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DINAMICO
AL TRILEMMA ENERGIA di Guido Bortoni
Si sono generati “strappi” ovunque al tessuto economico-sociale europeo sia sul fronte della decarbonizzazione (es. ritorno della produzione elettrica a carbone), sia su quello della sicurezza la cui tenuta è stata più volte messa in discussione
Nessuno ha previsto né poteva prevedere lo scatenarsi e gli effetti delle tre crisi che hanno inciso sul sistema europeo dal 2020 ad oggi. Ricordiamo in breve ciò che è avvenuto nell’energia: a) la profonda depressione della domanda causata dai lock-down asincroni ‘20-‘21 in diverse parti del mondo, b) la ripartenza (invece) sincronizzata della domanda post-Covid nell’ultima parte del ‘21 con rialzo spaventoso dei prezzi gas-elettricità e c) le tensioni geopolitiche introdotte dall’invasione russa in Ucraina che hanno prodotto decarbonizzazione la cosiddetta weaponization dell’energia contro l’Europa. Crisi energetiche inèdite che ci hanno colto impotenti o, quanto meno, con poche ricette in mano per una loro soluzione efficace. Il trilemma europeo della sostenibilità ambientale-economica-sociale dell’energia, vale a dire decarbonizzazione accelerata, sicurezza degli approvvigionamenti e competitività (o affordability) dei prezzi, è stato scosso alle fondamenta e, con esso, la prima vittima illustre è stata proprio la credibilità della pianificazione o programmazione pubblica dell’energia-clima in Europa. Si sono generati “strappi” ovunque al tessuto economico-sociale europeo sia sul fronte della decarbonizzazione (es. ritorno della produzione elettrica a carbone), sia su quello della sicurezza la cui tenuta è stata più volte messa in discussione, per non far menzione dei poderosi multipli ai profili dei prezzi rispetto alla normalità 2019. Non si contano le vistose deviazioni rispetto alle traiettorie previste nei Piani Nazionali Integrati Energia Clima (Pniec) approvati nel 2020 dai vari Stati Membri, le quali ne squalificano – come detto – la credibilità e l’utilità complessiva. competitività dei prezzi sicurezza energetica
Come dunque programmare il futuro del sistema energia in una maniera adeguata al nuovo contesto? Non possiamo di certo immaginare di attrezzarci oggi per prevedere la natura e l’intensità delle perturbazioni (se non proprio crisi) a venire, visto che possono essere unprecedented, né possiamo fare ipotesi apodittiche (ed altrettanto ingenue) che la realtà futu- ra segua pedissequamente ciò che noi vogliamo che sia o che non sia. Non ci resta altro che far sì che il sistema energia sia in grado di “ri-salire” (ovvero rialzarsi, il vero significato di re-salio da cui resilienza) dagli stati problematici o semplicemente imprevisti in cui si andrà a trovare. E così la sua pianificazione.
Non potendo prevedere con precisione cosa servirà per far fronte alle deviazioni da un’unica traiettoria primaria o first-best auspicata per la soluzione del nostro trilemma energia, occorre predisporre un numero adeguato di risorse “alternative” e gestirle in maniera dinamica in ragione delle evenienze (opportunità/ostacoli) che occorreranno negli anni futuri. In altri termini, andranno previste delle traiettorie second-best, third-best, etc. con attivazione delle risorse alternative in modo che ci sia sempre almeno un percorso che ci faccia raggiungere gli obiettivi (es. quelli della tappa intermedia al 2030) e sia compatibile con gli svariati e numerosi vincoli posti dal contesto.
Una pianificazione siffatta, con tante chances alternative al percorso primario, condurrà ad avere una transizione energetica più costosa rispetto alla pianificazione semplice mono-traiettoria? È quasi certo che lo sia, beninteso. Infatti, con quest’approccio, non stiamo facendo altro che stipulare una serie di polizze assicurative con garanzie reali (investendo in risorse alternative) per la transizione del nostro sistema energia che normalmente hanno un onere aggiuntivo da sopportare. Ma sono altresì convinto che questa pianificazione possa costare assai meno per la collettività rispetto al caso in cui il trilemma non venga conseguito in termini di risultati-obiettivo. Si pensi solo al caso della sicurezza di approvvigionamento ed agli sforzi cui siamo ora sottoposti per garantirla in termini di dispiegamento di nuove infrastrutture in emergenza
Per far fronte alle deviazioni da un’unica traiettoria primaria o first-best auspicata per la soluzione del nostro trilemma energia, occorre predisporre un numero adeguato di risorse
“alternative” e gestirle in maniera dinamica in ragione delle evenienze (opportunità/ ostacoli) che occorreranno negli anni futuri ossia in maniera poco programmata. Ma vi è di più nella mia proposta di nuova pianificazione: dobbiamo essere in grado di dispiegare un approccio dinamico nella scelta della traiettoria alternativa necessitata nell’arco di piano. Mi aiuta in questo senso il ricorso ad una metafora ben conosciuta da tutti: i navigatori di ultima generazione che pianificano i percorsi nei moderni sistemi di trasporto. Data la località di partenza ed il punto di arrivo, i navigatori moderni sono in grado di suggerire il percorso primario sulla base di criteri e vincoli definiti a priori (lunghezza del percorso, onerosità del medesimo, tempo di percorrenza, etc.) ma, al contempo, anche un “albero” di traiettorie alternative e disponibili che si aggiorna dinamicamente ed in tempo quasi reale in funzione di evenienze di ogni sorta durante il percorso (es. situazione traffico, ostacoli, soluzione di congestioni, etc.).
