Carlo Bo, il Palazzo Ducale — Parole e immagini nelle stanze a cura di Tiziana Mattioli

CARLO BO, IL PALAZZO DUCALE Parole e immagini nelle stanze

CARLO BO, IL PALAZZO DUCALE Parole e immagini nelle stanze A cura di Tiziana Mattioli

CARLO BO, IL PALAZZO DUCALE Parole e immagini nelle stanze Palazzo Passionei, Urbino 22 settembre - 22 dicembre 2020 Mostra promossa da UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI URBINO FONDAZIONE CARLO E MARISE BO per la letteratura europea moderna e contemporanea Progetto e cura della mostra Tiziana Mattioli Voce recitante e riduzione Massimo Raffaeli Fotografie Paolo Semprucci Allestimento Tiziana Mattioli Paolo Semprucci Stefania Tatò Donatello Trisolino Allestimenti digitali Donatello Trisolino Testo Carlo Bo Interventi Massimo Raffaeli Tiziana Mattioli Impaginazione catalogo UND Si ringraziano: Elena Baldoni, Anna Rita Berardi, Emanuela Braico, Paride Dominici, Tiziana Foglietta, Benilde Guerra, Ermindo Lanfrancotti, Emanuele Maffei, Tiziano Mancini, Fabio Marangoni, Marcella Peruzzi, Luca Polidori, Martina Polidori, Walter Raffaelli, Stefania Tatò, Donatello Trisolino.

Un ringraziamento particolare a Vilberto Stocchi, a Carlo Maria Ossola.

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Paolo Semprucci, Omaggi a Paolo Monti, 2019

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SOMMARIO

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Carlo Bo, Il Palazzo Ducale. Una visione aperta e libera

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Massimo Raffaeli Carlo Bo, una costellazione

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Tiziana Mattioli, Il sogno di incontrare Federico. Tre movimenti

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Paolo Semprucci Il Palazzo Ducale di Urbino. Una serie fotografica

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Notizia bibliografica

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Carlo Bo IL PALAZZO DUCALE. UNA VISIONE APERTA E LIBERA

Il Palazzo Ducale di Urbino può essere letto in diversi modi, intanto come monumento a se stante, secondo la famosa suggestione del Castiglione per cui racchiuderebbe, come in effetti riassume, una concezione, riflette un’idea che coinvolge tutta la vita, oppure come un punto di riferimento per ripercorrere le tappe di una piccola storia illustre dell’Italia rinascimentale. Tuttavia ci sembra che convenga sciogliere queste due suggestioni in un discorso unico, cercando di leggere più liberamente ciò che gli uomini hanno saputo aggiungere a un quadro naturale toccato da una grazia non comune, diciamo pure da una bellezza sottile e rara, mai comune o volgare. Ora se tentiamo di fare questa piccola operazione abusiva e la facciamo a ragion veduta, ci accorgiamo subito che nell’ambito della costruzione della città la storia non ha soltanto obbedito alla lezione dei fatti, ma ha saputo camminare per conto proprio e là dove mancavano le voci degli avvenimenti si è provveduto a inserire il regime dell’invenzione e della creazione.

In un primo tempo - saltiamo per evidenti motivi il periodo più lontano della storia - Urbino è vissuta in funzione della sua posizione geografica; non lontana dal mare, situata in una posizione che consentiva la difesa, insomma aveva tutto per diventare, come è diventata nel corso degli anni, una piccola piazzaforte: ce lo testimonia la Fortezza dell’Albornoz, la rocca fatta costruire dal cardinale legato Anglico Grimoard (1367-1371) e che è l’immagine tuttora attiva di una concezione della vita fondata sull’idea della forza e della potenza militare. Chi vi si porti, ha davanti uno spettacolo indimenticabile, ha con un solo gesto del cuore la figura ideale di quello che sarebbe diventata à jamais Urbino: il Palazzo Ducale con il Duomo e, raccolta sotto quella massa imponente, una Urbino più domestica, familiare, insomma quello che è stato aggiunto nel tempo ai piedi del monumento fino a toccare il Mercatale, le radici stesse del palazzo.

Da una parte dunque Urbino com’è stata fino ai primi anni del Quattrocento e dall’altra l’Urbino così com’è stata ideata dal duca Federico e dai suoi mirabili artisti. Da una parte l’idea di una vita intesa come esercizio di offesa e di difesa, dall’altra se non proprio un’idea contraria, un’idea più completa che cioè aggiunge al lavoro delle mani quello dell’intelligenza, al lavoro la meditazione del lavoro. Come si vede, nell’ambito stretto segnato da due colli contrapposti Urbino presenta un avvenimento eccezionale, il passaggio da una civiltà all’altra, la sostituzione dell’idea di potere con quella della conoscenza. E tanto è chiusa e cupa la visione della rocca dell’Albornoz, tanto è aperta e libera e quasi gioiosa quella del Palazzo Ducale che trova nella stupenda invenzione dei torricini il segno della grazia, di ciò che si può creare dal nulla. La rocca esprime un’esistenza che si affida alla protezione, un tipo di vita che tende a rinchiudersi in se stessa e rifiuta di dare, il palazzo è aperto a tutti, ha più di una porta, anzi spesso ripete questo concetto con altre porte finte, con ampie finestre, con terrazze, con giardini.

In un secolo i Montefeltro, che peraltro erano uomini di armi e di affari,

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hanno modificato non soltanto una concezione di vita, ma hanno saputo dare al paesaggio una diversa ragione e un’altra funzione. Fino a quando i Montefeltro non decidono di costruirsi una dimora degna dei loro sogni e delle loro ambizioni, col progetto di allargare la loro prima casa (il palazzetto del Conte Antonio, poi Bonaventura e oggi sede centrale dell’Università, ma dell’antico edificio rimane soltanto il portale medievale) trasformando le casette che si trovano dove ora c’è il lato orientale del palazzo (e di alcune è visibile la traccia originaria), Urbino resta iscritta sul libro della guerra mentre in seguito, quando la macchina nuova potrà cominciare a funzionare, la guerra resta soltanto come strumento, come mezzo. La ricchezza del Duca, creata fornendo ai signori del tempo dei minuscoli eserciti di pronto intervento, verrà adoperata e sfruttata prima di tutto per costruire il palazzo e poi per adornarlo di tutto ciò che poteva esaltare la bellezza e la forza dell’intelligenza.

Si sono date del duca Federico molte interpretazioni; c’è chi ha sostenuto che tutta questa stupenda macchina altro non fosse che il segno di un’ambizione eccezionale, il simbolo primo della mania di grandezza (si veda che cosa ne dice Pasquale Rotondi che è un po’ l’Omero di questa invenzione del Duca e i cui due grossi volumi dedicati al Palazzo Ducale nel 1950 restano a tutt’oggi il grande libro di Urbino) o addirittura della mancanza di senso delle proporzioni: il Duca si sarebbe convinto, con questa costante esaltazione del suo casato e di se stesso, di poter stare alla pari con i grandi dell’antichità che, obbedendo anche allo spirito del suo tempo, aveva voluto riportare dentro le mura della sua casa. E forse è stato proprio così, ma anche in questo caso direi che la vittoria è soltanto sua e questo perché grazie a questo suo “veder grande”, a questa sua idea di sollecitare un concilio degli ingegni del mondo, ci ha lasciato qualcosa di molto più importante ed essenziale che va molto al di là delle piccole ambizioni e delle personali illusioni. L’idea nel momento stesso in cui prendeva corpo metteva da parte il registro dei propositi, esaltando i risultati che erano poi le opere d’arte. In altre parole, il commitente ha dei meriti eccezionali, che la sua ambizione non ha potuto annullare o ridurre. Può darsi - ma non è plausibile - che il duca Federico credesse di tramandare soltanto le glorie delle sue imprese, ma anche così ha scelto il solo modo per ricavare, all’ombra di quel monumento, una nicchia che gli resterà dedicata per sempre. È, questo, un tema estremamente suggestivo e di cui Federico è soltanto un esempio ma che resta alla base di ogni indagine sull’avventura artistica. Anche perché il chiamare intorno a sé o accettare che i suoi consulenti chiamassero gli artisti di cui più si fidavano è un indice della bontà della sua ispirazione e della forza della sua idea e - vale la pena di ricordarlo - il punto capitale della sua idea va rintracciato nel proposito di sostituire all’immagine della guerra, quella della pace, al rumore della violenza la musica dolce della poesia.

