinanti, e pertanto un aiuto al miglioramento dell’ambiente. Ciò non accade e si preferisce guar- dare solo alla riduzione rispetto alla massima tassazione che, essendo la più alta, è considerata anche quella giusta a cui dovrebbero tendere tutte le tassazioni di quel paese.

Dei fossili tutti vorremmo fare a meno, fosse facile, e forse un giorno ce la faremo, ma non certo attraverso queste effimere contabilità che servono per facili proclami e per distogliere l’attenzione dei problemi veri, a cominciare delle gigantesche difficoltà a trovarne dei sostituti.
Dei fossili tutti vorremmo fare a meno, fosse facile, e forse un giorno ce la faremo, ma non certo attraverso queste effimere contabilità che servono per facili proclami e per distogliere l’attenzione dei problemi veri, a cominciare delle gigantesche difficoltà a trovarne dei sostituti
FATTORI ESG: VISIONI DOGMATICHE ALLONTANANO LE SOLUZIONI OTTIMALI di Monica Billio
L’acronimo ESG sintetizza le tre dimensioni della sostenibilità: quella ambientale, sociale e di buon governo, in inglese Environmental, Social e Governance. È ora sempre più noto, anche al di fuori del mondo della finanza, per verificare, misurare, controllare e sostenere (con acquisto di prodotti o con scelte di investimento) l’impegno in termini di sostenibilità di una impresa ma anche di una Organizzazione. Il come misurare e verificare chiede non solo l’individuazione dei fattori rilevanti per le tre dimensioni, ma soprattutto chiede la valutazione della loro materialità, cioè dell’impatto sull’attività aziendale (business), sulle performance finanziarie e sulla valutazione da parte degli stakeholders (aspetti reputazionali). Questo passaggio è fondamentale per comprendere come i fattori ESG influenzino le scelte di investimento e quindi possano indirizzare fondi e capitali. La definizione degli standard di va-


Il come misurare e verificare chiede non solo l’individuazione dei fattori rilevanti per le tre dimensioni, ma soprattutto chiede la valutazione della loro materialità, cioè dell’impatto sull’attività aziendale (business), sulle performance finanziarie e sulla valutazione da parte degli stakeholders (aspetti reputazionali) lutazione è ancora in corso e bisogna accelerare, ma le scelte normative e regolamentari, quali la tassonomia verde e le richieste dei regolatori di mercato, danno già indicazioni che si traducono in valutazioni degli impatti di materialità. Entrando più nello specifico, ad esempio della dimensione ambientale, dove norme e indicazioni regolamentari già ci sono, possiamo comprenderne la materialità distinguendo tra rischio fisico e rischio transizione, dove il primo rappresenta l’esposizione a rischi ambientali che possono andare aggravandosi a causa del cambiamento climatico, mentre il secondo è connesso alle modalità di passaggio verso un’economia a basse emissioni di carbonio, che dipende dal progresso tecnologico ma anche dalla definizione di politiche attive da parte dei Governi, quindi da scelte politiche (oltre che dalle scelte dei consumatori). Entrambi sono legati a indicatori quali le emissioni di gas climalteranti, che costituiscono infatti i principali KPI del pillar E, ma il rischio transizione ha una componente rilevante legata alle scelte politiche e di consumo le cui dinamiche possono non sempre essere ben allineate alle soluzioni migliori di riduzione delle emissioni. Il rischio di transizione, inoltre, può avere un orizzonte più breve del rischio fisico (o dell’accresciuto rischio fisico) che può renderlo quindi prevalente nelle scelte della finanza e degli investitori. Entrando ancor più nel merito della questione, ci sono alcune situazioni emblematiche legate al rischio transizione. Oggi scelte politiche spingono per l’elettrificazione dei veicoli in presenza di una tecnologia non ancora vincente in tutte le sue forme, con conseguenze che