Non-Luogo. L'aeroporto.

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Non-luogo, l’aeroporto A.A. 2013/2014 - ESTETICA - Prof. Matteo Vegetti

DEPARTURES Umberto Giupponi

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112 Pagine. Da dove partire.

La culla del non-luogo.

La città contemporanea.

Utopie calcolate.

La città del Movimento Moderno.

Mobilità. (Possibilità e) diritto.

SECURITY

L’essere, l’individuo, l’atomo.

Prodotti nel prodotto. I non-luoghi.

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Conclusioni.

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112 Pagine. Da dove partire.

Il primo passo da compiere per poter affrontare il tema dei non-lieu è, inevitabilmente, la lettura del testo “Non-luoghi, introduzione a una antropologia della surmodernità” dell’antropologo Marc Augè.

Il libro, copioso di riferimenti, consente di estrapolare efficaci spunti - o se vogliamo, definizioni - fondamentali per comprendere la questione.

Tralasciando momentaneamente il primo termine del titolo, poi ampiamente trattato, si ritiene opportuno soffermarsi sul neologismo ‘surmodernità’, introdotto dall’autore. Preferendolo al termine, già coniato, ‘postmodernità’, poiché questo prevede che l’epoca contemporanea venga dopo il moderno, lasciandolo alle spalle, Marc Augè, invece, con surmodernità intende il portare all’eccesso alcuni tratti della modernità.

In particolare si fa riferimento ai media, all’eccessivo e esagerato numero di informazioni e sovrabbondanza di avvenimenti che comporta una difficoltà di ‘pensare il tempo’, agli eccessi dati dalla globalizzazione che da un lato comportano il restringimento dello spazio, del pianeta, grazie allo sviluppo tecnologico delle infrastrutture e dei mezzi di comunicazione, e al tempo stesso provoca un allargamento, dato dalle molteplici possibilità che l’umanità difficilmente poteva immaginare solo qualche decennio fa.

All’eccesso di tempo e spazio si aggiunge il concetto di ‘eccesso di ego’, ovvero, come avviene nelle società occidentali, il considerare l’individuo come un mondo a sé e ogni riferimento alla propria individualità e alla propria persona è valorizzato e messo in primo piano a scapito della vita collettiva. Questo è il campo d’azione in cui ricercare la definizione di non-lieu.

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Marc Augè Tra i maggiori africanisti dei nostri tempi e autore di importanti ricerche culminate nella pubblicazione di Poteri di vita, poteri di morte (R. Cortina, 2003) e Genio del paganesimo (Bollati Boringhieri, 2002), si dedica ormai da molti anni alla costruzione di una ‘antropologia della tarda modernità’ che lo ha reso celebre in tutta Europa.

Ha coniato il concetto di non-luogo. Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, (Elèuthera, 1993.) È stato presidente dell’École des Hautes Études en Sciences Sociales (EHESS) di Parigi dal 1985 al 1995.

Autore di numerose pubblicazioni, tra le più recenti, tradotte in italiano: Futuro (Bollati Boringhieri, 2012), Diario di un senza fissa dimora. Etnofiction (Raffaello Cortina Editore, 2011), Straniero a me stesso: tutte le mie vite di etnologo (Bollati Boringhieri, 2011), Il bello della bicicletta (Bollati Boringhieri, 2009), Che fine ha fatto il futuro?: dai nonluoghi al nontempo (Elèuthera, 2009), Il metrò rivisitato (Raffaello Cortina, 2009), Il mestiere dell’antropologo (Bollati Boringhieri, 2007).

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Che cosa intende con ‘surmodernità’?

“Nel momento in cui i media si sostituiscono alle mediazioni, tutti i riferimenti sociali si individualizzano.

Da qui la solitudine del cittadino-globale, colonizzato da informazioni che non sa più distinguere: notizie pubblicitarie che si accavallano alle fiction televisive, alle immagini in diretta delle guerra. La surmodernità è una modernità cortocircuitata, che perde i suoi riferimenti. Coincide con l’attuale produzione di eccessi temporali, identitari, spaziali”.1 Definito, brevemente, il concetto di ‘surmodernità’ è indispensabile ora comprendere in quale ambiente si inseriscono i non-loghi, o meglio, quale città ha consentito il proliferare di quello che potremmo definire come prodotto della globalizzazione.

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Marc Augè, intervista di Graziella Durante, il Manifesto 05.06.2004

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La culla del non-luogo. La città contemporanea.

La città contemporanea è stata, negli ultimi anni, oggetto di indagine da parte di architetti, urbanisti, sociologi, economisti, antropologi, che hanno tentato di mettere a fuoco - secondo punti di vista molteplici - temi e problemi di una realtà territoriale che sembra sfuggire a facili tentativi di descrizione e definizione.

Megalopolis, urban sprawl, città-regione, collage city, ipercittà, sono solo alcuni dei termini proposti nel corso degli ultimi decenni per dare conto dei fenomeni di trasformazione urbana e territoriale, privilegiando, di volta in volta, differenti aspetti dei mutamenti in atto.

Alcune di queste definizioni, infatti, sembrano fare riferimento principalmente agli aspetti fisici delle trasformazioni e, dunque, alla diffusione del sistema dell’edificato al di fuori di qualunque tipo di confine amministrativo o geografico. Altri termini richiamano, invece, aspetti di natura strutturale che rimandano al costituirsi di nuove modalità di organizzazione e fruizione dello spazio abitato. Ciò che appare evidente, in ogni caso, è il verificarsi di alcuni cambiamenti delle condizioni con cui l’organismo urbano si manifesta sul territorio, che presuppone un modello di città molto diverso da quello elaborato dall’urbanistica moderna.2 A partire dagli anni Settanta del Novecento, infatti, nei paesi europei industrializzati, la crisi del modello economico di tipo fordista - che aveva accompagnato lo sviluppo della città moderna - ed il passaggio ad una economia globale, hanno indotto processi di de-industrializzazione e ristrutturazione del sistema produttivo.

Le spinte, in parte non controllabili, dell’innovazione tecnologica, i relativi riflessi sul tipo di produzione industriale e sulla localizzazione (o , meglio, Città diffusa, cartografia.

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Bernardo Secchi, Le condizioni sono cambiate, in “Casabella”.

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globalizzazione) delle attività, l’innovazione delle reti di comunicazione ed in generale delle reti dei flussi, capaci di superare i confini nazionali, la trasformazione dei sistemi produttivi tradizionali, sono solo alcuni dei motivi che hanno prodotto un’internazionalizzazione dell’economia e che condizionavano i modelli di sviluppo e di trasformazione urbana.

Dunque i flussi di scambi commerciali, fisici e virtuali, che prima avvenivano essenzialmente all’interno delle aree urbane, hanno teso sempre più nel tempo a valicare tutti i confini, materiali ed immateriali che siano, tra regioni, stati e continenti. “Si è così generata una struttura a rete capace di erodere il monopolio della città sulle tradizionali aree di influenza”.3 Questa interpretazione reticolare, di stampo geografico, fa si che al tradizionale concetto di spazio continuo ed omogeneo si sostituisca un concetto di spazio discontinuo e disomogeneo, caratterizzato dal sovrapporsi ed intersecarsi di diverse “reti di relazioni” capaci di passare per ogni luogo.

I mutamenti economici e le trasformazioni generate dall’innovazione e dall’internazionalizzazione tecnologica, hanno prodotto una progressiva de-centralizzazione dell’insediamento nei grandi agglomerati urbani, innescando una tendenza redistributiva di attività e popolazione, verso le aree cosiddette periferiche, non metropolitane.

