AfterVille n°5

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anno 1 n. 5

ottobre-dicembre 2008

Dalle città dell’Aldilà numero speciale diretto da Enzo Biffi Gentili

Dalle città dell’Aldilà divine design tra realismo fantastico e steampunk Beyond AfterVille

Avventure estetiche

Riccardo Bedrone

Enzo Biffi Gentili

Leggo un articolo di Pasquale Chessa intitolato Biennale. L’architetto diventa artista (“Panorama”, 18 settembre 2008). E faccio la scoperta che il curatore della Biennale di Architettura in corso a Venezia, che ha come tema Out there: beyond the building (Là fuori: al di là del costruito), Aaron Betsky, “per la prima volta” ha deciso di guardare “in direzione dell’utopia del sublime”, così: “penso a una storia segreta dell’architettura, che non debba misurarsi col progetto, con la costruzione… ma immagino un’architettura fuori dell’ordinario, vorrei dire inutile, magnificamente assurda”. Scopro anche che una delle maggiori installazioni realizzate in questa Biennale, quella di David Rockwell, proietta frammenti di film “architetturali” come 2001 Odissea nello spazio, e altri “di fantascienza”. Ma perché mi sembra, e lo dico con tutto il rispetto per un’impresa culturale che condivido, una “scoperta dell’acqua calda”? Vediamo, per punti: sei anni fa, nel 2002, realizzammo per le celebrazioni del centenario dell’Esposizione Internazionale di Arte Decorativa Moderna di Torino del 1902, Artigiano metropolitano, una mostra presso il Circolo degli Artisti, ora Circolo dei Lettori, intitolata L’architetto artista, rendendo tra l’altro omaggio a Gaudí, considerato come capostipite dell’“architettura fantastica” (non soltanto da noi, e non da oggi, si veda al proposito un libro di quasi cinquant’anni fa di Ulrich Conrads e Hans G. Sperlich, Architecture fantastique (Delpire, Paris 1960), che accostava al gran catalano, tra gli altri, Paul Scheerbart, Adolf Behne, Bruno Taut, i Luckhardt, Ferdinand Cheval…). Per quanto poi riguarda i rapporti tra la cultura del progetto e l’immaginario della fantascienza, è ancora molto vivo il ricordo della prima mostra “fracassante” del progetto AfterVille allestita al MIAAO, Astronave Torino, esattamente un anno fa. Di lì è iniziato quel viaggio “spaziale”, nell’accezione sia fantasy che disciplinare del termine, le cui tappe sono ricostruite nell’articolo dei suoi curatori, AfterVille landing strip, che compare in questa pagina. Infine, eccoci a inaugurare, sempre al MIAAO, Dalle città dell’Aldilà, che della ricerca di una “utopia del sublime” e di una “architettura magnificamente assurda” è eccellente esempio. Rammento tutto ciò non per rivendicare un documentato “diritto di precedenza” -certe svolte e riflessioni sono dans l’air du temps- ma per segnalare un modo di produrre originalmente cultura che, avviato in ambito locale, è divenuto concorrenziale a livello internazionale, prima nel contesto del XXIII Congresso mondiale degli Architetti UIA che abbiamo celebrato qui al Lingotto, ora in quello del più attuale dibattito professionale. Vorremmo che tutto ciò fosse confrontato da chi di dovere con altre imprese culturali torinesi-internazionali. Chiudo ringraziando tutti gli amici -a partire da Enzo Biffi Gentili- che si sono sacrificati in questa “missione”. Che non considero conclusa: oltre AfterVille infatti non possiamo trovare che un’altra “AfterVille”…

In memoria di Toni Cordero, uno degli architetti di Dioce

Presidente Ordine degli Architetti PPC di Torino e Provincia

Direttore MIAAO

Aurélien Police, L’île des morts, 2005, stampa fine art da file digitale su carta cotone in esemplare unico, 60x90 cm, Collezione SSAA, Torino

Babele e Gerusalemme

Il sogno dell’architetto

AfterVille landing strip

Padre Giuseppe Goi d.O.

Daniela Formento

I curatori di AfterVille

Biblicamente campeggia l’immagine descritta dall’Apocalisse. La città dell’Aldilà viene messa a confronto con quella dell’al di qua, vista quest’ultima come il luogo della creatività e dell’epifania umana; viene chiamata simbolicamente Babilonia, non tanto per affermare che in essa c’è solo corruzione e nonsenso, ma perché presuntuosamente immagina di poter costruire senza Dio. In antecedenza, questa dimora degli uomini si identificava con Babele. All’opposto la città dell’Aldilà prende il nome di Gerusalemme: il riferimento al capoluogo della Giudea è evidente, così come la sua motivazione. È la città di Davide servitore di Jahvé, sede del Tempio salomonico, città santa per eccellenza, fondata dal Signore come patria di tutti popoli (salmo 87). Ma la città dell’Aldilà supera di gran lunga la pur positiva realtà di Gerusalemme: essa è la Gerusalemme celeste, collocata in un cosmo nuovo che non conosce né morte né lutto né pianto (Ap 21,1 ss); è la dimora dell’Emanuele, il Dio che vive in mezzo all’umanità. Non c’è più bisogno segue in ultima

Per un anno abbiamo scoperto e seguito interessanti e insospettabili percorsi dell’architettura, prodotti della creatività, del tocco geniale, di intuizioni sottili, di sensibilità estreme dei progettisti. E l’architettura torna ancora una volta a essere protagonista, non tanto come soggetto ma piuttosto come oggetto di studio, interpretazione e soprattutto “rappresentazione” da parte di diverse arti del disegno. È il caso della mostra allestita al MIAAO, Dalle città dell’Aldilà. AfterVille Divine Design, che con il suo titolo, ambiguo e ambivalente, chiude il programma di eventi culturali collegati al XXIII Congresso mondiale degli Architetti UIA, che si è svolto a Torino. Architettura dell’Aldilà perché in qualche caso prodotta da artisti che hanno concluso fisicamente il loro ciclo terreno ma che attraverso le loro opere continuano ad essere spiritualmente presenti tra noi; architettura dell’Aldilà perché temi di alcuni lavori sono luoghi dell’ eterno riposo; oppure architettura dell’Aldilà intesa come quella che deve ancora essere eretta oltre il nostro tempo, che deve ancora

Rettore del Seminario Superiore di Arti Applicate di Torino

Direttore Cultura, Turismo e Sport Regione Piemonte essere progettata o che lo è stata solo attraverso il potente occhio della mente e l’intelligenza della mano, traducendosi così in “costruzione d’invenzione”. Un interessante viaggio tra passato, presente, futuro, in cui si mescolano strumenti, stili, scuole, in cui tutto sembra frangersi per poi ricomporsi, negarsi per rivivere, in cui architettura, pittura, fotografia, grafica, letteratura, trovano modo di intrecciarsi ed essere complementari. Una carrellata di autori, dal piemontese Toni Cordero, all’inglese Simon Marsden, ai francesi Pierre Clayette e Aurélien Police, per mescolare linguaggi, culture, tecniche ancora molto singolari in questa Europa senza confini, difendendone così contemporaneamente identità e differenze. L’Assessorato alla Cultura di una Regione che ha saputo conservare tracce importanti del suo passato, senza tuttavia mai rinunciare all’innovazione, non può che rallegrarsi per questo evento che ci propone di osservare da angolazioni inusuali rappresentazioni architettoniche affascinanti che mettono in discussione, dello spazio e del tempo, l’abituale visione.

Pierre Clayette, de la suite Babel, Babel mordorée, 1982, olio su tela, 74x100 cm (particolare) Collezione SSAA, Torino, foto Studioelle

Roads? Where we’re going we don’t need roads! Il vettore di AfterVille esattamente un anno fa decollava con Astronave Torino dal MIAAO e precisamente come previsto atterra, anche simbolicamente, nello stesso luogo con Dalle città dell’Aldilà. Divine Design. Questo è quanto. Grazie a tutti e arrivederci. Il momento è topico, o, forse, distopico: presentiamo quindi il “consuntivo” di tutta la missione. Non è sicuramente un bilancio economico, ma piuttosto una relazione, speriamo “distaccata”, degli eventi accaduti durante questo viaggio “fantastico”. Partiamo dall’inizio, con Astronave Torino, primo stadio del razzo. Con cui si è scoperto che, relativamente al nostro tentativo di tracciare, e percorrere, una rotta a zigzag tra le stelle della cultura del progetto e dell’immaginario della fantascienza, Torino già poteva contare su di un equipaggio di “architetti-astronauti” spettacolare, come sempre più conosciuti all’estero che in Italia: Enzo Venturelli segue in ultima

È già passato un anno, da quando iniziammo, con l’Astronave Torino, partendo qui dal MIAAO, il nostro viaggio verso l’AfterVille, ora giunto alla fine, descritta in questo ultimo numero del suo giornale di bordo. Che necessariamente, con il suo titolo Dalle città dell’Aldilà, doveva avere un po’ il sapore di una cerimonia degli addii (almeno agli eventi del programma culturale collaterale al XXIII Congresso mondiale degli Architetti UIA, celebrato quest’estate al Lingotto). Abbiamo così deciso di rendere omaggio a Toni Cordero, Sir Simon Marsden, Pierre Clayette, Aurélien Police, quattro “fantastici” creatori di “visioni” urbane ultraterrene nell’ambito delle rispettive discipline: l’architettura e la fotografia, la pittura e la grafica. Non a caso abbiamo virgolettato alcuni termini nella frase precedente: ogni arte fantastica e visionaria è sempre di difficile definizione e valutazione, sovente di controversa reputazione. Grandissimi studiosi si sono provati in passato nell’elaborazione di teorie del fantastico e del visionario, che utilizzeremo anche per illustrare alcuni aspetti delle opere dei nostri ospiti d’onore. Opere accomunate da forti interferenze formali e tematiche, come quelle di moltissimi visionari. A esempio, principiando un po’ traumaticamente, e citando Henri Focillon, potremmo dire che “la luce che splende nelle loro opere, è la folgore o il sole dei morti” (H. Focillon, Estetica dei visionari, Abscondita, Milano 2006). Fingendo di non vedere il gesto propiziatorio e molto fisico dei nostri pochi lettori, passiamo, sempre sotto la guida di Focillon, a un argomento cruciale, che ha sempre crucciato anche i nostri autori. Infatti, “questi artisti compaiono come accidenti, come scorie (…) li si isola come dei casi”. È stato il destino, in vita, di Toni Cordero e Pierre Clayette, e che tuttora affligge, si fa per dire, Simon Marsden e Aurélien Police. Eppure, essi sono stati e sono tra “i più grandi innovatori formali”, sovente cultori del “delirio della prospettiva”, ed evocatori del “potere della vertigine” (si guardi, nelle pagine successive e in mostra, alle echappées, alle “fughe” prospettiche, ai ribaltamenti della visione, insomma a prospettive tutte, seppur diversamente, “depravate”). Attenzione però: non si tratta solo di virtuosistica spericolatezza formale, ma di una sorta di “trascendenza spirituale” della prospettiva, secondo la felice definizione del curatore di una bella mostra dedicata alle architetture fantastiche (Karsten Harries, Les Arquitectures Fantástiques I La Transcenndèncis Espiritual de La Perspectiva, in La Ciutat Que Mai No Existí. Arquitectures fantàstiques en l’art occidental, catalogo mostra Centre de Cultura Contemporània de Barcelona; Museo de Bellas Artes de Bilbao, 23 ottobre 2003-1 febbraio 2004). Infine li si direbbe, ancora una volta tutti, “a disagio nei limiti dello spazio e del tempo”. Difatti sono affatturati dal passato, da un patrimonio storico-architettonico segue in ultima

Simon Marsden, Mountain & Birds, Utah, USA, 1972 fotografia a infrarossi

Soltanto quella vita che diventa più piena e più forte sta tuttavia in un collegamento globale con la morte Georg Simmel, Metafisica della morte, 1910-11

Sommario rappresentazioni fantastiche

01

rappresentazioni fotografiche

02-03

rappresentazioni pittoriche

04-05

rappresentazioni multimediali

06-07

rappresentazioni terminali

08


rappresentazioni fotografiche omaggio a toni cordero

ottobre-dicembre 2008

La città di Dioce

Toni Cordero architetto e compagnon

Il tempio ceramico

Enzo Biffi Gentili

Enzo Biffi Gentili

Luisa Perlo

Allo straordinario architetto torinese Toni Cordero (1937-2001), che già ci guarda dall’Aldilà, rendiamo omaggio su questo numero di “AfterVille” soprattutto per quanto riguarda un aspetto della sua eccellente ed eclettica opera: l’exhibition design. Perché la sua più suggestiva esperienza nel progetto di allestimento di mostre nasce proprio sotto il cielo di una città ideale, quella di Dioce, “ricostruita” qui in San Filippo Neri con una serie di manifestazioni organizzate dall’omonima associazione (vedi “AfterVille” n. 0, ottobre-dicembre 2007) all’inizio degli anni novanta. A premessa di un’analisi del lavoro di Cordero in questo settore disciplinare -ma limitatamente alle esposizioni di temi e ambienti “sacri”- è opportuno quindi ripubblicare brani della dichiarazione di intenti del gruppo di Dioce redatta nel 1992: “Il progetto Dioce concorre a un tentativo di riappropriazione di rilevanza culturale e formale di Torino (...) Dioce è il nome di una città mitica e storica insieme (corrisponde all’antica Ecbatana, capitale della Media, di cui scrive Erodoto) tratto da un sublime verso di Ezra Pound, nel canto LXXIV dei Cantos, primo dei Canti pisani: ‘To build the city of Dioce, whose terraces are the colour of stars’ (‘Per costruire la città di Dioce, che ha terrazze color delle stelle’). Costruire, quindi. Ma per costruire, dice ancora Pound nei versi precedenti, occorre ‘…a bang, not a whimper, with a bang not with a whimper’ (‘uno schianto non una lagna, uno schianto non una lagna’). E quanto sarebbero stati giustificati la lagna, il piagnisteo per il Poeta racchiuso in una gabbia, in un campo di concentramento, sotto le nuvole di Pisa, nelle rovine della sua Europa che tuttavia lo spinge, di nuovo, a scrivere ‘As alone ant from a broken ant-hill/ From the wreekage of Europe, ego scriptor’ (‘Formica solitaria di un formicaio distrutto/ dalla rovina d’Europa, ego scriptor’)”. L’associazione concluse la sua attività, con una “cerimonia funebre” apparata da Cordero, nel 1995. Ma il sonno di Dioce, per l’architetto, era leggero. Infatti solo un anno dopo, nel 1996, invitato ad Abitare il Tempo a Verona con altri professionisti a creare installazioni sul tema de “L’attesa”, intitola la sua Aspettando la fine della crisi. Contro l’usura, e di nuovo rende onore a Pound, questa volta non soltanto al letterato, quanto, originalissimamente, all’interior designer (si fa per dire, il poeta a Londra, per penuria di mezzi, si fabbricava i mobili da solo con povere assi, vivendo, secondo una descrizione di Eliot, “come uno squatter”) e fa riprodurre una sua sedia, che espone in un allestimento schermato da una rete metallica per alludere alla gabbia nella quale Pound fu rinchiuso dai suoi compatrioti a Pisa alla fine della guerra. Cordero appende anche a fianco, inquadrato, il testo del Canto XLV, sottolineandone i versi che accennano all’architettura, all’arte, all’artigianato: “Con usura nessuno ha una solida casa/ di pietra squadrata e liscia/ per istoriarne la facciata,/ con usura/ non v’è chiesa con affreschi di paradiso (…) con usura/ nessuno trova residenza amena./ Si priva lo scalpellino della pietra,/ il tessitore del telaio (…) Usura arrugginisce il cesello/ arrugginisce arte e artigiano/ tarla la tela nel telaio, nessuno/ apprende l’arte d’intessere oro nell’ordito…”. Toni aveva letto il libro, appena uscito, di Giano Accame Ezra Pound economista. Contro l’usura (Edizioni Settimo Sigillo, Roma 1995), ed era affascinato da quell’originale lettura di Pound, visto anche come erede del pensiero socialista di John Ruskin e William Morris, il padre delle Arts and Crafts. Per preparare l’ installazione veronese e rilevare il modello della sedia di Pound, Cordero era andato al castello di Tirolo presso Merano, residenza di Mary de Rachewiltz, figlia del poeta e sua somma traduttrice, e si era commosso, nel vedere conservato in una vetrina, nella prima sala del castello, il catalogo della prima edizione delle mostre torinesi di Dioce.

