U&B marzo/aprile 2017

UOMINI&BUSINESS

U&B Il mensile diretto da Giuseppe Turani

Carlo Calenda, dalla Ferrari alla politica.

Un ministro in corsia di sorpasso

Stelvio, grinta e sportività per il primo suv dell’Alfa Romeo Anno 29 - n. 3/4 - Marzo-Aprile 2017 -

€ 3,00 in Italia

Borse sui massimi.

C’è ancora spazio per salire? di Giovanni Tamburi

Spinte populiste.

La via d’uscita esiste. di EMILIO ROSSI

UNIONE EUROPEA SOTTO ATTACCO. Ma l’economia è tornata a correre. di Giovanni Ajassa

URBANO CAIRO

Chi c’è dietro e a che cosa punta

TUTTI I GIORNI www.uominiebusiness.it

EDITORIALE

MENO PESCI, PIÙ CANNE DA PESCA Nulla nella politica italiana è in grado oggi di sollevare qualche entusiasmo. Si torna al sistema proporzionale, e quindi sarà più difficile fare governi decenti e sufficientemente stabili. I populisti, nelle loro varie configurazioni, sono sempre comunque molto forti e potrebbero persino risultare in testa e, purtroppo, le loro proposte politiche vanno dalla vaghezza alla demenza tout court. Il futuro, quindi, appare non tanto rassicurante.

In più c’è una certa deriva “di sinistra”, nel senso che, fra Cgil e esuli dal Pd, sta maturando un filone attento alle questioni sociali, senza mai il minimo riscontro con i dati della realtà economica. Non siamo al “salario come variabile indipendente”, ma ci si trova abbastanza vicini al “welfare come variabile indipendente”.

Il tutto condito da un sorta di accanimento (diffuso da destra a sinistra) verso i soldi. Per cui si pretende che Marchionne paghi le tasse in Italia, pur essendo cittadino naturalizzato canadese (dove ha studiato e si è laureato) e residente in Svizzera. Oppure si ingaggia una battaglia furibonda contro i vitalizi (quelli vecchi, i nuovi sono stati aboliti) dei parlamentari come se da questo dovesse discendere chissà quale benessere per l’Italia. In compenso si lotta a fondo contro i vaccini, facendo ricomparire malattie gravi che si pensavano estinte. Oppure si inseguono farfalle colorate come quelle della moneta fiscale: a proposito della quale il grande economista francese Fitoussi ha detto di non essere abbastanza intelligente per capire come diavolo funzioni.

Insomma, non è difficile rilevare segnali di sgretolamento e di autentica follia nel panorama politico italiano.

In questo quadro abbastanza desolante e sconsolato, sta emergendo un solo punto rassicurante, in una certa misura: il Pd del dopo scissione. É un Pd che si riconosce generosamente nel suo leader Matteo Renzi e che sembra voler marciare compatto, liberato dall’ala più polemica di quell’antica sinistra che faceva la fronda.

Quindi tutto bene? Quasi. Nei suoi mille giorni Renzi ha fatto molta attività di sostegno (gli 80 euro, ad esempio) e forse meno di cambiamento e di investimenti. Ecco, si tratta di capovolgere questa tendenza. La regola è sempre quella: non regalare alla gente del pesce appena pescato, ma delle canne da pesca, così possono andare a pescare.

Giuseppe Turani

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SOMMARIO

Sommario PRIMO PIANO Urbano Cairo: chi c’è dietro e a che cosa punta

Italia alla deriva.

L’Europa cresce e noi restiamo fermi

6

12 PERSONE Calenda, dalla Ferrari alla politica.

Un ministro in corsia di sorpasso

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Rothshild, addio al banchiere filantropo

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OPINIONI Unione Europea sotto attacco.

Ma l’economia è tornata a correre

16

Borse sui massimi.

C’è ancora spazio per salire?

18

Spinte populiste. La via d’uscita esiste

Rivoluzione digitale e nuovi equilibri

22

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MOTORI Stelvio. Grinta e sportività per il primo suv dell’Alfa Romeo

30

Squillo di tromba per Detroit

33

Yamaha TMAX, upgrade riuscito.

Lo scooter da città si rinnova

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I PERSONAGGI

SOCIETÀ Mostre / Manet, pittore della vita moderna

36

Appuntamenti / 70 anni di Magnum

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UOMINI&BUSINESS Redazione

Protagonisti del Novecento

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Cathy Freeman, l’atleta dalle due bandiere Quella dell’Australia e quella degli aborigeni.

Perché tutti devono sapere da dove viene e chi rappresenta

41

Cleo Fincher, una moglie da Oscar Sempre al fianco di Dalton Trumbo, anche quando lui finisce nella lista nera di Hollywood

43

Bianca Beccalli, la ribellione dei Quaderni Ex fidanzata di Pannella, sempre attenta alla condizione operaia

45

La lunga marcia di Ondina Peteani Prima staffetta partigiana d’Italia, cammina dalla Polonia settentrionale fino a Trieste

47

Luchino Dal Verme, il conte partigiano Il 29 marzo 2017 è morto a 103 anni uno straordinario comandante della Resistenza

49

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PRIMO PIANO

Urbano Cairo editore di razza

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UOMINI&BUSINESS - MARZO/APRILE 2017

Rcs e la7 sempre più schierati con i cinque stelle.

Ma dove vuole arrivare il nuovo proprietario del Corriere?

DI GIUSEPPE TURANI

L’amico Ennio Valeri pone una serie di domande molto interessanti. Eccole per esteso.

QUEST’UOMO, non lo nascondo, fa vacillare il mio senso delle cose e del mondo. Un self-made-man a tutto tondo che è salito ai vertici del nostro pur povero Gotha economico/finanziario, che controlla una parte cospicua della comunicazione di questo Paese, be’, quest’uomo sta facendo di tutto per mandare al governo del Paese una banda di sciagurati che lo farebbe colare a picco.

Ora io capisco chi è nato ricco e non ha contezza della differenza ontologica tra chi ha il potere e chi invece non ce l’ha, come cantava Della Mea, ma uno che conosce bene le due condizioni e che la prima se l’è conquistata con le unghie e con i denti, lavorando e rischiando indefessamente, un uomo che si è conquistato il sostegno di un colosso come Intesa Sanpaolo, la più grande banca italiana... come cazzo fa a farsi mallevadore di quella puttanata dei cinque stelle? Come può pensare che questi smandrappati non mandino a puttane quello che si è costruito con dosi massicce di sagacia, di accortezza, quello che di certo gli è caro quanto i suoi figli?

E Bazoli? Il cattobancolungimirante Bazoli pensa davvero che la sua Banca la scamperebbe? Ma che cazzo sta a succede’?

Turani, rispondi! Lo chiedo a te che ‘sti qua di certo li conosci.

Quantomeno molto meglio di me che non ci ho mai avuto a che fare. Fammi capire, Peppo: come funziona ‘sta roba’? Che cazzo gli frulla per le testa?

Perché lavorano così alacremente per

mandare al Quirinale un comico cialtrone e a Palazzo Chigi un manichino ignorante, decongiuntivato, inamidato che tutti i giorni indossa il vestito della prima comunione, e che per decisione del comico vuole uscire dall’euro?

Che cazzo sta a succede’, Giuseppe? Dicce quarcosa! Ché non ci frega niente di quel che pensano Grillo o di Mail. Che cazzo vuoi che ce ne freghi dei pensierini de ‘sti ddu’ stronzi?! Ci frega, invece, di quel che pensano Bazoli e Cairo. Mi fregherebbe pure sapere quel che pensa Campo Dall’Orto, per dire, che è stato messo lì per fare che, non si capisce. Per togliere la direzione del telegiornale a quell’idiota della Berlinguer promuovendola a maitresse à penser della terza rete? O la sora Lucia ‘Nnunziata che come il papa, la domenica fa il punto urbi et orbi?

Mi piacerebbe sapere perché

un partitello del 3 per cento, con una leadership di princisbecco pure scadente - possa esercitare una tale egemonia, controllando una rete RAI oltre a spazi supplementari.

Ricevo spesso apprezzamenti. C’è chi mi dà per parecchio intelligente. Be’, io nun ce sto a capi’ ‘n cazzo de gniente!

La risposta Sono quasi sicuro che siamo di fronte a una maledetta sequenza di eventi non programmati e non decisi. O all’ironia della realtà. Non a una consapevole scelta di campo.

Conosco benissimo i due protagonisti a cui si riferisce Ennio. Giovanni Bazoli è un avvocato di Brescia, famiglia molto per bene e molto cattolica, è lui l’inventore di Intesa Sanpaolo, che ha costruito pezzo per pezzo con le sue mani dopo aver raccolto l’invito

Beppe Griillo

UOMINI&BUSINESS - MARZO/APRILE 2017

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PRIMO PIANO

Giovanni Bazoli

di Nino Andreatta a farsi carico del defunto Banco Ambrosiano (che nessun banchiere ha voluto).

Particolare curioso. Il nonno di Bazoli aveva lavorato, a Brescia, nello studio dell’avvocato Giuseppe Tovini, un cattolico che ha fondato scuole, giornali e anche il Banco Ambrosiano e che alla fine è stato proclamato beato.

Bazoli ha preso in mano l’Ambrosiano a pezzi e lo ha fatto diventare Banca Intesa combattendo contro tutti, e in particolare contro Cuccia, che ha battuto nella conquista della Cassa di Risparmio delle province Lombarde (chiedendo l’appoggio all’ultimo minuto del francese Credit Agricole).

In realtà, le banche non sono la sua passione. Forse gli stanno anche antipatiche. Ha raccolto una sfida e ha voluto vincerla. Tutto qui. Fino a pochi anni fa andava ancora a arrampicarsi sulle montagne, ama le sfide.

Il suo vero interesse è la politica. Se si va a prendere un caffè da lui, per un po’ si parla di banche, ma poi scivola sulla politica. Del giorno per giorno nelle banche si occupano gli amministratori delegati. E infatti Bazoli lo si trova all’origine di un’impresa politica che ha poi segnato l’Italia per molti anni. Non rivelo niente, se scrivo che i due padrini dell’ingresso di Romano Prodi in politica (e quindi dell’operazione Ulivo) sono lui e Andretta, amici fin dai tempi dell’università. La leggenda dice (ma è vero) che l’Avvocato Agnelli, già morente, lo abbia nominato custode e garante del Corriere della Sera.

Dal punto di vista politico Ba8

UOMINI&BUSINESS - MARZO/APRILE 2017

zoli è un cattolico che guarda a sinistra senza alcuna preclusione, e è un uomo colto e avveduto, con alle spalle una lunga tradizione di cattolici impegnati.

Credo che la sola esistenza di Grillo e di tutto il suo codazzo urlante e ignorante sia per lui motivo di fastidio al massimo grado. Quello del comico genovese non è proprio il suo mondo. Lui viene dalla scuola bresciana, la stessa di papa Montini. Tutta un’altra storia.

A suo tempo ha dovuto impiegare forti dosi di carità cristiana per accettare Bertinotti nell’Ulivo, figurarsi Grillo.

Probabilmente si augura tutte le mattine che l’inferno se lo porti via (anche se è un pensiero poco cristiano).

Questo è Bazoli. Oggi è un uomo di 85 anni e è presidente emerito di Intesa, conta cioè un po’ meno di niente, ormai.

Cairo, l’editore di razza E veniamo a Umberto Cairo, 60 anni giusti, alessandrino, studi alla Bocconi.

Comincia come assistente personale di Berlusconi. Per diventare assistente personale di Berlusconi non fa un concorso e non partecipa a una selezione. Telefona alla segretaria, tutti i giorni, per più volte al giorno, fin quasi all’esaurimento della segretaria stessa.

Un giorno Berlusconi la vede che sta urlando al telefono, chiede cosa sta succedendo e si sente rispondere: qui c’è un pazzo che dice che vuole fare il suo assistente. Divertito, Berlusconi si fa passare il tipo, che però lo convince e viene assunto come segretario. Più tardi avrà un ruolo importante nella raccolta pubblicitaria del gruppo e

nell’acquisto di Italia 1 da Rusconi, la terza emittente tv del Cavaliere.

Viene coinvolto nell’inchiesta di Mani Pulite insieme a altri dirigenti Fininvest e Publitalia. A differenza dei suoi colleghi, patteggia una pena di 19 mesi con la procura. La sentenza diventa definitiva nel 1999, ma ormai è intervenuta la riabilitazione e la sua fedina penale è pulita.

Ha dovuto però lasciare il gruppo: a Berlusconi non è piaciuto che abbia ammesso le sue colpe e che abbia fatto un accordo con la procura.

Libero, Cairo rileva il gruppo editoriale di Giorgio Mondadori, quota il suo piccolo impero in Borsa e fa un sacco di soldi. Tenta l’acquisto di alcune tv private milanesi, ma l’affare non va in porto.

Alla fine riesce a impadronirsi della 7, che andava malissimo e che gli viene di fatto regalata. (Nel frattempo compra anche il Torino calcio, il modello è sempre Berlusconi).

Inizia la scalata al Corriere.

Ma la 7 è troppo poco, è una tv marginale, che non arriva al 10 per cento di audience nemmeno nei momenti migliori. Di fatto è schiacciata da concorrenti molto più forti e imbattibili: la Rai, Mediaset, Sky. E Cairo è ambizioso. Così si mette di vedetta e aspetta l’occasione.

Occasione che arriva con il gruppo Rcs-Corriere. Gruppo che va male e che è pieno di debiti. Contro di lui, che si lancia nell’acquisto, scendono in campo tutti quelli rimasti dell’ala nobile del capitalismo italiano, cioè Mediobanca, Pirelli, Bonomi.

A organizzare le truppe dell’ala nobile è Andrea Bonomi, figlio di Carlo e nipote di Anna. Andrea non ripercorre le gesta infuocate della non-

Conquistare RcsCorriere è la grande occasione che Cairo stava aspettando. Al suo fianco banca Intesa. Ma fu vera battaglia?

na (memorabili le sue battaglie con Sindona per il controllo della Generale Immobiliare). Ha una sua struttura con base a Londra, dove tutta la famiglia si è trasferita dopo essere stata scalata da Schimberni, e compra e vende società.

Fa insomma il banchiere d’affari e anche con molto successo. Fra l’altro aveva rilevato la Ducati di Bologna, poi ceduta alla Audi.

Andrea Bonomi, probabilmente, sottovaluta Urbano Cairo e quelli che stanno alle sue spalle. Si dice sicurissimo della vittoria sull’avversario e non rilancia nemmeno. Si limita a far osservare che Cairo, a corto di denari, per acquisire la Rcs offre azioni del suo stesso gruppo futuro (con dentro cioè la Rcs). E pensa che questo basti a scoraggiare i risparmiatori. Ma le cose non vanno così. Vince Cairo. Il mercato gli dà fiducia.

Rcs, fu vera battaglia?

Chi c’era con il patron della 7?

Cairo in quella battaglia ha al suo fianco, come finanziatore, la banca Intesa. È una scelta di campo. Intesa è un forte creditore della Rcs e teme di vedere svanire in fumo i denari prestati a Rcs, se non si trova un buon gestore della baracca.

Quei soldi prestati alla Rcs hanno una storia lunga, che risale ancora alla gestione Rizzoli-Tassan Din-P2.

Dopo il disastro l’ala nobile, guidata da Gianni Agnelli, intervenne in soccorso (assumendo il controllo del gruppo), ma servivano soldi e furono le banche a tirarli fuori.

Quando scoppia la battaglia fra Urbano Cairo e Andrea Bonomi banca Intesa, che è il maggior creditore di Rcs, deve decidere da che parte stare. E non è semplice.

Fra i due contendenti preferisce, alla fine, l’arrampante Cairo, giudicato più motivato rispetto alla un po’ stanca cordata avversaria, che infatti si farà soffiare la Rcs per pigrizia, per poca aggressività, pur sapendo che per Cairo quella era l’occasione della vita e che non si sarebbe arreso, disposto a vendersi anche la camicia.

A Cairo della politica non importa molto. Il suo problema è guadagnare con il gruppo editoriale che ha creato. E i primi conti sono buoni In realtà, in questa vicenda non tutto è chiaro. Alcuni soci dell’ala nobile avevano più che altro voglia di uscire da Rcs, a non potevano farlo pubblicamente, lasciando il gruppo nelle mani del “nuovo” Cairo. Così, qualcuno maligna, hanno fatto finta di combattere, assicurandosi però di perdere.

In parte è lo stesso schema seguito dai Bonomi davanti alla scalata alla loro capogruppo Bi-Invest da parte del presidente della Montedison Mario Schimberni. Hanno alzato grandi lamenti, ma in realtà erano ben felici di essere stati scalati e di essersi liberati di un impero industriale con parecchi problemi.

Comunque siano andate le cose (la verità non si saprà mai, come non si è saputa nel caso Bi-Invest), la Rcs e il Corriere passano a Cairo.

Il vero problema è come fare soldi.