Il processo di declino coincide, inoltre, con “la perdita del centro” in senso fisico-spaziale. Il passaggio dalla rete urbana gerarchizzata a una rete interconnessa fa si che non si possa più individuare un centro, in senso fisico, cioè far corrispondere la centralità con determinati luoghi, essendo questa distribuita tra i nodi della rete.

La struttura urbana che si era conformata, negli anni precedenti, secondo una rigida organizzazione di tipo funzionale (servizi, produzione, residenza, tempo libero), perde la sua ragion d’essere poiché, non più espressione di Vista notturna West Coast, USA

3

Michelangelo Russo, Aree dismesse: forma e risorsa della città esistente, 1998.

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decisioni prese al suo interno, diventa il risultato di scelte esterne.

Si è assistito, così, al manifestarsi di fenomeni quali la creazione ed il successivo riutilizzo per attività terziarie avanzate dei vuoti lasciati dalle grandi industrie nel tessuto compatto delle città; la localizzazione in aree extraurbane di attività produttive legate alla piccola e media impresa e la rilocalizzazione nelle aree centrali di attività produttive connesse con l’alta tecnologia; la terziarizzazione di svariate parti del tessuto urbano con la crescita di nuove attività economiche legate al turismo; la formazione di una campagna urbanizzata e la redistribuzione di ampie fasce della società all’esterno dei grandi poli urbani, grazie anche allo sviluppo di una fitta rete di infrastrutture, soprattutto stradali, ma anche stazioni ferroviarie e aeroporti. Questi fenomeni hanno contribuito a disegnare un territorio in cui le gerarchie della città industriale risultano completamente scardinate in favore di una nuova articolazione delle funzioni che rende sempre più difficile pensare ad una organizzazione del sistema urbano per parti distinte secondo criteri spaziali o temporali.

Si è verificato, così, che la rigida geografia funzionale dettata, all’interno della città moderna, dalla separazione e dalla concentrazione delle attività secondo spazi fisici differenziati, è stata sostituita da una realtà multiforme ed in continua trasformazione, all’interno di un sistema fortemente strutturato sulla mobilità individuale.

Tra le maglie del sistema infrastrutturale si è creata quella città diffusa che per Bernardo Secchi è “l’esito di un autonomo processo di riuso di intere parti di città ivi comprese parti della periferia e di densificazione della campagna; un processo che ingloba molti villaggi e città di piccole e medie dimensioni e che trova le proprie origini e radici nel mutamento degli stili di vita di gran parte della popolazione europea”.4

TAIPEI, Taiwan

4

Bernardo Secchi, La città europea contemporanea e il suo progetto

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Questo fenomeno di continua espansione, la diffusa estensione della città, risulta di difficile interpretazione e lettura da parte degli studiosi che tentano di analizzare il territorio. Sociologi, antropologi, urbanisti e architetti si trovano privi di mezzi e strumenti utili, divenuti, a fronte di tali modificazioni, inadeguati e non più sufficientemente aggiornati, per decifrare il fenomeno.

Come osserva Andrè Corbòz nel proporre il termine ‘ipercittà,’ per descrivere il territorio contemporaneo non è solo il termine ‘città’, o meglio la sua tradizionale rappresentazione, che deve essere aggiornato.

Infatti, il venire meno della distinzione tra naturale e artificiale, ha reso sempre più vaghe anche le nozioni di ‘centro’ e ‘periferia’, obbligando ad una revisione generale dei concetti e dei modelli con cui ci si accosta allo studio del territorio: “quelli che i geografi denominano luoghi centrali si distinguono oramai per una doppia caratteristica: non sono più dei luoghi e non sono più al centro [...] se i centri storici perdono la loro qualità di centri, ne consegue matematicamente che le periferie non sono più tali, dal momento che la nozione stessa di periferia suppone un punto focale. In altri termini nessuna delle parole di cui ci serviamo per descrivere e comprendere i fenomeni urbani è più utilizzabile”.5 Nella realtà dei fatti queste nozioni sono state sostituite da un continuum edificato dove densità e rarefazione si alternano sullo sfondo di un paesaggio solcato dalle reti infrastrutturali. L’imprevedibilità e l’apparente casualità con cui tutti questi materiali urbani si dispongono al suolo contribuisce ad alimentare una situazione caotica o che, almeno, viene percepita come tale, a causa della difficoltà di ricondurre la lettura del territorio alle categorie interpretative messe a punto dall’analisi tipologica e morfologica tradizionale.

SHANGHAI, Cina

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Andrè Corbòz, L’ipercittà, Ordine sparso.

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Si delinea, così, una città generica6 che risulta difficile da analizzare ed in cui è difficile orientarsi; tutti i termini solitamente utilizzati per descrivere la struttura urbana, infatti, sembrano perdere significato a fronte della attuale trasformazione dei modelli insediativi.

La città, lungi dall’essere la macchina perfettamente funzionale preconizzata dal Movimento Moderno, è divenuta, allora, un organismo espanso, frammentato, dilatato, le cui parti sono interconnesse da un sistema imponente di infrastrutture.

E’ ora opportuno effettuare una piccola digressione riguardo il Movimento Moderno e le teorie urbanistiche di uno dei suoi maggiori esponenti, Le Corbusier.

SAN FRANCISCO, Usa

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Rem Koolhaas, Junkspace, 2006.

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Utopie calcolate.

La città del Movimento Moderno Il Movimento Moderno si colloca temporalmente tra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale, raggiungendo la sua massima espressione negli anni venti e trenta del ‘900. Con il termine Movimento Moderno si indica il complesso di teorie e di esperienze che caratterizzò l’affermarsi e l’evolversi di una nuova pratica architettonica tesa al rinnovamento dei caratteri e dei principi della progettazione coinvolgendo anche l’urbanistica e il design.

In architettura, sinteticamente, postulava l’abbandono degli stili storici, dell’eclettismo e del classicismo a favore di un linguaggio progettuale capace di sfruttare le potenzialità tecnologiche dei nuovi materiali quali vetro e acciaio, coniugando essenzialità e funzionalità nell’elaborazione delle forme e nella creazione degli spazi.

Origini e sviluppi del Movimento Moderno non possono prescindere dagli eventi storici che li accompagnarono e determinarono. Primo fra tutti la Rivoluzione industriale che aveva introdotto due novità decisive: da una parte la necessità di usare i nuovi materiali prodotti dall’industria, dall’altro la concentrazione degli impianti produttivi e della massa dei lavoratori salariati. Le città mutano rapidamente senza fondarsi su alcun tipo di logica urbanistica e accogliendo un numero sempre maggiore di persone.

Contemporaneamente le esigenze della classe borghese, ma anche degli stessi operai che, dalla campagna ai centri urbani hanno inevitabilmente mutato il loro stile di vita, cambiano andando ad identificare il progresso con la produzione industriale di merci. Il progresso autonomo dell’ingegneria (crisi della figura dell’architetto), determinato dalle nuove esigenze produttive e istituzionalizzato con la creazione delle ‘scuole politecniche’, relega sempre più le accademie di architettura al ruolo riduttivo di scuole

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per decoratori. Di conseguenza, appare evidente che il rapporto fra arte e industria cominci a porsi come tema fondamentale dell’epoca.

Gli architetti, assimilate le potenzialità dei nuovi materiali e delle lavorazioni che ‘la macchina’ consentiva e contemporaneamente ispirati da queste, sviluppano nuovi linguaggi architettonici. I principi e le linee guida sono completamente nuovi rispetto al passato.