Le armi nuove che il Duca inventa e accoglie nel suo palazzo sono quadri, sono soprattutto libri, sono ornamenti, sono piante, alberi, fiori e il posto d’onore viene riservato alla dottrina letteraria e filosofica mentre faceva sedere al suo tavolo ospiti illustri chiamati senza discriminazione alcuna, senza pregiudizi. Non a caso il Castiglione ambienta il suo nuovo manuale di civiltà nel Palazzo Ducale di Urbino e in tal modo consacra per sempre la prima intenzione di Federico che era proprio quella di vivere secondo lo spirito, col sangue dell’intelligenza, fino a essere disposto a

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rinunciare all’espressione della forza diretta, allo sfruttamento della potenza a tutto favore della libertà. Anche se non è stato cosciente perfettamente e fino in fondo, resta il fatto che da questo punto di vista resta un precursore, ha anticipato una visione della vita quale purtroppo non è stata mai soddisfatta a pieno epperò conserva la forma dell’utopia. Si dirà che tale idea gli si è trasformata in mano, quasi come è avvenuto nel corso dei vari interventi, specialmente quelli del Laurana e di Francesco di Giorgio Martini. In effetti il palazzo così com’è è assai diverso dai primi progetti e dalle sue prime sistemazioni. Si potrebbe anzi dire - ora a cose fatte - che è il frutto di una contrapposizione determinata dalla natura del terreno.

Nato come desiderio di dare al palazzetto del conte Antonio un seguito, uno sbocco più glorioso, il palazzo invade e ingloba quello che in origine era il Palazzetto della Jole e quindi sembra doversi disporre soltanto lungo la linea orientale del terreno, in quella che è oggi la parte che dà sulla piazza del Rinascimento; e qui siamo ancora nella norma, in un quadro tradizionale dove più che da inventare c’era da sistemare e da adattare.

Tutto diverso per l’altra parte che dà sulla strada di Urbania e non offriva nessun appiglio per la costruzione, il terreno essendo più che scosceso.

Si direbbe che le difficoltà abbiano ravvivato e acceso l’ingegno del costruttore e questi in qualche modo ha costruito sul fondo, rovesciando in tal modo quanto era stato fatto nell’altra parte a oriente dove in qualche modo la strada era già segnata e si trattava di adattarla e correggerla. Anche in questo è possibile avvertire uno scarto in avanti nel senso dell’invenzione e della libertà: una cosa è lavorare secondo dei modelli, una cosa è seguire le indicazioni, una cosa del tutto diversa è progettare superando le difficoltà del terreno e dell’ambiente. Qui si trattava di superare degli ostacoli che per la loro natura sembravano invincibili e l’architetto ha risolto il problema allacciando in qualche modo l’aria alla terra, ciò che stava sospeso a ciò che era radicato. Di qui l’idea di gettare delle fondamenta fino in fondo alla valle, di costruire il Mercatale che avrebbe soddisfatto due esigenze, tenere il rapporto tra fondamenta e costruzione e consentire il piacere della vista, rovesciando anche qui le convenzioni: non più soltanto la vista dall’alto ma anche e soprattutto la vista dal basso. Sono cose che sa benissimo chi ha soltanto per pochi momenti sostato al Mercatale o il viaggiatore che arriva a Urbino da Urbania: è un piccolo miracolo che i due torricini rendono ancor più ricco di grazia e di eleganza.

Ma vale la pena di insistere ancora sui risultati d’ordine intellettuale: al tempo dell’Albornoz l’artista era condizionato, legato dalle ragioni del territorio in quanto il costruttore rispettava le misure e le strutture stesse dell’insediamento. Dopo, al tempo della fabbrica del Duca, la natura diventa una sfida e l’artista si sente provocato, da puro esecutore o correttore della natura diventa a sua volta un creatore e questo del costruire sul vuoto e contro il vuoto mi sembra un segno alto di tale ambizione. Costruire secondo certe disposizioni prestabilite dalla natura significa obbedire, al massimo giuocare per inserimenti e l’ala orientale è lo specchio fedele di tale condizione, per cui il palazzo è una casa funzionale, fedele alla legge della tradizione. Costruire inventando il terreno su cui dovrà sorgere il palazzo vuol dire sommare in un’unica voce le due condizioni. Si pensi infatti a quelle che avrebbero potuto essere le soluzioni alternative, scegliere un altro luogo o limitarsi a delle opere di pura ingegneria; no, per il Palazzo

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Ducale è stato immaginato qualcosa di molto più coraggioso epperò si è saldato insieme l’idea della terra e l’idea del palazzo. Così prima si è dovuto provvedere a cercare, e molto lontano, in profondità la terra su cui piantare l’albero della fabbrica e poi, memori di quest’origine, si è proceduto a mantenere nella costruzione un rapporto aereo, una disposizione tutta aperta, in modo da non fare qualcosa in contrasto col paesaggio ma qualcosa che fosse più complementare, essenziale al paesaggio. Se prima si chiudeva fuori delle mura il paesaggio, l’inventore della seconda facciata ha fatto della propria opera uno scenario, pronto per essere aggiunto al lavoro eterno della natura. Tutto questo però senza cadere nell’insidia del semplice ornamento, nel trabocchetto della riduzione o dell’adattamento, il giuoco dei volumi architettonici seguendo qui un ordine diverso d’invenzione.

Forse sarebbe stato più naturale, in obbedienza agli schemi tradizionali, costruire per esprimere un’idea di forza, per offrire al viaggiatore la carta del nuovo ducato; si è obbedito invece a un altro criterio, imprimendo all’edificio un moto di varietà e di libera allegria per cui la solennità è sostituita dal piacere della contemplazione e dal sentimento del gusto. Tutto il palazzo segue questo rapporto multiplo di effetti e di convergenze: chi lo osservi con un po’ d’attenzione vedrà come si susseguono diversi stati d’animo, con quale eleganza si sia proceduto a offrire al visitatore una naturale suggestione dei tempi, dei diversi momenti. Si passa dalla norma dell’ala orientale e poi di colpo si sbocca nella piazza centrale con un quasi totale rovesciamento di ordini vitali. Si ha l’impressione di passare dalla solitudine alla città, dalla natura appena corretta all’abbandono della natura in favore della città, della casa abitata. Il passaggio dal palazzetto del conte Antonio all’angolo della Sala della Jole avviene senza squilibri né contraccolpi, si sente che c’è stato un progresso e che alla concezione chiusa dell’originario palazzo è stata sostituita una concezione di diverse proporzioni ma uguale per natura: alla nuova potenza della famiglia dei Montefeltro bisognava offrire una sede più degna o soltanto più grande.