Toni Cordero e Santo Tomaino Il sonno di Dioce, 1995 installazione realizzata nel Chiostro Superiore di San Filippo Neri in Torino, ora Galleria Soprana del MIAAO (particolare), foto Pino Dell’Aquila Archivio SSAA, Torino

Toni Cordero e Bruno Munari, dal progetto Dioce: L’iconostasi iconoclasta, 1993 installazione nell’Oratorio del Complesso Monumentale di San Filippo Neri in Torino Archivio SSAA, Torino in alto Toni Cordero, dal progetto Dioce: Ecbatana, Calligrafie, 1993 installazione nella Chiesa Maggiore del Complesso Monumentale di San Filippo Neri in Torino foto Pino Dell’Aquila, Archivio SSAA, Torino

Toni Cordero è l’ultimo esponente di quella tradizione subalpina di grandi architetti “eccentrici” ed eclettici del secondo Novecento illuminata da figure come quelle di Carlo Mollino, Enzo Venturelli, Elio Luzi, Paolo Soleri. Quindi, la sua città, Torino, non gli ha mai dedicato una mostra. Eppure Cordero, nelle tre fasi nelle quali si può dividere in linea di massima la sua vicenda professionale è stato prima sofisticato inventore di una diversa immagine di dimore alto borghesi piemontesi; poi, con la sua scelta di un progetto contaminato e frammentato, protagonista alternativo di un design prossimo a una nuova decorazione celebrato a livello nazionale e internazionale; infine un sovversivo nella disciplina dell’allestimento di mostre. I suoi ordinamenti espositivi, scenografici e impressivi, sono stati sovente eseguiti in illustri e consacrati beni architettonici: Dioce ed Ecbatana in San Filippo Neri a Torino del 1993; La sindrome di Leonardo nel Museo Diocesano Pia Almoina di Barcellona nel 1995; Il tempio ceramico nella Rotonda Antonelliana di Castellamonte nel 1997; Mater Materia nella Chiesa degli Artieri di Matera nel 1999. Qui evochiamo questo settore della sua creatività, per campioni, ricorrendo a magistrali fotografie di Pino Dell’Aquila. In tema di città dell’Aldilà dobbiamo anche ricordare una vicenda precedente, perturbante, di Cordero in relazione con lo spazio sacro e il suo “doppio”, quello sconsacrato, riferita nell’autobiografia dello studioso di arti decorative storiche Alvar Gonzáles-Palacios (Le tre età, Longanesi, Milano 1999). Si tratta della ristrutturazione, progettata da Toni nel 1982, di una ex chiesa a Londra, divenuta la casa-galleria del torinese Mario Tazzoli. Gonzáles-Palacios scrive: “Devo confessare che l’atmosfera di quel bizzarro edificio, sontuoso finché si vuole, era piuttosto inquietante. Di notte si sentivano rumori di passi, bisbigli, porte che si chiudevano all’improvviso, correnti d’aria inspiegabili: non si dormiva in pace. Mario aveva firmato un impegno per cui era tenuto ad avvertire la comunità religiosa alla quale era appartenuta la chiesa nel caso avesse trovato, durante lavori o scavi, resti di antichi fedeli. La cosa non mi

L’officina torinese di Cordero del design ha coniugato le tradizionali capacità meccaniche, da “califfo” d’officina torinese, con l’arte decorativa di Guarini e Juvarra, e con l’amor estremo orientale (come nei pali e nei puntali del Vocabolario redatto per Sawaya e Moroni, ispirati agli Urga mongoli, i bastoni sventolanti che segnalavano il territorio dell’amore). Una sintesi che si ritrova anche quando si è confrontato, da mistico nascosto qual era, con il tema del Sacro. Ad esempio nel restauro della Chiesa delle Suore di Clausura del Cottolengo di Biella, opera straordinaria mai divulgata, gli arredi in legno massello, caratterizzati da mistilinee barocche, sono poi sedotti da movenze organiche austroungariche. Nella rassegne di mostre allestite a partire dal 1992 in

La Rotonda Antonelliana di Castellamonte è un iperbolico anello murario in laterizio, fatto innalzare da Alessandro Antonelli (Ghemme, 1798-Torino, 1888) come involucro di una Chiesa Parrocchiale capace di contenere 6000 persone, ma interrotto a metà dell’altezza prevista. Un affascinante reliquato inintelleggibile ai più senza la conoscenza della sua originaria destinazione. Spesso, una volta all’anno, in occasione della tradizionale Mostra della Ceramica, si utilizza il terrain vague tra le mura per “scaricare” opere eterogenee. Quando invece nel 1997 viene affidato l’incarico di allestitore della mostra a Toni Cordero, egli si pone come obiettivo principale una coerente rappresentazione del genius loci, e decide di “riaprire il cantiere” dell’Antonelli. E pone come custode della sua installazione, intitolata Il Tempio Ceramico, il suo fantasma, evocato imprimendo su un telone trasparente un’ immagine, inedita, del “fantastico” architetto mentre controlla il disegno di progetto…

Toni Cordero, Il Tempio Ceramico: I Fantasmi dell’Antonelli, 1997 installazione realizzata nella Rotonda Antonelliana di Castellamonte (particolare), foto Pino dell’Aquila Archivio SSAA, Torino

Un dandy précise qu’il sera, de toutes façons, heureux de mourir

Emanuela Oddenino, Alberto Pozzallo, Stefano Vellano / Studio Kha Ricordare Toni Cordero significa rivivere gli anni della nostra formazione nel suo studio. Sotto la sua guida siamo cresciuti, subito spaventati, poi trascinati dalla sua passione travolgente per la professione: un’ossessione. Del resto, citando Sigfried Giedion, “solo il fanatismo e l’ossessione concedono la capacità di non affondare nel mare della mediocrità”. Mediocre, Cordero non fu mai, e questa è forse stata la sua colpa, in questa città. La passione non concedeva pause alla mente e riposo al corpo, sino a rischiare il tracollo, ma non era possibile restare indifferenti: ci stimolava a superarci, sempre. Il Maestro generava energia intorno a sé non solo attraverso i suoi spiazzanti ragionamenti, ma pungolandoci nell’orgoglio, ironizzando perfidamente sulle nostre lacune. La sua curiosità, determinazione e inquietudine gli hanno fatto mettere in discussione costantemente il suo linguaggio progettuale. Adorava le materie prime: pietra, legno, vetro e metallo; i materiali da costruzione basici come il mattone, il calcestruzzo e il ferro d’armatura, ma non fu mai minimal. Da questo lessico elementare sapeva trarre un inedito abaco di combinazioni. Di ogni elemento voleva conservare la “forza” ed esprimere le caratteristiche intrinseche, limitando al massimo ogni finitura di carattere protettivo, per quanto richiesta dall’uso. L’ossidazione del ferro o la deformazione di un legno andavano lasciate libere di prodursi. L’imperfezione infatti era per lui una forma di comunicazione del vissuto, anche di un minerale, una manifestazione del trascorrere del tempo. Non era però troppo ossequioso di fronte ai materiali “nobili” e naturali, dei quali turbava la compostezza accostandoli a materiali artificiali. Possedeva una profonda perizia nell’arte del disegno: disegnare al vero, anche a mano libera, gli consentiva di dirigere magistralmente gli artigiani, con i quali intratteneva rapporti intensi, di sincera collaborazione, quasi simbiotici. Otteneva da loro risultati inaspettati, assemblando con intelligenza i semilavorati dei prontuari di officina con i fabbri, bordando e riportando creativamente porzioni di tessuto su tele grezze con i tappezzieri, spezzando riggiòle con i piastrellisti, esasperando il virtuosismo degli smaltatori. Nel mondo

piacque (…). Mario non fu mai sereno fra quelle mura e fu proprio lì che nel 1989 dette i primi segni di confusione mentale…”. Ma non si può chiudere questa troppo breve nota commemorativa del Cordero autore di apparati sacri ed “esecrandi” senza accennare alla sua propensione a creare un col-laboratorio con maestranze non specializzate, invitate a “trascendere” il loro abituale mestiere, o con giovani da “iniziare” ad apprendere un più elevato savoir faire. A esempio, nel caso della mostra Calligrafie in San Filippo Neri, fece realizzare ai carpentieri dell’Impresa Rosso, sponsor tecnico dell’evento, non solo le passerelle per i visitatori, ma anche le volute barocche dei sostegni lignei, le appliques che illuminavano i leggii. Oppure, nel caso de Il Tempio Ceramico alla Rotonda di Castellamonte, richiese l’intervento dell’Ente Scuola e del Centro per l’Istruzione Professionale Edile per erigere, su di un disegno da lui redatto con Jacques Kaufmann, due simulacri al vero delle colonne in mattoni a suo tempo progettate, e non realizzate, da Alessandro Antonelli per quella che avrebbe dovuto essere una chiesa monumentale. Sognava un nuovo Compagnonnage. Perché Cordero condivideva quel che aveva scritto Albert Vallet nel capitolo La morale de l’histoire, conclusivo del suo libro La Céramique Architecturale (Dessain et Tolra, Parigi 1982): “La ceramica architettonica, la ceramica monumentale, in ragione della loro scala d’esecuzione, richiedono lo spirito di corpo. Se alcuni ispirati sono necessari per guidare una squadra verso la sommità, il lavoro sul cantiere comporta, a tutti gli stadi dell’opera, per il compagnonaggio che ingenera, un rapporto che non è solamente di servizio. Per questo, la ceramica architettonica è anche una scuola di fraternità”. Ma Cordero collaborò anche con “compagni eccellenti”, come Bruno Munari, in San Filippo Neri (vedi L’iconostasi iconoclasta, in “Domus” n. 756, gennaio 1994). Si trattava di un geniale telaio in ferro che reggeva lunette auree, posto tra abside e navata a segnare, come nell’iconostasi bizantina, una linea di confine tra la dimensione materiale e quella spirituale, dalla quale Toni ora speriamo ci sorrida.

San Filippo Neri a Torino il legno grezzo delle assi da ponteggio è costretto alla pompa barocca, in contrappunto ad austeri candelieri in ferro brunito, realizzati con soli tre punti di saldatura. Così, riusciva a dare dignità spirituale a poveri materiali, anche nel caso dell’allestimento di Mater Materia a Matera, punteggiando di lucine cinesi da albero di Natale strutture a punto asola, in lamierino, delle stagere da cantina… All’inverso, riusciva a rendere “materiale da costruzione” la luce, o il fumo d’incenso, come avvenne di nuovo a Matera, e più volte a Torino. Toni Cordero non amava affatto spiegarci le sue intuizioni progettuali e il suo ductus, ma invitarci al sacrificio e alla perseveranza: lezione da vero buon maestro, altrimenti inimitabile.

Toni Cordero, dal progetto Dioce: Concentrazione, 1992, installazione nella Chiesa Maggiore del Complesso Monumentale di San Filippo Neri in Torino, foto Pino Dell’Aquila, Archivio SSAA, Torino

Philippe Sollers, Le dandy in Splendeurs et misères du dandysme, 1986

Mater Materia Luisa Perlo Nel 1999 a Matera si discute sullo stato delle arti applicate. Lo scenario è Mater Materia, la I Biennale Internazionale a esse dedicata in Italia. Uno scenario eccezionale dal punto di vista architettonico, come unica è la controffensiva culturale a favore di discipline da tempo neglette. Un simile progetto richiede, passi il gioco di parole, notevole applicazione. Accanto al curatore Enzo Biffi Gentili non può mancare Toni Cordero, da sempre compagno di ardimentose imprese espositive. Nella Chiesa degli Artieri, sui Sassi, Cordero crea un’architettura di luce ispirata alle luminarie che vestono a festa i paesi del Sud, qui a fianco illustrata nel sontuoso bianco e nero di un illustre materano d’adozione, Mario Cresci. L’architetto “de-localizza” la luminaria, nata per gli esterni, e la ingabbia in strutture ortogonali, canzonando il minimalismo allora imperante nel disegno degli interni. La mostra è un’illuminante riflessione per quadri liturgici sulla condizione “agonica” della disciplina, che va oltre l’allusione ai temi e alle suppellettili sacre che ornano il contesto: un profetico de profundis, dal momento che la biennale materana resterà un unicum. Ne sono testimonianza il “reliquiario” di Jean Michel Doix, le mammelle mutilate della Sant’Agata ceramica di Elica, e due memento mori -opportunamente in tema con questa pubblicazione- di Bertozzi e Casoni: il “mucchio d’ossa” ora conservato nel Sepolcreto sotterraneo di San Filippo Neri, e Scegli il Paradiso, mirabile Madonna mortifera in maiolica esposta per la seconda volta quest’estate nel Gran Teatro Ceramico al MIAAO, dove, mentre Matera si affida al franchising progettuale delle archistar, la resistenza continua.