Così potrebbe funzionare la pianificazione avanzata nell’energia. L’attivazione dinamica delle traiettorie alternative consentirebbe in ogni momento del percorso di scegliere da un albero aggiornato delle possibilità un percorso già programmato di attivazioni di risorse che ci consenta, ceteris paribus, di raggiungere gli obiettivi senza derogare ai vincoli. E di ripetere questo esercizio in maniera ricorrente sino all’anno orizzonte.
Un esempio è a questo punto d’obbligo, per recare di rendere la pragmaticità dell’approccio proposto. È noto come vi siano dei mezzi nella transizione assai preziosi per l’avvicinamento agli obiettivi di decarbonizzazione: le fonti rinnovabili elettriche, cioè quelle che hanno a priori il minimo impatto sulle nuove emissioni di gas climalteranti in atmosfera. Tuttavia, confidare in maniera esclusiva e totalizzante in tale mezzo espone l’intera transizione energetica a rischio di insuccesso qualora eventuali nodi nella disponibilità di risorse dovessero inceppare il percorso primario o anche solo produrre stop&go nelle catene del valore. Ciò si applica all’elettrificazione spinta dei consumi abbinata ad un ampio deployment delle fonti rinnovabili elettriche senza prevedere alternative basate su vettori molecolari in via di decarbonizzazione anche attraverso la cattura delle emissioni di CO2 così come alla mobilità leggera completamente BEV (Battery-based Electric Vehicle) senza ricorrere ad alimentazioni alternative e decarbonizzate quali HVO o celle combustibili ad idrogeno.
Difficile applicare il nuovo tipo di pianificazione? Certo, ma anche utile se non addirittura necessario nel contesto attuale di elevata complessità ed imprevedibilità nei sistemi energia.

ROMA CHIAMA BERLINO…
CHE NON RISPONDE di Antonio Pollio Salimbeni
L’eventualità che i biocarburanti possano essere equiparati agli e-fuels per alimentare le auto e i furgoni nuovi a motore endotermico oltre il 2035 è per ora esclusa dalla Commissione europea. Dopo l’accordo raggiunto dal Consiglio Energia a fine marzo, faticosamente raggiunto dopo settimane di negoziato diretto fra Bruxelles e Berlino per evitare il blocco del regolamento sulla riduzione delle emissioni di CO2 del 100%, un’intervista della Commissaria Kadri Simson a RaiNews24 aveva fatto sperare al Governo e ai produttori italiani di biocarburanti che la partita non fosse chiusa. La Commissaria estone aveva infatti detto che “i biocarburanti sono un argomento che verrà trattato: noi sosteniamo le iniziative al riguardo, è mia responsabilità sostenere i produttori, il sostegno (della Commissione) c’è ed è forte”. Parole chiare, tuttavia non riferite specificatamente al regolamento sulle emissioni di CO2 per auto e furgoni. Che si sia trattato di un equivoco è evidente, indotto dall’esigenza italiana di gestire una sconfitta negoziale a Bruxelles, non poi controverso. Sta di fatto che Bruxelles ha successivamente e pubblicamente chiarito che la Commissaria Simson nell’intervista televisiva “si riferiva alla più ampia questione del mix energetico e non al settore dei trasporti, non avendo mai affermato che i biocarburanti avranno un ruolo nella futura attuazione di quelle norme, ma solo che saranno una parte importante di vari dossier legislativi UE”. dal canto suo, il portavoce comunitario Tim McPhie aveva rafforzato questa posizione affermando che “il tema dei bio- carburanti è delicato in termini di sostenibilità ed emissioni zero di gas a effetto serra perché c’è un impatto sull’uso dei terreni”. In ogni caso attualmente la Commissione “non è in grado di dire quali potranno essere le alternative per il post 2035, molto dipenderà dalle tecnologie disponibili in quel momento”. Abbiamo detto: per ora e attualmente. In sostanza, lo spazio per continuare a investire sui biocarburanti nella UE ci sarà (basti pensare al trasporto aereo e marittimo), ma per ora non si prevede di equipararli agli e-fuels per alimentare auto e furgoni nuovi dal 2035. D’altra parte, questo quadro era già chiaro dall’inizio dell’ultimo negoziato condotto dalla Commissione europea per superare l’opposizione di Italia, Polonia e Bulgaria (la quale in realtà aveva dichiarato l’astensione), abilmente sfruttata dalla Germania con il solo obiettivo di assicurarsi la deroga