“La rivoluzione del Movimento moderno è stata, prima di ogni altra cosa, una rivoluzione tipologica: non c’è stato edificio che ha mantenuto, a rivoluzione compiuta, il tipo o i tipi, il modello o i modelli che esistevano prima”.7 La rivoluzione del linguaggio in architettura inizia – schematicamente – con l’art nouveau. Riviste, mostre, conferenze e esposizioni favorivano la circolazione delle innovazioni tecniche e delle singole esperienze, creando le premesse per la formazione di uno stile unitario (questo movimento si chiamò «floreale» o «liberty» in Italia, «modern style» in Gran Bretagna, «Jugendstil» in Germania) che, per superare i naturali regionalismi, prese il nome di «modernismo».

Termine ritenuto, per la sua accezione estensiva, più adatto a sottolineare l’aspetto unitario e internazionale del fenomeno. Contemporaneamente, in Europa, si verificano altri episodi decisivi per la nascita di una “architettura moderna”: le opere francesi di Auguste Perret in cemento armato, le teorie di Adolf Loos.

Gli anni immediatamente precedenti la Grande Guerra, e quelli subito dopo, sono caratterizzati dalla potente attività dei gruppi d’Avanguardia.

Nel 1919 Walter Gropius fonda a Weimar il Bauhaus, il quale riassume in sé tutte le potenzialità di rinnovamento del Movimento moderno grazie, soprattutto, all’ordinamento dei principi costruttivi generalizzabili che, da quel momento in poi, costituiranno la base progettuale di tutta la produzione edilizia.

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Ludovico Quaroni, Progettare un edificio.

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Il fenomeno più eclatante di questo fermento intellettuale e culturale è la nascita, nel 1928, dei Ciam (Congrès Internationaux d’Architecture Moderne), promossi da Le Corbusier e nati dal bisogno di promuovere un’architettura ed un’urbanistica funzionali, elaborando molte delle teorie e principi che furono poi applicati nelle varie discipline. Nel 1933 si elaborò la Carta di Atene, testo sviluppato per punti che tenta di enunciare e fissare i principi fondamentali della città contemporanea e venne unanimemente riconosciuta come un documento fondamentale del Movimento Moderno e della sua visione dell’Urbanistica. Si sostiene la teoria della zonizzazione, ossia la suddivisione dei quartieri e la diversificazione degli edifici in base alle funzioni che le persone svolgono all’interno della città, e che vengono ridotte a quattro: abitare, lavorare, divertirsi, spostarsi. Se ne riporta di seguito l’ottavo punto, particolarmente inerente con il tema della ricerca.

“L’avvento dell’era della macchina ha provocato gravi perturbamenti nel comportamento degli uomini, nelle loro distribuzione sulla terra, nelle loro iniziative. La sfrenata tendenza al concentramento delle città è favorita dalle velocità meccaniche, evoluzione violenta e generale che non ha precedenti. Il caos è entrato nelle città”.

Documento di riferimento: Esther Giani, Appunti sul Movimento moderno

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L’incrocio degli assi, l’aeroporto

La separazione dei percorsi

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Le Corbusier.

Negli anni tra le due guerre, Le Corbusier propose una serie di piani urbanistici per le grandi metropoli del mondo proponendo nuovi principi secondo cui riorganizzare l’abitato e il territorio.

Di fondamentale importanza risulta, nel 1922 al Salon d’Automne, la presentazione di un piano per una città da tre milioni di abitanti. Vi è da dire che esso contiene, in germe, tutto lo sviluppo ulteriore di Le Corbusier urbanista: i piani e le proposte successive non segneranno che ritocchi apportati a questo primo piano.

La presentazione avviene attraverso delle tavole raffiguranti una città vista dall’alto: c’è già l’idea dell’occhio dell’architetto che domina il paesaggio, o meglio, che si cura della progettazione totale della città. Su dove sia dislocata questa città non vi è nessun riferimento, di fatto non possiamo capirlo. Non ci sono riferimenti geografici, non ci sono riferimenti storici.

E’ una città ideale, che potrebbe essere costruita ovunque. Le Corbusier spiega che il primo gesto dell’architetto è quello di tracciare due assi cartesiani, due assi ortogonali e successivamente separare uno spazio dallo spazio indefinito, illimitato, indecifrato, e dominarlo attraverso la geometria assecondando il bisogno di ordine e misura che caratterizza l’uomo.

Le Corbusier evidenzia come l’abitazione si debba presentare come elemento autonomo rispetto al sistema viario, in quanto, la prima è destinata all’abitare, e quindi concepita alla scala dell’uomo, il secondo, invece, è adibito alla circolazione e quindi progettato alla scala dinamica dell’automobile. L’attenzione posta al sistema dei flussi è una delle grandi novità che introduce Le Corbusier nella progettazione dei suoi piani urbanistici. Letteralmente affascinato dall’estetica funzionalista della macchina - i suoi scritti su automobili, barche e aerei ne sono prova tangibile - egli immagina le vie di traffico una sopra l’altra, una sorta di

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organizzazione gerarchica a livelli stratificati l’uno sull’altro. Concepisce il traffico quotidiano, dove ci sono le autostrade, le metropolitane, le ferrovie, mezzi pesanti, uno sopra l’altro, come un’organizzazione verticale, ma soprattutto progetta le strade come quella struttura capace di dare ordine alla città. Il suolo, attrezzato con giardini, campi di gioco, bar, negozi, è lasciato alla libera circolazione dei pedoni.

L’architetto, inoltre, prevede di destinare il cuore della città, il nucleo della struttura urbana, al quale si contrappongono le aree residenziali ripetibili all’infinito, a centro direzionale esclusivamente per le attività terziarie progettato con gli edifici molto alti che, pur consentendo un altissimo grado di concentrazione, si distribuiscono secondo un notevole diradamento dei volumi. Qui, all’incrocio dei due assi principali, trova sede l’aeroporto. I grattacieli sono disposti tutt’intorno alla ‘stazione’ di arrivo di tutti i mezzi di trasporto, pubblici e privati. Coperta superiormente da una enorme ‘piattaforma d’atterraggio - precisa Le Corbusier - per gli aerotaxi’, la stazione ha quattro livelli di cui tre sotterranei destinati a metropolitana e ferrovia.

L’aeroporto è il cuore della città ideale, il luogo che un tempo era occupato dalla cattedrale ora diviene il luogo per eccellenza della tecnica. La tecnica che si presenta come nuovo valore attorno a cui organizzare l’intera città.

“La macchina ha sconvolto la società; essa ha rotto lo stato sociale esistente; essa ha immerso gli uomini nei guai; essa li costringe a riflettere; essa li porta lentamente a ritrovare il fondamento stesso della coscienza: per il momento magari soltanto un’etica, ma in seguito anche una nuova estetica... Nuove tecniche di costruzione: acciaio, cemento armato... L’architettura moderna è nata dal contatto delle tecniche scientifiche con una nuova estetica, un’estetica fondamentale, essenziale”.8 8-9

Prélude, themes préparatoires è l’action, 15 gennaio 1933

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“Io sono architetto e urbanista: io faccio dei piani. Il mio temperamento mi spinge verso le gioie della scoperta; il movimento, la crescita, la fioritura, il meccanismo stesso della vita sono la mia passione. Pertanto io faccio dei piani che, tenendo conto delle realtà attuali, esprimono il vero volto del giorno d’oggi. Ho fatto (nel 1922) i piani per una città contemporanea di 3 milioni di abitanti. Tutti i miei critici, senza eccezione, parlarono della mia Città futura!