Toni Cordero, Il Tempio Ceramico: Le Cimetière, 1997, installazione realizzata nella Rotonda Antonelliana di Castellamonte, opere in gres di Bernard Dejonghe (particolare), foto Pino dell’Aquila, Archivio SSAA, Torino Toni Cordero, Mater Materia: Ossobello 1999, installazione realizzata nella Chiesa degli Artieri di Matera, opere di Bertozzi e Casoni (particolare), foto Mario Cresci Archivio SSAA, Torino


03

rappresentazioni fotografiche omaggio a simon marsden

Teterrimo baronetto Valérie Zuddas

Una fotografia metafisica Elisa Facchin e Valérie Zuddas “Io credo fermamente che una dimensione ‘altra’ scorra parallela a quella che chiamiamo ‘realtà’ e credo che, qualora si verifichino condizioni propizie, si possa aprire uno spiraglio nella soglia che le separa” dice Simon Marsden, “con i miei scatti tento di forzare quel limite per ‘svelare’ ciò che è eterno”. E per farlo, per ritrarre “l’irrealtà del reale e la realtà dell’irreale”, Marsden non usa evolute tecnologie digitali, ma predilige procedimenti e materiali tradizionali: le pellicole in bianco e nero, seppur High Speed Infrared, per tagliare radiazioni visibili dello spettro e accentuare elementi altrimenti “impercettibili” dei soggetti che ritrae; lo sviluppo manuale in camera oscura, con “rivelatori” atti a bloccare l’aura delle immagini; la stampa su pregiate carte contenenti pigmenti luminescenti e metallici, per rafforzare l’effetto fantomatico delle sue opere. È un artigiano, Sir Marsden, che persegue la deriva metafisica di una macchina, quella fotografica, molto fisica e meccanica. E noi, che al Seminario Superiore di Arti Applicate da tempo studiamo casi emblematici di una ricerca artistica che abbiamo provvisoriamente denominato appunto Fotografia metafisica, di diritto vi iscriviamo il Baronetto. Ricerca che ha i suoi prodromi nelle fotografie “spiritistiche”, ovvero in quegli scatti realizzati a fine Ottocento per intrappolare il paranormale, in un’epoca nella quale il proliferare degli esperimenti medianici procedeva di pari passo col tentativo di verificarli “obiettivamente”. Ma alla fotografia che cerca di andare “oltre”, che si propone di restituire “permanenza” a ciò che altrimenti resterebbe solo una fuggevole apparizione o “presenza” si sono dedicati anche molti illustri artisti contemporanei, con esiti differenti. C’è chi lavora sull’“assenza”: l’italiano Silvio Wolf che attraverso le sue immagini racconta storie sepolte, evocando il genio dei luoghi, come nella sue celebre installazione Luci Bianche del 1995 al Refettorio delle Stelline di Milano, ove aveva proiettato diapositive tratte dall’archivio di ritratti fotografici di ormai scomparse orfanelle, creando un’atmosfera straniante e perturbante, piena di luci e voci (dall’Aldilà). O l’americano Julius Shulman, storico fotografo di architetture, che secondo la sua personale teoria delle 4 T, translate, transform, transfigure, trascend, legge nei suoi scatti ciò che sta dietro la fisicità degli edifici e svela i percorsi mentali che

Simon Marsden, Selfportrait Lincolnshire, England, 1988 fotografia a infrarossi

Sir Simon Neville Llewelyn Marsden, quarto Baronetto di Grimsby, nasce nel 1948 a Lincoln, nel Lincolnshire, dove vive in un antico presbiterio. Si forma all’Ampleforth College nel North Yorkshire e poi all’Università della Sorbona a Parigi. Dal 1969 lavora come fotografo professionista, collaborando con numerose riviste. In seguito a borse di studio assegnategli dall’Arts Council of Great Britain nel 1975 e nel 1976 viaggia in Europa, Medio Oriente e negli Stati Uniti. Si specializza in fotografia d’architettura e di paesaggio, rinnovando la tradizione del “pittoresco” nell’accezione anglosassone del termine: rovine, chiese e abbazie, cimiteri, edifici misteriosi, decadenti e “auratici” divengono i temi preferiti delle sue riprese. Tecnicamente, l’effetto “ultraterreno” e inquietante delle sue immagini è intensificato dall’uso di filtri infrarossi e da raffinati procedimenti di stampa su carte metallescenti. Ha prodotto molti album fotografici di gran successo. Le sue opere sono state esposte in importanti musei come il J. Paul Getty Museum di Los Angeles, la Bibliothèque Nationale de France di Parigi, il Victoria and Albert Museum di Londra. In Italia, con Dalle città dell’Aldilà al MIAAO, si manifesta la sua prima “apparizione” in una mostra.

Un po’ di Poe

hanno portato all’elaborazione dei progetti. Ma c’è anche chi lavora sulle presenze per scongiurare la paura dell’ignoto, inteso non solo come invisibile, ma anche come inammissibile. Basti pensare alla serie By Proxy del 1999 di Anna Gaskell -ispirata alla storia vera di una pediatra americana che uccideva i suoi piccoli pazienti- in cui tante bambine vestite da infermiere vengono ritratte su sfondi di cieli cupi, con inquadrature e tagli deformanti che provocano un senso di disagio e inquietudine: la messa in scena di un incubo. La violenza e l’infanzia -già di per sé elemento perturbante- sono anche i temi preferiti da Christopher Coppola, che in set in miniatura da lui stesso costruiti, in cui aleggiano bagliori sinistri e atmosfere noir, inscena omicidi sanguinosi compiuti da bambolotti (vedi la serie I am my Father’s Son del 1998). Anche Gregory Crewdson, celeberrimo fotografo americano, professore di fotografia a Yale, allestisce veri e propri set, ma questa volta in scala 1:1, usando come interpreti star della statura di Julienne Moore e Gwy-

neth Paltrow. La perfezione delle scene, allestite con la massima cura per ogni dettaglio, stride terribilmente con l’ambiguità degli scatti che riferiscono di alienazione sociale e alterazioni private, e il risultato è una disarmante, allucinata atmosfera onirica pervasa da oscurità e mistero (anche se Crewdson tiene a indicare in ogni sua immagine una luce di sfondo di speranza). L’inesplicabile è anche tema prediletto dal tedesco Gerd Bonfert, che alla questione del come rappresentare sensazioni -o presentimenti- attraverso un dispositivo tecnico, risponde rendendo i corpi evanescenti, sciogliendo la loro carnalità in vapori diafani, traslucidi con movimenti di macchina e sovraesposizioni, trasmutando così ogni fisica plasticità in metafisica plasmicità. Torniamo a Torino, tra artisti più giovani, come la fotografa Monica Carocci, che già più di dieci anni fa, nel 1997, fu sola a rappresentare il Paese del Sole nella mostra Gothic, ordinata presso l’ICA Institute of Contemporary Art di Boston, che ci riconobbe così un esoterico primato mai da nessuno peraltro contestato…

a sinistra Simon Marsden, San Michele Cemetery, Venice, Italy, The Island of the Dead, 2000 fotografia a infrarossi, Collezione SSAA, Torino Simon Marsden, Statues, Brompton Cemetery, London, England, 1983 fotografia a infrarossi, Collezione SSAA, Torino Simon Marsden, Belgian Cemetery, Houthulst, Ypres, Belgium, 1999 fotografia a infrarossi, Collezione SSAA, Torino sotto Simon Marsden, Church of St Andrew, Covehithe, Suffolk, England, 2006 fotografia a infrarossi

Qualche immagine repentinamente sfavillante di quel bagliore pallido di piombo raschiato che si vede guizzare sul nero dell’antracite

Luisa Perlo Simon Marsden lo annovera tra i numi tutelari. I suoi “neri racconti di dimore in decadenza e abbazie illuminate dalla luna”, scrive, “sembravano in qualche modo rispecchiare la mia ossessione per i fantasmi che li infestavano”. Per un adolescente di tendenza dark, Edgar Allan Poe è ancora oggi un fascinoso dispensatore di arcane paure. Se poi questo teenager cresce -a qualcuno capita- in due antiche hounted houses del remoto Lincolnshire, e lì, anziché darsela a gambe, matura un’inclinazione artistica verso il mistero e il soprannaturale, come nel caso di Marsden, succede che, Leica alla mano, queste paure possano diventare immagini di straordinaria potenza evocativa. Talento visionario e romantico, autore secondo D.H. Lawrence di “terribili storie dell’anima in corso di disintegrazione”, Poe ha affascinato generazioni di pittori, incisori, cineasti, fumettisti, musicisti. Nato a Boston nel 1809, e cresciuto a Richmond, in Virginia, sotto l’egida severa della famiglia Allan, avrebbe vissuto una vita randagia di soli quarant’anni, segnata dalla tragedia familiare, dalla cronica penuria economica e dai funesti effetti dell’alcool. “Genio singolare” e “meraviglioso ciarlatano” per Charles Baudelaire, che in Francia lo tradusse e chiosò, accanto a Mallarmé, garantendogli da morto la fama faticosamente rincorsa in vita, questo formidabile narratore di spettri che albergano nella mente si sarebbe trovato a suo agio nel secolo breve, a cui avrebbe fornito più d’una fonte d’ispirazione. Più che all’inventore del romanzo poliziesco (recentemente Julian Schnabel ha intitolato un suo quadro No Poe No Hitchcock), o allo scrittore di racconti il cui significato sarebbe andato ben oltre le intenzioni -bastino le letture che de L’uomo della folla e della Lettera rubata hanno dato Walter Benjamin e Jacques Lacan- pensiamo all’insuperato artefice di incubi visivi. All’autore dei Tales of the Grotesque and Arabesque, che pare alludere al linguaggio delle arti decorative, al teorico del landscape gardening del Possedimento di Arnheim e del Villino di Landor, al meno conosciuto filosofo del furniture, al minuzioso “illustratore” di interni e di architetture “tra il gotico e il saraceno” a sua volta illustrato da storici maestri come Aubrey Beardsley, Gustave Doré,

Roger Caillois, Nel cuore del fantastico, 1965

Maledetto architetto Luisa Perlo

Franco Fanelli, Tsalal, Hommage à Edgar Allan Poe, 1987, acquaforte e puntasecca su rame, 14,5x13,4 cm

Alberto Martini, Dino Battaglia, o da più attuali artisti quali il torinese Franco Fanelli, di cui qui sopra pubblichiamo una brumosa visione di Tsalal, la tetra e selvaggia isola “nera” che Poe inventò per imprigionare Arthur Gordon Pym. Pensiamo al Poe amato dai surrealisti, che fece dire ad André Breton: “Poe est surréaliste dans l’aventure”, il Poe che affascinò a più riprese René Magritte, ma anche al Poe in salsa d’Albione di Damien Hirst e di Tracey Emin, esposto di recente a Londra nella potente galleria di Jay Joplin, The White Cube. A beneficio di tutti i palati Poe ha attraversato nel frattempo la storia del cinema, dall’avanguardia al b-movie, da La Chute de la Maison Usher, di Jean Epstein, al ciclo “pop” di Roger Corman e del maiuscolo Vincent Price,

passando per i Fellini, Malle, Vadim dei Tre passi nel delirio fino ai “maghi del terrore” Dario Argento e George Romero. A un anno dal bicentenario della nascita, il suo appeal si mostra inalterato. Si annunciano celebrazioni: la più inquietante per il momento è il biopic scritto da Sylvester Stallone (ma forse si può ancora contare su Clive Barker). Nel 2003 Lou Reed ha dedicato un intero album a The Raven, il suo capolavoro poetico. C’è chi, come la sottoscritta, l’ha ascoltato dal vivo nel fossato del Castello di Otranto, assaporando l’inequivocabile omaggio a Horace Walpole, il cui fantasma, accanto a quello di Poe e di altri “gotici” colleghi aleggia in questi giorni nelle gallerie del MIAAO, si spera con intenti solo apotropaici…

Su queste due pagine si proiettano le ombre di Poe e Pound, inquietanti e ingombranti soprattutto in un giornale che si occupa di arti del disegno. Intendiamo riferirci non tanto a specifici contenuti delle loro opere o alle loro drammatiche figure, quanto, più in generale, a quel problema di imponente trasfusione di letteratura in architettura, fotografia pittura, grafica, che domina questo numero di “AfterVille” e che si “aggraverà” nelle pagine successive. Insomma è opportuno rintracciare anche altri exempla, più “disciplinari”, che legittimino da un diverso versante l’aspetto “poetico” e “narrativo” del lavoro di Cordero e Marsden, Clayette e Police. Al proposito ci pare emblematico il modello di Gaston Redon (1853-1921), fratello minore del grande pittore simbolista Odilon. Si tratta infatti di un architetto vincitore del Grand Prix de Rome del 1883, che ci è particolarmente caro perché autore della ristrutturazione del Pavillon Marsan del Louvre, inaugurato nel 1905, e da allora destinato a sede del Musée des Arts Décoratifs. Redon, dopo un brevissimo periodo di libera professione, si dedica esclusivamente ai Beni Architettonici (il Louvre, appunto, e le Tuileries), ma, al di là di questo suo ruolo illuminato e istituzionale, si esercita in un disegno notturno, laterale, anche alimentato, secondo una scheda redatta dal Musée d’Orsay che conserva reliquie del corpus della sua “opera al nero”, da un disastro economico familiare che segnò la sua esistenza: “La sua mente ne era turbata, i suoi pensieri unicamente rivolti verso idee di morte; è proprio in quel periodo che cominciò a disegnare, di sera, composizioni di una tristezza penetrante in cui l’elemento fantastico interamente romantico

si mischia a questo sentimento della morte. Con decisi tratti di penna traccia segni su un foglio bianco, facendo apparire paesaggi rocciosi, scarpate, sentieri tortuosi che si inerpicano alla conquista di montagne inaccessibili, teschi monumentali, templi immensi che spuntano fuori delle nebbie, sfere e stelle che brillano nel più nero dei cieli, alberi spogli e dai rami ricurvi...”. Anche quando uscirà da quelle angustie economiche, persevererà in un pensiero dominante, come egli stesso scrive: “In inverno, il rientro a

casa dopo il lavoro è terribile, sarà così anche oggi, me ne rendo conto dalla smania che ho la sera di guardare il mio teschio consolatore. Questo pezzo di osso mi è di grande conforto. Grazie a lui so che noi moriremo tutti. D’altro canto, però, mi sforzo di non morire completamente”. Alcuni disegni di Gaston Redon sono stati criticamente connessi a quelli di Victor Hugo: rieccoci a un grande letterato, molto amato anche da Pierre Clayette.