Bene, come è orientato Cairo politicamente? La mia risposta è che della politica gli importa assai poco, forse nulla addirittura. Il suo problema è mettere su un gruppo editoriale importante, e fare soldi, possibilmente. Con un’unica notazione. Cairo non è un raffinato

intellettuale. È sostanzialmente un venditore di pubblicità. Come Berlusconi, e ha un’anima “popolare”. Non a caso i suoi successi editoriali, finora, sono stati giornali popolari di pettegolezzi, roba facile e che in edicola tira molto.

Ci può essere, quindi, una simpatia “naturale” per un movimento populista, ma ci andrei cauto, ci sono in ballo troppi soldi. Inoltre, per Cairo si tratta di decollare (e i primi conti sono buoni) o di affondare. Difficilmente potrebbe sopravvivere a un’eventuale disastro di Rcs e del Corriere (che della casa editrice è al tempo stesso il problema e la polpa).

Ma allora come è potuto accadere che tanto la tv che il Corriere si siano spostati così verso i grillini? Non sarebbe stato più prudente osservare una pacata neutralità?

La mia risposta è: guardate alle redazioni giornalistiche. Sono i Mentana e buona parte degli editorialisti e firme del Corriere a essere convinti che nel presente momento storico la cosa più giusta da fare era quella di puntare su Grillo. Cairo sta a vedere.

E aggiungete che per un editore che vuole farsi strada avere qualche credito verso quello che forse sarà il futuro partito di governo in Italia male non può fare. Così ragiona, sempre, un imprenditore. E anche Cairo.

Come mai Bazoli, che ha sconfitto Cuccia in campo aperto, non interviene contro quattro giornalisti e contro un editore senza soldi? E perché non impone una linea politica al gruppo più vicina alla neutralità, se non

Luigi Di Maio

UOMINI&BUSINESS - MARZO/APRILE 2017

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PRIMO PIANO Carlo Messina

altro?

Perché sa come va il mondo.

Intesa è creditrice di alcune centinaia di milioni da Rcs e l’unica garanzia per riaverli è che Cairo si comporti bene e che faccia soldi. L’importante è che la macchina giri, senza interferenze da fuori. Bazoli, inoltre, è ormai lontano dai giochi. È possibile persino che gli faccia rabbia vedere la banca che lui ha costruito diventare il sostegno (ma lo era già prima di Cairo) di un gruppo sponsor di Grillo. Ma poco può fare.

Carlo Messina, il banchiere di sistema Per Carlo Messina, capo operativo di Intesa, vale ancora di più lo stesso discorso: si alza alla mattina e prega che Cairo non faccia cazzate, perché se Cairo dovesse andare a rotoli, lui si troverebbe con due problemi: centinaia di milioni di crediti andati in fumo e una casa editrice come la Rcs (dissestata a quel punto) sulle spalle, da sistemare.

E questi sono tempi difficili per le banche, sempre nel mirino delle autorità e dell’opinione pubblica (e dei grillini…).

Se dovesse scoppiare il dramma Rcs, banca Intesa dovrebbe fare qualche salto mortale per assorbire la botta.

Inoltre, tutti questi signori (da Bazoli a Messina a Cairo) non pensano affatto che Grillo abbia (un domani) il potere di rovinare definitivamente l’Italia e i loro affari. Alla peggio ritengono (e non solo loro, ma tutti 10

UOMINI&BUSINESS - MARZO/APRILE 2017

i titolari del capitale) che, se proprio dovesse esagerare, verrà eliminato, reso inoffensivo. Nemmeno Grillo, è la loro regola di vita, può pensare di governare contro gli affari: articolo quinto, chi ha i soldi ha vinto.

Insomma, siamo nell’area del rischio calcolato. Grillo esiste e loro ne prendono atto. Cairo, probabilmente, pensa che alla fine un po’ gli saranno riconoscenti, una volta al potere. D’altra parte non saprebbero nemmeno come fare per fermare Grillo (nemmeno Renzi o gli altri lo sanno).

Gli imprenditori, è bene ricordarlo, sono abituati a venire a patti, sempre, con il potere politico. Quando c’era il fascismo e era diventata obbligatoria la camicia nera, il vecchio senatore Agnelli, il fiondatore, disse alla moglie: «Colorane una con l’inchiostro, così quando questa storia sarà finita, la manderemo in lavanderia».

Il capitalismo italiano è morto.

Su un altro fronte ricordo ancora qualche anno fa, quando i comunisti erano i comunisti, e Reichlin mi chiedeva se i capitalisti sarebbero stati disposti a vederli al governo (dibattito al festival dell’Unità di Bologna, inizio anni ’90): pochi mesi dopo a Milano il gotha della finanza sedeva a tavola con il vertice del Pci. Come del resto ha fatto non tanto tempo fa addirittura con quel niente di Di Maio, facendo finta che fosse qualcosa. I politici vanno e vengono, i soldi restano. Qualche volta si sbaglia (come nel caso di Mussolini), ma non sempre. E in questo caso il

capitale non pensa che Grillo abbia la consistenza di Mussolini. Sbagliano?

Non credo.

Ma la storia non può finire qui. Va detto che oggi il capitalismo italiano sembra un po’ una macchina rotta. Morto l’Avvocato Agnelli, internazionalizzata la Fiat (per fortuna) a opera di Marchionne, non esiste più un centro, una volontà, dei “poteri forti”. Non esiste più un disegno generale del capitalismo italiano, nemmeno quello di rimanere con lo sguardo in avanti. La stessa Confindustria, da cui il gruppo più importante, la Fiat, è uscito, più che la sede di scontri fra innovatori e conservatori, come è stato in passato, appare oggi un luogo di battaglie fra opposte cordate. Impossibile intravedere, da qualsiasi parte, una visione interessante.

C’è chi sostiene, e con buoni argomenti (Berta) che il capitalismo italiano non esista più. Ormai ci sono una serie di aziende che vanno per conto loro, ognuna con problemi specifici.

Il cuore di tutto il sistema è rappresentato dal Quarto Capitalismo, 4-5 mila aziende di medie dimensioni, e molto internazionali, di cui la gente sa pochissimo e che vanno avanti grazie alle loro doti. Per quel che ne so, cercano anzi di stare lontano dalla politica.

P.S. Infine, un piccolo pettegolezzo, nello stile delle pubblicazioni che hanno fatto la fortuna di Cairo. Carlo Messina, capo di Intesa è quello che in tutta questa storia ha i soldi, è il fidanzato di Jacaranda Falck Caracciolo. Figlia del principe Carlo Caracciolo (ex patron dell’Espresso e di Repubblica) e di Anna Cataldi (ex signora Giorgio Falck), che è stata la seconda moglie di Cairo. Ma è solo un pettegolezzo.

In questa vicenda nulla è passato per le alcove e Anna, da anni, si occupa solo dei bambini per conto dell’Onu. Non credo nemmeno che legga tanto spesso il Corriere del suo ex-marito. Q

PRIMO PIANO

LA PALUDE ITALIANA % 8

I CICLI DELL’ECONOMIA: CINQUANT’ANNI DI PIL

7 6 5 4 3 2 1 0 -1 -2 -3 -4 -5 -6

1970 1971 1972 1973 1974 1975 1976 1977 1978 1979 1980 1981 1982 1983 1984 1985 1986 1987 1988 1989 1990 1991 1992

Per ogni anno è riportata la foto del corrispondente presidente del consiglio (in alcuni anni se ne sono succeduti due)

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UOMINI&BUSINESS - MARZO/APRILE 2017

Mentre l’Europa cresce, noi siamo fermi. Affondiamo sotto il peso della burocrazia e sotto il macigno di un debito colossale

Variazione percentuale anno su anno del Pil italiano dal 1970 al 2016 calcolato a prezzi costanti

2 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015 2016

Fonte: elaborazione Ref Ricerche UOMINI&BUSINESS - MARZO/APRILE 2017

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PRIMO PIANO

DI GIUSEPPE TURANI

L’ITALIA non è il miglior paese del mondo, l’Italia non va benissimo, non sarà l’Italia a cambiare l’Europa. Nei suoi mille giorni di governo Matteo Renzi si è molto speso per far passare per buone le affermazioni che sopra sono appena state negate. E la cosa aveva un senso: diffondere l’idea che non tutto è perduto e che esiste ancora un futuro per il paese.

Ma la realtà è diversa. Non siamo un luogo fantastico. Siamo un luogo dove non funziona quasi niente: dal sistema amministrativo nel suo complesso al comune più piccolo.

Non servono nemmeno molte parole per descrivere questo stato di cose: tutti ormai hanno capito che il paese affonda sotto il peso di una burocrazia labirintica e molto potente. La soluzione stava, in parte, bene o male, nella riforma costituzionale proposta da Renzi, ma il 4 dicembre è stata bocciata clamorosamente.

Troppi gli interessi che andava a colpire, troppe le novità che voleva introdurre. E così è stata affondata con un’alleanza dall’estrema destra all’estrema sinistra.

Però il problema rimane. Se non si affrontano i problemi indicati in quel progetto di riforma, da qui non ci si muove. E il “da qui” è una sorta di palude melmosa nella quale è impossibile correre, e anche solo prendere un po’ di velocità.

Ormai tutti parlano (anche il più stupido leone da tastiera ha imparato come si fa a mettere su un discorsetto), ma la verità dei numeri è lì da vedere. Parla, urla.

Un paese che non cresce L’Europa cresce, non tanto, ma cresce.

L’Italia no. Sembra che più in su dell’1 per cento all’anno non sia capace di andare. Con una crescita così, il paese semplicemente affonda, lentamente, ma affonda, non può fare altro.

E questo accade (va detto per la centesima volta) non per gli errori di politica economica di Renzi (che pure ci sono stati), ma perché il

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UOMINI&BUSINESS - MARZO/APRILE 2017

Siamo un paese con tre milioni di disoccupati e con le paghe peggiori d’Europa. La via d’uscita non può essere abbandonare l’euro o accollare all’Europa metà del nostro debito. La soluzione stava, in parte, nella riforma costituzione proposta da Renzi e che il Referendum del 4 dicembre ha bocciato clamorosamente: andava a colpire troppi interessi paese in queste condizioni non può fare di più.

Basta guardare la mappa del Quarto Capitalismo (4500 aziende medie) per vedere che almeno mezzo paese di fatto non esiste. Sì, ci sono gli abitanti e le città, ci sono persino delle università, e tantissima storia.

Ma non c’è il resto. Non c’è l’insieme di aziende che produce reddito, ricchezza, benessere.

La sensazione che si ha è che probabilmente non ci sarà mai. Lo sapevano i politici della prima repubblica, quando tentarono di portare il futuro al Sud dall’alto, impiantandovi giganteschi complessi industriali, tutti poi finiti regolarmente a rotoli.

E oggi non ci sono idee, a parte un po’ di belle parole di propaganda.

Siamo un mezzo paese Di fatto, cioè, non siamo il più bel paese del mondo: siamo un mezzo paese, forse anche meno.

Mezzo paese e afflitto dalla burocrazia di cui si diceva più sopra e che ha evitato di cadere sotto i colpi della riforma costituzionale. Adesso quel percorso andrà ripreso. Se prima Renzi aveva tentato di cambiare il paese con una ruspa, liquidando con una mossa la vecchia costituzione, adesso dovrà lavorare di cesello. Non sarà un lavoro facile.

I vecchi padri costituenti avevano il terrore che una parte politica potesse prevalere e prendere il potere e quindi hanno costruito una “macchina” infernale, molto lenta e piena di divieti. In pratica, se non si è d’accordo tutti, è difficile combinare qualcosa. Ma come si fa a essere d’accordo tutti?

Per dare un’idea della complessità legal-burocratica nella quale viviamo, tempo fa Romano Prodi disse che se si riuscisse a abolire i Tar e il Consiglio di Stato avremmo

all’istante qualche punto di Pil in più di crescita. La battuta era paradossale, ma non sbagliata.

Aggiungiamo, in più, che da tempo la magistratura si diverte a inventare reati che rendono sempre più complicato muoversi. L’abuso d’ufficio è ormai una grana che viene contestata a qualunque sindaco dimentichi una firma o ne faccia una di troppo. E questo comporta che tutti si muovano ormai molto lentamente e solo dopo il via libera di un collegio di avvocati.

Un paese sgangherato Ma non basta. Sta anche prevalendo una sorta di ideologia grillina: massima attenzione anche alle spese di 100 euro, scontrini e scartoffie per qualsiasi cosa, sospetti su tutti, pretesa di far valere come sentenze anche il semplice (e dovuto) avvio delle indagini.

Se prima il paese era finito nelle mani dei magistrati, adesso l’ideologia grillina vorrebbe che finisse nelle mani del “popolo”, cioè che le sentenze fossero emesse da ignoranti sfaccendati che passano la giornata davanti al computer e che, nelle more della loro ricerca infinita delle sirene e delle scie chimiche, se la prendono con qualche sindaco che ha dimenticato una firma nell’autorizzazione della copertura di un tombino.

Quindi non siamo un meraviglioso paese. Siamo un paese sgangherato.

Ma, al di là di queste storie, che pure hanno un peso, poi ci sono i fatti. Abbiamo un debito accumulato colossale, come tutti sanno. Ma abbiamo anche mezzo paese (nelle sue espressioni politiche) che smania per uscire dall’euro, cosa che ci porterebbe immediatamente in default, con crisi bancarie e miseria crescente. Questo mezzo paese non ha idee.

Tranne una: dalla crisi si viene fuori se si torna alla lira e sei il governo (fatto da loro) potrà ordinare alla Banca d’Italia di stampare quantità enormi di moneta. È un potere che nemmeno il presidente degli Stati Uniti ha. Ma loro lo vogliono perché pensano che basti stampare cartamoneta per diventare ricchi.

La seconda idea che hanno (e che un po’ gira anche, colpevolmente a sinistra) è che si rimane in Europa solo se si arriva alla mutualizzazione di parte del nostro debito di oltre due mila 200 miliardi di euro.

Mutualizzazione significa che parte del debito viene scaricato sulle spalle dell’Europa (cioè di tutti i nostri partner) e noi ci troviamo solo con mezzo debito: mille miliardi invece di due mila. E qui non siamo nemmeno più nell’area delle proposte politiche, ma direttamente in quelle del manicomio. Un giorno si potrebbe anche arrivare a cedere parte del nostro debito all’Europa, ma, insieme, dovremo cedere anche molta della nostra sovranità. Cosa che invece nessuno di costoro è disposto a fare.

Quindi non siamo un bel paese. Siamo un paese che, in alcune sue componenti, medita di tirare un bidone colossale ai propri soci.

Il lavoro artificiale Riformeremo l’Europa. Tradotta in termini concreti questa espressione significa che l’Europa deve diventare più generosa, spendere di più. E non si tratta nemmeno di un’idea sbagliata. L’Europa ha bisogno di rinnovarsi e una bella stagione di investimenti moderni sarebbe quanto mai utile.

Temo, però, che non sarà il paese più indebitato d’Europa a vincere questa battaglia. In realtà, al di là della nostra faccia tosta, non abbiamo molti titoli per dire all’Europa che cosa deve fare. Possiamo suggerire sommessamente, forse.

Infine, un’ultima osservazione e i renziani doc sono pregati di non arrabbiarsi subito e di ragionare con calma. Questa storia degli incentivi al lavoro delle donne o dei giovani attraverso esenzioni (totali o parziali) dei contributi andrebbe

Basta guardare la mappa del Quarto Capitalismo (4500 aziende medie) per vedere che almeno mezzo paese di fatto non esiste: al sud sono pochissime le imprese che producono reddito e benessere infilata nel cestino della spazzatura, una volta per tutte.

Cerchiamo di capirci. Se io stato mi assumo parte del costo di un lavoratore (giovane o donna) è evidente che l’imprenditore avrà interesse a assumerlo perché costa (artificialmente) meno. Vorrà dire che rimangono a casa, disoccupati, gli altri. Ma, si dirà, l’occupazione è comunque aumentata e per centinaia di migliaia di unità.

E certo, se io abbasso artificialmente il costo (per l’impresa) di un lavoratore, l’impresa ha interesse a assumerlo invece di realizzare un avanzamento tecnologico. Ma se questa occupazione “indotta” mi cresce più in fretta del Pil, il risultato finale è che ho impiegato più gente per fare un’unità di Pil. Ho abbassato, cioè, la produttività complessiva del paese: ma il nostro problema principale è appunto quello di avere

una bassa produttività. E spendiamo soldi per abbassarla ancora?

L’occupazione si aumenta solo e esclusivamente con provvedimenti generali (taglio del cuneo fiscale, taglio delle tasse) e attraverso la crescita e l’innovazione.

Tutto il resto è ciarpame fantasioso e dannoso. Ricorda un po’ le contrattazioni sindacali degli anni Settanta all’Alfa Romeo e in altre aziende pubbliche e private. In fondo a ogni accordo, c’era la clausola che prevedeva entro un certo tempo l’assunzione di tot nuovi lavoratori, sia che l’azienda ne avesse necessità o no. E il sindacato, ovviamente, si vantava di questi suoi risultati: lottiamo non solo per paghe migliori, ma anche per avere più gente sotto i capannoni.