possono addirittura portare a valorizzare soluzioni non vantaggiose per l’ambiente. Nell’uso sulle lunghe distanze, ad esempio concreto, l’impiego di un’auto con sistema ibrido plug-in a benzina risulta essere più impattante di quello di un’auto alimentata con motore a gasolio. Da una inchiesta che stiamo svolgendo sulle flotte di alcune multinazionali che hanno cambiato le vetture a gasolio con quelle plug-in a benzina, sta infatti emergendo che il 70% degli utilizzatori si lamenta di un consumo di carburante sensibilmente più elevato e di conseguenza con maggiori emissioni. Questo tema sta emergendo solo ora, sollevando anche la questione greenwashing e di adeguata trasparenza, ed evidenzia come vi sia necessità di un approccio più attento, che consideri lo stato dell’arte attuale e in divenire, sia nel breve che nel medio periodo, per non favorire soluzioni non ottimali. Altri esempi si possono trovare per gli investimenti nel gas, nel petrolio e nel nucleare in quanto ci vuole molto più tempo di quello che erroneamente si pensa per la conversione e questo costituisce un problema. Le ultime stime disponibili da parte sia dell’IPCC (Panel Intergovernativo per il Cambiamento Climatico) sia da nostri studi del Dipartimento di Economia di Ca’ Foscari, come quelli di McKinsey, indicano che gli investimenti necessari per la transizione climatica non saranno inferiori ai 3.000 miliardi di dollari annui con orizzonte al 2050. L’impegno del finanziamento pubblico potrà arrivare forse ad un terzo e c’è quindi un gap annuo di oltre 2.000 miliardi di dollari che necessariamente chiama a una mobilitazione importante di capitale privato verso investimenti sostenibili. E per questo avere metriche ESG ben congeniate permetterebbe a tutti di ridurre il rischio e valorizzare gli investimenti. La corretta valutazione del rischio transizione è strettamente legata anche alla necessità di una transizione ordinata, che chiede un bilanciamento tra l’implementazione di attività a bassa emissione e il rallentamento di quelle ad alta emissione, possibil-

La corretta valutazione del rischio transizione è strettamente legata anche alla necessità di una transizione ordinata, che chiede un bilanciamento tra l’implementazione di attività a bassa emissione e il rallentamento di quelle ad alta emissione, possibilmente prevedendo misure di resilienza e ridondanza adeguate per evitare problemi di sicurezza energetica mente prevedendo misure di resilienza e ridondanza adeguate per evitare problemi di sicurezza energetica così come di ordine sociale (concetto di transizione giusta per le implicazioni su lavoratori e territori maggiormente coinvolti/colpiti dalla transizione climatica). Questa valutazione non deve quindi basarsi sulla situazione attuale, che implicherebbe uno screening negativo (e quindi nessun investimento nelle attività ad alta emissione), ma deve avere capacità forward looking, valutando il potenziale e la volontà di transizione verso tecnologie e processi a minori emissioni. Gli indicatori da includersi quindi nella valutazione non devono fotografare solo lo status quo, ma prendere in carico anche informazioni e valutazioni che guardino avanti e che dovrebbero essere incluse nei piani di transizione, per permettere agli investitori di allocare capitali nelle direzioni utili. Non bisogna poi sottovalutare l’aspetto geopolitico, perché in questo ultimo ventennio con la crescita esponenziale della Cina e quella prossima dell’India, il tema delle risorse disponibili per tutti come le abbiamo conosciute fino ad ora sarà ancora più rilevante. Concludendo, dei passi importanti sono stati fatti e si stanno facendo ma altrettanti ne mancano. Ci vuole da parte di tutti una visione più attenta ma anche meno dogmatica a prescindere.

Con il contributo di Marco Marelli, journalist expert in mobility, sustainability and economics.