Io protesto invano; io affermo di ignorare tutto dell’avvenire, ma di conoscere solo il presente. “Voi, mi si dice, vi occupate dell’avvenire” il che lascia intendere che “loro” (universalmente) si occupano del presente, del vivere attuale. Menzogna! Con tutta la modestia del ricercatore, io resto attaccato al presente, al contemporaneo, all’oggi: e sono “loro” che si nutrono di passato, sono loro che vivono ieri. Questo è il dramma dei tempi moderni”.9 “L’urbanistica è l’espressione, rappresentata nelle opere dell’ambiente costruito, della vita di una società. Di conseguenza, l’urbanistica è lo specchio di una civiltà” Le Corbusier 1946

Indubbiamente la città ipotizzata dal Movimento Moderno, enfatizzando e promuovendo temi come la macchina, il rigore compositivo e in particolare la predominanza della logica dei flussi nella ‘strutturazione’ della città, ha influenzato le teorie e gli approcci dell’urbanistica di tutto il XX secolo.

Come si è visto precedentemente, un insieme di fenomeni di natura economica e tecnologica, all’epoca di Le Corbusier non pronosticabili, per quanto rimane indubbia la lungimiranza del Maestro svizzero, hanno determinato specifiche mutazioni dei centri urbani.

E’ interessante notare come l’unico fattore forse davvero prevedibile e tangibile all’epoca, ovvero quello legato alla mobilità e alla dinamica dei flussi, abbia avuto uno sviluppo per certi versi in linea con quanto predetto, per altri in netto contrasto in termini di espansione e soprattutto di un esito forse inaspettato non tanto nei contenuti – si ipotizzava già una città replicabile all’infinito, senza limitazioni – quanto nella forma, incarnata dalla città diffusa, così lontana dal rigore e dall’organizzazione planimetrica prevista, che lascia oggi spazio alle teorie di Rem Koolhaas e la Generic City.

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Mobilità. (Possibilità e) diritto.

Il paesaggio di cui si è fino ad ora parlato, quello della città contemporanea, - di cui si è acquisita pienamente coscienza nel corso dell’ultimi quindici anni, come dimostrano i variegati filoni di ricerca sul tema che si sono consolidati nel corso degli anni Novanta - appare caotico e difficilmente leggibile.

Ciò che risulta evidente, invece, è che esso esprime nuovi modi di abitare il territorio, caratterizzati dalla prevalenza della dimensione privata dell’abitare su quella pubblica, dalla comparsa di una serie di nuovi spazi legati al consumo ed al tempo libero, dalla formazione di nuove polarità sia interne che esterne alle parti più dense della città, dalla affermazione di una mobilità individuale sempre più estesa, dalla compresenza e dall’intersezione di una molteplicità di soggetti e gruppi sociali.

Alla frammentazione del territorio, alla distribuzione della produzione, delle aree residenziali e quelle del tempo libero su un territorio sempre più vasto e meno definito, corrisponde un enorme incremento della mobilità, e nello specifico della mobilità individuale.

Nella città contemporanea, infatti, la mobilità si configura come “pratica di vita, come elemento di strutturazione dell’esperienza quotidiana, a sua volta strutturato da caratteri differenti in ogni contesto. Mobilità come elemento di costruzione del paesaggio, nel quale dominante e inquietante è la presenza dell’auto, del traffico, delle carrellate segnaletiche”.10 La centralità che la mobilità, ed in particolare la mobilità veicolare, ha assunto nel conformare gli attuali modi di abitare il territorio, ha condotto, spesso, a rintracciare nella possibilità di spostamento offerta dall’automobile, una delle cause principali degli attuali fenomeni di dispersione abitativa.

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Cristina Bianchetti, Abitare la città contemporanea, 2003.

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Le modalità con cui si sono espanse le città a partire dall’epoca della rivoluzione industriale sono state profondamente influenzate dagli sviluppi tecnologici e di sistemi di trasporto. E’ indubbio che La possibilità di coprire distanze sempre maggiori in tempi sempre più brevi, offerta progressivamente all’uomo dallo sviluppo della tecnologia, infatti, ha costituito un importante fattore di riorganizzazione territoriale.

L’avvento dei nuovi sistemi di trasporto quali la ferrovia, l’automobile e in seguito l’aeroplano, ha completamente variato nell’uomo la cognizione di distanza e vicinanza tra due luoghi e la concezione del tempo.

Le ricerche condotte nell’ambito della Prima Biennale Internazionale di Architettura di Rotterdam sul tema della mobilità, nel 2003, mostravano come “una proporzione crescente della popolazione mondiale viaggia quotidianamente con l’automobile, il treno, la metropolitana, coprendo distanze sempre maggiori per abitare, lavorare, divertirsi. Questa espansione, senza precedenti, della sfera di azione dell’individuo, ha condotto a una enorme crescita dei sistemi di mobilità: strade, autostrade e trasporti pubblici, non solo, occupano quantità di spazio crescente, ma creano e ricreano costantemente la città e il paesaggio. La mobilità ha radicalmente modificato la società e la vita quotidiana delle persone in tutto il mondo”.

La mobilità rappresenta dunque, oggigiorno, un connotato fondamentale della società contemporanea. Per gli individui del terzo millennio la possibilità di spostarsi liberamente sul territorio è divenuta un diritto generico, ovvero un diritto-mezzo indispensabile per accedere ad altri diritti come il lavoro, la casa, l’educazione, il tempo libero.

L’aumento della mobilità coinvolge ogni settore della nostra epoca.

Spostamenti, mobilità sociale, accessibilità a svariate esperienze culturali, flussi migratori, proliferazione di sistemi di valori e di credo religiosi, fenomeni tutti che si autoalimentano in continuo.

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“Nel giro di alcuni decenni di forte crescita generale della mobilità sono diminuiti, in senso relativo, gli spostamenti sistematici tra coppie costanti di origini e destinazioni e aumentati quelli non sistematici tra origini e destinazioni di continuo cangianti”.

Ci si muove sempre di più sul territorio secondo traiettorie diversificate e complesse. La facilità di spostamento e la frequenza con la quale questi avvengono segnano il progressivo dissolvimento dell’idea di prossimità e contribuiscono alla diffusione di un senso generalizzato di sradicamento dai luoghi. L’intensità della mobilità e l’indebolimento dell’idea di prossimità sembrano allora alimentare un modo di abitare il territorio sempre più nomade; mutano, infatti, tanto i modi di fruire lo spazio quanto le caratteristiche dei fruitori e gli spazi stessi.

Risulta inevitabile una sorta di richiesta, quasi una necessità, degli individui intesi come city-user di disporre ovunque degli stessi servizi, dunque, la possibilità di accesso a contenitori dalle medesime prestazioni in ogni luogo.

Questi fenomeni si manifestano nella “genericità” che caratterizza ampie parti del territorio contemporaneo. L’apparente somiglianza di vasti ‘ritagli’ di città - sequenze ininterrotte di villette, capannoni, centri commerciali, svincoli ecc - può essere interpretata come l’espressione (e la conseguenza) di una progressiva erosione del legame tra l’individuo e il luogo in cui abita.

La mobilità svolge, dunque, un ruolo centrale nello strutturare comportamenti e pratiche di uso del territorio contemporaneo e al tempo stesso ne determina la sua conformazione e gli specifici oggetti che lo compongono. Infatti, un tratto caratterizzante dei territori urbani è la rilevanza assunta da quelli che Stefano Boeri definisce “grandi manufatti onnivori”, facendo riferimento ai centri commerciali, ai cinema multisala, alle grandi strutture turistico ricettive, che “aspirano a risucchiare ogni attività di consumo, ogni forma di tempo libero”.

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L’essere, l’individuo, l’atomo.

Parallelamente alla questione della mobilità, deve essere affiancata una riflessione riguardo i mutamenti dell’individuo all’interno della metropoli, studiati dai sociologi fin dalla metà dell’Ottocento.