Girando l’angolo sul lato orientale ed entrando nella piazza centrale è ben diverso il cambiamento: qui cambia tutto, intanto non c’è più una separazione così netta fra il suddito del Duca e il padrone del palazzo, epperò si entra in un clima di uguaglianza, per cui chi sta dentro ha bisogno di quelli che stanno fuori e allo stesso modo chi sta fuori sente che d’ora in poi sarà visto dal padrone. Nello stesso tempo la piazza esige il rapporto e l’idea dello spettacolo, aprendo la grande porta che dà sul Cortile d’onore si è stabilito una corrente di sentimenti e di idee, legata alla luce e alla voce della bellezza, ma non basta. I due termini: piazza e cortile non esprimono più una contraddizione, tanto meno un ben congegnato rapporto di poteri.

Si è abbattuto qualcosa che aveva avuto un peso molto chiaro nello spirito del vecchio conte Antonio. Nel suo palazzetto sarebbe stato molto arduo gettare uno sguardo, né la porta stretta avrebbe permesso scambi che non fossero stabiliti. Con l’innovazione della piazza e del cortile c’è uno scarto considerevole fra le diverse misure: il c onte Antonio stava al termine di una salita stretta, stava fra delle case, con il duca Federico la piazza diventa un cortile pubblico, è un ingresso aperto, solenne, maestoso ma che tende più alla dignità di tutti gli uomini che non a quella del singolo che ora per difenderla si appoggia all’idea di cultura. È la civiltà dello scambio, se si vuole di un teatro maggiore, più civile, insomma della comunicazione.

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Possiamo ancora una volta riconoscere secondo le suggestioni dei suoi detrattori che il Duca si muovesse senza questa intenzione e che quindi la sua idea di comunicazione faccia parte delle nostre considerazioni attuali, tuttavia così come si esprime il palazzo nelle sue parti più nuove non è più la casa della separazione e della divisione: per vivere ha bisogno della libertà o soltanto di un minimo di parità nella dignità.

Prima c’era una frattura fra il segreto del privato e le attese e le aspirazioni del popolo, della gente comune. Con l’istituzione della piazza nell’Urbino del Duca si assiste a una forma nuova di ammissione, di ricevimento o soltanto di ampliamento del concetto di dignità. L’ingresso, il cortile costituiscono il secondo momento di questa investitura degli anonimi, di quanti non avevano altro titolo da presentare che quello di appartenere a una famiglia, a un tipo di umanità che poneva il dato della bellezza a criterio primo di distinzione. La gente era chiamata a compiti diversi, non entrava per chiedere o per essere ammessa alla presenza del principe, era piuttosto un invitato che con il pretesto di prendere conoscenza della munificenza del Duca si trovava confuso in un altro giuoco. Per il fatto di essere un fruitore, un presunto consumatore di quegli oggetti e dell’intero spettacolo sentiva, sia pure in maniera confusa, che l’offerta si trasformava in atto di comunicazione e che in questo atto l’invitato godeva degli stessi diritti dell’ospite.

Quando c’è di mezzo l’arte, fatalmente si spostano i termini del problema e scompare ogni misura, ogni forma di distinzione: se a parlare è per esempio Piero della Francesca è lui che conduce la danza, diventando tramite di una trasformazione che annulla ogni distanza tra committente e spettatore. Di questi miracoli se ne sono consumati molti dentro le mura del Palazzo Ducale di Urbino, così come molti sono stati gli attori che, chiamati a fare una parte, a recitare la loro parte, hanno fatto sì che la grande aspirazione al concilio vagheggiata dal Duca diventasse realtà. Anche se attraverso il tempo questo concilio è soltanto un nome, un ideale, anche se il palazzo ha subíto un numero infinito di sottrazioni e di distruzioni, tuttavia qualcosa vi è rimasto che va molto al di là di una semplice lettura di quello stupendo catalogo.

Il tempo, nonostante il suo lavoro di sottrazione e di distruzione, non è finora riuscito a sancire questo discorso negativo, al contrario ci appare come un filtro altrettanto positivo dell’idea. Il tempo ci restituisce questa idea allo stato puro, quasi che per un ulteriore intervento miracoloso lo spettacolo continuasse oltre le barriere della morte. Pur essendo usciti di scena - ormai da secoli - i grandi personaggi della resurrezione umanistica, pur essendo stati staccati dalle pareti i quadri, tolte le suppellettili, portati via i libri e i mobili, chi si aggira per le sale del palazzo sente che la cosa più importante di quella invenzione non è andata perduta e magari proprio grazie a questa clamorosa privazione riusciamo meglio a cogliere il senso profondo di quel lontano progetto in esaltazione dell’uomo. Il disegno architettonico acquista anch’esso qualcosa da questa fuga o meglio da questo trafugamento e chi è chiamato a fare la parte dello spettatore si trova in uno stato particolare che potremmo chiamare di grazia. Egli infatti può inventare a sua volta, immaginare come dovesse essere il palazzo nel tempo del suo splendore e prima ancora quando era soltanto un’officina. Può risentire i discorsi dei protagonisti, il commento del coro, insomma tentare un’operazione che altri monumenti più celebrati non sono

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disposti a consentire e qui tocchiamo uno dei grandi pregi di questo raro documento dell’attività umana: la sua semplicità, il suo carattere spontaneo ottenuto grazie al contributo complesso quale è stato registrato dagli innumerevoli arrivi, passaggi, dimore e partenze di artisti e di letterati. Insomma chi passi per quelle sale non è mai colpito dalla solennità, al contrario avverte una partecipazione immediata e sente il palazzo come una casa: è questa mirabile fusione di motivi alti, altissimi e di ragioni più che semplici, quotidiane.

Il Duca, che era spinto dal bisogno di gloria, dalla speranza di rendere immortale il suo nome fra quelli degli altri immortali della storia del pensiero, apparentemente perde la sua battaglia, sconfitto dal peso del tempo, mentre in effetti proprio per questa purezza della sua casa resta al centro della sua idea prima e appare impossibile dissociarlo, separarlo da ciò che, nonostante tutto, ha fatto.

Anche se in qualche modo preannunciato, lo spettacolo del Cortile d’onore è straordinario, di colpo il visitatore si sente trasportato in un altro mondo, il suo occhio è colpito dalla “riuscita” della composizione. Un senso di pacificazione segue il primo tempo dedicato all’ammirazione e al compiacimento e consente poi un ulteriore passaggio a una sensazione di sottile esaltazione, come avviene tutte le volte che la parola dell’intelligenza ci soddisfa a pieno e non mostra segni di stanchezza o lascia vuoti.

Tutto ciò viene accresciuto se si passa a esaminare il rapporto dei tempi che è così ben leggibile nel quadro dell’esecuzione, non soltanto il piacere della vista è soddisfatto e lo spettatore deve registrare tutta una catena di reazioni per cui alla fine è la figura dell’uomo che viene modificata, anzi trasformata. L’uomo che respira e si aggira in questo cortile ha per una grazia particolare dimenticato la parte buia del suo passato, ha purificato la sua storia, è insomma un altro teatro umano che respira dentro quello stupendo recinto dove la bellezza è ottenuta con pochissimi elementi, soprattutto con la grazia della composizione e degli equilibri geometrici. Ma c’è ancora qualcosa di più che non dobbiamo tacere: non solo gli uomini acquistano da tale visione un diverso criterio di vita, la stessa aria che vi si respira sembra sia stata toccata dalla stessa grazia di depurazione. C’è un’aria che sembra anch’essa il frutto di una speculazione artistica: specialmente nei periodi più vivi delle stagioni - il grande freddo dell’inverno o il caldo soffocante dell’estate - chi vi entri avverte un contrasto nettissimo tra il fuori e il dentro e può divertirsi a studiare le correnti, la diversità degli aliti e dei soffi. Tutto insomma contribuisce a spogliare il visitatore dei suoi “abiti” normali per prepararlo a entrare nel palazzo.