per gli e-fuels: nelle discussioni Bruxelles-Berlino il tema dei biocarburanti non è mai entrato. E chiaro è il risultato della trattativa condensato nella dichiarazione con la quale la Commissione europea ha definito il modo in cui procederà nei prossimi mesi. Tutto si gioca sul “Considerando 11” del regolamento che costituisce il punto di partenza delle iniziative legislative future (il “Considerando” è una integrazione del testo di legge per spiegare le ragioni di una disposizione e non contiene enunciati di carattere normativo). Intanto Bruxelles presenterà un regolamento di esecuzione per l’omologazione dei veicoli con una procedura “a prova di evasione per i veicoli alimentati esclusivamente, e in modo perma- nente, con carburanti rinnovabili di origine non biologica”. Poi, dopo la consultazione dei portatori di interessi (innanzitutto i settori produttivi, ma non solo), la Commissione proporra un atto delegato per specificare in che modo “i veicoli che utilizzano esclusivamente elettrocarburanti potrebbero contribuire agli obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2”. L’esclusione dei biocarburanti non avrebbe potuto essere più netta. Non si può non notare come la dichiarazione interpretativa comunitaria, che ha permesso l’adozione definitiva del regolamento, abbia una intensità prescrittiva superiore al “Considerando 11”. Quest’ultimo, infatti, si limita a indicare che la Commissione “presentera una proposta relativa all›immatricolazione posteriore al 2035 di veicoli che funzionano esclusivamente con combustibili neutri in termini di emissioni di CO2 in conformita al diritto dell’Unione, al di fuori dei livelli di prestazione in materia di emissione del parco veicoli, e conformemente all’obiettivo della neutralita climatica dell'Unione”. In sostanza, attualmente i biocarburanti non vengono considerati dalla UE “neutri” dal punto di vista dell’impatto ambientale,

Attualmente lo spazio per continuare a investire sui biocarburanti nella UE ci sarà (basti pensare al trasporto aereo e marittimo), ma per ora non si prevede di equipararli agli e-fuels per alimentare auto e furgoni nuovi dal 2035 ma la partita per dimostrarlo in futuro, sulla base del “Considerando” resta aperta. La dichiarazione aggiuntiva della Commissione, limitando l’interpretazione ai soli e-fuels, segnala che tale spazio sarebbe ora ristretto, almeno sulla carta. Segnale importante, dal momento che proprio sul principio della neutralità tecnologica aveva fatto leva il tentativo italiano di difendere il più possibile la filiera della produzione auto a motore endotermico. In ogni caso si può dire che la partita non è chiusa. Tuttavia, è un fatto che l’industria automobilistica europea, comprese quelle case tedesche che hanno puntato i piedi in difesa degli e-fuels, ha confermato finora la scelta strategica dell’elettrico nonostante l’accumularsi di incertezze e difficoltà, che vanno dalla disponibilità delle materie prime e per produrre batterie, al dispiegamento delle infrastrutture on the road per la ricarica al costo per i consumatori. Volkswagen, Stellantis e Renault, per esempio, si sono impegnate a passare all’80% o anche al 100% alla produzione di veicoli elettrici entro il 2030, ben cinque anni prima dello stop UE (con deroga per gli e-fuels). Il regolamento UE contiene una clausola di revisione: nel 2026 (quando ci sarà già un nuovo Parlamento europeo e quindi una nuova Commissione che potrebbe rovesciare le carte in tavola visto che le elezioni si terranno nella primavera del 2024) la Commissione dovrà valutare “in modo approfondito i progressi compiuti verso il conseguimento degli obiettivi di riduzione delle emissioni del 100% all’orizzonte 2035 e l’eventuale necessità di rivederli” tenendo conto “degli sviluppi tecnologici — anche per quanto riguarda le tecnologie ibride plug-in — e dell’importanza di una transizione sostenibile e socialmente equa verso l’azzeramento delle emissioni”. Di conseguenza, dovrà essere valutata “la necessità di rivedere gli obiettivi”. Per il Governo italiano, che alla fine si è astenuto nella votazione in Consiglio dopo aver originariamente dichiarato il voto contrario, ci sarebbe lo spazio per anticipare un confronto sul merito dell’impatto pro-clima dei biocarburanti