Bene, le paghe sono le peggiori d’Europa e abbiamo tre milioni di disoccupati. Q UOMINI&BUSINESS - MARZO/APRILE 2017

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OPINIONI

La forza dell’Europa Brexit, terrorismo, immigrati, protezionismo: eppure l’economia continua a rafforzarsi.

E finalmente i consumi interni guidano la crescita

Sicurezza, prosperità, competitività, sostenibilità e responsabilità sociale sono tra gli obiettivi contenuti dei nuovi Trattati di Roma firmati lo scorso 25 marzo dai leader dei 27 paesi dell’Unione Europea DI GIOVANNI AJASSA* L’UNIONE europea compie sessant’anni. Accade fa tra molteplici difficoltà, di ordine soprattutto geopolitico, con origini esterne ed interne al Vecchio Continente. Eppure, sul fronte economico, i consuntivi e le prospettive si mostrano migliori del previsto. L’Europa dell’economia

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cresce, magari a sua insaputa. Succede per due fattori che si chiamano resilienza e sovranità.

Resilienza e sovranità sono due chiavi di lettura interessanti per interpretare i risultati alquanto sorprendenti ottenuti nel 2016 dalle principali economie dell’eurozona,

Italia compresa. In fisica la resilienza esprime la capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi. Di urti l’economia europea ne ha sopportati parecchi nel corso dello scorso anno. L’eccezionale rallentamento degli scambi internazionali, gli attacchi terroristici, l’inatteso esito

del referendum sulla Brexit, il dirompente cambio della guardia al vertice della Amministrazione americana, le ricorrenti tensioni all’interno della stessa Unione europea. Nonostante tutto, la crescita economica ha tenuto.

Non solo. Nell’annus horribilis dei pronostici sbagliati su elezioni e referendum, le previsioni sulla crescita dell’eurozona sono state invece azzeccate al decimo di punto. Un anno fa le “Winter Forecasts” della Commissione europea ipotizzavano un aumento del PIL nel 2016 pari all’1,7 per cento, il valore che i consuntivi dell’Eurostat hanno ora certificato.

Fatti i complimenti agli economisti della DGEcFin a Bruxelles, il punto è interrogarsi sulla natura di tale resilienza. Una prima ipotesi è che si tratti di un fenomeno solo temporaneo. Gli urti della Brexit e della svolta americana non si sono sentiti semplicemente perché ancora non si

sovranità. C’è un’Europa che, dopo anni di ritardo, si mostra capace di attivare una crescita basata più sulla domanda interna che sul traino del saldo tra export e import. Un’Europa più sovrana in quanto più capace di essere essa stessa l’origine della propria crescita. Lo scorso anno la domanda interna ha contribuito per quasi un punto e mezzo alla crescita del PIL in Italia e per due punti in Francia. Persino in Germania qualcosa si è mosso, con la domanda interna che ha trainato lo sviluppo con un contributo di oltre due punti. Analogamente in Spagna, dove quasi tre punti di crescita del PIL sono venuti dalle componenti domestiche.

Il recupero di sovranità nella matrice della crescita economica europea va ora consolidato. La priorità è rendere il ribilanciamento a favore delle componenti interne dello sviluppo capace di produrre ritorni

In Germania il tasso di disoccupazione giovanile è sceso dal 12 per cento del 2007 al 7 per cento del 2017.

I tedeschi hanno trovato il modo. E se provassimo a imparare da loro? livello superiore, macro e politico, il compito di quadrare il cerchio. Di costruire un progetto complessivo che guardi a tutti i settori dell’economia, alle differenti dimensioni dell’impresa come alle diverse età del lavoro, per compensare le perdite e attivare le addizioni. Usando più strumenti, dagli incentivi alla tassazione, promuovendo sviluppo e redistribuendo ricchezza. La quadra è ardua, non impossibile. Scorciatoie facili non

Lo scorso anno la domanda interna ha contribuito per quasi un punto e mezzo alla crescita del PIL in Italia e per due punti in Francia. Persino in Germania qualcosa si è mosso, con la domanda interna che ha trainato lo sviluppo con un contributo di oltre due punti. Analogamente in Spagna, dove quasi tre punti di crescita del PIL sono venuti dalle componenti domestiche sono compiutamente materializzati.

Il Regno Unito non ha ancora attivato la procedura di uscita dall’Unione.

I dazi sulle importazioni negli USA rimangono immutati. E speriamo che tali si mantengano visto che, sulla spinta della parte buona dello shock trumpiano, le esportazioni italiane negli States hanno iniziato il 2017 con una crescita annua superiore al 30 per cento.

Oltre ai ritardi, però, nella resilienza mostrata dalla crescita economica europea c’è qualcosa di più.

Anche qualcosa di meglio. Ciò che si legge nelle pieghe dei consuntivi Eurostat è il segnale di un recupero di

Gli urti della Brexit e della svolta americana forse non si sono sentiti semplicemente perché ancora non si sono compiutamente materializzati

tangibili e qualificati in termini di occupazione. In Europa resilienza e sovranità devono servire a creare lavoro. È una sfida molto difficile. A dircelo sono ancora i dati del 2016, che illustrano come l’asse portante della crescita siano oggi gli investimenti, soprattutto gli investimenti in macchine e attrezzature. In questo comparto una grande sorpresa è venuta dall’Italia. Nel nostro paese gli investimenti in macchine e attrezzature sono cresciuti di dieci punti in quattro trimestri, dimezzando così il ritardo sofferto rispetto al pre-crisi.

Attivati da efficaci incentivi, gli investimenti nell’innovazione servono a irrobustire la competitività, a renderci meno esposti ai rischi delle delocalizzazioni e dei protezionismi.

Il problema è che le digitalizzazioni dell’industria e dei servizi non aggiungono lavoro, ma lo riducono.

Questo avviene a livello micro di singole imprese e di comparti. Sta a un

sono agibili, soprattutto a un paese come l’Italia dove la disoccupazione rimane oggi doppia rispetto ai valori di dieci anni fa.

Sovrano viene dal latino “super”, ciò che sta sopra ed è prioritario. A sessant’anni dai Trattati di Roma interrogarsi sul futuro di un’idea di sviluppo fondato sul lavoro è prioritario per l’Europa non meno che per l’Italia. Senza andare troppo lontano nella ricerca delle ricette giuste, in Germania il tasso di disoccupazione giovanile è sceso dal 12 per cento del 2007 al 7 per cento del 2017. I tedeschi hanno trovato il modo. E se provassimo a imparare da loro? Q *Giovanni Ajassa, Direttore del Servizio Studi BNL, Gruppo BNP Paribas

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OPINIONI

BORSE NON STOP Un anno fa in pochi erano disposti a scommettere su un ulteriore rialzo.

I listini invece hanno continuato a correre battendo record su record.

E adesso? L’unica certezza è che gli schemi del passato non valgono più DI GIOVANNI TAMBURI*

N ELL ’ AGOSTO 2016 su queste pagine scrivevamo: «Niente crisi per le borse - tassi bassi a lungo e ricerca di rendimenti più elevati sono i motori che stanno spingendo i listini; e che nonostante le incertezze, continueranno a farlo». Siamo ad aprile 2017, sono passati molti mesi, e i mercati hanno più volte ritoccato i massimi di sempre. Contro quasi tutte le previsioni delle grandi banche, dei grandi guru e di tutti gli economisti.

Eravamo in pochi, nel corso dell’anno precedente, a crederci e ciò essenzialmente perché era molto più facile ipotizzare che certi valori – mai raggiunti nel passato – dovessero essere per forza ridimensionati. Ed il “per forza” si basava sui tipici concetti dei multipli troppo alti, degli indici che quando toccano certi livelli non possono che tornare indietro, su quei temi di analisi tecnica oscuri e usanti seguiti da mezzo mondo, e via con altre banalità del genere. Che poi non sono delle

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vere banalità, sono piuttosto delle abitudini di pensiero, gli effetti della pigrizia di pensare in modo diverso, applicazioni di schemi che da decenni sembrano avere una coerenza.

Peccato che però nessuno abbia collegato le banalità – quelle sì – cui ci soffermavamo in agosto.

Era infatti non così difficile pensare che nella storia del mondo non c’era mai stata una stampa di moneta che invadeva il mondo dal Brasile al Giappone, dagli Stati Uniti all’Europa. E che questa massa, unita agli effetti della crisi più pesante dal 1929, avesse prodotto dei tassi di interesse bassissimi e tali da far emettere bond a tassi negativi. A fine 2016 le emissioni a tasso negativo ammontavano a circa 15 trilioni di dollari, una montagna di denaro che si fa fatica anche a pronunciare.

Il pretesto di tutto questo, oggi, è cercare ogni modo per far ripartire l’economia, però gli effetti si stanno rivelando più lenti per cui le manovre vengono allungate,

allargate, cambiate di nome e qualche volta di forma, ma la sostanza è che si vuole aiutare lo sviluppo con tanta finanza in più del normale, del solito. Data la modestia dei risultati delle manovre puramente monetarie, in taluni paesi e continenti sta partendo la fase due, quella degli aiuti fiscali. Infatti, con la scusa della armonizzazione in Europa e con la necessità, per Trump, di mantenere le promesse elettorali, ecco che stanno per partire nuove politiche di easing.

Mesi fa qualcuno temeva che il recupero dell’economia americana, accompagnato dal rialzo dei tassi, potesse mettere un freno ai mercati. Ma così non è stato. La Yellen dopo moltissime quanto poco comprensibili esitazioni, ha rispettato gli ultimi impegni, di aumento graduale, ma essendo ormai una mossa del tutto scontata, Wall Street ha fatto spallucce. E i crolli temuti allo scoccare dell’inversione di tendenza non si sono materializzati. Neanche la bocciatura, più ancora il ritiro da

I tradizionali strumenti per orientarsi sui listini hanno perso di efficacia nel predire i futuri movimenti delle borse parte del suo partito delle proposte di legge contro l’Obamacare, ha scosso più di tanto i listini, avallando ancora una volta la sensazione di totale indifferenza dei mercati rispetto a tali eventi.

Fatti, anche questi, del tutto nuovi. Ma che potevano essere previsti semplicemente se ci si fosse posti in una luce di reale apertura rispetto a quello che sta realmente succedendo, senza cadere nei tranelli degli specchietti retrovisori. Prezzi & Valori - L’enterprise Value nell’era digitale, il saggio pubblicato mesi fa da Tamburi Investment Partners, cerca di spiegare analiticamente questi fatti e fenomeni, le loro correlazioni, le diversità con il passato ma anche i trend del digitale, i millennials, gli unicorni, i nuovi consumi e le più recenti abitudini della gente. Il tutto passando per gli effetti degli atti terroristici, delle nuove tendenze geopolitiche e delle modifiche ai principi contabili.

Il volume termina con

un’analitica disamina delle società quotate del cosiddetto quarto capitalismo e del loro – oggettivo – sconto rispetto ai concorrenti di altre parti del mondo. Le schede sulle singole società riportano i confronti – sempre a livello valutativo – di gruppi come Aeffe, Amplifon, Autogrill, Be, Brembo, Buzzi, Campari, Cucinelli, De’ Longhi, Diasorin, Ferragamo, Ferrari, Ima, Interpump, Luxottica, Moncler, Nice, Piaggio, Prysmian, Recordati, Reply, STM, Tod’s, Valsoia, Yoox e Zignago. Tutte società con posizionamenti assai

buoni, bilanci ottimi e prospettive interessanti, ma da sempre molto sottovalutate rispetto a gruppi omologhi quotati in altre borse.

Da ottobre, quando il lavoro del libro è terminato, ad oggi, molte quotazioni hanno ripreso, alcune anche in modo molto violento, probabilmente anche a causa del lancio dei PIR. Ma lo sguardo su quelle che dovrebbero essere le “giuste” valutazioni va rivolto soprattutto all’estero, all’America, dove tutto sembra sottovalutato ma in realtà potrebbe non essere così.

Prezzi & Valori - L’enterprise Value nell’era digitale è il saggio pubblicato da Tamburi Investment Partners: una guida per chi vuole capire i nuovi meccanismi che guidano i mercati.

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OPINIONI

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mento corretto tra analisi del passato e ipotesi sul futuro più o meno prossimo. Più l’analisi è profonda, meno si rischia di sbagliare. A prescindere da tutto il resto, il contorno e anche quei mitici catalist che tutti inseguono per giustificare quel “di più” che sembra non tornare con i puri numeri dei bilanci.

Ci sono addirittura fondi che investono esclusivamente sui momenti in cui accade o può accadere qualcosa, ma non sempre sono gli strumenti che rag-

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per paura di legittimare risultati troppo positivi, oggi si trovano a dover rivedere al rialzo – oltre agli indici – anche i target price.

E nel prossimo futuro che succederà? Ci saranno ancora sorprese positive? In fondo l’economia mondiale continua globalmente ad andare bene e molti grandi gruppi stanno da tempo approfittando di tali trend, per cui anche il domani potrebbe essere migliore. Il lavoro di un investitore alla fine è tutto sul bilancia-

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Non solo, ma ci sono state anche aziende-fenomeno del 2014-15 che l’anno scorso sono crollate. La parziale crisi del retail ad esempio ha molto ridimensionato catene di negozi in vari settori, tanta tecnologia ha deluso, il pharma è stato volatile come mai in passato.

Nel 2016 ad esempio, per l’ennesimo anno, la maggioranza delle società ha superato le aspettative del consensus degli analisti che, oltre ad aver sbagliato per eccesso di prudenza o forse anche

Eccesso di liquidità e tassi bassi hanno indotto a cercare in borsa occasioni d’investimento per accrescere il rendimento

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Mario Draghi

mai società realmente comparabili, ma qualche ancoraggio ci dovrà pur essere.

I soli riferimenti da tenere sempre ben presente sono, alla fine, i bilanci di ieri e quelli che potranno essere i numeri di domani.

Per proiettare bene il domani si deve essere sempre molto attenti, si deve ponderare benissimo ogni singolo aspetto e ogni variabile che può incidere, anche in parte indirettamente su quei numeri, ma senza tabù e senza influenze trop-

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giungono i risultati migliori. Si pensi alla recente quotazione di Snapchat, richiestissima prima dell’Ipo al punto da spuntare un prezzo oggettivamente non giustificabile con nessun parametro. Il giorno dell’Ipo poi è ulteriormente cresciuta di circa il 40 per cento per poi crollare e posizionarsi ben più in basso del prezzo di collocamento. Chi ha o aveva ragione? È una Facebook, una Google oppure una Twitter? È chiaro e lo abbiamo più volte sostenuto che non ci sono

Janet Yellen

po “lontane”, troppo basate sulle fantasie del singolo analista. Q *Presidente e amministratore delegato della banca d’affari Tamburi Investments Partners.

Alla fine, gli unici riferimenti da tenere sempre presente sono i bilanci. Quelli passati e quelli che devono essere ancora scritti

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Le borse non si sono fermate nemmeno quanto la Fed ha alzato il costo del denaro o davanti alla mancata abolizione dell’Obamacare

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OPINIONI

SPINTE POPULISTE

LA VIA D’USCITA ESISTE Ricerca, formazione e nuove tecnologie devono essere le priorità.

Oltre a una coraggiosa riforma fiscale e del mercato del lavoro.

Con un unico obiettivo: una più equa distribuzione della ricchezza DI EMILIO ROSSI*

LA NOTIZIA del giorno (o quantomeno la più bizzarra) è che l’UKIP di Nigel Farage (il fautore più acceso dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea) chiede che gli agricoltori gallesi abbiano accesso al mercato dell’Unione Europea per evitare che subiscano effetti negativi dalla Brexit, effetti negativi che UKIP stesso aveva negato esistere. Alternativamente, secondo UKIP, il governo del Regno Unito (ossia il tax-payer britannico) dovrebbe farsi carico dei sussidi europei e dei minori profitti legati alla domanda di beni che verrebbero a mancare.

Invecchiamento della popolazione e rapida avanzata delle nuove tecnologie stanno scardinando tratti essenziali delle ricche economie occidentali.

Occorre ripensare il welfare e i modelli di crescita Un’altra notizia di peso arriva dall’altro lato dell’Atlantico: la riforma sanitaria promessa da Trump non è stata presentata al Congresso perché gli stessi membri del Partito Repubblicano non garantivano un voto compatto a favore della riforma sanitaria targata Trump.

Per ora quindi la riforma introdotta da Obama resta in vigore. Il significato di questa sconfitta di Trump va ben al di là della riforma sanitaria (ovviamente già di per sé molto rilevante). I tagli alla spesa legati all’abrogazione di parte significative dell’Obamacare dovevano costituire la compensazione contabile ai tagli di tasse a cittadini e imprese, vero asse portante delle promesse di Trump in

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campagna elettorale e principali artefici della sua vittoria alle elezioni del novembre 2016. Senza le riduzioni di spesa al sistema sanitario e a fronte di un Partito Repubblicano da sempre molto attento agli equilibri di finanza pubblica, la strada del taglio di tasse si fa, più che in salita, addirittura impervia. L’intero impianto di politica economica dell’Amministrazione Trump viene dunque messa in discussione, inclusa la parte relativa agli scambi con l’estero tanto cara al Presidente.