Gaston Redon, Paysage fantastique: monument funéraire dans la montagne, sd disegno in inchiostro nero su carta, 14,5x11,6 cm © RMN (Musée d’Orsay), foto Hervé Lewandowski


rappresentazioni pittoriche omaggio a pierre clayette

ottobre-dicembre 2008

Il membro ritrovato

Una pittura d’architettura

Una figura teatrale

Elisa Facchin

Enzo Biffi Gentili

Elisa Facchin

Pierre Chapelot, copertina di “Pianeta” numero 5, dicembre-gennaio 1964-65

Un anno fa, sul numero 0 di questo giornale, avevamo dedicato quattro pagine alle vicende della rivista “Planète” e della sua edizione italiana pubblicata qui a Torino, “Pianeta”, promossa dalle Edizioni dell’Albero di Piero Femore e Vittorio Viarengo. E ne avevamo approfondito, unici in Italia, gli aspetti grafici e artistici. Per quanto riguarda questi ultimi, nel rammentare il tentativo di una traduzione in pittura del Réalisme fantastique di Louis Pauwels e Jacques Bergier, elaborata a Parigi alla galleria Dulac nel 1963 con l’esposizione dei quadri di quattro artisti, Pierre Clayette, Monasterio, Jean Triffez e Verlinde, avevamo, di nuovo per la prima volta in Europa dopo più di un ventennio, ricostruito la notevole opera “spazialista” del belga Triffez. Avremmo voluto trattare anche di Pierre Clayette -gli altri due membri dell’equipaggio destavano, ai fini della “missione spaziale” di “AfterVille”, poco interesse- un artista rilevante proprio per la sua specializzazione in “pittura di architettura”, fantastica. Non ci eravamo riusciti. Il motivo è presto detto: Clayette (Parigi 1930-Colombes 2005) era morto, e dimenticato, da eredi e mercato. Tant’è che nel luglio di quest’anno, all’Hotel Drouot di Parigi, il suo atelier completo è stato disperso in asta, e il suo lavoro “sbranato” dagli astanti, quasi tutti mercanti, in tre ore e a poco prezzo. Il che ha consentito persino a noi, “gatti randagi”, di ricomporne una significativa parte del corpus, che ora esponiamo, e commemoriamo. Eppure Pierre Clayette fu personaggio di spicco sulla scena artistica, teatrale ed editoriale parigina, pur con una certa discontinuità qualitativa (a esempio, non era indimenticabile, rispetto alla sua pittura “di architettura”, quella “di figura”, anche in questo nei secoli fedele alla memoria del suo modello Piranesi, che secondo Gianni Contessi rivelava qualche “sciatteria” nella resa delle figure umane, non adeguate nella loro rappresentazione a quella delle architetture). Probabilmente, sulla sua reputazione gravò la pratica continua di arti applicate come la scenografia e l’illustrazione. Ma proprio a proposito di quest’ultima, e per evitare quell’accusa di “letterarietà” che si potrebbe estendere a tutti i protagonisti di questo numero di “AfterVille”, è utilissimo trascrivere una dichiarazione di Clayette resa in occasione di una delle sue ultime mostre, allestita alla Galerie Proscenium di Parigi nel 1986, con trenta quadri “rimbaudiani”, ma successivi alla sue “illustrazioni” di un’edizione nazionale delle opere del poète maudit, della quale parliamo nella prossima pagina: “Je pensai que… mieux valait peindre ma propre émotion que de prétendre vouloir expliquer un génie. C’est alors que la magie de Rimbaud opéra: ivre de trac au départ, craignant comme un funanbule de ne point parvenir au bout du fil, je m’aperçus, le livre terminé, que Rimbaud ne me tenait pas quitte pour autant: je dus continuer à peindre sous sa dictée car ses mirages toujours renouvelés se multiplient à l’infini”. È quanto gli accadrà anche nei confronti di altri grandi scrittori, da Shakespeare a Hugo, da Borges a Caillois.

Pierre Clayette, Aux frontières de l’Empire 1982-83, olio su tela, 64x100 cm (particolare) Collezione SSAA, Torino, foto Studioelle

Quella di Pierre Clayette è senza dubbio una “pittura di architettura”: basta guardarla. Ma anche leggere titoli di molti suoi quadri: Façade, Pierres, mémoires des hommes, L’architecture au féminin, Architecture rouge, Ville… Siamo quindi di fronte a un pittore-architetto. Definizione, quest’ultima, che ci rimanda agli studi sull’argomento di Gianni Contessi, ordinario di Storia dell’Arte Contemporanea presso il Dipartimento Arte Musica Spettacolo della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Torino, quindi a noi vicino. Contessi, sin da uno dei suoi primi libri (Architetti-pittori e pittoriarchitetti. Da Giotto all’età contemporanea, Edizioni Dedalo, Bari 1985) ha posto una questione fondamentale: l’architettura dipinta “non potrà forse attingere la dignità di un vero e proprio linguaggio, parlare una lingua che non è esattamente quella della pittura ma neppure quella dell’architettura?”. Certamente: ma ogni volta che si tende ad assegnare la qualifica di “genere” autonomo a espressioni artistiche borderline si rischia l’immediata degradazione a “sotto-genere”, per quella persistenza tendenza plurisecolare a istituire un “paragone”, gerarchizzante, tra le arti e gli artisti (e tra questi, i più sospetti sono gli eclettici e gli “indisciplinati” come Clayette). Nello stesso volume, Contessi afferma anche che i paesaggi e le “vedute” dei suoi pittori-architetti, ma anche architetti-pittori come Aldo Rossi, Arduino Cantafora, Raimund Abraham, “vivono in una dimensione metastorica”. Rieccoci, non soltanto a Clayette, ma a tutti i protagonisti di questo numero di “AfterVille”. Ancora, in altra occasione si mostra ben consapevole del contenuto “letterario” che può essere imputato a questo linguag-

gio, ritenendo tuttavia non solo accettabile, ma assolutamente difendibile tale caratteristica, “perché è proprio nel suo tradursi in pittura che risiede la sostanza narrativa di un’architettura che si rinnova procedendo all’indietro. Che cosa è più ‘narrativo’ di una architettura fattasi pittura per narrare il suo oggetto d’amore e conoscenza, vale a dire, ancora, l’architettura, la Cosa Architettonica? Corollario di un’affermazione del genere sarà che necessariamente una pittura di architettura, ovvero una pratica narrativa, dovrà essere una pittura tradizionale, figurativa, referenziale, comprensibile. La pittura dei peintres philosophes -tali oggi sono gli artefici della pittura di architettura- non può sfuggire ai nodi della rappresentazione” (G. Contessi, Il Saggio. L’architettura e le arti, Campanotto Editore, Pasian di Prato, Udine 1997). Infine, altrove si pone il problema di rintracciare il capostipite dell’architettura dipinta o “d’invenzione”, e compie la sua scelta, che ampiamente sostiene in un altro bel libro (G. Contessi, Scritture disegnate. Arte, architettura e didattica da Piranesi a Ruskin, Edizioni Dedalo, Bari 2000), dove sin dal titolo si prefigura l’elezione dell’architetto veneziano, perché “sono appunto le imponenti raccolte di incisioni di Piranesi a costituire l’antefatto maggiormente probante di tutte le declinazioni di un’architettura disegnata e dipinta durante gli ultimi due secoli”. Quel Piranesi che era uno dei miti di “Planète” e, come vedremo, di Clayette, ma anche pietra di paragone ineliminabile per ogni grande studioso d’arte visionaria e fantastica: è scelto come “illustratore” da Focillon per la sua Estetica dei visionari, ed è comunque necessaria referenza anche del Caillois de Nel

cuore del fantastico, nonostante il suo rifuggire da “un fantastico dichiarato” e il ricercare “un fantastico insidioso”, più elusivo, gemmato quasi malgrado il suo autore. Ma non è il solo Piranesi a rappresentare un’auctoritas storica per Pierre Clayette. Essendo francese, tra i suoi numi tutelari architetti-pittori iscriveva Gaston Redon al quale si è già accennato in queste pagine, e un altro inquieto personaggio come François Garas, che decise di non esercitare proprio in nome di un primato dell’immaginario sulla costruzione (quindi di andare beyond building, direbbe qualcuno oggi), ma in questo riportandoci ancora una volta, l’ultima, alla lettura di Contessi di Piranesi come “l’artista che stabilisce i limiti culturali dell’architettura costruita”. Anche oltre Manica Clayette trovò suggestivi, “fantastici”, modelli, come quello di John Martin, l’illustratore del Paradiso perduto di Milton, ammiratissimo dai romantici francesi (ma Martin fu anche architetto e urbanista vero, addirittura progettista “razionale” di infrastrutture, quanto di più lontano dalla “delirante”, indimenticabile, corrusca sua rappresentazione del Pandemonium). Clayette si trovò a un certo punto anche nell’occasione di dover “rappresentare” una città reale, esistente, la sua, accettando di illustrare i Paris fantasmes (Editions Graphedis, Pontoise 1989) del suo amico attore Jean Le Poulain. Che tuttavia, anch’egli “insoucieux de la fidelité historique ou de la verité chronologique”, lo invitò a non tradire i caratteri della sua architettura dipinta: “Eclaire tout cela avec des ciels fantastiques, ne sois fidèle ni aux couleurs, ni aux lumieres, ni aux détails, moins encore à la verité historique, ne copie jamais les apparences…”. E così fu.

Pierre Clayette, Le songe des apparences, 1965, olio su tela, 84x100 cm, Collezione SSAA, Torino, foto Studioelle

Il cugino transalpino Gianni Contessi, nel suo Il Saggio. L’architettura e le arti (Campanotto Editore, Udine 1997) dichiara che una attitudine al disegno di architettura “sistematica e consapevole, culturalmente agguerrita, rimane cosa eminentemente italiana”. Affermato questo primato nazionale, ci avverte che “bisognerà pur dire che ci sono situa-

zioni in cui il disegno si dimentica di sé stesso, del suo ruolo speculativo e conoscitivo, per tradursi in fatto eminentemente pittorico e quasi extradisciplinare. E allora, a questo punto, potrebbe sembrare logico il chiamare in causa le opere di quei pittori ‘topologici’ -da Escher a Fabrizio Clerici, da Lucio Saffaro ad Achille Perilli- che, sebbene cari a qualche architetto cultore di scienza del disegno, in questa sede preferiamo lasciare da parte”. Noi non possiamo, almeno per quanto concerne Clerici e Saffaro, seppur con diverse motivazioni. In questa nota iniziamo a celebrare Fabrizio Clerici (1913-1993), esponendo almeno due buone ragioni. La

Pierre Clayette, Arsenal de l’imaginaire 1972, olio su tela, 60x74 cm Collezione SSAA, Torino, foto Studioelle

Fabrizio Clerici, La barca solare, 1967 olio su tavola, in Fabrizio Clerici Opere 1937-1992, Sellerio, Palermo 2007

Chiara Bardassa

prima, fondamentale, riguarda un’impressionante contiguità per quanto soprattutto riguarda la scelta di molti soggetti dei suoi quadri e dei suoi disegni, e per qualche strutturazione formale, con l’opera di Pierre Clayette (inoltre è molto significativa la comune pratica della scenografia e dell’illustrazione). Basti, a suggestiva prova dell’ apparentamento, una selezione e trascrizione dei principali temi e delle simbologie dell’architetto-artista italiano elencati sul sito ufficiale dell’Archivio Clerici: Reperti e città sepolte, Processi e labirinti, Miraggi e deserti, Sacro e profano, Rocce, minerali e fossili, La barca solare, Distanza in stanza, Esplosioni e levitazioni, Cieli e vapori, Iconografie escatologiche, Archeologie domestiche, Lo specchio, Pietre di Babele. Seconda ragione: in occasione della più recente antologica a lui dedicata (Fabrizio Clerici Opere 1937-1992, Convento del Carmine, Marsala, 7 luglio-28 ottobre 2007), il curatore Sergio Troisi ha tra l’altro proposto analogie di alcuni dei motivi ispiratori di Clerici con sequenze di celebri film di fantascienza degli anni sessanta e settanta (un genere di connessione che per noi di “AfterVille” è specifica “missione”).

“Je montais La Contessa de Maurice Drouon au Théâtre de Paris. Je cherchais un décorateur. Anouilh me dit un jour ‘Je connais un jeune sorcier… il est le peintre du rêve eveillé, mais prenez garde, il est des démons que l’on exorcise pas’. Il avait raison. Je suis envouté… dans mes théâtres, sur scène, dans ma maison, sur mes murs, à mes plafonds, Clayette (c’est le nom du démon), me cerne, m’enrobe, capture chacun des mes regards, je m’endors sur l’aile du merveilleux…”. È una testimonianza di Jean Le Poulain, pubblicata nel programma di sala di un rappresentazione degli anni settanta dell’Amphitryon 38 di Jean Giraudoux. Le Poulain, grande e controverso attore tragicomico, era un “fan” di Clayette, come dichiara anche nella dedica autografa di una copia del suo libro autobiografico Je rirai le dernier (Robert Laffont, Parigi 1977), conservata al MIAAO. Questo entusiasmo per le scenografie e dei costumi del nostro non rappresenta tuttavia solo l’occasio-

Pierre Clayette, A l’écoute du ciel 1975, olio su tela, 100x81 cm Collezione SSAA, Torino, foto Studioelle

nale esaltazione di un “eccentrico”. Infatti sin dal 1958 Maurice Béjart aveva chiamato un giovanissimo Clayette a collaborare al suo balletto Juliette, lanciandolo sulla scena teatrale dove si affermò successivamente con lavori, tra gli altri, per Marcel Achard, Gabriel Dussurget, Pierre Lacotte, Jean-François Noël, André Roussin, tutte tappe di un suo progetto complessivo ed eccessivo, che negli anni ottanta si chiamò Opéra barocco.

Piranesi anticipa in tutto; anticipa sé stesso Henri Focillon, Estetica dei visionari, 1926

Piranesiana Enzo Biffi Gentili Un po’ enfatici lo sono sempre, i francesi. A esempio Jean-Claude Guilbert, che fu redattore capo di “Planète”, non prova imbarazzo a registrare, e sostanzialmente a condividere, l’esclamazione di alcuni dei primi amatori dell’artista al quale dedichiamo queste pagine: “Pierre Clayette, c’est Piranèse!”. Cercando poi di argomentare un po’ più razionalmente: “Si les comparaisons sont souvent suspectes, celle là ne peut amoindrir l’univers fabuleux que créa Clayette. Ne dit-on pas du grand maître italien qu’il fit autant appel à l’imagination qu’à l’archéologie. De meme, la representation de perspectives colossales sur lesquelles plane le mystère s’apparente à l’oeuvre de Clayette. Création pour création, construction pour construction, Clayette est de ces artistes bâtisseurs de lieux…” (J.C. Guilbert, Le réalisme fantastique, Opta, Parigi 1972). Proviamo a raffreddare ulteriormente questi entusiasmi, tuttavia rilevando alcuni indubbi influssi dell’opera dell’architetto veneziano, ricorrendo a un’acuta analisi di Gianni Contessi (Scritture disegnate. Arte, architettura e didattica da Piranesi a Ruskin, Edizioni Dedalo, Bari 2000) sul lavoro del pittore francese. In primo luogo, se è vero che “è proprio la forte impronta scenografica a costituire il marchio dell’esordio piranesiano”, è evidente che scenografi professionisti come Clayette -e Fabrizio Clerici, al quale accenniamo a fianco- riconoscano e dichiarino quell’altissima fonte. Così come, nel loro indubbio virtuosismo si propongano di emulare l’“efferata attitudine grafica” del Maestro, che peraltro è anche exemplum per le prove, magistrali sino all’esibizionismo, di un più giovane e celebrato grafico francese, Eric Desmazières. Ma, oltre le discipline e le tecniche, entrando più specificatamente nelle tematiche, nell’archeologia trasfigurata, “di fantasia” di Clayette, ancora una volta è legittimo supporre l’in-

fluenza della “dimensione poetica del sublime” dei fogli piranesiani, che “non attiene soltanto al rapporto con una storia e con delle vestigia grandiose, ma proprio ad un diverso approccio con il reperto archeologico che, finalmente, viene riprodotto secondo le modalità di un realismo allucinato” (il corsivo è nostro, per segnalare un suo ammissibile riverbero nel realismo fantastico). E ancora, più in generale, la “manipolazione delle immagini, nell’accostamento di particolari anche incongrui” nella coniugazione di “motivi eterogenei che danno vita ad una nuova, eclettica unità del disegno delle superfici…” si rintraccia quell’aspetto “letterario” di Piranesi di cui Clayette si approprierà sino a renderlo quasi dominante quando deciderà, come vedremo più dettagliatamente in seguito, di illustrare -o di emulare graficamente e pittoricamente- opere di letterati come Rimbaud, Borges, Caillois e molti altri, a partire dal suo felicissimo debutto, nel 1964, in un’edizione del Faust di Goethe. Il “letterario” non è sempre tuttavia un disvalore, se, sempre per Contessi, una caratteristica delle creazioni piranesiane era proprio “la loro forte misura narrativa”, la capacità “di conferire alla rappresentazione di luoghi ed edifici la complessità compositiva e narrativa propria del racconto storico o letterario”. Concludendo, in questo un po’ strumentale e continuo si parva licet componere magnis, resta una questione cruciale: se può applicare, a pronipotini come il Clayette artiste-bâtisseur, la definizione di “progettista senza architettura” che Contessi dà di Piranesi. Non esageriamo (anche se Clayette realizzò poliedri lignei come prove di strutturazione tridimensionale dello spazio, affascinato da quei favolosi artefatti in legno della Geometria et perspectiva di Lorenz Stoer che Roger Caillois avrebbe messo al primo posto nella sua classifica del “fantastico”).