in relazione al loro utilizzo per auto e furgoni nuovi dal 2035. Spazio che però a Bruxelles, attualmente, non viene riconosciuto. Tanto è vero che dopo l’accordo di fine marzo e l’intervista della commissaria Simson, male interpretata in Italia, la Commissione ha spiegato che rispetto agli e-fuels “i biocarburanti presentano maggiori sfide dal punto di vista della neutralità climatica avendo una maggiore impronta da uso del suolo con un impatto indiretto anche sull’agricoltura”. In teoria, poi, c’è l’esportazione extra-UE: il regolamento europeo, infatti, riguarda l’immissione sul mercato dell’Unione delle auto e dei furgoni “puliti”; tuttavia, non è su questo che puntano i produttori auto in assenza di novità tecnologiche sul fronte dei carburanti “puliti”, come ha recentemente sintetizzato Carlo Tavares, AD di Stellantis: “la traiettoria del settore non cambierà significativamente, siamo sulla buona strada per fornire l’elettrificazione attesa dall’Unione europea”. Da notare che Tavares già diversi anni fa aveva accusato la UE di mancanza di realismo nella transizione forzata e accelerata all’elettrico, ma adesso prevale la difesa degli investimenti strategici già avviati dalla metà dello
Segnale importante, dal momento che proprio sul principio della neutralità tecnologica aveva fatto leva il tentativo italiano di difendere il più possibile la filiera della produzione auto a motore endotermico scorso decennio. Tutto lo sforzo, questo il messaggio dell’industria automobilistica europea, è volto a ottenere la realizzazione degli obiettivi stabiliti senza ulteriori aggravi per i produttori (le norme Euro 7). Questa la valutazione dell’AD Acea, Sigrid de Vries (l’Acea rappresenta i produttori auto europei): “la rotta è ora ufficialmente impostata per eliminare gradualmente la vendita di automobili con motori a combustione interna tradizionali. Il nostro settore accoglie con favore la certezza della pianificazione, crediamo fermamente che un approccio tecnologicamente neutrale, con al centro un’elettrificazione diffusa, sia il modo migliore per raggiungere gli obiettivi climatici”. Adesso occorre fare in modo che le auto elettriche “siano convenienti e possano essere ricaricate” e che “l’industria abbia un accesso competitivo alle materie prime essenziali e all’energia per mantenere un futuro sostenibile in Europa”. Secondo le analisi Acea, nel 2022 un’auto ogni cinque vendute nella UE aveva una “spina”; entro il 2030 ce ne saranno tre ogni cinque. Sarà veramente così? La risposta potrà arrivare solo dai consumatori.

COME È CAMBIATO IL MERCATO DELLO SHIPPING ENERGETICO di Marco Macciò
In che misura la guerra in Ucraina ha modificato il commercio internazionale di gas naturale, di petrolio e di carbone? La risposta dipende da ciò che si guarda: la materia prima sulla quale si fa zoom, i suoi flussi, il suo prezzo o il nolo che si paga per far giungere quella merce a destino. Certamente, il pandemonio innescato da Putin non solo ha favorito un parziale ritorno al carbone, ma ne ha anche mandato ben all’insù il prezzo. Tanto è vero che nell’ottobre scorso per la prima volta le quotazioni di quanto estratto nell’Appalachia centrale hanno superato la soglia di 200 dollari/tonnellata. Invece, non sono cresciuti i noli pagati per far viaggiare via mare tale fossile. Eppure, l’Europa ha cercato di tamponare il taglio dato da Mosca alle sue forniture carbonifere attingendo in Sudafrica, in Australia e in Indonesia, facendo così crescere del 4% la lunghezza media delle tratte battute dallo steam coal e dal carbon coke. Come mai? La risposta è semplice: i noli trattati sullo spot market (vale a dire sul mercato ove si svolgono le negoziazioni inerenti un singolo viaggio) dipendono dal rapporto intercorrente tra la richiesta e l’offerta di scafi. E la bulkcarrier fleet (il naviglio utilizzato per il trasferimento del carbone, dei cereali, della bauxite, ecc.) al momento esprime un’offerta di stiva ben più abbondante della domanda. Tanto più abbondante che, nel caso di questo tonnellaggio durante il 2022, quanto finisce in tasca all’armatore dopo aver dedotto dal nolo la spesa per il combustibile e per l’utilizzo di porti e canali – il cosiddetto timechar- ter equivalent – ha registrato un trend discendente.