Con il Partito Repubblicano meno docile di quanto si aspettasse, infatti, Trump dovrà essere molto cauto con l’utilizzo delle prerogative che la legge USA gli concede sulla politica commerciale estera. Anche in questo campo l’anima storicamente liberista e antiprotezionista del Partito Repubblicano si ispira a valori fondamentalmente diversi da quelli del Presidente. Lo stop sulla riforma dell’Obamacare invia un chiaro segnale al Presidente: il partito non è ai suoi comandi e ove lui procedesse a imporre tariffe sui prodotti importati, con il rischio di scatenare una guerra commerciale globale, loro sono pronti a mettergli il bastone tra le ruote sulla sua politica di bilancio espansiva.

Al di là di qualsiasi battuta (botte piena e moglie ubriaca, tutti generosi con il portafoglio degli altri, ecc.), appare sempre più evidente quanta scollatura ci sia tra programmi elettorali e soluzione dei problemi quotidiani reali. Negli ultimi decenni la combinazione di invecchiamento della popolazione e cambiamenti tecnologici legati

Senza le riduzioni di spesa al sistema sanitario, e a fronte di un Partito Repubblicano molto attento agli equilibri di finanza pubblica, diventa sempre più difficile per Trump tagliare le tasse e introdurre norme protezionistiche alla digitalizzazione e a Internet ha scardinato alcuni aspetti fondanti delle opulenti economie occidentali. Il tasso di crescita del benessere a cui siamo stati abituati non è più ottenibile. Il welfare non è più sostenibile nei termini in cui esso è stato impostato. La struttura del mercato del lavoro è sempre meno basata su rapporti di dipendenza e tante tipologie lavorative sono scomparse o stanno per scomparire.

La profondità e la rapidità del cambiamento sono tali che gli strati sociali più toccati (non pochi e non poco) finiscono per sentirsi emarginati o per percepire una situazione di ansia economica che spesso è enfatizzata rispetto alla pur concreta difficoltà reale. Identificare il proprio malessere con un pericolo esterno (immigrati, euro, casta, ecc.), magari esistente ma sovradimensionato, consente di scaricare su altri la propria mancanza di flessibilità e di spirito d’iniziativa. Votare chi promette un sogno, anche se irrealizzabile, diventa l’illusione del proprio contributo al cambiamento.

Concretamente il combinato disposto della difficoltà della nuova struttura economico/sociale e delle irrealistiche aspettative di crescita costante del benessere, ancora legate a una realtà in estinzione, stanno dando fiato a spinte populiste e soprattutto a un pericoloso ritorno a

visioni nazionaliste, storicamente alla base dei maggiori drammi del secolo scorso.

Brexit e elezione-Trump si sono verificate nei paesi più ricchi e storicamente più aperti del pianeta, non in paesi poveri o legati a lunghe tradizioni di dittatura.

La scollatura tra realtà e aspettative di ampi strati della popolazione nel Regno Unito e negli USA è evidente.

La richiesta di cambiamento proveniente dagli elettori di questi due paesi avrà un impatto globale significativo, soprattutto se gli altri attori principali della scena politica non sapranno contrapporre politiche alternative a quelle del ripiegamento entro i propri confini.

In Europa è essenziale che si aumenti la dimensione del budget della UE e che se ne modifichi sistematicamente la composizione a favore della ricerca, dell’implementazione delle nuove tecnologie, della crescita delle competenze di lavoratori e professionisti. L’adozione di sistemi fiscali e di meccanismi del lavoro (inclusa la riduzione dell’orario di lavoro) che consentano di redistribuire il dividendo tecnologico alla società su basi più eque è l’unica via per evitare involuzioni pericolose. Q *Emilio Rossi - Senior Advisor, Oxford Economics Presidente EconPartners

Brexit e elezione-Trump si sono verificate nei paesi più ricchi e storicamente più aperti del pianeta. È evidente la richiesta di cambiamento proveniente da questi elettori. A cui i governi non possono rispondere solo con politiche protezionistiche

Trump incontra Theresa May

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OPINIONI

Rivoluzione digitale e nuovi equilibri Il progresso tecnologico è un percorso obbligato. Che non può essere fermato.

E che porta con sĂŠ inevitabili mutazioni antropologiche della societĂ .

A cui siamo tutti chiamati a adeguarci. Ma su cui dobbiamo anche vigilare

DI Â MASSIMO CASELLANI*

NEL NOSTRO paese da piÚ di un anno si parla di quarta rivoluzione industriale. La prima si è caratterizzata con l’utilizzo della forza meccanica del vapore nella produzione manifatturiera; la seconda con l’inserimento della catena di montaggio nelle fasi produttive; la terza con l’elettronica e quindi la robotica in azienda. La quarta prende nome dal piano d’investimenti presentato dalla Germania nel 2011 e avviato alla realizzazione dal 2013.

6X TXHVWR DUJRPHQWR YDOH OD SHQD GL ULà HWWHUH VX almeno due ordini di questioni: La globalizzazione dei mercati e produttiva, inWHQVLÀFDWDVL D SDUWLUH GD JOL DQQL 1RYDQWD KD IDWWR Vu FKH le imprese, superata la prima fase della delocalizzazioni alla ricerca di minori costi della manodopera, siano ora orientate all’avvio di processi produttivi con elevato grado di automazione attraverso l’utilizzo di robot collaborativi interconnessi e rapidamente programmabili; simulazione tra macchine interconnesse per ottimizzare i processi; integrazione di informazioni lungo la catena del valore, dal fornitore al consumatore; stampanti in 3D connesse a software di sviluppo digitale; comunicazione multidirezionale tra processi produttivi e prodotti; analisi di un’ ampia base dati per ottimizzare prodotti e processi produttivi; gestione di elevate quantità di dati su sistemi aperti; sicurezza durante le operazioni in rete.

Processi produttivi come quelli appena descritti evidenziano l’irrinunciabile valorizzazione del supporto umano e, come nei primi anni Cinquanta, la formazione e la partecipazione alle scelte organizzative dell’impresa VDUDQQR JOL HOHPHQWL TXDOLÀFDQWL GHOOD VÀGD LQ DWWR I tempi sono cambiati e i percorsi formativi attengono, prima di tutto, ancora una volta, a un salto culturale, a

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una scelta di campo in cui il sindacato è chiamato a esercitare il proprio ruolo come soggetto di rappresentanza, di contrattazione, di tutela degli interessi individuali e collettivi.

Dobbiamo pensare che il campo d’azione del sindacalista 2.0 sarà un campo globale, dovrà sapere almeno l’inglese, dovrà fare periodi, tipo Erasmus, all’estero per apprendere e per coordinare azioni comuni con sindacati di altri paesi.

L’Industria 4.0 non coinvolge solo i processi produttivi ma abbraccia ogni funzione: dallo stoccaggio alla consegna della merce Se è vero, come è vero, che è in corso una rivoluzione industriale accompagnata da un cambio d’epoca, il sindacato, se vorrà continuare la sua azione, dovrà fare anch’esso una rivoluzione al suo interno e vivere i cambiamenti come un’opportunità .

I cambiamenti radicali non aspettano nessuno.

Vanno avanti per la loro strada con chi vuole essere partecipe. L’imprenditore quando decide, per convenienza economica, di avviare il processo di rigenerazione digitalizzata della propria impresa non aspetta certo il parere del sindaFDWR Ë HYLGHQWH SHUz FKH VH QRL VDSUHPR TXDOLÀFDUFL FRPH persone competenti, preparate e rappresentative, potremo pretendere di essere chiamati al confronto decisionale per una partecipazione pro attiva.

8Q WHPSR OD GHÀQL]LRQH GL RSHUDLR PDVVD HUD un’accezione negativa dell’apporto personale nell’organizzazione dell’azienda. Ora l’operaio non solo non è piÚ ´PDVVD¾ R IRU]D ÀVLFD PD GLYLHQH FRQWULEXWR LQWHOOHWWXDOH propositivo e partecipativo. Finalmente si è capito che le

Parità di bilancio nell’immediato in Italia: 200 mila posti di lavoro saranno persi a causa dell’innovazione e altrettanti saranno guadagnati a causa della maggiore competitività delle imprese persone motivate, inserite in un ambiente accogliente e considerate per il loro pensiero, oltre che per la loro azione, sono persone che vivono meglio, producono di piÚ e, guarda caso, si ammalano meno.

Il tutto, ovviamente, avrĂ ripercussioni, nell’immediato, in ambito occupazionale. Il ministero dello sviluppo economico stima che in questa fase d’avvio, nel nostro paese, l’elevata automazione digitale produrrĂ un saldo a pareggio tra i 200.000 posti di lavoro persi, a causa dell’innovazione, e i 200.000 guadagnati per l’accresciuta competitivitĂ delle imprese. Ăˆ facilmente immaginabile che se la spinta è sull’automazione, l’apporto umano tenderĂ a diminuire anche se, probabilmente, potrĂ essere in parte compensato nella produzione degli automatismi.

Il progresso tecnologico è un percorso obbligato.

Nelle campagne, all’arrivo dei primi trattori, i contadini li bruciavano di notte perchÊ vedevano in loro lo spettro della disoccupazione. Considerando ora, a distanza di un secolo, l’impiego del lavoro nella produzione dei trattori e delle altre macchine agricole, la qualità della vita dei contadini con l’ausilio delle stesse e il rendimento dei terreni, non servono commenti per dire che non si trattava di una scelta ma di un percorso obbligato, dobbiamo stare ben attenti e vigilare.

Il ritenere che l’industria 4.0 sarà una trasformazione che interesserà solamente i processi produttivi delle imprese, è limitante e non rispecchia il concetto espresso.

La digitalizzazione e l’interconnessione tra macchine, stoccaggio, mercato, trasporto, logistica, consegna sarà quanto VL YHULÀFKHUj QHOO¡HYROX]LRQH GHO FDPELDPHQWR L’e-commerce sostituirà sempre piÚ le transazioni tradizionali, le vendite e gli acquisti con incidenza, non VROR VXL WUDGL]LRQDOL XIÀFL GHGLFDWL DOO¡LQWHUQR GHOO¡LPSUHVD

ma anche nella logistica, nel trasporto. L’individualizzazione della spesa necessiterà di magazzini come quello di Amazon che potete vedere su YouTube alla voce robot Kiva. Nel video viene mostrato un magazzino immenso super robotizzato e, in piÚ di due minuti di video, compaiono due sole persone. Se andiamo a rivederlo tra alcuni mesi non ci saranno neppure quelle due.

Nelle campagne, all’arrivo dei primi trattori, i contadini li bruciavano di notte perchÊ vedevano in loro lo spettro della disoccupazione. Oggi non potremmo piÚ farne a meno Ovviamente ogni rivoluzione industriale porta con sÊ mutazioni antropologiche della società . L’uomo inventa macchine nuove e a sua volta è cambiato dalle stesse. Cambieranno tutti i tipi di rapporti e evolveranno i cambiamenti in atto.

A titolo di esempio pensiamo a come è cambiato il servizio GHJOL LVWLWXLWL GL FUHGLWR $OOH ÀOH DOOR VSRUWHOOR FKH VROR qualche anno fa si vedevano e subivamo. Ora non solo sono diminuite le agenzie ma in quelle rimaste l’accoglienza del pubblico è riservata a contratti o casi particolari. Ognuno di noi con una banale applicazione sullo smartphone può fare tutte le transazioni che vuole. L’11 novembre nelle 24 ore del single day, un’intera giornata che i cinesi dedicano allo shopping, Alibaba ha fatturato 20 miliardi di dollari. Q *Segratario generale Cisl Verona

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PERSONE

Carlo Calenda

Un ministro in corsia di sorpasso Fedelissimo di Renzi, oggi sembra averne preso le distanze.

Mentre Berlusconi lo vorrebbe a capo del centro destra Carlo Calenda

DI DANIELA BRAIDI

QUELLA di piacere sia alla destra che alla sinistra è una dote abbastanza comune, ma non scontata, per un tecnico. A Carlo Calenda, 44 anni, da meno di un anno alla guida del ministero dello Sviluppo economico, l’impresa è riuscita.

Dopo essere passato indenne nei tre governi Letta-Renzi-Gentiloni, prima come viceministro poi come titolare del dicastero, è stato notato anche da Silvio Berlusconi. In base a indiscrezioni di stampa, il Cavaliere 26

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lo vedrebbe bene alla guida della coalizione di centro destra nel caso in cui la sentenza in arrivo da Strasburgo non dovesse essergli favorevole, impedendogli di candidarsi alle prossime elezioni politiche.

Un’investitura che Calenda ha accolto con una certa freddezza.

«Non ho mai avuto il piacere di conoscere o anche solo di parlare con il presidente Berlusconi», ha replicato in una lettera, smentendo l’ipotesi di essere stato scelto come candidato

del centro destra. E sottolineando di avere un unico obiettivo: «fare bene il ministro dello Sviluppo economico e a meno di un anno di distanza dalla mia nomina sono ancora lontano dall’averlo conseguito».

Sul suo tavolo al Mise ci sono dossier molto delicati che vanno dalla crisi dell’Alitalia all’Ilva, dal ddl concorrenza ai dazi che Trump vorrebbe imporre alle merci europee. Finora si è mosso bene, nessuna critica si è riversata sul suo lavoro.

Lui stesso si definisce un tecnico. Le cronache lo descrivono come una persona molto pignola e precisa, ma anche molto corretta e equilibrata.

Al Mise, ad esempio, è stato introdotto da poco un registro dei lobbisti: chiunque voglia incontrare e parlare con i vertici del ministero, deve firmare un apposito registro che poi ogni due mesi viene reso pubblico.

E ora sembra che l’idea del registro possa venire esportata anche presso gli altri ministeri.

Ma c’è chi sospetta che tutta questa dedizione al lavoro possa fare da paravento a un’ambizione politica latente che, al momento opportuno, potrebbe perfino sfociare nella guida di una nuova forza politica.

Un’ipotesi da cui Calenda ha preso le distanze in maniera netta e chiara.

D’altronde il ministro dello Sviluppo economico è un tecnico, come si definisce lui stesso. Romano (anzi, pariolino), quattro figli (il primo avuto a 16 anni), all’età di dieci anni debutta in tv interpretando Enrico Bottini, lo scolaro protagonista dello sceneggiato televisivo Cuore, sotto la direzione del nonno Luigi Comencini. La mamma, la regista Cristina Comencini, gioisce ma il giovane Carlo decide di prendere un’altra strada, quella del padre, l’economista Fabio Calenda, impegnato in uffici studi presso diversi gruppi bancari, e quella del nonno (suo omonimo) Carlo Calenda, nobile partenopeo che fu, tra l’altro, consigliere diplomatico del Presidente della Repubblica Sandro Pertini.

Così dopo la laurea in giurisprudenza, in diritto internazionale, e una breve esperienza nel mondo bancario, nel 1998, all’età di 25 anni, entra in Ferrari dove inizia a occuparsi di diritti tv, marketing e relazioni esterne. Si fa notare fin da subito e stringe un importante sodalizio lavorativo con Montezemolo, all’epoca numero uno di Maranello, destinato a durare nel tempo. Nel

2004, quando Montezemolo (nel frattempo arrivato alla guida di Alitalia) viene eletto alla guida di Confindustria, Calenda (nel frattempo passato a Sky) lo segue. Entra in viale dell’Astronomia prima come assistente del presidente e poi come direttore dell’area strategica e affari internazionali.

Restano uniti anche nell’avventura politica. Quando Montezemolo decide di fondare Italia Futura, il think tank che ha lo scopo di puntellare l’ascesa politica di Mario Monti, di nuovo chiama Calenda e gli affida il coordinamento del nuovo movimento. Il passo successivo è quasi d’obbligo e nel 2013 Calenda si getta direttamente in politica con Scelta Civica di Mario Monti, finendo poi travolto dall’ingloriosa caduta, e poi scioglimento, del partito.

Ma la sua avventura politica non finisce lì. Anzi, è proprio dalle ceneri di Scelta Civica che decolla.

Letta lo vuole nel suo governo e lo nomina vice ministro per lo sviluppo economico. Ruolo che gli viene confermato successivamente anche da Renzi al suo arrivo, nel febbraio 2014, al governo.

Tra i due inizia una fase di avvicinamento. Calenda diventa in poco tempo un fedelissimo di Renzi. Fautore convinto dell’internazionalizzazione del made in Italy, si impegna moltissimo per sostenere lo sviluppo all’estero delle aziende italiane, in particolare quelle della moda. E se, dopo anni di discussioni, il settore si è appena compattato dentro un’unica organizzazione, Confindustria Moda, il merito va tutto a Calenda che ha sempre sollecitato, attraverso tavole rotonde e incontri, i protagonisti del settore a fare sistema e a unirsi per crescere.

Esportare italianità è stato anche uno dei punti cardine dei mille giorni di Renzi al governo e pare che ci fosse proprio la regia di Calenda dietro i numerosi viaggi all’estero

che l’ex premier ha compiuto a sostegno del made in Italy.