Pierre Clayette, Structure magique, 1982 olio su tela, 74x50 cm, Collezione SSAA Torino, foto Studioelle

Giovanni Battista Piranesi, Carcere VII da Invenzioni Capric. di Carceri all’acquaforte datte in luce da Giovanni Buzard in Roma Mercante al Corso, 1749-50 55x41 cm (particolare)


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rappresentazioni pittoriche omaggio a pierre clayette

Illuminazioni metropolitane

Le ultime stelle

Maurice Lesna

Elisa Facchin

Roger Caillois Nel cuore del fantastico contesta l’accusa rivolta a ogni arte fantastica, quindi anche a certa architettura dipinta: “Questo tipo di pittura… è necessariamente discorsiva o, come si dice, letteraria, nel senso che si propone visibilmente di narrare qualcosa. Glielo si rimprovera, senza peraltro rendersi conto… che la tendenza a lanciare un messaggio attraverso figure si concilia con qualità propriamente pittoriche quanto un racconto simbolico con qualità stilistiche”. Poi afferma che Bellini non è pittore meno grande nelle sue allegorie, così come Kafka non si perde come scrittore nei meandri del suo Castello. Neppure, aggiungiamo, Rimbaud è meno poeta quando nelle Illuminations crea le simboliche visioni di Villes, Les Ponts, Promontoire… Torniamo al proposito a Pierre Clayette: nel 1986 gli vengono affidate le illuminations (nel significato inglese del termine) di una raffinata edizione dell’opera di Rimbaud (Arthur Rimbaud, Oeuvres poétiques, a cura di Cecil Arthur Hackett, Lettres Françaises, Collection de l’Imprimerie Nationale, Paris 1986). Scelta per certi versi sapiente, per la necessità di restituzione di quel

vortice spazio-temporale nella rappresentazione del paesaggio che Rimbaud sovente produce, come in Promontoire: “…de grands canaux de Carthage et des Embankments d’une Venise louche; de molles eruptions d’Etnas et des crevasses de fleurs et d’eaux des glaciers; des lavoirs entourés de peupliers d’Allemagne; des talus de parcs singuliers penchant des têtes d’Arbre du Japon; le façades circulaires des ‘Royal’ ou des ‘Grand’ (Hotel, n.d.r.) de Scarbro’ ou de Brooklin; et leur railways flanquent, creusent, surplombent les dispositions de cet Hôtel, choisies dans l’histoire des plus élégantes et des plus colossales constructions de l’Italie, de l’Amérique et de l’Asie…”. Ma, commenta il curatore dell’opera illustrata da Clayette, tutte “le città immaginarie di questo poema sono una strabiliante sintesi di leggende e di miti, di elementi concreti e astratti, di cose normalmente incompatibili, di oggetti estratti da diversi paesi e diverse epoche, di rumori e movimenti inaspettati. Sono delle città dove, attraverso un artificio sapiente, tutte le nostre prospettive e tutte le nostre categorie sono ribaltate, e che si oppongono alla ‘barbarie

moderna’ delle nostre metropoli, così come vengono descritte in Ville, Villes e Métropolitain”. Si è molto discusso sulle fonti d’ispirazione delle visioni urbane di Rimbaud (una accurata analisi dei possibili riferimenti, reali o d’invenzione, di Rimbaud è stata compiuta da Elisa Mariani Travi nel suo Baudelaire, Rimbaud e l’architettura, Edizioni Dedalo,

Bari 1982). Forse aveva avuto modo di ammirare il “capriccio” architettonico di Charles Robert Cockerell The Professor’s Dream del 1848, un hydiosincratic landscape composto di templi di Mammone, torri di Babele, cattedrali fiorentine, romane, londinesi. Di certo aveva visitato la Londra vittoriana, luogo cruciale di questo numero di “AfterVille”.

a destra Pierre Clayette, Ville fantastique (Hommage à Rimbaud), sd olio su tela, 100x65 cm, Collezione SSAA, Torino, foto Studioelle Pierre Clayette, Antiporta per Arthur Rimbaud, Oeuvres poétiques Lettres Françaises, Collection de l’Imprimerie Nationale, Paris 1986

Tra le mostre della seconda edizione del progetto Dioce, intitolata Ecbatana, allestita da Toni Cordero a San Filippo Neri in Torino nel 1993, una era intitolata Le ultime stelle, curata da una giovane che sarebbe poi divenuta una notevole critica, e una splendida quarantenne, Giorgina Bertolino. Tra gli invitati comparivano Achille Perilli e Lucio Saffaro, di nuovo nomi d’artisti che -con quello di Fabrizio Clerici- Gianni Contessi aveva registrato come molto cari a diversi architetti. L’iscrizione dello scomparso pittore-scienziato Lucio Saffaro (1929-1998) tra i pittori-architetti può essere ben motivata seguendo un’acuta lettura di Sergio Marinelli dell’Opus CCLIV o Definizione dell’immagine conservata al MIAAO: “La finestra è un elemento ritornante in Saffaro e certo segna un ideale collegamento con la civiltà figurativa rinascimentale… Contrariamente però alla classica finestra albertiana essa è evidenziata come cornice, sospesa quasi sempre nel vuoto e quindi incapace di garantire la verosimiglianza delle forme incluse, le quali, tramite i consueti meccanismi dell’ambiguità prospettica, oscillano davanti e dietro ad essa, eludendo sempre una esatta collocazione nello spazio. Il discorso si fa ancora più preciso nell’ultimo Opus CCLIV giocato unicamente sul rapporto tra una serie di cornici-finestre inglobantisi e il vuoto come unico elemento inquadrato, attorno al quale esse, persa ogni possibilità di oggettivizzazione, sono idealmente moltiplicabili all’infinito” (S. Marinelli, Spazio, infinito e oltre, in Saffaro. Grafica e pittura, catalogo mostra Museo di Castelvecchio, Verona 1979). Attenzione: un interprete autorisé del realismo fantastico pauwelsiano, Marc Thivolet, sostiene che osservando le Prigioni del Piranesi si può immaginare che “une porte s’ouvre sur… une autre porte, qui, elle-même, s’ouvre sur une autre porte, qui, elle-même…”. E poi ricorda René Daumal che, intossicato dal tetracloruro di carbonio, aveva paragonato le sue visioni ossessivamente iterate a un manifesto pubblicitario di un aperitivo nel quale “deux garçons

Geometrie Babeliche

Il mistero del Nautilus

Maurice Lesna

Luisa Perlo

Sul numero 10 del maggio-giugno 1963 di “Planète” è pubblicata La bibliothèque de Babel di Jorge Luis Borges, illustrata da Pierre Clayette (in Francia, e in Europa, Borges era stato introdotto da Roger Caillois, anch’egli tra i collaboratori della prima serie della rivista: sul numero 5 del giugno-luglio-agosto del 1962 aveva tradotto con Laure Guille un altro testo borgesiano, Les deux qui révèrent). La biblioteca di Babele di Borges induce e sfida da sempre a una sua “rappresentazione”, artistica e architettonica (ma anche scientifica, a una verifica informatica ). La ragione è evidente leggendone un brano: “L’universo (che altri chiama la Biblioteca) si compone d’un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie esagonali... Da qualsiasi esagono si vedono i piani superiori e inferiori, interminabilmente. La distribuzione degli oggetti nelle gallerie è invariabile. Venticinque vasti scaffali, in ragione di cinque per lato, coprono tutti i lati meno uno; la loro altezza, che è quella stessa di ciascun piano, non supera di molto quella d’una biblioteca normale. Il lato libero dà su un angusto corridoio che porta a un’altra galleria,

identica alla prima e a tutte. A destra e a sinistra del corridoio vi sono due gabinetti minuscoli. (…) Di qui passa la scala spirale, che s’inabissa e s’innalza nel remoto. Nel corridoio è uno specchio, che fedelmente duplica le apparenze. Gli uomini sogliono inferire da questo specchio che la Biblioteca non è infinita (…) io preferisco sognare che queste superfici argentate figurino e promettano l’infinito. (…) A ciascuna parete di ciascun esagono corrispondono cinque scaffali; ciascuno scaffale contiene trentadue libri di formato uniforme; ciascun libro è di quattrocentodieci pagine; ciascuna pagina, di quaranta righe; ciascuna riga, di quaranta lettere di colore nero”. Pierre Clayette, che sullo stesso numero di “Planète” compariva tra i giovani Quatre peintres du réalisme fantastique patrocinati da Louis Pauwels e Pierre Chapelot, non si limitò a illustrare in quell’unica occasione, su commissione, la Babele di Borges, ma ne iniziò l’interrogazione sistematica con opere autonome stupefacenti. Ossessionato non solo dalla vertigine geometrica e spaziale di quel testo, ma dalla sua ivresse métaphysique.

Il retaggio nel fumetto

Pierre Clayette, La Bibliothèque de Babel (Hommage à Borges), prima metà anni sessanta, olio su tela, 60x50 cm Collezione privata, deposito SSAA, Torino foto Studioelle

La Biblioteca è una sfera il cui centro esatto è qualsiasi esagono e la cui circonferenza è inaccessibile

Jorge Luis Borges La biblioteca di Babele, 1941

Undesign La spregiudicatezza intellettuale del milieu riunito intorno alla rivista “Planète” era straordinaria, ed era dimostrata anche dal fatto di non essersi mai esercitato in quel vecchio, insopportabile “paragone” tra le arti, gerarchizzante e discriminatorio, che in nuove forme tuttora è pateticamente praticato. Così, quando si trattò di comporre un elenco “ufficiale” di pittori dell’immaginario agli inizi degli anni settanta, Jean-Claude Guilbert non esitò a iscrivere tra gli altri accanto a Max Ernst, Delvaux, Magritte, Dalí, uno tra i partecipanti alla prima mostra del réalisme fantastique alla Galleria Dulac di Parigi del 1963

come il nostro Pierre Clayette, André Beguin e anche un famoso autore di bandes dessinées, Philippe Druillet, e con “pari dignità”, come oggi qualcuno usa dire (Druillet, che aveva già iniziato a “rappresentare” città e architetture “fantastiche” -la specialità di Clayettema in modalità più gotiche e allucinanti redigerà poi progetti “reali”: per la stazione metro della Villette, per facciate di fabbricati HLM, di edilizia economica e popolare, verificando così una tesi che ci è cara: l’immaginazione può essere in relazione, e non in contraddizione, con la professione). Ma è in altri disegni di maestri del fumetto che si possono individuare maggiori interferenze formali con il lavoro di Clayette, come nell’im-

de café portent des bouteilles sur les étiquettes desquelles deux garçons de café portent des bouteilles sur les étiquettes desquelles…”. Per concludere che proprio les métamorphoses de la répétition rappresenterebbero la “cifra” del fantastico (M. Thivolet, Préface, in Le réalisme fantastique, Opta, Paris 1972). Lucio Saffaro, Definizione dell’immagine (Opus CCLIV), 1978 olio su tela, 80x60 cm Collezione SSAA, Torino, foto Studioelle Lucio Saffaro, L’Ipotesi di Micene 1969, olio su tela, 130x110 cm Collezione privata, Torino, foto Studioelle

Tra i suoi esempi di fantastico non “istituzionalizzato”, Roger Caillois propose gli emblemi alchemici: gli pareva fossero “figure che pretendono di essere qualcosa di più che semplici illustrazioni”. Non a caso decise di comporre un album a quattro mani con qualcuno che fosse qualcosa di più di un illustratore: Pierre Clayette (Caillos, Clayette, Songes de pierres, Atelier du Prisme, Paris 1984). Ma forse altrove troviamo una “emblematica”, decisiva prova, in un lavoro “autonomo” di Clayette che riproduciamo, sempre illuminato da un testo di Caillois d’argomento “minerale”, contenuto nel suo Cases d’un échiquier (Gallimard, Paris 1970), che parzialmente trascriviamo: “Un’assonometria d’argento brilla ormai nell’arenaria o nella silice. Essa vi iscrive in un’estensione minuscola il presagio della turbina e allo stesso tempo l’espansione delle nebulose. Simile impronta vale forse il capriccio della moda, la fantasia fuggitiva di un passante ispirato. Qui e là, il guscio fu spezzato prima di divenire sostanza inalterabile; l’effigie che resiste alle

Pierre Clayette, Pour le spectacle du monde (Hommage à Roger Caillois), 1982 olio su tela, 50x61 cm Collezione SSAA, Torino, foto Studioelle

magine che riproduciamo a fianco, vertiginosa fuga prospettica tra pietrose pareti verso una delle Cités obscures di François Schuiten e Benoît Peeters, geniali creatori di fantasy architectures. Siamo a un punto di svolta di questo numero di “AfterVille”. Gli album de Les cités obscures sono notoriamente elencati tra i testi fondamentali dello Steampunk, “sottocultura” giovanile purtroppo poco frequentata in Italia (inoltre, tornando a Clayette e a suoi influssi occulti su nuovi media artistici, potremmo anche stabilire omografie tra sue tipiche soluzioni compositive -ci riferiamo alle architetture “rovesciate”- e alcune opere “autonome” dello scenografo americano Ryan Church, tra l’altro Concept Design Supervisor di Star Wars Episode 2: Attack of the Clones ed Episode 3: Revenge of the Sith e Senior Art Director per alcuni parti di War of the Worlds di Spielberg). Insomma, stiamo per aprire, sulle prossime pagine, una questione, fondamentale, di eredità culturale.