Georg Simmel, considerato uno dei padri della sociologia, ha formulato interessanti ragionamenti, sfociati nel breve saggio “Metropoli e personalità”, individuando alcuni caratteri essenziali della metropoli del proprio tempo e fornendo chiavi interpretative che tuttora, a distanza di oltre un secolo, risultano di estremo interesse ed attualità. Simmel guarda la metropoli, gli uomini che la popolano, le interazioni sociali che in essa si verificano.

La prima caratteristica dell’ambiente metropolitano consiste, secondo Simmel, nell’intellettualità sofisticata, nel distacco e nella razionalità che, sono tipiche dell’uomo che abita la città.

Nella metropoli gli abitanti ricevono un ricco insieme di stimoli che evolvono e cambiano rapidamente, un susseguirsi di impressioni ed immagini che affollano la loro mente.

Come conseguenza di tale sovrastimolazione sensoriale, Simmel deduce che necessariamente l’uomo metropolitano, per adattarsi all’ambiente, ha sviluppato un organo di difesa che lo protegge dagli eccessivi stimoli a cui è sottoposto: l’intelletto. Ha imparato a rispondere ai numerosi input che lo colpiscono reagendo, al fine di tutelarsi, sviluppando un’indifferenza per qualsiasi individualità e un’abitudine ad instaurare rapporti formali e distaccati. Il cittadino sottoposto a continui stimoli in qualche modo si abitua, diviene meno ricettivo.

Sono gli stessi luoghi che consentono i flussi a costringere l’uomo a rapportarsi con altri individui sconosciuti, a sfiorarli, entrare in contatto e, contemporaneamente, essere retrattile in caso di pericolo.

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“Trappole urbane� di Cristina Cimi.

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E’ facile osservare che gli abitanti di una grande città hanno una sorta di riservatezza, riserbo, indifferenza verso gli altri concittadini.

Nell’individuo metropolitano le sfere della famiglia e del vicinato, tipiche della comunità, perdono il loro peso, per essere sostituite dalla sfera dei mille contatti superficiali. La città moderna, la metropoli, porta ad una vita alienata.

La riflessione di Simmel è in realtà molto più ampia e si struttura su una contrapposizione tra la metropoli e la piccola comunità e considera altri elementi come per esempio il denaro. Egli sostiene che il carattere monetario dell’economia cittadina contribuisce a spiegare, accrescere e rafforzare l’intellettualità, la razionalità del cittadino metropolitano.

L’uomo abituato a rapportare tutto con il denaro acquisisce un atteggiamento pragmatico nel trattare gli uomini e le cose, un atteggiamento in cui a una giustizia formale si unisce una durezza spietata. Il denaro commuta qualsiasi qualità e ogni individualità in quantità di moneta.

Così le relazioni e le interazioni con gli altri divengono quasi sempre delle pure contrattazioni. Dunque l’uomo è spinto, condizionato, anche dall’ambiente economico in cui vive a rapportarsi con i propri simili utilizzando l’intelletto calcolatore anziché un ‘sistema’ di emozioni e affezione.

Riassumendo, l’individuo metropolitano vive una vita nervosa e nevrotica, perché un susseguirsi frenetico di immagini colpiscono il suo sistema, causando una diminuzione della capacità di reazione agli stimoli (uomo blasé). L’insieme di questi input che si manifestano sotto forma di simboli, linguaggi, cartelli, scritte, immagini, insegne luminose, suoni codificati, acronimi, implica la necessità di omologazione della comunicazione di un ambiente in tutte le sue ripetizioni nel territorio.

Stesso linguaggio negli stessi luoghi.

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Prodotti nel prodotto. I non-luoghi.

I cambiamenti provocati dalla globalizzazione e i grandi flussi di persone, merci e capitali, che circolano in tutto il pianeta mettono a dura prova sia i luoghi storici e identitari di un territorio, sia il nostro rapporto con l’alterità e la possibilità di creare dei legami con lo spazio e con gli altri.

L’urbanizzazione comporta non solo l’espansione dei grandi insediamenti urbani, ma anche l’ampliamento e la realizzazione di percorsi e infrastrutture, che mettono in comunicazione le città tra di loro, inserendole all’interno di una stessa rete.

La rete, e quindi l’appartenenza o meno ad essa, diventa il nuovo parametro in base al quale vengono definiti l’inclusione o l’esclusione di un soggetto, uno stato o un’entità, rispetto ad un ambiente o a un gruppo. La rete è l’immagine per eccellenza quando ci si riferisce al fenomeno della globalizzazione; è la similitudine che esprime e descrive al meglio lo stato di interconnessione tipico della globalità: luoghi e persone, indipendentemente dalle distanze che li separano, sono tutti collegati tra di loro; chi rimane fuori dal sistema di connessioni creato dalla globalizzazione è automaticamente escluso dalla rete.

Il mondo progressivamente tende a uniformarsi, ma allo stesso tempo le società e le città sono sempre più diversificate al loro interno. “il mondo è una città, un’immensa città in cui si trovano ovunque le stesse grandi imprese economiche e finanziarie, gli stessi prodotti”. Se da un lato il mondo diventa più omogeneo e assume la forma di un’unica grande città, dall’altro “la città, la grande città, rappresenta un mondo”. Infatti, le metropoli accolgono al loro interno tutte le differenze e le discrepanze che caratterizzano il mondo. “La diversità della Terra, la diversità fra ricchi e poveri, la diversità etnica, culturale, d’origine, di condizione: nella grande città tutto si mescola. In essa ci scontriamo con la diversità insita nel mondo e

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anche con tutti i problemi che cerchiamo di eliminare dal mondo-città”.11 Marc Augè, all’inizio degli anni Novanta, ha utilizzato il termine ‘non-luoghi’ per indicare il variegato insieme di spazi prodotti dalla globalizzazione (la rete), che caratterizza il territorio della città contemporanea più di qualunque altra categoria spaziale: “i non-luoghi rappresentano l’epoca; e danno una misura quantificabile ricavata addizionando [...] le vie aree, ferroviarie, autostradali e gli abitacoli mobili detti ‘mezzi di trasporto’ (aerei, treni, auto), gli aeroporti, le stazioni ferroviarie e aerospaziali, le grandi catene alberghiere, le strutture per il tempo libero, i grandi spazi commerciali ed , infine, la complessa matassa di reti cablate o senza fili che mobilitano lo spazio extraterrestre ai fini di una comunicazione così peculiare che spesso mette l’individuo in contatto solo con un’altra immagine di se stesso”.12 Dal testo “Non-luoghi” è possibile estrarre il significato di ‘non-lieu’ che Augè costruisce nel suo discorso. La scelta di scrivere ‘non-luogo’ al posto di ‘nonluogo’ fa si che il termine assuma un significato positivo, concreto, piuttosto che l’accezione di utopia. Non si vuol parlare di qualcosa che è il contrario del luogo, piuttosto di qualcosa che porta dentro di sé la negazione delle specifiche qualità che caratterizzano la natura dello spazio pubblico, del luogo per eccellenza.

Marcel Mauss, al termine di un complesso studio di carattere antropologico, attribuisce al luogo tre fondamentali qualità: “un luogo è una costruzione simbolica dello spazio determinata dal fatto di essere identitaria, relazionale e storica”.

L’identità di un luogo sta nel fatto che è qualcosa di unico. Identitario è qualsiasi luogo che ha il potere di trasferire identità (lingua, costumi, religioni e informazioni) agli abitanti. Il luogo antropologico è rilevante non solo per l’individuo e il percorso che contribuisce alla formazione dell’identità individuale, ma è significativo anche per il gruppo e la definizione dell’identità collettiva.

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Marc Augé, Tra i confini: città, luoghi, integrazioni.