A inizio 2016 Renzi manda Calenda a Bruxelles come rappresentante permanente dell’Italia presso l’Unione Europea. Una mossa molto audace visto che per tradizione quel ruolo è ricoperto da diplomatici, ma che non fa indietreggiare l’ex premier nemmeno davanti alla lettera di protesta di 230 diplomatici.

Poi, nel maggio 2016 una nuova promozione. Renzi sceglie Calenda per il ruolo di ministro dopo le dimissioni di Federica Guidi per presunto conflitto di interessi: «A noi serve uno importante che sia in grado di maneggiare il ministero, uno che già governava la macchina, che sia in grado di impostare un lavoro proiettato sul futuro e Calenda è la persona giusta», aveva detto l’ex premier nell’annunciare, dagli studi televisivi di Che tempo che fa, la nomina di Calenda.

Ora i rapporti tra i due si sono raffreddati. Calenda sembra aver preso le distanze. A inizio febbraio la prima frecciata dichiarando di essere contrario a elezioni anticipate, proprio mentre Renzi contava di andare alle urne il prima possibile.

Un mese dopo la seconda stoccata dichiarando durante una cerimonia al Quirinale: «Per creare lavoro e reddito non esistono scorciatoie, non esistono invenzioni di redditi, invenzioni di lavori, invenzioni di bonus».

Ma lui nega che quelle parole contenessero una polemica politica «che non mi appartiene e che a cui non intendo prendere parte». Corretto e misurato. Come sempre. Ma soprattutto concreto: «non credo sia compito del governo spargere ottimismo né che sia compito dell’opposizione spargere pessimismo». Quello che serve è «un percorso che si basi sul realismo, sui dati, sulla complessità», afferma Calenda. Ciò di cui il paese, e la politica, hanno bisogno.Q

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PERSONE

Addio al banchiere filantropo Morto a 101 anni, era il miliardario più anziano del mondo. È stato tra i fondatori della Bilderberg e della Trilateral.

Ma soprattutto David Rockefeller è stato un benefattore DI GIUSEPPE TURANI

D AVID R OCKEFELLER è morto a 101 anni, ancora qualche mese e sarebbe arrivato a 102. Era certamente il miliardario più anziano del mondo. La sua ricchezza era stata stimata dalla rivista Forbes in 3 miliardi di dollari. Grande cordoglio, ovviamente, nel mondo, ma anche molti festeggiamenti, da parte dei no-global di ogni tipo 28

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e dei nostri grillini, più sinistre varie). Una specie di macabro festival dell’ignoranza.

Chi si è rallegrato per questa morte, a 101 anni peraltro, lo ha fatto perché ha visto in Rockefeller il simbolo del dominio, forse addirittura dei grandi complotti internazionali. Infatti il personaggio è all’origine della nascita di due

organizzazioni, il Bilderberg e la Trilateral, da sempre indicati come i due santuari internazionali di ogni complotto e trama.

Sono sciocchezze, incubi.

In realtà, Bilderberg e Trilateral sono solo due consessi internazionali dove si cerca, con non grande successo per la verità, di avviare un dialogo per il bene del mondo.

Università, centri di cultura, ospedali: pare che ammontino a 500 milioni di dollari i lasciti e gli aiuti elargiti duranti la sua vita Moltissime le attività nel mondo culturale. Da segnalare che è stato in due diversi periodi presidente del Modern Museum di New York.

Ma molti anche gli affari. Lo si ritrova come azionista della Exxon Mobil (figlia della Standard Oil of New Jersey, fondata dal nonno. E, soprattutto, è stato presidente e amministratore delegato della Chase Manhattan Bank, che poi si è fusa con la JP Morgan, dando vita alla JP Morgan Chase, una delle banche più potenti del mondo.

David Rockefeller, poi, di suo è stato un grande filantropo. I suoi regali a università e centri di cultura e medici ammontano a almeno 500 milioni di dollari, ma certamente sono stati di più.

Qualche anno fa, per festeggiare il suo centesimo compleanno, ha donato un’oasi

di 4 milioni di metri quadri allo stato del Maine, una superficie un po’ più vasta del Central park di New York.

Durante l’amministrazione di Eisenhower ha raccolto otto milioni di dollari per i profughi palestinesi, che ha girato all’Onu. Insomma, se è esistito un Rockefeller buono, è proprio David.

Il cattivo, anzi supercattivo, della famiglia è stato il nonno, il fondatore dell’impero, John Davison Rockefeller. È stato lui a fondare la società originaria della famiglia, la Standard Oil of New Jersey.

E lo ha fatto con metodi tanto feroci, che a un certo punto i suoi collaboratori gli hanno spiegato che era l’uomo più odiato d’America.

Quando lui arriva in Oklahoma per la corsa al petrolio è già un po’ tardi, tutte le concessioni sono già state assegnate. Allora ha un’idea geniale.

All’epoca non esistevano gli oleodotti e il petrolio veniva spedito alle raffinerie in barili da whisky (i contenitori più grandi di cui si disponeva, ecco perché ancora oggi si misura in barili) attraverso convogli ferroviari. Il vecchio Rockefeller ha un’idea vincente: prenota quanti più convogli gli riesce.

In sostanza, gli altri estraggono il petrolio, ma per spedirlo alle raffinerie devono fare i conti con lui, che naturalmente li tiranneggia e poco alla volta ne compra le attività. Alla fine diventa l’operatore più grande del settore, con guadagni immensi.

Nel 1911 il governo federale, stufo del suo strapotere, “smonta” la Standard Oil in 34 compagnie separate. E Rockefeller viene indicato come un affarista senza scrupoli (cosa vera, peraltro). Anzi, il peggiore di tutti gli affaristi.

Il vecchio Rockefeller rimane colpito per essere diventato nella prima metà della sua vita l’uomo più odiato del paese. Nella seconda metà si impegna infatti in moltissime attività benefiche e filantropiche di ogni genere, spendendo milioni di dollari. Ma invano.

Quando muore è sempre il più odiato. I suoi eredi proseguono la linea filantropica e cercano di comportarsi bene, ma un po’ della cattiva fama del nonno continua a rimanergli attaccata addosso. Anche un secolo dopo.Q

Fu John Davison Rockefeller, nonno di David, a fondare la società originaria, la Standard Oil of New Jersey. Fu il cattivo della famiglia. Una fama che perseguita ancora oggi la dinastia dei Rockefeller UOMINI&BUSINESS - MARZO/APRILE 2017

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MOTORI

GRINTA E SPORTIVITÀ PER IL PRIMO SUV DEL BISCIONE

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Arriva sul mercato Stelvio.

Entra in un segmento affollato. Ma ha i numeri per sfondare.

A questa vettura Alfa Romeo affida il rilancio del marchio DI ELIO MOREO

UNA GRANDE tradizione alle spalle e numeri che si spera diventeranno altrettanto grandi. Alfa Romeo affida a Stelvio, primo crossover della Casa del Biscione, il rilancio definitivo del proprio brand con l’auspicio di lasciarsi alle spalle un decennio di risultati non esaltanti. Un ruolo che la nuova vettura condivide con l’Alfa Romeo Giulia, sebbene sia sul fuoristrada che si concentrano le maggiori attese del mercato e del management. Sia perché era da ben 14 anni che gli alfisti più fedeli aspettavano questo momento, ossia da quando al Salone di Ginevra del 2003 la casa aveva presentato Kamal, un concept molto interessante che poi non ha trovato un seguito. Sia perché già un altro fuoristrada, Levante, è stato l’artefice della rinascita di Maserati, l’altro brand rilanciato con successo da Fca. Ora che il primo Suv della casa del Biscione è diventato realtà, l’obiettivo ambizioso del gruppo è trasformarlo nell’arco di un quinquennio in una delle vetture leader nel segmento D-premium suv. Un mercato affollato e ambito dove lo Stelvio deve confrontarsi con vetture come la Range Rover Evoque, il Land Rover Discovery Sport, la Mercedes Glc/Glc Coupé, l’Audi Q5, la Bmw X3/X4 e la Porsche Macan. Il primo week end di lancio ha fornito numeri rassicuranti e tra poco è atteso anche il debutto sul mercato americano che dovrebbe riservare una buona accoglienza a questo tipo di vettura, sebbene occorra ancora vagliare gli effetti delle nuove tariffe all’importazione che l’amministrazione Trump vuole introdurre. Anche se Alfa

Romeo fa parte del gruppo Fiat Chrysler, le vetture del Biscione sono infatti realizzate in Italia nello stabilimento di Cassino sulla piattaforma Giorgio, la stessa della Giulia.

Da un punto di vista stilistico, la sportività della Giulia sale a bordo dello Stelvio. Ne nasce uno sport utility per palati fini, una vettura dove prestazioni e grinta restano il perno centrale attorno a cui ruota tutto il resto. Molto curati anche gli interni con inserti in legno e una plancia moderna mentre il design è più vicino a quello di un coupé anziché a quello di un suv tedesco, improntato alla leggerezza grazie all’utilizzo di alluminio e fibra di carbonio.

Due le versioni per ora disponibili: la First Edition con duemila turbo benzina da 280 cavalli, cambio automatico a 8 marce e trazione integrale Q4 e una dotazione unica, ma anche la versione Super con un allestimento comunque completo, oltre all’altra importantissima motorizzazione, il 2.200 cc turbodiesel da 210 cavalli.

La gamma sarà completata nei prossimi mesi con altri motori, tra cui il 2.000 cc turbo a benzina da 200 cv e il 2.2 turbodiesel da 180 cv, entrambi con cambio automatico a 8 marce e trazione integrale Q4. Inoltre, il 2.2 diesel da 180 cv sarà disponibile anche con la sola trazione posteriore. Infine, per la fine dell’anno è prevista la disponibilità dello Stelvio con il motore più potente, il V6 di 2.900 cc biturbo da 510 cv della Quadrifoglio, offerto solo con la trazione integrale Q4. Per tutti, sempre e solo cambio automatico a 8 rapporti e trazione integrale Q4.

ALFA ROMEO GIULIA Ha perso per un soffio il titolo di “Auto dell’anno 2017” che la giuria di 57 giornalisti europei ha assegnato, nell’ambito del Salone di Ginevra, alla Peugeot 3008 con 319 punti. L’Alfa Romeo Giulia può però consolarsi con il secondo posto (296 punti).

Intanto la sua fama corre. In Cina sono state vendute online su Alibaba 350 esemplari di Giulia “Milano limited edition” in 33 secondi al prezzo di 63.000 dollari. Un risultato da record che conferma il successo internazionale del brand del Biscione.

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MOTORI

280 cv costa in allestimento Super poco meno di 53mila euro, mentre la First Edition con lo stesso motore va oltre i 57mila euro. Il 2.2 turbodiesel da 210 cv, invece, è in vendita a 50.800 euro in versione Business, a 51.250 euro nel livello Super e a 54mila euro in quello Executive. Q

Lo Stelvio è offerto in tre livelli di allestimento, Business, Super ed Executive, oltre che in nove varianti di colore e altrettante tipologie di cerchi in lega da 17 a 20 pollici. La vettura offre il sistema Alfa Connect con display da 6,5”, il selettore Alfa Rotary, l’impianto audio con 8 altoparlanti, i sedili in tessuto nero e quelli anteriori con 6 regolazioni, più tutte le principali dotazioni di sicurezza.

L’allestimento Business è specifico per il mondo delle flotte: disponibile soltanto con la motorizzazione diesel da 210 cv, è equipaggiato con il sistema Alfa Connect 2D Nav 6,5”, i fari bi-xenon con tecnologia Afs, i fendinebbia a Led e gli specchietti ripiegabili elettricamente. Anche in tema di personalizzazioni lo Stelvio è ben attrezzato: per i livelli di allestimento Super ed Executive sono disponibili il Pack Lusso e il Pack Sport.

Infine, i prezzi. La duemila turbo a benzina da

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Lo Stelvio è offerto in tre livelli di allestimento, Business, Super ed Executive, oltre che in nove varianti di colore e altrettante tipologie di cerchi in lega da 17 a 20 pollici.

SQUILLO DI TROMBA PER DETROIT Piace la svolta protezionistica di Trump. I big americani dell’auto sperano di ridare lustro a un’industria caduta nell’ombra DI MAURO COPPINI FORSE Clint Eastwood non aveva tutti i torti quando, unico tra i grandi di Hollywood, aveva sostenuto in piena campagna elettorale Donald Trump. Perché potrebbe essere proprio lui a creare le condizioni necessarie per il recupero di quella desolata provincia americana, dissanguata dall’inarrestabile esodo dell’industria automobilistica verso paesi capaci di offrire mano d’opera a basso prezzo che faceva da drammatico scenario al film Gran Torino da Clint Eastwood diretto ed interpretato. È la Gran Torino, un modello Ford del 1972, a rappresentare il simbolo di un’epoca di prosperità che identificava proprio nell’auto il principale motore di successo. Non solo per la capacità di generare reddito ma anche e soprattutto perché nessun prodotto come l’auto, per i suoi contenuti emotivi e tecnologici, è in grado di conferire dignità ed orgoglio a chi la produce.

Donald Trump sembra aver impostato la sua strategia di comunicazione su azioni dal significato fortemente simbolico e l’industria dell’auto è certamente una di queste. Se non altro per il forte richiamo a un’epoca che vedeva gli Stati Uniti dominare un settore industriale i cui prodotti, al di là degli aspetti funzionali, erano gli ambasciatori di uno stile di vita che buona parte del resto del mondo invidiava e prendeva ad esempio. È per questo se la decisione di imporre onerosi dazi ai costruttori che importano auto prodotte al di fuori del territorio degli Stat Uniti, invece di suonare come una autoritaria minaccia, diventa lo squillo di tromba che annuncia una nuova carica alla riconquista di un valore nazionale.

Non sarebbe altrimenti spiegabile l’adesione incondizionata di GM, Ford e FCA ad un provvedimento che sembrerebbe mettere a rischio gli investimenti di miliardi di dollari destinati ad insediamenti produttivi in Messico, Sud America e in altri paesi particolarmente accoglienti. Un atteggiamento non interpretabile come una semplice adesione di comodo alla ricerca dei potenziali benefici derivanti da un favorevole rapporto con il presidente degli Stati Uniti. C’è piuttosto un tentativo di riproporre quel legame tra prodotto e territorio che in tempi di globalizzazione sembra aver perso ogni significato. E il ritorno al “Made in...” potrebbe tradursi in una imperdibile occasione per un marketing, che dal punto di vista dei contenuti sembra essere ormai arrivato alla frutta.

Certo una strategia del genere può essere attuata solo in presenza di una massa critica adeguata ma la rapidità con la quale si è mosso Sergio Marchionne, che pure ha trasformato la Italiana Fiat

nella anglo-olandese FCA, fa capire come sia possibile mettere in atto una strategia differenziata in funzione del peso politico industriale dei mercati di riferimento.

Ma resta il fatto che una Europa divisa sul piano politico ed industriale avrebbe ben poche possibilità di seguire il modello americano. Prova ne sia che di quel “Made in Germany” che ha costituito una provvidenziale rendita di posizione per i prodotti tedeschi fino dagli anni ‘50, è rimasto ben poco. E la sostituzione del “Made in...” con una marca, sia pure di gran prestigio, porta con sè una naturale fragilità come dimostra il caso “dieselgate” nel quale è stata coinvolta da Volkswagen. Con qualche eccezione perché la validità del “Made in Italy” sembra indipendente dalle dimensioni del paese legato com’è alla qualità di una storia che solo il settore del lusso sembra capace di valorizzare.

Il messaggio di Donald Trump andrà verificato nel tempo: gli obiettivi del mercato e quello degli investitori non sempre coincidono e le scelte dei politici sono a inerzia zero. Rimane il fatto che in Italia come negli Stati Uniti, l’auto potrebbe rappresentare uno strumento di eccezionale coesione nazionale. L’auto come giacimento sepolto ma intatto delle qualità di una generazione rimasta priva di un testimone da passare alle generazioni successive. Proprio come la Ford Gran Torino del film di Clint Eastwood. Q

La Gran Torino è diventata simbolo di un’epoca di prosperità. In cui l’industria dell’auto dava dignità e orgoglio a chi ci lavorava ed era in grado di generare reddito

La Gran Torino, un modello Ford del 1972, come appare in una scena del film diretto e interpretato da Clint Eastwood nel 2008.

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MOTORI

Yamaha TMAX upgrade riuscito Il maxi scooter da città si rinnova.

E si fa in tre per coprire ogni esigenza

TMAX DX

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DI Â GIULIO MAROTTA

SEDICI anni dopo il suo lancio, il TMAX conferma la condanna contenuta nel suo nome: aspirare al massimo delle prestazioni. La versione 2017, la sesta dalla sua nascita, conferma che lo scooter realizzato da Yamaha ha ancora un importante futuro davanti a sĂŠ dopo aver dato vita, al momento del suo debutto, un segmento fin a quel momento insistente, quello dei cosiddetti power scooter, in grado di coniugare le doti di agilitĂ tipiche di una mota da cittĂ con quelle di velocitĂ e comfort tipiche di una moto da strada.