François Schuiten e Benoît Peeters Urbicande, anni ottanta, illustrazione dalla serie di graphic novel Les Cités obscures, Edizioni Casterman, Tournai

età attesta ancora, al di là della geologia, la precarietà della vita. Illustra allo stesso tempo la genesi dei mondi e i macchinari dell’industria, la natura smisurata e il potere dell’uomo sulla natura smisurata. Frammenti vaganti, sparsi nella pietra, perpetuano tuttavia la primitiva e deperibile corazza, riparo derisorio che enormi pressioni distrussero. Hanno compiuto la loro opera, permettendo alla cifra di sorgere” (Roger Caillois, Cifra, traduzione di Agnese Silvestri, in Roger Caillois, numero 23 della rivista “Riga”, a cura di Ugo M. Olivieri, Marcos y Marcos, Milano 2004). L’opera di Clayette di questa rotazione turbinosa della sfera celeste e della camma è di certo perfetta illustrazione, ma anche di qualcosa di più: di un Girone.


rappresentazioni multimediali omaggio a aurélien police

Distopia Steampunk

Urbanisme et décadence

Tommaso Delmastro

Elisa Facchin intervista Aurélien Police

Aurélien Police, Block A, 2002, stampa fine art da file digitale su carta cotone in esemplare unico, 30x20 cm (particolare), Collezione SSAA, Torino sotto Aurélien Police, Industrial Elfic House 2004, stampa fine art da file digitale su carta cotone in esemplare unico, 60x30 cm (particolare) Collezione SSAA, Torino

Come sarebbe stato il passato se il futuro si fosse manifestato prima? Se “Tomorrow comes today” (il motto di AfterVille) diventasse “Tomorrow comes yesterday”? Immaginiamo ucronicamente, come nella letteratura e nelle arti Steampunk, una storia alternativa, una fantascienza preelettrica e pre-elettronica, nella quale i macchinari sono ancora azionati dalla forza motrice del vapore (steam in inglese), i computer sono completamente analogici, oppure colossali dispositivi magnetici sono in grado di modificare l’orbita lunare. Mentre i cieli fumosi delle capitali europee, in piena rivoluzione industriale, sono attraversati da dirigibili e palloni aerostatici, una folla curiosa invade i padiglioni in ghisa e cristallo delle prime esposizioni universali. Ma non c’è alcuna fiducia in magnifiche sorti progressive: lo Steampunk è “tipicamente distopico”, e sovente dal romanzo scientifico di età vittoriana preleva tinte fosche che lo conducono dal noir fino al pulp, con suggestioni occultistiche, gotiche e lovecraftiane. Così le metropoli fuligginose, culle della modernità e focolai di un sentimento di rivolta verso un processo di industrializzazione violento e anestetico, diventano teatri ideali per una diversa e più sofisticata messa in scena delle tematiche punk di rigetto e conflitto sociale. Per questo c’è una crescente tendenza a fare dello Steampunk uno stile di vita non solo in settori del movimento Punk, ma anche di quello gotico e Rivet. Un vero e proprio movimento controculturale, i cui valori e modelli di comportamento sono opposti a quelli di un paradigma condiviso dai più: un’area creativa giovanile alternativa, contrapposta alla cultura -e alla sottocultura- ufficiale. Agli inizi dell’Ottocento Chateaubriand scrisse nel Genio del Cristianesimo che tutti gli uomini provano una segreta attrazione per le rovine. Il fascino esercitato dai resti imponenti e solenni, dalle vestigia e dai detriti, proprio come quelli generati dal tripudio meccanico di un passato a vapore che non è mai diventato futuro, è alla base di una nuova estetica del sublime. La rovina, anche quella industriale, diviene forma simbolica, espressione di una futura memoria, figura di un tempo ciclico, che si ripete e rigenera: la rovina appare morta, ma è una “morta vivente”. È il pensiero dominante di un nuovo dandysmo giovanile e metropolitano, purtroppo poco presente in Italia, qui ben illustrato dalla nostra guest star, il ventinovenne francese Aurélien Police.

Esistono, per fortuna, nuovi giovani dandies. Nostalgici, sprezzanti la realtà, mossi dalla certezza che il mondo in cui viviamo non sia sempre come appare, dal sospetto che esista una storia alternativa, e determinati a indagarla. “Poeti veggenti” un po’ decadenti, e per tutti, uno: Aurélien Police, illustratore digitale “fantastico”, disegnatore di scenari urbani che paiono obsoleti, ma che in realtà sono terribilmente attuali. Percepita la loro aura perturbante, dovremmo probabilmente preoccuparci... Aurélien, le tue città sono così desolate… Vuote di uomini, le mie città sono fatte di edifici: architetture industriali imponenti e cupe, ingrigite da strati di polvere, unica traccia di una “precedente” attività umana. Precedente, dunque scomparsa? Le tue opere sono come istantanee di una catastrofe? Si. Rappresento ciò che resta di epoche passate, finite. Ho sempre subito il fascino delle rovine, delle carcasse di pietre come testimonianze di imperi crollati e lo traduco disegnando maiuscoli edifici industriali, un tempo risonanti di rumori di macchine e ora silenti, monumenti al desiderio di dominazione di una società estinta. La società industriale, già. Siamo tutti morti e non ce ne siamo neppure accorti? Forse. Probabilmente questo è il nostro vero destino. Nonostante attinga a un immaginario vittoriano, nei colori, nella scelta dei soggetti, in realtà le mie illustrazioni sono anche uno specchio della società attuale. È un modo sfalsato di dipingere la nostra quotidianità; d’altra parte molti comportamenti dell’uomo moderno tendono all’autodistruzione e all’incoscienza e il rischio è che si perda il controllo, che la tecnologia ci si ritorca contro. E la soluzione qual è, il ritorno al passato? Beh, ora che siamo molto vicini a conoscere gli esiti di un percorso, possiamo provare a immaginare come sarebbe stata la storia se gli eventi ne avessero seguito un altro. Chissà “come sarebbe stato il passato se il futuro fosse accaduto prima”… Molto Steampunk. Quindi il tuo attingere all’immaginario della fine del XIX secolo non è casuale. In effetti lo Steampunk è il filone narrativo e artistico in cui sento di potermi inserire. Amo riproporre, a modo mio, molte “figure” proprie di quell’universo, specie quelle dalle tinte più fosche: macchine azionate dall’energia del vapore, enormi e assordanti e minacciose, capaci di prendere il sopravvento sull’uomo, o esseri ibridi, fatti di carne e protesi metalliche, creature deformi, individui anonimi, senza volto, che si muovono sofferenti in un mondo che per loro non ha occhi. Spesso illustro il risultato di “trapianti” su persone o su edifici: monto cornetti acustici al posto delle orecchie, ingranaggi al posto delle braccia, innesto ciminiere su castelli di montagna come in IncastleDus, antenne e tubazioni su palazzi da fiaba come in Industrial Elfic House, caldaie a vapore come fondamenta per palazzine haussmaniane come in Block A… Non solo i soggetti delle tue illustrazioni, ma anche le tecniche che usi sono ibride… Credo che per ogni artista le tematiche e le tecniche siano indissolubilmente legate. Lo Steampunk e l’estetica del bricolage vanno di pari passo, così anche io mi sento un moderno artista bricoleur, che usa

i mezzi che ha a disposizione, “in casa”, per creare le sue opere. Le mie materie prime sono le fotografie, i disegni, le scansioni di texture e poi con Photoshop assemblo il tutto. Molto spesso il processo nasce da una fotografia, che mi suggerisce una forma e poi lavoro di ritocchi, di giustapposizioni, di aggiunte e sottrazioni, di découpages: un’operazione creativa e “ri-creativa”. Macchina fotografica alla mano, considerato che non hai la patente e viaggi poco, questo significa che Digione, la città in cui vivi, è per te la fonte prima di ispirazione… Sicuramente, anche perché, per quanto Digione sia una piccola città, la sua architettura è varia: si incontrano edifici di tipo haussmaniano accanto ad altri in stile Art Nouveau ad altri ancora di epoca medievale. Poi è ricca di angoli nascosti da esplorare e quello che non vedo lo posso immaginare… In generale comunque gli edifici delle città nelle quali ho vissuto sono per me fonte di ispirazione. Prendiamo a esempio l’opera L’île des morts (in copertina di questo numero, n.d.r.). Da ragazzo vivevo coi miei genitori all’ultimo piano di un palazzo che era la sede degli uffici direzionali di Telecom France: di notte c’eravamo solo noi e il portinaio. Nel silenzio più totale, la sera mi affacciavo al balcone e potevo scorgere nettamente i bracci aggettanti dell’edificio che si stagliavano come scogliere di un’isola sperduta in un oceano d’asfalto nero. Boecklin era dietro l’angolo… A livello più disciplinare, stilistico, quali sono i tuoi riferimenti architettonici? In primo luogo Antoni Gaudí. Le forme delle sue opere sono talmente “altre”, talmente differenti da quelle dell’epoca, e per certi versi anche da quelle attuali, che non possono non colpire, non stregare. Ma è soprattutto il trattamento meticoloso e originale dedicato a ogni dettaglio dei suoi progetti che mi affascina: dalla facciata ai meandri più nascosti dell’edificio, dai balconi alle maniglie delle porte, tutto è permeato dal suo stile, tutto è coerentemente studiato. Per estensione dunque, amo moltissimo l’Art Nouveau, in tutte le sue espressioni. Mi colpisce la possibilità di plasmare materiali come il ferro, il legno, il cemento restituendo loro una forma organica: è come se la natura fosse infusa nella materia, che all’istante e di conseguenza prende vita. E dal punto di vista artistico -e letterario, visto che tu hai compiuto studi umanistici- di chi ti senti nipotino? Sicuramente degli espressionisti, dei surrealisti e di pittori come Hieronymus Bosch o, fra gli illustratori, di Aubrey Beardsley. Per quanto riguarda le tecniche invece mi rifaccio a illustratori contemporanei “d’alta statura”: Dave McKean, Ashley Wood, Kent Williams o Benjamin Carré. Per quando riguarda le referenze letterarie, ho a lungo “frequentato” gli autori anglosassoni dell’Ottocento: Edgar Allan Poe, Mary Shelley, Arthur Conan Doyle, Bram Stoker, Oscar Wilde. E recentemente ho letto molti romanzi di fantascienza: da Philip K. Dick a Neil Gaiman, da Dan Simmons a Terry Pratchett. Credo si possa tranquillamente affermare che le mie prime passioni letterarie hanno segnato il mio stile e che le mie letture attuali, collegate ai problemi della società contemporanea, gli hanno dato un significato più complesso. Sei tanto dandy…

Dandy Police Elisa Facchin

Aurélien Police, SelfClockPortrait 2005, stampa fine art da file digitale su carta cotone in esemplare unico 80x50 cm

Aurélien Police, IncastleDus, 2004, stampa fine art da file digitale su carta cotone in esemplare unico, 60x40 cm, Collezione SSAA, Torino Aurélien Police, Urbs, 2003, stampa fine art da file digitale su carta cotone in esemplare unico, 45x80 cm, Collezione SSAA, Torino

L’industria terrifica Alessandra Paracchi Il mondo è sempre stato diviso a metà, nord e sud, ricchi e poveri, sopra e sotto, pro e contro. Anche la società inglese di fine Ottocento, vista attraverso gli occhi di Herbert George Wells ne La macchina del tempo, era divisa in due: da un lato gli Eloi, fragili esseri con una vita di loisir; dall’altro i Morlock, dannati che abitano le viscere della terra, bestie da macello, fuori dalle tane solo la notte. Questo per Wells fu l’inizio, reale e figurato, della doppia umanità dell’era vittoriana, età di autodisciplina e culto del lavoro che produceva però l’immagine specchiata di una società oscura, relegata in architetture enormi, disumane: fauci aperte pronte a inghiottirla. Le città diventarono presto immagini di una sola Coketown. Città di “macchinari e di alte ciminiere; dalle quali interminabili serpenti di fumo si susseguivano senza interruzione”, città “abitate da persone tutte uguali e simili l’una all’altra che uscivano e rientravano alla stessa ora con lo stesso suono, sugli stessi marciapiedi per fare lo stesso lavoro e per le quali tutti i giorni erano come ieri e domani ed ogni anno la copia dello scorso e del prossimo” (C. Dickens, Tempi difficili, Einaudi, Torino 2006). E Dickens ne restituì l’equivocità: sia formidabile motore del progresso, sia terribile apparato famelico, dell’uomo e della natura. L’esaltazione positivista era fronteggiata da una forte critica estetica, politica e, grazie a un lucido e profetico William Morris, ecologica. “Si deve accumulare denaro? E allora tagliate i begli alberi in mezzo alle case, abbattete antichi e venerandi edifici

ottobre-dicembre 2008

Aurélien Police, nato nel 1978 a Compiègne in Francia, vive e lavora a Digione. All’Università segue corsi di Lingua e Letteratura Inglese e di Letteratura Francese, elaborando un’originale tesi a proposito delle connessioni fra l’opera surreale Le Musée Noir di André Pieyre de Mandiargues e la grafica di Aubrey Beardsley. Nel 2001 abbandona gli studi per sperimentare da autodidatta la sua vera passione: l’illustrazione digitale. Dopo aver animato alcuni siti per gruppi musicali, nel 2002 riceve il suo primo incarico come direttore artistico del libro Guide du Rétrofutur, dedicato all’omonimo gioco di ruolo francese. Da quel momento la sua carriera è in ascesa continua. Con uno stile che lui stesso definisce “decadente, torbido, sensibile”, Aurélien, immergendosi in scenari attuali e ciò che resta di quelli passati, plasma mondi e architetture futuribili, e sfrutta il computer per assemblare opere tecnicamente ibride e tematicamente contaminate, decisamente virate verso l’immaginario Steampunk. Professionalmente i campi di applicazione sono svariati: dalle copertine di album per noti gruppi musicali (Clock, Les Fragments de la Nuit, Tho Tho) alle illustrazioni per giochi di ruolo, dagli scenari per cortometraggi (da ricordare Coupé Court del 2006, di cui è anche direttore artistico) alle copertine di romanzi di letteratura fantastica per Gallimard e Gulfstream. Ha partecipato a diverse collettive in Francia e Inghilterra; al MIAAO realizza la sua prima personale italiana.