INFRASTRUTTURE ENERGETICHE VOLANO PER LO SVILUPPO di Modestino Colarusso
Confindustria Energia ha avviato negli ultimi anni una serie di studi finalizzati ad approfondire lo sviluppo delle infrastrutture energetiche in Italia e nei Paesi dell’area del Mediterraneo attraverso previsioni di investimenti e proposte di modifiche normative che consentano di traguardare gli obiettivi di decarbonizzazione. Con il contributo delle Associazioni rappresentate (Assogasliquidi, Assorisorse, Elettricità Futura, Proxigas, unem), H2IT, Snam e Terna e con il supporto analitico di PwC Strategy&, Confindustria Energia ha concluso nel dicembre 2022 i lavori della terza edizione dello Studio sulle “Infrastrutture energetiche per una transizione sicura e sostenibile” le cui analisi, avviate nella cornice della ripresa post-Covid e della pubblicazione del “Fit for 55”, hanno avuto come priorità la ricerca di una convergenza tra sicurezza energetica, obietti-


Confindustria Energia ha concluso nel dicembre 2022 i lavori della terza edizione dello
Studio sulle “Infrastrutture energetiche per una transizione sicura e sostenibile” le cui analisi, hanno avuto come priorità la ricerca di una convergenza tra sicurezza energetica, obiettivi ambientali e crescita economica, in un quadro di sostenibilità sociale vi ambientali e crescita economica, in un quadro di sostenibilità sociale. Le complicazioni delle condizioni di contesto, che si sono susseguite nel corso del 2022, hanno delineato una nuova situazione geopolitica, ponendo in risalto i temi della sicurezza energetica e della necessità di un’ulteriore spinta verso la transizione ecologica, considerati elementi di indirizzo per lo Studio. Le analisi hanno condotto all’elaborazione di due scenari, denominati “Fit for 55” e “Sostenibilità integrata”, attraverso cui sono stati individuati due piani integrati per gli investimenti fino al 2030, periodo in cui l’Italia, con altri Paesi europei, dovrà far fronte alle criticità del proprio sistema energetico fortemente dipendente dalle importazioni. Lo scenario “Fit for 55” ha avuto come focus quello della sostenibilità ambientale del settore energetico; il piano di sviluppo che tiene conto dei criteri di “Sostenibilità integrata”, nelle sue dimensioni ambientale, economica e sociale, consente di raggiungere gli obiettivi climatici 2030 previsti dal “Fit for 55” e garantisce contemporaneamente la sicurezza e la competitività delle forniture energetiche in linea con gli indirizzi del RePowerEU. Per le scelte strategiche che il Paese dovrà compiere in questo settore, questo scenario coglie al meglio le potenzialità del settore energetico nazionale e valuta in 182 miliari di euro gli investimenti previsti nel periodo 2022-2030, che si traducono in un valore aggiunto totale di 320 miliardi, nell'impiego di 380.000 Unità Lavorative Annue ed in una riduzione delle emissioni pari a 127 Mton CO2/anno nel 2030, facendo leva su una visione strategica che supera l’attuale situazione emergenziale e mantiene la focalizzazione sugli obiettivi di transizione energetica nel medio-lungo termine, tenendo presente gli effetti sui livelli occupazionali delle filiere tradizionali e di quelle innovative. Dal piano emergono diverse leve sinergiche tra loro, a partire dalla leadership in Europa nella produzione di biocarburanti e di importanti eccellenze nei processi di economia circolare. In particolare, i nuovi biocarburanti e i low carbon fuels risultano necessari e complementari alla mobilità elettrica ed è importante che continuino il loro processo di sviluppo per il ruolo significativo che potranno giocare per la decarbonizzazione dei trasporti e per la sicurezza degli approvvigionamenti. In questo quadro l’analisi proposta dallo Studio anche della dimensione sociale della transizione energetica nel nostro Paese pone una seria riflessione sul bando del motore a combustione interna al 2035 e dei suoi impatti e criticità sulle filiere e sul patrimonio di competenze e know-how nazionale. Il piano tiene conto delle ulteriori leve complementari dovute alla posizione geografica ottimale del nostro Paese per l'ulteriore crescita di fonti rinnovabili e per la diversificazione delle rotte di importazioni energetiche, alle sue riserve di gas naturale non utilizzate, alle capacità di stoccaggio ed accumulo incrementabili e dalle reti di trasporto e trasmissione efficienti e diffuse nel territorio. Il gas manterrà in Italia un ruolo indispensabile nel medio termine, anche per supportare lo sviluppo previsto per le fonti rinnovabili elettriche, e non sarà completamente sostituibile dal biometano e dall’idrogeno. Sarà quindi necessaria la realizzazione di sistemi di stoccaggio e di utilizzo della CO2 per accelerare i processi di decarbonizzazione in alcuni settori industriali. Lo Studio dedica altresì una sezione all’economia circolare da cui emergono le significative prospettive di sviluppo per il nostro Paese in termini di valorizzazione delle filiere produttive nazionali e di risparmio e di ottimizzazione nell’utilizzo delle risorse, garantendo la sostenibilità sociale ed il rapporto con il territorio. Questo approccio contribuisce alla sicurezza energetica anche attraverso la riduzione della dipendenza dai Paesi extra-UE nell’approvvigionamento dei materiali critici. La condivisione, inoltre, con le comunità locali delle priorità strategiche, dei criteri progettuali adottati e la definizione ex ante delle ricadute economiche e occupazionali, unitamente a uno stretto coordinamento tra enti autorizzativi nazionali e regionali, sono i presupposti necessari per la “messa a terra” nei tempi previsti delle iniziative proposte. Si ritiene che i risultati e le proposte di questo Studio possano costituire un utile contributo per la definizione del nuovo PNIEC a livello nazionale e per la negoziazione degli atti delegati del “Fit for 55” e del RePowerEU a livello europeo nel quadro di una visione strategica e geopolitica per il nostro Paese, di maggiore collaborazione con i Paesi del Mediterraneo, area di tradizionale presenza degli operatori italiani, al fine diversificare gli approvvigionamenti energetici e di incentivare modelli di sviluppo infrastrutturale sostenibili e integrabili. Programmi coordinati per la realizzazione delle infrastrutture energetiche individuate possono costituire un valido riferimento per le decisioni di investimento nel medio-lungo periodo, purché sia assicurata la definizione di un quadro articolato di «fattori abilitanti» di carattere normativo, autorizzativo e finanziario.