Che insegna il caso del carbone? Che ogni materia prima energetica è una realtà a sé. D’altronde, il gas naturale e il petrolio sono sì entrambi degli idrocarburi, ma - industrialmente parlando - sono beni alquanto diversi. Intanto, il petrolio viene imbarcato pressoché come estratto, mentre quella miscela
Quando Putin ha limato, o addirittura negato, l’export di natural gas ai suoi tradizionali clienti, quest’ultimi hanno dovuto rivolgersi a fornitori ubicati molto più lontano della Russia, ma tenendo conto che la richiesta addizionale di naviglio che stavano generando trovava un tetto nelle poche LNG carrier svincolate da impegni a lungo termine di metano, etano, propano, etc., usualmente indicata come natural gas, va depurata e soprattutto intensamente raffreddata per farla divenire liquida e volumetricamente ridimensionata in misura gestibile. Diversamente, il liquefied natural gas (LNG) non potrebbe essere immagazzinato a costi accettabili e caricato in navi speciali - le cosiddette metaniere – per attuarne trasporti intercontinentali. Vi è, però, una seconda – e importante - differenza tra il natural gas e l’oro nero. Riguarda i loro contratti di compravendita. Infatti, quelli relativi al natural gas sono in prevalenza delle intese a lunga durata e poco flessibili sia in termini di prezzo che di volume. E tanta rigidità produce quantomeno due effetti. Innanzitutto, fa sì che ben poco natural gas finisca per essere negoziato nelle Borse mondiali. Così, quando Mosca ha preso a frenare le sue forniture all’Europa, i più grandi operatori e trader di settore si sono scatenati su queste Borse (in particolare su quella olandese) per cercare del natural gas alternativo a quello russo. In buona misura sono riusciti nell’intento, ma comprando anche a quotazioni pressoché stratosferiche. Tanto è vero che nel 2022, stando alle stime, é più che triplicato l’onere per le importazioni di LNG. La rigidità caratterizzante il business del gas naturale comporta, però, anche dell’altro: una quota rilevantissima del traffico marittimo di LNG si svolge tramite metaniere unicamente dedite a servire per lungo tempo una specifica tratta. Di conseguenza, sono pochi gli armatori che corrono l’alea dello spot market. Così, quando Putin ha limato, o addirittura negato, l’export di natural gas ai suoi tradizionali clienti, quest’ultimi hanno dovuto rivolgersi a fornitori ubicati molto più lontano della Russia, ma tenendo conto che la richiesta addizionale di naviglio che stavano generando trovava un tetto nelle poche LNG carrier svincolate da impegni a lungo termine. Quindi, il fabbisogno di metaniere non ha avuto un vero e proprio boom; rispetto all’anno precedente è salito solo del 50% il timecharter equivalent mediamente percepito dalle LNG carrier da 160.000 metri cubi.


Ovvero, dalle metaniere costituenti il benchmark delle spedizioni di dimensione consistente svolte su rotte di lunghezza significativa. Le cose sono andate in tal modo anche nel caso dell’oro nero? No, per il barile, giacché il suo prezzo non ha certo toccato le vette raggiunte dal natural gas; molto meglio per le tanker, sebbene - da quando il nolo incide poco sul costo del barile a destino - le major e i trader trovino conveniente trattare sullo spot market la stragrande maggioranza del traffico internazionale via mare. Ad ogni modo, da quando si combatte in Ucraina di noli elevati hanno goduto tanto le petroliere trasportanti crude oil, quanto quelle movimentanti oil product. È andata così per il combinarsi di quattro motivi. Il primo: il consumo petrolifero mondiale è pressoché tornato ai livelli pre-pandemia e c’è meno crude oil stoccato sulle navi. Pertanto, oggi si trasporta via mare un po’ più petrolio di quanto si facesse quando Putin attaccò l’Ucraina. Il secondo: la Russia ha finora riversato nel mercato mondiale grosso modo la stessa quantità d’olio minerale greggio che tradizionalmente esportava, ma si sono rarefatte le sue consegne all’Europa, la quale in parte ha dovuto rivoluzionare il suo import via mare, mentre è esploso l’export di Mosca verso Cina e India. Il che vuol dire che le vendite russe, anziché comportare mediamente un viaggio di 10 giorni (se non meno), oggi sono divenute spedizioni includenti viaggi che durano anche dai 30 ai 50 giorni. In più, un allungamento delle percorrenze vi è stato nell’ambito degli oil product, poiché è ben vero che ultimamente i russi hanno dovuto ridimensionare le loro esportazioni globali di benzina, di gasolio e via dicendo, ma è anche vero che Rosneft e le altre compagnie che hanno in mano l’export petrolifero russo hanno spedito ben di più oil product di quanto facessero tradizionalmente in territori quali il Medio Oriente, la Turchia, l’Asia e l’Africa. Così come è pure vero che le maggiori importazioni indiane e cinesi di greggio russo in buona misura si trasformano in oil product destinati a mercati piuttosto lontani dalle raffinerie che li hanno lavorati. Ed ecco il terzo motivo: il calo della produttività delle tanker. Dipende dal diffondersi del dark trade: l’interscambio fatto in barba alle sanzioni. Infatti, quest’ultimo – facendo il caso del crude oil russo disponibile in Mar Nero – si svolge in tal modo: una cisterna imbarca a Novorossiysk del greggio sul quale grava l’embargo e poi, anziché recarsi al porto di destino del carico, va a un meeting point al largo del Peloponneso oppure in Nordatlantico e lì trasborda il proprio greggio su una tanker di maggior capacità, la quale – solo dopo essere stata ulteriormente alimentata da una seconda (e magari anche una terza) petrolierainizia il viaggio verso il terminal d’approdo finale. E siamo al quarto motivo: la crescita al rallentatore della flotta cisterniera. Perché quest’ultima non si dilata, ancorché i noli siano elevati? Un po’ perché le tanker sono molto care e nessuno sa se valga la pena d’investire in newbuilding, non conoscendo quanto a lungo possa durare l’attuale bonanza Un po’ perché non si sa bene quale piega potranno prendere le cose. Un po’ perché gli shipbuilder si trovano nell’impossibilità di stimolare le ordinazioni calando il prezzo. Infatti, la fabbricazione delle tanker (come quello delle altre navi) oggi ha un costo pressoché incomprimibile, vuoi perché le quotazioni dell’acciaio sono alquanto elevate, vuoi perché va messo in conto che l’inflazione prima o poi manderà all’insù – e di parecchio – la spesa necessaria per il pagamento della manodopera. In conclusione, gli armatori di cisterne si trovano nella posizione inversa di quel generale di Luigi XIV che giustificò una propria sconfitta dicendo d’essersi trovato sul campo di battaglia con pas des amis et trop des ennemis. Così i possessori di tanker oggi finiscono per essere degli emuli di zio Paperone, giacché - come detto - di amici ne possiedono quattro e di nemici non ne hanno alcuno.