Vi si accede attraverso lo scalone che ripete il dato della grazia, della leggerezza e dispensa chi lo sale da ogni fatica. Non si commette alcun abuso aggiungendo che dopo il cortile del Laurana lo scalone sembra voler ribadire quel senso di agio che è la prima caratteristica di tutto il palazzo, il segno dell’arte del Laurana. Lo ritroviamo in maniera più aperta nel Salone del trono che è un po’ il “pezzo forte”, di maggior respiro dell’artista per la sapienza della disposizione, dell’uso degli spazi. E qui va registrata un’ulteriore correzione del posto assegnato all’uomo, il salone riallacciandosi alle misure della piazza e all’ordine composto del cortile. Quell’uomo immaginario che la storia introduce nel palazzo in un primo tempo è toccato dalla grazia, dall’eleganza, in una parola dalla poesia ma quando viene introdotto nel salone sente che c’è una sostituzione, una modificazione

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nel suo ruolo. Molto probabilmente tale sensazione è più avvertibile oggi che il salone è vuoto, tuttavia non poteva non esserci nel cuore degli invitati del Duca. L’uomo, cioè, non è più solo, è un uomo confuso nella folla e in qualche modo in stato di soggezione non tanto verso gli altri, i dignitari, i familiari del Duca quanto verso il monumento. Ancora una volta nel giuoco delle idee - gli inventori del palazzo, qui il Laurana - si sente che si è obbedito a una concezione molto ricca e varia dell’uomo e delle sue funzioni.

Per una sorta di interruzione miracolosa di quell’uomo consegnato al piacere, alla contemplazione, ora viene data un’altra visione: non più l’uomo appagato, sicuro dei propri limiti ma un uomo smarrito o che per lo meno deve affrontare il problema del vuoto, del grande, spostandosi da una posizione di dominio e di controllo a una posizione di sgomento e di stupore. In qualsiasi modo si voglia conoscere questo palazzo non si può evitare di registrare questi continui mutamenti, questa perenne soluzione di interventi. Dall’esaltazione alla meditazione, dalla gioia allo stupore, una sorta di introduzione filosofica a quello che sarà il vero mondo del Duca, alla casa delle sue fantasie. Si entra infatti nella Sala delle veglie (le veglie inventate da Elisabetta Gonzaga e cantate dal Castiglione ne Il cortegiano) e nuovamente il nostro occhio è chiamato ad arricchire il catalogo, grazie all’accento di Francesco di Simone Ferrucci e del Barocci. Poi si continua lungo la linea adottata del rapporto fra vita e intelligenza, più precisamente secondo la divisione dei due appartamenti, quelli del Duca e della Duchessa. Una divisione che non significa affatto separazione o contrasto ma tende piuttosto a distinguere i due grandi momenti della vita in comune: da una parte la vita con le sue necessità, i suoi bisogni e dall’altra la meditazione sulla vita. Oppure da un lato la vita nel suo quotidiano e dall’altro la vita per ciò che ha di eterno o di solubile nell’eterno.

Si tenga presente che la sostanza della cosa costruita non muta, mutano soltanto gli indirizzi mentre il concetto della bellezza rimane immutato.

Direi che qui sta la divisione maggiore; su una base comune di bellezza da una parte ci si muove per l’esaltazione e il piacere, dall’altra si vuole imprimere un senso più alto, ricavare dal conforto e dal piacere una lezione, una serie di ammonimenti, anche se ridotti come nel caso delle dediche agli eroi del passato.

Ma ci sono altre coincidenze che vanno lette alla luce della religione del tempo e della sua grande libertà di movimento per cui mondo pagano e mondo cristiano costituivano un solo motivo. Di qui l’inclusione di stanze dedicate alla preghiera nell’appartamento della duchessa e la concomitanza in quello del Duca della Cappella del perdono e del Tempietto delle Muse. Tale concomitanza deve essere raffrontata o esaminata alla luce della grandezza del salone e così si capisce come nella convenzione degli artisti e forse secondo l’ispirazione del Duca studio e preghiera dovessero avere la stessa regola, obbedire al segreto, all’attenzione e al rifiuto della distrazione. Ora se leggiamo questi diversi passaggi vediamo che per arrivare allo Studiolo di Federico si passava per diversi gradi: c’era nel cortile il momento della purificazione e della vestizione, veniva quello dell’introduzione al dominio, al regno del pubblico e poi attraverso gli appartamenti privati si arrivava al dominio più privato dell’anima: una vera edificazione legata alle diverse ragioni dell’esistenza. Se si accetta questo tipo di individuazione, è chiaro che bisogna allargare e modificare la nozione di Umanesimo.

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L’Umanesimo è il primo o il più recente tentativo di rendere per intero la dignità all’uomo e questo dato è accertabile anche nell’aria del palazzo ma con qualcosa in più e questo qualcosa è fornito dalla tensione costante tenuta nei riguardi dello spirito, non diremo dello spirito. A Urbino c’è stata questa crescita, questo aumento di capitale senza per questo rinunciare a nulla ma sommando il capitale cristiano con quello riscoperto del mondo antico. Il perfetto cortegiano del Castiglione non poteva che abitare in queste stanze, esemplare anche lui della stessa famiglia per cui tutto doveva servire e essere impiegato per l’ornamento dello spirito. Inutile o superfluo aggiungere che tale impasto di sacro e profano era in maniera mirabile adoperato e sfruttato dagli artisti in un giuoco di travestimenti e mascheramenti che riproduceva molto bene questa intenzione. È sul dato della convergenza e delle soluzioni unitarie che va interpretato l’Umanesimo di Urbino e non su quello delle contrapposizioni o addirittura delle opposizioni. Quel cortegiano non era disposto a tralasciare nulla, a scartare, ma la sua educazione lo portava invece a saldare, a fondere, ad amalgamare, a trovare rinvii e agganci fra un mondo che la cultura aveva riscoperto e un altro mondo che con il tempo si era andato corrompendo. È il mondo dell’Antichità che rinsangua quello cristiano e non già come si crede è stato il cristianesimo a essere inquinato e alla fine trasformato.

Nelle iscrizioni (per esempio, si pensi alla Cappella del perdono) il suono può apparire in un primo tempo insolito ed estraneo ma se si cerca di vedere meglio si vede che la stessa parola del Vangelo resiste anche in quel mondo e la ragione umanistica fondata sulla virtù non è un ostacolo, è invece una forma introduttiva, quasi che si volesse ripetere le primissime vicende del cristianesimo, nemico e insieme erede dell’antica visione.