Un super scooter che ha saputo evidentemente andare a colmare un vuoto di mercato dal momento che il TMAX ha visto una costante crescita di vendite ed è sempre rimasto leader in questo segmento.

Tornando alla versione 2017, per la quale è prevista l’omologazione Euro 4, esteticamente le linee sono meno spigolose, con un design molto curato che conferma, anche da questo punto di vista, il TMAX un punto di riferimento per il mercato. Sono nuovi anche il telaio in alluminio, come pure il forcellone, anch’esso in alluminio e piÚ lungo del precedente, e l’impianto di scarico, questa volta piÚ leggero e con un design piÚ grintoso. Novità anche per le sospensioni con forcella upside-down e leveraggi progressivi al retrotreno, e per la trasmissione con cinghia in fibra di carbonio e pulegge piÚ leggere, per il blocco del nuovo cavalletto centrale e per quello laterale in alluminio.

Nel complesso ne è scaturita una moto piÚ leggera di nove kg rispetto alla precedente ma senza rinunciare a nulla della vettura precedente, con un sottosella addirittura piÚ capiente e una presa 12V. L’altra grande novità è che per la prima volta Yamaha ha deciso di offrire il TMAX in tre differenti versioni: TMAX, SX e DX a seconda dell’allestimento e con prezzi che variano di conseguenza (11.490 euro per TMAX, 12.290 euro per SX e 13.390 euro per DX).

L’ultima, la DX, è la versione premium, arricchita di tutto ciò si possa desiderare in termini di comfort e tecnologia: dalle manopole e sella riscaldabili alla sospensione posteriore regolabile. Sia su SX sia su DX è disponibile Yamaha D-MODE, un sistema di controllo elettronico che consente di regolare la mappatura della centralina in due modalità : T-Mode per un’erogazione piÚ dolce adatta al nervoso traffico cittadino e S-Mode per una guida piÚ sportiva. Sempre su entrambe le versioni è inoltre presente il sistema My TMAX Connect che, grazie all’apposita app e al sistema GPS integrato nello scooter, consente, attraverso il proprio smartphone, di localizzare il veicolo (funzione molto utile in caso di furto), monitorare lo stato della batteria o registrare i propri tragitti. Uno strumento che consente, presso alcune compagnie, di ottenere uno sconto sulla polizza assicurativa. Q

DI NUOVO LEADER IN ITALIA Il 2016 ha visto per la Casa giapponese tornare, dopo sette anni, leader assoluto in Italia nelle vendite di motocicli di cc maggiore di 124 con 11.596 unità immatricolate, oltre a confermarsi leader del mercato moto a livello europeo. Questo risultato è il frutto del duro lavoro condotto negli ultimi quattro anni, durante i quali tutti gli attori, mi rifeULVFR DG D]LHQGD LQJHJQHUL SURGX]LRQL ÀQR D WXWWD OD UHWH GL FRQFHVVLRnari monomandatari, hanno lavorato nell’unica direzione di sorpassare le aspettative dei clienti: non solo con una gamma completamente rivista e ora composta da prodotti eccezionali, ma anche attraverso esperienze che al giorno d’oggi arricchiscono di certo la vita dei motociclisti. Il 2017 -

ha dichiarato Andrea Colombi, Country Manager Yamaha Motor Europe ÀOLDOH ,WDOLD VDUj DQFRUD XQ DQQR ULFFR GL VÀGH L QXRYL 70$; ; 0$; 300 e Tricity 155 soddisferanno sicuramente i bisogni di numerosi nuovi clienti che vorranno scoprire il mondo Yamaha anche nel mercato degli scooter. Lo straordinario risultato, fa notare la società , è stato conseguito grazie al successo delle apprezzatissime e complete famiglie Sport Touring, Hyper Naked e Sport Heritage. Nella Top Ten moto del 2016 del mercato Italia, infatti, sono presenti mezzi rappresentanti di ognuna delle tre principali gamme di Casa Iwata: Yamaha Tracer 900, Yamaha MT-07 e Yamaha XSR700.

Per la prima volta Yamaha ha deciso di offrire il TMAX in tre differenti versioni: TMAX, SX e DX a seconda dell’allestimento

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SOCIETÀ

Manet,

pittore della vita moderna I ritratti, le donne, i bistrot di Parigi, i paesaggi: una grande mostra celebra il padre dell’Impressionismo

MANET E LA PARIGI MODERNA Milano, Palazzo Reale Fino al 2 luglio 2017 www.palazzorealemilano.it/

U NA GRANDE esposizione che rende omaggio a un grande artista della Parigi dell’Ottocento, un superbo ritrattista, nonché padre spirituale dell’Impressionismo e dell’arte moderna. La mostra di Edouard Manet (18321883) a Palazzo Reale di Milano è un’occasione unica per ammirare oltre un centinaio di importanti capolavori provenienti direttamente dal Museé d’Orsay di Parigi e che ben illustrano il fermento creativo e culturale della capitale francese di fine Ottocento.

L’esposizione intende celebrare il ruolo centrale di Manet nella pittura moderna, ripercorrendo i vari generi cui l’artista si dedicò: il ritratto, la natura morta, il paesaggio, le donne e soprattutto Parigi, sua città amatissima, in piena trasformazione a metà Ottocento, rivoluzionata dal nuovo assetto urbanistico attuato dal barone Haussmann e caratterizzata da un nuovo modo di vivere nelle strade, nelle

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stazioni, nelle Esposizioni universali, nella miriadi di nuovi edifici che ne cambiarono il volto e l’anima.

Una città che Manet soleva girare quotidianamente a piedi e poi raffigurava nei suoi quadri quale osservatore appassionato del suo tempo, al punto da affermarsi, sulla scia di Baudelaire, come un “pittore della vita moderna”.

Paladino della libertà d’espressione fin dagli esordi realisti, Manet dipinse spesso scene dei bistrot di Parigi e di altri luoghi cittadini, immortalando la vita quotidiana della capitale francese in uno dei suoi momenti di massimo splendore.

Curata da Guy Cogeval, storico presidente del Musée d’Orsay e dell’Orangerie di Parigi, l’esposizione presenta anche splendide opere di grandi maestri contemporanei di Manet che ne hanno condiviso il percorso artistico ed umano, tra cui Boldini, Cézanne, Degas, Fantin-Latour, Gauguin, Monet, Berthe Morisot, Renoir, Signac, Tissot. Q

IN AGENDA MOSTRE

ANTONIO LIGABUE Pavia Scuderie del Castello Visconteo Fino al 18 giugno 2017 www.scuderiepavia.com Alle Scuderie del Castello Visconteo di Pavia, un’antologica ripercorre la vicenda umana e creativa di Antonio Ligabue (1899-1965), uno degli autori più geniali e originali del Novecento italiano. La mostra, curata da Sandro Parmiggiani e Sergio Negri in collaborazione con Simona Bartolena, propone oltre cinquanta opere, tra dipinti, sculture, disegni e incisioni, che ritraggono i due soggetti preferiti dall’artista: gli animali e gli autoritratti. Un’occasione per riaffermare, al di là delle fuorvianti definizioni di artista naïf o pittore segnato dalla follia, il fascino di Ligabue, assegnandogli una corretta valutazione critica e storica. Catalogo Skira.

KANDINSKIJ, CAVALIERE ERRANTE. In viaggio verso l’astrazione Milano – MUDEC, Museo delle Culture Fino al 9 luglio 2017 www.mudec.it Una rassegna per raccontare il percorso compiuto da Vasilij Kandinskij (18661944) verso l’astratto, dall’ultimo Ottocento fino al 1921, quando il pittore russo si trasferì in Germania per non fare più ritorno in madrepatria. Oltre 200 opere - alcune delle quali mai viste prima in Italia, provenienti da importanti istituzioni e musei russi, come la Galleria Tret’jakov, il Museo Pushkin di Mosca e l’Ermitage di San Pietroburgo, il Museo di Tbilisi in Georgia - con cui questa mostra (curata da Silvia Burini e Ada Masoero) rende omaggio a Kandinskij nell’anno del centenario della Rivoluzione russa e a ridosso delle celebrazioni del centocinquantesimo anniversario della sua nascita.

GUERCINO A PIACENZA

Cattedrale, piazza Duomo e Musei di Palazzo Farnese Fino al 4 giugno 2017 www.guercinopiacenza.com

La cattedrale di Piacenza è uno dei monumenti più importanti del romanico padano. La rigorosa facciata nasconde all’interno un immenso tesoro pittorico. Gli affreschi della cupola sono opera maestosa del Guercino (1591-1666) che li dipinse dalla primavera 1626 alla primavera 1627, all’apice della sua fama. Centosessanta scalini consentono al visitatore di arrivare in cima a questo Paradiso per ammirare i capolavori di un pittore passato alla storia come l’inventore del barocco illusionista. La città dedica al celebre pittore anche una mostra a Palazzo Farnese con ben 24 opere dell’artista.

MODIGLIANI

Genova – Appartamento del doge Palazzo Ducale, Piazza Matteotti, 9 Fino al 16 luglio 2017 www.palazzoducale.genova.it «Per lavorare ho bisogno di un essere vivo, di vedermelo davanti. L’astrazione mi affatica, mi uccide ed è come un vicolo cieco». Ai paesaggi, Amedeo Modigliani (1884-1920) preferiva di gran lunga la figura umana cimentandosi in una nuova pittura introspettiva, volta a cogliere il carattere profondo dei soggetti che ritraeva: amici pittori, intellettuali e donne, queste ultime spesso ritrae nella loro nudità. Ma sempre con estrema eleganza. Sono una trentina le opere esposte a Genova, provenienti dai musei di tutta Europa e da collezioni private, che consentono di ripercorrere le principali componenti della breve e feconda carriera dell’artista, scandita da una vita di stenti, liti, alcool e delusioni.

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SOCIETĂ€

Venice. Italy. 1989 Š Martin Parr/Magnum Photos

L’Italia di Magnum.

Da Cartier-Bresson a Pellegrin 7RULQR &DPHUD &HQWUR ,WDOLDQR SHU OD )RWRJUDĂ€D Fino al 21 maggio 2017 www.camera.to

Life – Magnum.

Il fotogiornalismo che ha fatto la storia Cremona - Museo del Violino Fino all’11 giugno 2017 www.museodelviolino.org

Magnum First Brescia – Museo di Santa Giulia Fino al 3 settembre 2017 www.bresciamusei.it

70 anni di Magnum I suoi scatti restano ancora oggi i piÚ autorevoli. Tre mostre in Italia celebrano il compleanno della piÚ prestigiosa agenzia fotografica del mondo ESATTAMENTE 70 anni fa, nel 1947, sulla terrazza del Museo d’Arte Moderna di New York, nasceva l’agenzia IRWRJUDÀD 0DJQXP /¡LGHD HUD VWDWD ODQFLDWD GD 5REHUW &DSD durante la guerra civile spagnola e aveva trovato l’appoggio di DOWUL LPSRUWDQWL IRWRJUDÀ GD +HQUL &DUWLHU %UHVVRQ D *HRUJH Rodger, da David Seymour a William Vandivert. Per garantire GLJQLWj DO ODYRUR GL TXHVWL JUDQGL PDHVWUL GHOOD IRWRJUDÀD OD formula societaria scelta fu quella della cooperativa, l’unica FKH FRQVHQWLVVH DL IRWRJUDÀ GL UHVWDUH SURSULHWDUL GHL ORUR VFDWWL mantenendo i diritti sui negativi, ma che allo stesso tempo permetteva di prendere decisioni in maniera condivisa e proporre servizi piÚ articolati alle testate giornalistiche.

Da quel giorno del 1947, le immagini di Magnum hanno connotato e cambiato la percezione della cronaca e

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della storia del mondo, raccontando attraverso gli scatti dell’agenzia i grandi e i piccoli eventi dell’umanità degli ultimi settanta anni. L’impegno in prima linea ha portato anche alla tragica scomparsa di due dei soci fondatori, Robert Capa e David Seymour, oltre che di un altro dei soci della prima ora, lo svizzero Werner Bischof, tutti vittime dei teatri di guerra degli anni Cinquanta. Ancora oggi Magnum, con le sue sedi di New York, Parigi, Londra e Tokyo, resta, nonostante le innovazioni del mondo dell’informazione, la fonte piÚ autorevole di immagini del mondo.

Numerose le iniziative nel mondo in occasione del settantesimo anniversario di Magnum Photos, e anche in Italia, ben tre città – Torino, Cremona e Brescia – rendono omaggio alla piÚ VWRULFD H DXWRUHYROH DJHQ]LD IRWRJUDÀFD LQWHUQD]LRQDOH Q

IN AGENDA APPUNTAMENTI

BERENICE ABBOTT. TOPOGRAFIE %HUHQLFH $EERWW 7RSRJUDĂ&#x20AC;H Nuoro - Museo MAN via S. Satta, 27 Fino al 21 maggio 2017 www.museoman.it Per la prima volta in Italia, al MAN di Nuoro, lâ&#x20AC;&#x2122;antologica sulla grande fotografa americana Berenice Abbott (1917-1991), lâ&#x20AC;&#x2122;autrice di Changing 1HZ <RUN WUD L SL FHOHEUL OLEUL GHOOD VWRULD GHOOD IRWRJUDĂ&#x20AC;D GHO XX secolo. Curata da Anne Morin, la mostra presenta una selezione di 82 stampe originali. Si spazia dai ritratti (da Jean Cocteau, a James Joice, da Max Ernst ad AndrĂŠ Gide) che caratterizzarono gli anni dellâ&#x20AC;&#x2122;amicizia con Man Ray, agli scatti che testimoniano le trasformazioni di New York dopo la grande depressione del 1929, SHU Ă&#x20AC;QLUH FRQ OH IRWR GL laboratorio dopo che nel 1940 Berenice Abbott diventa picture editor per la rivista Science Illustrated.

Colosseo. Unâ&#x20AC;&#x2122;icona Roma Fino al 7 gennaio 2018 Il Colosseo si racconta per la prima volta in una grande mostraevento che ripercorre le sue tante vite, dai fasti dellâ&#x20AC;&#x2122;Impero Romano Ă&#x20AC;QR DL JLRUQL QRVWUL FRQ LO PRQXPHQWR VLPEROR GL 5RPD FKH VL trasforma in icona pop e diventa oggetto di rappresentazione di pittori come Guttuso. I visitatori potranno ripercorrere tutta la VWRULD GHOO¡DQĂ&#x20AC;WHDWUR )ODYLR VSD]LDQGR GDOOD SLWWXUD DO UHVWDXUR dallâ&#x20AC;&#x2122;architettura allâ&#x20AC;&#x2122;urbanistica, dallo spettacolo alla letteratura, dalla sociologia alla politica. Alla mostra si accompagna il volume The Colosseum Book (edito da Electa).

MONTEVERDI E CARAVAGGIO 6RQDU VWURPHQWL H Ă&#x20AC;JXUDU OD PXVLFD Museo del Violino - Cremona 8 aprile - 23 luglio 2017 www.museodelviolino.org www.teatroponchielli.it Un anno speciale il 2017 per Cremona. La cittĂ di prepara a celebrare Claudio Monteverdi, il celebre compositore dellâ&#x20AC;&#x2122;Orfeo a cui diede i natali 450 anni fa. Tra i numerosi concerti e eventi culturali in programma si segnala la mostra Monteverdi e Caravaggio, sonar VWURPHQWL H Ă&#x20AC;JXUDU OD musica dove sarĂ ricostruita lâ&#x20AC;&#x2122;orchestra dellâ&#x20AC;&#x2122;Orfeo attraverso lâ&#x20AC;&#x2122;esposizione degli strumenti originali dellâ&#x20AC;&#x2122;epoca, risalenti a 410 anni fa. Le FHOHEUD]LRQL SURVHJXLUDQQR FRQ XQD PRVWUD PRQRJUDĂ&#x20AC;FD DOOD 3LQDFRWHFD GDO RWWREUH DO JHQQDLR GHGLFDWD DG XQD GHOOH Ă&#x20AC;JXUH GL eccellenza del barocco nellâ&#x20AC;&#x2122;Italia settentrionale: Luigi Miradori detto il Genovesino.

Pistoia - Dialoghi sullâ&#x20AC;&#x2122;uomo Ottava edizione: 26-27-28 maggio 2017 www.dialoghisulluomo.it 5LĂ HWWRUL DFFHVL VX 3LVWRLD &DSLWDOH LWDOLDQD GHOOD &XOWXUD SHU LO 2017, al cui interno si innesta lâ&#x20AC;&#x2122;ottava edizione di Pistoia â&#x20AC;&#x201C; Dialoghi sullâ&#x20AC;&#x2122;uomo, il festival di antropologia del contemporaneo ideato e diretto da Giulia Cogoli. La cultura ci rende umani. Movimenti, diversitĂ e scambi è il tema scelto per lâ&#x20AC;&#x2122;edizione 2017: un preciso richiamo, dunque, al ruolo che questâ&#x20AC;&#x2122;anno Pistoia è chiamata a svolgere. Per tre giorni il centro storico della cittĂ sarĂ animato da incontri, spettacoli, conferenze. NovitĂ di questa edizione è il Premio internazionale Dialoghi sullâ&#x20AC;&#x2122;uomo, assegnato a chi abbia saputo, attraverso il proprio lavoro, migliorare lo scambio interculturale, in Italia e nel mondo.