Marc Augé, Non-luoghi, introduzione a una antropologia della surmodernità.

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“L’accumulazione di Bigness - le megastrutture - genera un nuovo tipo di città. La strada è diventata un residuo, un congegno organizzativo, un mero segmento del piano metropolitano continuo. La bigness è in grado di esistere ovunque in quel piano. La Bigness è incapace di stabilire delle relazioni con la città classica.

La Bigness non ha più bisogno della città: è in competizione con essa; rappresenta la città, si appropria della città, è la città. Essa gravita opportunisticamente verso le aree più promettenti dal punto di vista infrastrutturale”.

Rem Koolhaas, Junkspace

Il luogo è definito relazionale nei termini in cui qui è possibile instaurare delle relazioni sociali, forme di scambio, di conflitto, di amicizia, di contatto, di interazione. Il luogo antropologico accoglie nel suo spazio i vari percorsi individuali e fa in modo che essi si incrocino, si mescolino e i singoli individui entrino in contatto tra di loro, producendo legami identitari e comunitari.

‘Storico’ nella capacità di stratificazione di tradizioni, eventi legati allo specifico luogo, sedimentazione della memoria collettiva che si trasmettono nel tempo, ‘tramandando’ identità.

La definizione più incisiva di non-luogo, estrapolata dal testo di Marc Augè, ripresa dagli studi di Mauss, è: “Se un luogo può definirsi identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi né identitario né relazionale né storico, definirà un non-luogo. La surmodernità è produttrice di non-luoghi antropologici e non integra in sé i luoghi antichi.”

Gli ‘oggetti’ in questione sono spazi anonimi, slegati da ogni qualità storico culturale dei luoghi, spazi globali - quindi non locali - che hanno perso ogni legame con il territorio in cui sono inseriti.

Letteralmente de-contestualizzati e de-territorializzati.

Sono spazi spesso monofunzionali che sono interamente piegati alla loro funzionalità e possono essere definiti come supporti neutrali dei cosiddetti ‘sistemi esperti’. Nessuno di questi spazi, infatti, esiste da solo, ma sono tutti interdipendenti uno dall’altro formando così dei sistemi complessi, eludendo lo spazio e qualunque interazione con esso, che consentono di collegare un punto del pianeta ad un altro.

Fisicamente i non-loghi tendono ad occupare gli spazi pubblici, di questi ne possono conservare, talvolta, le apparenze, ma ne perdono completamente il contenuto. Sono luoghi di transito dove i flussi vengono assecondati e non è prevista la concezione dello stare, di abitare il luogo, di avere esperienza di esso e l’individuo vive sospeso, in attesa di raggiungere la meta. Dopo gli studi di Augè si è notato come i ‘tradizionali’ non-luoghi si siano caricati di una serie di funzioni che ne hanno modificato la natura;

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sono diventati, infatti, spazi multifunzionali nei quali all’attività del transito si è accostata quella del consumo (in tutte le sue forme: beni materiali, cibo..).

Si sono trasformati in iper-luoghi. Questa modificazione ha portato il nonluogo ad assumere dimensioni enormi, eccessive, fuori scala.

Altra caratteristica dei non-luoghi è di essere ripetibili, uguali a se stessi, su qualunque territorio essendo per definizione privi di identità. Nella replicazione infinita, inevitabilmente, si riproducono anche le forme, i linguaggi e i codici comportamentali che divengono universalmente validi.

“Lo straniero smarrito in un Paese che non conosce si ritrova soltanto nell’anonimato delle autostrade, delle stazioni di servizio, dei grandi magazzini o delle catene alberghiere”.13 Questo è altresì vero dal momento che gli stessi luoghi offrono le medesime prestazioni senza distinzione in qualunque località geografica realizzando un clima e un ambiente generale neutro, medio, artificiale, totalmente controllato e privo di reali apporti e relazioni dall’esterno di luoghi contigui o contestualmente collegati, se non come condotti di flussi (siano essi umani o materiali).

I non-luoghi prevedono una prestazione per la quale gli utenti - non più cittadini o individui - interagiscono con lo spazio secondo una relazione contrattuale. All’interno dei non-luoghi si svolge una contrattualità solitaria che sancisce il diritto d’uso, le modalità d’uso, le condizioni d’uso e le tempistiche. La contrattualità identifica gli utenti del non-luogo e conferisce l’abilità d’uso.

“Solo ma simile agli altri, l’utente del non-luogo si trova con esso (o con le potenze che lo governano) in una relazione contrattuale. L’esistenza del contratto gli viene ricordata al momento opportuno (le modalità d’uso del non-luogo ne sono un elemento): il biglietto che ha comprato, il tagliando che dovrà presentare al pedaggio, o anche il carrello che spinge attraversando il supermercato ne sono il segno più o meno forte. Il contratto ha sempre

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rapporto con l’identità individuale di colui che lo sottoscrive.

Il passeggero conquista dunque il proprio anonimato solo dopo aver fornito la prova della sua identità, solo dopo aver, in qualche modo, controfirmato il contratto.”14 A conferma di ciò, provocatoriamente Rem Koolhaas nel suo scritto “Junkspace” sostiene che l’elemento fondamentale che accomuna i grandi contenitori dello shopping e del transito è l’aria condizionata. Questa, poiché costa, non consente una fruizione gratuita delle nuove cattedrali che inevitabilmente diventano soggette a condizioni e “tutto lo spazio soggetto a condizioni diventa Junkspace”.

Autostrade, svincoli, resort, parcheggi, hotel, club, supermercati, mall, stazioni ferroviarie, metropolitane, le reti di comunicazione sono considerati tutti non-luoghi, ma la struttura simbolo, che meglio incarna tutte le caratteristiche sopra accennate, è inequivocabilmente l’aeroporto.

Per introdurre l’argomento viene riportata integralmente la sezione dedicata a questa megastruttura nel testo “Junkspace”.

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Marc Augé, Non-luoghi, introduzione a una antropologia della surmodernità.

Aeroporto. Già fenomeni di neutralità estrema, oggi gli aeroporti sono tra gli elementi più singolari e caratteristici della Città Generica, il suo più forte veicolo di diversificazione.

Devono esserlo, essendo tutto ciò che l’uomo comune tende a percepire di quella certa città. Come in una specie di potentissima presentazione di un profumo, i pannelli fotografici sulle pareti, la vegetazione, gli usi locali hanno un primo, concentrato squarcio di identità locale (talvolta è anche l’ultimo).

Remoto, comodo, esotico, polare, regionale, orientale, rustico, nuovo, perfino “incontaminato”: ecco i registri emotivi chiamati in causa. Con questa carica concettuale gli aeroporti diventano segni emblematici che si imprimono nell’inconscio collettivo planetario in sfrenate manipolazioni delle loro attrattive non aeronautiche: punti di vendita duty-free, qualità spaziali spettacolari, frequenza e affidabilità dei collegamenti con altri aeroporti.

In termini iconografico-funzionali l’aeroporto è un concentrato di iperlocale e iperplanetario: iperplanetario nel senso che si possono trovare beni che non sono disponibili nemmeno in città, iperlocale nel senso che qui si trovano cose che non si possono avere da nessun’altra parte.

La tendenza della Gestalt aeroportuale è in direzione di una sempre maggiore autonomia: talvolta in pratica gli aeroporti non hanno nemmeno un rapporto con una specifica Città

Generica.