Le dandysme est le dernier éclat d’héroïsme dans les décadences Charles Baudelaire, Curiosités esthétiques, 1868

per i soldi che pochi metri quadrati di sudicio suolo londinese vi possono far guadagnare; sporcate i fiumi, nascondete il sole, appestate l’aria di fumo e altri peggior veleni, nessuno è tenuto a occuparsene o porvi rimedio: questo è quello che ricaveremo dal commercio moderno, dalla separazione tra cassa e laboratorio. E la scienza? La scienza l’abbiamo amata, le abbiamo obbedito, e cosa farà? Temo che la scienza sia troppo asservita alla contabilità, alla contabilità e alla gerarchia, troppo occupata per poter oggi intervenire. Tuttavia ci sono problemi che, a mio avviso, avrebbe potuto affrontare facilmente: come, per esempio, insegnare a Manchester il modo di disperdere il fumo che produce; o a Leeds il modo di liberarsi dai residui di tintura nera senza buttarli nel fiume” (W. Morris, Come potevamo vivere, Editori Riuniti, Roma 1979). Questo antagonismo tra “socialismo aristocratico” e un capitalismo trionfante non è morto con la regina Vittoria. La sua eredità ha fruttato all’ombra della cultura dominante. Pensiamo a Robert Bloch, l’autore di Psycho, che ambientando il suo romanzo Gotico americano a Chicago, durante la gigantesca Esposizione Mondiale Colombiana del 1893 fa dire al suo cinico e criminale protagonista: “Le grandi mostre… l’industria dell’acciaio, le ferrovie, i tessili, gli armamenti: non pensi che gli uomini che stavano dietro a tutto questo abbiano fatto la loro parte di quelle che tu chiami truffe? Le banche, le assicurazioni, i beni immobiliari…”. Oppure vediamo dandy

contemporanei, illuminati, come cantava Dario Bellezza, dalla “grande stella al tramonto della civiltà” e non abbacinati dal “falso mito della modernità”, che continuano a resistere, sempre ai margini del sistema, come Aurélien Police e gli steampunk, creando mondi alternativi che, pur realizzati con le tecnologie del nuovo millennio, generano le stesse angosce del passato. a destra Aurélien Police, Le bureau de Tom 2007, stampa fine art da file digitale su carta cotone in esemplare unico, 85x60 cm Collezione SSAA, Torino Anonimo, Epitaffio industriale, sd OGR Officine Grandi Riparazioni di Torino foto Marco Fragomeni


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rappresentazioni multimediali

Caratteri riesumati I morti a fumetti Michele Bortolami

Pogo Okefenokee

Bellissimo, Tavola dall’introduzione visiva alla zona 6 della guida Torino Tour Edizioni Teknemedia, Torino 2005, Ad Arte, Torino 2008, Courtesy FOAT, CCIAA

Milo Manara, L’isola dei morti, tavola tratta dall’album A riveder le stelle Mondadori, Milano 2002

Giancarlo Alessandrini, L’isola dei morti copertina di “Martin Mystère”, n. 224 novembre 2000

L’immaginario Steampunk per un torinese ha qualcosa di familiare. Saranno gli scheletri delle fabbriche dismesse, reliquie storiche della città, che occhieggiano tra i palazzi delle periferie. Sarà il tempo sovente grigio e piovoso, o la nebbia autunnale di certe mattine fumiganti in riva al Po. Non stupisce quindi la scelta dei giovani dello studio grafico Bellissimo di utilizzare, per il settore urbano a loro affidato -sede anche del maggior cimitero cittadino- della guida Torino Tour, iscrizioni lapidarie. Significativa la scelta dei font utilizzati: per i titoli spiccano alte e solenni lettere capitali riprese dalla lapide commemorativa della squadra di calcio del Grande Torino posta sulla collina di Superga, teatro della disgrazia aerea del 1949. I testi sono invece “composti” nel lapidario Augustea, creato proprio a Torino nel 1951 da Alessandro Butti e Aldo Novarese per la Nebiolo, come richiamo all’area immensa e silente del Cimitero Monumentale, con la sua coorte di botteghe per l’incisione di pietre tombali, che pullulano nelle vie attigue. Una scelta che può rimandare alla figura, maiuscola anche

Esistono quadri, pochissimi, che diventano immagini permanenti, metafore ossessive, fonti di ispirazione per ogni generazione. È sicuramente il caso de L’isola dei morti del grande Arnold Boecklin (1827-1901). Ad esempio clamoroso e dichiarato, si veda nella prima pagina di questo giornale campeggiare L’île des morts di Aurélien Police, trasfe-

indotta dalla fecondazione boeckliniana, in tutte le arti. Qui ci limiteremo ad accennare alle bandes dessinées, dove innanzitutto ritroviamo alcuni degli autori francofoni già citati in questo numero di “AfterVille”, dal “planetario” Philippe Druillet ai François Schuiten e Benoît Peeters de Les cités obscures, ma anche l’immenso Moebius e Philippe Caza, già

nella storia delle arti grafiche, di William Morris, “precursore” della filosofia steampunk nel suo ribellarsi alla violenza della grande industria e dei suoi prodotti, volgari rispetto alla sincera bellezza di quelli artigianali, che fondò, tra altri forti per questa guerra, la casa editrice Kelmscott Press, nell’ambito della quale creò caratteri tipografici “neo-medievalisti” come il Chaucer, ma anche ridiede nuovo appeal alla lettera “capitale quadrata lapidaria”, le cui forme geometriche, graziate e chiaroscurate campeggiavano sulle moli dell’Impero romano, e sui monumenti funebri. L’amore per la tipografia “classica” è alla base di altri due giovani progetti piemontesi: uno artistico-industriale, quello della Stamperia Artigianale Laborabosco dell’artista Piera Luisolo, situata in Val di Susa, specializzata nell’utilizzo di torchi antichi e di caratteri mobili; l’altro grafico-architettonico, quello dell’erezione, ad Abitare il Tempo a Verona, da parte dello Studio Kha, di un tempio di tolleranza sul cui frontone compare l’iscrizione Materia Mistica, composta in Meridien: altra dichiarazione assolutamente “lapidaria”.

rita in una “civiltà” industriale, spettrale. Ma Aurélien non è certo il solo succube di quell’incubo simbolista. Infatti mai nella storia i morti hanno esercitato tanto fascino e persino, oseremmo dire, capacità “riproduttiva”. Basti visitare il sito www.toteninsel.net, fondato dal pittore francese Pascal Lecocq, per essere stupefatti dalla proliferazione creativa

Gothic Lolite? Carlotta Petracci Merletti, ricami, fiocchetti bianchi. Camicie a collo alto con maniche a sbuffo. Sottovesti di pizzo, e vere e proprie crinoline. Gonnelline e abitini da Alice nel paese delle meraviglie. Cuffiette, grembiulini, golette, ombrellini parasole, un po’ Candy Candy e un po’ Georgie. Divise che ricordano Lady Oscar, contaminate da piercing e borchie da ribelli anni settanta. Non siamo nella Londra tardo ottocentesca, quella dei romanzi di Charles Dickens o di Anthony Trollope, né a una sfilata parigina di John Galliano, bensì siamo a Tokyo, in pieno entusiasmo postmodern e techno-digitale; più o meno cent’anni dopo le “magnifiche sorti e progressive” e appena qualche anno prima del ritorno audace del rosso Cina. Aggirandosi nei quartieri più alla moda della metropoli

Retrodesign Massimo Teghille Quando si arriva al fondo, si continua a scavare? No, più sovente si torna indietro. Forse è uno dei motivi per cui è nato lo Steampunk. Il debutto letterario avviene con il romanzo La notte dei Morlock di K.W. Jeter del 1979, un’ alternativa alla più nota narrativa Cyberpunk. Naturalmente le teorie precedono di gran lunga le pratiche e gli artisti vedono più lontano rispetto ai comuni mortali. Infatti questa sorta di modernariato tecnologico riappare oggi, quando nanotecnologie sempre più avanzate, teorizzate sinora solo dai cyberpunk, sono applicate alla medicina e quindi entrano nel corpo, oltre che nella mente, delle gente. Tutti i nuovi fenomeni creano reazioni, più o meno positive. Nel design, o meglio nelle arti applicate, lo Steampunk riferisce di un gusto dandistico per tecnologie meccaniche ed elettriche esauste. In un’epoca nella quale il secondo principio delle termodinamica viene eluso dall’informatica e dalle centraline, lo Steampunk è quasi un sollievo per l’anima: la sua artigianalità, lontana da ogni serialità, sempre “banale”, trasfigura anche oggetti ipertecnologici attraverso un’estetica da brocanteur o

da bricoleur. Un ritorno alla manualità e all’utilizzo di materiali tradizionali, in piena antitesi con la filosofia usa e getta che caratterizza i prodotti attuali. Non ci sono centri di assistenza autorizzati né certificati di garanzia, ma solo attrezzi e officine, dove i risultati dipendono dalla propria abilità. Anziché usare chilometri di rete pneumatica per mandarsi la posta, anche gli artisti-artigiani Steampunk si ritrovano su Internet e si scambiano consigli e informazioni su come “customizzare”, a loro modo, gli oggetti d’oggi. Tra questi, Jake von Slatt ha trasformato un monitor e una tastiera da computer, proiettandoli in un passato mai esistito, nel quale H.G. Wells avrebbe impiegato la metà del tempo a scrivere La macchina del tempo, per poi dedicarsi ad aggiornare il suo My Space. Bruce Sterling dice, tra l’altro, che lo Steampunk è un modo per ribellarsi all’involgarimento del nostro patrimonio culturale, specie quello europeo, e alla sua “disneyzzazione” per i turisti. Così si possono inserire molti steampunk tra gli esponenti delle “controculture”: si tratti dei Mutoids o di Tommaso Garattoni, snob “vittoriano” già attivo nei laboratori di San Patrignano.

Giovanni Tommaso Garattoni, Snobbishness of Kitsch, 1995 disegno per poltrona da “viaggio”, 25x35 cm, Collezione SSAA, Torino

“metallari urlanti”: insomma, la crème de la crème. Anche l’Italia fumettara, seppur con una squadra meno strepitosa, con l’eccezione del fuoriclasse Manara, qualche crociera verso quell’isola ha tentato, imbarcando i “gruppi organizzati” di Andrea Pasini, Marco Berrini, Giancarlo Alessandrini, Luigi Coppola (“Martin Mystère” nn. 224 e 225, L’isola dei morti e Oltre la soglia, novembre e dicembre 2000); Maurizio Colombo, Stefano Andreucci, Enea Riboldi (“Dampyr” n.13, L’isola della strega, aprile 2001); Gianluigi Bonelli, Galep, Ferdinando Fusco (“Tex Willer” n. 231, L’isola dei morti, gennaio 1980, anche se qui si tratta quasi solo di una citazione di quel famoso titolo). E non dobbiamo dimenticare, su di un altro versante, quello dell’illustrazione, prove sul tema del fantascientifico Maurizio Manzieri. Risaliamo ora eccezionalmente verso l’arte “alta”, giustificati dal ricordare solo artisti qui da noi già trattati: così segnaliamo alcuni raffinatissimi d’après Boecklin di Fabrizio Clerici, e la fotografia di Simon Marsden riprodotta a pagina 3, dedicata a un’isola dei morti che tuttavia non è solo luogo della mente, ma esistente, a Venezia. Non paia strano: Boecklin conobbe l’Italia, e vi morì, a Fiesole, e molti critici hanno voluto riconoscere il modello reale della Toteninsel proprio in un’isola del nostro Paese, Ischia o Ventotene che fosse (le nostre isole solari non sono state percepite e rappresentate come tenebrose solo da Boecklin: basti pensare alla Capri di Karl Wilhelm Diefenbach…).

a sinistra Carlotta Petracci, Gothic Lolitas 2008, fotografia digitale Marchio della linea di abbigliamento gotico Moi-même-Moitié, fondata da Mana-Sama nel 1999

nipponica, Ginza, Harajuku e Shibuya, infatti può capitare di incontrare adolescenti e ragazze (qualche volta anche ragazzi) che assomigliano tanto a vecchie figurine di porcellana. Microscopiche suffragette con sguardi languidi molto manga, lolite torbide in stile Hello Kitty. Trucco scuro, borsette a forma di pipistrello, bara, crocifisso, orologi da tasca, orsetti di peluche e veli da “sposa cadavere”. A tracciare la rotta è Mana Sama, pazzo per i film di Dario Argento nonché leader del gruppo musicale Moi dix Mois: una delle prime visual band del filone j-rock. È lui il primo a coniare i termini tanto in voga di Elegant Gothic Lolita ed Elegant Gothic Aristocrat (a cui si aggiungono: Dandy, Gothic Dandy, Prince Style, Punk Industrial) per descrivere lo stile della sua casa di moda, Moi-même-Moitié, fondata nel 1999, e per legittimare le sue mise androgine da Lady vittoriana… Sempre sotto i riflettori, lo style magazine “Gothic & Lolita Bible” ne fa un mito e il capostipite del fenomeno Gothic Lolita: sottocultura alternativa nata e cresciuta in Giappone tra asfalto e centri commerciali, e conosciuta in Europa grazie al periodico “Fruits” e al video, di alcuni anni fa, della cantante americana Gwen Stefani (ex No Doubt), Harajuku girls. Come dire: décadence e decadance, per un ballare sulle rovine del moderno! A proposito: a gennaio 2009 ci sarà il terzo raduno delle Loli-Goth che si terrà, come sempre, qui a Torino. Dress code? Tra il funebre e il carnascialesco…

Steamsound La stessa stanza

Robi Basme

aveva una sua

Tentiamo di scorgere tra inevitabili nubi di vapore i primi segnali dell’odierno Steampunk musicale. Molti della scena Post-punk inglese (Bauhaus soprattutto), parecchi synth pop (Depeche Mode e posteriori derive industriali) e certi estetismi melodici di stampo letterario (Kate Bush svolazzante, un po’ vampira) o cantautorale (Paul Roland, novello Syd Barrett tra oppio e duelli all’alba). Un mondo scuro, dark. Lì, nella culla gotica e decadente che ha generato un’etichetta simbolo come la 4AD (Dead Can Dance, This Mortal Coil e lo statement “preraffaelita” come vessilli) hanno schiuso le palpebre gli alfieri dello Steampunk che conosciamo. Alcuni tratti comuni: l’uso del violoncello, l’elettronica come sfondo modernista e una certa enfasi nel cantato. Musica ambient per un ambiente da inventare. Il cyborg danza con l’alchimista vittoriano. E violini e Oriente, come per gli americani Abney Park, occhialoni da Barone Rosso e abiti

terribile femminilità. Ogni cosa aveva un aspetto di morbido umidore... La gonfia fila di cuscini appoggiati allo schienale di una chaise longue vittoriana...

P.D. James Morte di un medico legale, 1977

da sopravvissuti stile Mad Max. Percussioni marziali e dirigibili all’orizzonte, immaginario condiviso dai Vernian Process, fautori di un cabaret modernista (sui lati del palco, tracce di Dresden Dolls e Marilyn Manson) nato a San Francisco e diretto verso i sotterranei del Louvre. Più eterei e horrorifici, gli inglesi Attrition hanno dedicato il loro album All Mine Enemys Whispers a Mary Ann Cotton, serial killer vittoriana impiccata nel 1873 e “specializzata” in arsenico (per la cronaca, le prime 1000 copie del cd contenevano riproduzioni di etichette per bottiglie di veleno dell’epoca!). Sospiri e archi, con il contributo di Erika Mulkey delle Rasputina, violoncelliste in balconata d’onore Steampunk. Nella formazione originale anche Julia Kent, ora coi Larsen e nei Johnsons di Antony, e Melora Creager, spesso al fianco dei Nirvana. Un orologio antiorario, come quello dei Clock di Saint Etienne, vaudeville cosmico illustrato da Aurélien Police, o del folk annegato ventimila leghe sotto i mari dei canadesi Johnny Hollow. Jules Verne, applaude.