Dal piano emergono diverse leve sinergiche tra loro, a partire dalla leadership in Europa nella produzione di biocarburanti e di importanti eccellenze nei processi di economia circolare. In particolare, i nuovi biocarburanti e i low carbon fuels risultano necessari e complementari alla mobilità elettrica
Supportare La Crescita E Proteggere
DAI RISCHI DEI MERCATI ENERGETICI intervista a Paolo Arrigoni di Marco D'Aloisi

Presidente come vede il suo nuovo ruolo e quali sono le sue priorità?
Presiedere il Consiglio di Amministrazione del GSE è sicuramente un onore, anche in virtù del fatto che nella mia esperienza come parlamentare sono stato sempre attento al ruolo che questa azienda ha nel panorama energetico nazionale e nel supportare aziende, privati e pubblica amministrazione. Proprio in tale direzione stiamo lavorando, insieme all’amministratore delegato l’Avv. Vinicio Vigilante, per migliorare il dialogo con associazioni di categoria, operatori del settore ed enti pubblici. Tenere in considerazione le loro istanze è fondamentale per rendere la transizione energetica ed ecologica del Paese un fulcro della crescita economica.
Al GSE è demandato il compito di promuovere lo sviluppo sostenibile. Cosa dobbiamo intendere con sostenibile?
Il paradigma dello sviluppo sostenibile, come dichiarato dall’ONU con gli obiettivi dell’Agenda al 2030, si fonda sul concetto di uno sviluppo che sappia coniugare la sostenibilità ambien-
Il ruolo del GSE è fondamentale per l’Italia considerando che, con la sua attività, solo nel 2021, ad esempio, ha contribuito ad attivare 2,3 miliardi di euro di nuovi investimenti e la creazione di almeno 53 mila posti di lavoro tale con quella economica e sociale. Dunque, la sola pragmatica interpretazione possibile è quella di un modello di sviluppo che sia in grado di garantire la salvaguardia del pianeta, dell’individuo e dell’economia. In questi termini il ruolo del GSE è fondamentale per l’Italia considerando che, con la sua attività, solo nel 2021, ad esempio, ha contribuito ad attivare 2,3 miliardi di euro di nuovi investimenti e la creazione di almeno 53 mila posti di lavoro.


Il GSE è un’interfaccia importante sia per il Governo che per gli operatori della filiera energetica. Come si pos- sono coniugare le diverse esigenze?
Il GSE svolge il ruolo di braccio operativo del Governo e dunque deve rendere le norme elaborate il più possibili efficaci e tempestive. Il raggiungimento di questo obiettivo può essere facilitato proprio prendendo in considerazione i punti di vista di coloro che operano nel settore. In virtù di questo principio, la nuova governance del GSE, accogliendo le proposte delle associazioni di categoria e degli operatori, ha già attivato una campagna di semplificazione delle procedure che renderà più snelli i processi, riducendo le difficoltà degli operatori e le
Nell’ottica di uno sviluppo sostenibile, inoltre, questi stimoli dovranno essere orientati anche alla creazione di una solida rete di protezione che sia in grado di ridurre l’impatto delle fluttuazioni del mercato energetico su famiglie e imprese tempistiche. Il primo aggiornamento, pubblicato ad aprile e orientato a garantire una sempre maggior efficienza del parco di generazione elettrica fotovoltaica, ha visto lo snellimento delle procedure relative alla gestione degli interventi di manutenzione e ammodernamento degli impianti in Conto energia.