Sempre più grandi, dotati di un numero crescente di servizi non riferiti all’attività del viaggio, si avvia no a sostituire la città. La condizione dell’essere di passaggio sta diventando universale. Complessivamente gli aeroporti contengono una popolazione di milioni di persone, più il maggior numero in assoluto di gente che ci lavora. Nella completezza dei loro servizi sono come i quartieri della Città Generica, talvolta perfino la sua ragion d’essere (il suo centro?), con in più l’attrattiva di essere sistemi ermetici da cui non c’è via d’uscita, se non verso un altro aeroporto.

La datazione della Città Generica si può ricostruire tramite un’attenta lettura della geometria del suo aeroporto. La pianta esagonale (in casi unici pentagonale o ettagonale): anni ’60. Pianta e alzato ortogonali: anni ’70. Conglomerato urbano a collage: anni ’80. Sezione curva unica, estrusa all’infinito in un piano lineare: probabilmente anni ’90 (struttura che si espande in ramificazioni da quercia: Germania).

Gli aeroporti sono di due formati: troppo grandi o troppo piccoli. Tuttavia il formato non incide sulle prestazioni. Ciò suggerisce che l’aspetto più interessante di qualunque infrastruttura è la sua essenziale elasticità. Calcolati con precisione dal punto di vista quantitativo vengono invasi da un numero infinito di persone che sopravvivono nella tensione verso la radicale indeterminatezza.

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JFK, New York

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L’aeroporto è un tipo singolare di building della seconda metà XX secolo.

Nessun altro edificio può essergli paragonato in termini di scala, funzione e forma; a livello territoriale, con i sui terminal, sovrasta indiscusso qualunque altra struttura, anche le ‘antiche’ stazioni ferroviarie delle metropoli europee.

Aeroporti come quello di Heathrow a Londra o il Charles de Gaulle a Parigi smistano ogni anno un numero di viaggiatori pari a quello degli abitanti delle rispettive nazioni. All’impressionante numero di persone (e merci) che transitano ne corrispondono altre impiegate nella gestione direttamente nella struttura e esternamente ad essa: Heathrow dà impiego a più di 300.000 addetti. La presenza di un aeroporto in un’area ne influenza in maniera significativa lo sviluppo economico e, oggi, l’aeroporto può essere considerato più di un edificio, una vera e propria entità autonoma paragonabile a una città. Esso dispone di hotel, parcheggi, centri per meeting, aree benessere, ristoranti, farmacie diventando un centro culturalmente, economicamente e socialmente di scambio tra le persone, le aziende e le nazioni. Martin Pawley, critico d’architettura, affermò “Heathrow non è meglio di Londra, è tutto ciò che non è Londra” intendendo come l’aeroporto disponga di tutte le facilities immaginabili, sia un luogo di opportunità economiche e trasmetta un senso di sicurezza.

Quest’ultimo punto è di particolare importanza. L’essenza del rapporto di contrattualità che si instaura tra i viaggiatori e l’aeroporto è proprio la sicurezza.

Il contratto si stipula tra il singolo soggetto e il non-luogo nelle forme che già sono state citate. L’utente della struttura aeroportuale per accedervi, dunque, ha dovuto identificarsi all’ingresso e disporre dei particolari requisiti richiesti e, contemporaneamente, è conscio del fatto che tutte le persone che transitano con lui in quello spazio hanno dovuto fare altrettanto, risultando quindi idonee alla fruizione del servizio e, conseguentemente, uguali le une alle altre. Si parla quindi di spersonalizzazione.

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Esempio di diagramma di flusso dei passeggeri e dei bagagli. Terminal Internazionale.

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“In un senso aprono ogni individuo alla presenza degli altri, corrispondono a una circolazione più facile degli esseri, delle cose e delle immagini. Ma in un altro senso fanno ripiegare l’individuo su se stesso, rendendolo testimone piuttosto che attore della vita contemporanea. Questa contraddizione si esprime in modo esemplare negli spazi che ho proposto di chiamare non-luoghi”.

Marc Augè

Gli esseri che si muovono all’interno dell’aeroporto sono tutti uguali e riacquistano (assumono) identità nel momento in cui un codice, un tagliando o un documento non lo dimostri.

Le strutture che ospitano questi servizi e funzioni sono concepite per un utente generico, spersonalizzato, non per un individuo specifico riconoscibile come diverso dagli altri. Gli scambi sono divenuti muti, che ci si ritrovi in un centro commerciale, all’ingresso di una autostrada, ad un distributore di benzina, di fronte ad un bancomat in attesa di contante, e che si abbia di fatto la macchina obliteratrice un addetto umano.

La sopravvivenza del consumer all’interno dei non-luoghi è strettamente legata alla conoscenza del contratto stipulato e alla capacità di interpretazione dei linguaggi e dei simboli: “la terminologia è essenziale poiché tesse la trama delle abitudini, educa lo sguardo, informa il passeggero” (Augè). Affinché la macchina aeroportuale possa funzionare linguaggi, simboli, servizi, percorsi, rapporti, modalità d’uso, utenti devono essere standardizzati e, essendo ogni aeroporto un hub (nodi) di una rete complessa e strutturata, il processo di omologazione è esteso a tutte le strutture con simile funzione. Questo significa che le procedure devono essere le medesime in ogni parte del globo e essere pianificate e attuate secondo schemi predefiniti.

Sono strutture dove nulla è destinato al caso: al loro interno è calcolato il numero dei decibel, dei lux, la lunghezza dei percorsi e il tempo di percorrenza, la frequenza dei luoghi di sosta, il tipo e la quantità di informazioni. Sono sicuramente gli unici spazi architettonici dove si è concretizzato il sogno della macchina per abitare cara a Le Corbusier e il Movimento Moderno, cioè della ergonomia, della efficienza, del comfort tecnologico.

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Conclusioni.

Si è cercato di inquadrare un fenomeno, quello dei non-luoghi, che ha caratterizzato lo sviluppo della città nell’ultimo secolo, influenzandone lo sviluppo e la conformazione.

Trasformazioni economiche e innovazioni tecnologiche hanno contribuito alla creazione di una rete globale che include o esclude lo spazio e l’individuo. Allo stesso modo, anche la società è stata coinvolta: sono cambiati i modi di vivere lo spazio e i rapporti relazionali tra gli individui che stanno diventando sempre più utenti, consumer-on-transit, individui neutri che fruiscono, e non più vivono, degli spazi. Fattore fondamentale, che ha alimentato il processo, come si è visto, è stato la sempre maggiore possibilità di movimento, in particolare la mobilità individuale.

Nel tempo i non-luoghi si sono trasformati, evolvendosi, in iper-luoghi. Spazi enormi che al loro interno offrono una grande varietà di servizi, perdendo il carattere monofunzionale che inizialmente li caratterizzava. Sono luoghi pubblici, ma gestiti o di proprietà di società private, sono luoghi del commercio e dell’interscambio della mobilità, sono di recente realizzazione, costruiti con componenti e semi-componenti industrializzati assemblati in opera.

Marc Augè, rivisitando i suoi studi sui non-luoghi, riconosce dei limiti. “Da una parte non è da escludere che una qualche forma sociale possa emergere ovunque. Non esistono luoghi o nonluoghi in senso assoluto. Il luogo degli uni può essere il non-luogo degli altri e viceversa”.

Al loro interno, soprattutto grazie alle nuove tecnologie, esistono alcune forme di relazione e comunicazione. E’ forse quindi necessario interrogarsi sulla natura della relazione che si stabilisce tramite determinate tecnologie della comunicazione per chiedersi anche come sia possibile che in questo mondo definito ’relazionale’ gli individui si sentano così soli.

Lo spostarsi attraverso i territori della dispersione caratterizza - come si è visto l’esperienza quotidiana di un numero crescente di persone e come osserva Marco Biraghi: “In itinere si svolge la vita di noi ‘passeggeri’. Paradossali ‘abitanti’ di quell’incessante divenire, di quella transitorietà a cui ormai si riduce lo spazio nella comune esperienza, sempre più abbiamo ‘luogo’ nel viaggio”.