In conclusione, gli armatori di cisterne si trovano nella posizione inversa di quel generale di Luigi XIV che giustificò una propria sconfitta dicendo d’essersi trovato sul campo di battaglia con pas des amis et trop des ennemis.

LUCI ED OMBRE SUI MERCATI PETROLIFERI di
Uno sguardo al 2022
Il 2022 è stato caratterizzato da uno straordinario shock dell’offerta energetica a livello globale, i cui sintomi si erano già manifestati a fine 2021. Anche il petrolio ne ha subito le conseguenze, sebbene in misura diversa rispetto al gas. Per soddisfare la domanda energetica italiana, che stimiamo in calo sul 3%, le diverse fonti energetiche hanno rilevato variazioni inattese rispetto ai trend consolidati. Oltre all’emergenza geopolitica, che ha spinto a mutare profondamente i flussi di approvvigionamento, e alle politiche di sostituzione fra fonti messe in atto per tamponarne le conseguenze, vi è stata anche l’emergenza legata alla siccità che ha fatto crollare la produzione idroelettrica di quasi il 38% e pertanto il supporto della nostra principale fonte rinnovabile. Nelle variazioni del nostro bilancio energetico spicca la forte riduzione del gas, di circa il 10%, seguita da quella delle fonti rinnovabili, superiore all’8%. Questi eccezionali cali sono stati controbilanciati soprattutto dal carbone, che nella produzione termoelettrica ha rilevato un aumento di oltre il 60% e che a livello di energia primaria è risultato in crescita del 35%.
In un contesto di improvvisi e profondi mutamenti il petrolio, grazie alla sua maggiore flessibilità, ha affrontato le sfide del 2022 riorientando i propri flussi, contenendo gli aumenti dei costi e garantendo la sicurezza energetica al Paese, oltre alla mobilità. Passando dal 33% a circa il 36%, il suo peso nel soddisfacimento della domanda energetica italiana si è rafforzato nel 2022, confermandosi la seconda fonte di energia. Sotto il profilo economico, il conflitto russo ucraino ha provocato un esborso netto dall’estero per le fonti energetiche, la cosiddetta «fattura energetica», superiore ai 114 miliardi di euro, un record nella storia italiana, con un peso arrivato al 6% del nostro Pil. L’aumento di circa 65 miliardi della fattura energetica è stato determinato per il 73% da gas ed elettricità, il cui esborso è quasi triplicato rispetto al 2021. Il petrolio ha rilevato, per contro, la variazione più contenuta fra le diverse fonti (+68%) con un peso sul Pil pari all’1,7%. La produzione nazionale di petrolio e gas, pari a 7 milioni di Tep, ci ha tuttavia consentito un risparmio di oltre 6 miliardi di euro. Nello specifico dei consumi petroliferi, l’anno si è chiuso a 58,2 milioni/tonnellate, 2,8 milioni in più rispetto al 2021 ma inferiori di 1,9 rispetto al 2019. Alcuni prodotti petroliferi ne hanno frenato, in misura più o meno ampia, il ritorno ai livelli pre-pandemici (carboturbo, petrolchimica, gasoli per riscaldamento agricolo, ecc.), mentre altri, come i carburanti, hanno rilevato un aumento congiunturale legato ad effetti eccezionali. La petrolchimica, fra i pochi prodotti che non avevano subito effetti negativi della pandemia, anzi in costante crescita nel triennio 2019-2021, ha invece chiuso


Sotto il profilo economico, il conflitto russo ucraino ha provocato un esborso netto dall’estero per le fonti energetiche, la cosiddetta «fattura energetica», superiore ai 114 miliardi di euro, un record nella storia italiana, con un peso arrivato al 6% del nostro Pil l’anno con volumi del 26% più bassi, con una situazione di particolare criticità che si è evidenziata da maggio in poi. I carburanti, benzina e gasolio, invece non solo hanno sostenuto il recupero dei volumi petroliferi complessivi persi con la pandemia, ma li hanno addirittura superati di mezzo milione di tonnellate. Valutandoli separatamente, si nota che è stata sostanzialmente la benzina ad essere responsabile di tale risultato, in particolare da agosto in poi. Nel complesso la benzina è cresciuta dell’11,6% (+818.000 tonnellate), arrivando a 7,9 milioni di tonnellate, mentre il gasolio ha rilevato un incremento del 2,7% (+630.000 tonnellate).