Sulle piattaforme che in qualche modo fanno capo al GSE ci sono anche quelle relative ai biocarburanti, al centro di una discussione a livello europeo dopo il voto sullo stop alle auto endotermiche dal 2035. Che ruolo possono avere secondo lei?
Partiamo dal presupposto che il nemico da contrastare responsabile dei cambiamenti climatici è la CO2, non l’auto con motore a combustione interna. È dunque fondamentale che per perseguire la neutralità climatica, assicurando il principio della neutralità tecnologica e dunque anche tutelando le nostre filiere nazionali, debba proseguire il sostegno ai carburanti low carbon come i biocarburanti, tra cui il biometano, che, come alternativa ai carburanti fossili, rappresentano già oggi una risposta efficace per la mobilità sostenibile. Il loro ruolo sarà decisivo per la decarbonizzazione dei trasporti. Mi auguro pertanto che, come i carburanti sintetici (e-fuel), possano essere impiegati anche dopo il 2035.
GSE svolge un ruolo rilevante anche nella programmazione energetica del Paese. Quali sono le priorità su cui lavorare secondo lei?
Il ruolo di decisore spetta al Governo. Tuttavia, il GSE, che fa parte sia del Sistema Statistico Nazionale ed è responsabile della produzione dei dati statistici nazionali sugli impieghi di fonti rinnovabili, fornisce al Governo tutte le informazioni ed i dati necessari per costruire un quadro chiaro della situazione energetica del Paese. Inoltre, assicuriamo il monitoraggio del raggiungimento degli obiettivi intermedi e al 2030 del PNIEC, elaboriamo scenari, studi economici e modelli previsionali nel campo energetico e ambientale.

Detto questo, l’ambito energetico, in piena fase di transizione, è orientato verso un paradigma differente da quello a cui siamo stati abituati. La spinta della “RED II” sull’autoconsumo e sulla condivisione dell’energia, ad esempio, vedrà lo sviluppo di comunità energetiche rinnovabili che, autosostenendo i propri consumi, alleggeriranno la dipendenza energetica italiana dalle fonti fossili e dai fornitori esteri.
L’attuazione del PNRR passa anche dal GSE. A che punto siamo?
Il GSE svolge un ruolo di primo piano nel PNRR, in quanto è stato designato come soggetto attuatore delegato per diverse misure finalizzate ad accelerare la transizione energetica e a garantire una corretta allocazione delle risorse stanziate. In primis, per lo sviluppo del teleriscaldamento, il cui bando ha messo a disposizione 200 milioni di euro. Durante la fase di gestione, abbiamo ricevuto domande per un risparmio equivalente previsto di circa 73.000 Tep/anno. Il GSE è soggetto attuatore anche della misura “Parco Agrisolare” con uno stanziamento complessivo di 1,5 miliardi di euro. Abbiamo poi la misura dedicata allo sviluppo del biometano di cui è in corso il primo bando. L’obiettivo della misura, sostenuta con 1,73 miliardi di euro, è quello di raggiungere, entro il 31 dicembre 2023, una produzione aggiuntiva di biometano pari ad almeno 0,6 miliardi di metri cubi e, entro il 30 giugno 2026, a 2,3 miliardi di metri cubi. E siamo pronti per gestire le misure dedicate allo sviluppo delle comunità energetiche e configurazioni di autoconsumo, sostenute con 2,2 miliardi di euro e quella dell’agrivoltaico finanziata con 1,1 miliardi di euro.
Che ruolo immagina per il GSE dei prossimi anni?
Decisamente quello di continuare a supportare il Governo nella crescita economica del Paese. L’obiettivo, oltre a favorire la decarbonizzazione e l’elettrificazione dei consumi, è quello di collaborare sempre più attivamente nel rafforzare l’economia nazionale attraverso stimoli volti alla crescita del settore energetico e ai nascenti settori ad esso collegati. Nell’ottica di uno sviluppo sostenibile, inoltre, questi stimoli dovranno essere orientati anche alla creazione di una solida rete di protezione che sia in grado di ridurre l’impatto delle fluttuazioni del mercato energetico su famiglie e imprese. Un rischio, quello di indebolire le attività del tessuto produttivo italiano a causa del costo dell’energia, che dobbiamo impegnarci a ridurre.