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PERSONAGGI

DI Â GIUSEPPE TURANI

Hanno avuto vite straordinarie e frequentato persone straordinarie.

Hanno, a modo loro, determinato un pezzo di Storia del secolo passato.

E lo hanno fatto, come spesso accade, nella totale inconsapevolezza.

Sono personaggi che hanno vissuto con passione e ardore la loro epoca.

Che hanno lottato per degli obiettivi, magari non sempre raggiunti.

Uomini e donne che hanno avuto prima ancora coraggio che talento.

Ecco una carrellata di alcune delle loro storie piĂš appassionate.

(Gli articoli che seguono sono stati pubblicati sul Quotidiano Nazionale)

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Cathy Freeman l’atleta dalle due bandiere

A volte le Olimpiadi riservano sorprese e emozioni extra-sportive. Molti ancora oggi ricordano quelle di Atlanta del 1966.

Quando nel silenzio dell’immenso stadio esce dall’ombra l’ultimo tedoforo, quello che accenderà la fiamma olimpica, e la cui identità è stata tenuta segreta fino a quel momento. È Cassius Clay, un atleta fra i più grandi di tutti i tempi, ma da anni devastato dal morbo di Parkinson. A fatica riesce a maneggiare la torcia e a accendere il fuoco. Nello stadio c’è un attimo di silenzio stupito, imbarazzato, poi più di cento mila persone scoppiano in un applauso che sembra non finire mai.

Un altro momento di commozione si ha nelle Olimpiadi invernali di Torino del 2006. Per la prima volta nella lunghissima storia delle Olimpiadi la bandiera olimpica viene portata nello stadio da otto donne, che entrano sulle note della marcia trionfale dell’Aida. Fra di esse, Sophia Loren e Susan Sarandon, ambasciatrici dell’Unicef, la scrittrice Isabelle Allende, e cinque atlete di tutti i continenti. La bandiera viene poi consegnata a un reparto di alpini vestiti di bianco, che provvedono a issarla sul pennone.

Emozione anche a Sidney, nelle Olim-

Quella dell’Australia e quella degli aborigeni.

Perché tutti devono sapere da dove viene e chi rappresenta

piadi del 2000. Quando dall’ombra esce l’ultimo tedoforo per accendere la fiamma, l’intero stadio, cento mila persone, esplode in un lunghissimo applauso. Lei è Cathy Freeman, una grandissima atleta, ma anche molto di più: è un simbolo, un simbolo che tocca direttamente il cuore del popolo australiano. È aborigena. E in Australia gli aborigeni sono sempre stati trattati peggio dei nativi americani negli Stati Uniti. Lei, correndo e vincendo, ha cercato di chiudere la spaccatura, di far dimenticare decenni e decenni di odio. E questa volta è lì, sul palco, sarà lei a dare il via alle Olimpiadi d’Australia.

Ha cominciato presto la sua battaglia.

Nei giochi del Commonwealth del 1990, quando aveva 17 anni, dopo aver vinto la sua gara, ha stupito tutti: è partita di corsa per fare il giro d’onore, come si usa. Solo che si è avvolta in due bandiere: quella australiana e quella del popolo aborigeno: un rettangolo diviso in due, rosso e nero, con al centro un grande sole giallo. È una bandiera che non è mai esistita, i nativi australiani non sono mai stati una nazione e non ne hanno mai avuta una, è stata disegnata solo nel 1971, ma per gli aborigeni significa molto e Cathy ha voluto renderle omaggio, ricordare che lei è australiana, ma anche diversa, aborigena.

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PERSONAGGI

La gara della sua specialità, i 400 piani, sarà un altro momento di grande emozione. Cathy partecipa tutta chiusa, come un’astronauta, in una tuta di sua invenzione (che, si dice, la Nike starebbe ancora cercando di imitare). Lei ha una rivale in questa gara, che l’ha già battuta più volte, un’atleta francese. Solo che questa volta, sopraffatta dallo stress, non si è presentata.

Appena prima dell’inizio della gara, le telecamere puntano ai primi piani delle contendenti schierate ai blocchi di partenza. Quando sullo schermo appare Cathy, arriva l’applaudo dei cento mila presenti, e prosegue anche quando ormai si è passati sui volti delle altre atlete.

Poi c’è il via e scatta la corsa. Applausi e grida accompagnano quella che sembra essere una marcia trionfale e solitaria di Cathy. Ma a un certo punto nello stadio piomba un silenzio irreale, non c’è più alcun rumore, niente. Lei alza gli occhi e vede che in testa c’è la concorrente giamaicana, una corsia più in là della sua, lei è solo seconda. Vista dagli spalti la corsa sembra ormai persa. La giamaicana corre veloce e Cathy sembra destinata ormai a ribaltarsi, a perdere. Ma lei non può perdere davanti ai suoi tifosi, corre un po’ per se stessa, ma soprattutto per la sua gente, gli aborigeni. Allora, spinge ancora di più, cerca altra aria e chiede alle gambe ancora uno sforzo, e alla fine vince. Una rimonta spettacolare, torna il grande applauso, lo speaker della televisione non riesce a trattenersi e grida nel microfono: «Tutti amiamo Cathy».

Lei si slaccia la sua tuta spaziale, prende fiato, riceve una stretta di mano dalla concorrente di un paese dell’Est, si toglie le scarpe, saluta la mamma che è a bordo pista con su la giacca della sua tuta, poi parte per il giro d’onore. Sa che è proibito esibire bandiere che non siamo quelle ufficiali, ma la gioia è troppo grande: e quindi, a casa sua, a Sidney, correndo a piedi nudi, fa il giro d’onore avvolta in una doppia bandiera, quella australiana su una facciata e quella aborigena sull’altra.

Tutti devono sapere da dove lei viene e chi rappresenta. Sono

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tre cose in una volta, sembra voler dire: sono australiana, sono aborigena e sono una campionessa.

Nessuno osa dirle niente. Cathy infatti, oltre a vincere la corsa, ha stabilito anche un altro primato: è la prima volta in assoluto che un campione accende la torcia olimpica e poi vince una medaglia d’oro nella stessa olimpiade. Di più: la sua medaglia d’oro sui 400 piani è la prima medaglia vinta da un atleta aborigeno.

Nessuna frase di importanza storica. Solo: «Sono contenta di avercela fatta». E poi: «Questo oro è di tutti quelli che lo vorranno».

Cathy Freeman insisterà sempre sulla questione razziale, creerà anche una fondazione con il suo nome, perché lei e la sua famiglia hanno sofferto molto. La madre ha dovuto lasciare gli studi per andare a lavorare in giovane età, e non poteva viaggiare senza il permesso della polizia. Al nonno non hanno mai concesso il passaporto. E lei ricorda ancora che da bambina non le era concesso andare nella piscina dei bianchi.

Cathy non è donna da grandi discorsi e quindi non ha ricordato il parallelo con Cassius Clay: entrambi appartengono a due razze perseguitate, e entrambi sono stati in parte gratificati dallo sport. Gli aborigeni australiani, al pari dei nativi americani e dei neri, per decenni sono stati inseguiti e uccisi dai coloni bianchi.

D’altra parte, una cosa importante l’aveva già detta ai giochi del Commonwealth: «Quando entravamo in posti nuovi eravamo completamente impauriti, perché sentivamo che essendo neri, non avevamo il diritto di trovarci lì».

Alla fine, l’applauso di cento mila tifosi e l’urlo del telecronista «Tutti amiamo Cathy», hanno avuto forse un effetto doppio. Quella volta, nello stadio di Sidney, il diritto di essere lì Cathy se l’era guadagnato.

Da Quotidiano Nazionale, 2 aprile 2017

Cleo Fincher con il marito Dalton Trumbo

Cleo Fincher una moglie da Oscar

Nessuno, nemmeno i super esperti di storia del cinema, ricordano Cleo Fincher, che infatti non vi ha lasciato alcuna traccia. In qualche nota è citata solo per un fatto curioso: nel 1993 ha ritirato il premio Oscar per la sceneggiatura di Vacanze romane, la pellicola interpretata da Audrey Hepburn e Gregory Peck, con la regia di William Wyler.

Non era nemmeno un’intellettuale.

Nasce a Fresno nel 1916, poi la sua famiglia si trasferisce a Los Angeles. E lei trova impiego come carhop (cameriera, di fatto) in un drive-in. Acquista una certa notorietà presso i suoi clienti perché è bravissima a fare dei giochi con i bicchieri pieni d’acqua.

La sua vita cambia, e entra nella storia del cinema, quando a metà degli anni Trenta una vistosa Packard si ferma davanti alla sua postazione. Alla guida c’è Dalton Trumbo, probabilmente il più grande sceneggiatore dell’intera storia di Hollywood. E Trumbo è lì per lei, su consiglio di un amico che gli avrebbe detto: «É bellissima, sposala». É amore a prima vista. Lui la corteggia, anche se i genitori di lei sono contrari. Lei, per convincerli, lo descrive come

Sempre al fianco di Dalton Trumbo, anche quando lui finisce nella lista nera di Hollywood

non è: è alto, è atletico, è sportivo. Invece, una volta sposati, Trumbo passerà tutta la vita seduto alla macchina da scrivere o alla scrivania a leggere. Si sposano nel 1938.

Cleo però gli rimane accanto, sempre, gli tiene insieme la famiglia (tre figli) e non lo abbandona mai. Lo accompagna a Washington quando deve presentarsi davanti alla Hcua, la commissione per le attività anti-americane. E è con lui anche quando Trumbo decide di portare tutta la famiglia in Messico perché in America è diventato impossibile vivere. Lo aspetta negli undici mesi che lui deve trascorrere in prigione perché considerato il capo degli Hollywood Ten, i dieci personaggi del cinema messi su una lista nera da tutte le case di produzione perché considerati comunisti.

Cleo non ha mai scritto nemmeno cinque righe di una sceneggiatura, però se Trumbo ne ha fatte moltissime lo si deve in buona parte a lei.

All’inizio la vita con Trumbo è molto piacevole. Lui è lo sceneggiatore più bravo e più pagato di Hollywood. Abitano in una grande casa in campagna, addirittura con un laghetto di proprietà. Ma scoppia qualche UOMINI&BUSINESS - MARZO/APRILE 2017

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agitazione fra i lavoratori del cinema e Trumbo, insieme ai suoi amici, porta la sua solidarietà.

Siamo dopo la fine della guerra, con l’Urss i rapporti sono diventati tesi, c’è la guerra fredda. E a Hollywood c’è Hedda Hopper, un’ex attrice che ormai fa la giornalista di pettegolezzi. E Hedda comincia a insinuare il dubbio che Trumbo e i suoi amici siano semplicemente dei comunisti, quindi nemici dell’America.

Il senatore Joseph McCarthy, un repubblicano di destra, non aspetta altro. Fa nominare una commissione d’inchiesta e mette sotto processo i sospettati.

Trumbo, con la moglie Cleo seduta in prima fila, nel 1947 va a deporre. La sua linea di difesa è costituzionalmente ineccepibile: non avete il diritto di chiederci cosa pensiamo e a chi vanno le nostre simpatie politiche. Non nega i rapporti con il partito comunista americano.

Viene condannato a 11 mesi di carcere, che sconterà, per oltraggio al Congresso.

Quando esce, si accorge di essere circondato dall’ostilità generale e trasferisce tutta la famiglia in Messico. Rientrerà solo quattro anni dopo. Niente più casa in campagna e laghetto personale. É sempre sulla lista nera e quindi nessun studio accetta di farlo lavorare. La lista nera verrà chiusa, in circostanze bizzarre, solo nel 1960. É in questo periodo di “oscurità” che Cleo dà il meglio di sé. Trumbo sa fare solo lo sceneggiatore e quindi continua a fare quello, sotto falso nome, sotto il nome di amici compiacenti, con mille sotterfugi. Mette al lavoro tutta la famiglia: a battere a macchina i copioni, a consegnare i dattiloscritti in modo discreto, a rispondere al telefono sotto falso nome. Lavora per pochi soldi perché nemmeno potrebbe. E quindi scrive copioni su copioni come un disperato, persino dentro la vasca da bagno (si è attrezzato con un’asse).

In pratica, la famiglia Trumbo diventa una fabbrica abusiva di sceneggiature. Chi dirige il tutto è l’excarhop Cleo, silenziosa e efficiente.

Ogni tanto, però, anche nella clandestinità emerge il grande sceneggiatore. Dalton scrive infatti il copione di Vacanze romane, e trova un amico che lo firma al suo posto. La sera degli Oscar la famiglia è riunita sul divano, in pausa, e vede in tv che il film ha vinto l’Oscar per la miglior sceneggiatura. Va a ritirare la statuetta l’amico di Trumbo. Per il film La grande corrida accade di peggio.

Dalton, non avendo un amico sotto mano, usa un nome falso, ma di nuovo vince l’Oscar per la miglior sceneggiatura. La produzione deve mandare un funzionario a ritirare la statuetta. Tutti cercano lo sceneggiatore, ma non si trova perché è solo un nome inventato.

Ma intanto qualcosa si muove. Un giorno si presenta a casa di Trumbo il grande regista Otto Preminger, ha in mano un copione e dice: «É una storia bellissima, ma è scritta malissimo, me la devi riscrivere». Dalton spiega la sua situazione, ma Preminger non vuole sentire

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Cleo Fincher con il marito Dalton Trumbo

ragioni. E Cleo: «Se vuoi che esca di casa, gli devi scrivere questa benedetta sceneggiatura».

Quando il film è pronto (Exodus con Paul Newman), Preminger annuncia che uscirà presto nelle sale e che la sceneggiatura è di Dalton Trumbo. Dalton va al cinema con Cleo a vedere il film è, dopo tanti anni, i due rivedono la magica scritta finale: Screenplay by Dalton Trumbo.

Poco dopo si fa avanti Kirk Douglas, anche lui ha una storia bellissima, ma scritta male. Vuole che Trumbo la riscriva. I produttori minacciano di non fare uscire il film se non caccia Trumbo. Ma Kirk resiste. E così si fa Spartacus.

Ultime accuse: «É un film comunista, scritto da un comunista».

John Kennedy, appena eletto presidente, va di persona a vedere il film. Quando esce, dice semplicemente: «Mi è piaciuto, bello».

E a quel punto la lista nera è morta.

Dalton Trumbo scompare nel 1976 e ha appena fatto in tempo a accettare l’Oscar per La grande corrida.

Nel 1993, Cleo ha l’onore di accettare a nome del marito defunto l’Oscar per il film Vacanze romane, scritto nel 1953, quarant’anni prima.

Alla cerimonia dirà pochissime parole: «Dalton sarebbe molto soddisfatto. Finalmente si mette tutto in ordine».

Da Quotidiano Nazionale, 19 febbraio 2017

Bianca Beccalli con Marco Pannella

Bianca Beccalli la ribellione dei Quaderni

Parlare di Bianca è complicato, ci conosciamo da sempre. Ma la sua storia è la storia di una generazione che è appena alle nostre spalle, forse l’ultima generazione che ha provato a rompere gli schemi, a immaginare un nuovo che poi non è venuto.

Bianca Beccalli nasce nel 1938 a Pavia, da una famiglia borghese e liberale. Studia filosofia (ma poi devia verso la sociologia, suo grande amore).

Sfogliando l’albo dei ricordi, trovo un paginone del Giorno di quegli anni in cui viene descritta come la più bella e la più intelligente dell’Università di Pavia.

Due verità assolute.

E la ricordo anche, intorno agli anni Settanta, quando una sera mi porta a una riunione del collettivo del Politecnico di Milano. Discorsi fumosi e complicatissimi. «Non ho capito niente», confesso. E lei: «Ma è semplice: hanno detto che stanno per entrare in clandestinità». Poi arriveranno le Brigate Rosse, ma noi avevamo già

Ex fidanzata di Pannella, sempre attenta alla condizione operaia

smesso di andare ai collettivi.

Studia, ma si interessa anche di politica.

E, ancora giovanissima, viene designata come delegata nazionale degli studenti pavesi nell’Unione goliardica italiana.

Sono gli anni in cui si studia tanto, si fa politica, ma c’è anche un po’ di lasciarsi andare.

In un’intervista sarà lei stessa a dire: «Per certi versi la nostra esperienza era quasi più bohemien e internazionale e l’università rappresentava solo uno dei possibili campi in cui praticare la sociologia. Per me la scelta era piuttosto di una trasgressione esistenziale e sociale, non il primo passo verso una carriera professionale. Questo inizio, penso, abbia segnato anche i momenti successivi della mia vita professionale».

E c’è l’incontro, magico, con Marco Pannella. Con lui parte e va a Parigi.