Carburanti stradali e driver di crescita
Sappiamo che il parco circolante italiano è sempre più vecchio e stenta a rinnovarsi. Nello specifico del parco auto (quello più numeroso fra le tipologie di circolante), nel 2022 con un 1,3 milioni di unità ha toccato un livello di immatricolazioni tra i più bassi della storia e con radiazioni pari a poco più di 1 milione di auto. Tuttavia, già da qualche tempo questo parco e i suoi consumi stanno subendo delle profonde modifiche strutturali che sono sempre più evidenti, quali l’ibridizzazione dei motori e lo switch da gasolio a benzina.
A questi importanti driver strutturali, nel corso del 2022 se ne sono aggiunti altri due, quantitativamente meno rilevanti, ma peculiari del contesto, determinati dalla diversa economicità fra carburanti alternativi (metano auto e GNL) e fra Paesi limitrofi.
La costante riduzione delle forniture di gas dalla Russia ha acutizzato le carenze di offerta di tale fonte e anche le quotazioni dei carburanti gassosi hanno subito dei trend in forte ascesa, già da fine 2021. Tale fenomeno, inusuale per questi prodotti che storicamente erano sempre stabili con prezzi al consumo inferiori ai carburanti liquidi, ha spiazzato i consumatori, spingendo ad utilizzare la benzina nei mezzi a metano bifuel. E anche l’utilizzo e l’acquisto dei veicoli merci a GNL ha subito una brusca frenata. Altro fenomeno congiunturale riguarda la disparità di interventi per tamponare gli effetti del «caro energia» che alcuni Paesi limitrofi non hanno adottato nella primavera del 2022, come invece fatto da Italia e altri. Austria e Svizzera, ad esempio, non sono mai intervenute sui prezzi e ciò ha favorito il pieno oltre frontiera e ridotto i loro consumi tra il 2 e il 5%. In particolare, in Italia nel periodo estivo in media i prezzi dei carburanti sono risultati più bassi di quasi 42 centesimi euro/litro per la benzina e di oltre 61 per il gasolio rispetto a quelli praticati in Svizzera.
Cresce l’apporto della raffinazione Nel 2022 le lavorazioni delle raffinerie italiane sono aumentate di circa il 7%, trainate dall’incremento dei consumi interni (+5%), e dalle esportazioni (+4%). In particolare, le esportazioni di prodotti petroliferi hanno contribuito alla bilancia commerciale con oltre 25 miliardi di euro, quasi il doppio rispetto al 2021, grazie a maggiori quantità esportate (oltre 28 milioni di tonnellate) e alla maggiore valorizzazione dei prodotti. Anche le esportazioni di biocarburanti hanno dato un contributo positivo, passando da 1,1 a 2,4 miliardi di euro. Quanto alle fonti di approvvigionamento di greggio, il contesto determinatosi dopo il 24 febbraio 2022 ha prodotto un solco profondo nelle provenienze, considerato che a seguito dell’entrata in vigore dell’embargo al petrolio russo quasi tutte le compagnie hanno dovuto dirigersi verso altri mercati.
Nel complesso abbiamo importato 62,5 milioni di tonnellate di petrolio (+9,6%) da 28 Paesi diversi (rispetto ai 22 del 2021) per 82 qualità differenti (rispetto alle 73 del 2021). In una situazione di improvvisa complessità, quale quella conseguente al venir meno dei flussi russi di greggi (pari a oltre il 10% dei greggi importati), la raffinazione ha saputo riorientare i suoi flussi di approvvigionamento, pur con notevoli difficoltà finanziarie, dati dagli alti costi energetici.
Uno sguardo ai prezzi internazionali
Per quanto riguarda i prezzi internazionali, in media il Brent nel 2022 si è attestato a 99 dollari/barile, più del doppio rispetto alla media del 2020.
Il progressivo allontanamento dei Paesi occidentali dal mercato russo ha innescato un crollo delle quotazioni del
Altro fenomeno congiunturale riguarda la disparità di interventi per tamponare gli effetti del «caro energia» che alcuni Paesi limitrofi non hanno adottato nella primavera del 2022, come invece fatto da altri Paesi, Italia compresa. Austria e Svizzera, ad esempio, non sono mai intervenute sui prezzi e ciò ha favorito il pieno oltre frontiera greggio Ural a favore di greggi alternativi e un rialzo delle quotazioni del Brent, che nella prima settimana di marzo ha segnato il primo picco di 128 dollari/barile, corrispondenti a 118 euro/barile, un record storico.