SULLE QUESTIONI STRATEGICHE NON PUÒ DECIDERE SOLO IL MERCATO intervista a
D’Aloisi
Gli ultimi due anni sono stati un banco di prova per la tenuta energetica dell’Europa. Come giudica quanto fatto sinora?
Il tema energia è un punto centrale per lo sviluppo e la stabilità dell’Europa e quindi su di esso si è misurata la tenuta dell’intero sistema della UE che ha rischiato di vacillare sotto i colpi delle vicende di questi ultimi mesi. È chiaro che la sfida di realizzare una autonomia energetica oggi più che mai è il presupposto per una autonomia politica, soprattutto rispetto ad autocrazie come la Cina o agli Stati autoritari di Africa e Medio Oriente. L’Europa avrebbe potuto e dovuto agire prima e meglio ed ha dimostrato poca capacità reattiva e decisionale su temi come gli acquisti congiunti di gas o sul price cap.
E sul PNRR?
È positivo che la Commissione abbia finalmente aperto alla modifica del PNRR e alla possibilità di poter attingere a tali fondi per aumentare la produzione energetica nazionale così come chiesto dal Governo italiano.
Partiamo dal presupposto che noi non abbiamo mai messo in discussione l'obiettivo finale della decarbonizzazione. Sosteniamo, però, che gli obiettivi dettati dalla UE debbano essere perseguiti attraverso una transizione sostenibile sia economicamente che socialmente
Non si può non tenere conto della crisi geopolitica ed energetica in cui l’Europa è piombata rispetto al momento in cui è stato formulato.
Sui temi ambientali l’Europa in questi ultimi anni ha prodotto un coacervo di norme non sempre coerenti ed utili allo scopo. Anzi, spesso hanno avuto ricadute negative sulla nostra industria in termini di perdita di competitività rispetto alle altre economie del mondo. Secondo lei è un processo irreversibile o si può fare qualcosa per invertire questa tendenza?

Partiamo dal presupposto che noi non abbiamo mai messo in discussione l'obiettivo finale della decarbonizzazione. Sosteniamo, però, che gli obiettivi dettati dalla UE debbano essere perseguiti attraverso una transizione sostenibile sia economicamente che socialmente. L’intero pacchetto del Green Deal è invece ispirato a misure di impronta ideologica, fatto senza guardare alle conseguenze reali sulla vita dei cittadini. Deve essere lasciata la libertà agli Stati di percorrere la via che reputano più efficace e sostenibile. C’è il tempo e lo spazio per evitare tutto questo, programmando una transizione energetica più ragionata e condivisa, investendo di più in ricerca ad esempio.
Dall’Europa è arrivato il via libera finale allo stop alla vendita di veicoli a benzina o diesel dal 2035 ma solo dopo che la Germania ha ottenuto quello che chiedeva sugli efuel.
Dall’accordo sono rimasti fuori i biocarburanti che invece chiedeva l’Italia. Alcuni hanno parlato di sconfitta per l’Italia. Che idea si è fatto in proposito?
Chi parla di una sconfitta, forse non ha seguito bene questo caso. Parlerei, invece, di importante e opportuno lavoro da parte del Governo italiano che, come ho avuto modo di affermare, ha aperto gli occhi all’Europa sulle pesanti conseguenze dello stop. A differenza di quanto avvenuto quasi sempre in questi anni, la UE non ha potuto far finta di nulla davanti a preoccupazioni che hanno fornito l’opportunità per una discussione più approfondita e un’analisi più completa delle questioni coinvolte. Soltanto a seguito di ciò la Germania ha ottenuto quello che chiedeva sugli e-fuels.

Ora la Commissione è chiamata a dare seguito all’impegno preso con la Germania. Il Governo italiano ha già detto che si adopererà affinché anche i biocarburanti possano rientrare nella categoria dei combustibili carbon neutral. Come pensate di riuscire a convincere la Commissione a farlo visto come sono andate le cose sinora?