«Nulla che non sia puro», appropriamoci a questo punto di un altro memento delle iscrizioni perché a nostro giudizio riassume molto bene quello che è il senso, il significato dell’intero monumento o meglio dell’idea che lo sostiene. Quasi che allora, in Urbino, fosse arrivato questo desiderio del mondo nuovo e si trattasse di appagarlo e soddisfarlo. Se potessimo servirci di un’immagine, diremmo che Urbino è stata il filtro miracoloso delle maggiori aspirazioni del tempo, bisognava stabilire un ordine, dare un corpo a quelle ambizioni, ed è quello che è stato fatto, ma il vero miracolo non sta soltanto qui, la cosa veramente importante è che per tale operazione ci si sia affidati esclusivamente allo strumento dell’arte, convinti che soltanto attraverso una serie di risultati puri fosse poi possibile dare giusta sistemazione all’idea capitale dell’uomo. Che è poi un altro passo avanti rispetto al mondo da cui è uscita la Urbino del Medioevo, tanto per intenderci l’Urbino della Fortezza dell’Albornoz. Naturalmente non è un passo casuale o imprevedibile, è il frutto di un travaglio che è durato molti anni e di cui Urbino aveva risentito e questo perché non aveva gli strumenti né per contenerlo né - tanto meno - per correggerlo. È, dunque, piuttosto un’aria di ritorno che ha avuto il merito di accogliere e di lasciare depositare e maturare. Se si ossevano i tempi, si intuisce meglio quale sia stata la sua “parte”; intanto va premesso che se il miracolo è stato possibile è perché lo consentivano il luogo solitario, quella vita separata che è stata sempre la grazia e la pena di Urbino. Come se a dirigere lo spettacolo ci sia stato qualcuno al di sopra delle parti, uno spirito pronto a cogliere quello che il mare della vita depositava ai piedi delle sue colline e su quel mare in tempesta fosse possibile distinguere le navi più robuste, quelle che of-

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frivano le maggiori garanzie di durare. È stato lo stesso per l’idea di Umanesimo, un movimento che arriva in ritardo ma già depurato, con ancora intatte le sue migliori aspirazioni, in modo da trarne la parte vitale, meno corrotta e meno fragile. Conta lo spirito con cui è stato accettato e quindi fatto proprio e soprattutto la cautela, la prudenza con cui gli sono state aperte le porte. Al di sopra dei contrasti, fuori delle polemiche, sempre nel tentativo di un compromesso, di una saldatura fra il passato e il presente, fra diverse concezioni di civiltà. Una volta stabilito il criterio della massima dignità artistica, si poteva stare sicuri che non ci sarebbero state esclusioni o peggio ancora infatuazioni e di conseguenza delle esclusioni.

Lo stesso passaggio dal Laurana a Francesco di Giorgio riprende e rispetta questo criterio di continuità nella diversità: per un certo numero di anni si è verificata una sostituzione senza traumi, senza sconfessioni, sicché alla luce della storia il palazzo ha mantenuto la sua unità dopo aver vinto la prima battaglia contro la natura e poi avendo saputo conciliare gusti e intenzioni di diversa natura.

Così come l’idea originaria ha guidato la mente degli ordinatori, allo stesso modo il criterio assoluto dell’arte ha avuto il consenso dei vari artisti che si sono succeduti sulla scena della costruzione. Gli studiosi hanno per conto loro misurato volta per volta questi interventi ma alla fine hanno dovuto ammettere che l’idea centrale è stata sempre rispettata e la grande macchina architettonica ha un’unica ispirazione. Che è poi l’impressione dell’osservatore, del più semplice degli spettatori: presa nel suo insieme, la costruzione del palazzo si inserisce perfettamente nel paesaggio e ne costituisce più che un ornamento, un commento vivo.

Il palazzo ha una funzione indicativa, di carattere generale epperò non costituisce una variazione, tanto meno un moto di violenza o di interruzione rispetto al paesaggio, al contrario lo continua, lo spiega. Soprattuto per chi lo guardi venendo da Urbania si presenta come un fregio della collina; soltanto quando se ne studia la struttura e lo si vede come un ponte fra il fondo del baratro e la cima della collina si capisce esattamente fino a che punto si sia saputo operare nel senso dell’innesto, della compenetrazione. È qualcosa che corrisponde alla prima e più alta ambizione di Federico, consentire all’uomo la sua esaltazione nel rispetto della natura. È una magia di equilibri che trova nel segreto dello Studiolo la sua espressione più alta. Anche qui è nuovamente l’uomo chiamato a officiare, a diventare il sacerdote della religione umanistica, il maestro del pensiero e in effetti lo Studiolo è il monumento più appropriato al lettore, all’eterno lettore che sta alla base di ogni concezione morale. È il lettore che accetta di essere guidato, anzi chiede il sussidio delle immagini, dei grandi esempi, di qui il dialogo che si allarga, non soltanto fra il lettore e il libro ma di questi due termini con quello del passato, della storia. Se però si tiene presente, come del resto si deve, il significato dell’unica finestra che illumina lo studio, allora conviene chiamare a colloquio anche il paesaggio, il dato e la voce della natura.

Un’altra volta troviamo questa saldatura fra l’opera di Dio e le opere dell’uomo, fra ciò che possiamo fare e ciò che è stato fatto e non c’è dubbio che con questi diversi elementi la stessa nozione di storia acquista un altro spicco e la stanza si giova di un’altra dimensione. Intanto molto vuol dire la distesa, l’ampiezza del paesaggio, il limite lontano delle montagne e quindi la sproporzione che si viene a creare fra la misura dello Studiolo e

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la libertà dei grandi orizzonti. Non conta indovinare quali potessero essere le reazioni dei primi padroni o amici dei padroni del palazzo, l’offerta è valida ancora oggi e non penso che vi possa essere un visitatore indisponibile a questi rapporti tra costruzione e paesaggio, fra l’idea di meditazione e di ricerca e quella dello spettacolo naturale. Superfluo notare che non c’è contrasto fra il dentro e il fuori, lo spettacolo naturale non annulla né vanifica il significato dello studio, al massimo può servire da freno, da correttivo e da monito.

Se conserviamo a Urbino il suo antico ruolo di arbitro, meglio di discernitore e di scrutatore, ecco che lo spettacolo offertoci diventa ulteriore segno del concilio degli spiriti. Quanta storia - sia pure di risacca - è passata sotto i torricini, quanto rumore di parole, di speranze e di promesse in cinquecento anni della sua vita ma il rapporto fra filosofia e natura, fra storia e meditazione della storia è intatto, non lo abbiamo saputo risolvere. E qui tocchiamo la grande illusione del Duca e degli innumerevoli spiriti che lungo i secoli hanno creduto di poter vincere la natura con i suoi errori e le sue improvvise catastrofi. Chiunque sogni di poter fermare la corsa della vita al limite eterno della bellezza è perdente in partenza eppure la ragione stessa dell’arte non muta, non accetta smentite, se non quelle che vengono dalla morte. La grande meditazione che lo Studiolo ci consente, o meglio ci impone, è proprio questa meditazione sui grandi destini, sulla frattura che fatalmente si verifica fra le attese e i risultati, nell’ambito della scommessa che gli uomini più degni fanno con il loro Dio. È vero che per un uomo d’azione qual è stato Federico già l’idea dello studio, della meditazione filosofica significa un atto di coscienza, un attribuire maggiore dignità alle cose che meno sono sottoposte all’usura del tempo e al disordine degli uomini.

Da questo punto di vista la lezione dell’Umanesimo è stata accettata da Federico nella sola maniera giusta. Il suo è stato un puntare contro il tempo in due direzioni: la prima immediata intesa come un riscatto della violenza e del tempo passato al servizio del potere, la seconda assai più ambiziosa nel senso di lasciare una testimonianza eterna della sua intelligenza. E se per la prima scelta ha conosciuto la vittoria, per la seconda è stato vittima di una legge eterna e insuperabile. Come il suo potere e quello della sua famiglia sono stati brevi, allo stesso modo il tempo dello splendore non è durato di più: quel patrimonio venne a poco a poco dissolto, smembrato e il palazzo è diventato una spoglia, un simbolo epperò i suoi tesori sono stati dispersi in cento musei del mondo. È così che Urbino morendo ha rafforzato e illustrato il suo mondo mentre il palazzo continuava il cammino della sua lunga decadenza, durata fino al 1912 quando fu deciso di consegnarlo alla Soprintendenza alle Belle Arti e di farne la Galleria Nazionale delle Marche.

Ne è derivata quindi la nuova condizione di museo, ma va subito detto che con questo non è stata modificata l’essenza stessa del monumento.