Il rilascio delle scorte strategiche e le misure restrittive per nuova ondata pandemica in Cina hanno rallentato temporaneamente le tensioni sui mercati. Dopo quelle di Stati Uniti e Regno Unito nel primo trimestre, il 3 giugno la pubblicazione del sesto pacchetto di sanzioni con il blocco alle importazioni di greggio e di prodotti petroliferi russi ha determinato un nuovo rialzo delle quotazioni, con il Brent arrivato l’8 giugno a 124 dollari/barile.
Nel secondo semestre hanno invece prevalso le spinte ribassiste per la possibile recessione dell’economia mondiale, data l’inflazione elevata e le politiche restrittive delle banche centrali sui tassi di interesse e per il rallentamento della Cina, che hanno frenato le quotazioni. I corsi del petrolio hanno così progressivamente ripiegato fino agli 80 dollari/barile di fine anno. Anche per le quotazioni il 2022 ha registrato delle peculiarità, anzitutto l’elevata volatilità. Storicamente il delta giornaliero variava fra il mezzo dollaro e 1-2 al massimo in casi eccezionali. Nel 2022 la forchetta si è amplificata, con differenze dai 7-9 a oltre 10 dollari da un giorno all’altro, riflettendo la maggiore incertezza dei mercati.
Altra caratteristica è stato il progressivo indebolimento del cambio euro-dollaro, che aveva iniziato a 1,13-1,14, poi sempre più vicino alla parità da aprile, e infine sotto la parità ad agosto-settembre, per chiudere l’anno intorno a 1,06, con un effetto penalizzante sulle quotazioni del barile in euro che il 2 marzo 2022 per la prima volta nella storia hanno superato quota 100. Altro aspetto peculiare riguarda le quotazioni dei prodotti. Storicamente le quotazioni di benzina e gasolio hanno sempre rilevato un delta compreso in 2-3 dollari/tonnellata dovuto a motivi stagionali (la benzina generalmente in estate, il gasolio in inverno), mentre nell’anno la paura di minore disponibilità di gasolio per il venir meno delle esportazioni russe verso l’Europa ha fatto lievitare in misura record le sue quotazioni. Per la prima volta nel 2022 abbiamo infatti assistito ad impennate particolarmente significative che han- no provocato una inversione nei livelli dei prezzi.
Le quotazioni del gasolio hanno infatti risentito delle criticità sul mercato europeo per:
• la carenza strutturale distillati medi in Europa, che era sempre compensata dalle importazioni di prodotto russo (pari al 35% delle importazioni europee);
• il venir meno dei greggi sour Urals, pari al 20% del grezzo lavorato nelle raffinerie OCSE, utilizzati proprio per produrre distillati medi;
• la capacità di raffinazione che si è ridotta nell’ultimo decennio, si è rivelata scarsa rispetto alla domanda in Europa e USA;
• una accelerazione nella riduzione delle scorte di distillati medi che già alla fine del 2021 erano ai minimi dal 2017.
Cosa aspettarci nel 2023
L’apparente stabilità delle quotazioni del greggio, con oscillazioni marginali e una media nel primo trimestre attorno agli 82 dollari/barile rispetto agli oltre 97 del 2022, nasconde la spinta di forze contrapposte: da un lato, la domanda della Cina che è prevista salire molto, dando un forte impulso alla domanda petrolifera, dall’altro, la domanda delle economie occidentali che invece sta frenando per effetto della stretta monetaria avviata dalle Banche centrali e di tassi di inflazione elevati. Per quanto riguarda il lato offerta, agli ulteriori possibili sviluppi negativi di natura geopolitica, si sono aggiunte ad inizio aprile 2023 le dichiarazioni a sorpresa di un ulteriore taglio delle forniture di greggio da parte dei Paesi Opec Plus che al target di 2 milioni barili/giorno deciso nell’ottobre scorso, ha aggiunto una nuova riduzione dei volumi disponibili nel mercato di 1,6 milioni barili/giorno. Con quale sentiment?
In chiave rialzista, visto che subito dopo l’annuncio il Brent è salito di 5 dollari/barile, o piuttosto in misura precauzionale ritenendo che la crescita della domanda dell’anno sarà molto meno ampia?
Per il momento le quotazioni sembrano aver scelto quest’ultima ipotesi e, secondo ad alcuni analisti, la mossa dell’Opec Plus sarebbe dettata più da motivi politici, come un messaggio diretto agli Stati Uniti sul fatto che gli equilibri stanno cambiando. In questo solco si inserisce anche un altro fattore eccezionale che si sta già delineando, ossia l’avvento di un processo che è stato definito di “de-dollarizzazione” del petrolio. L’abbandono del dollaro nelle transizioni per le altre “valute chiave” mondiali, quali lo Yuan, non solo ridimensiona il ruolo della finanza statunitense nei mercati internazionali, ma apre a scenari del tutto inediti anche sul fronte di equilibri geopolitici mondiali già instabili.