Sono convinto che la partita non sia ancora definitivamente chiusa. È vero che c’è stata una votazione, ma è altrettanto vero che c’è uno step intermedio di revisione dei parametri al 2026. Sono certo che si possono riaprire le porte alla proposta italiana di inserire i biocarburanti. È anche una questione di buon senso. Non dimen- tichiamo che tra poco più di un anno ci saranno le elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo e molti equilibri potrebbero cambiare. Posso garantire che Fratelli d’Italia e il gruppo dei Conservatori a Bruxelles continueranno a battersi per cambiare contenuti, tempi e modalità di attuazione di questo provvedimento. Su argomenti tangibili e concreti dobbiamo avviare una trattativa per modificare la linea imposta dalla Commissione europea.

Nel presentare a febbraio il Green Deal Industrial Plan, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha detto che è un’opportunità unica per guidare la rivoluzione delle tecnologie pulite e garantire la leadership industriale dell'UE nel settore delle tecnologie a zero emissioni nette. Molti l’hanno letta come una risposta all’Inflation Reduction Act americano che sta già attraendo molti investitori. Quali conseguenze vede?
Se questo Piano rappresenti la risposta europea all’Inflation Reduction Act non credo sia un punto centrale. Ci interessa molto di più capire modalità di attuazione e conseguenze pratiche. Il punto d’interesse è che sono previsti investimenti di carattere strategico, con l’identificazione di obiettivi per ogni settore. Occorrerà esaminare in dettaglio che tipi di investimenti saranno finanziati. Tutto questo, sottolineo ancora, non deve però avvenire con il paraocchi ideologico ma garantire concretamente che i passi neces- sari siano fatti in modo equilibrato, senza disastrosi sconvolgimenti sul piano economico e sociale.
In questa fase storica stiamo assistendo ad un attivismo sempre più spinto dei Governi. È perché il mercato ha smesso di funzionare ed ha fatto il suo tempo oppure sui temi energetici e ambientali serve una diversa governance a livello globale? La continua e accelerata evoluzione dei sistemi economici e la complessità del quadro geopolitico stanno inevitabilmente creando ripercussioni nei rapporti tra livello governativo e produttivo. Ritengo che nella guida e gestione delle filiere strategiche e degli asset fondamentali di una nazione sia importante una pianificazione strategica complessiva in carico ai Governi. Considerando poi livelli di governance che vanno oltre il singolo Stato, la stessa Europa, in alcuni settori fondamentali come l’energia e la sostenibilità, è chiamata a definire politiche comuni, ma deve sempre farlo nel rispetto delle esigenze e peculiarità delle nazioni che la compongono. La tematica investe questioni complesse di carattere geopolitico di cui i Governi devono tenere conto per evitare che sia solo il mercato a decidere su questioni strategiche che hanno ripercussioni fondamentali sulla vita dei cittadini.
Nel 2024 ci saranno le elezioni europee. Cosa si aspetta?
Abbiamo l'ambizioso progetto di di-
Un progetto che ci porta a condividere anche con il Ppe una visione della Ue maggiormente rappresentativa, specie su alcuni temi di fondo. Un'Europa confederale, in sostanza, con obiettivi comuni in politica estera, cultura, difesa, ma che non violi la sovranità delle Nazioni che la compongono segnare una nuova governance della UE, che veda alla guida un asse diverso rispetto all’attuale maggioranza del Parlamento europeo. In questo senso l’Italia e il governo Meloni rappresenta un riferimento, direi un apripista. Non solo per quanto sta avvenendo a livello politico in Stati come Svezia e Finlandia, ma anche rispetto a quanto potrà accadere nei prossimi mesi negli appuntamenti elettorali in Spagna e Polonia. Il nostro percorso come partito dei Conservatori europei (ECR) è di apertura ad alleanze con chiunque condivida i principi fondativi dell'Ue, principi che maggioranze troppo schiacciate a sinistra hanno via via deformato. Un progetto che ci porta a condividere anche con il Ppe una visione della Ue maggiormente rappresentativa, specie su alcuni temi di fondo. Un'Europa confederale, in sostanza, con obiettivi comuni in politica estera, cultura, difesa, ma che non violi la sovranità delle Nazioni che la compongono. Questa è l’Europa che vogliamo costruire oggi e soprattutto con il 2024.
Salvatore Carollo