Qualche anno fa Pannella ha raccontato che Bianca è stata l’unica donna a cui lui abbia chiesto di sposarlo, sembra che avessero avviato addirittura le pubblicaUOMINI&BUSINESS - MARZO/APRILE 2017

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PERSONAGGI

zioni. Ma lei gli ha detto di no, e le loro vite si sono separate. Prima che lui morisse sono anche riusciti a litigare un po’. In un’intervista lui ha detto che lei pendeva dalle sue labbra, era innamoratissima. Risposta: non pendevo dalla labbra di alcuno né allora né mai.

Intanto, Bianca è folgorata dalla lettura di Alain Touraine, lo studioso che per primo aveva prodotto modernissime analisi sul lavoro in una fabbrica della Renault. Quello sarà il suo futuro: la condizione operaia.

Di ritorno da Parigi, si laurea con tesi su Durkheim. E si sposa con Michele Salvati, che aveva conosciuto da giovane studente di economia. A celebrare il matrimonio è il sindaco valdese di Torre Pellice nel 1963.

Subito dopo partono per Cambridge. Lui per laurearsi in economia, lei per studiare ancora sociologia e per fare ricerche.

Quando rientrano in Italia, sono gli anni del fermento. Intanto incontrano Raniero Panzieri.

Una singolare figura di funzionario del Psi, teorico dell’operaismo. Raniero, non visto benissimo dalle gerarchie ufficiali, esercita però una grandissima influenza su tutta una generazione di giovani studiosi alla ricerca di una strada politica non tradizionale.

Dall’operaismo di Panzieri (che per un certo periodo dirigerà anche Mondo operaio, mensile ufficiale del Psi) nascono i Quaderni Rossi. Era una rivista, ma fatta come un piccolo libro, nessuna fotografia, nessun disegno, solo testi. Credo che in tutto siano usciti sei numeri dei Quaderni Rossi (più forse un supplemento monografico). Nei Quaderni giovani studiosi analizzavano la condizioni operaia, spesso dopo complesse ricerche sul campo. Per molto tempo (anche quando la rivista aveva ces-

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sato le pubblicazioni) i Quaderni Rossi sono stati una specie di mito per la sinistra fuori da partiti tradizionali: chi ne aveva fatto parte, era speciale, aveva studiato, aveva pensato, aveva cercato. E chi l’aveva letta faceva un po’ parte di quel mondo.

Naturalmente, sia Bianca che il marito Michele (che oggi dirige Il Mulino) sono tra i fondatori.

Accanto ai Quaderni Rossi, sempre in quegli anni, esplode un’altra iniziativa, quella dei Quaderni Piacentini. Già nel nome si vuole segnare che si parte dalla provincia, fuori dai grandi circuiti culturali.

In realtà, i Quaderni sono ancora più provinciali di quanto non dica il nome: l’animatore e direttore è infatti Piergiorgio Bellocchio, fratello di Marco, il futuro regista dei Pugni in tasca. Tutti e due vengono da Bobbio, un paesino sperduto quasi in fondo alla Val Trebbia. A Bobbio non c’è niente, se non una grandissima tradizione culturale millenaria. Qui c’è infatti un’antica abbazia dove i frati ricopiavano i testi antichi, facendoli poi circolare in Europa. Nel Medioevo Bobbio era stata anche potente. Poi era decaduta.

Ma i Quaderni piacentini, come del resto i cugini Rossi, sono una voce fuori dal coro, fuori dai grandi giri letterari e riescono a diventare il luogo in cui le migliori intelligenze di quella stagione si misurano, polemizzano, pensano. Nella fase iniziale la rivista ottiene il sostegno convinto del grande poeta Franco Fortini, a cui piacciono molto quei giovani ribelli di provincia, ma coltissimi. E molto “avanti” rispetto a quello che si stampava allora in Italia. Se i Quaderni Rossi erano operaisti e basta, tutti centrati sulla necessità di trovare una nuova via per una nuova sinistra, i Piacentini si muovono invece su uno spettro culturale molto più ampio. E diventano così famosi e ricercati da trasformarsi essi stessi, un po’, in establishment.

Bianca è la prima a prendere contatto con loro e poi convince anche Michele: entrambi faranno parte del comitato direttivo dei Quaderni Piacentini.

Ma anche quella stagione finisce. Michele diventa uno dei più apprezzati economisti e politologi italiani (oggi è usuale definirlo come il padre del Pd).

Bianca studia e insegna sociologia. È stata un po’ ovunque: Berlino, Parigi, Londra, Cambridge (USA), Buenos Aires, Canberra.

Hanno una figlia e tre nipoti, che la guardano forse ignorando che è stata la più bella e più intelligente della sua università, e la chiamano semplicemente Nonna Bi. Da Quotidiano Nazionale, 12 febbraio 2017

Ondina Peteani con figlio

La lunga marcia di

Ondina Peteani «Di Auschwitz ho un ricordo stupido se si vuole - ... una sera sono andata sulla soglia della porta della baracca e c’era una lunona grande. Pensavo - la vedono anche a casa mia. Mi ha preso un’angoscia, un male fisico, una nostalgia così dolorosa della mia gente, della mia terra, di casa... Avevo il terrore di non farcela e mi ricordo che ci torturavamo dicendoci - ... finirà presto la guerra, ci vedranno in questo stato e ci porteranno a casa con degli aerei. Avranno tutte le cure per noi ridotte in queste condizioni.

Così in poche ore busseremo alla porta di casa e sentiremo dire - chi è ... Mamma, mamma ... E allora giù a piangere disperate».

Chi parla così è Ondina Peteani, un’operaia dei cantieri navali di Monfalcone, nata a Trieste nel 1925. Ignorata e dimenticata, al pari di tante altre donne che hanno fatto cose straordinarie, ma che nella storia della Resistenza è invece molto nota per essere stata la prima staffetta partigiana d’Italia.

Le staffette partigiane avevano

Prima staffetta partigiana d’Italia, cammina dalla Polonia settentrionale fino a Trieste

un compito fondamentale: tenere i collegamenti fra i vari gruppi e i comandi, rifornire i combattenti di cibo e altri generi di necessità, dare informazioni sulle truppe avversarie.

Le staffette partigiane erano di solito o donne o ragazzi molto giovani. E c’è una ragione: non avevano problemi di leva militare e potevano circolare senza dare molto nell’occhio. Due soli i mezzi di trasporto: la bicicletta o i piedi. Le staffette, di norma, non avevano niente, non erano armate e quindi non erano combattenti. Se incrociavano una pattuglia nemica dovevano sbrigarsela con la loro faccia tosta, inventando delle storie.

I partigiani, ovviamente, non avevano nulla per compensare le staffette. Di solito, come racconta Teresa Mattei (che fu staffetta, gappista e poi “madre costituente”) ringraziavano con un mazzo di mimose che raccoglievano nei campi, e che poi è diventato il fiore delle donne.

Ondina entra nel movimento partigiano (“battaglione triestino”) UOMINI&BUSINESS - MARZO/APRILE 2017

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nell’inverno del 1943, a diciotto anni. E fa quello che ci si aspetta da lei, corre avanti e indietro al servizio del suo battaglione, sfidando ogni volta i posti di controllo e le pattuglie.

Riesce a fare la staffetta per circa un anno, viene individuata e arrestata un paio di volte, ma scappa e riprende la sua attività di staffetta. L’11 febbraio del 1944, però, i tedeschi l’arrestano per la terza volta e non se la lasciano sfuggire. La mettono in carcere a Trieste, poi la trasferiscono in un altro posto, infine la sbattono su un carro bestiame. Destinazione: Auschwitz, campo di sterminio.

Quando arriva le viene tatuato sul braccio il numero 81672.

Potrebbe essere eliminata in ogni momento.

Ma è giovane e robusta.

I tedeschi pensano che invece può lavorare per loro. La trasferiscono così in un’altra struttura, in una fabbrica di materiale bellico.

Ondina, che è nata operaia, sa come si lavora, ma sa anche come si fa a sabotare la produzione.

Come scusa si inventa continui controlli delle macchine e della qualità della produzione finita. Così fa piccoli sabotaggi per non essere scoperta, ma sistematici. La prima staffetta partigiana d’Italia, ormai con il numero tatuato sul braccio, non si arrende. Anche nel nuovo posto, come nel campo di concentramento, continua a sognare l’arrivo delle truppe alleate, che poi le porteranno a casa tutte in poche ore, con gli aerei.

Ma non arriva nessuno, niente aerei. E allora Ondina esperta in fughe e grande camminatrice, sceglie da sola la libertà.

Accade durante un trasferimento, una marcia forzata che doveva portarla in un diverso campo di concentramento insieme a altre prigioniere. I soldati tedeschi, che ormai hanno paura degli aerei alleati, che arrivano a sorpresa e mitragliano, usano Ondina e le sue compagne come scudi umani.

Ma non arrivano nemmeno gli aerei e lei, in un momento di confusione, da brava e furba staffetta, abituata a scomparire e a non farsi notare, riesce a defilarsi, e a prendere la strada dei boschi, e si incammina verso casa, verso Trieste. È il 2 aprile del 1945.

Ma da dove si trova, Polonia meridionale, sono

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1300 chilometri. Distanza che lei farà a piedi, attraversando Cecoslovacchia, Ungheria e Jugoslavia. Senza mezzi, senza appoggi, e probabilmente senza nemmeno conoscere la lingua. La spinge in avanti solo una cosa: il sapere che non esistono alternative. La strada è lunga, quasi impossibile e lei è solo una ragazza di vent’anni, provata da due anni di campo di concentramento, con l’incubo quotidiano di poter essere liquidata in ogni istante.

E deve cercare di evitare i controlli. Ma questa è la sua specialità. E così cammina, non si ferma. Camminare, in fondo, era stato il suo lavoro come staffetta partigiana. Lei stessa racconterà: «Avevo avuto il tempo di recuperare la sensibilità, l’umanità perduta.

Sono stata fra le prime a rientrare, erano i primi di luglio, tre mesi incredibili per attraversare 1300 chilometri circa, in un’Europa in ginocchio, senza più ponti, strade e ferrovie integre». È ormai il 2 luglio, quando finalmente arriva a casa. «Quando ho abbracciato mamma, papà ed il cane che mi è saltato addosso per farmi le feste e che mi ha riconosciuto, allora sì che ho capito di essere tornata libera».

Finita la guerra, Ondina ha scelto di fare l’ostetrica e si è molto impegnata, politicamente, in varie organizzazioni di sinistra. Quando c’è il terremoto in Friuli (1976) è una delle prime a accorrere e mette su una tendopoli per dare un ricovero ai terremotati. È morta nel 2003, senza mai ricevere alcuna medaglia perché è stata solo una staffetta partigiana e non una combattente. Gli ultimi anni sono stati atroci, raccontano quelli che le sono stati vicino. Aveva visto troppa gente sparire nei lager e le era venuto come un senso di colpa per essersela cavata, lei, internata numero 81672. Persino mangiare, ormai, le dava fastidio, all’idea di tutti quelli che aveva visto deperire e morire per mancanza di cibo nelle baracche del campo.

Da Quotidiano Nazionale, 5 febbraio 2017

Luchino Dal Verme il conte partigiano

Fra i vari personaggi che hanno dato un contributo importante alla guerra di liberazione in Italia c’è certamente, anche se rimane molto in disparte, il conte Luchino Dal Verme. La sua famiglia era di tradizioni cattoliche e monarchiche molto consolidate, capitani d’arme e governatori di città fin dal 1300. Nella seconda guerra mondiale Luchino, ultimo discendente, lascia il castello di famiglia a Torre degli Alberi nell’Oltrepò pavese, viene arruolato in un battaglione di artiglieria a cavallo e si fa tutta la tremenda campagna di Russia. Tornato in Italia, viene spedito a Forlì per addestrare delle reclute al fine di ricostituire il suo battaglione, distrutto in Russia.

Fin qui, Luchino è un fedele servitore dello Stato e della monarchia.

Ma la fuga dei Savoia a Brindisi viene da lui interpretata come un atto di alto tradimento. Mentre riflette, però, ha problemi più urgenti: i tedeschi stanno rastrellando i militari italiani, per spedirli in Germania o fucilarli, se fanno

Il 29 marzo 2017 è morto a 103 anni uno straordinario comandante della Resistenza.

Prima cattolico e monarchico, poi a capo di una divisione Garibaldi.

Buon vento Luchino.

resistenza. E quindi decide di darsi alla latitanza. Scappa a nascondersi nel castello di famiglia a Torre degli Alberi, dove può contare anche sulla solidarietà della popolazione.

Durante la clandestinità nelle valli dell’Oltrepò ha l’incontro che gli cambierà la vita: al Mulino del Conte (frazione di Ponte Nizza, poco lontano dal suo castello) va a trovare Italo Pietra, futuro capo partigiano, inviato del Corriere della Sera e poi direttore de Il Giorno. Pietra, che è su altre posizioni politiche, sa che la guerra partigiana sta per cominciare e che i tempi della monarchia sabauda sono finiti. Dal Verme è un bravo e esperto ufficiale. Gli chiede subito di entrare nelle formazioni combattenti. Dal Verme accetta e viene nominato comandante della 88.a Brigata “Casotti”, con il nome di battaglia Maino. Dietro questo nome non c’è alcun richiamo storico. Lo stesso Luchino ha spiegato che era il nome di una marca di biciclette che a lui piaceva molto. In realtà, tutti lo chiameranno il “Conte UOMINI&BUSINESS - MARZO/APRILE 2017

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PERSONAGGI

partigiano”.

Dopo la brigata “Casotti” viene nominato capo della divisione garibaldina “Antonio Gramsci”, cioè di una formazione militare comunista. É evidente che c’è una contraddizione: un cattolico monarchico a capo di una divisione partigiana comunista. Dopo la guerra, a chi gli pone la domanda, Dal Verme dà la risposta più semplice che si possa immaginare: «Non ho mai contato quanti fossero i comunisti nella mia divisione. So però quanti uomini sono morti per tutti noi, per la libertà di ciascuno di noi. E questo mi basta».

Ancora oggi (il conte è nato nel 1913) viene ricordato da tutti quelli che l’hanno conosciuto come un grande protagonista della “guerra guerreggiata”. Non stava nascosto in un bosco a dare ordini, ma partecipava direttamente agli scontri armati.

La sua divisione ha fatto molte azioni in pianura (ha sabotato la linea ferroviaria Torino-Piacenza) e soprattutto ha partecipato alla terribile battaglia di Costa Pelata, un durissimo corpo a corpo con i tedeschi, contro i quali combatterà anche un reparto di cecoslovacchi (disertori della Wehrmacht) e che richiederà l’intervento di due caccia bombardieri inglesi.

Tra il 25 e il 26 aprile la divisione di Dal Verme occupa Casteggio e il giorno dopo, il 27, è tra le prime formazioni partigiane a entrare (insieme a quella di Italo Pietra) nella Milano liberata.

E qui si verifica un episodio poco noto, ma che spiega molte cose della Resistenza. Quando il colonnello Valerio ricevere l’ordine dal Clnai (comitato liberazione nazionale alta Italia) di andare a Como per recuperare Mussolini (già fatto prigioniero da altri partigiani) e fucilarlo immediatamente (lo stavano cercando anche americani e inglesi), fa notare che c’è molta confusione in giro e che probabilmente ci saranno conflitti con quelli che hanno Mussolini. Chiede quindi di avere una scorta armata «ma che sia fidata» (in quei giorni in giro ci sono tanti finti partigiani e tante spie). Sulla richiesta di Valerio c’è un attimo di imbarazzo: nessuno sa bene di chi ci si può fidare davvero.

Allora si fa avanti il conte Dal Verme: «Valerio, ti do io dodici dei miei uomini. Siamo appena scesi dalle montagne dell’Oltrepò, ci siamo fatti strada fin qui con le armi, di loro ti puoi fidare ciecamente». E così Valerio parte con la scorta dei ragazzi di Varzi, di Voghera e di Ponte Nizza, i partigiani dell’Oltrepò.

Quando Valerio vede che i compagni di Como non vogliono dargli Mussolini, saranno proprio gli uomini di Dal Verme a spianare i mitra e a chiudere (pacificamente) la questione. Il Duce verrà

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Luchino e i suoi nipoti

poi fucilato, insieme a Claretta Petacci.

Finita la guerra, al “conte partigiano” un po’ tutti i partiti offrono candidature e una carriera politica. Discende da una famiglia che ha governato a lungo l’Oltrepò, sia pure in anni medioevali, è stato un eroe di guerra e della Resistenza, ha rischiato la vita più volte.

Ma lui dice semplicemente no a tutti: «Noi siamo uomini di azione, uomini di lavoro, uomini di mani, non siamo uomini di parole, per questo facciamo così fatica a comunicare ciò che abbiamo vissuto. Ma ci proviamo comunque». Torna nel suo castello a Torre degli Alberi, avvia un allevamento di polli, e si rimette al lavoro per guadagnarsi da vivere. Sua moglie, invece, apre una scuola di tessitura per le ragazze del paesino dell’Oltrepò, da cui non si sono mai più mossi.

Da Quotidiano Nazionale, 27 aprile 2015