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THE TERMINAL

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Questo processo di spersonalizzazione è in corso da molto tempo, in un testo del 1946 “Il mondo di ieri”, Stefan Zweig scriveva: “una volta l’uomo aveva un’anima e un corpo, oggi ha bisogno anche di un passaporto, altrimenti non viene trattato da essere umano”.

I non luoghi esaltano questo processo di annullamento della persona.

Esempio limite e paradossale di questa spersonalizzazione è quello raccontato in The Terminal, il film di Spielberg ispirato alla vicenda reale di Merhan Nasseri, un rifugiato iraniano in transito a Parigi per l’Inghilterra, che rimase bloccato all’aeroporto Charles de Gaulle per vent’anni perché risultava non identificabile. Privo di passaporto che gli era stato rubato, Nasseri non fu in grado di provare la sua identità ai funzionari francesi e venne così confinato nel limbo del terminal, nella Zone d’attente, area di sosta per viaggiatori senza documenti. La perdita di identità si trasformò in patologia e quando, dopo 13 anni, gli fu riconosciuto lo status di rifugiato, non accettò di recuperare né la libertà di movimento, né il suo nome, né la sua lingua d’origine. Da tempo si faceva chiamare Sir Alfred, viveva accanto al Relay, una edicola dove era in vendita la sua autobiografia The Terminal Man - che su richiesta si prestava ad autografare. Merhan Nasseri, entrato nell’aeroporto Charles de Gaulle nel 1986, ne uscì nel 2006 per entrare in una ricovero per indigenti.

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IL CASTELLO 365 giorni di ripresa per raccontare l’aeroporto di Malpensa a Milano.

Un aeroporto internazionale ritratto durante quattro stagioni, quattro momenti di un anno della vita dell’aeroporto, che scandiscono la narrazione e l’organizzazione tematica del film (e dell’aeroporto): arrivi, sicurezza, attese, partenze.

L’aeroporto come frontiera cruciale della contemporaneità, diaframma vitreo e impersonale che accoglie e respinge, si riempie e si svuota, attraversato da flussi anonimi ed effimeri e amministrato dalle procedure cicliche che li intercettano, confiscano e analizzano.

“Un laboratorio permanente sulla sicurezza”, dove la biopolitica diventa ordinaria e capillare amministrazione, che sospende libertà e identità, scandaglia i corpi e le merci che l’imperativo della sorveglianza mette a completa disposizione dei controllori.

Come recita il sottotitolo, è un “ritratto di frontiera”, nulla sfugge alla telecamera che osserva in disparte come sono negati o concessi i visti, o come sono perquisiti e interrogati i migranti; grazie al suo sguardo neutro si scoprono le “zone di detenzione temporanea” per le persone in via di rimpatrio.

“L’aeroporto è un laboratorio del controllo sociale, solo lì sono ammissibili alcune procedure” dice Massimo D’Anolfi. Tecnologie e procedure di sicurezza sono possibili solamente nella misura in cui annullano la distinzione tra persone e animali, tra corpi e pacchi: “non c’è differenza se il pacco è di carta o di carne umana”, spiega Martina Parenti, resta un involucro da ispezionare, con la stessa tecnica procedurale con cui viene esaminato un astice o un pesce surgelato. Come i veterinari ispezionano con i guanti di lattice le chele delle aragoste, così gli agenti di Polizia con le mani inguantate setacciano tasche, telefoni cellulari, valige, stomaci, alla ricerca di anomalie. “La procedura, in nome dell’efficienza securitaria vince su tutti, anche sull’uomo”.

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FLY TO http://www.youtube.com/watch?v=w5f1d2oGnyo

YOGA E MASSAGGI

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Altro che “non luoghi”. Se oggi Tom Hanks, protagonista del film The Terminal, rimanesse intrappolato all’interno del Jfk di New York, probabilmente se la passerebbe meglio.Troverebbe un’isola felice con tanto di oasi benessere dove rilassarsi e tirare un sospiro di sollievo. Perché l’aeroporto, lungi dall’essere un mero luogo di passaggio, è sempre più uno spazio da vivere. Oggi i maggiori scali internazionali fanno a gara per coccolare i passeggeri, con sale yoga, saune e veri e propri beauty center da vivere tra un volo e l’altro. Un lusso riservato solo ai passeggeri di prima e business class? Non proprio: le aree benessere sono un po’ dappertutto, alcune free, mentre quelle all’interno delle vip lounge oggi sono accessibili a tutti. Basta pagare un ticket d’ingresso che varia tra 25 e 100 euro, oppure iscriversi alla Priority pass, il servizio che garantisce ai soci l’accesso in oltre 600 lounge in 300 città del mondo con tutte le comodità incluse, dalla stireria ai trattamenti benessere. A loro, ai “Transumer” (consumer-on-transit), rappresentanti dell’ultima frontiera dell’edonismo mordi e fuggi, sono dedicate piccole isole felici. Proprio al terminal 6 del Jfk di New York si trova l’Oasis Day Spa, che propone massaggi al corpo e al viso, manicure e ceretta. All’aeroporto Singapore Changi, miglior aeroporto del mondo per ben quattro volte nella classifica stilata da Skytrax, al Terminal 1 ci si può rilassare tra un massaggio con pietre bollenti o una sessione di una ventina di minuti alla Fish Spa. Zitti e muti con i piedi a mollo.Tanto ci pensano loro, i pesciolini, a fare una pedicure perfetta. Non mordono, sono di specie Garra rufa o Cyprinion macrostomus, pesci di origine anatolica con labbra forti e senza denti che eliminano dolcemente le cellule morte e le impurità. Se vi capita di passare all’Amsterdam Schiphol, dopo il controllo passaporti non perdetevi i massaggi Shiatsu e il lettino Back to Life: massaggia con l’acqua senza doversi spogliare. Qui si può anche decidere di ricaricare i propri gadget elettronici pedalando su una bicicletta che produce energia. Ossigenoterapia, manicure e ceretta alla XpresSpa nelle lounge 2 e 3. A Heathrow ossigenoterapia, aromaterapia, massaggi e manicure al Terminal 5° e 5B alla Be Relax Spa. Angoli di puro relax anche nelle Elemis spa delle lounge British Airways, con trattamenti per uomo e donna, scalp massage e jet set therapy. Mentre a Parigi, nella raffinata Première lounge Air France al Charles de Gaulle relax con trattamenti di bellezza e benessere di Biologique recherche. A Hong Kong, Cathay Pacific realizza super lounge con originali Cabanas: sale da bagno private di 35 mq con vasche e docce. Ad Abu Dhabi Etihad firma i templi del benessere orientale Six Senses Spas con menu di ispirazione asiatica: bilanciamenti dei chakra, yoga, stretching e foot massage. A Milano Malpensa l’Area Relax è uno spazio con chaise-longue con vista su Alpi e Monterosa. Docce, saune e lettini tra i servizi a disposizione di chi viaggia in first nell’elegante (e nuovissima) Sala Montale: in tutto 240 posti su 1280 mq, quasi il triplo delle più grandi esistenti.

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FOTOGRAFIE Ritengo utile inserire una rassegna di foto scattate personalmente durante diversi viaggi.

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SPAZI

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PERSONE

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MODALITA’ DI INTERAZIONE

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PERCORSI

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Ma in un altro senso fanno ripiegare l’individuo su se stesso, rendendolo testimone piuttosto che attore della vita contemporanea.

Marc Augè

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Where wiil be your next travel?