Quel poco che vi è stato riportato e il mondo che vi è stato aggiunto hanno la funzione di richiamo, di indicazione dell’atmosfera culturale che meglio spetta al palazzo. In tal modo si sovrappongono e si intrecciano due destini che nello stesso tempo sono indipendenti e complementari o, forse, sarebbe meglio dire che coesistono due immagini diverse in una rete di sovrapposizioni, in un appassionato rimando di echi. Si capisce anche che l’attuale condizione obbedisce in primo luogo al criterio della ricapi-

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tolazione critica e indica anche quella che è stata l’evoluzione del giudizio estetico lungo un arco molto aperto di secoli.

Alla fine il visitatore si accorge di avere fatto una duplice esperienza: credendo di entrare in un museo, vi ha trovato anche una casa e più ancora la realizzazione di una concezione privilegiata della vita. Lo ripetiamo, se gli ideatori di questa dimora potevano appagarsi della dimostrazione offerta della propria forza, non potevano immaginare che avrebbero conseguito nel grande futuro un risultato ben maggiore. Il tempo ha cancellato, ha distrutto, non ha lasciato definire in tutti i suoi temi il progetto ma non è riuscito fino ad oggi a cancellare i segni di una civiltà che qui ha trovato la sua consacrazione. In altri termini, l’idea sembra voler sopravvivere all’applicazione e in effetti la ritroviamo intatta ogni volta che, lasciata la piazza, ci avviamo verso la prima casa dei Montefeltro e costeggiamo in un solo moto dell’animo il documento, la traccia originaria del Palazzo Ducale. Se poi continuamo e scendiamo verso il Mercatale lo spettacolo si rinnova, trova altre luci e ancora una volta si deve ammirare il genio dei costruttori che non solo non hanno tradito il primo disegno ma lo hanno ampliato nell’ordine della bellezza e dell’ardimento.

Nei suoi cinquecent’anni di vita il Palazzo Ducale di Urbino ha conosciuto la luce dell’invenzione, lo studio dell’applicazione e poi il trionfo e infine la degradazione (tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento ha funzionato come carcere, come deposito del sale, ecc.): è lo specchio diretto della vita umana ma con qualche differenza, anche nei momenti della sua rovina non ha mai dismesso i segni della sua gloria intellettuale. Un simbolo per durare deve conoscere più il bene del male e se facciamo il bilancio della sua storia vediamo che fino ad oggi si è trattato di un bilancio toccato dalla grazia. Ripetere l’elenco dei suoi ospiti o dei suoi visitatori o dei suoi riscopritori (il Serra, il Venturi e soprattutto il Rotondi che nel 1950 ha fissato per sempre il tempo della grande restituzione) ci sembra inutile: il palazzo vanta una sua letteratura e qui basta il nome del Castiglione e naturalmente vanta una serie di artisti che può essere invidiata da molti. Infine quanti sono passati da Urbino magari per pochi giorni non l’hanno potuta dimenticare, ulteriore prova della connaturazione fra costruzione e paesaggio. Gli è mancato un ospite illustre, se è vero che per un momento il Leopardi aveva pensato di venire a insegnare all’Università, così come ha avuto un altro grande poeta muto di fronte alla sua bellezza, il Pascoli, se però non si vuole tenere conto dell’Aquilone e del ragazzo che ha di fronte Urbino. L’accenno del Pascoli non poteva non sottindere ciò che si vedeva dal monte dei Cappuccini: il sentimento attonito del poeta si addiceva benissimo al clima generale, al mondo di Urbino.

E qui sta un’altra chiave di lettura: in Urbino si sommano due tipi di bellezza, lo abbiamo già detto ma sarà bene non dimenticarlo. Sono anzi due creazioni, la prima che spetta di diritto alla dolce terra marchigiana, la seconda che è frutto di una speculazione combinata. È la gioia degli occhi prima ancora che la gioia dell’intelligenza. Basta vederlo una volta per sentire che il nostro cuore ha acquistato una dimensione maggiore epperò la storia con il suo corteo di vittorie e di sconfitte si annulla e scompare, non ha più voce. Resta anche purificato il nome stesso di Federico che, grazie a questa stupenda macchina, ha potuto evitare la polvere degli archivi dove si consuma la storia minore dell’Italia politica e tenere per l’eternità la luce dell’invenzione che ha voluto e contribuito a realizzare.

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Massimo Raffaeli CARLO BO, UNA COSTELLAZIONE

La prima cosa che colpisce il lettore dell’opera di Bo è una sua forma possibile, complessiva, ed è quella della costellazione, dove il centro è dappertutto ma i confini non sono visibili. Non solo perché Bo è stato un grandissimo, come oggi si dice, comparatista (un tempo non esisteva nemmeno la parola che accademicamente lo connotasse) ma perché, come è noto, ha a lungo tradotto e si è occupato, a partire da García Lorca, dei grandi lirici spagnoli della generazione del ’27, così come dei maggiori surrealisti, suoi coetanei per lo più. Infine si è occupato di letteratura italiana da compagno di via dei poeti e persino – la parola non offenda la memoria di un uomo così destituito di presunzione letteraria – da teorico dell’ermetismo: semplicemente, il suo sguardo sulla letteratura è da subito universalistico. Ma un altro fatto che colpisce il lettore di Bo è l’equilibrio miracoloso di una pagina che sembra essersi scritta da sola, la mancanza di ponderalità tipica di quello che noi diciamo, convenzionalmente, un classico. D’altronde nella stessa sua pagina c’è l'assenza vistosa, al primo impatto, di quanto dovrebbe essere la materia prima di un saggista, di un critico, cioè i dati minuti, si dica pure tecnici o circostanziali di un testo. Tuttavia, leggendo, ci accorgiamo che la filologia di Bo è una meta-filologia, una filologia tutta quanta metabolizzata che diviene, per usare una semplicissima formula, filologia spirituale o esistenziale: la quale dialoga con il testo senza mai prevaricarlo e, anzi, accogliendolo.

Lo spazio di quel testo, è la coscienza. · E in questo Bo, almeno in Italia, non ha nessuno alle sue spalle se non forse, pure tanto diverso da lui nella parabola, nel temperamento, nella formazione, Renato Serra, perché i suoi grandi riferimenti, fin dai primi studi, sono francesi, senz’altro Du Bos, un critico oggi quasi dimenticato purtroppo, e il grande Jacques Rivière, l’uomo della Nouvelle Revue Française, l’autore di un solo romanzo (forse il più grande romanzo dell’amore spirituale del Novecento, Aimée), e poi alcuni interlocutori e compagni di via, prima Albert Béguin e in seguito una figura davvero deuteragonistica, Jean Starobinski: quando Bo ha raccolto sotto il titolo più suo, Letteratura come vita, una crestomazia terminale del proprio lavoro, ha voluto appunto che Jean Starobinski lo introducesse. E forse non è

