Urbinate per sempre — Paola Ugolini — "Mi venne un dì pensier di gir lontano"

PAOLA UGOLINI "Mi venne un dì pensier di gir lontano"

PAOLA UGOLINI "Mi venne un dì pensier di gir lontano"

“Questo, tra l’altre cose sue lodevoli, nell’aspero sito d’Urbino edificò un palazzo, secondo la opinione di molti, il piú bello che in tutta Italia si ritrovi; e d’ogni oportuna cosa sí ben lo fornì, che non un palazzo, ma una città in forma de palazzo esser pareva.”

Così Baldassar Castiglione nel Libro del Cortegiano ricorda il contributo fondamentale di Federico da Montefeltro alla città di Urbino. Il palazzo e la città diventano una cosa sola nelle parole di Castiglione; anzi la vera città è il palazzo, che racchiude in sé lo spirito della vita del tempo. È nelle sale di questo edificio che Castiglione ambienta le giornate di dialogo che danno corpo al Cortegiano, ovvero al testo che sarà assunto a modello di cortigiania dalle classi elevate di tutta l’Europa. Nel corso di quattro serate consecutive trascorse negli appartamenti della duchessa Elisabetta Gonzaga, i membri della corte di Urbino, sotto l’occhio vigile della duchessa e della cognata Emilia Pio, provvederanno a costruire il ritratto immaginato (ovvero a “formar con parole,” nella definizione del dialogo) il cortigiano ideale e la sua compagna, la perfetta dama di corte.

Gli splendidi appartamenti, le cui finestre si affacciano sulle colline del Montefeltro e sul monte Catria, sembrano riecheggiare ancora oggi delle voci e delle risate dei protagonisti, che Castiglione descrive con tono raffinato e vivace al tempo stesso.

Eppure il dialogo, come spesso viene sottolineato dai commentatori moderni, è pervaso da un senso di sottile malinconia e inquietudine. Castiglione stesso nella lettera dedicatoria a Miguel da Silva fa notare come molti dei protagonisti dell’opera siano ormai morti. Morti, soprattutto, sono il duca Guidubaldo da Montefeltro, e la duchessa Elisabetta. Tenendo in mente la lettera dedicatoria, non si può non rileggere l’intero dialogo senza cominciare a sospettare che l’armonia che vi viene dipinta non sia in realtà altro che una bella superficie che dissimula a fatica tristezza e dolore.

La malinconia che pervade il Cortegiano ha inoltre radici ben più profonde della nostalgia, pur vivamente sentita dall’autore, per un mondo e per degli amici che non ci sono più. Già durante gli anni felici ritratti nel Cortegiano, la corte di Guidubaldo e Elisabetta non poteva certo dirsi priva di inquietudini. Il giovane duca Guidubaldo, descritto dallo stesso Castiglione come uno dei principi più promettenti della sua epoca, era costretto a letto da una malattia debilitante. La corte del Cortegiano è una corte monca, priva di quello che dovrebbe esserne la guida e la gloria: il principe intorno a cui tutta la vita della corte ruota. Nel progressivo decadere del corpo di Guidubaldo, Castiglione sembra ritrarre la decandenza del sogno del primo Rinascimento di una corte che fosse raffinatezza, cultura, e luogo di espressione dei più nobili valori dell’uomo.

Ma c’è ancora di più. Al di là delle premature morti dei protagonisti, anche nei momenti felici del dialogo si può infatti sentire serpeggiare tra le righe del dialogo un sottile discontento. Il Rinascimento italiano è famoso per avere creato e celebrato l’arte della cortigiania, di cui il testo di Castiglione si può considerare il capolavoro.

Al tempo stesso, ugualmente popolare era il genere dei testi contro la corte, spesso scritti in forma di satira o di lamento contro la vita di corte e i costumi dei suoi abitanti. In questi testi, la corte non appare certo come il contesto armonico descritto nelle pagine del Cortegiano. Al contrario, la corte diviene un vero e proprio inferno in terra: un luogo di corruzione e tormenti, in cui bisogna costantemente guardarsi le spalle dal momento che anche chi ti si dimostra amico non esiterà a tradirti per il proprio interesse personale, e dai cui conviene cercare di fuggire il prima possibile.

Per quanto possa sembrare sorprendente, anche la società di corte ricordata con rimpianto da Castiglione non è aliena da queste venature critiche. Un momento di particolare imbarazzo si ha nella seconda giornata del dialogo, quando Vincenzo

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Calmeta (uno dei personaggi minori del dialogo, a cui non sono affidate che poche battute) fa un breve commento sulla triste sorte riservata ai cortigiani virtuosi che si trovano a dovere servire un principe malvagio. Per questi cortigiani non vi è altra strada che una sofferta rassegnazione, al punto che il loro destino è paragonabile a quello di “que’ mal avventurati uccelli, che nascono in trista valle.” Ogni tentativo di volarsene altrove, ci viene lasciato intendere, è destinato a rimanere una mera utopia.

L’immagine evocata da Calmeta sembra quanto di più lontano possibile dall’atmosfera che – stando al ritratto datone da Castiglione – si respirava nelle sale del Palazzo Ducale di Urbino. Eppure, il palazzo stesso, tra le cui mura viene creato il perfetto cortigiano, non era immune da desideri di fuga da parte dei suoi abitanti.

Anzi, l’espressione di una simile volontà è consegnata ai posteri proprio dalle mura del palazzo. Su uno degli stipiti delle porte che conducono dal Tempietto delle Muse al piccolo balcone che guarda sulle colline del Montefeltro, è stato inciso un curioso componimento: Mi venne un dì pensier di gir lontano Per non vivere più tra tanti affanni La corte è mar di duol, nido d’inganni Ove stenti, e sospir, ma sempr’in vano Qui si hà per grand’onor un bona mano Stimansi per un nulla i propri danni S’adorano per dei anch’i tiranni E in mal’ora così ne vai pian piano.1 Possiamo ipotizzare che il testo sia stato scritto da uno dei tanti cortigiani che, negli anni, hanno animato con la loro presenza le sale del palazzo. Questo breve testo, nella sua incisiva malinconia, ci mostra l’altra faccia dello splendore del Rinascimento italiano. Anche dal sogno del Rinascimento, e dalla “città in forma di palazzo” che ne è stata la culla, si poteva desiderare di fuggire il più lontano possibile.

1.

Il testo e l’immagine del componimento sono tratti da Raffaella Sarti, La pietra racconta: Un palazzo da leggere, Urbino, Stibu, 2017, p.80. L’immagine dello stipite della porta è a cura dell’autrice.

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Paola Ugolini è Associate Professor at Italian Universiy at Buffalo, (SUNY) Impaginazione: UND/ gennaio 2022

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