La band Steampunk francese Clock 2007, foto Thierry Borie


rappresentazioni terminali

Babele e Gerusalemme Padre Giuseppe Goi d.O.

ottobre-dicembre 2008

AfterVille landing strip Fabrizio Accatino, Michele Bortolami, Tommaso Delmastro, Massimo Teghille Curatori di AfterVille

Carlotta Petracci, Ritratto dei curatori della rassegna AfterVille (da sinistra) Michele Bortolami, Tommaso Delmastro, Fabrizio Accatino Massimo Teghille, con il direttore del MIAAO (al centro) Enzo Biffi Gentili, Torino 2008 in basso Enzo Biffi Gentili e Studio Kha, Materia Mistica, 2008, installazione ad Abitare il Tempo, Verona, opere di Bernard Dejonghe Marcello Morandini con Claudio Bongiovanni (particolare), foto Johnny Dell’Orto

Locandina del film L’Apocalisse, 1947 di Giuseppe Maria Scotese Collezione SSAA, Torino

continua dalla prima di sole o di luna, perché Dio è la luce; e anche il tempio non è più necessario, perché lo stesso Dio è tutto in tutti. L’autore dell’Apocalisse descrive attentamente la città dell’Aldilà, quasi Architetto che ne delinei forma, materiali, estetica, vivibilità. A egli rimando senza dimenticare che la visione, la rivelazione (questo significa apocalisse) non nasce come momento isolato: c’è un lungo cammino di riflessione che parte da molto lontano; non si può scordare, a esempio, il profeta Isaia e la sua rappresentazione del futuro della città di Davide (60,1 ss). Indubbiamente però la rivisitazione interpretativa del nuovo Testamento ristruttura l’antica riflessione, e ci presenta una città dell’Aldilà come regno della libertà, della dignità, della pace (cfr lettera di Paolo ai Galati 4,1 ss). Le considerazioni sulla Gerusalemme celeste iniziano da questa sintesi, per proclamare all’uomo d’oggi che il senso del vivere parte dal significato dato alla morte; che l’Aldilà è ipotesi legittimata dal sentire dell’umanità di tutti i tempi e tutti i luoghi, fa riferimento al senso, non è proiezione di fantasia umana; da ultimo ma non ultimo: la trascendenza, la metafisica secondo l’uomo d’oggi non può provare scientificamente la propria ragion d’essere, ma ciò nulla toglie alla sua validità: hanno pieno diritto le “ragioni del cuore”.

numero 5 DALLE CITTÀ DELL’ALDILÀ divine design tra realismo fantastico e steampunk ultimo numero della prima serie ottobre-dicembre 2008

direttore Enzo Biffi Gentili condirettore responsabile Pier Paolo Benedetto caporedattore Luisa Perlo redazione Elisa Facchin Liana Pastorin/FOAT assistente Valérie Zuddas art direction Undesign Michele Bortolami Tommaso Delmastro impaginazione elettronica Paolo Anselmetti Dario Aschero Marco Nicastro DALLE CITTÀ DELL’ALDILÀ mostra nella Galleria Soprana del MIAAO 4 ottobre-31 dicembre 2008 curatori Enzo Biffi Gentili Elisa Facchin Luisa Perlo Undesign grafica Bellissimo Undesign progetto allestimento Studio Kha allestimento Arteinmovimento assicurazioni Arte Sicura trasporti Gondrand MIAAO Museo Internazionale delle Arti Applicate Oggi via Maria Vittoria 5, 10123 Torino T 0039 011 0702350 | 0702351 F 0039 011 0702352 argh@miaao.org; neh@miaao.net

continua dalla prima con la sua urbanistica spaziale, Leonardo Mosso con la sua città programmata, Marco Patrito con le sue “saghe grafiche” futuribili, e altri ancora… L’abilità di Enzo Biffi Gentili, il direttore del MIAAO, da noi scelto come “comandante” della Turin Spaceship Company che doveva affrontare quella prima spedizione aftervilliana, e “richiamato” per quest’ultima (si sa, decollo e atterraggio sono fasi critiche di ogni viaggio aereo, e in generale tutta la missione era particolarmente rischiosa perché doveva confrontarsi con la storia, con il passato, e allora noi cinefili non potevamo non ricordare Space Cowboys, il film del 2000 di Clint Eastwood che dimostrava appunto l’insostituibilità, in certi casi, di ironici “anzianauti”…) sta proprio nel seguire orbite culturali “eccentriche”, nel trovare passaggi segreti tra le mura di casa, occlusi dal conformismo. Il pubblico ha apprezzato ed ha affollato le gallerie del MIAAO per 4 mesi, prima per Astronave Torino e poi per il suo sequel, Capitàn Germán. Il progetto AfterVille è partito così, con il botto! Il secondo appuntamento è stato the Show, che complice la Mole Antonelliana, ha regalato ai subalpini una serata insolita all’interno del landmark della città, frutto di quel genio visionario che fu Alessandro Antonelli, forse il primo a realizzare una “architettura da fantascienza” a Torino. Lo show aveva come obiettivo l’abstract visuale di un secolo di fantascienza cinematografica, quasi a definire uno “stato dell’ arte”. Alla suite visiva di brani di oltre cinquanta film che rappresentavano immaginari diversi, ormai sedimentati nella cultura contemporanea come iconografie ineliminabili nella nostra immagine del futuro, corrispondeva una suite sonora live dei Larsen. Da quel momento le esperienze sono cresciute quasi geometricamente: è nato the Movie, il primo film di fantascienza dell’era digitale realizzato e ambientato a Torino. La scelta dei registi è caduta

sul talentuoso duo Fabio&Fabio, all’anagrafe Fabio Guaglione e Fabio Resinaro, che hanno diretto con maestria un cortometraggio di trenta minuti, lasciando a bocca aperta le 2000 persone all’anteprima del Cinema Massimo. Addirittura, i dischi volanti a Torino: immense presenze aliene, grandi come tre stadi olimpici, hanno stravolto lo skyline torinese e l’animo dei suoi abitanti. L’obiettivo era quello di produrre un trauma, con l’ipotesi di un cambiamento radicale di uno stile di vita, il che per i torinesi risulta ancor’oggi problematico. Ma soprattutto è stato il tentativo di “medializzare” la città, scollegandola dall’ idea di “città fisica”, cercando di prefigurare una condizione nella quale non solo la realtà sarà sempre di più quella creata dai media, ma anche la stessa edificazione sarà caratterizzata, come altrove già avviene, da media buildings veri e propri. Poi sono venuti i Reading, approfondimenti teorici sui temi trattati da AfterVille, dibattuti nella splendida sede del Circolo dei Lettori. Si è parlato di cinema, architettura, fumetti, videoclip e design con esponenti autorisés dei vari generi: Francesco Fei, Maki Gherzi, Luca Pastore, Antonio Serra, Maurizio Zucca, fino ad arrivare a un mito vivente, Syd Mead, uno dei veri ispiratori della fantascienza di serie A. L’incontro con questi personaggi ha sottolineato come l’interdisciplinarietà sia oggi fondamentale per ogni progetto non banale, e come la fantascienza garantisca, sempre, una straordinaria rialimentazione culturale. Quindi, finalmente, il pensiero “aftervilliano” ha trovato spazio per mostrarsi al pubblico “di massa”: è nata così the Underground Exhibition, allestita nel stazioni dalla Metropolitana di Torino, grazie alla disponibilità del Gruppo Trasporti Torinesi. Il luogo che più incarna l’idea di futuro, almeno a Torino, ha ospitato installazioni che si sono affiancate alla comunicazione istituzionale riprendendo il concetto di medializzazione della città e creando

un itinerario parallelo attraverso dieci città paradigmatiche e fantascientifiche, frutto del lavoro di ricerca curatoriale che sta alla base di tutta la manifestazione. Chiunque scendeva nelle viscere della città poteva aspettare il treno osservando simulazioni di varie città, ognuna caratterizzata da diverse forme, colori, ambienti ma soprattutto significati. Città che sono frutto di un’analisi multidisciplinare, spregiudicata, sulla base tuttavia di studi storico-formali anche “accademici”. Dieci immaginari che si sono “incarnati” in un secolo di cultura plastico-visiva e che hanno colto le aspettative del loro tempo, trasformandosi in “quadri di riferimento” per chiunque voglia far fantascienza. A corollario di queste iniziative si è svolta la Starchitecure Night alle Officine Grandi Riparazioni, in collaborazione con l’Urban Center Metropolitano. In particolare, AfterVille ha avuto l’onore di essere presentata con la mostra “TO 011”, che ricostruisce le trasformazioni urbanistiche storiche che l’hanno caratterizzata maggiormente. Insomma, il progetto AfterVille vuole rappresentare ipotetiche “mutazioni” della città, utopiche e anche drammatiche, ma al tempo stesso ben iscritte nel suo patrimonio genetico e storico. Infine ora eccoci, listati a lutto, all’episodio terminale, Dalle città dell’Aldilà, accompagnati in quest’ultimo viaggio dallo “zio-Caronte” Enzo Biffi Gentili, e dal “Padre spirituale” Giuseppe Goi, che ringraziamo per la grande disponibilità -della quale non ci stupiamo perché, secondo Philippe Sollers, “le dandy… ne peut être que catholique”- a scrutare l’orizzonte di metropoli “ultraterrene”, a partire di quella di Dioce dell’architetto Toni Cordero. Tema sconvolgente, ma molto coerente con un’AfterVille che vuole anche essere città “estrema”. E pur se il “domani arriva oggi”, come recita il nostro motto, il futuro di AfterVille resti ignoto, almeno in occasione di questa nostra “commemorazione” del suo passato…

Avventure estetiche Enzo Biffi Gentili continua dalla prima al quale tuttavia non si ispirano in spirito di sola conservazione, o imitazione, ma di trasfigurazione, sino alla sua reinvenzione. Insomma rappresentano una vera e propria “famiglia intellettuale”, un po’ speciale. Ma l’apparentamento è ulteriormente verificabile anche attraverso altre comuni stimmate. Quella impressa dall’amour des lettres, virtù giudicata un vizio nella nostra cultura plastico-visiva. E quella prodotta dal dandysmo, o esplicito come nei casi di Sir Simon Marsden, quarto baronetto di Grimsby, e di Aurélien Police, o comunque inequivocabile come in Toni Cordero e Pierre Clayette. Il che potrebbe far sospettare un loro carattere un po’ decadente e rétro, se non “reazionario”, anche per alcune loro auctoritates dichiarate, come quelle di Ezra

Pound e Roger Caillois. Ma si vedano le ultime pagine di questo giornale, nelle quali giovani e giovanissimi autori rivendicano proprio quella complessiva “eredità culturale”, e vanno oltre, a esempio rileggendo le critiche alla società industriale nell’epoca vittoriana di William Morris. Il che, per chi scrive, da adolescente per sempre impressionato dalla lettura del saggio sul decadentismo nell’età vittoriana di William Gaunt (L’avventura estetica, Einaudi, Torino 1962) è motivo di infinita soddisfazione. Perché desideriamo che il MIAAO non sia soltanto un luogo, isolato, di commemorazione di teorie e pratiche delle arti applicate, ma di loro trasmissione. Anche per questo motivo, con i Padri della Congregazione dell’Oratorio, abbiamo voluto garantire accoglienza ieri al Funk, oggi allo Steampunk…

Lyle Rowell/Mutoid Waste Company, Letto di morte, 2005, installazione nella Galleria Sottana del MIAAO (particolare), foto Francesco Radino a sinistra Tiziana Bendall Brunello, Family’s Ghost, 2004, abitino in porcellana levitante nel Battistero di San Filippo Neri, Collezione SSAA, Torino, foto Enrico Frignani a destra Catherine David, Cross light, 2004, croce in Plexiglas nel Sepolcreto di San Filippo Neri, Collezione SSAA, Torino, foto Enrico Frignani

ATTORI e AUTORI Fabrizio Accatino Giancarlo Alessandrini Chiara Bardassa Robi Basme Riccardo Bedrone Bellissimo Tiziana Bendal Brunello Enzo Biffi Gentili Chiara Blatta Thierry Borie Michele Bortolami Gianluca Castagno Pierre Chapelot Pierre Clayette Fabrizio Clerici Clock Toni Cordero Mario Cresci Catherine David Pino Dell’Aquila Tommaso Delmastro Elisa Facchin Franco Fanelli Marco Fragomeni Enrico Frignani Tommaso Garattoni Maurice Lesna Hervé Lewandowski Milo Manara Sir Simon Marsden Edgardo Michelotti Bruno Munari Emanuela Oddenino Pogo Okefenokee Padre Valerio Ferrua O.P. Padre Giuseppe Goi d.O. Alessandra Paracchi Liana Pastorin Benoît Peeters Luisa Perlo Carlotta Petracci Giovanni Battista Piranesi Aurélien Police Alberto Pozzallo Francesco Radino Gaston Redon Lyle Rowell Lucio Saffaro François Schuiter Giuseppe Maria Scotese Massimo Teghille Santo Tomaino Tumi Turbi Stefano Vellano Barbara Zandrino Valérie Zuddas

Ordine degli Architetti PPC di Torino

Presidente Riccardo Bedrone, Vicepresidente Sergio Cavallo, Segretario Felice De Luca, Tesoriere Adriano Sozza. Consiglieri: Roberto Albano, Domenico Bagliani, Giuseppe Brunetti, Mario Carducci, Mariuccia Cena, Franco Ferrero, Franco Francone, Giorgio Giani, Elisabetta Mazzola, Gennaro Napoli, Stefania Vola. Direzione Laura Rizzi. Staff: Arianna Brusca, Alda Cavagnero, Sandra Cavallini, Antonella Feltrin, Eleonora Gerbotto, Fabio Giulivi, Milena Lasaponara

Fondazione dell’Ordine degli Architetti PPC di Torino

Presidente Carlo Novarino, Vicepresidente Fabio Diena, Consiglieri: Riccardo Bedrone Maria Rosa Cena, Franco Francone, Marcello La Rosa, Carlo Novarino, Claudio Papotti, Ivano Pomero, Giuseppe Portolese, Claudio Tomasini. Staff: Maddalena Bertone, Chiara Boero, Raffaella Bucci, Giulia Di Gregorio Stagiste: Maria José Carlone, Ester Lopacco

il fantastico è dunque rottura dell’ordine riconosciuto irruzione dell’inammissibile all’interno della inalterabile legalità quotidiana Roger Caillois, Nel cuore del fantastico, 1965 è un progetto ideato e curato per la FOAT da Undesign, Michele Bortolami e Tommaso Delmastro con Fabrizio Accatino e Massimo Teghille e incubato da Commissione OAT Visione Creativa


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