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proprio un caso che leggendo l’opera di Bo, approcciandola da qualsiasi luogo della sua sterminata bibliografia, possa venire in mente l’immagine della costellazione, con alcune stelle fisse e una miriade luminosa di satelliti, di astri lontani, forse di stelle collassate, e qui si pensi, non sempre adeguatamente rammentate, a certe sue pagine memoriali (perché Bo, come pochi altri nel Novecento italiano, è stato uno scrittore di amicizie). · In effetti, l’immagine della costellazione corrisponde a quello che potrebbe definirsi il suo etimo psicologico. Qui viene in mente la parola con cui gli antichi (Aristotele, in particolare) chiamano il sapiente ma anche, alla lettera, il capiente cioè colui che mostra una specifica capacità, oggi cosiddetta empatica, di entrare in contatto con l’altro e, potenzialmente, con l’universo mondo: “megalopsichia”, nell’Etica Nicomachea, la chiama Aristotele, un termine poi mediato dal latino che nell’antico italiano (Dante stesso parla di “Spiriti Magni”) è tradotto con “magnanimitade”. Ma la “magnanimitade” non è, o non è sempre o non è necessariamente ciò che noi scambiamo per generosità, viceversa essa è innanzitutto la grandezza, la capienza dell’animo. Tale è lo spirito universalistico di Bo che fa leva su un sito così splendido, così unico pur nella sua topografica modestia quale Urbino, per tradurlo in qualcosa che non ha confini e ormai rientra nel genoma della cultura umana. Bo è il primo testimone di una grandezza che muove da un luogo limitato e molto definito nello spazio-tempo e sa dedurne per verba, attraverso le parole, la natura universalistica e anzi universale tout court. Il maggiore scritto fra quelli da lui dedicati a Palazzo Ducale non solo dà a noi la suggestione che Bo possa o forse debba essere considerato l’ultimo Granduca, per la sua nativa magnanimità, per il suo sguardo lungimirante, per il suo rapporto con i classici e con l’autorità culturale dei classici, ma insieme testimonia del fatto che Bo sa leggere Urbino nel suo miracoloso equilibrio di storia e natura. Lì, come sciogliesse un geroglifico, coglie il frangente irripetibile in cui la bellezza della Natura, immobile per definizione, incontra ciò che invece è dinamico e sempre in movimento, la Storia: lì realizza una figura di senso, in effetti una massima figura dell’umano, che non ha più corpo spaziale né traccia temporale. Una figura che noi sentiamo infatti come la sua vera eredità.

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È lui ad aprire la porta, è lui a presiedere la grande accademia che vi si è tenuta, è lui a dimostrare che la vita ha senso soltanto se le si attribuisce dignità e forza spirituale. Sotto questo aspetto, la sua storia acquista un altro rilievo e non potrebbe altrimenti se grazie alla sua vocazione Urbino conserva intatta la sua memoria e la sua verità. Di solito una storia è il risultato di tanti sforzi di tante vicende, di infinite passioni, per lui l’intuizione è stata l’espressione di un momento priviligiato della creazione, è stata cioè un punto di riferimento. Non ci sarebbe Urbino - nonostante la grazia straordinaria del suo paesaggio - senza la sua memoria o almeno non sarebbe la stessa terra fertile dell’uomo, una delle terre più alte della nostra geografia interiore.

Tiziana Mattioli IL SOGNO DI INCONTRARE FEDERICO. TRE MOVIMENTI

Era un rito quotidiano, per Carlo Bo, percorrere un lato di Piazza Rinascimento dentro l’ombra incipiente del Palazzetto della Jole, netta sul limite dell’acciottolato. Un rito sacro, che lo portava a scendere dalla riservatezza del suo studiolo verso la pagina aperta e chiara di Piazza Duca Federico, entro geometrie propedeutiche alla socialità.

Nella traiettoria dell’irregolare diamante federiciano, ogni passo risuonava di ricordi. Quelli dell’abbandono in cui la casa del Duca era stata tenuta per secoli; quelli delle folte ombre che certamente si addensavano ancora sulla città quando nel 1938 Bo giunse in Urbino; quelli più orgogliosi e lievi nel pensare di aver restituito un popolo – un popolo di giovani intelligenze – a quella architettura in forma di città che davvero per secoli era stata espropriata di vita e di cultura, assopita come in un incredibile letargo.

Doveva essere nato subito in Bo il sogno di incontrare Federico in ciò che era rimasto intatto del suo spirito e del suo progetto: cose da riconsiderare nel presente, e da rivivere cambiati i termini del tempo e della storia. Sicché quelle geometrie del passeggiare erano trame contigue di racconto ai piedi del grande racconto federiciano. E il palazzo incantato sapeva sempre provocare le sue malie al vivo, e sostenere in specularità d’immagine l’algebra ardita dell’intreccio visibile di natura e cultura, anche in tempi ormai fortemente distratti e smemorati. Il palazzo, sopravvissuto all’abbandono e all’oblio, splendido sotto le splendide luci dei cieli e delle stagioni, garantiva insomma anche la nuova civiltà come civiltà di pace.

Raccontarlo, convocare presso di sé chi lo aveva immaginato e costruito, sentire quel discorso di pietre e mattoni sussurrare qualcosa di stanza in stanza, qualcosa di domestico e familiare, di accogliente e amico; raccontare la sua sfida edificatoria contro il baratro del vuoto reale e immaginario; respirare col suo mantice la perfetta armonia, la perfetta poesia del suo innesto con le realtà di natura: gli orizzonti, gli assolati e perturbati cieli, le luci cangianti ad ogni istante e quel galleggiamento autunnale sulla nebbia - o sulle nuvole - ecco, tutto questo poteva essere anche raccontare la propria vita: nella quotidianità, e nel bisogno di assoluto.

La visita al Palazzo ducale di Urbino a cui Carlo Bo conduce il suo lettore, è dunque anche un percorso nella sua autobiografia: un’ascesa, sulle scale della sapienza e della rivelazione. · «… la memoria di Urbino è troppo forte […] quella coincidenza unica di miracoli del Rinascimento non si verificherà più, ebbene non importa, noi abbiamo il dovere di imitare quel modello di vita, imitarlo da uomini di oggi e nel segno dell’amore, della pietà e della carità per gli uomini».

Con lessico pienamente evangelico, il «convertito a Urbino» Carlo Bo significava, nell’aprile del 1959, in occasione del riconoscimento che gli veniva dato come cittadino onorario, quali preoccupazioni e quali propositi

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lo avevano guidato nel tempo già lungo della sua residenza nella città di Federico, e a quale oltranza quei propositi avrebbe poi voluto condurre con fermezza progettuale e ideale. Erano gli anni fervidi delle nuove sfide edificatorie - per una città di studio e residenza, per una possibilità antica e nuova di dialogo culturale tra generazioni - che assieme all’architetto De Carlo ridisegnavano, visibilmente e invisibilmente, la nuova realtà universitaria, ora racchiusa entro il guscio dei palazzi medievali e rinascimentali, ora distesa al sole sul dorso delle colline come una grande e infinita carezza. Si ripeteva per certi aspetti il miracolo dell’antica complicità tra il Principe e il suo architetto elettivo, mentre si restituiva alla «dimessa città del silenzio […] un’anima moderna», qualcosa che si affermava «come un’idea di vita». Era una restituzione di aspirazione totale: civile e «morale», favorita e certo sostenuta da un sodalizio platonico di intelligenze liberamente convocate in Acropoli: amici-poeti come Luzi e Ungaretti, e pensatori di ardita libertà come Massolo, come Assunto, come Leone Traverso. Una Accademia di sodali, insomma, aperta ai più vasti contributi e decisa a ricostruire, sulle ceneri spirituali e materiali della seconda guerra, la nuova identità politica perché culturale dell’Università e dunque della città. L’ispirazione veniva appunto da lontano, ed era imitazione umile e generosa di un modello irripetibile ma eticamente e culturalmente vivo. Un modello che la partecipazione intima rendeva vicino ai sentimenti e alle necessità del presente, con slancio insieme razionale e utopico.

E come un tempo, familiarmente e per tutti, Federico aveva aperto le infinite porte del suo Palazzo ad ogni intelligenza e sapienza, con quella stessa libertà era ancora possibile e necessario vivere nell’oggi, in virtù di un luogo da cui perennemente emana e si esalta un vertice filosofico di bellezza e di verità spirituale, tanto che appunto essere come allora accolti nella casa del Duca, essere ammessi alla meditazione sulla bellezza, sulla luce, sulla matematica armonia dell’insieme e delle parti, può davvero valere come un tempo di rigenerazione. Basta respirare per un attimo l’atmosfera rarefatta del Cortile d’onore, e lasciare che lo sguardo venga rapito dall’incanto del ritmo, della proporzione, della luce mediterranea e salina di quella «pietra viva» calcarea (lo dice Adrian Stokes), di quel primo fiore del Rinascimento poco più che albeggiante che le colonne innalzano, per comprendere come questo spazio luminescente sia un luogo di spoliazione e di metamorfosi. Per comprendere, di più, che noi siamo davvero in «una città del Logos»: «città come opera d’arte», «mimesi dell’idea», dice Rosario Assunto, luogo «dell’uomo verticale», della vita contemplativa, e infine città metafisica nella sua divina matematica proporzione. Proporzione anche tecnica di una prospettiva – è ancora Stokes ad indicarlo – che è fulgore di ispirazione e non semplicemente applicazione e «uso» dei saperi dello sguardo - per esigenza di realismo- come nei fiorentini. E se dal Filebo letto da Ficino, e dalle Enneadi plotiniane derivava la fondazione metafisica della bellezza matematica, e anche - da queste ultime - l’idea che «le arti non imitano direttamente il mondo sensibile; risalgono, invece, ai principi da cui viene l’ordine della natura», era appunto possibile non solo immaginare ma concretamente afferrare la strepitosa sfida che là si annunciava: quella di poter correggere, aggrappati all’idea, anche «le insufficienze della realtà naturale»: per impossibilia, e con l’ostensione, nel vento, del simbolo di pietra sui Torricini, la verticale parete rocciosa del nido d’aquila. Come anche era possibile che la natura - ed era sapienza

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ed esperienza di ogni giorno - convergesse qui ad edificare un sogno e ne fosse insieme la sollecitazione e «il commento».

Natura e cultura, pace e guerra, azione e meditazione, realismo ed utopia, ed altro ancora. Su queste coppie oppositive Bo costruisce il suo ritratto di Federico, e la rappresentazione di Urbino, per condurre il visitatore verso qualcosa che poco ha a che fare col turismo banalmente inteso. Le sue parole quasi si rivolgono ad ogni singolo visitatore, per il silenzio che si crea attorno alla visione. E si direbbe che l’immagine-guida sia proprio quella del Duca di Montefeltro, in armi, inginocchiato davanti alla Vergine nella pala ora di Brera ma originariamente posta di fronte alla città, e vigilante dalla soglia francescana di San Bernardino. Perché appunto Urbino non si può visitare senza «incontrare» Federico. Il vero miracolo di questa città, oltre all’incanto del paesaggio e dell’architettura nella loro congiunzione ‘astrale’, come diceva Volponi, è la persistenza dello spirito di Federico. Pervasiva. Trasparente. Depositata come un alito sulle cose.

Così che l’eccezionalità del palazzo, oltre alla sua divina proporzione e alla sua sfida, si afferma per l’incredibile condizione d’essere, pur in pietra e mattoni, una creatura viva. · Sinisgalli diceva che «camminando dentro una bella architettura […] riesci sempre, allungando le mani, ad afferrare il cielo». Questo gesto di meravigliosa rapina si può sperimentare ovunque nel Palazzo ducale di Urbino, e anche il gioco contrario, quando proprio è il cielo ad allungare le sue braccia negli spazi edificati. Perché davvero a Urbino, con evidenza assoluta, e come scrive Bo, l’architetto ha saputo allacciare «l’aria e la terra», e costruire con la luce una seconda impalpabile architettura. L’inganno ottico è perfetto, la robusta struttura militare di radicamento decide le ombre e i riflessi specchianti, mentre germoglia i lunghissimi steli dei torricini: leggeri, con quegli angeli d’oro che spiccano il volo là in cima, ai due lati dell’aquila. La misura celeste di questo palazzo è - anche qui come in ogni dettaglio - meditativa. Sia quando protegge la Urbino più domestica e popolare, o quando apre i suoi piccoli e grandi cortili, o specialmente quando risponde alla voce e alle sollecitazioni incantate del paesaggio. Passo dopo passo, da una visione aerea dei due colli della città, l’uno vocato alla guerra, l’altro alla pace, quindi assecondando il periplo del Palazzo e infine consegnandosi al vestibolo del cortile d’onore, e salendo poi sino alle stanze attraversate secondo l’itinerario che da pubblico si fa privato ed intimo – dalla sala del trono allo studiolo alla Cappella del perdono – Carlo Bo racconta come la grande metafora di questo edificio, l’esercizio spirituale che è da compiersi nel visitarlo, sia proprio quello dell’ascesi. Richiesto ad un compito d’alta divulgazione (e vasta quanto l’Europa e le terre nord-americane), e nel tempo saliente del cinquecentenario (1982), Bo non ha potuto rinunciare a una compiuta esegesi filosofica di questa realtà che ogni giorno affrontava con la meraviglia negli occhi, e forse il desiderio di ritirarsi e comprendersi nella grotta-tana-frattura dello studiolo di Federico, la minuscola couche dove far germogliare ogni seme.

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Paolo Semprucci IL PALAZZO DUCALE DI URBINO. UNA SERIE FOTOGRAFICA

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NOTIZIA BIBLIOGRAFICA

Lo scritto di Carlo Bo, Il Palazzo Ducale di Urbino. Una visione aperta e libera, dal quale discende e al quale liberamente si ispira la mostra Parole e immagini nelle stanze, ha avuto la sua prima sede editoriale presso l’Istituto Geografico De Agostini, Documenti d’Arte, Novara, 1982, in occasione del cinquecentesimo anniversario della morte di Federico di Montefeltro. A questa edizione han fatto seguito le traduzioni: Le Palais Ducal d’Urbino, trad. et. adapt. de l’italien par Anne-Marie Conrad, Atlas, Paris 1988; Atlas, Bruxelles 1988; Atlas Canada, Montréal 1988; Transalpines, Lugano 1988; Der Herzogspalast in Urbino, aus dem Italienischen von D. Gottwald, Atlantis/Pawlak Verlagsgesellschaft, Herrsching 1989 (Klassische Reiseziele: Italien); Urbino het hertogelijk paleis, Alphen aan den Rijn, Atrium 1989; Hertugpaladset i Urbino, pa dansk ved Jorgen Hansen, Gyldendal, Kobenhaven 1991.

Compreso quindi in: Carlo Bo, Parole sulla città dell’anima, a c. di G. Santini, Comune di Urbino (Assessorato alla Cultura) 1997, pp. 44-62, figura anche in: Carlo Bo, Città dell’anima. Scritti sulle Marche e i marchigiani, 1937-2000, a c. di U. Vogt, Ancona, Il Lavoro Editoriale 2000, pp. 219-228.

Approssimandosi il sesto centenario della nascita di Federico, che cadrà il 7 giugno 2022, aver ritrovato la parola di Carlo Bo ancora intatta, e quasi vertiginosa nella sua meditazione, è valso per noi quanto riscoprire il cammino più certo di avvicinamento a quel ‘fatto’ che Fabio Cusin considerava come la vera opera politica di Federico, ovvero il Palazzo Ducale, e dunque Urbino. Questa città dell'anima che Bo sentiva come “un filtro della coscienza, lo strumento per capire che le parole hanno un senso, hanno un valore se corrispondono alle cose”.

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Fotografie Paolo Semprucci Š 2019 Impaginato nel mese di novembre dell'anno 2020